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Stefano Pierguidi LUDOVICO MAZZANTI E IL CICLO DI PALAZZO DE CAROLIS Il notevole ciclo di tele inserite nei soffitti di palazzo de Carolis in via del Cor- so a Roma, oggi proprietà della Banca di Roma (confluita nel gruppo Unicredit), è stato più volte oggetto dell’attenzione della critica 1 . Considerati in genere come un complesso assolutamente unitario, i dipinti al piano nobile del palazzo devo- no in realtà essere più opportunamente divisi in due serie complementari ma pur sempre distinte. Da una parte, cioè, sono le tele collocate negli ambienti di mag- giore prestigio, gli ultimi in ordine di tempo a essere costruiti, dall’altra quelle po- ste negli ambienti del nucleo più antico del palazzo, che insieme ad un perduto sa- lone affrescato, oggi diviso da tramezzi, dovevano costituire originariamente un appartamento a sé. La cronologia dell’intervento di Ludovico Mazzanti in questi ambienti non è stata ancora stabilita concordemente dalla critica: questo contri- buto si propone, a partire prima di tutto dall’analisi di una stima in gran parte ine- dita di Luigi Vanvitelli (1751), di chiarire le circostanze che portarono un artista non di primo piano come Mazzanti a lavorare a quel ciclo così prestigioso, di in- dicare tempi e modi della sua partecipazione al cantiere, e di stabilire altresì le mo- tivazioni che suggerirono al committente, Livio de Carolis, di passare da una de- corazione ad affresco ad una con tele riportate. Il canone dei pittori all’opera per il marchese, inoltre, messo da sempre in relazione con il ciclo antologico dei Pro- feti nella navata di San Giovanni in Laterano, ad una più attenta lettura presenta 1 A. BOCCA, Il palazzo del Banco di Roma: storia, cronaca, aneddoti (Roma 1950), Roma 1961, pp. 48-55; A. GIUGGIOLI, Il palazzo de Carolis in Roma, Roma 1980, pp. 360-373; A. BACCHI, Le tele da soffitto di Palazzo De Carolis, in Iriarte. antico e moderno nelle collezioni del Gruppo IRI, (catalogo della mostra) a cura di I. Faldi, Milano 1989, pp. 91-110; L. BARROERO, S. SUSINNO, Ro- ma arcadica capitale delle arti del disegno, in “Studi di storia dell’arte”, X, 1999, pp. 109-110; A. ZANELLA, I palazzi della Banca di Roma – Roma, De Carolis, Roma 1994, pp. 43-66; S. PIERGUI- DI, Le drame de la lumière et de l’ombre: la tradizione iconografica della sequenza Notte-Aurora- Giorno, in “Studi Romani”, L, 2002, pp. 298-300; R. MAFFEIS, Benedetto Luti: l’ultimo maestro, Firenze 2012, pp. 190-196.

Ludovico Mazzanti e il ciclo di palazzo de Carolis

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Stefano Pierguidi

LUDOVICO MAZZANTI E IL CICLO DI PALAZZO DE CAROLIS

Il notevole ciclo di tele inserite nei soffitti di palazzo de Carolis in via del Cor-so a Roma, oggi proprietà della Banca di Roma (confluita nel gruppo Unicredit),è stato più volte oggetto dell’attenzione della critica1. Considerati in genere comeun complesso assolutamente unitario, i dipinti al piano nobile del palazzo devo-no in realtà essere più opportunamente divisi in due serie complementari ma pursempre distinte. Da una parte, cioè, sono le tele collocate negli ambienti di mag-giore prestigio, gli ultimi in ordine di tempo a essere costruiti, dall’altra quelle po-ste negli ambienti del nucleo più antico del palazzo, che insieme ad un perduto sa-lone affrescato, oggi diviso da tramezzi, dovevano costituire originariamente unappartamento a sé. La cronologia dell’intervento di Ludovico Mazzanti in questiambienti non è stata ancora stabilita concordemente dalla critica: questo contri-buto si propone, a partire prima di tutto dall’analisi di una stima in gran parte ine-dita di Luigi Vanvitelli (1751), di chiarire le circostanze che portarono un artistanon di primo piano come Mazzanti a lavorare a quel ciclo così prestigioso, di in-dicare tempi e modi della sua partecipazione al cantiere, e di stabilire altresì le mo-tivazioni che suggerirono al committente, Livio de Carolis, di passare da una de-corazione ad affresco ad una con tele riportate. Il canone dei pittori all’opera peril marchese, inoltre, messo da sempre in relazione con il ciclo antologico dei Pro-feti nella navata di San Giovanni in Laterano, ad una più attenta lettura presenta

1 A. BOCCA, Il palazzo del Banco di Roma: storia, cronaca, aneddoti (Roma 1950), Roma 1961,pp. 48-55; A. GIUGGIOLI, Il palazzo de Carolis in Roma, Roma 1980, pp. 360-373; A. BACCHI, Letele da soffitto di Palazzo De Carolis, in Iriarte. antico e moderno nelle collezioni del Gruppo IRI,(catalogo della mostra) a cura di I. Faldi, Milano 1989, pp. 91-110; L. BARROERO, S. SUSINNO, Ro-ma arcadica capitale delle arti del disegno, in “Studi di storia dell’arte”, X, 1999, pp. 109-110; A.ZANELLA, I palazzi della Banca di Roma – Roma, De Carolis, Roma 1994, pp. 43-66; S. PIERGUI-DI, Le drame de la lumière et de l’ombre: la tradizione iconografica della sequenza Notte-Aurora-Giorno, in “Studi Romani”, L, 2002, pp. 298-300; R. MAFFEIS, Benedetto Luti: l’ultimo maestro,Firenze 2012, pp. 190-196.

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invece tangenze molto più strette con le scelte, in parte diverse, operate in queglistessi anni dal cardinale Pietro Ottoboni.

Ad Andrea Bacchi si deve il collegamento tra un passo della Nota de quadrifatta da me Ludovico Mazzanti, datata 1770, e i dipinti raffiguranti la Primave-ra e Zefiro scaccia l’Inverno (figg. 1-2) ancora oggi in palazzo de Carolis, già at-tribuiti a Giovanni Odazzi da Federico Zeri: «Nel palazzo dei PP. Gesuiti abbi-tato dal Principe di Piombino le dui volte doppo la sala dipinta da me»2. Il pa-lazzo de Carolis nel 1751 era stato infatti acquistato dai Gesuiti, e dal 1761 al1767 venne affittato a Gaetano Boncompagni Ludovisi3. Più recentemente è sta-to sottolineato come da quel passo della Nota del 1770 si evinca che Mazzantinon dipinse solo i due dipinti già citati, ma anche la volta della sala che si trova-va immediatamente prima, riconoscibile in un ambiente che le trasformazionisuccessive del palazzo hanno diviso con dei tramezzi in tre piccole stanze (Fig.3, n. 11)4. Nel 2009, infine, Maria Barbara Guerrieri Borsoi ha fatto notare comela suddetta Nota sia strutturata secondo un ordine cronologico piuttosto rigo-roso: la datazione dell’intervento nel palazzo già de Carolis, citato da Mazzantimolto avanti nel testo, diverse pagine dopo i suoi lavori romani degli anni Ven-ti, e di seguito ai suoi soggiorni a Napoli e a Città di Castello, dovrebbe esserespostata in avanti fino almeno agli anni Cinquanta5.

In realtà, rileggendo con attenzione quanto annotato dal pittore (“Nel pa-lazzo dei PP. Gesuiti abbitato dal Principe di Piombino le dui volte doppo la sa-la dipinta da me”) si comprende chiaramente come Mazzanti volesse riferirsi, inquel passo, solo alle due volte, databili al tempo in cui nel palazzo viveva Gaeta-no Boncompagni Ludovisi (la menzione di questi, da parte dell’artista, sarebbedel tutto incongrua e sorprendente se i dipinti fossero stati eseguiti prima del-l’ingresso del principe nel palazzo), mentre la “sala dipinta da me” doveva risa-lire a un’epoca precedente, imprecisata. La conferma a questa interpretazione

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2 La Nota del 1770 è stata pubblicata in P. SANTUCCI, Ludovico Mazzanti 1686 – 1775, L’Aqui-la 1981, p. 173; BACCHI, cit. alla nota 1, pp. 108-110, catt. III.9-10. Per l’opinione di Zeri cfr. BOC-CA, op. cit. alla nota 1, p. 55.

3 BOCCA, op. cit. alla nota 1, pp. 99-102.4 ZANELLA, op. cit. alla nota 1, p. 66; G. LA MASTRA, Palazzo De Carolis: una dimora prela-

tizia del Settecento, in “Roma moderna e contemporanea”, XIII, 2005, p. 333. La pianta riprodot-ta, che ricostruisce l’assetto del piano nobile al tempo della stima di Luigi Vanvitelli nel 1751 (sul-la quale cfr. infra) è stata pubblicata in GIUGGIOLI, op. cit. alla nota 1, p. 359. Per una pianta cheriporti lo stato attuale cfr. ZANELLA, op. cit. alla nota 1, p. 41.

5 M.B. GUERRIERI BORSOI, Quadri sacri di Ludovico Mazzanti dalla Villa Rufinella di Fra-scati e dalla chiesa romana di San Marco, in E. Debenedetti (a cura di), Collezionisti, disegnatori eteorici dal Barocco al Neoclassico, I (Studi sul Settecento romano, 25), Roma 2009, p. 129. Sullapossibile datazione agli anni Cinquanta delle tele di palazzo de Carolis cfr. anche quanto aveva giàscritto F. PETRUCCI, Mazzanti e Odazzi: nuove proposte, in “Studi romani”, LIV, 2006, p. 109.

viene dalla stima che Luigi Vanvitelli redasse il 22 settembre 1751 per conto deiGesuiti al momento della vendita del palazzo6. Il grande architetto perlustròl’edificio, letteralmente, da cima a fondo, partendo dalle soffitte e finendo nellecantine; per il primo ambiente del piano nobile egli annotò: «Sala che ha l’in-gresso dalla scala grande [...] Volte per di sopra con quadro dipinto a fresco concornice rabbescata di stucco»7.

Come nel caso di altre opere citate in seguito, ad esempio la Minerva disto-glie la Giovinezza da Venere e la conduce da Ercole di Francesco Trevisani, Van-vitelli non indicava il soggetto dell’opera, ma ne specificava la tecnica, in quel ca-so l’affresco. Per i tre ambienti successivi (Fig. 3, nn. 10, 9, 7), invece, piuttostosorprendentemente, egli scriveva:

«Stanza di Cantone, che segue appresso la descritta […] Volte per di sopracon cornice del quadro in mezzo d.a scornciata, e rabbescata di stucco dora-to con cornice sotto l’imposta attorno la d.a stanza parimente di stucco do-rato con foglie intagliate il tutto assai bellissimamente [...] Stanza che segue accanto d.a infacciata e corrisponde alla Scaletta segreta […]Volte per di sopra con cornice del quadro di stucco dorato con rabbeschi, efoglie intagliate con cornice sotto l’imposta che gira attorno detta stanza pa-rimente di stucco simile il tutto assai bellissimamente fatto, e ricco d’oro […] Stanza che segue in facciata accanto la Cappella […] Volte per di sopra concornice del quadro di stucco dorato con rabbeschi, e foglie intagliate conscherzo di volute, e conchiglie il tutto assai bello»8.

Nonostante l’architetto descrivesse con grande precisione le cornici a stuccoe tutte le decorazioni profuse nelle volte, egli non citava affatto dipinti o affre-schi che quelle cornici avrebbero dovuto circoscrivere: circostanza che non si ri-pete per nessun’altra delle opere degli ambienti successivi, per le quali l’autore in-dicava quasi sempre autore, soggetto e tecnica, o almeno uno dei tre dati9.

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6 La stima (Archivio della Curia Generalizia dei Gesuiti, Fondo Gesuitico, vol. 1119, cc. 346r-379v; d’ora in poi citata come Vanvitelli 1751) individuata da Pio Pecchiai, venne segnalata per laprima volta in BOCCA, op. cit. alla nota 1, p. 84. I passi più significativi vennero utilizzati da Boc-ca, Giuggioli e Bacchi (cfr. nota 1), ma la stima non è mai stata trascritta integralmente.

7 VANVITELLI 1751, c. 360v; GIUGGIOLI, op. cit. alla nota 1, p. 373; ZANELLA, op. cit. alla no-ta 1, p. 66.

8 VANVITELLI 1751, cc. 361r-362r.9 Dei tre dipinti di Garzi, Luti e Chiari in galleria, VANVITELLI (1751, c. 364r), oltre ad indi-

carne gli autori, precisa che erano su tela, ma non ne indica il soggetto; della Minerva distoglie lagiovinezza da Venere egli si limita a scrivere (ibidem): “quadro centinato nel mezzo opera del Tre-visani con cornice intagliata”.

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Come da tempo sottolineato, per le tele del piano nobile del proprio palazzoil marchese Livio de Carolis si rivolse unicamente a pittori di primo piano della sce-na romana del tempo: Andrea Procaccini, Giuseppe Bartolomeo Chiari, Luigi Gar-zi, Benedetto Luti, Francesco Trevisani e Sebastiano Conca. Tutti quei maestri ave-vano licenziato poco prima, nel 1718, un Profeta ciascuno per la famosa serie del-la navata della basilica di San Giovanni in Laterano: tra i pittori certamente al la-voro alla decorazione del piano nobile di palazzo de Carolis, solo Mazzanti nonaveva preso parte a quell’impresa, a conferma del ruolo non proprio da protago-nista giocato dal pittore sulla scena romana di quegli anni10. La critica non ha mairilevato come egli, con ogni probabilità, fosse stato chiamato ad affrescare quellaprima sala dall’ambizioso e facoltoso committente solo in virtù del suo rapportoprivilegiato con la Compagnia del Gesù, con la quale in quel momento il marche-se cercava di scendere a patti. La Mastra ha infatti ricostruito gli attriti fra i Gesui-ti e il de Carolis, loro scomodo vicino, che con la costruzione del suo grandioso pa-lazzo era arrivato a lambire le loro proprietà, e minacciava di ostruire per semprel’affaccio sul Corso. Il contenzioso aveva portato ad una sospensione dei lavori nel1722; l’anno dopo le due parti si accordarono per la vendita di alcune case da par-te dei Gesuiti, ma la cessione venne conclusa solo nel 1727, con i Padri attenti a det-tare tutte le condizioni alle quali il marchese si sarebbe attenuto nel proseguimen-to dei lavori, tanto che nel 1729 Livio accettava di demolire una loggia «per mo-strare sempre di più il desiderio che ha di compiacere li detti RR. PP. Gesuiti»11.

Nel contesto di questa complessa vicenda, si colloca l’intervento in palazzode Carolis di Mazzanti, un pittore che nel corso di tutta la sua carriera lavorò apiù riprese per i Gesuiti, e che dopo essersi formato con il pittore prediletto dal-l’Ordine, Giovanni Battista Gaulli, aveva esordito a Roma nei primi anni Venticon opere in Sant’Ignazio e a Sant’Andrea sul Quirinale, due fabbriche dei Pa-dri12. Ma, forse sempre a causa dei contrasti fra il marchese e i Gesuiti, egli dipinseallora un solo affresco; non è improbabile, però, che fin dai primi anni Venti fos-se progettato l’intero ciclo di quel piccolo appartamento. La realizzazione dellecornici in stucco, attestate dalla stima di Vanvitelli suggerisce infatti che fin dal-l’inizio fossero previste delle pitture in tutti quegli ambienti.

Sul soggetto dell’affresco perduto di palazzo de Carolis è possibile avanzareun’ipotesi rileggendo tutta la Nota del 1770. Tra i lavori eseguiti a Città di Ca-stello, verosimilmente negli anni Cinquanta13, Mazzanti ricordava in casa Alip-pi le seguenti, perdute pitture:

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10 Si veda, da ultimo, LA MASTRA, cit. alla nota 4, p. 331; cfr. anche la bibliografia citata a nota 1.11 LA MASTRA, cit. alla nota 4, pp. 323-324.12 Su tutta la carriera del pittore cfr. E. CAPPARELLI, Mazzanti Ludovico, in Dizionario Bio-

grafico degli Italiani, 72, Roma 2009, pp. 514-517 (con bibliografia precedente).13 SANTUCCI, op. cit. alla nota 2, pp. 76, 80 e 170; CAPPARELLI, op. cit. alla nota 12, p. 516.

«Nella volta della sala dipinta a oglio su muro, l’Inverno cacciato dallo Zef-fir della Primavera con varii venti che s’oppongono Nella II Anticameral’Autunno con Bacco in Trionfo e i suoi tre mesi. Nella camera d’Udienzanon si proseguì l’Estate benché fatti i disegni infastidito da terremoti che af-fligeano quella città»14.

Fino ad oggi non è mai stato rilevato come il tema rappresentato sulla voltadella sala, Zefiro scaccia l’inverno, sarebbe stato ripetuto, più tardi, in una delletele riportate di palazzo de Carolis. Si trattava, evidentemente, di un ciclo, che sisarebbe potuto anche articolare in sole tre scene, dedicato alle stagioni, con duedi esse riunite in quel primo ambiente nel quale la Primavera era in atto di scac-ciare l’Inverno (sono attestati altri casi in cui la stagione più rigida non veniva raf-figurata affatto)15. Come in casa Alippi a Città di Castello, anche in palazzo deCarolis Mazzanti avrebbe raffigurato l’Estate nell’ambiente più importante, lacosiddetta camera d’Udienza, e quello sarebbe stato il “quadro dipinto a fresco”visto da Vanvitelli nel 1751: si doveva trattare di una scena allegorica piuttosto ge-nerica, il cui soggetto, privato del rapporto con le pitture raffiguranti le altre sta-gioni che non erano state eseguite negli altri ambienti, non venne identificatodall’architetto. A palazzo de Carolis, in ogni caso, Mazzanti avrebbe in seguitodipinto anche una Primavera, ed è quindi verosimile che nell’ultimo ambientedell’appartamento (fig. 3, n. 7), adiacente alla cappella, (i cui modesti affreschinel soffitto, descritti da Vanvitelli, sono conservati e potrebbero anch’essi esse-re stati realizzati da Mazzanti negli anni Venti)16, fosse inizialmente previsto unAutunno, al posto del quale, un artista identificato ipoteticamente con Domeni-co Maria Muratori (ma l’attribuzione è tutt’altro che certa), ad una data impre-cisata, ma verosimilmente sempre all’epoca del secondo intervento di Mazzanti,dipinse su tela un’Allegoria il cui soggetto non è stato ancora chiarito17. Se neglianni Sessanta fossero i Gesuiti in prima persona a chiamare Mazzanti per ese-guire i due dipinti ancora oggi in situ non è possibile stabilirlo con certezza, esembra più probabile in realtà che ancora una volta egli fosse raccomandato dal-l’Ordine, proprietario del palazzo, ma che di pagare il lavoro si facesse carico

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14 SANTUCCI, op. cit. alla nota 2, p. 172.15 S. PIERGUIDI, Il collezionismo del cardinale Fabrizio Spada: le scelte iconografiche, in “Stu-

di di storia dell’arte”, XII, 2001, pp. 142-143.16 “Volta per di sopra dipinta alla Cinese, con quadro nel mezzo dipinto a fresco rappresen-

tante lo spirito santo con cornice sotto l’imposta, che gira attorno simile all’altre descritte con la-terali di detta Cappella dipinti a fresco parte con vedute di buona architettura, parte con candela-bre e scherzi di putti”, cfr. VANVITELLI 1751, c. 362r; GIUGGIOLI, op. cit. alla nota 1, pp. 371-372;ZANELLA, op. cit. alla nota 1, pp. 61-62.

17 M.B. GUERRIERI BORSOI, Muratori, Domenico Maria, in Dizionario Biografico degli Italiani,77, Roma 2012, p. 439.

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Gaetano Boncompagni Ludovisi, che abitava nell’edificio e doveva essere quel-lo più interessato a vedere terminata la decorazione del piano nobile: egli, forse,pensava anche di acquistare il palazzo, del quale i suoi eredi sarebbero effettiva-mente entrati in possesso più tardi, nel 183318.

Con la prima uscita di scena dal cantiere di Mazzanti, ci fu anche una svoltanei lavori decorativi del palazzo. Nel 1720, prima che il pittore dei Gesuiti fossechiamato a lavorare a quella perduta sala del piano nobile, già altri pittori aveva-no affrescato alcuni ambienti al pianterreno. Nella sua biografia di Pietro PaoloCennini, “pittore fiorista”, Nicola Pio, prima del 1724, scriveva:

«[…] per il signor Livio de Carolis ha fatto tutti li fiori che sono nel suo nuo-vo palazzo incontro la chiesa di San Marcello al Corso nella stanza de’ cri-stalli al pian terreno, vi ha fatto una ghirlanda grande dove sono li putti di-pinti da Giuseppe Chiari et altri lavori ha fatto nella villa del medesimo si-gnor de Carolis»19.

L’ambiente a cui avevano lavorato Cennini e Chiari era quello subito sotto lastanza in cui sarebbe stata collocata la tela con Zefiro scaccia l’Inverno di Maz-zanti, come si evince dalla stima di Vanvitelli, che descrive anche le decorazionidelle stanze successive:

«Stanza terrena il Cantone detta delli specchi […] Volte per di sopra tutta di-pinta […]Stanza che segue in facciata […] Volte per di sopra tutta dipinta, e muri di d.astanza dipinti attorno di Architettura […]Stanza che segue in facciata […] Muri di d.a stanza tutti dipini di architettu-ra con volte per di sopra parimente dipinta […]Stanza accanto d.a che ha l’ingresso dal Cortile […] Volte per di sopra tuttadipinta con riquadri […]Stanza che segue accanto detta Detta Stanza dipinta con pilastri e volte pari-mente dipinta»20.

Le finte architettura del secondo e del terzo ambiente (e, verosimilmente, an-che quelle del quarto) erano opera di Giovanni Paolo Panini, come si deduce dalcarteggio del pittore con il cardinale Giovanni Patrizi, dal quale si evince che ilpittore era all‘opera in palazzo de Carolis nel 172021. A quella data l’artista pia-

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18 BOCCA, op. cit. alla nota 1, p. 242.19 N. PIO, Le vite di pittori, scultori et architetti, edizione a cura di C. e R. ENGGASS, Roma

1977, p. 198.20 VANVITELLI 1751, cc. 365v-367r.21 F. ARISI, Gian Paolo Panini e i fasti della Roma del ‘700, Roma 1986, pp. 70-71.

centino non era ancora affermato come vedutista, ma non era più un esordiente:gli era nato nel 1691, aveva lavorato dal 1711 nello studio di Benedetto Luti, dal1718 era membro dell’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, e dal 1719 di quelladi San Luca22. Impiegare quello specialista emergente, insieme all’altro speciali-sta di fiori, Cennini23, accanto ad uno dei maggiori pittori di figura della tradi-zione marattesca, quale era Chiari, per le decorazioni degli ambienti di minoreprestigio al pianterreno, tradiva già l’ambizione del de Carolis, e conferma, se cene fosse ancora bisogno, quanto la chiamata di Mazzanti non fosse affatto in li-nea con i disegni del marchese24. Però, almeno in un primo momento, sembre-rebbe che l’intenzione del committente fosse quella, assolutamente logica, di pro-seguire con una decorazione ad affresco anche al piano nobile. D’altronde unodei precedenti di maggiore prestigio, e più vicini nel tempo, che poteva tenerepresente il marchese, ovvero il completamento delle pitture nella galleria di pa-lazzo Colonna, ad opera proprio dello stesso Chiari, a cavallo tra Sei e Settecen-to, non poteva che riconfermare il de Carolis in quella scelta25. Tutti i maggioricicli seicenteschi dei palazzi più prestigiosi della Roma seicentesca, da quello diPietro da Cortona nel salone di palazzo Barberini, fino a quello di Carlo Marat-ti in palazzo Altieri, erano del resto stati realizzati ad affresco.

In questo senso è illuminante anche un passo della vita rimasta inedita diFrancesco Solimena stilata da Lione Pascoli:

«Volevalo il Contestabile pel quadro che far si doveva nella vaga sua Cappelladi Santappostoli; ed il marchese De Carolis, che dai primi professori facevadipingere le stanze del signoril suo palazzo non si rimaneva di farlo conti-nuamente da amici stimolare. Gli offrì per fargliene dipigner una splendidi elauti trattamenti di tavola per sé, un cameriere e due servidori, carrozza a suadisposizione e carta bianca per lo valore. Ma né l’uno né l’altro potette in-durvelo, sebbene ad ambedue ne desse replicate speranze. Ed allora fu che gliinvidiosi di sua fortuna, e gli emuli del suo merito cominciarono a criticarlo,e dire che ciò derivava da soggezione e timore per non esporsi al cimento, ed

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22 ARISI, op. cit. alla nota precedente, pp. 62-68.23 Cennini e Panini sono all’opera insieme in più occasioni, cfr. R. RANDOLFI, L’arredo e gli

affreschi perduti di Pannini e Landoni nel Casino Patrizi, già dei Lante della Rovere, a Frascati, inPalazzi, chiese, arredi e pittura, II (Studi sul Settecento romano, 28), E. Debenedetti (a cura di), Ro-ma 2012, p. 217, nota 22.

24 Il silenzio di Vanvitelli sugli autori delle pitture al primo piano di palazzo de Carolis è, pe-raltro, del tutto giustificabile, trattandosi di affreschi di carattere decorativo, non di importanti te-le riportate come quelle al piano nobile, cfr. infra.

25 C. STRUNCK Berninis unbekanntes Meisterwerk: die Galleria Colonna in Rom und die Kun-stpatronage des römischen Uradels, München 2007, pp. 338-342.

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al confronto de’ Romani professori […] E per dar allora dicono maggior cre-denza e più sicura prova non vi rimaneva di rinfacciarli, che per dipignerecontemporaneamente quasi nella sala del Senato di Genova non vi si era fat-to pregare»26.

Quanto riferito da Pascoli, sebbene non confermato da altre fonti, è del tut-to credibile. La pala per la cappella dei Santi Apostoli sarebbe stata poi commis-sionata di nuovo a Chiari, che l’avrebbe eseguita prima del 1724 (è anch’essa ri-cordata da Pio)27. Il biografo scriveva infatti che «per dipingere contemporanea-mente quasi» le tele per il Palazzo Ducale di Genova, Solimena non si era fattopregare: quei dipinti erano stati inviati da Napoli nel 1713, 1717 e 172728. Gli an-ni, insomma, erano gli stessi dell’impresa di palazzo de Carolis, ma Pascoli scri-ve anche che il marchese aveva promesso al pittore «lauti trattamenti di tavola persé, un cameriere e due servidori, carrozza a sua disposizione e carta bianca per lovalore»: quelle condizioni avrebbero avuto un senso solo se Solimena avesse do-vuto eseguire il lavoro direttamente a Roma, e quindi ad affresco. Il grande mae-stro, però, non si fece convincere (né, peraltro, egli inviò mai una tela da Napo-li al marchese, così come aveva fatto per il ciclo genovese). Il fallimento delletrattative con Solimena, però, dovette convincere il committente che sarebbe sta-to molto più semplice ottenere delle tele dai “primi professori” di Roma, piut-tosto che convincerli tutti ad andare a lavorare di persona nel proprio palazzo.D’altronde anche Maratti, dopo il colossale affresco in palazzo Altieri, non erapiù tornato a calcare i ponteggi di un grande cantiere, preferendo lavorare nelproprio studio, e lo stesso discorso sarebbe stato valido per Trevisani. A propo-sito di Luigi Garzi, che nel 1720-21, ormai ottantenne, si mise al lavoro sulla vol-ta della chiesa di San Francesco alle Stimmate, Pio commentava: «Non ostante lasua grant età volle terminare la sua vita con un lavoro di grandissima fatica et in-comodo, forsi per meritare maggiormente la gloria celeste»29.

Comprensibilmente, quindi, allo stesso Garzi, Livio commissionò, semprein quel giro di anni, una tela da collocare sulla volta della galleria del suo palaz-zo. E in fondo anche il già citato ciclo dei Profeti del Laterano era stato esegui-to ad olio, non ad affresco.

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26 L. PASCOLI, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti viventi dai manoscritti 1383 e 1743 dellaBiblioteca Comunale “Augusta” di Perugia, Treviso 1981, pp. 63-64; LA MASTRA, cit. alla nota 4,p. 334.

27 L. PASCOLI, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti moderni (Roma 1730-1736), Perugia 1992,pp. 289 e 297, nota 38; PIO, op. cit. alla nota 19, p. 109.

28 L. GHIO, La decorazione della Sala del Minor Consiglio, in El siglo de los Genoveses e unalunga storia di arte e splendori nel Palazzo dei Dogi, a cura di P. Boccardo, C. Di Fabio, (catalogodella mostra), Milano 1999, pp. 393-399.

29 PIO, op. cit. alla nota 19, p. 70.

Solimena ben difficilmente sarebbe stato chiamato a terminare il modesto ci-clo avviato da Mazzanti. I lavori nella fabbrica sul Corso procedevano, nono-stante i contrasti con i Gesuiti, molto velocemente, e per l’ala più nuova dellasua residenza il marchese de Carolis aveva evidentemente richiesto al suo archi-tetto, Alessandro Specchi, un’infilata di ambienti più ampi. Nonostante non sipossa davvero parlare di due appartamenti distinti per il palazzo de Carolis, poi-ché dal primo si accedeva naturalmente al secondo (e infatti nel 1751, per la suastima, Vanvitelli attraversò di seguito tutti gli ambienti lungo la facciata sul Cor-so senza segnalare nessuna cesura), è importante sottolineare che la costruzionedi una seconda scala, quella a lumaca che lo stesso Vanvitelli avrebbe indicatocome costruita «a similitudine di quella del Palazzo Barberino»30, rese di fatto in-dipendente dal primo il nuovo e più grande appartamento31.

Nelle sue vite, Pio non citava solo gli affreschi di Chiari e Cennini al pian-terreno, ma anche l’Aurora di Procaccini (fig. 4) collocata nel primo ambientedell’appartamento maggiore al piano nobile di palazzo de Carolis (600 x 250 cm):

«Fu chiamato in Spagna da quel gran re cattolico, ma prima di partire vuol-le terminare due quadri per lasciare in Roma l’essempio del suo bello spiri-to e del suo gran sapere. Uno di primi per l’eminentissimo S. card. Acquavi-va […], e l’altro assai grande per una volta di una stanza del palazzo dei S.ride Carolis incontro alla chiesa di San Marcello, rappresentante l’Aurora conputti e cavalli coriseri, che fece in concorrenza di tutti i primi virtuosi di Ro-ma che operarorno in detto palazzo e senza altro dire la fama dapertutto nerisuona»32.

L’autore ricordava anche dei dipinti mobili di Francesco Allegrini e di Chri-stian Reder33, e se ne dovrebbe dedurre che egli avesse visitato di persona il pa-lazzo sul Corso. Ma, sebbene Pio affermasse che l’Aurora di Procaccini fosse sta-

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30 VANVITELLI 1751, c. 272v.31 In ogni caso, la classica successione sala dei palafrenieri-anticamera (prima ed eventualmente

seconda) -camera d’udienza-galleria (P.A. WADDY, Seventeenth-century Roman palaces: use andthe art of the plan, Cambridge 1990, pp. 4-5 e 16-18; LA MASTRA, cit. alla nota 4, p. 327) non sa-rebbe stata perfettamente rispettata in palazzo De Carolis, dove la galleria si trovava accanto allanuova scala d’ingresso. Vanvitelli nella sua stima, fatta eccezione per la prima sala con gli affreschiperduti di Mazzanti, chiama tutti gli altri ambienti del piano nobile come semplici stanze. Non èfacile stabilire se, nell’uso del palazzo, quella molto grande con la Minerva distoglie la giovinezzada Venere di Trevisani assolvesse alle funzioni di camera d’udienza (se il percorso fosse partitodalla vecchia scala che serviva il primo appartamento) o a quelle di sala dei palafrenieri (se il per-corso fosse partito dalla nuova scala a lumaca).

32 LA MASTRA, cit. alla nota 4, p. 331.33 PIO, op. cit. alla nota 19, pp. 36 e 161.

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ta eseguita «in concorrenza di tutti i primi virtuosi di Roma», egli non citava nes-suna delle tele di Luti, Trevisani, Conca, Chiari e Garzi: alcune di quelle eranostate senz’altro consegnate dopo il 1724, l’anno riportato nel frontespizio del ma-noscritto delle vite34, poiché ad esempio la Venere nella fucina di Vulcano di Tre-visani è datata 1725; la tela di Garzi (fig. 5), che sarebbe morto nel 1721, dovevaperò essere pressoché contemporanea a quella di Procaccini. Come ha dimostra-to La Mastra, infatti, Livio de Carolis commissionò i dipinti destinati alla galleriadel proprio palazzo prima che questa fosse costruita35. Garzi e Procaccini lavora-rono contemporaneamente, e sebbene al primo fosse stato commissionato un Car-ro del Sole come allusione al Giorno, egli dipinse un Carro del Sole preceduto dal-l’Aurora che scaccia la Notte (372x184 cm), iconograficamente quasi sovrapponi-bile alla tela di Procaccini. Garzi, evidentemente, non solo si era rifatto alla cele-bre invenzione di Guido Reni nel casino Pallavicini Rospigliosi, ma aveva ancheraffigurato le tenebre, a destra, scacciate dalla luce dell’alba, proprio come si ve-de nell’altro dipinto con l’Aurora. È a questo punto importante rilevare che, in se-guito, Mazzanti avrebbe dipinto quello Zefiro scaccia l’Inverno (fig. 2) che, seb-bene a distanza, avrebbe dialogato perfettamente con l’immagine del Carro del-l’Aurora che scaccia le tenebre: è probabile, infatti, che intorno al 1720 il mar-chese Livio de Carolis avesse pensato a quei due cicli, da una parte le ore del gior-no per la galleria ancora da costruire, e dall’altra le stagioni per il piccolo appar-tamento nella parte già edificata del palazzo, come a due serie parallele36. Negli an-ni Cinquanta Mazzanti, quindi, a Città di Castello non avrebbe fatto altro chemettere in opera un progetto già previsto per palazzo de Carolis, che solo più tar-di egli avrebbe portato a termine in quella sede più prestigiosa.

Alla luce di quanto detto a proposito delle tele di Garzi e Procaccini non sor-prende che Pascoli avesse indicato il medesimo soggetto (L’Aurora) per quei di-pinti; del primo avrebbe scritto: «[…] dopo d’aver espressa assai vagamente l’au-rora in una soffitta delle molte stanze, che con gusto signorile ornar faceva nel suonuovo palazzo a san Marcello il marchese de Carolis […]»;37 e del secondo, ana-logamente: «E non essendovi tempo da perdere, fatti più presto che poté tutti glistudj colla di lui [del de Carolis] piena approvazione mise animo alla grand’ope-ra, e vi rappresentò l’aurora con putti, e destrieri con tal gusto […]»38.

Il marchese de Carolis non poteva aver commissionato ai due pittori lo stes-so soggetto: come ho già scritto in altra sede, egli aveva previsto per la sua galle-

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34 PIO, op. cit. alla nota 19, p. 2.35 LA MASTRA, cit. alla nota 4, p. 332.36 Va da sé che i due temi delle ore del giorno e del ciclo delle stagioni fossero facilmente as-

sociabili, cfr. almeno PIERGUIDI, cit. alla nota 1, 2002, pp. 279-282 (con bibliografia precedente).37 PASCOLI, op. cit. alla nota 27 (1730-1736), 1992, p. 685.38 PASCOLI, op. cit. alla nota 27 (1730-1736), 1992, p. 838.

ria una serie di tre tele come raffigurazione della sequenza Notte-Aurora-Giorno, sulla falsariga di famosi precedenti quali il ciclo di Guercino nel casinoLudovisi, quello di François Perrier nella galleria La Vrillière di Parigi, e quellodi Cortona, Allegrini e Giovanni Francesco Grimaldi nella galleria della perdu-ta villa Il Vascello sul Gianicolo39. Ma una volta ricevuta la tela di Garzi, dovet-te rinunciare a collocare nel medesimo ambiente anche quella di Procaccini: egli,quindi, sistemò quest’ultima nella prima delle stanze del nuovo appartamento(fig. 3, n. 6), e commissionò a Luti un ovale con la Notte pensato ormai per il va-no centrale della galleria40, dove forse all’inizio era stata prevista l’Aurora di Pro-caccini (molto più grande, infatti, della tela di Garzi, e a differenza di questa e diquella di Chiari, sagomata e non rettangolare) in accordo con la sequenza natu-rale delle ore del giorno. In fondo sarebbe stato poi collocato il Sine Baccho etCerere friget Venus di Giuseppe Chiari, di dimensioni analoghe alla tela di Gar-zi (321x188 cm), che mostrando in primo piano le colombe di Venere e le spighedi Bacco, alludeva all’arme di famiglia41. Il dipinto aveva per protagonista la deadella bellezza, che sarebbe stata al centro anche delle due tele di Trevisani, e perla presenza di Bacco poteva anche costituire il trait d’union con il ciclo delle sta-gioni che Mazzanti aveva iniziato ad affrescare all’altro capo del piano nobile delpalazzo: inizialmente, quindi, il quadro di Chiari doveva essere stato pensato perl’ambiente in cui venne poi collocata L’Aurora di Procaccini.

Grazie alle vite di Pascoli, alcune pubblicate tra il 1730 e il 1736, altre rima-ste inedite perché relative a pittori ancora in vita (come Solimena), è stato da tem-po possibile riferire correttamente ai loro autori anche tutti gli altri dipinti mag-giori del piano nobile di palazzo de Carolis (senza contare, quindi, quelli collo-cati nell’appartamento più antico)42, con due sole notevolissime eccezioni: la Mi-nerva distoglie la Giovinezza da Venere (fig. 6) e la Venere nella fucina di Vul-cano non sono infatti citate dal biografo perugino43. Fin dal 1950, però, la puli-

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39 PIERGUIDI, cit. alla nota 1, 2002, pp. 292-300 (quelli citati sono solo alcuni esempi seicente-schi di una lunga tradizione iconografica che, partendo dal fregio di Peruzzi alla Farnesina, pre-vedeva sempre la raffigurazione in sequenza delle tre ore del giorno).

40 MAFFEIS, op. cit. alla nota 1, pp. 308-311, cat. II.25.41 BACCHI, op. cit. alla nota 1, p. 95, scheda III.2.42 PASCOLI, op. cit. (1730-1736), 1992, p. 289 (Chiari: «Fecene un altro per la volta d’una stan-

za della nuova fabbrica del marchese de Carolis, che rappresenta Cerere, e Bacco»); 318 (Luti: «al-tra [soffitta] ne colorì in una della nuova fabbrica del marchese de Carolis»); Ibidem, p. 157 (Con-ca: «Imperocché colorì il Trionfo della Virtù in una soffitta del Palazzo del Marchese De Carolisrimpetto a San Marcello»).

43 Il silenzio di Pascoli su quelle due importanti opere di Trevisani si può, almeno in parte,spiegare: l’autore stese una prima biografia del pittore prima del 1724 (PASCOLI, op. cit. alla nota26, 1981, p. 50, nota 1), quando le tele di palazzo de Carolis non dovevano ancora essere state ese-guite. Al momento di integrare la vita dell’artista con le opere successive, quei dipinti che risaliva-no agli anni immediatamente successivi (una è datata 1725) finirono per essere trascurate.

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tura della seconda tela aveva rivelato le iniziali F.T., permettendo di attribuire l’opera a Francesco Trevisani, a cui in seguito è stata assegnata anche la paterni-tà della Minerva44, attribuita al pittore di origine istriana già dalla stima di Van-vitelli45. L’architetto, in realtà, aveva commesso un grave errore, riferendo la Ve-nere nella fucina di Vulcano a Conca46, ma in ogni caso è interessante notare co-me Vanvitelli avesse comunque assegnato le tre tele maggiori del ciclo, quellecollocate negli ambienti più grandi, e posti al centro dell’appartamento nobile(fig. 3, nn. 5, 4, 2), ai due pittori di corte del cardinale Pietro Ottoboni (scam-biando un dipinto di Trevisani per un’opera di Conca), quelli meno in linea conl’ancora dominante (ma ormai declinante) marattismo dei vari Chiari, Garzi eProcaccini (il discorso, per Luti, sarebbe più complesso, ma le fonti dell’epocatendevano comunque ad associare il pittore fiorentino a Maratti)47. Al ciclo deiProfeti del Laterano avevano lavorato dodici pittori diversi, e anche il marchesede Carolis commissionò una tela ciascuno ai “primi professori” di Roma, conl’unica eccezione di Trevisani, che ebbe l’onore di eseguire due dipinti. Anchequesta scelta trova perfetta corrispondenza con il mecenatismo dell’Ottoboni:nel 1713 il cardinale espose all’annuale mostra di San Salvatore in Lauro una fa-mosa serie di dipinti (in gran parte perduti; ne rimangono tre alla Pinacoteca Va-ticana) che vennero così indicati da Giuseppe Ghezzi: «Sedici tondi in ricche cor-nici quadre, rappresentanti Nostro Signore, la Madonna e gl’Apostoli, fatti fareapposta da SS.ri pittori viventi, li nomi di quali qui si vedono nell’annesso foglioregistrati»48.

Anche in quel caso solo Trevisani aveva eseguito due dipinti della serie, ederano tra i più importanti, essendo quelli raffiguranti Gesù Cristo e San Pietro(Pinacoteca Vaticana)49.

La serie degli Apostoli Ottoboni sembra fosse stata pensata proprio come unasorta di banco di prova per i migliori pittori di Roma, tra i quali di lì a poco si sarebbero dovuti scegliere quelli a cui commissionare gli ovali da collocare sopragli Apostoli in marmo del Laterano. Per la realizzazione di quelle dodici colos-

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44 A. GRISERI, Rococò a torino, Crosato, in “Paragone”, XII/135, 1961, p. 54.45 VANVITELLI 1751, c. 364r; BOCCA, op. cit. alla nota 1, p. 50; BACCHI, op. cit. alla nota 1,

p. 96, scheda III.4.46 VANVITELLI 1751, c. 363v.47 PASCOLI, op. cit. alla nota 27 (1730-1736), 1992, p. 317; F.S. BALDINUCCI, Vite di artisti dei

secoli XVII-XVIII: prima edizione integrale del codice palatino 565, a cura di A. Matteoli, Roma1975, p. 85.

48 G. DE MARCHI (a cura di), Mostre di quadri a S. Salvatore in Lauro. (1682-1725); stime dicollezioni romane note e appunti di Giuseppe Ghezzi, Roma 1987, pp. 282-283; E.J. OLSZEWSKI,The inventory of paintings of Cardinal Pietro Ottoboni (1667-1740), New York 2004, pp. 88-90.

49 OLSZEWSKI, op. cit. alla nota precedente, p. 88, n. 186.

sali statue il pontefice aveva stanziato 6000 scudi fin dal gennaio del 1701; le scul-ture, poi finanziate da vari committenti stranieri, sarebbero state terminate nel1718, e sebbene solo all’estate del 1716 risalgono i primi pagamenti relativi allaprogettazione delle tele con i Profeti50, è probabile che già da alcuni anni si sapesseche di lì a poco i migliori pittori di Roma avrebbero gareggiato lungo la navatadi San Giovanni in Laterano. L’Ottoboni, quindi, espose in pubblico quelle se-dici tele (raffiguranti quello stesso gruppo, sebbene allargato, degli Apostoli, ov-vero il soggetto delle statue allora in corso di esecuzione per la medesima nava-ta della cattedrale) alle quali avevano lavorato, tra gli altri, Trevisani, Luti, Con-ca, Chiari, Garzi e Procaccini: tutti nomi poi chiamati a lavorare sia in San Gio-vanni in Laterano, sia in palazzo de Carolis. Accanto a quei maestri di indiscus-sa celebrità, i tondi Ottoboni erano opera anche di Giuseppe Passeri e Giovan-ni Maria Morandi, che sarebbero morti, rispettivamente, nel 1714 e nel febbraiodel 1717, del francese Charles-François Poërson, direttore dell’Accademia diFrancia a Roma, ma quasi del tutto inattivo come pittore in quegli anni, di Giu-seppe Ghezzi, colui che organizzava le mostre di San Salvatore in Lauro, il qua-le aveva anch’egli quasi del tutto abbandonato l’attività pittorica, ed infine deimeno noti Pietro de’ Pietri, Girolamo Pesci, Michele Rocca, Giovanni AntonioGrecolini e Giovanni Paolo Melchiorri. Quest’ultimo sarebbe stato effettiva-mente chiamato ad eseguire uno dei Profeti per la navata di San Giovanni51, in-sieme a Pier Leone Ghezzi (che, in qualche modo, sostituiva l’anziano padre,Giuseppe), a Giovanni Odazzi, a Giuseppe Nicola Nasini, a Marco Benefial e aDomenico Maria Muratori. La serie lateranense offriva uno spaccato davveroampio delle tendenze della pittura romana del tempo, comprendendo anche ilclassicismo di marca bolognese di Muratori, il linguaggio più spigliato del mi-gliore allievo romano di Gaulli, ovvero l’Odazzi, e l’intransigente, inclassificabile,antiaccademico naturalismo di Benefial, tutte proposte evidentemente estraneeagli orientamenti estetici del cardinale Ottoboni; e, si potrebbe aggiungere, an-che del marchese Livio de Carolis, che forse si affidò ai consigli dell’illustre pre-lato nel momento di selezionare una rosa di pittori per le tele del piano nobile delproprio palazzo. Non a caso Francesco Valesio, nel suo Diario di Roma, attestadi più incontri fra l’Ottoboni ed il fratello ed erede del costruttore di palazzo deCarolis, Michele, nella villa di famiglia, in data 30 agosto e 6 settembre 173652: è

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50 A. NEGRO, La decorazione clementina di San Giovanni in Laterano, in Papa Albani e le ar-ti a Urbino e a Roma 1700- 1721, a cura di G. Cucco, (catalogo della mostra Urbino), Venezia2001, pp. 100-103.

51 A. AGRESTI, Melchiorri, Giovanni Paolo, in Dizionario Biografico degli Italiani, 73, Roma2009, p. 262.

52 G. LA MASTRA, Villa De Carolis fuori porta San Giovanni, in “Studi di storia dell’arte”,XVII, 2006, p. 157.

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possibile che già Livio fosse stato legato da stretti rapporti con il colto e raffina-to cardinale. Certamente il ciclo di tele di palazzo de Carolis costituì, a Roma, lapiù completa affermazione del gusto arcadico promosso dall’Ottoboni al di fuo-ri delle mura del palazzo della Cancelleria, residenza del prelato53.

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53 Sulla definizione di gusto arcadico cfr. il lungo saggio di L. BARROERO e S. SUSINNO citatoalla nota 1.

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Fig. 1 – Ludovico Mazzanti, Primavera, Roma, palazzo de Carolis.

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Fig. 3 – Pianta del palazzo de Carolis al tempo della stima di Vanvitelli (1751).

Fig. 2 – Ludovico Mazzanti, Zefiro scaccia l’Inverno, Roma, palazzo de Carolis.

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Fig. 4 – Andrea Procaccini, Aurora, Roma, palazzo de Carolis.

Fig. 5 – Luigi Garzi, Il Carro del Sole preceduto dall’Aurora che scaccia la Notte, Roma, palazzo de Carolis.

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Fig. 6 – Francesco Trevisani, Minerva distoglie la Giovinezza da Venere, Roma, palazzo de Carolis.