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CAPITOLO 10 METODO E METODOLOGIA A partire dall7inizio degli anni Novanta, nel mondo acca- demico anglosassone si è assistito alla proliferazione di testi specializzati in metodi di ricerca per la geografia umana e per le scienze sociali in generale (si vedano Bignante 2011; Clifford et Al. 2010; Flowerdew e Martin 2005; Pink 2001; Pryke, Rose e Whatmore 2003; Rose 2001b; Seale et Al. 2004). Questo boom editoriale è attribuibile a due motivi principali. Anzi tutto all7enfasi posta dall7approccio femminista alle scienze sociali (Rose 1993), ma anche dai cosiddetti studi post-coloniali (Young 2001) e dai cultural studies (During 2007; Ryan 2008), sul ruolo delle metodologie di ricerca nel determinare il tipo di conoscenza che caratterizza una specifica disciplina. In secondo luogo, questo rinnovato interesse per questioni metodologiche si spiega con la realizzazione da parte di molti ricercatori, e in particolare da parte di quelli abituati a praticare il lavoro sul campo, che troppo spesso le ricerche empiriche nelle scienze sociali erano condotte senza una riflessione critica sia sulle me- todologie utilizzate sia sul loro effetto sui risultati prodotti (si veda Clifford e Marcus 1986). In geografia, come nelle altre scienze sociali, si è pertanto risposto a questo vuoto di riflessio- ne cominciando a evidenziare l7importanza di scegliere, giusti- ficare e discutere nel dettaglio le metodologie adottate, con il fine ultimo di incoraggiare studenti e ricercatori a produrre ana- lisi sempre più solide e rigorose sul piano teorico e concettuale. Va sottolineato che le pubblicazioni comparse negli ultimi vent7anni hanno riguardato in particolare i metodi qualitativi (per un ottimo panorama critico sull7uso di metodi qualitativi in geografia umana si veda M. Crang 2002; 2003b; 2005 e le nu- merose riviste specializzate nate di recente, completamente de- dicate ai metodi qualitativi come Qualitative Inquiry, Qualitati-

Metodo e metodologia in "Breve manuale di Geografia Umana"

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CAPITOLO 10

METODO E METODOLOGIA

A partire dall7inizio degli anni Novanta, nel mondo acca-demico anglosassone si è assistito alla proliferazione di testi specializzati in metodi di ricerca per la geografia umana e per le scienze sociali in generale (si vedano Bignante 2011; Clifford et Al. 2010; Flowerdew e Martin 2005; Pink 2001; Pryke, Rose e Whatmore 2003; Rose 2001b; Seale et Al. 2004). Questo boom editoriale è attribuibile a due motivi principali. Anzi tutto all7enfasi posta dall7approccio femminista alle scienze sociali (Rose 1993), ma anche dai cosiddetti studi post-coloniali (Young 2001) e dai cultural studies (During 2007; Ryan 2008), sul ruolo delle metodologie di ricerca nel determinare il tipo di conoscenza che caratterizza una specifica disciplina. In secondo luogo, questo rinnovato interesse per questioni metodologiche si spiega con la realizzazione da parte di molti ricercatori, e in particolare da parte di quelli abituati a praticare il lavoro sul campo, che troppo spesso le ricerche empiriche nelle scienze sociali erano condotte senza una riflessione critica sia sulle me-todologie utilizzate sia sul loro effetto sui risultati prodotti (si veda Clifford e Marcus 1986). In geografia, come nelle altre scienze sociali, si è pertanto risposto a questo vuoto di riflessio-ne cominciando a evidenziare l7importanza di scegliere, giusti-ficare e discutere nel dettaglio le metodologie adottate, con il fine ultimo di incoraggiare studenti e ricercatori a produrre ana-lisi sempre più solide e rigorose sul piano teorico e concettuale.

Va sottolineato che le pubblicazioni comparse negli ultimi vent7anni hanno riguardato in particolare i metodi qualitativi (per un ottimo panorama critico sull7uso di metodi qualitativi in geografia umana si veda M. Crang 2002; 2003b; 2005 e le nu-merose riviste specializzate nate di recente, completamente de-dicate ai metodi qualitativi come Qualitative Inquiry, Qualitati-

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ve Research, ecc.), mentre hanno dedicato meno attenzione a quelli quantitativi. Questa tendenza rappresenta in un certo sen-so anche una reazione alla diffusa a e spesso acritica a adozione di metodi matematici usati dalla geografia quantitativa tra gli anni Cinquanta e Settanta. L7emergere e il progressivo affer-marsi della geografia di ispirazione marxista (Harvey 1973) e umanistica (Ley e Samuels 1978) tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e il consolidarsi del cosiddetto cultural turn, cioè la nuova enfasi posta sulla dimensione culturale e politica della ricerca (Hall 1980 e 1997; Minca 2001) nelle scienze sociali, hanno incoraggiato i geografi ad adottare metodi diversi, metodi concepiti allo scopo di studiare aspetti della realtà spesso tra-scurati dalle ricerche precedenti e di produrre diverse forme di conoscenza del tutto nuove rispetto a quelle che la statistica e l7analisi praticata con modelli matematici avevano fino ad allo-ra offerto. Per questo motivo i geografi umani hanno iniziato a utilizzare in maniera sempre più intensa e approfondita una se-rie di strumenti metodologici di carattere qualitativo, che li hanno portati a focalizzare la propria attenzione in misura sem-pre maggiore su aspetti quali ad esempio l7esperienza indivi-duale e collettiva dei luoghi, a discapito della descrizione di estrutture7 e esistemi7 tradotti in linguaggio numerico, come tra-dizionalmente accadeva con la pratica quantitativa in geografia (Johnston e Sidaway 2004).

In questo Capitolo ci soffermeremo pertanto soprattutto sui metodi qualitativi, così come vengono adottati dalla geografia prodotta nelle sedi internazionali, e in particolare sull7utilizza-zione delle interviste e, più in generale, dell7approccio etnogra-fico. Questa scelta è dettata proprio dal fatto che questi metodi rappresentano gli strumenti operativi principali con cui si prati-ca la geografia umana internazionale oggi. Sebbene i metodi quantitativi a come l7uso di statistiche, sondaggi ecc. a non sia-no stati abbandonati del tutto, essi sono utilizzati sempre meno e comunque con una certa prudenza, di solito per integrare i dati prodotti attraverso l7indagine qualitativa.

Prima di procedere con la nostra discussione occorre sotto-lineare il fatto che, come ricordano anche Hoggart et Al. (2002), conoscere a fondo i metodi di ricerca non è utile solo a chi vuo-le intraprendere una carriera accademica ma anche a chi opera e lavora in altri ambiti. In effetti, attività di ricerca sono anche condotte da aziende del settore privato e dalla pubblica ammini-strazione. Si tratta di ricerche che stanno spesso all7origine di

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rapporti e relazioni usati a supporto dei processi decisionali. Più in generale, nella nostra vita quotidiana tutti noi usiamo stru-menti propri della ricerca (per es. osservare e ricordare quello che ci sta intorno o quello che ci accade, leggere i giornali, guardare la TV, enavigare in Rete7 per raccogliere notizie e in-formazioni, ecc.) allo scopo di valutare situazioni diverse e prendere decisioni. Per esempio, quando vogliamo andare in vacanza consultiamo fonti quali guide turistiche, siti Internet, parliamo con operatori specializzati, confrontiamo i prezzi. Tut-te queste operazioni sono anche parte dei processi propri dell7attività di ricerca. Anche chi accademico non è, e legge so-lo i risultati di uno studio, farebbe bene a conoscere i principi di base che hanno guidato quella ricerca in modo da essere in gra-do di valutarne meglio le conclusioni. Il lettore di un documento sprovvisto di queste conoscenze si deve fidare alla cieca degli autori della ricerca in questione, non avendo gli strumenti per valutarne l7affidabilità e gli obiettivi di fondo (Spector 1993: 4 cit. in Hoggart et Al. 2002: 41).

Dopo questa precisazione possiamo passare a considerare brevemente le diverse fasi che stanno alla base di un buon pro-getto di ricerca in geografia umana. Ciò che normalmente chiamiamo ericerca7 è infatti un articolato processo costituito da almeno otto stadi principali. Sceglieremo anzi tutto (1) un tema generale che sia d7interesse per noi e per la comunità accademi-ca cui apparteniamo. Eseguiremo poi (2) ciò che gli anglosas-soni chiamano una literature review (vale a dire, un7analisi cri-tica dei lavori teorici ed empirici già pubblicati che riguardano l7argomento scelto) che servirà a sua volta a restringere e a o-rientare il nostro campo d7indagine. Questa analisi della lettera-tura e della cosiddetta egerarchia delle fonti7, oltre ad accrescere il nostro patrimonio di informazioni su un dato tema, ha l7obiettivo di identificare i gap di conoscenza che riguardano l7argomento oggetto della nostra investigazione, gap che talvol-ta possono essere colmati proprio con il progetto di ricerca che ci accingiamo ad eseguire. Infatti, ogni studio deve portare un contributo eoriginale7 alla conoscenza. L7originalità di un pro-getto (come per esempio una tesi di laurea o di dottorato) non deve necessariamente e in ogni caso condurre a delle escoperte7 del tutto innovative o a risultati rivoluzionari (anche se questo può chiaramente accadere). Un progetto originale può tuttavia contribuire a sviluppare un argomento che è già stato oggetto di precedenti analisi (ad esempio il multiculturalismo nella città

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contemporanea, oppure la privatizzazione dello spazio pubbli-co, ecc.) ma che viene approfondito ad esempio rispetto ad un contesto culturale diverso ancora inesplorato, oppure introdu-cendo delle variabili che altre ricerche simili non avevano preso in considerazione (si veda Johnston 1979: 12-19). Per esempio, lo studio della gentrificazione (un fenomeno inizialmente svi-luppatosi nelle città nord-americane, si veda il Capitolo 3) in atto in alcuni frammenti urbani in Italia (si veda per es. Colom-bino e Minca 2005) contribuisce a comprendere meglio come processi finanziari (associati a grandi investimenti immobiliari) e culturali (la tendenza a valorizzare le parti storiche delle città occidentali) di respiro globale si concretizzino in contesti speci-fici. Più precisamente, la literature review serve a restringere e orientare il campo d7indagine per capire quali aree non siano state studiate in modo approfondito in precedenza, e per formu-lare le nostre (3) research questions a ed è questa la terza fase di un progetto a vale a dire una serie di domande che riassumo-no in maniera chiara l7obiettivo del nostro studio e che, di con-seguenza, ci guideranno attraverso i meandri del lavoro sul campo e della successiva analisi. Le conclusioni della ricerca perciò presenteranno e articoleranno le risposte alle edomande di ricerca7 che stanno all7origine del progetto, il cui esito contri-buirà in modo originale allo specifico corpus di conoscenza che fa da sfondo all7intero studio.

Una volta formulate le research questions, sceglieremo (4) un caso di studio (per esempio un luogo, un evento, un gruppo di persone e/o un arco di tempo limitato) da esplorare empiri-camente, adatto a rispondere alle domande stesse da cui prende le mosse il nostro progetto. Il caso di studio prescelto deve sempre essere giustificato rispetto all7argomento studiato. Per esempio, se s7intende esplorare l7impatto dell7immigrazione ci-nese sul tessuto socio-culturale di una città, si tenderà a sceglie-re un7area urbana dove l7immigrazione cinese è stata partico-larmente intensa, in quanto avrebbe poco senso studiare un7area in cui i cinesi sono del tutto assenti. Giustificata la scelta del ca-so di studio, dovremo vagliare (5) quali siano i metodi più adatti a svolgere lo studio per rispondere alle nostre research que-stions. Una volta determinati i metodi, ci prepareremo (6) ad affrontare il lavoro sul campo (fieldwork) allo scopo di racco-gliere materiali e le informazioni che, dopo essere rientrati a ecasa7 (vale a dire terminato il lavoro sul campo), dovremo (7) ordinare, elaborare, e analizzare in maniera coerente rispetto

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all7impianto teorico elaborato sin dalle prime fasi della ricerca grazie all7analisi della letteratura essenziale. Lo stadio finale (8) di ogni ricerca si sostanzia nella scrittura e nella presentazione al pubblico dei risultati dell7indagine (in forma di tesi di laurea, di dottorato, di articolo per una rivista specializzata, e/o di e-sposizione orale). Queste otto fasi assieme costituiscono la me-todologia di un progetto di ricerca.

Riflettiamo per un attimo sulla differenza tra metodologia e metodi. La metodologia può essere vista come un insieme che ingloba tutto il processo di ricerca, dalla literature review alla definizione delle research questions, dall7elaborazione dell7im-pianto teorico alla scelta del caso di studio e dei metodi, dalla riflessione sul lavoro sul campo effettuato all7analisi dei dati e alla comunicazione dei risultati. È bene precisare che esistono naturalmente altre definizioni, assai più specifiche, di cosa sia la metodologia.1 In questo manuale preferiamo tuttavia proporre una definizione molto ampia della metodologia, poiché ci con-sente di fare un ragionamento più strutturato allo scopo di illu-strare agli studenti i passi fondamentali del processo che sta die-tro a qualsiasi studio ben fatto, sia questo una tesi di laurea o un articolo scientifico pubblicato su una rivista internazionale. Di norma, tutti i testi accademici (tesi di laurea e di dottorato, li-bro, esposizione orale o articolo) includono una parte dedicata alla metodologia che riassume i passaggi sopra elencati.

I metodi sono invece le tecniche specifiche usate per con-durre una ricerca con il fine di raccogliere informazioni e pro-durre dati. Nelle pagine seguenti ci soffermeremo sui metodi qualitativi perché, come abbiamo detto all7inizio del Capitolo, sono quelli che la maggior parte dei geografi umani usano oggi per esplorare l7ambiente umano, le esperienze individuali e i

1 Per esempio Hubbard et Al. (2005: 6) definiscono la metodologia come nthe set of procedures used to develop or test a theory; it is the means by which data are generated and analysed.o Secondo Clive Seal (1998: 328) la meto-dologia nconcerns the theoretical, political and philosophical roots and impli-cations of particular research methods or academic disciplines. Researchers may adopt particular methodological positions which establish how they go about studying a phenomenon.o Ron Johnston (2009: 457) invece definisce la metodologia come n[t]he principles and assumptions underlying the choice of techniques for constructing and analysing datao, e ci avverte che la meto-dologia nshould not be confused with emethods7: [methodology] is the con-ceptual rationale for which methods are used, and how. Methodology brings together and links the underlying philosophical and conceptual bases of a study with appropriate techniqueso.

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processi sociali del presente e del passato. In particolare, questo Capitolo illustrerà due generi di metodi qualitativi: quelli eorali7 che utilizzano soprattutto le interviste, e quelli che si basano principalmente sull7osservazione condotta sul campo. Per man-canza di spazio, un terzo gruppo di metodi qualitativi, ugual-mente importanti, quello cioè che riguarda la cosiddetta eanalisi testuale7 (textual analisys) di materiali come documenti (giorna-li, quotidiani, rapporti governativi e non, documenti relativi alla pianificazione, mappe, fotografie e immagini di vario genere), testi creativi (poesie, romanzi, film, opere d7arte e brani musica-li) e anche il paesaggio vero e proprio, non verranno qui trattati (si vedano al proposito Bignante 2011; Cosgrove e Daniels 1988; Duncan 1990; Pink 2001; Rose 2001b e 2003; Waitt e Head 2002; Winchester 2005). Una serie di rimandi bibliografi-ci consentirà tuttavia al lettore di individuare altri testi assai più utili per approfondire il metodo dell7analisi testuale. Tratteremo quindi soprattutto di interviste e di approccio etnografico, de-scriveremo in cosa consistono, e daremo una serie di suggeri-menti su come usare in pratica questi due metodi in modo che il ricercatore alla prime armi sia in grado di acquisire, con la lettu-ra di questo Capitolo, gli strumenti fondamentali per condurre una ricerca sul campo. Interviste: strutturate, semi-strutturate, non-strutturate

Tra i metodi più comunemente utilizzati in geografia umana vi sono quelli orali, tecniche cioè che ci aiutano a comunicare direttamente con individui in grado di fornirci informazioni, te-stimonianze ed esperienze utili alla nostra ricerca. Il metodo o-rale più comunemente utilizzato è l7intervista.2 Questa può esse-re definita come uno scambio verbale faccia a faccia3 durante il quale cerchiamo di ottenere delle informazioni o delle opinioni da una o più persone. Ci sono tre tipologie principali di intervi-

2 Altri metodi orali sono le cosiddette oral histores, i focus group (discussioni di gruppo su un tema deciso dal ricercatore), e i questionari se condotti in pre-senza del ricercatore. Questi ultimi possono essere considerati come metodi di ricerca orali e sono utilizzati soprattutto, anche se non esclusivamente, da chi utilizza metodi di ricerca quantitativi, in quanto le risposte di un gran numero di persone possono essere contate e analizzate attraverso metodi statistici. 3 È tuttavia opportuno ricordare che le interviste possono anche essere condot-te al telefono nel caso in cui l7informatore non sia raggiungibile di persona.

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ste: (1) le interviste strutturate che si basano su una lista prede-terminata di domande poste a tutti gli informatori nello stesso ordine; (2) le interviste non strutturate (come le oral histories) che non sono effettuate usando una lista di domande precise, ma prevedono che sia l7intervistato a guidare la conversazione se-guendo alcuni spunti suggeriti dal ricercatore; (3) le interviste semi-strutturate invece prevedono l7uso di domande, che però possono essere poste in ordine diverso secondo la situazione; durante questo tipo di intervista si possono anche formulare sul momento nuove domande non previste dalla lista precedente-mente preparata, soprattutto se ritenute importanti per appro-fondire una tematica interessante emersa durante la conversa-zione.

L7intervista, ricorda Kevin Dunn (2005), può essere utile per quattro ragioni principali: (1) colmare una mancanza di in-formazione che altri metodi, come l7osservazione o l7uso di dati statistici, non sono in grado di fornire; (2) esaminare in modo approfondito comportamenti e pratiche sociali complessi; (3) raccogliere opinioni ed esperienze individuali che possono esse-re diverse (o simili) in funzione della posizione sociale (classe, genere, età, gruppo etnico, ecc.) dell7intervistato; (4) utilizzare un metodo che in qualche modo lasci la possibilità a chi è coin-volto nella ricerca in qualità di informatore (research partici-pant) di esprimere il proprio punto di vista. Uno dei vantaggi dell7intervista è che consente spesso di scoprire ciò che è im-portante anche per l7informatore, le cui opinioni devono sempre essere valorizzate e trattate con rispetto.

Usare l7intervista come metodo di ricerca richiede una certa organizzazione. Anzi tutto è necessario preparare una guida o traccia scritta che copra le questioni generali che si vogliono di-scutere con l7informatore. Tale guida può talvolta consistere di una semplice lista di parole chiave o concetti che serviranno come promemoria degli argomenti da affrontare. Uno dei van-taggi della traccia scritta è la sua flessibilità. Se, da un lato, è importante lasciar fluire la conversazione in modo enaturale7, concedendo spazio alla persona intervistata per parlare di ciò che le interessa dopo averle suggerito un argomento di cui di-scutere, dall7altro, bisogna essere sempre in grado di re-indirizzare la conversazione nel caso in cui l7informatore finisca per trattare argomenti non rilevanti per la ricerca in questione (caso non raro). Le tracce, inoltre, consentono di avere più li-bertà durante l7intervista in modo da poter formulare alcune

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domande sul momento, attingendo per esempio a temi interes-santi emersi durante la conversazione. Esse vengono usate per le interviste semi-strutturate e, soprattutto, per quelle non strut-turate. Queste ultime (come le cosiddette oral histories o life hi-stories) servono per cercare di carpire dall7informatore i suoi ricordi ed esperienze personali di eventi passati (per es. memo-rie di guerra; si veda Andrews et Al. 2006; Riley e Harvey 2007). Si tratta di interviste che hanno come protagonista prin-cipale l7intervistato e le sue esperienze dirette, e per questo mo-tivo non utilizzano domande specifiche ma solo degli espunti per la conversazione7. L7informatore, nel caso delle interviste non strutturate, è in un certo senso elibero7 di condurre il flusso della conversazione sui temi e le esperienze che ritiene più si-gnificativi. Tutte le interviste non-strutturate sono in questo senso euniche7, non comparabili. Sebbene il tema principale della conversazione possa essere lo stesso per tutti gli intervista-ti, i sotto-temi trattati saranno invece inevitabilmente diversi di volta in volta e solitamente decisi dall7interlocutore stesso. In-vece della traccia possiamo preparare una vera e propria lista di domande precise che, nel caso delle interviste strutturate, saran-no poste nello stesso identico ordine a tutti gli informatori, men-tre nel caso delle interviste semi-strutturate, potranno essere po-ste in ordine diverso assieme ad altre domande che vorremo e-ventualmente formulare al momento.

È importante ricordare che per scrivere delle ebuone7 (cioè efficaci) domande è necessario seguire alcune regole elementa-ri: usare un linguaggio semplice e mai offensivo o provocatorio, evitare o ridurre l7uso di termini che possano avere un significa-to ambiguo; scegliere accuratamente le parole e il tono da uti-lizzare; evitare di formulare domande che prevedano come ri-sposta un semplice sì/no, visto che lo scopo dell7intervista è quello di incoraggiare l7informatore a parlare della propria e-sperienza e ad articolare la propria opinione in modo compiuto.

La preparazione delle interviste deve essere eflessibile7 du-rante il periodo, talvolta lungo, in cui si conduce la ricerca sul campo. È consigliabile testare prima le domande su un piccolo gruppo iniziale di informatori per verificare l7efficacia dell7in-tervista (per assicurarsi che le domande che si intendono porre non siano per esempio ambigue o difficili da capire), ed even-tualmente modificare sia l7ordine delle domande sia la scelta delle parole da usare se utile. Le espressioni utilizzate per com-porre le domande, e l7ordine con cui esse sono poste, sono infat-

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ti elementi importanti per costruire il necessario rapporto di fi-ducia tra intervistatore e intervistato. Se l7informatore non ha fiducia in chi conduce la ricerca, non si sentirà a proprio agio e difficilmente riuscirà a parlare eliberamente7 durante l7intervista. Per stabilire un buon rapporto è doveroso seguire delle regole di condotta di base sin dalla preparazione delle interviste. Uno degli scogli iniziali per chi vuole fare delle interviste è infatti quello di trovare delle persone disponibili a farsi intervistare.

Sembrerà un problema banale, ma la selezione e l7accesso ai potenziali informatori è una delle fasi più difficili da superare in una ricerca sul campo. Oltre a definire le caratteristiche (per es. età, genere, occupazione, interessi specifici, posizione all7in-terno di un7azienda/istituzione, ecc.) che i potenziali intervistati devono avere (affinché le loro opinioni ed esperienze possano gettare luce sulla domanda che sta alla base di una ricerca), è fondamentale riuscire a convincere un numero sufficiente di persone con queste caratteristiche a farsi intervistare. Una volta individuati i potenziali informatori, bisogna instaurare un clima di fiducia sin dai primi contatti con queste persone per ottenere il permesso di intervistarle. Spesso, i primi contatti avvengono per telefono o corrispondenza. Dunn (2005: 90-95) offre degli utili consigli pratici da seguire: è fondamentale che sin dall7ini-zio ci si qualifichi non solo con nome e cognome, ma anche specificando l7organizzazione presso cui studiamo o lavoriamo. Si devono inoltre immediatamente chiarire le modalità che han-no portato a conoscenza del nome e dei contatti del potenziale intervistato (per esempio, facendo riferimento a un collega di lavoro, a un amico comune, all7organizzazione che ci ha fornito il nominativo). Bisogna poi spiegare i motivi per cui si contatta un possibile informatore, delineando brevemente il tema dello studio, e ponendo particolare enfasi sul fatto che l7opinione del-la persona contattata sarebbe molto utile per i fini della ricerca. È anche necessario chiarire come e dove si svolgerà l7intervista e quanto tempo durerà all7incirca. Queste informazioni di base daranno la possibilità alle persone di scegliere se desiderano o meno partecipare alla ricerca in qualità di informatori. Esse ser-vono anche per iniziare a costruire quel clima di fiducia e ri-spetto necessari per condurre l7intervista in modo efficace. Il rapporto di fiducia deve essere mantenuto anche dopo la con-clusione dell7intervista, soprattutto se si pensa di incontrare nuovamente l7informatore una seconda volta per approfondire alcuni temi emersi durante il primo incontro. È fondamentale

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quindi essere capaci di concludere un7intervista in modo ade-guato. Si può dire per esempio al nostro interlocutore che per il momento le domande sono finite, incoraggiandolo al contempo ad aggiungere qualcosa che ritiene rilevante ma che non è e-merso durante la conversazione. Infine, è necessario non solo ringraziare l7intervistato del tempo che ha concesso, ma anche enfatizzare che ciò che ha detto sarà utile e di valore per il pro-getto di ricerca in questione.

Registrare, prendere appunti e trascrivere sono gli stadi at-traverso i quali le interviste si trasformano da emateriali raccolti sul campo7 in veri e propri dati da analizzare. Registrare (su na-stro o in forma digitale) e prendere appunti sono le due princi-pali tecniche per documentare un7intervista (Fig. 10.1). Se rite-niamo importante per l7analisi anche l7interazione non-verbale (vale a dire la gestualità e le azioni compiute durante l7inter-vista) è possibile anche utilizzare una videocamera, dopo aver ottenuto esplicitamente il consenso da parte dell7informatore. Va tuttavia precisato che le interviste video-registrate richiedo-no moltissimo tempo per la trascrizione, in particolare se si vo-gliono riportare, descrivendoli, gesti ed espressioni del viso e azioni delle persone filmate. (L7uso della telecamera, e della macchina fotografica, per produrre materiali da analizzare si sta man mano diffondendo anche in geografia in seguito al succes-so dei cosiddetti visual studies, un campo accademico che, ori-ginatosi dalla storia dell7arte, ha mostrato alle scienze sociali come eciò che è visibile7 non sia un dato di fatto ma piuttosto un prodotto di storia, cultura e molteplici pratiche sociali. Si veda-no per es. Bignante 2011; Faccioli e Harper 1999; Faccioli e Losacco 2003; Pink 2004; Rose 2001b; Sturken e Cartwright 2001). Mentre prendere appunti ha lo scopo di catturare il esuc-co7 di quanto viene discusso, registrare l7audio ha l7obiettivo di documentare fedelmente l7intervista. Registrare ha inoltre il vantaggio di agevolare il flusso della conversazione. Grazie alla presenza del registratore, possiamo infatti ascoltare con atten-zione quanto detto dall7informatore ed eventualmente incorag-giarlo ad approfondire alcune tematiche. Prendere appunti può invece distrarre e non consentire di formulare sul momento nuove domande. Inoltre, prendere appunti è un7attività che non permette di cogliere la mimica facciale e gestuale dell7informa-tore, espressioni cioè che sostengono e imprimono significato alle parole. Va comunque tenuto presente che il registratore può talvolta inibire l7informatore, in quanto si tratta di un oggetto

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che ricorda la formalità dell7intervista (cioè che si tratta, in un certo senso, di una situazione eartificiale7, non spontanea). Quanto detto durante un7intervista registrata diventa una testi-monianza permanente delle opinioni dell7informatore e questo potrebbe provocare un certo disagio in chi parla. Non sempre garantire l7anonimato dell7informatore garantisce anche che questi si senta completamente a proprio agio. Alcuni intervistati si abituano alla presenza del registratore man mano che l7intervista va avanti, altri invece no. È pertanto consigliabile che il registratore venga collocato in un luogo visibile ma di-screto, in modo che pian piano escompaia7 alla vista (Dunn 2005: 96). Registrare e prendere appunti durante un7intervista sono comunque azioni che possono essere abbinate. Prendere appunti può infatti ovviare (in parte), per esempio, a un even-tuale problema tecnico con il registratore (rottura o interruzione della registrazione). Gli appunti possono inoltre essere integrati con la trascrizione delle interviste.

FIG. 10.1 - Alcuni strumenti utili per condurre le interviste: un Ipod con micro-fono per registrare, una macchina fotografica, un carica-batterie, un quaderno e una penna per prendere appunti. Foto di Annalisa Colombino.

La trascrizione è necessaria per l7analisi successiva al lavo-ro sul campo. Si tratta di un processo che richiede molto tempo: di solito ci vogliono da due a quattro ore per trascrivere comple-tamente un7ora d7intervista (che possono diventare venti quando si deve trascrivere un7intervista videoregistrata). Per questo mo-

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tivo, è necessario decidere se sia in effetti necessario o meno trascrivere l7intera conversazione. Questo dipende dagli obietti-vi della ricerca. Per esempio, la co-autrice di questo manuale [A.C.] ha inizialmente trascritto per intero solo alcune delle numerose interviste semi-strutturate condotte per un progetto di ricerca su Trieste (che mirava a studiare la percezione di alcuni residenti delle immagini del marketing territoriale di Trieste du-rante la campagna per l7Expo del 2008; si veda Colombino 2009) e, successivamente, ha deciso di trascrivere solo quelle parti che erano strettamente pertinenti allo studio, vale a dire quegli spezzoni che contenevano dati necessari a rispondere alle research questions all7origine del suo progetto. È importante trascrivere le interviste nel modo più fedele possibile (Wetherell et Al. 2001). Le parole usate dall7informatore non devono esse-re cambiate e, se l7analisi lo richiede, dobbiamo anche riportare le parole esattamente nel modo in cui sono state pronunciate e cercare di tradurre il linguaggio non verbale (in caso se ne abbia traccia scritta nella forma di nota o se esiste una video-registrazione). Per documentare il linguaggio non verbale, il to-no della voce e l7andamento della conversazione esistono diver-si tipi di simboli da utilizzare. Per esempio, due sbarre (//) indi-cano che chi parla è stato interrotto da un evento (come una te-lefonata); tre puntini (s) stanno per una pausa; quattro o più puntini indicano una pausa prolungata; tra parentesi quadrate vanno invece descritti gesti, le risate o altre emozioni espresse da chi parla. Altre soluzioni grafiche per la trascrizione sono na-turalmente possibili (si veda per es. Wetherell et Al. 2001). È utile che i ricercatori alle prime armi eseguano da sé le trascri-zioni anziché rivolgersi a un professionista, non solo perché so-no i più adatti a farlo (avendo condotto le interviste e conoscen-do come la conversazione si è svolta), ma soprattutto perché la trascrizione offre la possibilità di immergersi nei dati e di farne un7analisi preliminare.

Rivedere gli appunti presi sul campo e le trascrizioni è il primo passo verso l7analisi vera e propria dei dati. Ai margini dell7intervista trascritta si possono aggiungere alcune annota-zioni come quando, per esempio, si scorge un qualche elemento particolarmente utile per rispondere alle edomande di ricerca7. Prima di procedere alla codifica dei dati, ogni intervista deve essere riletta attentamente allo scopo di elaborare delle schede riassuntive. Una scheda potrà essere personale, cioè specifica-tamente dedicata alla persona intervistata e potrà contenere le

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nostre riflessioni su come e dove si è svolta l7intervista, come abbiamo selezionato l7informatore, se ci sono questioni etiche in gioco (per es. se è stato richiesto l7anonimato da parte del-l7informatore, e così via). Un7altra scheda, di tipo analitico, po-trà invece essere dedicata al contenuto dell7intervista stessa, fa-cendo esplicito riferimento alle research questions e alla teoria che guidano la nostra ricerca. Analizzare le interviste (ma anche gli appunti presi durante una ricerca etnografica, o l7esame di documenti raccolti sul campo) è spesso la fase più difficile per un progetto di ricerca. Ci sono diversi metodi analitici che pos-sono essere scelti secondo le finalità e le caratteristiche dello studio in questione. Nessun libro offre tuttavia la ricetta giusta per l7analisi. Esistono tuttavia numerosi testi che danno delle regole di base e suggerimenti validi mirati a guidare un ricerca-tore alle prime armi (si vedano per es. Bignante 2011; Cresswell 2009; Seale 1998; Seale et Al. 2004; Silverman 1997; Smith 1998; Wetherell et Al. 2001).

Sebbene molti accademici con grande esperienza di ricerca sul campo concorderanno nell7affermare che s7impara ad ana-lizzare i dati solo facendolo in prima persona, in generale, come afferma Dunn (2005: 101), si può dire che ci siano due princi-pali tecniche di base utilizzate in geografia umana: l7analisi del contenuto esplicito (manifest content analysis) e quella del con-tenuto latente (latent content analysis). Con la prima tecnica si considera il contenuto visibile, esuperficiale7, eovvio7 di docu-menti quali le trascrizioni. Per esempio, si possono contare le volte in cui compare un certo tipo di parola (parole o espressio-ni ricorrenti nelle interviste) che ha attinenza con il tema della ricerca e che sembra poter aiutare a rispondere alle research questions. (Non sempre si individuano subito i termini e le e-spressioni egiuste7, quelli cioè interessanti per svolgere un7ana-lisi approfondita. Spesso si procede per tentativi). La geografa britannica Gillian Rose (2003 e 2004), nell7analizzare una serie di interviste con un gruppo di donne inglesi di classe media allo scopo di capire cosa facessero con le loro fotografie di famiglia e per studiare la costruzione di certi spazi domestici, ha consi-derato termini ricorrenti relativi allo estare insieme7 (together-ness); Taylor e Wetherell (1999) hanno invece enfatizzato una serie di espressioni relative al tempo (eun giorno7, euna volta7, eprima7 ecc.) per esaminare come certi rimandi temporali aves-sero contribuito alla costruzione del senso di identità nazionale tra un gruppo di Neozelandesi residenti in Gran Bretagna. Co-

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lombino (2009) ha mostrato come specifici tempi verbali (pre-sente, passato, futuro) e avverbi di tempo (euna volta7, ecento anni fa7, ecc.), utilizzati da un gruppo di Triestini durante le in-terviste da lei condotte, abbiano permesso agli intervistati di ar-ticolare diverse concezioni di emulticulturalità7. L7analisi del econtenuto latente7, invece, richiede anche l7esame della trascri-zione per temi e prevede che il ricercatore definisca esplicita-mente il significato sottostante le parole espresse. Questa defi-nizione del significato è a tutti gli effetti una forma di codifica dei dati. La codifica dei dati viene usata per selezionare e recu-perare delle informazioni specifiche. Per esempio, il testo di un7intervista con delle persone che si occupano di sviluppo ur-bano può essere codificato sulla base di categorie come: ecultu-ra di governo7 (con sotto-temi quali eprospettiva imprenditoria-le7 e/o manageriale); ecoalizioni e reti7; emeccanismi attraverso i quali certe coalizioni operano7, le diverse escale attraverso le quali avviene lo sviluppo urbano7, ecc. (si veda Cope 2005). Oppure, i testi delle canzoni di un cantante possono essere codi-ficati usando categorie come eprotesta sociale7, eamicizia7, ea-more7 e così via (si veda per es. Brank et Al. 2009). L7analisi dei contenuti impliciti e di quelli manifesti possono essere com-plementari l7una all7altra.

Una volta completata l7analisi, i dati tratti dalle interviste so-no raramente presentati nella loro interezza. Di norma, sono usati per la presentazione della ricerca solo alcuni estratti all7interno di articoli, rapporti scritti, libri o relazioni orali. Quando si comuni-cano i risultati di una ricerca al pubblico, è fondamentale tenere in conto se gli intervistati hanno preteso di rimanere anonimi o meno. In caso di anonimato, gli informatori devono essere identi-ficati o con un numero o con uno pseudonimo (che vanno utiliz-zati anche nelle trascrizioni al posto del nome reale). Di solito si lascia scegliere all7intervistato lo pseudonimo utilizzato. A volte non è necessario usare nomi fittizi in quanto le tematiche discus-se non sono particolarmente sensibili o perché nessuno degli in-tervistati richiede l7anonimato (si veda Colombino 2009; Rose 2004). È bene però sempre chiedere agli informatori se vogliono essere identificati o meno e rispettare le loro scelte.

Per concludere, è importante tenere a mente che le interviste sono strumenti che coinvolgono direttamente le persone all7in-terno del processo di ricerca (per questo motivo si preferisce usa-re l7espressione eresearch participant7 anziché esoggetto di ricer-ca7). Esse offrono dati sulle esperienze e i comportamenti delle

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persone e catturano, in un certo senso, la visione del mondo degli intervistati. Gli informatori usano parole proprie per descrivere le loro esperienze e percezioni. Le interviste, pertanto, sono tecni-che di ricerca che dovrebbero ricordare costantemente al geogra-fo che dietro i dati ci sono delle persone vere, le quali contribui-scono in modo fondamentale al loro lavoro di ricercatori, nonché di produttori e divulgatori di sapere (Dunn 2005: 103). Passiamo ora al secondo grande gruppo di metodi che include quelli utiliz-zati in geografia per esplorare ambienti e gruppi sociali nella loro quotidianità (famiglie, gruppi etnici, donne, giovani, ecc.) ed e-venti (festival, parate, commemorazioni, eventi mediatici, ecc.), cioè il lavoro etnografico basato sulla cosiddetta eosservazione partecipata7 (participant observation). Etnografia e osservazione partecipata

Per esaminare accuratamente le geografie del quotidiano le interviste non sono sufficienti (Evans 1988). Un7intervista dà in effetti accesso (almeno parzialmente) all7esperienza delle per-sone, ma questa è necessariamente filtrata dai loro ricordi, sen-sazioni e parole. Per poter esplorare direttamente luoghi, am-bienti, gruppi e attività sociali, i geografi contemporanei utiliz-zano pertanto anche altri strumenti messi a disposizione dall7et-nografia. In particolare, si basano sulla cosiddetta participant observation (osservazione partecipata, abbreviato in OP nel re-sto del Capitolo). Le interviste sono infatti eventi che avvengo-no in contesti sociali e temporali ben specifici, lontani dalla vita di tutti i giorni. L7OP, basandosi sulla presenza del ricercatore in un contesto non organizzato e pianificato in anticipo (come lo sono invece le interviste), ambisce a produrre un tipo di cono-scenza attinta direttamente dalla espontaneità7 delle interazioni quotidiane (quando considereremo il ruolo dell7etnografo ve-dremo come questa spontaneità sia possibile solo in parte).

Etnografia e osservazione partecipata non sono la stessa co-sa, sebbene, sottolinea Robin Kearns (2005), spesso alcuni testi accademici tendano a sovrapporre questi due termini. Come Hammersley e Atkinson (1995: 1) giustamente ricordano, l7et-nografia è

a particular method or set of methods which in its most characteristic form [s] involves the ethnographer partici-pating overtly or covertly in people7s daily lives for an

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extended period of time, watching what happens listening to what is said, asking questions a in fact, collecting whatever data are available to throw light on the issues that are the focus of research. (corsivo aggiunto) L7enfasi posta sull7uso di metodi diversi opera un importan-

te distinguo tra etnografia e osservazione partecipata. Altri me-todi che possono essere affiancati all7OP, oltre alle interviste, sono infatti la ricerca in archivi (di biblioteche, musei ecc.), la raccolta di testi quali articoli di giornali o materiali presi da Internet, la collezione e/o produzione di video e fotografie (si vedano Cook e Crang 1995; Hoggart et Al. 2002: 308-9). L7OP è pertanto uno dei diversi metodi utilizzabili in un approccio et-nografico alla ricerca, anche se è spesso considerato come uno dei più importanti.

Come vedremo nel corso di questo Capitolo, l7espressione OP sta ad indicare che il ricercatore non si limita soltanto ad os-servare la scena di fronte ai suoi occhi. Partecipando con la propria presenza a quella scena egli contribuisce anche a crear-la. La dinamica dell7OP mostra come l7etnografo non sia mai in grado di osservare e descrivere eil mondo così com7è7; attraver-so il suo lavoro di ricercatore, egli contribuisce infatti anche a produrre il mondo che descrive nei sui resoconti accademici (si veda, tra qualche pagina, la discussione sulla vignetta della serie The Far Side di Gary Larson). Parlare di eosservazione parteci-pata7 anziché di semplice eosservazione7 vuol dire che ogni no-stra descrizione del mondo avviene sempre secondo una pro-spettiva ben specifica, collocata all7interno del contesto che stu-diamo e prodotta dalla nostra specifica posizione sociale (per es. data dal nostro essere accademici, occidentali, donne o uo-mini, dalla nostra età, ecc.), una posizione che occupiamo anche fuori da questo specifico contesto. L7espressione OP, pertanto, mette ancora una volta in luce il fatto che la ricerca geografica a e in generale la ricerca nelle scienze sociali a non è in grado di rispecchiare in maniera trasparente il mondo, ma solo di rappre-sentarlo, comprendendo alcune sue parti ed escludendo altre. Quella del ricercatore, soggetto immerso nel mondo e non e-sterno ad esso, non è mai una posizione che gli consente di co-gliere elementi e processi del mondo reale nella loro interezza. È solo l7illusione della trasparenza delle nostre rappresentazioni a che molto a lungo ha dominato l7episteme moderno (si veda T. Mitchell 1988) a ad averci fatto credere che le carte, o qual-siasi altra rappresentazione geografica, potessero semplicemen-

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te riflettere la realtà. Obiettivo di questa sezione è illustrare co-me l7OP possa invece contribuire in maniera importante ad ap-profondire la nostra conoscenza delle geografie che animano il mondo, senza tuttavia avere alcuna pretesa di esaustività. L7OP, e l7etnografia più in generale, sono perciò un metodo utile ai geografi contemporanei per vedere (e studiare) una frazione di mondo per così dire edal basso7 a una frazione che corrisponde all7esperienza quotidiana di chi abita i luoghi investigati a e tracciarne alcuni lineamenti, disegnarne alcune traiettorie, rive-larne alcune regolarità.

L7osservazione partecipata in geografia affonda le proprie radici nella tradizione accademica dell7antropologia. Per molto tempo, quello etnografico è stato, e ancora lo è, il principale metodo di ricerca degli antropologi i quali, occupandosi soprat-tutto di società e comunità non occidentali, hanno a lungo insi-stito sul fatto che i ricercatori dovessero letteralmente immer-gersi nella cultura e nell7ambiente di coloro che studiavano. L7antropologo doveva trasformarsi in un enativo7 (egoing nati-ve7, è l7espressione usata, si veda la Fig. 10.2), doveva cioè abi-tare, mangiare, lavorare, socializzare, insomma evivere7 con le persone del luogo, quasi a diventare uno dei soggetti che osser-vava (Rabinow 1977).

FIG. 10.2 - eRicerca etnografica7 (piacevole) in Giappone: sulla destra il Prof. Kazuo Murakami e sulla sinistra uno degli autori. Foto di Claudio Minca.

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Questa posizione di einsider7 doveva in teoria consentire all7antropologo di esaminare attentamente ciò che studiava e, a patto di mantenere un atteggiamento edistaccato7 sia intellet-tualmente sia emotivamente, gli avrebbe dovuto consentire di cogliere eoggettivamente7 e escientificamente7 anche gli aspetti più reconditi della cultura esplorata. Le etnografie di un tempo avevano l7esplicita pretesa di raccontare la realtà quotidiana dei popoli studiati. L7etnografo era considerato un osservatore pro-fessionista che produceva risultati oggettivi (Hoggart et Al. 2002).

Le fondamenta su cui poggiava l7etnografia tradizionale so-no state messe in discussione dalle scienze sociali contempora-nee e in particolare dalla cosiddetta critical anthropology. Il vo-lume Writing Culture di James Clifford e George Marcus (1986) è stato in questo senso la pietra miliare per la ridefinizione dell7etnografia in antropologia e in tutte le scienze sociali, com-presa la geografia; si tratta di un libro che ha convinto molti scienziati sociali a fare ricerca in modo riflessivo (self-reflexive), consapevole cioè dei limiti e della parzialità dei loro lavori, i cui risultati sono influenzati in maniera decisiva dal punto di vista e dalla posizione che incorporano e riflettono la soggettività a età, genere, appartenenza etnica, classe, ecc. a del ricercatore. Writing Culture è un7opera fondamentale sulla crisi della rappresentazione in etnografia. Clifford e Marcus ivi af-fermano che le etnografie non sono mai delle rappresentazioni fedeli o trasparenti della cultura studiata. Le etnografie, per questi autori, sono dei eresoconti7 a che van Maanen (1995) chiama estorie7 (stories) a che si basano sulle esperienze dei ri-cercatori, e che pertanto raccontano il mondo in modo affatto selettivo e parziale. Come ricordano Hoggart et Al. (2002), Clif-ford (1986) sosteneva provocatoriamente che le etnografie non sono prodotti che rappresentano le culture, ma piuttosto che le inventano.4 Al proposito, sempre Hoggart et Al. (2002), racco-mandano di non dimenticare mai che, per quanto si cerchi di descrivere nel modo più fedele possibile ciò che è stato osserva-to, l7etnografo crea in ogni caso con il proprio lavoro qualcosa che non è mai esistito prima. La descrizione etnografica può es-sere al massimo simile, ma mai esattamente identica alla realtà 4 Il termine einventare7 o eimmaginare7 è ormai di uso comune in geografia; si vedano per es. libri come Inventing Places di Kay Anderson e Fay Gale del 1992; Geographical Imaginations di Derek Gregory del 1994; e Imagining Cities di Sally Westwood e John Williams del 1997.

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che è descritta. L7etnografo non è mai in grado di penetrare e documentare esaustivamente il contesto sociale e culturale che sta esplorando, anche perché questo è sempre in movimento, sempre cangiante. La sua ricerca è in ogni caso il frutto di una visione parziale e ricostruita di ciò che osserva.

Più di recente, geografi come Nigel Thrift e Loretta Lees, tra gli altri, hanno proposto l7OP come uno dei metodi principa-li per comprendere come ambiente costruito (built environ-ment), paesaggio e luoghi producano le a e siano il prodotto delle a molteplici pratiche sociali che li animano. Questi studio-si hanno infatti mosso una critica alla geografia culturale degli ultimi vent7anni affermando che questa si è troppo a lungo limi-tata a considerare principalmente i processi di esignificazione7 (ha cioè esplorato i vari significati attribuibili a luoghi, paesag-gi, immagini, ecc.) e di rappresentazione (si veda il Capitolo 2 e la discussione del paesaggio inteso come etesto7). Secondo Lees e Thrift, i geografi oggi dovrebbero occuparsi non solo dei pro-cessi di significazione, ma anche della inhabitation dello spa-zio; vale a dire di come lo spazio sia quotidianamente animato, praticato e vissuto emotivamente e materialmente dagli indivi-dui e dalle collettività (si veda Cresswell 2003). L7approccio et-nografico viene perciò proposto come quello più adatto a inclu-dere, nel lavoro dei geografi, anche questi elementi dell7espe-rienza dello spazio quotidiano.

Osservare con sguardo etnografico o in modo partecipativo non significa quindi vedere e registrare tutto ciò che c7è nel contesto che stiamo esplorando. L7osservazione è il risultato di una scelta, conscia o meno, di ciò che si vuole osservare e di come osservarlo. Abbiamo sempre un ruolo attivo nel processo di osservazione. Robin Kearns (2005) spiega come nelle scienze sociali si eosservi7 per tre motivi principali: (i) contare: (ii) rac-cogliere informazioni mancanti; (iii) imparare attraverso l7esperienza diretta. Per esempio, si osserva per contare quanti pedoni entrano in una stazione della metropolitana o in un aero-porto, o quanti clienti entrano in un caffè a determinate ore di una giornata allo scopo di avere un7idea dei ritmi quotidiani che animano luoghi come questi (si vedano Laurier 2008; Lefebvre 1992). Mentre si guardano le persone entrare e uscire da questi luoghi, l7occhio inevitabilmente e selettivamente trascura altri elementi che compongono la scena. Si possono inoltre condurre delle osservazioni per ottenere informazioni mancanti che van-no a completare il quadro di una ricerca più ampia. In questo

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caso, l7idea di base è quella di generare dei dati da affiancare ad altri ottenuti attraverso, per esempio, una serie di interviste. eOsservare7 può quindi voler dire passare del tempo in un quar-tiere dopo aver fatto un sondaggio tra i suoi residenti, per pren-dere appunti sull7aspetto delle case, delle auto, dei giardini, del-le persone che lo frequentano, e così via, in modo da esplorare e cercare di capire le dinamiche di un luogo nella sua quotidiani-tà. Infine, vi può essere un tipo di osservazione mirata a produr-re un7interpretazione eprofonda7 di un particolare luogo in un arco di tempo specifico attraverso l7esperienza diretta. Per rag-giungere questo scopo, il ricercatore si eimmerge7 in un luogo per un periodo di tempo piuttosto lungo, possibilmente pren-dendo appunti in modo sistematico e molto dettagliato, appunti che poi userà come dati primari da analizzare. Questi tre tipi di osservazione si possono, ovviamente, usare contemporanea-mente, l7uno non esclude l7altro (Kearns 2005).

Non vi è quindi un modo epiù giusto7 di un altro per fare uno studio etnografico. Si racconta che Bronislaw Malinowsky (considerato il epadre7 dell7etnografia, si veda il suo Argonauts of the Western Pacific del 1922) abbia affermato che tutto ciò che si vede e si sente debba essere annotato, perché è impossibi-le sapere cosa sia importante all7inizio di un progetto. La realtà è che l7esperienza dei luoghi, proprio per il continuo cambia-mento che li caratterizza, è difficile da prevedere; pertanto, co-me suggerisce van Maanen (1988: 139, cit. in Kearns 2005: 267) la miglior cosa da fare è uscire e esporcarsi le mani sul campo7. Per un geografo, condurre lavoro etnografico vuol spesso dire cercare di collocarsi in una posizione eprivilegiata7 all7interno del contesto sociale che esplora, in modo da cogliere, da questa prospettiva, le pratiche e i significati che sono oggetto della sua investigazione. Non vi è una guida che ci possa inse-gnare come si osserva, ma ci sono, come per le interviste, dei testi che ci possono dare delle valide indicazioni su come efare7 etnografia (si vedano per es. Borneman e Hammoudi 2009; Hammersley e Atkinson 1995). È bene infatti sottolineare come l7osservazione partecipata non venga mai condotta in modo ca-suale; non basta gironzolare per un villaggio con spirito curioso per poter dire di aver fatto osservazione partecipata! Esistono alcune fasi precise che caratterizzano questo metodo, dalla scel-ta del sito fino alla presentazione dei risultati, e vi sono dei sug-gerimenti specifici che possono essere seguiti per fare della buona etnografia. La scelta del luogo (il case study specifico) da

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studiare è di solito dettata dagli obiettivi che si pone il progetto di ricerca, e può anche succedere che l7etnografo non ne abbia una conoscenza diretta. Non essere familiari con il luogo che s7intende studiare può ovviamente comportare dei problemi di organizzazione della ricerca sul campo; vale a dire, la ricerca potrebbe incontrare tutta una serie di ostacoli se il luogo non è stato prima esaminato attentamente e soprattutto se non siamo in grado di valutare a priori cosa sia possibile e cosa sia impos-sibile in effetti ottenere dal lavoro sul campo in quella sede.

Avere accesso al contesto sociale prescelto per la ricerca è un aspetto cruciale di ogni indagine etnografica. Sembra una constatazione banale, ma non lo è affatto. Vi sono dei luoghi in cui è possibile fare ricerca senza particolari difficoltà, come per esempio le piazze e le strade delle nostre città. Altrove, invece, come in scuole, ospedali o aziende private, non si può libera-mente entrare e mettere in pratica le nostre tecniche d7inve-stigazione. È pertanto opportuno identificare in via preliminare quelle persone (presidi, direttori, ecc.) in grado di darci il per-messo per studiare questo tipo di contesto. È quindi necessario svolgere un attento lavoro di preparazione prima di affrontare il lavoro sul campo. Oltre a documentarsi, per quanto possibile, sul nostro oggetto di studio (organizzazione, quartiere, gruppo, ecc.), è fondamentale creare (tramite e-mail, lettere, telefonate) dei primi contatti con i cosiddetti gatekeeper, cioè quelle perso-ne che, svolgendo un ruolo decisionale e/o importante all7in-terno del contesto sociale che si intende studiare, possano facili-tare (o impedire) le occasioni per interagire con altre persone che pensiamo di coinvolgere nella nostra ricerca (Kearns 2005: 225-226). Questi primi passi verso il ecampo7 consentiranno di farci un7idea su come potremo svolgere la ricerca, tenendo con-to degli eventuali problemi di accesso che, assieme al nostro budget, e alla possibilità di muoverci e estare sul campo7 per il tempo necessario, andranno ad influenzare le modalità con cui sarà possibile condurre la nostra ricerca (Cook e Crang 1995: 13-14). L7accesso al contesto prescelto dipenderà non solo dai gatekeeper, ma anche dalla natura del progetto di ricerca stesso. Come si accennava poco sopra, coloro che vogliono occuparsi di luoghi come prigioni, scuole, biblioteche o ospedali incontre-ranno diverse difficoltà per potervi accedere. Lo stesso si può dire per l7esplorazione di attività e luoghi particolari come le partite di calcio, i cinema o gli spazi della prostituzione, ma an-che case private, luoghi di lavoro o, più semplicemente, una

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strada. In ogni caso, prendere e coltivare i contatti con persone del luogo è assolutamente necessario. È solo a questo punto che il lavoro sul campo (fieldwork) inizia formalmente.

È utile ricordare che il fieldwork ha una lunga tradizione nella geografia (e nelle scienze sociali in generale) di matrice anglosassone. Imparare a lavorare sul campo fa in effetti parte del curriculum universitario di ogni studente di geografia nei Paesi di lingua inglese. Il ecampo7 (field), inteso come il luogo e lo spazio sociale dove si raccolgono materiali e informazioni primarie per la ricerca, è stato oggetto di riflessione teorica da parte di diversi geografi contemporanei (si vedano per es. Dri-ver 2001; Massey 2003), spesso contrapposto all7idea di ecasa7 (home), cioè al luogo cui si torna a per es. l7università e la pro-pria comunità accademica a e dove i materiali vengono rielabo-rati, messi in ordine, filtrati attraverso le lenti delle research questions e della teoria, e quindi trasformati in dati pronti per l7analisi (Fig. 10.3). Felix Driver (2001) offre tuttavia una defi-nizione di ecampo7 che supera questo modo binario di intender-lo radicalmente separato dal luogo di eritorno7. Secondo Driver, se concepiamo il sapere geografico come il prodotto di una se-rie di pratiche concrete e anche corporee (embodied), come viaggiare, vedere, toccare, ascoltare, documentare, narrare, ecc., il ecampo7 allora non è più concepito come uno spazio esterno, rigido, ben confinato, ma piuttosto come uno spazio che viene continuamente costruito, sia attraverso il movimento fisico (at-traversare diversi Paesi per raggiungere per esempio la città che si intende studiare, camminare per quella città, ecc.), sia attra-verso altri tipi di attività (per es. leggere in biblioteca, riflettere nel nostro ufficio, visitare l7ufficio dei nostri supervisor, scatta-re fotografie del luogo, ecc.). Il ecampo7, in quanto spazio che riunisce le diverse geografie del processo di ricerca, è pertanto il prodotto di molteplici pratiche e discorsi: è il prodotto sia del-le varie pratiche spaziali che caratterizzano il fieldwork vero e proprio, sia dei vari testi, incontri ed immagini che informano lo studioso prima e dopo il lavoro strettamente empirico (Driver 2001). Questo concetto di campo è particolarmente utile ed im-portante perché rivela in maniera chiara il fatto che, quando ini-ziamo il fieldwork, ciò che facciamo non è semplicemente re-carci in un luogo per attingere informazioni dalla erealtà7 per poi erifletterla7 in uno scritto etnografico, come se la erealtà7 esi-stesse indipendentemente da ciò che noi facciamo prima e dopo il lavoro di raccolta dei materiali. Quella che ci offre Driver è

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un7idea di campo che mostra come le etnografie non rispecchi-no in alcun modo la everità7 oggettiva del mondo che studiamo, poiché questo mondo è anche il prodotto delle nostre pratiche (materiali, intellettuali, corporee) e degli strumenti di ricerca che abbiamo a disposizione. In altre parole, il mondo che stu-diamo non è un qualcosa che attende semplicemente là fuori, pronto per essere efotografato7 dall7etnografo, ma è una realtà in continuo movimento, eincatturabile7 nella sua interezza. Quella dell7etnografo è pertanto sempre, costitutivamente, un resocon-to parziale di un qualche fenomeno sociale o culturale in dive- nire.

FIG. 10.3 - Un geografo sul ecampo7 in Marocco. Foto di Claudio Minca.

Prima di avvicinarci al campo sarà necessario decidere se adottare un approccio eaperto7 (overt), dichiarando la propria identità e i propri obiettivi, oppure in incognito (covert), ma so-lo dopo averne discusso a fondo con il proprio supervisor o re-latore di tesi e, se esiste, con il comitato etico dell7università (un corpo di docenti e specialisti, ormai comune a molte università in Europa e Nord America, con il compito di valutare se un pro-getto di ricerca rispetta gli standard etici stabiliti dalla comunità accademica locale e nazionale a come per es., nel Regno Unito,

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la British Sociological Association o l7Economic and Social Re-search Council). Gli studi etnografici ein incognito7 oggi sono molto rari (ma un caso noto è quello di Dan Rose [1987], che ha vissuto per due anni sotto copertura come meccanico di auto-mobili). Infatti, molti ricercatori ritengono questa pratica con-traria all7etica. Tuttavia, a volte può in effetti essere necessario muoversi in incognito quando si studiano gruppi e contesti so-ciali particolari (si vedano ad es., in campo giornalistico, le in-chieste in incognito di Fabrizio Gatti [2007], fintosi clandestino per raccontare lo sfruttamento sul lavoro di molti stranieri in Italia). È più comune tuttavia che i ricercatori decidano di esse-re eaperti7 ed espliciti riguardo al proprio ruolo e che spieghino, almeno brevemente, il loro progetto alle persone che sono coin-volte nella ricerca. Alcuni etnografi suggeriscono tuttavia di es-sere molto cauti al proposito e sostengono che dare troppe in-formazioni prima che un progetto inizi possa influenzare pro-fondamente il comportamento delle persone nei confronti del ricercatore (Hammersley e Atkinson 1995). L7etnografia e l7OP in fin dei conti sono metodi che portano il ricercatore ad einva-dere7 un contesto sociale di cui egli, nella maggioranza dei casi, non fa parte.

Una caratteristica dell7OP è data dal fatto che la semplice presenza di un ricercatore altera inevitabilmente il comporta-mento di coloro che sono studiati. Come fa notare Kearns (2005), la famosa striscia di Gary Larson (1984, The Far Side) che recita nAnthropologists! Anthropologists!o ben esemplifica come la presenza di estranei, come gli etnografi, vada ad in-fluenzare l7atteggiamento delle comunità osservate.5 Nella vi-gnetta due uomini che portano elmetti da esploratori si avvici-nano a una capanna con il tetto di paglia. I eprimitivi7 a che, se-guendo il più banale e diffuso degli stereotipi, sono ritratti con un osso che attraversa loro il naso e con ornamenti sul capo a esclamano nAntropologi! Antropologi!o mentre si affrettano a nascondere i televisori. La vignetta ironizza sul fatto che gli studiosi non si aspettano (e spesso non desiderano) che i eprimi-tivi7 possiedano oggetti tecnologici e tanto meno che essi ali-mentino artificialmente lo stereotipo. Uno dei messaggi che si possono leggere in questa vignetta è anche che l7entrata di outsider in una qualsiasi situazione sociale del quotidiano è de- 5 È possibile vedere la vignetta su Internet, per es. all7indirizzo http://anthropologynet.files.wordpress.com/2007/09/gary-larson-1984-far-side -anthropologists.jpg

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stinata a cambiare il comportamento degli insider. Non possia-mo osservare direttamente senza essere presenti, e la nostra pre-senza fisica, la nostra partecipazione, assieme alle caratteristi-che che evidenziano il nostro essere ediversi7 (appartenenza et-nica, genere, età, professione per es.), hanno inevitabilmente un impatto sulla escena7 che vogliamo studiare come osservatori epartecipanti7. Per esempio, un uomo bianco adulto creerà pro-babilmente dei problemi se questi, in quanto ricercatore, volesse essere presente in un gruppo che non ha le sue stesse caratteri-stiche, come un gruppo di sostegno per neo-mamme o una festa per teenager. È quindi importante essere consapevoli del fatto che la nostra presenza, in qualità di osservatori, cambierà inevi-tabilmente il comportamento di chi intendiamo studiare.

Una volta iniziato il lavoro sul campo, anche dopo aver pre-so i contatti con gli eventuali gatekeeper, non dobbiamo perciò mai dimenticare che siamo noi stessi lo strumento principale per la raccolta di informazioni e materiali utili alla ricerca. In se-condo luogo, è necessario tenere bene a mente che l7OP è un metodo che necessita flessibilità, pazienza, capacità di interagi-re con gli informatori, nonché disponibilità a svolgere attività eextra7; vale a dire, spesso risulta di grande aiuto lo svolgimen-to, quando se ne presenta l7occasione, di attività volontarie presso, per esempio, il gruppo (quartiere, associazione, ecc.) oggetto del nostro studio, in cambio della possibilità che ci è stata data di osservare le attività che regolano la sua quotidiani-tà. Infine, come abbiamo sottolineato poco sopra, dobbiamo an-che tenere presente che portiamo sul campo anche eil nostro corpo7 e il nostro aspetto. Per esempio, il tipo di abito che in-dossiamo è un chiaro indicatore di chi siamo e di come voglia-mo che gli altri ci vedano. È importante, per essere in grado di epenetrare7 un determinato contesto sociale, che si sappiano, let-teralmente, evestire i panni adatti7. Uno degli autori [A.C.], per condurre la ricerca sul campo riguardante un progetto sulla can-didatura di Trieste all7Expo del 2008, ha dovuto indossare un abito formale per poter partecipare ad una serata organizzata al-lo scopo di intrattenere funzionari di diverse ambasciate a Pari-gi, la città dove il BIE (Bureau International des Exposition) si riunisce per la valutazione delle città candidate ad ospitare l7Esposizione Mondiale. Vestirsi in uno stile casual, in quell7oc-casione, avrebbe destato qualche sospetto da parte degli invitati, o avrebbe addirittura comportato l7impossibilità ad accedere all7evento parigino. Lo stesso vale per situazioni meno eforma-

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li7, come nel caso di indagini che concernono, ad esempio, le abitudini quotidiane dei senzatetto. Avere l7abito adatto alle oc-casioni, per quanto banale possa sembrare questa affermazione a ma non lo è perché molti ricercatori in effetti tendono spesso a esbagliare abito7 a è un elemento strategico importante per es-sere eaccettati7 ed entrare in comunicazione con coloro che sono i protagonisti dei luoghi e delle esperienze esaminati con il me-todo etnografico. Parlare in modo appropriato alla situazione e ascoltare con la dovuta attenzione tenendo ben presente i rispet-tivi ruoli in gioco, sono altri due elementi importanti che per-mettono agli etnografi di econfondersi7 e interagire bene con l7ambiente studiato. È cruciale infatti costruire dei buoni rap-porti interpersonali con i partecipanti alla ricerca proprio per cercare di interpretare in maniera adeguata la logica che muove i luoghi, gli eventi e i gruppi sociali che si stanno investigando. L7ascoltare, in linea di massima, dovrebbe precedere il parlare, di modo che il ricercatore abbia l7opportunità di capire ciò che ha importanza in luoghi e momenti particolari. L7osservazione diventa inoltre meno evisibile7 (e intrusiva) agli occhi dei parte-cipanti alla ricerca se l7etnografo cerca di interagire nel modo più naturale possibile con loro.

Una volta immersi nel campo, dobbiamo quindi porci e ri-spondere continuamente alle seguenti domande: che cosa sta succedendo? Quando sta succedendo? Dove? Chi sta (e chi non sta) facendo un certo tipo di attività? In che modo le persone reagiscono a ciò che sta accadendo? E così via. Domande di questo tipo rappresentano gli strumenti per ottenere informazio-ni fondamentali su eventi, struttura sociale, modelli e schemi culturali, e sui significati che le persone danno a tutte queste co-se. Tuttavia, per essere veramente efficace, l7OP deve andare oltre la semplice osservazione del contesto prescelto. Essa deve infatti essere sempre sostenuta da tutta una serie di altre strate-gie di ricerca come interviste, la raccolta di fonti secondarie, come documenti, libri, fotografie, ecc.. È pertanto utile ottenere in via preventiva delle informazioni basilari sul gruppo o popo-lazione (per esempio età, genere, sesso, occupazione, livello di scolarizzazione, ecc.), e il luogo specifico (storia, economia, ecc.) che ci accingiamo a studiare, sia attraverso dati statistici pubblicati, sia altre fonti scritte che si possono trovare in biblio-teca o su Internet. Raccogliere documenti pertinenti alla ricerca come articoli di quotidiani e giornali, verbali di riunioni e di consigli di un7amministrazione locale, ma anche lettere, diari,

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film, fotografie ecc., e familiarizzare con queste fonti può servi-re a chiarire aspetti importanti di ciò che stiamo studiando. A queste prime informazioni se ne potranno aggiungere altre, per esempio effettuando una serie di interviste sia con persone non direttamente coinvolte in ciò che studiamo a ma che sono tutta-via bene informate sui fatti e gruppi sociali esaminati (per e-sempio giornalisti, funzionari di un7amministrazione pubblica, accademici, organizzazioni non governative, ecc.) a sia con un numero limitato di informatori-chiave (key-informants) diretta-mente coinvolti nel contesto di studio prescelto per la ricerca.

Un elemento fondamentale di ogni etnografia è il cosiddetto ediario7. Questo testo deve incorporare tutto ciò che il ricercato-re ha osservato, ma anche provato fisicamente ed emotivamen-te. Sebbene l7osservazione sia una componente fondamentale di molti metodi di ricerca (per es. l7osservazione in laboratorio nelle scienze cosiddette edure7), è bene ricordare che nei proget-ti che impiegano metodi qualitativi essa coinvolge anche altri sensi oltre la vista: il tatto, l7olfatto, l7udito nonché la memoria dell7esperienza passata. Le descrizioni devono peraltro essere integrate con riflessioni che rimandano alla teoria che sta in-formando la ricerca; è infatti la base teorica prescelta che ci in-dirizza verso specifici elementi ed eventi su cui dovremo con-centrare la nostra attenzione. Gli appunti sul campo devono es-sere dettagliati e il più completi possibile. Più lo sono, più sem-plice sarà la loro catalogazione e codifica. I luoghi e le persone osservate dovranno essere descritti in modo molto accurato. Bi-sogna però ribadire che raramente gli etnografi prendono ap-punti mentre sono a contatto con i partecipanti alla ricerca, in quanto ciò potrebbe distrarli dall7attività di osservazione. Le no-te preliminari possono peraltro essere trascritte su qualsiasi supporto cartaceo che sia a portata di mano (i margini di un quotidiano, il retro di uno scontrino, un tovagliolo, ecc.). È tut-tavia fondamentale che esse si trasformino in un testo scritto il prima possibile, visto che il ricordo dettagliato dei fatti osserva-ti spesso tende a svanire velocemente o a confondersi con altre memorie. Per questo è necessario sviluppare l7abitudine di scri-vere il diario ogni giorno, o alla fine di una sessione di lavoro sul campo. Una volta ea casa7, le annotazioni vanno ordinate ed elaborate su un computer e/o nel diario (Kearns 2005). È inoltre fondamentale non solo fare dei back-up dei propri appunti, ma anche stamparli. La perdita dei dati è un evento meno raro di quanto si possa immaginare, e senza questi la ricerca stessa ri-

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schia di fallire. Il lavoro di settimane, a volte addirittura di me-si, andrebbe perso per sempre. Bisogna tenere a mente che gli appunti sul campo sono il materiale d7analisi principale, e anche la base che permette agli altri di valutare il nostro lavoro (seb-bene accada di rado, sarebbe importante che il diario fosse di-sponibile per essere esaminato da chiunque, e in particolare da chi valuta la nostra ricerca).

La macchina fotografica può anche essere usata come stru-mento per raccogliere i nostri appunti sul campo. I partecipanti alla ricerca sono talvolta incoraggiati a fare foto loro stessi, op-pure si possono raccogliere delle foto già esistenti dei luoghi e dei gruppi che si stanno studiando (si vedano Bignante 2011; Emmison e Smith 2000; Rose 2001b, sull7analisi e interpreta-zione di immagini e cultura visuale). Si può infine utilizzare una videocamera (si veda Pink 2001 e 2004) che è talvolta partico-larmente utile per registrare eil contesto7 e la comunicazione verbale e gestuale delle persone coinvolte nella ricerca. È im-portante ricordare che registrare su video non vuol dire catturare la erealtà7 di un contesto sociale. Come ricorda Banks (1995), video e foto sono sempre, e non possono che essere, interpreta-zioni della realtà, una realtà vista e registrata da una prospettiva ben precisa, quella appunto del ricercatore immerso in un even-to. Per poter usare una videocamera, ovviamente, va sempre ri-chiesto il permesso ai partecipanti alla ricerca.

La fase finale di uno studio etnografico consiste nella scrit-tura della estoria7 riguardante ciò che è stato osservato. Questa è una fase della ricerca che normalmente avviene fuori dal cam-po, una volta tornati a ecasa7. È un processo ben diverso da quello di prendere appunti sul campo. Il ecampo7 è dove i mate-riali e le informazioni sono raccolti; la ecasa7 è invece dove i materiali vengono selezionati e così trasformati in dati, ed è do-ve l7analisi viene condotta con il fine ultimo di escrivere un7etnografia7. Sul campo dominano le note e gli appunti, nei quali la documentazione di ciò che si è osservato deve essere il più possibile fedele all7esperienza del ricercatore e può anche includere materiali egrezzi7 contenenti statistiche, questionari, interviste e osservazioni. A casa, la scrittura viene invece raffi-nata, e prende forma grazie alla teoria che informa la fase anali-tica diventando una tesi di laurea, di dottorato, articoli per le ri-viste accademiche specializzate o perfino un libro.

Per concludere questo breve excursus sull7etnografia e sull7OP, vale la pena ricordare con Sanjek (1990) i tre epilastri7

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che fanno di un7etnografia uno studio valido e rigoroso: (i) la chiarezza dell7impianto teorico utilizzato; (ii) la franchezza sul percorso intrapreso dall7etnografo (vale a dire una dettagliata discussione di ciò che è stato fatto e di come è stato fatto); (iii) la presentazione della cosiddetta nfieldnote evidenceo, cioè di citazioni tratte dal diario che provino la bontà delle interpreta-zioni elaborate dall7etnografo. Negli ultimi decenni, è bene sot-tolinearlo per chiudere questo Capitolo, la geografia umana ha beneficiato straordinariamente dall7adozione di questi principi, producendo non solo lavori originali e di grande interesse, ma anche contribuendo in maniera determinante, con le sue teorie e la sua abitudine a pensare in termini di spazi, luoghi e paesaggi, al più generale dibattito nelle scienze sociali sulla complessa natura della ricerca sociale (si vedano per es. Law 2004; Pryke, Rose e Whatmore 2003; Rose 2001b).