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179 Note sul rapporto giuridico-canonico tra il Romano Pontefice e i Patriarchi cattolici orientali Giulio Vincoletto Sommario 1. Introduzione e profilo metodologico – 2. Breve excursus storico sull’istituzione patriarcale. – 3. La legislazione anteriore al CCEO: il m. p. «Cleri sanctitati» di Pio XII del 1957. – 4. L’insegnamento del Vaticano II sulle Chiese cattoliche orientali – 5. La legislazione attuale: il CCEO del 1990. - 5.1. Communio ec- clesiastica et hierarchica - 5.2. La “questione” del pallio - 5.3. I Patriarchi orientali membri del Collegio Cardinalizio – 6. Conclusione. Riassunto Lo studio intende indagare il rap- porto tra il Romano Pontefice e i Pa- triarchi cattolici orientali a partire dal- le norme del CCEO, comparandole in prima istanza con la legislazione ante- riore. Queste rivelano, grazie al guada- gno teologico del Vaticano II, una di- sciplina più adeguata sia riguardo alla comprensione del ruolo che i Patriarchi rivestono in seno alla Chiesa Universa- le come tale, sia in specie riguardo alla funzione di unità propria dell’Ufficio Petrino. Abstract The article studies the relationship between the Roman Pontiff and the ori- ental Patriarchs from the perspective of the CCEO in comparison with previous legislation. It reveals a more adequate discipline, thanks to the theological doctrine of the Vatican II, both with re- gard to the role of the Patriarchs in the universal Church and more especially with regard to the function of unity be- longing to the Petrine Office. EPHEMERIDES IURIS CANONICI 53 (2013) 179-204 Parole chiave: Patriarchi, Chiese Orientali, Codex Canonum Ecclesiarum Orienta- lium. Keywords: Patriarchs, Eastern Churches, Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.

Note sul rapporto giuridico-canonico tra il Romano Pontefice e i Patriarchi cattolici orientali

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Note sul rapporto giuridico-canonicotra il Romano Pontefice e i Patriarchi cattolici orientali

Giulio Vincoletto

Sommario1. Introduzione e profilo metodologico – 2. Breve excursus storico sull’istituzionepatriarcale. – 3. La legislazione anteriore al CCEO: il m. p. «Cleri sanctitati»di Pio XII del 1957. – 4. L’insegnamento del Vaticano II sulle Chiese cattolicheorientali – 5. La legislazione attuale: il CCEO del 1990. - 5.1. Communio ec-clesiastica et hierarchica - 5.2. La “questione” del pallio - 5.3. I Patriarchiorientali membri del Collegio Cardinalizio – 6. Conclusione.

RiassuntoLo studio intende indagare il rap-

porto tra il Romano Pontefice e i Pa-triarchi cattolici orientali a partire dal-le norme del CCEO, comparandole inprima istanza con la legislazione ante-riore. Queste rivelano, grazie al guada-gno teologico del Vaticano II, una di-sciplina più adeguata sia riguardo allacomprensione del ruolo che i Patriarchirivestono in seno alla Chiesa Universa-le come tale, sia in specie riguardo allafunzione di unità propria dell’UfficioPetrino.

AbstractThe article studies the relationship

between the Roman Pontiff and the ori-ental Patriarchs from the perspective ofthe CCEO in comparison with previouslegislation. It reveals a more adequatediscipline, thanks to the theologicaldoctrine of the Vatican II, both with re-gard to the role of the Patriarchs in theuniversal Church and more especiallywith regard to the function of unity be-longing to the Petrine Office.

EPHEMERIDES IURIS CANONICI 53 (2013) 179-204

Parole chiave: Patriarchi, Chiese Orientali, Codex Canonum Ecclesiarum Orienta-lium.Keywords: Patriarchs, Eastern Churches, Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium.

1. Introduzione e profilo metodologico

Il Santo Padre Benedetto XVI, ricevendo il 14 aprile 2011 in Vati-cano il neoeletto Patriarca di Antiochia dei Maroniti S. B. BécharaPierre Raï, ebbe a dire: «l’Ecclesiastica communio che Le ho manifesta-to per lettera lo scorso 24 marzo [...] troverà la sua espressione più au-tentica nella Divina Liturgia dove verrà condiviso l’unico Corpo eSangue di Cristo»1. Questa affermazione del Papa rivela la natura es-senzialmente teologica del legame che unisce il Successore di Pietro aivari Patriarchi cattolici orientali2, vincolo che porta il nome di “co-munione ecclesiastica” e che possiede, come ricorda la “Nota explicati-va praevia” alla costituzione dogmatica sulla Chiesa3, una necessariadeterminazione giuridica.

Scopo del presente contribuito pertanto è quello di indagare la na-tura del legame tra il Romano Pontefice e i Patriarchi orientali catto-lici in prospettiva giuridico-canonica. Lo studio sarà condotto a parti-re dalla legislazione comune delle Chiese Orientali, il Codex CanonumEcclesiarum Orientalium4 del 1990 (=CCEO), senza però omettere unaccenno all’orizzonte teologico nel quale necessariamente si collocatale riflessione.

2. Breve excursus storico sull’istituzione patriarcale

Stante il limite intrinseco di questo studio, per comprendere in mo-do adeguato l’origine del rapporto tra il Romano Pontefice e i Patriar-chi cattolici, occorre premettere un sintetico e narrativo excursus sto-

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1 L’Osservatore Romano (15 aprile 2011) 2.2 I Patriarchi cattolici orientali sono sei, elencati secondo l’ordine di precedenza delle Sedi,così come stabilito nel can. 59 § 2 CCEO: il Patriarca di Alessandria dei Copti; il Patriarca diAntiochia dei Greco-Melkiti (che dal 1838 porta anche il titolo di Patriarca di Alessandriad’Egitto e di Gerusalemme dei Melchiti); il Patriarca di Antiochia dei Maroniti; il Patriarcadi Antiochia dei Siri; il Patriarca di Cilicia degli Armeni; il Patriarca di Babilonia dei Caldei.3 «Comunione è un concetto tenuto in grande onore nella Chiesa antica (ed anche oggi, spe-cialmente in Oriente). Per essa non si intende un certo vago sentimento, ma una realtà orga-nica, che richiede una forma giuridica e che è allo stesso tempo animata dalla carità» (n. 2).4 AAS 82 (1990) 1045-1363.

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rico. Il patriarcato infatti, inteso come forma di governo in Ecclesia, èuna istituzione molto antica, i cui più compiuti prodromi sono ravvi-sabili nel momento storico convenzionalmente detto “imperiale” nel-la storia delle istituzioni canoniche5. Nel IV secolo, infatti, l’assettoterritoriale organizzativo della Chiesa traeva diretta ispirazione dalladivisione amministrativa dell’Impero romano, con una certa corri-spondenza tra le provincie civili e quelle ecclesiastiche6. I vescovi del-le capitali provinciali (metropoli) erano chiamati “Metropoliti”, e adalcune di queste sedi la tradizione ne attribuiva la fondazione da partedi uno degli stessi Apostoli. Con il passare del tempo tali Metropolitiacquisirono diritti e prerogative notevolmente maggiori rispetto aiMetropoliti per così dire “non-apostolici”, assumendo un’importanzanotevolissima, tanto che «per i titolari delle tre Chiese di tradizioneapostolica di Roma, Alessandria ed Antiochia, già nel IV secolo, al-l’antica titolatura di Vescovo si sostituì il titolo di Patriarca»7.

La triarchia delle sedi “petrine” (Roma, Alessandria, Antiochia) siconsolidò nel tempo, facendo di queste tre sedi le “madri” giurisdizio-nali8 delle istituzioni ecclesiastiche delle quattro prefetture imperiali9:

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5 Per una puntuale e sintetica ricognizione storico-critica: D. CECCARELLI MOROLLI, «Patriar-ca», in Diccionario General de Derecho Cánonico, vol. V, ed. J. Otaduy – A. Viana – J. Sedano,Pamplona 2012, 963-967; B. KURTSCHEID, Historia iuris canonici. Historia institutorum. I. Ab Ec-clesiae fundatione usque ad Gratianum, Romae 1946, 120-124.6 P. G. CARON, «Patriarcati in Oriente. Diritto Canonico», in Novissimo Digesto Italiano, vol.XII, Roma 1964, 603. 7 F. SOLLAZZO, «I Patriarchi nel diritto canonico orientale e occidentale», in Incontro fra i ca-noni d’Oriente e d’Occidente. Atti del Congresso internazionale, vol. II, Bari 1994, 240. Continuapoi l’Autore: «la giurisdizione dei patriarchi delle tre chiese di tradizione petrina, ebbe origi-ne dalla trasformazione del diritto dei metropoliti delle tre città» infatti «la chiesa di Roma,dopo l’episcopato petrino di Antiochia, dal 44 al 48, aveva avuto come titolare l’apostolo Pie-tro. La chiesa di Alessandria era stata istituita dall’apostolo Pietro, in Roma. Il primo episco-po della chiesa di Alessandria, Marco, era stato consacrato episcopo e inviato da Pietro adAlessandria», F. SOLLAZZO, «I Patriarchi nel diritto canonico», 241.8 «Le prerogative giuridiche delle Chiese apostoliche passarono alla Chiese dei Patriarchi. Lestrutture apostoliche furono adattate alle istituzioni giuridiche dell’ecumene per farle coinci-dere con la costituzione giuridica del diritto romano», F. SOLLAZZO, «I Patriarchi nel dirittocanonico», 242.9 Istituite dall’imperatore Diocleziano già nel 293 d. C., le prefetture erano divise ciascuna indiocesi e ogni diocesi in province. Nell’Impero d’Oriente vi erano sette diocesi, mentre eranosei quelle nell’Impero d’Occidente.

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il canone 6 del Concilio di Nicea10 formalizzò la giurisdizione del Pa-triarca di Alessandria sulle province imperiali d’Egitto, Libia e Penta-poli e ribadì i consueti privilegi del Patriarca di Antiochia su Siria ePalestina. Il canone 7 inoltre modificò l’ordinamento triarchico in te-trarchico, e concesse al Patriarca di Gerusalemme (la romana AeliaCapitolina) una prerogativa d’onore11.

Successivamente, con l’attribuzione del titolo di Patriarca al Me-tropolita di Costantinopoli ad opera del Concilio di Calcedonia, la te-trarchia divenne pentarchia, anche se il canone 2812 fu approvato sen-za il consenso del Patriarca di Roma13.

La gerarchia di giurisdizione della pentarchia fu poi definitivamen-te incorporata nelle norme civili imperiali nel VI secolo14, diventando

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10 «Antiqui more serventur Aegypto, Lybia et Pentapoli, ut Alexandrinus Episcopus horumomnium habeant potestatem, quandoquidem et episcopo Romano, hoc est consuetum. Simi-liter et in Antiochia et in aliis provinciis sua privilegia ac suae dignitates et auctoritates ecle-siis serventur.». Testo in J. D. MANSI, Sacrorum Conciliorum Nova et Amplissima Collectio, vol.II, Florentiae 1759, coll. 670-671 (=MANSI).11 «Quoniam obtinuit consuetudo et antiqua traditio, ut qui est iin Aelia episcopus, honoretur:habeat honoris consequentiam, metropoli propria dignitate servata», MANSI, vol. II, col. 671.12 Esso attribuiva al titolare della sede di Costantinopoli il diritto di consacrare i Metropolitidei tre esarcati (province) di Tracia, Asia e Ponto, e la giurisdizione sulle loro circoscrizioniecclesiastiche.13 Già il Concilio di Costantinopoli del 381 (canone 3) aveva conferito al vescovo della città bi-zantina il privilegio d’onore, in quanto vescovo della sede dell’imperatore d’Oriente. Il Vescovo diRoma negò l’assetto pentarchico, riconoscendo solo l’istituzione dei patriarchi del canone 6 di Ni-cea, e quindi la struttura triarchia (Roma, Alessandria, Antiochia) come tipica di tutte le chiesedell’ecumene. Questa rottura fu tale che «il riconoscimento romano della triarchia dei patriarchie l’istituzione di fatto della pentarchia, introdusse nell’ordinamento delle chiese dell’ecumene ildualismo di istituzione e la diversità istituzionale», F. SOLLAZZO, «I Patriarchi nel diritto canoni-co», 245. È stato inoltre notato che «nel medesimo canone 28 di Calcedonia si vuole fondare ilprestigio di Roma su un dato puramente politico – l’essere Roma la capitale dell’Impero – e sullostesso dato politico si eguaglia il primato d’onore di Roma a quello di Costantinopoli, perché orala capitale dell’Impero è in Oriente. [...] Per questo il Vescovo di Roma rifiuta di avvallare il ca-none 28, difende l’idea della triarchia delle sedi episcopali d’origine petrina (Roma, Alessandria,Antiochia) e ribadisce che l’unico primato nella chiesa universale è quello di Roma», C. FANTAP-PIÈ, Storia del diritto canonico e delle istituzioni della Chiesa, Bologna 2011, 57.14 Nov.128,3; Nov.131. Quest’ultima – celeberrima – “civilizza” l’ordine gerarchico della pen-tarchia: «Sancimus igitur vicem legum obtinere sanctas ecclesiasticas regulas, quae a sanctisquattuor conciliis expositae sunt aut firmatae [...] Ideoque sancimus secundum earum defini-tiones sanctissimum senioris Romae papam primum esse omnium sacerdotum, beatissimumautem archiepiscopum Constantinopoleos Novae Romae secundum habere locum post sanc-tam apostolicam sedem senioris Romae, aliis autem omnibus sedibus praeponatur». Usiamoqui l’edizione del Corpus Iuris Civilis di R. SCHOELL – G. KROLL, Berolini 19597, 655.

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perciò la “struttura ecclesiastica” dell’unità visibile della Chiesa, fattasalva la supremazia del Vescovo di Roma che cominciò a palliarsi deltitolo di Patriarca d’Occidente15 e, contestualmente, a vedere ricono-sciuto il proprio primato in Occidente16. La chiesa di Roma divennepertanto «il modello di tutte le Chiese dell’ecumene», proprio perché«il diritto della triarchia dei patriarchi di Roma, Alessandria e Antio-chia nasceva dal fatto che la triarchia era titolare dell’unico episcopa-to di Pietro presente nelle chiese di Roma, Alessandria e Antiochia»17.La pentarchia invece divenne il modello patriarcale proprio dell’O-riente18.

Si attestarono quindi nell’ecumene due differenti tradizioni riguar-do all’istituzione patriarcale19, distinzioni che, inevitabilmente, porta-rono ad accesi ed aspri contrasti: nel 1204 il Vescovo di Roma, dive-nuto ormai il Romano Pontefice, soppresse il patriarcato di Costanti-nopoli nominando per la città un Patriarca latino; in seguito istituì deipatriarcati latini ad Alessandria, Antiochia e Gerusalemme, nel tenta-tivo di riproporre un’unità istituzionale latina (cioè di fede, di rito e dilingua) per tutta la Chiesa universale. Questo sforzo ebbe però vitabreve: già nel 1261 il Patriarca ecumenico di Costantinopoli ripristinòil canone 28 di Calcedonia, ricostituendo la pentarchia; in tal modo sigenerò, di fatto, un dualismo di giurisdizione in Oriente20 per cui una

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15 Il titolo di Patriarca d’Occidente attribuito al Romano Pontefice, durato ufficialmente finoal 2006, ha in sé una certa complessità a motivo delle sue implicazioni storiche, ecclesiologi-che ed ecumeniche. Per una panoramica generale, Y. M.-J. CONGAR, «Le Pape comme pa-triarche d’Occident. Approche d’une réalité trop négligeé», Istina 28 (1983) 374-390; A. GA-RUTI, «Patriarca de Occidente», in Diccionario General de Derecho Cánonico, vol. V, 967-971.Secondo una prospettiva maggiormente storica: A. GARUTI, Il Papa, Patriarca d’Occidente?Studio storico dottrinale, Bologna 1990; P. LOIACONO, «Il Pontefice Patriarca d’Occidente», inIncontro fra i canoni d’Oriente e d’Occidente, vol. II, 135-156. 16 R. SCHATZ, Il primato del papa. La sua storia dalle origini ai giorni nostri, Brescia 1996, 57-60;C. FANTAPPIÈ, Storia del diritto canonico, 60-66.17 F. SOLLAZZO, «I Patriarchi nel diritto canonico», 245.18 Sulla pentarchia nel IV secolo in Oriente si rimanda a J. GAUDAMET, L’Église dans l’EmpireRomain, Paris 1958, 389-396.19 V. PARLATO, L’ufficio patriarcale nelle Chiese orientali dal IV al X secolo. Contributo allo studiodella “communio”, Padova 1969, 1-70.20 La duplice giurisdizione latina e orientale è stata definitivamente ridotta nel 1964, con lasoppressione da parte di Paolo VI dei Patriarcati latini di Costantinopoli, Alessandria ed An-tiochia.

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stessa sede patriarcale aveva come titolari, sia un Patriarca di ritoorientale sia uno di rito latino.

A partire infine dallo scisma d’Oriente, si assistette alla nascita diun nuovo tipo di patriarcato nell’ordine ecclesiastico pentarchico: ilpatriarcato orientale “fedele a Roma”, cioè cattolico. A partire dal XVIsecolo, infatti, i successivi ritorni alla comunione con Roma diederoorigine al fenomeno detto “uniatismo”21: la caratteristica peculiare diquesti patriarcati era infatti l’unione dottrinale e disciplinare con ilRomano Pontefice, nel mantenimento però di una certa autonomia di-sciplinare22; questa si esprimeva nel rispetto dei propri riti tipici, nel-l’utilizzo in essi delle lingue nazionali, e nella conservazione della tra-dizioni spirituale in comune con le strutture ecclesiastiche delle Chie-se orientali ormai separate.

In conclusione di questo breve excursus, è possibile vedere come l’i-stituzione patriarcale abbia di fatto segnato la storia della Chiesa findai tempi apostolici, sviluppandosi in seguito in due tradizioni diffe-renti, ed in modo del tutto peculiare in Oriente23.

3. La legislazione anteriore al CCEO: il Motu proprio «Clerisanctitati» di Pio XII del 1957

«Nella Chiesa cattolica un diritto comune universale propriamen-te detto non è mai esistito, così come non si è mai avuto un diritto uni-

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21 La Commissione Internazionale per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica e le ChieseOrtodosse, con la Dichiarazione di Balamand del 23 giugno 1993, ha definito l’uniatismo co-me un metodo d’unione del tutto sorpassato. In questo senso T. KHOMYCH, «Eastern CatholicChurches and the Question of ‘Uniatism’: Problems of the Past, Challenges of the Present andHopes for the Future», Louvain Studies 31 (2006) 214-237.22 Furono accolte nella comunione con la Sede Romana le Chiese patriarcali Caldea di Babi-lonia il 20 aprile 1553 (definitivamente, dopo alterne rotture, nel 1830), Melkita di Alessan-dria nel 1724, Armena di Cilicia nel 1742, Sira di Antiochia nel 1783, Copta di Alessandrianel 1895. La Chiesa patriarcale Maronita fu sempre in piena comunione con Roma, fin dallasua fondazione in patriarcato nel VII secolo.23 In questo senso una conferma autorevole viene dalla stessa Congregazione per la Dottrinadella Fede, secondo la quale «va notato che in Occidente non si sviluppò quella struttura pa-triarcale che è tipica dell’Oriente»: CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, «NotaL’expression sull’espressione “Chiese sorelle”», 30 giugno 2000, Notitiae 36 (2000) 336-337,338-342 (testo italiano), n. 3.

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co comune a tutte le Chiese d’Oriente»24. Tuttavia nonostante questamancanza è possibile ravvedere nelle disposizioni dei primi due conci-li ecumenici di Nicea (325) e Costantinopoli (381) un fondo discipli-nare comune, accettato sia dalle Chiese d’Occidente che da quelled’Oriente; occorre anche poi tener in conto che Roma, di fatto, ac-cettò i concili particolari più importanti tenuti in Oriente fino a Cal-cedonia (451).

Con il passare dei secoli, oltre a questo spazio normativo in comu-ne per tutta la Chiesa universale, si crearono, come abbiamo visto, duedirettrici di diritto particolare: in Occidente quella formalizzata nelledecretali dei Romani Pontefici, in Oriente quella sviluppatasi a parti-re dalle disposizioni del Concilio Trullano25 (691). Anche i decreti diTrento ebbero un influsso nelle Chiese d’Oriente, influenzando i Si-nodi di Zamoš (1720)26, di Lviv/Leopoli (1891)27 e del Monte Libano(1736)28. Analogamente anche altre Chiese cattoliche orientali ebbe-ro i loro Sinodi che ne decretarono la riunione con Roma, finché tut-

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24 E. EID, «La Costituzione Apostolica “Sacri Canones”», in CONGREGAZIONE PER LE CHIESE

ORIENTALI, Ius Ecclesiarum Vehiculum Caritatis, Città del Vaticano 2004, 37-50, qui 39.25 MANSI, vol. XII, coll. 47-51. La dottrina è arrivata a qualificare tale corpus come un vero eproprio “codice”. Infatti «Nel VII secolo fu creato, attraverso un indice delle sue parti costi-tutive, il primo “Codice” autentico di diritto canonico in senso stretto. Queste parti costitu-tive del “Codice”, citate e confermate nel canone 2 del Concilio Trullano erano: gli 85 “Ca-noni degli Apostoli”, i canoni dei quattro Concili ecumenici antecedenti, i canoni dei settesinodi locali, e i canoni dei 12 Padri [...]. Parlando in termini moderni si può affermare che ilConcilio Trullano costituiva quindi un codice autentico, universale, uno e inalterabile», C. G.FÜRST, «Balsamon, il Graziano del diritto canonico bizantino?», in La cultura guridico-canoni-ca medioevale. Premesse per un dialogo ecumenico, ed. E. de Léon – N. A. de las Ásturias, Mila-no 2003, 233-248, qui 239-240.26 Edizione tipica latina ristampata: De Synodo Zamosciena Ruthenorum, habita anno 1720, Eiuscausae, celebratio, decreta de re theologico-sacramentali et approbatio, accurante S. SIAROK, Ro-mae 1937. Per il testo latino si veda anche MANSI, vol. XXXV, col. 1437-1538. Traduzionefrancese in C. DE CLERCQ, ed., Histoire des Conciles, tome XI première partie (1575-1849),Conciles des Orientaux catholique, 162-179. 27 Edizione tipica latina: Acta et decreta synodi provincialis Ruthenorum Galiciae habitae Leopolian. 1891, ab eodem P. Ciasca curata, Romae 1896. Traduzione francese in C. DE CLERCQ, ed.,Histoire des Conciles, tome XI deuxième partie (1850-1949), Conciles des Orientaux catholique,687-710.28 Synodus Provincialis a. 1736 in Monte Libano Celebrata, in Acta et Decreta Sacrorum Concilio-rum Recentiorum, Collectio Lacensis, vol. II, Friburgi-Brisgoviae 1876, coll. 75-478. Traduzionefrancese in C. DE CLERCQ, ed., Histoire des Conciles, t. XI, 223-270.

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te ebbero un diritto proprio, compendiato principalmente negli atti enei decreti dei loro Sinodi così come approvati dalla Sede Apostoli-ca29.

Agli inizi del XX secolo si fece tuttavia più pressante l’esigenza diuna legislazione comune alle Chiese orientali, dettata da motivi pa-storali, missionari ed ecumenici30. Pio XII (1939-1958) perciò promul-gò con quattro distinti motu proprio una disciplina orientale di tipo co-diciale, comune alle Chiese orientali cattoliche, lasciando al dirittoparticolare di ognuna «il compito di salvaguardare usi e costumi deltutto speciali»31.1) «Crebrae allatae»32 del 22 febbraio 1949 sul matrimonio;2) «Sollecitudinem Nostram»33 del 6 gennaio 1950 sui processi;3) «Postquam Apostolicis Litteris»34 del 9 febbraio 1952 sui religiosi, i

beni temporali, e il significato dei termini;4) «Cleri Sanctitati»35 (=CS) del 2 giugno 1957 sui riti e sulle perso-

ne.Il rapporto che intendiamo indagare è quindi disciplinato in que-

st’ultimo motu proprio; nello specifico sia nei canoni dedicati al Roma-no Pontefice (162-166), sia in quelli dedicati al Patriarca (216-314).Per il nostro studio risultano pertanto decisivi i canoni capitali su en-trambi gli uffici. Il canone 162, riprendendo la dottrina del Codicepiano-benedettino, specifica infatti:

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29 A titolo di esempio, il Sinodo Libanese dei Maroniti fu approvato da Benedetto XIV con ilBreve «Singularis Romanorum» del 1 settembre 1741 in BENEDICTI XIV Pont. Opt. Max. Ope-ra Omnia, Bullarium, tomus XV, Prati 1845, 100-104; mentre il Sinodo di Zamos fu approvatoda Benedetto XIII con la costituzione “Apostolatus officium” del 19 luglio 1724 in PONTIFICIA

COMMISSIONE PER LA REDAZIONE DEL CODICE DI DIRITTO CANONICO ORIENTALE, Fonti, fasc. IX:Discipline générale antique (IV-IX s.), ed. P.- P. Jannou, Roma 1962, serie I, 765.30 I. ŽUŽEK, «L’idée de Gasparri d’un Codex Ecclesiae Universae comme “point de départ” dela codification canonique orientale», L’Année Canonique 38 (1995-6) 53-74.31 A. G. CICOGNANI «Introduzione», in SACRA CONGREGAZIONE PER LA CHIESA ORIENTALE,Codificazione canonica orientale: fonti, serie I, fasc. VIII: Studi Storici, 2.32 AAS 41 (1949) 89-117.33 AAS 42 (1950) 5-120.34 AAS 44 (1952) 65-150.35 AAS 49 (1957) 433-603.

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§ 1. Romanus Pontifex, beati Petri in primatu Successor, habet non so-lum primatum honoris, sed supremam et plenam potestatem iurisdic-tionis in universam Ecclesiam [...] totum orbem diffusae pertinent.§ 2. Haec potestas est vere episcopalis, ordinaria et immediata tum inomnes et singulas ecclesias, tum in omnes et singulos pastores et fide-les, a nulla humana auctoritate dependens.

Mentre il canone 216 § 1:

Secundum antiquissimum Ecclesiae morem, singulari honore prose-quendi sunt Orientis Patriarchae, quippe qui amplissima potestate, aRomano Pontifice data seu agnita, suo cuique patriarchatui seu rituitamquam pater et caput praesunt.

Pertanto in CS rileva innanzitutto la differente origine delle due po-testà: la prima iure divino, in quanto non dipendente da alcuna autoritàumana; mentre la seconda, anche se di antichissima consuetudine e de-gna di singolare onore, del tutto iure humano e in posizione di subordi-nazione nei confronti di quella del Romano Pontefice, essendo in suadisponibilità concedere o riconoscere tale potere (potestas). Di fatto ilparagrafo 2 del c. 162 CS chiarisce la natura di tale riconoscimento, chesi realizza secondo una previsione legislativa di attribuzione. Infatti lapotestà propria del Patriarca risultava in CS giuridicamente determina-ta in ordine a quella del Romano Pontefice, e in specie secondo due di-rezioni proprie: ex parte originis in quanto subordinata al primato del suc-cessore del Beato Pietro36; ex parte iuris poiché il Patriarca eserciva la suapotestà come vescovo eparchiale37 cui i canoni38 conferivano amplissimagiurisdizione su tutto il territorio della propria Chiesa patriarcale.

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36 «En este documento [CS] veremos la comparaciòn de la potestad del Patriarca con la pote-stad del Romano Pontefice. Ésta vien directamente de Dios [...] como el poder del Patriarca odel Obispo proviene de la misiòn canònica», G. WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes delPatriarca», Cuadernos Doctorales 20 (2003-04) 277-344, qui 299.37 «Patriarcha in propria eparchia, itemque in iis locis patriarchatus ubi nec eparchiae necexarchiae patriarchales erectae sunt, servare debet praescriptum canonum de potestate, iuri-bus et obligationibus Episcoporum residentialium», CS, c. 282.38 «Nomine Patriarchae venit Episcopus cui canones tribuunt iurisdictionem in omnes Episco-pos, haud exceptis Metropolitis, clerum et populum alicuius territorii seu ritus, ad normam iu-ris, sub auctoritate Romani Pontificis, exercendam», CS c. 216 § 2

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Da questa breve ricognizione risulta allora una doppia subordinazio-ne della potestà patriarcale rispetto a quella pontificia: teologico-dot-trinale e giuridico-disciplinare. La prima radicata nel versante dogma-tico ed attestata dalle disposizioni conciliari e dal Magistero dellaChiesa; la seconda invece sul versante della prassi politico-giuridicasviluppatasi lungo la storia ecclesiastica39.

Le espressioni di CS «ad normam iuris», «sub auctoritate RomaniPontificis»40 e «ad normam iuris et salvo primatu Romani Pontificis»permettono di definire la natura del rapporto giuridico in esame, nel-la legislazione precedente il CCEO, come partecipativa-derivativa41.Infatti il Patriarca esercita una potestà veramente episcopale, però so-vrametropolitana: potestà che è concessa o riconosciuta dal PastoreSupremo della Chiesa42, e che, occorre specificare, «tiene lugar en elàmbito del derecho eclesiàstico»43.

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39 Infatti «entre los años 325 (la primera norma sobre los sedes principales y sus jerarcos) y1949 (primera codificaciòn para las Iglesias orientales) hubo una fuerte elaboraciòn canonicaa la vez que una pràctica del derecho en el conoscimento y en la vida eclesial. Sin embargo,el Patriarca, con sus competencias jurisdiccionales aunque conserva toda su especificidad, sehace màs dependiente de la Santa Sede», G. WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes del Pa-triarca», 299-300.40 Il can. 273 CS esplicita gli obblighi del Patriarca nei confronti della persona del RomanoPontefice, cui egli deve giurare «plenam obedientiam, fidelem subiectionem ac filialem vene-rationem» (§ 1).41 Non a caso il CS reca come titolo della pars I «De suprema potestate deque iis qui eiusdemsunt iure canonico participes»: in esso i Patriarchi sono infatti elencati come membri vi officii(c. 168 § 1, n. 2) del Concilio Ecumenico, titolare sub Petro et cum Petro della suprema pote-stà della Chiesa.42 CS, c. 216 § 1. La sottolineatura sulla potestà patriarcale del Romano Pontefice «data seuagnita» non è certo accessoria; infatti è interessante notare come, anche nei lavori di reda-zione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, sia stato sostenuto che «una tradizione,sebbene antica, non può essere valida nella Chiesa, senza il consenso almeno implicito del Ro-mano Pontefice, consenso che da se stesso è sufficiente», I. ŽUŽEK, «De Patriarchis et Archie-piscopis Maioribus», Nuntia 2 (1976) 36.43 G. WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes del Patriarca», 301. Significativa in questosenso ci pare la testimonianza di papa Gregorio Magno che già nel VII sec., in una lettera aiPatriarchi Eulogio di Alessandria e Anastasio di Antiochia, disse: «a voi spetta manteneresenza interruzione né partiti presi l’ordine ecclesiastico ricevuto [...] in modo che tutta la chie-sa vi riconosca come Patriarchi non solo grazie alle opere benefiche ma anche a motivo dellavostra autentica autorità», S. GREGORIUS MAGNUS, Epistula XLIII, in Patrologia Latina, 77, 774a-b (enfasi nostra).

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L’approfondimento teologico del Concilio Vaticano II intervenneinfine per chiarire in modo più adeguato un rapporto che in CS appa-riva formalizzato a guisa di incarico concesso dal Romano Pontefice alPatriarca; incarico che poteva prestarsi ad essere inteso come condi-zione di mera liceità d’esercizio di potestà di giurisdizione, per quantosingolare rispetto agli altri Vescovi Metropoliti. Questa modalità risul-tava infatti allo stesso tempo lontana dalla tradizione orientale, e nonpienamente conforme alla natura stessa della Chiesa44.

4. L’insegnamento del Vaticano II sulle Chiese cattolicheorientali

Si deve pertanto aspettare il guadagno teologico del Vaticano IIperché la realtà della Chiesa fosse intesa a partire dalla communio, ca-tegoria teologica che fu ritenuta la più appropriata per pensare la real-tà allo stesso tempo misterica, sacramentale e missionaria della Chie-sa che «in Christo veluti sacramentum seu signum et instrumentumintimae cum Deo unionis totiusque generis humanis unitatis»45. Lacommunio ecclesiale infatti è la proiezione esteriore della communio in-tratrinitaria tra le Divine Persone: oltre ad essere sorgente, essa è mo-dello e fine della Chiesa e perciò anche delle stesse istituzioni del go-verno ecclesiastico. Di conseguenza anche i rapporti fra i battezzati equelli fra le singole Chiese tra loro, in cui essi sono ontologicamenteinseriti mediante il Battesimo, sono rapporti di comunione46: la Chie-sa è pertanto sia communio fidelium sia communio Ecclesiarum.

In effetti, specifica il Concilio

Note sul rapporto giuridico-canonico tra il Romano Pontefice e i Patriarchi cattolici orientali

44 J. MCAREAVEY, «The Primacy of the Bishop of Rome: a Canonical Reflection in Responseto “Ut unum sint”», Studia Canonica 34 (2000) 119-154.45 SACROSANTUM CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Constitutio dogmatica de Eccle-sia «Lumen Gentium» [=LG], n. 1.46 La categoria teologica di communio venne qualificata dal Sinodo dei Vescovi come «ideacentrale e fondamentale nei documenti del Concilio», SYNODUS EPISCOPORUM, «Relazione fi-nale dell’Assemblea straordinaria “Ecclesia sub verbo Dei mysteria Christi celebrans pro salutemundi”» (7 dicembre 1985), in Enchiridion Vaticanum. IX, Bologna 1991, n. 1800. Sull’eccle-siologia di comunione si veda anche CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera«Communionis notio», 28 maggio 1992, AAS 85 (1993) 838-850.

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esistono legittimamente in seno alla comunione della Chiesa, le Chie-se particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro il prima-to della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universa-le di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò cheè particolare, non solo non pregiudichi l’unità, ma piuttosto la serva47.

Il tema della “varietà” delle Chiese particolari, e il loro rapporto conla Chiesa Universale, fu pertanto collocato dai Padri nel contesto dellacollegialità episcopale, che fu senza dubbio una delle questioni più di-battute di tutta l’assise. Al n. 23 della Lumen Gentium venne rivolto unosguardo alla necessaria unità fra la molteplicità delle Chiese particolari,e al rapporto di reciproca immanenza tra esse, mettendo in rilievo la di-mensione del ministero episcopale in ordine al bene di tutta la Chiesa,«corpo mistico che è pure corpo di Chiese (corpus Ecclesiarum)».

L’attenzione in questo senso era rivolta ad armonizzare il ruolo delRomano Pontefice con quello del Collegio Episcopale: nello specificosi cercò di comprendere meglio il suo rapporto con i vescovi a capo iu-re divino delle Chiese particolari: rapporto anch’esso di comunione,qualificata come hierarchica. Communio ecclesiarum e communio hirar-chica perciò si implicano a vicenda: nella comunione tra i Vescovi(cum et sub Petro) le Chiese particolari sono in comunione tra loro econ la Chiesa di Roma48; il Vescovo di questa, il Romano Pontefice, èperciò «il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità di fe-de e di comunione»49.

Il Concilio riscoprì dunque in una nuova prospettiva il rapporto trail Romano Pontefice e i Vescovi a capo di una Chiesa particolare. Inquesto senso tale riscoperta riguardò anche il rapporto tra il primo e iPatriarchi cattolici orientali50: l’ecclesiologia di comunione divenne

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47 LG, n. 13.48 P. GEFAELL, «L’ecclesiologia eucaristica e il primato del Vescovo di Roma», Folia Canonica1 (1998) 129-149.49 LG 18.50 SACROSANTUM CONCILIUM OECUMENICUM VATICANUM II, Decretum de Ecclesiis Orientali-bus Catholicis «Orientalium Ecclesiarum» [=OE], n. 9 a-b. Infatti in questo senso «la restau-raciòn y adaptaciòn de las competencias Patriarcales tiene que fundamentarse en dos factoresde suma importancia. El primero es la posiciòn actual de lo Patriarcas orientales catòlicos, tandistinta de la de los Patriarcas del primer milenio del cristianismo. [...] El segundo factor es lacolegialidad episcopal, specialmente la doctrina jurìdica y disciplinar sobre el episcopado», G.WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes del Patriarca», 317.

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così «il contesto teologico appropriato nel quale si inserisce l’istituzio-ne patriarcale»51.

Occorre però un’altra precisazione, in ordine alla natura della Chie-sa patriarcale, perché si corre il rischio di confondere i termini52. Si de-ve infatti specificare che quanto detto finora riguarda le Chiese parti-colari, il cui tyopos è la diocesi o l’eparchia: secondo questa prospetti-va la Chiesa patriarcale è un insieme (coetus) di Chiese particolari sul-le quali il Patriarca esercita la sua potestà sovrametropolitana. Egli èinfatti un Vescovo a capo di una Chiesa particolare (portio populi Dei),ed allo stesso tempo esercita congiuntamente al Sinodo dei Vescovidella Chiesa patriarcale53 la superiore potestà sull’intera Chiesa sui iu-

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51 D. SALACHAS, «Le novità del “Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium” a proposito delprimato romano», Folia Canonica 1 (1998) 106. Lo stesso Autore ha altrove sottolineato co-me quello del Concilio sia stato uno sforzo «tend à redoner aux patriarches avec leurs synodesune autonomie canonique interne, conforme et compatible avec la reconnaissance de l’auto-rité suprême de l’Église. Il ne s’agit pas d’autonomie absolue au sens d’indépendance vis-à-visde Rome [...]. Le problème est principalement ecclésiologique», D. SALACHAS, «Églises Ca-tholiques Orientales: leur autonomie dans la communion avec le Siège Apostolique de Ro-me», in Acta Symposii Internationalis circa Codicem Canonum Ecclesiarum Orientalium, Kaslik24-29 aprilis 1995, Kaslik 1996, 93-119, qui 101.52 È stato di fatto notato come «il Concilio Vaticano II usava nei suoi decreti la denomina-zione “Ecclesia Particularis” per designare la Diocesi, mentre contemporaneamente, nel de-creto Orientalium Ecclesiarum (n. 2) chiamava le Chiese orientali “Particulares Ecclesiae seuritus”, senza fare una chiara distinzione fra i due termini, anche se, praticamente, ha poi sem-pre usato il termine “Ecclesiae particulares”», H. HALWAN, «Rapporto fra il Codice dei Cano-ni per le Chiese Orientali e il Codice di Diritto Canonico per la Chiesa Latina», Iura Orien-talia 1 (2005) 103-121, qui 110. Si veda anche N. LODA, «Dal ritus alla Chiesa sui iuris. Sto-ria e problemi aperti (II parte)», Ephemerides Iuris Canonici 52 (2012) 337-383, specialmente337-346.53 CS dedicava ai sinodi l’intero titulus VIII (De Synodis patriarchalibus, archiepiscopalibus pro-vincialibus, plurium rituum vel plurium provinciarum). La “capitalità” del Patriarca sulla suaChiesa sui iuris, non è infatti assoluta, ma si attua attraverso il metodo della sinodalità, di cuiegli è il garante. Già il c. 34 degli Apostoli (IV sec.), pur non usando il termine “sinodo”, ri-conosce all’insieme di Vescovi di un’area territoriale (provincia) la competenza sulle decisio-ni comuni prese assieme al loro prwtoz senza pregiudizio della potestà propria e immediata diogni singolo Vescovo nella sua Chiesa particolare. Questo “modello” di governo ecclesiastico,che integra primazialità e sinodalità, è genuinamente al servizio del mistero dell’unità nellaChiesa di modo che «unanimitatis erit et glorificabitur Deus per Christum in Spiritu Sancto»,PONTIFICIA COMMISSIONE PER LA REDAZIONE DEL CODICE DI DIRITTO CANONICO ORIENTALE,Fonti, f. IX, tomo I, 2: Les canons des Synodes Particulers, 9-55, qui 24 [Per una traduzione ita-liana si veda D. SPADA – D. SALACHAS, ed., Costituzioni dei Santi Apostoli per mano di Clemen-te, Città del Vaticano 2001, 252]. I Padri del Concilio riconobbero perciò nella sinodalità l’e-lemento peculiare della struttura di governo ecclesiastica orientale (OE 9). Tuttavia «au sein

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ris, cioè rispetto a tutti gli altri Vescovi, ognuno a capo della propriaChiesa particolare ed i fedeli ascritti alla sua Chiesa sui iuris. Il Pa-triarca con il suo Sinodo costituisce perciò un’autorità che per così di-re autolimita la potestà propria ed ordinaria dei singoli Vescovi: auto-limitazione da intendersi tuttavia secondo l’autentico modello orien-tale di governo in Ecclesia54, cioè come reale garanzia della sinodalità equindi dell’unità nella communio di tutta la Chiesa sui iuris.

È possibile quindi sostenere che il rapporto tra la Chiesa Universa-le e le Chiese particolari, nel caso specifico delle Chiese patriarcali, ècertamente peculiare. Di fatto in esse la communio Ecclesiarum si attuasecondo due livelli, la cui individuazione è propriamente giuridica:quello particolare-eparchiale, e quello particolare-patriarcale. Il primoin ordine alla costituzione della Chiesa per diritto divino, il secondoinvece in ordine alla forma di governo ecclesiastico55, e perciò per di-ritto umano.

Specifica la Lumen Gentium:

Per divina Provvidenza è avvenuto che varie Chiese, in vari luoghi sta-bilite dagli apostoli e dai loro successori, durante i secoli, si sono costi-tuite in vari raggruppamenti (plures coetus), organicamente congiunti, iquali, salva restando l’unità della fede e l’unica costituzione divina della

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des differéntes Églises orientales, sourtout patriarcales, leurs propres structures ecclésiale et ca-nonique né répondent pas simplement à une exigence d’administration traditionnellementsynodale, mais sourtout à une exigence fondamentale de sauvegarder leur unité interne et lacommunion universelle», D. SALACHAS, «Églises Catholiques Orientales», 96.53 «L’autorité du patriarche, en tant que “premier”, est une vraie autorité, selon les anciens ca-nons conciliaires, mais dans un contexte nettamente synodal, et sans préjudice du pouvoir dechaque évêque dans son éparchie», D. SALACHAS, «Églises Catholiques Orientales», 103; M.D. BROGI, «Le Chiese sui iuris nel Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium», Revista Españolade Derecho Canonico 48 (1991) 517-544; S. PIÉ-NINOT, «La dimensione sinodale della missio-ne episcopale e le sue intrinseche esigenze. Un apporto dell’ecclesiologia per la canonisticacontemporanea», in Strutture sovraepiscopali nelle Chiese Orientali, ed. L. Sabbarese, Città delVaticano 2011, 13-25.54 Questa prospettiva è, senza ombra di dubbio, quella assunta dal Magistero della Chiesa.«Nella sua origine e struttura particolare, pertanto, essa [l’istituzione patriarcale] è d’istituzio-ne ecclesiastica. Appunto per questo il Concilio Ecumenico Vaticano II ha espresso il deside-rio che “dove sia necessario si erigano nuovi Patriarcati, la cui fondazione è riservata al Con-cilio Ecumenico o al Romano Pontefice”»: GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica post-sinodale «Pastores gregis», 16 ottobre 2003, AAS 96 (2004) 825-924, qui 906, n. 61.

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Chiesa universale, godono di una propria disciplina, di un proprio uso li-turgico, di un proprio patrimonio teologico e spirituale. Alcune fra esse,soprattutto le antiche Chiese Patriarcali, quasi matrici della fede (velutimatrices fidei), ne hanno generate altre a modo di figlie, colle quali re-stano fino ai nostri tempi legate da un più stretto vincolo di carità nel-la vita sacramentale e nel mutuo rispetto dei diritti e dei doveri56.

Il Concilio riconobbe allora la singolarità dell’istituzione Patriarca-le come forma di governo57 nella Chiesa, con implicito riferimento alleChiese Patriarcali orientali: esse infatti possiedono in modo eminenteun rito tipico, cioè un patrimonio liturgico, disciplinare e spirituale58.Ricorda il Concilio come «queste Chiese particolari [...] godono di pa-ri dignità, cosicché nessuna di loro prevale sulle altre per ragioni di ri-to» e quindi «tutti e singoli i cattolici [...] mantengano dovunque il lo-ro proprio rito, lo onorino e, in quanto è possibile, lo osservino»59.Venne perciò a cadere quella praestantia ritus latini in favore della ae-qualis praestantia omnium rituum, che costituì una pietra miliare in or-dine all’autocomprensione ecclesiologica (e perciò stessa canonica)della Chiesa universale quale communio Ecclesiarum60.

Occorre dunque infine chiedersi quale sia stato l’effettivo progressodel Vaticano II relativamente al tema in oggetto. A prima vista po-trebbe sembrare che il Patriarca eserciti, similmente alla concezione

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56 LG, n. 23d.57 Vi fu anche chi escluse l’origine apostolica dei Patriarchi e quindi il fondamento teologicoe giuridico dei loro diritti: W. DE WRIES, Rom und die Patriarchate des Ostens, Freiburg 1963,240-250 (citato da D. SALACHAS, Istituzioni di diritto canonico delle Chiese cattoliche orientali,Roma 1993, 137, nota 28).58 Per il complesso significato del termine “ritus” e lo sviluppo accorso nel suo utilizzo (voltospecialmente a marcare la differenza con la Chiesa latina) si veda lo studio di N. LODA, «Dalritus alla Chiesa sui iuris», Ephemerides Iuris Canonici 52 (2012) 173-210, 337-383.59 OE 3.60 Benedetto XIV fu il papa che formalizzò il principio della preastantia ritus latini nella cost.apost. Etsi pastoralis del 26 maggio 1742 e nell’enciclica Alletae sunt del 26 giugno 1755. Si do-vrà attendere il guadagno teologico del Concilio Vaticano II per ribadire definitivamente unnuovo status ecclesiologico e giuridico che significasse l’aequalis praestantia omnium rituum, ecioè lo status sui iuris delle Chiese Orientali in piena comunione con la Sede Apostolica. L.LORUSSO, «Il riconoscimento della pari dignità nella comunione cattolica: il decreto Orienta-lium Ecclesiarum e il Codice dei Canoni delle Chiese Orientali», Angelicum 83 (2006) 451-473; P. VALDRINI, «L’aequalis dignitas del Églises d’Orient ed d’Occident», in Acta Symposii In-ternationalis circa Codicem Canonum Ecclesiarum Orientalium, 51-68.

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sottesa in CS, una singolare ed originale potestas sovrametropolitanaratione fines et ritus61. L’indomani dell’assise conciliare infatti, vi furo-no alcuni che, in velata polemica con questa impostazione, sostenne-ro che «il patriarcato è subordinato al primato, ma non ne è l’emana-zione. È falso credere che l’autorità patriarcale non è legittima se nonnella misura in cui essa è una partecipazione delegata del primato ro-mano. Il patriarcato esiste da esso stesso e si esercita legittimamente incoordinazione gerarchica con il primato romano»62. Tuttavia pare anoi eccessiva questa affermazione, soprattutto alla luce della disciplinagiuridica dell’episcopato riscoperta dal Concilio. È pur vero infatti chela legislazione anteriore insisteva sulla subordinazione al primato qua-le condizione di legittimità d’esercizio della potestas63, e pertanto rela-tivamente a tutti i vescovi. Nondimeno l’obiezione relativa alla pre-sunta autonomia giuridica del Patriarca, il cui esercizio è da intender-si legittimo solo nel senso di una mera “coordinazione gerarchica”, pa-re a noi una forzatura passibile dello stesso formalismo positivistico chedenuncia. Intendere invece la potestà patriarcale come «partecipazionealla piena potestà papale»64, la cui radice essenziale è la sacramentali-tà dell’ordinazione episcopale realizzantesi nel contesto della commu-nio, è invece a nostro modesto avviso il modo più corretto di inten-derla. Ci pare inoltre sia anche questo lo sviluppo peculiare che il Va-ticano II ha permesso riguardo al rapporto in esame.

Resta quindi da capire come questa partecipazione si realizzi a li-vello giuridico-canonico, chiarimento reso possibile dall’opera di reda-zione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali del 1990.

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61 OE 7: «Col nome di Patriarca orientale si intende un vescovo, cui compete la giurisdizionesu tutti i vescovi, compresi i metropoliti, il clero e i fedeli del proprio territorio o rito, a nor-ma del diritto e salvo restando il primato del romano Pontefice». 62 N. EDELBY – I. DICK, Les Eglises orientales catholiques. Décret Orientalium Ecclesiarum, Paris1970, 316-317.63 Risulta quantomeno significativo il fatto che fons di LG 23 sia il Codex Iuris Canonici Orien-talis, in particolare CS ai cc. 216-314 (de Patriarchis); cc. 324-339 (de Archiepiscopus maioribus);cc. 326-391 (de aliis dignitariis in specia); cc. 238 § 3, 216, 240, 251, 255 (de Episcopis a Pa-triarcha nominandis).64 G. WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes del Patriarca», 304. Sulla potestà patriarcaleintesa come partecipatio iure canonico supremae ecclesiae auctoritatis insiste molto D. SALACHAS,«Lo status “sui iuris” delle Chiese Patriarcali nel diritto canonico orientale», Periodica 83(1994) 569-609. Perplessità riguardo all’affermazione di mons. Neophytos Edelby è espressaanche da A. GARUTI, Patriarca d’Occidente?, 71.

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5. La legislazione attuale: il CCEO del 1990

Per aggiornare la legislazione delle Chiese orientali agli insegna-menti del Vaticano II, Paolo VI istituì il 10 giugno 1972 la PontificiaCommissio Codex Iuris Canonici Orientalis Recognoscendo65 (= PCCI-COR) con il compito «di preparare, alla luce soprattutto dei decretidel Concilio Vaticano II, la riforma del Codex Iuris Canonici Orienta-lis»66, mantenendo però la genuina tradizione orientale67 in modo che«l’établissement d’un Code unique pour toutes les Eglises orientalescatholiques a sauvegardé tout de même le droit particulier de chaqueEglise sui iuris»68. I lavori della commissione approdarono alla promul-gazione del Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium69 da parte di Gio-vanni Paolo II nel 1990, entrato in vigore il 1 Ottobre 199170.

Il CCEO dedica l’intero titulus IV alle Chiese patriarcali, e dei Pa-triarchi specifica: «suae quisque Ecclesiae patriarchali tamquam pater

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65 L’Osservatore Romano (16 giugno 1972); Nuntia 1 (1975) 11. La notizia non fu pubblicatain AAS. La PCCICOR all’inizio contava un collegio di venticinque membri, in seguito dive-nuti trentotto, composto dai Patriarchi e da altri Presuli delle Chiese cattoliche orientali, ecardinali a capo di Dicasteri romani. Alla PCCICOR fu connesso un collegio di settanta con-sultori formato da Vescovi e presbiteri delle Chiese orientali, con l’aggiunta di chierici di ritolatino e laici orientali esperti nella disciplina canonica.66 Nuntia 1 (1973) 11. Di fatto sono molti gli elementi giuridici già presenti in OE: I. ŽUŽEK,«Animadversiones quaedam in Decretum de Ecclesiis Orientalibus Catholicis Concilii Vati-cani II», Periodica 55 (1966) 266-288.67 PAULUS VI, «Allocutio ad Membris Pontificiae Commissionis Codici Iuris Canonici Orien-talis recognoscendo, Romae plenarium coetum habentibus», AAS 66 (1974) 243-249.68 D. SALACHAS, «Autocephalie ou Autonomie des Eglises Orthodoxes et statu sui iuris desEglises Orientales Catholiques», in Incontro fra i canoni d’Oriente e d’Occidente, vol. I, 379. 69 Per una sintesi dell’elaborazione e pubblicazione del CCEO: E. EID, «Discorso alla presenta-zione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali al Sinodo dei Vescovi» (25 ottobre 1990),Nuntia 31 (1990) 24-34; G. NEDUNGATT, «Presentazione del CCEO», Enchiridion Vaticanum.XII. 890-914; M. D. BROGI, «Novità del Codice Orientale alla luce dei “principi direttivi”», inPONTIFICIO CONSIGLIO PER I TESTI LEGISLATIVI, Il Codice delle Chiese Orientali. La storia, le legis-lazioni particolari, le prospettive ecumeniche. Atti del Convegno di studio tenutosi nel XX anni-versario della promulgazione del Codice dei Canoni delle Chiese Orientali (Roma 8-9 ottobre2010), Città del Vaticano 2011, 120-155; J. FARIAS, «La storia della Codificazione Orientale»,in Il diritto canonico orientale nell’ordinamento ecclesiale, ed. K. Bharanikulangara, Città del Vati-cano 1995, 255-268; N. LODA, «Dal ritus alla Chiesa sui iuris», 195-210, 346-359.70 Durante il periodo finale della redazione del CCEO, furono esposte al coetus de expensioneobservationum alcune note riguardanti l’opportunità di associare i capi delle Chiese cattolicheorientali all’atto di promulgazione del Codex «afin de signifier que ce Code de Droit canoni-

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et caput praesunt». Tale espressione, carica di significato teologico,«non sembra apparire come un mero titolo [...] ma si tratta di una pa-ternità e una autorità che sono reali»71.

Il CCEO poi disciplina elezione, diritti e doveri del Patriarca neicanoni dal 56 al 101. Il canone 56 definisce il Patriarca come «Epi-scopus cui competit potestas in omnes Episcopos non exceptis Metro-politis ceterosque christifideles Ecclesiae, cui praeest, ad normam iurisa suprema Ecclesiae auctoritate approbati». Il valido esercizio della suapotestas episcopale e sovrametropolitana72 è circoscritto al territoriodel Patriarcato73; egli inoltre, come già ricordato dal Concilio74, eser-

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que [...] et qu’il n’est pas imposè par Rome»; ad esse però venne però risposto, a nostro avvi-so significativamente riguardo al tema in esame, che «l’atto di promulgazione del Codex nonpuò non essere esclusivamente un actus supremae Ecclesiae auctoritatis, dato che contiene lo iuscommune a tutte le Chiese orientali», Nuntia 28 (1989) 7.71 N. LODA, «La formula sicut pater et caput relativa al Patriarca nel c. 55 CCEO e le sue im-plicanze giuridiche», Folia Canonica 5 (2002) 107-124. L’autore precisa inoltre che il Patriar-ca «non è certo un amministratore, non è un prefetto, né un presidente o direttore generaledella sua Chiesa, non è un manager dell’impresa ecclesiastica ma è Sacerdote, Re e Profeta cheha come sua missione l’annuncio del messaggio di salvezza (Mc 16,15-16) in quanto Vescovosecondo la sua modalità di essere tamquam pater et caput», N. LODA, «La formula sicut pater etcaput relativa al Patriarca nel c. 55 CCEO», 119.72 Il can 78 § 1 CCEO sottolinea come la potestà del Patriarca sia propria, in quanto annessaal suo ufficio, e talmente personale che egli non può costituire un Vicario per l’intera Chiesapatriarcale o delegare la sua potestà a qualcuno per la totalità dei casi.73 «Potestas Patriarchae exerceri valide potest intra fines territorii Ecclesiae patriarchalis tan-tum, nisi aliter ex natura rei aut iure communi vel particulari a Romano Pontifice approbatoconstat» (can. 78 § 2 CCEO). Dunque la potestà del Patriarca è allo stesso tempo personalee territoriale, cioè entro i confini del territorio della Chiesa patriarcale è esercitata sui fedeliascritti alla stessa Chiesa. È stato osservato come questo canone abbia «ovviamente un signi-ficato molto ampio ed è di capitale importanza per affermare l’uguaglianza delle chiese sui iu-ris (OE 3), e perché è stato concepito sul fondamento di quanto spetta de iure ad ogni Chiesapatriarcale, pur con la consapevolezza delle situazioni de facto, che differiscono da paese a pae-se e che sono di per sé contingenti», Nuntia 22 (1986) 106. Lo stesso paragrafo 2 del can. 78contiene un’eccezione alla clausola irritante, la cui previsione iure commune si riferisce il vi-gore delle leggi liturgiche promulgate dal Patriarca (can. 150 § 2); mentre quella iure particu-lare «potrebbe permettere in avvenire il valido esercizio in casi specifici e ad tempus della po-testà dei Patriarchi orientali sui loro fedeli ovunque dimoranti, assicurando nello stesso tem-po il bene e l’ordine nella Chiesa universale», D. SALACHAS, «Lo status “sui iuris” delle Chie-se Patriarcali», 589. Lo stesso Giovanni Paolo II fece espressamente riferimento a questo ca-none, e all’eventuale ius speciale «a Romano Pontifice approbato», in occasione dell’allocu-zione per la presentazione del CCEO al Sinodo dei Vescovi il 26 ottobre 1990, L’OsservatoreRomano (27 ottobre 1990).74 OE 9.

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cita questa sua giurisdizione assieme al Sinodo dei Vescovi della Chie-sa Patriarcale, con cui costituisce la superiore autorità di governo del-l’intera Chiesa Patriarcale sui iuris. Il Patriarca dunque «ni gobierna ensu Iglesia con podestad primacial» tuttavia «ni es meramente un pri-mus inter pares»75.

Passiamo ora alle novità contenute nel CCEO rispetto a CS, in spe-cie riguardo al rapporto che stiamo indagando.

5.1 Communio ecclesiastica et hierarchica

Durante i lavori di redazione del Codice apparve subito come talequestione dovesse venire adeguatamente formulata alla luce dei prin-cipi conciliari sopra richiamati76.

Un primo, decisivo tema riguardava l’evoluzione circa l’origine del-la potestà patriarcale, aggiornando il c. 216 § 1 CS. Il riferimentoesplicito alla concessione o al riconoscimento da parte del RomanoPontefice di questa forma di governo fu pertanto omesso, mantenendoinalterata la clausola secondo cui al Patriarca compete una giurisdizio-ne «ad normam iuris et salvo primatu Romani Pontificis»77. Il testo delcanone 55 del CCEO afferma:

Secundum antiquissimam Ecclesiae traditionem iam a primis ConciliisOecumenicis agnitam viget in Ecclesia institutio patriarchalis; quaresingulari honore prosequendi sunt Ecclesiarum orientalium Patriar-chae, qui suae quisque Ecclesiae patriarchali tamquam pater et caputpraesunt.

Note sul rapporto giuridico-canonico tra il Romano Pontefice e i Patriarchi cattolici orientali

75 G. WOJCIECHOWSKI, «Los derechos y deberes del Patriarca», 322. 76 Infatti «si attendeva che la Santa Sede chiarisse in cosa consistesse l’autonomia delle Chie-se Orientali e prevvedesse a coordinarla con l’esercizio da parte del Romano Pontefice dei suoidiritti-doveri primaziali e con le esigenze dell’unità della Chiesa Cattolica; in particolare, oc-correva coordinare la facoltà delle Chiese patriarcali di nominare i propri vescovi con le af-fermazioni ribadite dal medesimo Concilio sulla necessità che la missione canonica provengadal Romano Pontefice. [...] Ci si chiedeva quali fossero i diritti dei Patriarchi che dovevanoessere ripristinati [...] e quale sia il contenuto giuridico dell’espressione “pater et caput” riferitaai singoli Patriarchi», M. D. BROGI, «Novità del Codice Orientale», 122.77 OE 7.

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La redazione del canone sottolinea perciò come l’istituzione pa-triarcale «non è data per esplicita concessione del Romano Pontefice(come poteva far intendere equivocamente CS al c. 216 § 1) bensì èuna istituzione sancita dai concili ecumenici antichi, quindi tacita-mente riconosciuta dai Pontefici»78.

Anche le norme circa l’elezione dei Patriarchi79 (cann. 63-77CCEO) rispondono a questo adeguamento: al Romano Pontefice spet-ta un intervento nel caso in cui siano trascorsi quindici giorni dall’a-pertura canonica del Sinodo e questo non sia pervenuto all’elezionedel Patriarca80; intervento che alcuni commentatori intendono nelsenso di Sede Romana moderante81. Il canone 76 § 1 CCEO stabiliscepoi che il Sinodo dei Vescovi della Chiesa Patriarcale debba informa-re al più presto il Romano Pontefice dell’elezione e dell’intronizzazio-ne canonicamente compiute del Patriarca, della sua professione di fe-de e della promessa di adempiere fedelmente il suo ufficio, mentre il §2 fa obbligo al neoeletto di postulare la comunione ecclesiastica «perlitteras manu propria subscriptas», cui il Romano Pontefice suole ri-spondere con pronuncia accoglitiva82.

In CS invece, anche se il c. 236 prescriveva già tale postulazione, lamancata confirmatione del Romano Pontefice costituiva espressa clau-sola invalidante l’esercizio della potestà patriarcale83; la sua soppres-

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78 D. SALACHAS, «Le novità del Codex», 119-120.79 Per un commento sull’elezione del Patriarca: D. SALACHAS, «Lo status “sui iuris” delle Chie-se Patriarcali » 578-585. Si veda anche il commento dello stesso Autore ai canoni 63-77 in Com-mento al Codice dei Canoni delle Chiese Orientali, ed. P. V. Pinto, Città del Vaticano 2001, 77-88.80 Can. 72 § 2 CCEO.81 D. SALACHAS, «Le novità del Codex», 121. Tale funzione sarebbe da intendersi appuntoperché «il Romano Pontefice è il garante del funzionamento della vita sinodale delle Chieseorientali, e vigila affinché tale funzionamento sia a norma del diritto e per il bene dei fedeli el’unità della Chiesa Patriarcale», ivi. In uno schema precedente, il can. 66 non escludeva il di-ritto della Sede Apostolica di intervenire nel Sinodo di elezione del Patriarca, Nuntia 19(1984) 26. Ma i consultori e il coetus competente ritennero la menzione superflua, a motivodella richiesta da parte del Patriarca della comunione ecclesiastica, e salvaguardando così il di-ritto della Chiesa Patriarcale di eleggere il suo capo, Nuntia 22 (1986) 48-49.82 L. KOVALENKO, «“Communio ecclesiastica” del Patriarca con il Romano Pontefice: questionie dubbi», in Ius Ecclesiarum Vehiculum Caritatis, 783-790.83 «Patriarchae ad normam can. 235, §3, n. 1 electo, qui quavis ex causa electionis notitiam ha-buerit, ante obtentam a Summo Pontifice electionis confirmationem, nullo modo licet sese, elec-tionis praetextu, immiscere officii patriarchalis administrationi, sive in spiritualibus sive in tem-poralibus et actus ab eo forte ante praedictam confirmationem positi, nulli sunt», c. 283 § 3 CS.

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sione dipende dal fatto che l’impulso elettivo non proviene da unaconcessione del Pontefice, ma è radicato nella specifica autonomia digoverno delle Chiese sui iuris, intimamente correlata alla communiohierarchica con il Capo della Chiesa universale.

Ulteriore garanzia di questo vincolo di comunione tra la Chiesa pa-triarcale, di cui il Patriarca è il rappresentante (can. 79), e l’Ufficio pe-trino, si esprime nel dovere del primo di notificare ai Vescovi epar-chiali gli atti del Romano Pontefice che riguardano la propria Chiesa(can. 81).

Uno specifico contenuto della comunione tra essi è poi menziona-to nel can. 92, in cui particolarmente degno di nota è il dovere del Pa-triarca di manifestarla «per fidelitatem, venerationem et oboedien-tiam, quae debentur supremo universae Ecclesiae Pastori» (§ 1). Inol-tre è suo obbligo la commemorazione del nome del Romano Ponteficenella Divina Liturgia e nelle lodi divine (§ 2) in segno di piena co-munione sua e di tutta la sua Chiesa con il Pastore Supremo dellaChiesa universale84.

Egli deve compiere la visita ad limina apostolorum entro un annodalla sua elezione, in osservanza dell’obbligo – di speciale rilievo – dimantenere un rapporto frequente con il Romano Pontefice, inviandoanche, secondo norme speciali, la periodica relazione sullo stato dellaChiesa patriarcale che presiede (§ 3).

5.2 La “questione” del pallio

Il canone 77 CCEO modifica in parte la clausola ad validitatem delc. 238 § 3 CS, che vietava al Patriarca legittimamente eletto e intro-nizzato di convocare il Sinodo dei Vescovi e di ordinare Vescovi primadi ricevere solennemente «in Consistorio confirmatione et palliumplenitudinis officii pontificalis insigne». Infatti il pallium è l’insegna li-turgica della potestà, che nella chiesa latina è conferita ai vescovi Me-

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84 L’omessa commemorazione del Romano Pontefice da parte del Patriarca potrebbe invero co-stituire un delitto, secondo la previsione della fattispecie di cui al can. 1438 CCEO, la cui pe-na, in assenza di ravvedimento, può peraltro essere la scomunica maggiore. È questo anche uncaso che configura la riserva assoluta di giudizio propria del Romano Pontefice (can. 1060 § 1CCEO).

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tropoliti85; la sua postulazione, così come prescritta nel CS (c. 236 §1)86, era quindi giustificata proprio perché la potestà patriarcale era in-tesa ancora implicitamente come vincolata a quella pontificia per mo-dum concessionis, quasi fosse delegata o vicaria87. Ecco perché la que-stione del pallio è significativa per comprendere in modo più appro-priato il rapporto in esame: infatti, secondo la genuina tradizione orien-tale, il pallio (omophorion) è un paramento che viene indossato nelle li-turgie pontificali come prerogativa di tutti i vescovi, siano essi titolari omeno di potestà metropolitana88. CS tuttavia imponeva ai Patriarchi eagli Arcivescovi metropoliti orientali (c. 322)89 la petizione del palliumlatino al Romano Pontefice, alla stessa stregua dei Metropoliti dellaChiesa latina: un chiaro esempio di praestantia ritus latini.

Papa Paolo VI, con il motu proprio “Inter Eximia” dell’11 maggio197890, limitò perciò l’uso del pallium ai solo Metropoliti «pro univer-

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85 Nella tradizione latina già dalla metà del XI secolo «i papi riformatori cominciarono ad esi-gere che i nuovi Arcivescovi venissero personalmente a ricevere il pallio, e poco a poco, essilegarono a quella solenne consegna la prestazione di un giuramento di obbedienza. [...] Si af-fermò definitivamente l’antica concezione romana, già presente nella tarda epoca carolingia,secondo cui dal possesso del pallio dipendeva l’esercizio dei diritti di consacrazione proprio delvescovo metropolitano», F. KEMPF, «Il cambiamento interno dell’Occidente cristiano durantela riforma gregoriana», in Storia della Chiesa, vol. IV, ed. H. Jedin, Milano 1992, 549-610, qui554. Il Codice piano-benedettino prescriveva ai Metropoliti la petizione del pallio entro tremesi dalla consacrazione o provvisione (c. 275), facendo così dipendere il lecito esercizio del-la potestà di giurisdizione metropolitana (c. 276) dall’imposizione di esso. Il CIC del 1983 in-vece, pur mantenendo il dovere di petizione, fa cadere l’equivoca concezione che sia il pos-sesso del pallio ad attribuire l’esercizio di tale potestà (can. 437 § 1).86 «§ 1. Novus Patriarcha de electione canonica ad Romanum Pontificem referre debet, addi-tis documentis, propria manu subscriptis, de emissa, iuxta probatas formulas, coram Synodo,professione fidei deque iureiurando fidelitatis praestito, simulque ab eodem expostulare eccle-siasticam communionem et pallium, quod est plenitudinis officii pontificalis insigne».87 Vale la pena osservare che quando lo schema definitivo dei canoni fu mandato nel 1989 aiconsultori, sorse una discussione sulla concessione del pallio al Patriarca. La controversia diper sé non atteneva al diritto dei Patriarchi di indossare il pallio, ma sul loro obbligo di ri-chiederlo al Romano Pontefice alla stregua dei Metropoliti della Chiesa latina, Nuntia 28(1989) 33-34.88 M. NIN, «omophorion», in Dizionario Enciclopedico dell’Oriente cristiano, ed. E. G. Farrugia,Roma 2000, 542.89 «Pallium quod Romanus Pontifex alicui sedi episcopali in perpetuum, vel alicui Episcopoconfert honoris causa, nec iurisdictionem nec titulus archiepiscopalem vel metropolitanum se-cumfert, nisi in Apostolicis Litteris aliud caveatur».90 AAS 70 (1978) 441-442.

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sa Ecclesia latina» e, coerentemente con l’insegnamento conciliare sulrispetto della tradizione rituale orientale, abrogò per le Chiese orien-tali il c. 322 di CS, pur rimanendo in vigore l’obbligo in capo ai Pa-triarchi di richiedere il pallium al Romano Pontefice, secondo la previ-sione del c. 238 § 3 CS.

Il CCEO infine abrogò quest’obbligo (can. 6, 1°), perché la potestàpatriarcale e arcivescovile maggiore è sovrametropolitana e dipende daquella pontificia, come abbiamo visto, per modum participationis iure ca-nonico91 e non già per concessione. Ecco perché l’obbligo di petizioneè fatto salvo per il solo Metropolita a capo di una Chiesa Metropolita-na sui iuris92, perché per quest’ultimo il pallium è «signum suae pote-statis metropolitanae atque plenae communionis Ecclesiae metropoli-tanae sui iuris cum Romano Pontifice» (can. 156 § 2 CCEO); e diver-samente dai Metropoliti latini, a quest’ultimo il Romano Pontefice im-pone un omophorion.

5.3 I Patriarchi orientali membri del Collegio Cardinalizio

Il Codex Iuris Canonici del 1983 (= CIC) ai canoni 349-359 disci-plina il collegium dei Cardinali di Santa Romana Chiesa. Ad esso com-pete il peculiare dovere d’elezione del Romano Pontefice; i cardinaliinoltre lo assistono «in cura cotidiana universae Ecclesiae», «sive col-legialiter agendo [...] sive ut singuli, scilicet variis officiis»93. I padriCardinali infatti «obligatione tenentur cum Romano Pontifice sedulocooperandi»94, e sono scelti liberamente dal papa tra «viri, saltem inordine presbyteratus constituti, doctrina, moribus, pietate necnon re-rum agendarum prudentia egregie praestantes»95. Il canone 350 descri-

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91 «Chiunque nelle Chiese orientali ha una potestà sovraepiscopale e sovralocale – come i Pa-triarchi e i Sinodi dei Vescovi delle Chiese patriarcali – partecipa della suprema autorità che ilSuccessore di Pietro ha su tutta la Chiesa, ed esercita questa sua potestà nel rispetto, oltre chedel Primato del Romano Pontefice, anche dell’ufficio dei singoli Vescovi, senza invadere ilcampo della loro competenza e senza limitare il libero esercizio delle funzioni loro proprie»,Pastores gregis, n. 61.92 D. CECCARELLI MOROLLI, «La figura del metropolita sui iuris tra storia e realtà codiciale», inStrutture sovraepiscopali nelle Chiese Orientali, 75-88, specialmente 80-83.93 Can. 349 CIC.94 Can. 356 CIC.95 Can. 351 § 1 CIC.

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ve poi la divisone del sacro collegium in tre ordini: episcopale, presbi-terale e diaconale. Al primo sono ascritti i cardinali titolari delle setteChiese suburbicarie di Roma e i «Patriarchae orientales qui in Cardi-nalium Collegium relati sunt» (§ 1).

I Patriarchi orientali possono quindi essere membri del collegio nel-l’ordine dei cardinali vescovi ma, a differenza di tutti gli altri cardinalicui è assegnato dal Romano Pontefice un titolo o una diaconia nel-l’Urbe96, mantengono il titolo della loro rispettiva Sede patriarcale97, enon lo sommano a quello di una diocesi suburbicaria98. Questa previ-sione normativa del Codex latino appare pienamente coerente con ilguadagno ecclesiologico del Vaticano II ed il relativo sviluppo delladottrina canonica: infatti il mantenimento del titolo della Chiesa pa-triarcale esprime in modo significativo l’importanza ed il ruolo che essihanno assunto in seno alla gerarchia della Chiesa universale. Un ruolodi rilievo sia rispetto alla loro compartecipazione nell’elezione del Ro-mano Pontefice, sia riguardo il governo della Chiesa Universale99.

Un’ultima precisazione occorre sia fatta sulla questione della prece-denza d’onore100 che non fu mai, specialmente per gli Orientali, una

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96 Cf. can. 350 §2 CIC. I Patriarchi orientali «si imbatterono nel collegio cardinalizio solo apartire dal secondo millennio in contesti diversi», M. MIELE, «I Patriarchi orientali nel colle-gio cardinalizio», in Incontro dei canoni d’Oriente e d’Occidente, vol. II, 253-271, qui 255.97 Cf. can. 350 § 3 CIC.98 PAULUS VI, m. p. «Ad Porpuratorum Patrum», 11 febbraio 1965, AAS 57 (1965) 295-296.Con questo motu proprio fu stabilito che i Patriarchi orientali cooptati nel Collegio apparte-nessero all’ordine episcopale dello stesso, mantenendo il titolo «suam patriarchalem sedem»,ed estendendo siffatte norme ai Patriarchi orientali già ascritti, i quali pertanto «ammisso ti-tulo in Urbe, ex ordine Presbyterali ad ordinem Episcopalem ipso iure transferuntur». Primadi questa norma infatti i Patriarchi cardinali assumevano il titolo di una qualche chiesa ro-mana, venendo così ascritti pienamente al clero dell’Urbe; in tal modo la loro “tipicità” orien-tale era quantomeno sottostimata.99 L’art. 57 § 1 della costituzione Apostolica «Pastor bonus» (28 giugno 1988) prevede che iPatriarchi, anche non cardinali, siano membri vi officii della Congregazione per le ChieseOrientali. I Patriarchi cardinali inoltre sono nominati dal Romano Pontefice membri di variDicasteri e Tribunali della Curia Romana. 100 È molto significativo il fatto che il Codice piano-benedettino menzioni i Patriarchi (e nonsolo orientali) unicamente in riferimento ai Padri Cardinali, ed unicamente per una questio-ne di precedenza, risolvendola peraltro a favore dei primi: «Praeter alia privilegia quae in hocCodice suis in titulis enumerantur, Cardinales omnes a sua promotione in Consistorio facul-tate gaudent [...] praecedendi omnibus Praelatis etiam Patriarchis, imo ipsis Legatis Pontificiis»(c. 239 § 1-21°).

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questione secondaria. È stato osservato che «l’immediata propinquitàdei cardinali alla persona del Romano Pontefice sta a raffigurare, pla-sticamente, l’immediato rapporto derivativo intercorrente tra pontificiapotestas e munus cardinalizio»101; questa affermazione pare a noi nonessere pienamente adatta né alla fattispecie di un Patriarca orientalenon cardinale e nemmeno a un Patriarca orientale ascritto al Sacrocollegio102. Questo perché, come abbiamo visto, la natura del rapportotra il Romano Pontefice e i Patriarchi orientali (anche se non cardi-nali) è propriamente partecipativa, e non meramente derivativa, comeinvece nel caso tra il primo e i cardinali: essi sono infatti, a norma delcan. 351 § 1, «vir libere seliguntur a Romano Pontifice».

6. Conclusione

L’Annuario Pontificio dal 2006 non riporta più, tra i titoli del Ro-mano Pontefice, quello di Patriarca d’Occidente, che competeva da al-meno dieci secoli al Vescovo di Roma103. Questo dato può essere rile-

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101 M. MIELE, «I Patriarchi orientali nel collegio cardinalizio», 261.102 Attualmente solo un Patriarca orientale “titolare” è membro del Sacro Collegio: S. B. Em.Béchara Boutros Raï di Antiochia dei Maroniti. I cardinali Antonios Naguib (Alessandria deiCopti), Ignace Moussa I Daoud (Antiochia dei Siri), Nasrallah Boutros Sfeir (Antiochia deiMaroniti) ed Emmanuel III Delly (Babilonia dei Caldei) sono infatti Patriarchi emeriti. Cardi-nali sono anche gli Arcivescovi Maggiori: George Alencherry dei Siro-Malabaresi, Lucian Mu-resan dei Greco-Cattolici Rumeni, Baselios Cleemis Thottunkal di Trivandrum dei Siro-Ma-lankaresi e Ljubomyr Huzar emerito dei Greco-Cattolici Ucraini. Gli Arcivescovi Maggioricardinali, a differenza dei Patriarchi, sono ascritti all’ordine dei Presbiteri o dei Diaconi, pur es-sendo anch’essi membri della Congregazione per le Chiese Orientali in forza del loro ufficio.103 PONTIFICIA COMMISSIONE PER LA PROMOZIONE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI, «Comunicato cir-ca la soppressione del titolo di Patriarca d’Occidente dall’Annuario Pontificio», Bollettino dellaSala Stampa della Santa Sede 142 (22 marzo 2006). Per uno studio storico critico sul titolo pa-triarcale del Romano Pontefice rimandiamo a N. ÁLVAREZ DE LAS ASTURIAS, «“Patriarca deOccidente”. Razones históricas para la renuncia a un título», Revista Espanola de Teología 66(2006) 431-463. Nel suo studio il prof. Álvarez sostiene che è evidente una «dificultad para en-contrar en todo el primer milenio una conciencia de autoridad patriarcal en los Papas, que ejer-cían sobre todos su función primacial, si bien es cierto que con mayor intensidad sobre Occi-dente», 461. A simili conclusioni, ma a partire da un prospettiva teologica, perviene l’ortodos-so Stavrou, secondo il quale «à la verité, qu’ on le veuille ou non, Rome n’a jamais eu vraimentcon science de constituer un patriarcat, au sens que ce term avait dans le système pentarchi-que. [...] Un droit patriarcal comme tel ne s’est jamais développé à Rome tandis que croissaient

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vante per significare lo sviluppo avvenuto riguardo all’istituzione pa-triarcale ed al suo ruolo all’interno della Chiesa Universale.

Come è stato brevemente esposto, la riflessione ecclesiologica haportato, come è nella natura del diritto canonico, ad una legislazionepiù aderente sia al dato teologico sia alle necessità disciplinari, pasto-rali e missionarie del Popolo di Dio. Anche l’essenziale tensione ecu-menica ha influenzato questa riscoperta del ministero patriarcale, so-prattutto in ordine al suo rapporto con quello petrino.

Crediamo tuttavia che un dato fondamentale sia imprescindibile, aldi là delle attuali e pur legittime pretese non strettamente giuridiche:è merito della codificazione canonica orientale l’aver chiarito ed ap-profondito in modo organico – seppur non esaustivo – le modalità nel-le quali si attua il rapporto giuridico tra il Romano Pontefice e i Pa-triarchi delle Chiese cattoliche orientali.

Esso risponde essenzialmente al menzionato principi di unità e va-rietà in seno alla Chiesa Cattolica, di modo che entrambe le istituzio-ni, seppur nella diversità della loro origine e nel rispettivo esercizio mi-nisteriale, promuovano e salvaguardino questo principio; come è statoacutamente notato infatti «just as the ministry of unity is recognized asproper to the Petrin See, so too the ministry of catholicity is rightly as-signed as proper to the Patriarchal Sees having care of the particularChurches that have reached ecclesial maturity and full canonical au-tonomy»104.

Ecco che il ministero petrino dell’unità e i ministeri patriarcali del-la cattolicità cooperano entrambi al bene dell’unica Chiesa di Cristo,affinché essa, secondo la sua indole ad un tempo apostolica e cattoli-ca, possa essere agli occhi di tutti e di ciascuno sacramento universaledi salvezza.

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les aspirations de l’évêque de Rome à une juridiction universelle»; infatti «la primauté univer-selle suffisait au Siège Romain, mais il tenait à afirmer son caractére unique, excluant touteanalogie», A. STAVROU, «L’abandon par Rome du concept de “patriarcat d’Occident” augure-t-il un meilleur exercice de la primauté universelle?», Istina 51 (2006) 19-23, qui 21. Per unariflessione sulle implicazioni teologiche ed ecumeniche si rimanda anche a A. GARUTI, Patriar-ca d’Occidente? Storia e attualità, Bologna 2007, specialmente 21-43, e a M. DYMYD, «Les enjeuxde l’abandon du titre de “patriarche d’Occident”», Istina 51 (2006) 24-32.104 G. NEDUNGATT, «The Patriarchal ministry in the Church of the Third Millennium», TheJurist 61 (2001) 1-89, qui 75.

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