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PREMESSA Il contratto di lavoro quale manifestazione dell’autonomia privata,e quindi di autoregolamentazione degli interessi delle parti , ha una sua peculiare rilevanza all’interno della disciplina per la sua attitudine creativa,modificativa ed estintiva del rapporto . Anche nel contratto di lavoro riveste particolare importanza il principio dell’ autonomia individuale,nel concetto di libertà delle parti di addivenire alla stipulazione di qualsiasi contratto,purché diretto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela . E’ comunque fatto noto la centralità dell’incontro di volontà delle parti nell’esercizio dell’autonomia contrattuale delle stesse . E’ altresì chiaro che,la posizione delle parti nel contratto di lavoro non è quella tipica del contatto in genere che, pur creando normalmente una delimitazione alla sfera di libertà e vincoli di comportamento ,postula pur sempre una posizione di parità tra le parti contraenti. Nel contratto di lavoro, infatti, il vincolo obbligatorio che viene a costituirsi tra le parti assoggetta istituzionalmente il lavoratore alle iniziative dell’altra parte alla quale è dovuta obbedienza, fedeltà, disciplina , in definitiva cioè, subordinazione di libertà che legittima gli atti dispositivi del datore di lavoro . Traendo spunto da questa peculiare caratteristica della prestazione di lavoro subordinato si è dubitato da taluno che lo strumento contrattuale possa ritenersi adeguato alla concreta posizione delle parti nel rapporto di lavoro ; pur riconoscendo l’innegabile valore delle motivazioni di questa opinione, peraltro, non può non ritenersi che il contratto costituisca tuttora lo schema più idoneo, sul piano della certezza, a descrivere compiutamente il rapporto che si instaura tra imprenditore e lavoratore . La proiezione contrattuale del rapporto di lavoro non impedisce, infatti, che il principio di uguaglianza delle parti nel rapporto obbligatorio debba subire particolari adattamenti in rapporto al contratto di lavoro, in considerazione, soprattutto, della peculiare posizione delle parti nei confronti dell’eventuale esercizio del potere di recesso unilaterale del contratto, a norma dell’art.2118 c.c. E’ soprattutto in relazione a questo aspetto che,seppure comune a tutti i contratti di durata, presenta pregnante rilievo nel contratto di lavoro, in considerazione delle sue profonde implicazioni sociali, che si è imposta l’urgenza di adeguare l’astratto principio di uguaglianza alla concreta realtà,rimarcandosi come,ancorché inserita in un contesto contrattuale, la posizione delle parti non si trova più in una situazione di parità. e ciò nella linea di tendenza a favorire il lavoratore che sostanzialmente si sarebbe trovato in posizione deteriore rispetto alla supremazia gerarchica cui è soggetto nell’impresa . La più attenta dottrina, del resto, già da tempo aveva chiarito come anche se l’uguaglianza giuridica dei soggetti del contratto costituisce presupposto della qualificazione contrattuale , ciò non esclude che in molteplici rapporti si possa peraltro configurare una situazione di disuguaglianza sostanziale,tra le parti contraenti, il cui superamento, mediante eventuali interventi legislativi, non incide peraltro sull’essenza contrattuale del rapporto. Nel rapporto di lavoro,come si è già accennato, alla originaria esigenza di mantenere ad entrambe le parti la libertà di recedere dal contratto si è sostituita l’altra di realizzare, sul piano sostanziale, il rispetto dei valori della persona umana . Principio generale del diritto del lavoro è la tutela del contraente economicamente più debole nel contratto individuale di lavoro . La tutela della effettiva libertà ed uguaglianza delle parti è formalizzata dall’art.3 della Costituzione il cui principio guida, che impone al legislatore di “ rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale “ per dare alle parti “ pari dignità sociale”,

PREMESSA Il contratto di lavoro quale manifestazione dell’autonomia privata,e quindi di autoregolamentazione

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PREMESSA Il contratto di lavoro quale manifestazione dell’autonomia privata,e quindi di autoregolamentazione degli interessi delle parti , ha una sua peculiare rilevanza all’interno della disciplina per la sua attitudine creativa,modificativa ed estintiva del rapporto . Anche nel contratto di lavoro riveste particolare importanza il principio dell’ autonomia individuale,nel concetto di libertà delle parti di addivenire alla stipulazione di qualsiasi contratto,purché diretto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela . E’ comunque fatto noto la centralità dell’incontro di volontà delle parti nell’esercizio dell’autonomia contrattuale delle stesse . E’ altresì chiaro che,la posizione delle parti nel contratto di lavoro non è quella tipica del contatto in genere che, pur creando normalmente una delimitazione alla sfera di libertà e vincoli di comportamento ,postula pur sempre una posizione di parità tra le parti contraenti. Nel contratto di lavoro, infatti, il vincolo obbligatorio che viene a costituirsi tra le parti assoggetta istituzionalmente il lavoratore alle iniziative dell’altra parte alla quale è dovuta obbedienza, fedeltà, disciplina , in definitiva cioè, subordinazione di libertà che legittima gli atti dispositivi del datore di lavoro . Traendo spunto da questa peculiare caratteristica della prestazione di lavoro subordinato si è dubitato da taluno che lo strumento contrattuale possa ritenersi adeguato alla concreta posizione delle parti nel rapporto di lavoro ; pur riconoscendo l’innegabile valore delle motivazioni di questa opinione, peraltro, non può non ritenersi che il contratto costituisca tuttora lo schema più idoneo, sul piano della certezza, a descrivere compiutamente il rapporto che si instaura tra imprenditore e lavoratore . La proiezione contrattuale del rapporto di lavoro non impedisce, infatti, che il principio di uguaglianza delle parti nel rapporto obbligatorio debba subire particolari adattamenti in rapporto al contratto di lavoro, in considerazione, soprattutto, della peculiare posizione delle parti nei confronti dell’eventuale esercizio del potere di recesso unilaterale del contratto, a norma dell’art.2118 c.c. E’ soprattutto in relazione a questo aspetto che,seppure comune a tutti i contratti di durata, presenta pregnante rilievo nel contratto di lavoro, in considerazione delle sue profonde implicazioni sociali, che si è imposta l’urgenza di adeguare l’astratto principio di uguaglianza alla concreta realtà,rimarcandosi come,ancorché inserita in un contesto contrattuale, la posizione delle parti non si trova più in una situazione di parità. e ciò nella linea di tendenza a favorire il lavoratore che sostanzialmente si sarebbe trovato in posizione deteriore rispetto alla supremazia gerarchica cui è soggetto nell’impresa . La più attenta dottrina, del resto, già da tempo aveva chiarito come anche se l’uguaglianza giuridica dei soggetti del contratto costituisce presupposto della qualificazione contrattuale , ciò non esclude che in molteplici rapporti si possa peraltro configurare una situazione di disuguaglianza sostanziale,tra le parti contraenti, il cui superamento, mediante eventuali interventi legislativi, non incide peraltro sull’essenza contrattuale del rapporto. Nel rapporto di lavoro,come si è già accennato, alla originaria esigenza di mantenere ad entrambe le parti la libertà di recedere dal contratto si è sostituita l’altra di realizzare, sul piano sostanziale, il rispetto dei valori della persona umana . Principio generale del diritto del lavoro è la tutela del contraente economicamente più debole nel contratto individuale di lavoro . La tutela della effettiva libertà ed uguaglianza delle parti è formalizzata dall’art.3 della Costituzione il cui principio guida, che impone al legislatore di “ rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale “ per dare alle parti “ pari dignità sociale”,

costituisce in effetti lo spirito del diritto del lavoro . Altre nome costituzionali pongono al centro la questione del lavoratore,considerato come contraente debole,basti vedere gli artt. 4,36,38. Ma, indipendentemente dai ricordati principi costituzionali, la situazione di debolezza contrattuale del prestatore di lavoro ha trovato ulteriore riconoscimento, sul piano normativo, nel disposto dell’ art. 2113 c.c. . Secondo il disposto legislativo il lavoratore può liberamente rinunciare ai diritti pattuiti con il datore di lavoro nel proprio contratto individuale, purché tali diritti non derivino da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi. Tuttavia non sempre il lavoratore è a conoscenza di queste disposizioni inderogabili; in questo senso la legge interviene a sua tutela prevedendo che, qualora ciò avvenga, il lavoratore possa impugnare l’atto di rinuncia.Ciò tuttavia è possibile, ai sensi dell’art. 2113 c.c. e a pena di decadenza, proponendone impugnazione entro sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, se la sottoscrizione è avvenuta in costanza di rapporto, o entro sei mesi dalla sottoscrizione, se successiva alla risoluzione del rapporto di lavoro.Tale impugnazione può essere effettuata con qualsiasi mezzo e senza l’uso di formule specifiche, dovendo semplicemente contenere un’esplicita manifestazione della volontà di revocare il consenso prestato alla rinuncia del proprio diritto. La dichiarazione rilasciata dal lavoratore, che dà atto di aver ricevuto una determinata somma a totale soddisfacimento di ogni sua spettanza e di non aver null’altro a pretendere dal proprio datore di lavoro, viene chiamata “quietanza a saldo” o “liberatoria”.La stessa costituisce una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti.Tale dichiarazione, risolvendosi in un giudizio soggettivo, concreta una mera dichiarazione di scienza priva di ogni efficacia negoziale e non preclusiva, in caso di errore, della possibilità di agire per il riconoscimento dei diritti che successivamente risultino insoddisfatti. La quietanza a saldo può assumere il valore di rinuncia o transazione, con l’onere per il lavoratore di impugnare nei termini di cui all’art. 2113 c.c. , unicamente alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili altrimenti, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di rinunciarvi o di transigere sui medesimi . E’ ben vero che la protezione così accordata può essere vanificata dall’inerzia del prestatore di lavoro che può far decorrere inutilmente il termine di sei mesi previsto dal citato at. 2113 c.c., ma in tal caso la perdita dei diritti si verifica per la incorsa decadenza della relativa impugnazione . In sostanza, quindi, la c.d. tutela coattiva del lavoratore si realizza sul piano generale, per la necessità, sentita dal legislatore, di impedire la dismissione dei diritti del prestatore di lavoro, incidendo sulla sua stessa volontà . Su un piano più generale, poi, la tutela del contraente più debole è stata realizzata soprattutto con la normativa di garanzia del posto di lavoro attuata con la legge 15 luglio 1966 n. 604 e con l’art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300 che ha eliminato, almeno in parte e nei limiti di applicabilità delle norme anzidette, quella posizione di disuguaglianza lasciata aperta dall’art. 2118 c.c. Il principio di conservazione del contratto ha consentito di sviluppare un'ulteriore tutela del contraente più debole allorquando, in presenza di una impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta a cause specifiche ed obbiettive,si è prevista appunto la sospensione del rapporto. Il principio della sostituzione di diritto delle clausole difformi del contratto individuale, già previsto nella norma generale dell'art.2077 c.c. E ribadito nella norma speciale dell' art.7 della legge 14 luglio 1959,n.741, trova anch'esso la sua ratio nel quadro della normativa di tutela del lavoratore quale contraente più debole. Vi è, d'altro canto, da ricordare l'importanza della c.d. Legislazione sociale,la cui continua evoluzione testimonia l'attenzione e lo spazio riservato dal legislatore in materia, al fine di assicurare la necessaria protezione a favore di determinati soggetti che troverebbero altrimenti in posizione di disequilibrio. Non può infine non rilevarsi, anche in risposta all'opinione di chi dubita che le norme di tutela del

contraente più debole siano tali da rimuovere la disparità di fatto tra datore di lavoro e lavoratore, la incisiva e conclusiva importanza che rivestono alcuni recenti interventi normativi, quali il divieto di discriminazione di cui all'art. 15 dello Statuto dei lavoratori e le altre norme di tutela della libertà e della personalità del lavoratore ivi contenute, nonché la particolare protezione accordata sul piano sostanziale (dagli artt. 2751 bis ss. c.c. , così sostituiti dalla legge 29 luglio 1975, n. 426) e procedurale ( dagli artt. 423, 429 e 431 legge 11 agosto 1973, n. 533) dei crediti, e il divieto, infine, di discriminazione per ragioni di sesso (legge 9 dicembre 1977, n.903): norme tutte incentrate sulla tutela del Favor lavoratoris . Tuttavia la realizzazione completa del rapporto lavorativo trova il suo efficace completamento in occasione dello svolgimento di patologie che affliggono il sistema. Il concetto di processo del lavoro si instaura in questo contesto di tutela fra il contraente debole e il datore di lavoro, onde evitare gli abusi del contraente forte in costanza di rapporto senza possibilità da parte del lavoratore di poter reagire. Il nostro ordinamento ha sempre riconosciuto alle controversie in materia di lavoro una disciplina a se stante. La legge 295/1893 aveva istituito un "collegio di probiviri" x la risoluzione delle vertenze fra datori e lavoratori nelle imprese industriali. I collegi dei probiviri erano organi paritetici, i cui componenti erano nominati dagli industriali e dagli operai. Con l'avvento del regime fascista le commissioni paritetiche furono abolite e le controversie ritornarono di competenza del giudice ordinario. La l. 3 aprile 1926 n. 563 istituì la magistratura del lavoro (composta da 3 magistrati + 2 cittadini) competente su tutte le controversie relative alla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro: essa decideva: - sia sull'applicazione dei contratti collettivi, - sia sulle richieste di nuove condizioni di lavoro. Con il r. d. 26.2.28 n. 471 sono soppressi i collegi probivirali, disponendosi che siano di competenza del Pretore o del Tribunale,le controversie già devolute ai precedenti organismi,con ciò riportando all'autorità giudiziaria ordinaria le relative vertenze e, infine, ogni altra controversia individuale derivante da rapporti soggetti a contr. coll. di lav. Un periodo di involuzione si ebbe col vigente c.p.c. del 1942 in cui vennero alla luce i difetti del rito del lavoro che venne disciplinato secondo le norme del processo comune. Con il codice civile del 1942 si conclude il processo di tipizzazione del rapporto di lavoro subordinato e della relativa disciplina speciale. Alla subordinazione è affidata la funzione di contraddistinguere il rapporto tipico oggetto della disciplina speciale di quel diritto. In particolare è subordinata, ex art 2094 c.c., la prestazione che si svolge nell'organizzazione del datore di lavoro alle dipendenze e sotto la direzione dello stesso. In quest'articolo il codice disciplina un rapporto che a caratteristiche anomale data la posizione di supremazia di una della parti. La subordinazione deve consentire non solo la precisa delimitazione della fattispecie tipica rispetto ad altre, aventi pure ad oggetto attività in senso lato lavorativa, ma anche la riconduzione ad essa dello specifico rapporto da qualificare. Proprio per questo si mira a accertare la natura qualificata ella subordinazione. In questo ambito rientra l'antica distinzione romana tra: - locatio operarum: aveva come oggetto un'attività lavorativa in quanto tale, avulsa dal risultato perseguito dal creditore con estraneità del debitore rispetto al rischio del risultato. (attività del lavoro) - locatio operis: specifico risultato di lavoro, consistente nel compimento di un'opera o di un servizio, con conseguente rischio a carico del debitore. (risultato del lavoro) la sentenza n. 115\94 della cassazione pronuncia che neanche la legge può definire una prestazione di lavoro subordinata o autonoma. È incostituzionale la legge che dispone del tipo e qualifica il rapporto. Il soggetto che può determinare la natura è il giudice operando ex post sui fatti. Nel modello ideale di subordinazione esistono sempre determinate caratteristiche peculiari dette INDICI DI SUBORDINAZIONE. Questi indici sono stati enucleati dalla giurisprudenza rispetto alla figura prevalente del lavoratore subordinato. Il modello ideale prevede l'insieme di tutti questi indici che sono: 1) l'inserzione del lavoratore nell'organizzazione predisposta dal datore di lavoro 2) la sottoposizione alle attività direttive tecniche, al controllo e al potere disciplinare dell'imprenditore 3) l'esclusività della dipendenza da un solo datore 4) le modalità di retribuzione 5) il vincolo dell'orario lavorativo 6) l'assenza di rischio d'impresa 7) l'alterità dei mezzi (i mezzi di produzione non sono suoi) l'operazione di

qualificazione può solo consistere in un giudizio di approssimazione della fattispecie (metodo tipologico), che sta nella riconduzione al tipo legale delle Il rapporto di lavoro subordinato Diritto del lavoro situazioni concrete in cui è presente la parte maggiore o comunque più significativa delle caratteristiche riscontrabili nel modello socialmente prevalente di lavoratore subordinato visto dal legislatore. Il giudizio di approssimazione comporta si stabilire se, malgrado l'assenza di taluni indici della subordinazione, l'assetto di interessi sotteso al rapporto da qualificare sia da ritenersi + vicino a quello espresso dal tipo di lavoro subordinato piuttosto che ad altri tipi. In questo caso fanno molta leva i poteri del datore di lavoro come quello di controllo. Le difficoltà di qualificazione del rapporto hanno favorito l'inserimento tra gli indici, il criterio del NOMEN IURIS eventualmente attribuito dalle parti al rapporto. Come detto dalla cassazione ai fini della qualificazione non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti giacché il principio secondo cui ai fini della distinzione in questione è necessario aver riguardato l'effettivo contenuto del rapporto stesso indipendentemente dal nomen iuris. CAPITOLO PRIMO La ricerca di una corsia preferenziale per i procedimenti aventi ad oggetto i licenziamenti è una costante dei progetti di riforma del processo del lavoro1, da quando il modello processuale varato nel 1973 si è trasformato, nell’ultimo ventennio, nell’esatto contrario di un processo immediato e concentrato. L’idea d’efficienza sottesa alla differenziazione della tutela introdotta tra accese discussioni dalla l. 11.8.1973, n. 533, era stata concepita nella logica che una tutela processuale che funziona giovi essenzialmente a coloro i cui diritti, se violati, abbisognano dell’intervento del giudice, e all’opposto che il processo che non funziona avvantaggi chi è portatore di una posizione di potere che si realizza da sé2. E questo tanto più se i diritti suddetti hanno, come di frequente accade nella materia del lavoro, incidenza sull’esistenza delle persone e – pure questo accade di frequente - contenuto e funzione non patrimoniale di rango costituzionale. L’efficienza del processo veniva cioè considerata quale strumento di effettività dei diritti3. Se,da un lato, la L. 604/'66 “segnò una prima, significativa svolta con il riconoscere nel Giudice monocratico non soltanto un organo idoneo a gestire controversie anche di notevole valore economico, ma anche il più adeguato a compiere le complesse e delicate indagini sulla sussistenza della giusta causa o giustificato motivo del recesso”, svolta che il successivo Statuto dei lavoratori confermò, attribuendo al Pretore la gestione di quel “ nuovo ed estremamente incisivo strumento di intervento nella vita aziendale” offerto dall'art.284,dall'altro, alcuni fattori resero in quegli anni ormai indilazionabile l'avvento di una riforma delle controversie individuali di lavoro. Tra questi motivi va segnalata la durata abnorme raggiunta dal processo del lavoro. Infatti, il procedimento di primo grado durava mediamente tre anni: “ove si consideri che le controversie di lavoro, nella loro larghissima maggioranza, hanno ad oggetto situazioni sostanziali caratterizzate da un alto grado di deteriorabilità ed irreversibilità e comunque per le quali la rapidità del processo è elemento essenziale per la loro effettiva tutela “5, è facile capire perchè fosse necessario intervenire per ridurre i tempi del giudizio.

1 Ci si riferisce all’elaborato della Commissione Foglia per la riforma del processo del lavoro di cui al D.M. 8 novembre 2006. Per un parallelo tra la riforma e l’elaborato della Commissione Foglia, cfr. G.BENASSI,La riforma del mercato del lavoro: modifiche processuali, in Lav. Giur.,2012,8-9,749 ss. 2 Questa e le pagine successive sono tributarie, anche sul piano testuale, di de Angelis, 2012b 3 Cfr. per tutti Proto Pisani, 1973, 206 ss., anche in Id., 1976, 66 ss 4 MONTESANO-VACCARELLA,Manuale di diritto processuale del lavoro, III ed. Napoli, 1996,6. 5 PROTO PISANI,voce Lavoro,controversie individuali in materia di.., in Novissimo dir. it., App., 1983,623.

In questa prospettiva, tuttavia, si deve porre in evidenza che non si trattava solo di disciplinare un processo rapido quanto, piuttosto, di situare sul piano tecnico-procedurale la convinzione che “le controversie del lavoro sono normalmente caratterizzate dalla disuguaglianza economica e sociale delle parti,che si riflette sullo svolgimento del processo, nel senso che la parte economicamente e socialmente più debole (la quale normalmente sarà il lavoratore), in quanto dotata di minori capacità di resistenza e attesa, subisce dalla lunghezza del processo danni gravissimi, spesso irreparabili (giacché il diritto ad una esistenza libera e dignitosa non è bene riparabile per equivalente), e comunque maggiori della parte socialmente ed economicamente più forte ( la quale normalmente sarà il datore di lavoro) che, invece, è di regola avvantaggiata dalla durata del processo”6. Infatti la lunghezza del processo, in sostanza, giovava in maniera duplice per il datore di lavoro, in un processo lungo era più probabile che il lavoratore fosse indotto a transazioni inique e, in una situazione di inflazione permanente, il datore di lavoro eventualmente condannato poteva pagare in moneta svalutata la somma spettante al lavoratore. Per questo, la riforma attuata con la L. 11.8.1973 n. 533 ha, tra l'altro, introdotto istituti volti a disincentivare l'interesse della parte più forte alla durata del processo. Si pensi ai meccanismi di cui agli artt. 429,terzo comma ( sulla rivalutazione dei crediti di lavoro), 431, primo e secondo comma ( sulla provvisoria esecutività della sentenza di primo grado - anzi già del dispositivo - di condanna a favore del lavoratore). Infatti, il titolo IV del libro II C.P.C. è stato sostituito dalla L. n. 533 la quale ha, da un lato, sostituito, dall'altro, abrogato le norme contenute negli articoli da 409 a 473 c.p.c.. la riforma del 1973, di conseguenza alla percezione di come la situazione di disuguaglianza economica si riflette nel processo, introduce dei meccanismi diretti a disincentivare l’interesse delle parte economicamente e socialmente più forte alla durata del processo7. Considerata sotto questo aspetto la riforma del processo del lavoro rappresenta un grosso salto qualitativo nella storia della giustizia del lavoro in Italia; è doveroso però sottolineare che questa riforma non è un punto d'arrivo ma solo un momento di un processo “riformatore” complessivo della giustizia del lavoro8.

6 PROTO PISANI, op.cit., 675. Nello stesso senso, R. GRECO, L’esperienza decennale del processo del lavoro di fronte ai problemi degli anni ottanta, in AA.VV. , Il processo del Lavoro, op.cit.,48. Sull’intento essenzialmente sostanzialistico del Legislatore del ’73, intenzionato ad attuare una riforma che potesse recepire le peculiarità degli interessi e delle posizioni proprie delle parti del rapporto sostanziale cfr. SANDULLI, La Legge sul nuovo processo del lavoro ( profili di diritto sostanziale), in Dir. Soc., 1974,319. Nello stesso senso cfr. PROTO PISANI, Tutela giurisdizionale differenziata e nuovo processo del lavoro, in Foro it., 1973, I, 205; SMURAGLIA, Interventi legislativi nel settore del lavoro dalla L.n. 604 alla riforma del processo del lavoro e ruolo del sindacato, ivi, 341; GHERA, Interessi collettivi e processo del lavoro, ivi, 353; SIMONESCHI, La riforma della disciplina delle controversie individuali di lavoro nel testo approvato dal Senato, in Foro it., 1973, V, 129; NAPOLETANO, primi orientamenti interpretativi del nuovo processo del lavoro, Napoli, 1973; A. MARTONE, Sul progetto di riforma del processo del lavoro, in dir. Lav., 1971, I, 306; CAPPELLETTI, Una procedura nuova per una nuova “giustizia del lavoro”, in riv. Giur. Lav.,1971, I , 283; NAPOLI, Alcuni aspetti sostanziali della prevista riforma del processo del lavoro, in Riv. Giur. Lav.,1971,I,343. 7 Il legislatore del 1973 ha avvertito che la disciplina di un processo genericamente rapido non basta, poiché il datore di lavoro riuscirà sempre a trovare norme da utilizzare a scopo dilatorio o defatigatorio della controparte; e di conseguenza ha cercato di colpire il problema alla radice, introducendo strumenti idonei a rimuovere l’interesse del datore di lavoro alla durata del processo e quindi ad eliminare gli effetti dannosi che derivano dagli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini. Questi meccanismi di disincentivazione (è nota anche la loro funzione preventiva ed intimidatrice) sono, fondamentalmente, tre: 1) l’automatica rivalutazione del credito di lavoro, indipendentemente dalle prove di danni ulteriori, attraverso la tecnica della sua indicizzazione e per tempo da quando il credito stesso si è maturato (art.429, 3° comma c.p.c.): id est, l’integrale ripristino della situazione attiva del lavoratore proprio quale sarebbe stata se l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento non ci fosse stato; 2) la possibilità per il giudice di disporre con ordinanza il pagamento delle somme non contestate (art.423, 1°comma c.p.c.), che vanifica per il datore di lavoro la possibilità di utilizzare il processo allo scopo di fiaccare le capacità di resistenza del lavoratore onde indurlo ad accettare transazioni inique; 3) la provvisoria esecutività ope legis della sentenza di primo grado favorevole al lavoratore, che privi il datore di lavoro della possibilità di utilizzare il grado d’appello a scopo defatigatorio. 8 Il primo passo è da ravvisare nella previsione del procedimento di repressione della condotta antisindacale disciplinato dall’art.28 L.20 maggio 1970, n.300, ed i cui necessari passi successivi dovranno essere oltre alla riconduzione del P.I. nell’alveo di una giurisdizione effettiva sul rapporto, soprattutto la predisposizione di procedimenti sommari tipici (e non subordinati ad alcuna valutazione di periculum) a tutela di situazioni di vantaggio del lavoratore (quali il diritto alla conservazione del posto di lavoro contro i licenziamenti o trasferimenti illegittimi, il diritto alla salute, in genere tutte le situazioni soggettive a contenuto non patrimoniale, ecc.) che, in quanto necessitano di forme urgenti di tutela che prevengano (o quanto meno impediscano immediatamente la continuazione del) la violazione, non possono essere tutelate adeguatamente attraverso il ricorso al solo

Il limite maggiore che presenta la riforma del 1973 è dato dal fatto che il nuovo processo del lavoro è riuscito a fornire una tutela giurisdizionale adeguata unicamente a quella situazione di vantaggio del lavoratore a contenuto e funzione prevalentemente patrimoniale, che possono essere tutelate adeguatamente attraverso una tecnica di tutela che intervenga dopo che la violazione è stata già preparata; non si presta, invece, a fornire una tutela giurisdizionale adeguata a tutte quelle situazioni soggettive del lavoratore a contenuto e/o funzione prevalentemente o esclusivamente non patrimoniale, quali sono tutte o quasi quelle situazioni soggettive previste dai primi tre titoli della legge n.300/70, che, considerata la loro natura, necessitano di forme di tutela urgente che prevengano o intervengano nell'immediatezza della violazione impedendone immediatamente la continuazione. Per colmare questa lacuna si è continuato ad utilizzare il procedimento ex art.28 L.300/70 e in molte ipotesi in cui questo procedimento non è applicabile, si continua a fare ricorso a quella forma atipica e insufficiente di tutela cautelare dei provvedimenti d'urgenza ex art.7009. Oggi, trascorsi quarant'anni dalla dall'entrata in vigore della L. 533/73,ha potuto constatare i problemi che questa legge ha portato con se, l'enorme crescita del contenzioso, il dilatarsi dei tempi della giustizia,a partire dalla "privatizzazione del rapporto di lavoro dei ferrovieri" che ha aumentato a dismisura le dispute ai sensi dell'art. 2103 per il riconoscimento della qualifica corrispondente alle mansioni superiori svolte e sul computo del compenso da lavoro straordinario10. La dottrina 11 pertanto si è interrogata sui possibili rimedi. Si sono così proposte la modifica di alcune e l'introduzione di alte norme processuali ( ad esempio , sull'elevazione del limite di inappellabilità della sentenza, sulla possibilità di ricorrere per saltum in Cassazione, sulle cause serali), accompagnate da miglioramenti dell'organizzazione giudiziaria12. Il Legislatore ha riposto la sua fiducia - forse eccessiva se si pensa allo scarso effetto deflativo fino ad oggi ottenuto da questi istituti- su filtri e strumenti alternativi ritenuti in grado di ridurre il contenzioso: si è così introdotto il tentativo obbligatorio di conciliazione, come condizione di procedibilità della domanda giudiziale, e si è riformata la disciplina dell'arbitrato. Con l'avvento degli anni '90 poi si è profondamente trasformato il quadro della normativa processuale e dell'ordinamento giudiziario. Infatti, un'importante riforma del processo ordinario di cognizione è stata avviata con la L. 26.11.1990, n. 353, corretta ed integrata negli anni successivi da ulteriori interventi normativi13; la nuova disciplina determina un’influenza,talvolta diretta,spesso indiretta, sul rito del lavoro (si pensi agli istituti dell'esecutività provvisoria di tutte le sentenze di primo grado,agli effetti delle regole sulla connessione, al nuovo giudizio di Cassazione, alle ingiunzioni di pagamento in corso di causa),soprattutto ove si riletta sulla circostanza che la L.533 del 1973 non copre interamente ogni

procedimento ordinario di cognizione (anche se disciplinato nella forma più snella introdotta dalla L.533/73). Proto Pisani, in AA.VV. , Le controversie in materia di lavoro, Bologna-Roma, II ediz., 1987, pag.63 ss.. 9 Si veda Proto Pisani, I provvedimenti d’urgenza ex art.700 c.p.c., Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, cap.VII. 10 Secondo IANNIRUBERTO, La crisi della giustizia del lavoro: riflessioni e proposte minime, n Foro it., 1995,V,131,ss., è questa la data che ha segnato il "tracollo" del processo. 11 Tra i numerosi contributi e dibattiti, cfr. le relazioni e gli interventi svolti al convegno di Messina del 28/29.10.1994 su L'abuso del processo del lavoro (per un resoconto s veda, PICCININI,L'abuso del processo del lavoro ,in Giur. Lav. Lazio, 1994,543 ss.); PERA, Bilancio e prospettive del contenzioso del lavoro, n Riv. dir. lav., 1994,I,193 ss.; D'ANTONA, Le trasformazioni del diritto del lavoro e la crisi del processo,in AA.VV. , Modificazioni del diritto del lavoro e crisi della tutela processuale, Atti del Convegno di Milano del 16.3.93, Milano 1994; DE ANGELIS,Il processo del lavoro tra funzionalità e rispetto delle garanzie, in Riv. it.dir. lav., 1994,I,339 ss. Ad avviso di molti l'abuso è quasi inevitabile in un sistema nel quale Parlamento, Governo, Corte Costituzionale e Cassazione cambiano troppo spesso la disciplina e/o l'interpretazione degli istituti del diritto del lavoro. Cfr. AA.VV. ,La Giustizia del lavoro: disfunzioni, inefficienze, proposte di rivitalizzazione, n Riv. crit. dir. lav., 2004,475; BORGHESI,il processo del lavoro a trent'anni dalla sua introduzione: com'è e come dovrebbe essere, in Lav. pubbl. amm.,204,861,ss.;PERINA,Trent'anni d esperienza nel processo del lavoro - Adeguatezza e criticità nella tutela delle parti, n Rass. giur. lav. Veneto, 2004,2,7 ss.; DE ANGELIS, la giustizia del lavoro tra crisi del processo, iniziative di riforma e specializzazione del giudice mal sopportata, in riv. ita. dir. lav.,203,I,313 ss.; G. CAZZOLA, La giustizia del lavoro in crisi: dal passato un rimedio possibile, in dir. rel. Ind. ,206,379 ss.-) 12 Anche se è illusorio date le carenze dell'amministrazione della giustizia, sperare in un cospicuo aumento degli organici. 13 Sul tema, cfr. ALLEVA, Riflessioni sulle misure di “deflazione” del contenzioso del lavoro pubblico e privato, in Riv. Giur. Lav.,1997,123 ss.

aspetto della disciplina delle controversie di lavoro e, dunque, alle norme sul procedimento civile dovrà farsi riferimento per tutte le ipotesi non espressamente regolate altrimenti ed in quanto compatibili. Inoltre, il 2 giugno 1999 è entrato in vigore il D.Lgs. 19.2.1998, n.51, contenente “ norme in materia di istituzione del Giudice unico di primo grado”,il quale,nel sopprimere le Preture, ha diviso la competenza in primo grado tra Giudice di Pace e tribunale. Quest'ultimo,che è il solo competente per le controversie di lavoro ( ai sensi del nuovo art.50-ter c.p.c.), opera per esse in composizione monocratica14. Infatti,l'art1 del decreto sul Giudice unico dispone la soppressione dell'ufficio del Pretore “ fatta salva l'attività necessaria per l'esaurimento degli affari pendenti”15,mentre gli articoli da 81 a 86 attengono specificamente alle cause di lavoro, prevedendo la sostituzione, di volta in volta,della parola “ Pretura” con il termine “ Tribunale” della parola “ Pretore” con la parola “ Giudice”. Delle controversie si occupa una “ Sezione Lavoro” istituita presso il Tribunale ( cfr. Artt. 11,13 e 36 del decreto). Invece,la fase d'impugnazione si svolge dinanzi alla Corte d'Appello16,in sede collegiale,con una “Sezione incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie in materia di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie” (art.19). Negli anni Novanta, inoltre, si è realizzata quella complessa operazione,che va sotto il nome di “privatizzazione del pubblico impiego”17,e cioè di riconduzione dei rapporti di lavoro dei dipendenti pubblici alla disciplina del Codice civile,delle leggi sul lavoro subordinato nell'impresa,dei contratti collettivi e individuali, nell'ambito di un più ampio progetto di riforma dell'apparato e dell'azione amministrativa, coinvolgente personale, strutture, procedimenti, controlli18. A partire dalla Legge delega 23.10.1992,n. 421, finalizzata al contenimento, alla razionalizzazione ed al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego,al miglioramento dell'efficienza e della produttività,nonché alla sua riorganizzazione” (art.2),l'assetto normativo – sostanziale e processuale- del pubblico impiego è stato rivoluzionato19.

14 Cfr.,tuttavia, anche gli artt. 132 e 133 che inducono a constatare come sarebbe stato preferibile dettare una disposizione specifica per le controversie di lavoro data la particolarità del rito, secondo il quale tutto dovrebbe svolgersi in un' unica udienza. 15 Transitoriamente,infatti,l'art.42 prevede che “l'ufficio del Pretore è mantenuto per la definizione dei procedimenti pendenti alla data di efficacia del recente decreto che proseguono con l'applicazione delle norme anteriormente vigenti”. 16 Tuttavia,l'art.2 del D.L. 24.5.1999, n. 145 ( conv. In L. 22.7.1999, n. 234), al fine di alleggerire il carico di lavoro specialistico delle Corti d'Appello, impossibilitate a “predisporre in tempi rapidi articolazioni giudiziarie idonee a smaltire un rilevante flusso di cause” ( così la Relazione ministeriale) ha aggiunto, al decreto n.51 del 1998, una nuova disposizione transitoria, l'art. 134-bis, nel quale si prevede che, fino al 31.12.1999,nelle controverse relative a rapporti di lavoro e in quelle di cui all'art.442 c.p.c. Introdotte antecedentemente alla data di efficacia del decreto n. 51 “l'appello si propone al Tribunale, che giudica in composizione collegiale”. 17 Parte della dottrina,nel rilevare il rischio della semplificazione e dell'approssimazione racchiuso nel termine “privatizzazione”,considerato fuorviante sul piano culturale e su quello tecnico-giuridico, preferisce parlare di “contrattualizzazione” per alludere “ alla relazione, paritaria e antagonistica ( anziché autoritaria e protezionistica) che ora. Cioè dopo la rifoma- si instaura tra pubblica amministrazione e singolo dipendente” (RUSCIANO,Problemi sulla contrattualizzazione del lavoro pubblico, in Dir. Lav., 1998,,213). In effetti, il termine “privatizzazione” va inteso in senso non soggettivo,come è avvenuto per le imprese precedentemente in mano pubblica e per alcuni enti previdenziali,bensì “essenzialmente normativo” come trasformazione del regime giuridico dei rapporti di lavoro ( DELL'OLIO, voce Privatizzazione,V) Privatizzazione del pubblico impiego, in Enc. Giur. Treccani, Aggiornamenti, Roma, 1999,I.). 18 Sul senso e sui principi della riforma in generale si segnalano,tra i moltissimi contributi apparsi, AA.VV. , Amministrazioni pubbliche e diritto privato del lavoro, in quad. Dir. Lav. rel. Ind., XVI, Torino, 1995; CARINCI, Contratti e rapporto individuale di lavoro – premessa,in giorn. Dir. Lav. rel. Ind., 1993; RUSCIANO, Contributo alla lettura della riforma dell'impiego pubblico, in RUSCIANO-ZOPPOLI (a cura d), L'impiego pubblico nel diritto del lavoro, Torino, 1993, XXVIII; PERSIANI, Prime osservazioni sulla nuova disciplina del pubblico impiego, in Dir. Lav., 1993,I,247; TREU, Finalità della riforma, in Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, commentario diretto da Carinci,I,Milano,1995,11; CARINCI-D'ANTONA (Commentario diretto da) , Il lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Dal D. Lgs. n. 29/1993 ai D. Lgs. nn. 396/1997 , 80/1998, Milano, 2000; CORPACI-RUSCIANO-ZOPPOLI (a cura di), Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo,Milano, 2000. Tra contributi più recenti,cfr. PERRINO,Il rapporto di lavoro pubblico,Padova,2004; APICELLA-CURCURUTO-SORDI-TENORE,Il pubblico impiego “privatizzato” nella giurisprudenza,Milano, 2005. 19 Nonostante le fortissime critiche espresse nel parere dell' Ad. Generale del Consiglio di State del 31.8.1992,n. 146 ( Riv. Dir. Lav., 1993,II,43) e l preoccupazioni manifestate dal CSM, comm. Speciale referente per la riforma giudiziaria e l'amministrazione della giustizia, nella risoluzione del 20.12.1995 ( in Foro it., 1996,II,56).

Sulla base della legge delega è stato emanato il D. Lgs. 3.2.1993 n. 29,seguito da diversi successivi e decreti correttivi, il quale ha modificato il quadro delle fonti e dei loro reciproci apporti sulla disciplina del lavoro pubblico, intaccando il legame tra organizzazione pubblicistica degli uffici e gestione dei rapporti di lavoro, il legislatore ha previsto la devoluzione delle controversie al Giudice Ordinario, con disposizioni che hanno faticato a trovare chiarezza e coerenza20. Successivamente con la c.d. Seconda privatizzazione, avviata con la legge delega 15.3.1997,n.5921 e realizzata dai DD. Lgss. 31.3.1998, n.80 e 29.10.1998, n. 387, il quadro di riferimento s è completato: le pubbliche amministrazioni, nella gestione del personale, operano con i poteri dei privati datori di lavoro; rapporti di lavoro sono disciplinati dal codice civile, dalle leggi sul lavoro subordinato nell'impresa, dai contratti collettivi e individuali di lavoro; le controversi relative sono affidate alla giurisdizione del Giudice ordinario, secondo le regole del processo del lavoro22. Non va dimenticato che i primi commentatori della riforma del '93, oltre a segnalare le incertezze interpretative ed applicative sollevate dall'originario formulazione del riparto di giurisdizione, avevano criticato la scelta del legislatore di devolvere al Giudice ordinario del lavoro la gran parte delle controversie sul pubblico impiego, senza tener conto dell'impatto dirompente e moltiplicatore23 che ciò avrebbe avuto sulle già critiche condizioni del processo del lavoro. Gli anni Novanta si chiudono con una fondamentale Legge Costituzionale (23.11.1999, n.2), che inserisce i principi del giusto processo nell' art. 111 della Costituzione: intervento che, secondo la dottrina, funge e fungerà da chiave interpretativa delle successive novità legislative ed arresti giurisprudenziali24.

20 Per quanto concerne la tutela processuale dei diritti nel pubblico impiego, già attribuita alla giurisdizione amministrativa esclusiva (Tar e Consiglio di stato),s deve ricordare che, nel corso degli anni '80,il legislatore aveva richiamato le disposizioni della L.533/'73 “ in quanto applicabili” per le controversie del personale dell'allora Azienda autonoma di assistenza al volo per il traffico aereo generale, pur se sottoposti alla giurisdizione del Tar (D.P.R. 24.3.1981, n. 145). Successivamente, la legge quadro sul pubblico impiego ( del 29.3.1983,n.93) aveva previsto una futura organica riforma della giurisdizione amministrativa in materia (art.28: “ in sede di revisione dell'ordinamento della giustizia amministrativa si provvederà all'emanazione di norme che si ispirano, per la tutela giurisdizionale del pubblico impiego, ai principi contenuti nelle L.L. 20.5.1970,n.300 e l. 11.8.1973,n. 533”). Più tardi,la Corte costituzionale,con la sentenza n. 146 del 1987, ha dichiarato illegittime quelle norme del processo amministrativo che non consentivano per le controversie di pubblico impiego l'esperimento dei mezzi istruttori di cui agli artt. 421,secondo e quarto comma,422,424 e 425 c.p.c. . Sui problemi processuali, postisi subito dopo la privatizzazione del pubblico impiego, si rinvia a VERDE, Il nuovo (e futuro) processo nelle controversie del pubblico impiego, in Dir. Proc. Amm., 19932,267; GAROFALO, Osservazioni sul sistema contrattuale e sulla giursdizione, in NACCARI ( a cura di), La riforma del lavoro pubblico, Roma, 1993,121; FERRARO, I problemi di giurisdizione della riforma del pubblico impiego, ivi, 91; BARCHI, La giurisdizione, in GALANTINO (a cura di), Il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Padova,1994,323; D'AURIA,Il “nuovo” pubblico impiego tra giudice ordinario e giudici amministrativi, in CECORA- D'ORTA ( a cura di), La riforma del pubblico impiego,Rimini,1994,115; ALBENZIO, La tutela giurisdizionale,La nuova disciplina sulla giursdizione nelle controversie di pubblico impiego, in Foro it., 1995, IV,50; CORPACI, Quale tutela giurisdizionale per il pubblico impiego? In Riv. giu. Lav.,1996,I,317. 21 Con la quale si è delegato il Governo a “ devolvere,entro il 30 giugno 1998,al Giudice ordinario, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ancorché concernenti in via incdentale atti amministrativi presupposti, ai fini della disapplicazione, prevedendo: misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso, procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato....” ( art.11 lettera g),del quarto comma). 22 Tra i vari commenti cfr. PERONE-SASSANI (a cura di), Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche,Padova, 1998. Cfr. Altresì, DE ANGELIS, La giustizia del lavoro tra pubblico impiego e Giudice unico di primo grado,in Il lav. Nella giur., 1998,3,195. 23 La crescita esponenziale dei ricorsi dinanzi al Giudice ordinario del lavoro. A seguito delle “ privatizzazioni” - dipende da una serie di fattori, quali, ad esempio, i minori costi legali del giudizio ordinario, la diffusa considerazione dell'ex Pretore quale giudice più vicino alle esigenze dei lavoratori, la rapidità del rito, la nascita di un nuovo contenzioso suscitato dall'applicazione delle norme privatistiche, la diversa e più vicina distribuzione territoriale degli uffici giudiziari, l'esistenza di importanti precedenti di passaggio di giurisdizione dal Giudice amministrativo al Giudice ordinario che hanno comportato un' “esplosione” di cause ( Ferrovie e Poste). Se a ciò si aggiungono l'attuale struttura, che emerge e si aggrava di anno n anno ( come si evince chiaramente dai dati statistici esistenti sulla situazione della giustizia del lavoro) e il fenomeno sempre più diffuso dell'emancipazione di leggi poco chiare, tecnicamente imperfette, frammentarie, non suscitano stupore le pessimistiche previsioni diffuse tra studiosi e operatori del diritto. 24 Per la Legislazione,cfr. La L. 1.3.2001,n.63 sul “giusto processo” e la L. 24.3.2001,n.89 sulla “ ragionevole durata del processo”; per la giurisprudenza lavoristica, cfr. Le sentenze della Cassazione a SS.UU. 20.4.2005 nn.8202 e 8203; 17.6.2004 n. 11353; 23.1.2002, n. 761; in dottrina, da ultimo, cfr. VIDIRI, l'art.111,comma 2, Cost. E le recenti pronunzie della Cassazione sul processo, in Mass. Giur. Lav.,2006,172 ss.

Peraltro, come già accennato, il quadro della normativa processuale e dell'ordinamento giudiziario è stato oggetto, negli ultimi tempi, di una profonda rivisitazione e l'esame dei recenti interventi sembra confermare proprio l'auspicio, già formulato nelle pagine precedenti, che il Legislatore tenda volutamente ad una sempre più marcata assimilazione del processo ordinario a quello del lavoro, con l'obbiettivo di rispondere in modo adeguato alle imprescindibili esigenze di concentrazione25, celerità ed immediatezza dei giudizi26. In questo contesto si colloca il D. Lgs. 2.2.2006, n.40, attuativo della legge delega 14.5.2006,n.80,il quale se, da un lato rappresenta,come è stato autorevolmente sostenuto, il tentativo di recuperare quella funzione “nomifilattica” della Corte di cassazione, ormai quasi del tutto intrappolata nelle maglie di un consistente lavoro arretrato,dall'altro e, sotto il profilo di più diretta incidenza con le controversie in materia di lavoro, si segnala per il riflesso che è destinato a determinare sul ruolo del giudice27: il n.3 dell’ art. 36 c.p.c.,prevede espressamente,infatti, la possibilità di ricorrere per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, in sostanza estendendo quanto già previsto dal D. Lgs. n. 165/2001,per i CCNL vigenti nel settore del pubblico impiego “ privatizzato”,anche ai CCNL di diritto privato. Ed ancora,analogie con alcuni istituti tipi delle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ritenuti idonei a “snellire” il contenzioso e orientati in una prospettiva di “modernizzazione” del sistema,possono riscontrarsi con l'introduzione dell'art. 420-bis c.p.c.28,modellato sull'art.64 del D. Lgs. n. 165 citato, con il quale viene riproposto quell'accertamento pregiudiziale sull'efficacia,validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi”, anche se per così dire depurato degli aspetti di natura squisitamente pubblicistica ( come ad esempio, il ricordo da parte delle associazioni sindacali, o ancora l'obbligo di queste ultime di

25 Secondo BALENA (Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità, n www.judicium.it,2) “ a quasi un secolo di distanza dall'inizio della propaganda chiovendiana in favore dell'oralità, dell'immediatezza e della concentrazione del processo, non sembra azzardato affermare che l'idea di un processo concentrato sia l'unica che sopravvive e che ricorre oramai immancabilmente negli auspici di ogni riforma, o tentativo di riforma, processuale”; l'Autore sottolinea, inoltre, che le soluzioni inaugurate dalla L. 533/'73 hanno rappresentato un modello cui ispirarsi, poiché si ritiene “che il merito del legislatore processuale del lavoro sia stato per l'appunto quello di riaffermare con maggiore coerenza ed energia (pure ed anzitutto sotto il profilo delle preclusioni) i principi strenuamente propugnati da Chiovenda”. Quale conferma di ciò l'autore cita Cass. S.U. 20.4.2005, n. 8202, secondo cui la riforma del 1973 avrebbe disegnato un coerente sistema spirato a principi di concentrazione, immediatezza e oralità, propugnati da autorevole dottrina processualistica”. Tale lettura è condivisa in dottrina da FAZZALARI, Istituzioni di dritto processuale, VIII d. Padova, 2001,167 ss.; MONTESANO-VACCARELLA,Manuale di diritto processuale del lavoro, cit. 6 ss. Contraria è invece, la posizione di TARZIA, secondo il quale “ l modello processuale delineato nella L. 533/73 ad un'analisi rigorosamente oggettiva,appare assai lontano, se non addirittura antitetico, proprio in alcuni dei suoi aspetti più qualificanti, rispetto agli ideali chiovendiani”. N questa prospettiva,cfr. Anche PROTO PISANI, Giuristi e legislatori: l processo civile, in Foro it.,1997,V,19; MONTELEONE, Diritto processuale civile, III ed.,Padova, 204, 729. 26 Tra i primi commenti si segnalano VACCARELLA, Una novità giurisprudenziale ed una legislativa per il rito del lavoro, n AA.VV. , Problemi attuali sul processo del lavoro, in Dialoghi fra dottrina e giurisprudenza,vol. 3, Milano, 2005, 1 ss.; VIDIRI, La riforma del 205: la funzione nomofilattica della Cassazione e l'interpretazione dei contratti collettivi,ivi,15 ss.; SASSANI, Il nuovo giudizio di Cassazione, n www.judicium.it. Ad esempio, leggendo il nuovo testo degli artt. 183 e 185 c.p.c. Può notarsi come l'udienza di trattazione – oggi “ prima comparizione delle parti e trattazione della causa” - condivide con il processo del lavoro le finalità di concentrazione,anche se quest'ultimo è l'unico in cui si realizza l'effettiva oralità. Non possono, infine, dimenticarsi, pur non essendo questa la sede per un loro approfondimento, le rilevanti modifiche introdotte in materia di procedimenti cautelari ( cfr. L 23.2.2006, n. 51) e di processo di esecuzione ( cfr. LL. n. 51-52 del Febbraio 2006). Da ultimo, s segala il Disegno di legge n. 1047 (“ Riforma del processo del lavoro”), di iniziativa dei senatori, Salvi, Treu, ed altri, presentato il 28.9.2006, con la dichiarata intenzione di garantire celerità e certezza alla soluzione delle controversie che riguardano licenziamenti e trasferimenti (attraverso l'introduzione, nel lavoro privato e pubblico, di una specifica procedura d'urgenza giudiziale, senza il preventivo tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale) e d riformare il processo previdenziale, con particolare riferimento agli accertamenti sanitari. Inoltre, si propone una riforma complessiva della conciliazione da cui sono escluse le controversie previdenziali, quelle che richiedono trattazione sommaria o d'urgenza,e quelle nel lavoro pubblico privatizzato), che diventa una fase precontenziosa,a giudizio formalmente già iniziato, e dell'arbitrato. Inoltre,verrebbero abrogati gli articoli 420-bis c.p.c. E 146-bis disp. Att. c.p.c. Che hanno recentemente introdotto l'istituto dell'accertamento pregiudiziale sull'efficacia,validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi. La proposta legislativa muove dalla constatazione che “ il contenzioso del lavoro attraversa, non da poco, una crisi determinata essenzialmente dal progressivo allungamento dei tempi di definizione dei processi, crisi ancor più evidente per la peculiarità del rito introdotto dal Legislatore del 1973, informato a principi di oralità e celerità che oggi stentano a trovare effettività”. 27 VACCARELLA, op.cit.,8. 28 E del connesso art. 146-bis att. c.p.c., in forza del quale, nel caso in cui all'art. 420-bis, si applica – in quanto compatibile- l'art.64,quarto, sesto e ottavo comma del D. Lgs. n. 165 del 201.

raggiungere l'interpretazione autentica). Si impone, dunque, al Giudice una decisione obbligatoria attraverso una sentenza immediatamente impugnabile per cassazione e vengono così eliminati i due gradi del giudizio di merito, con il manifesto intento, da un lato, di privilegiare il giudizio di legittimità una tantum n funzione nomofilattica, contenendo lo “ spiacevole ( pur se del tutto legittimo) fenomeno di interpretazioni opposte e tuttavia avallate dalla Suprema Corte”29 e, dall'altro, di ridimensionare, riducendolo, il fenomeno delle controversie cosiddette seriali. In secondo luogo, il D. Lgs. n.40 del 2006 opera,per così dire, una rivitalizzazione dell'istituto conosciuto con il nome di ricorso per saltum, di cui all'art. 360,secondo comma, c.p.c.: in particolare, “l'accordo delle parti” può essere, per esplicita previsione di legge ( terzo comma, art. 366 c.p.c.), anche anteriore alla sentenza di primo grado, con la conseguenza che, in tal modo, viene consentita la possibilità di incrementare l'utilizzo della cosiddetta “ causa pilota”, poco frequente in precedenza, in quanto l'accordo doveva,invece, raggiungersi successivamente alla sentenza impugnata. Se evidente risulta prima facie l'intento di “ permettere alle parti di accordarsi quando... accordarsi è ancora una opzione ragionevole30,dotando così di efficacia l'istituto in commento, non può passare inosservata nemmeno la circostanza che il Legislatore miri a sviluppare il ricorso per saltum nelle tipiche questioni di interesse collettivo, di interpretazione di clausole normative di contratti e accordi collettivi di lavoro. Il D.Lgs. n.40 del 2006 assume, inoltre, un'importanza decisiva con riferimento ad un altro tradizionale strumento di deflazione del contenzioso31;l'arbitrato, di cui all'art.806 c.p.c.,diventa,infatti, oggetto di ripensamento,in termini,estensivi, della disciplina,da parte del Legislatore. L'articolo citato, come si vedrà, pur conservando le distinzioni sussistenti tra arbitrato rituale e irrituale,effettua un integrale richiamo all'art.409 c.p.c., assoggettando le controversie in materia di lavoro all'operatività dell'istituto.

A distanza di circa due anni dalle elezioni politiche del 2008, la maggioranza parlamentare ha dato corso all’approvazione in entrambi i rami del Parlamento del disegno di legge n. 1167-B di complessivi 50 articoli, alcuni dei quali incidevano profondamente sul sistema ordinamentale in tema di disciplina dei rapporti di lavoro e di tutela giurisdizionale dei lavoratori. Si trattava quindi non di un intervento marginale o comunque frammentario, ma di un disegno intenzionale di modificare, con carattere di generalità, il rapporto fra lavoratori (e loro diritti) e ordinamento giuridico. Sarebbe stata una legge “storica”, naturalmente intendendo con tale espressione tutto ciò che di particolarmente positivo o di particolarmente negativo si verificava nelle varie epoche. La legge si dipanava in 50 articoli di cui l’epicentro dell’intervento normativo è costituito dagli art. 30, 31 e 32 e più precisamente, in ordine logico, dall’art. 31, dall’art. 30 e dall’art. 32.. Anche se apparentemente trattano istituti diversi, le norme degli art. 31, 30 e 32 sono legate da un filo comune e sono espressione di un disegno comune, costituito da un’avversione (nelle sue pieghe interne, assumente carattere di furore) nei confronti della tutela giurisdizionale dei lavoratori (subordinati e “para-subordinati”) e della disciplina sostanziale (legislativa e collettiva) di tutela degli stessi.

29 VACCARELLA, op.cit.,9. 30 SASSANI, op. cit. 31 Una funzione deflattiva può, inoltre, essere riconosciuta ai recenti interventi sui procedimenti di istruzione preventiva: n particolare, la L. 23.2.2006, n.51 ha introdotto l'art. 696-bis, rubricate “ consulenza tecnica preventiva ai fini della risoluzione della lite”. L'articolo, al secondo comma, recita infatti che “ se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri gusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero,le spese tra le parti”. Analoga funzione potrà assolvere anche il nuovo test dell'art.151 delle Disposizioni di att., nel testo modificato dal D. Lgs. n. 40 del 206. La nuova formulazione dell'articolo, sulla riunione dei procedimenti, che trova applicazione a partre dai giudzi pendenti alla data di entrata in vigore del decreto e cioè al 2.3.2006, prevede,al prmo comma, che “la riunione, ai sensi dell'art.274 del codice,dei procedimenti relativi a controverse in materia di lavoro e di previdenza e assistenza e a controversie dinanzi al giudice di pace, connesse anche soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente,la loro decisione, deve essere sempre disposta dal giudice, tranne nelle ipotesi che essa renda troppo gravosi comunque ritardi eccessivamente il processo. In queste ipotesi la riunione, salvo gravi e motivate ragioni, è comunque, disposta tra le controversie che si trovano nella stessa fase processuale. Analogamente si provvede nel giudizio di appello”.

L’obbiettivo delle norme (e quindi di chi si è assunto la responsabilità di procedere alla loro emanazione) è stato quello, in primo luogo, di svilire e, se possibile, escludere la funzione di tutela giurisdizionale svolta dalla magistratura ordinaria (e in concreto dai giudici del lavoro, di ogni grado) e, inoltre, di attenuare, anche sul piano sostanziale, gli spazi e i contenuti di tutela dei diritti dei lavoratori. Su tale piano deve anzi dirsi che si è trattato di un disegno organico e, a suo modo coerente, poiché tutte le varie norme (e in concreto i 29 commi di cui si compongono gli art. 30, 31 e 32, rispettivamente di 6, 16 e 7 commi) rispondono ad un’analoga impostazione, così che in ciascuna di esse si ritrova un medesimo DNA. Non è stato quindi un disegno di legge di compromesso o di mediazione, in quanto, anzi, il suo percorso parlamentare è stato caratterizzato (anche nel passaggio dagli originari 9 articoli ai 50 finali) da una continua rincorsa antigiurisdizionale, nel senso che ci si è sforzati di elaborare norme di sempre maggiore chiusura degli spazi di tutela concessi ai prestatori di lavoro.

Nel quadro di cui sopra, una primazia assoluta spetta al 9° comma dell’art. 31, che sicuramente è, almeno su un piano di principio, il più significativo di tutta la legge. Va rilevato in primo luogo che, come avviene quasi sempre quando si introducono norme lesive, la formulazione lessicale della disposizione è ovattata, ambigua e sostanzialmente mistificante. Vi si è scritto infatti nel primo dei quattro periodi di tale 9° comma che “In relazione alle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile, le parti contrattuali possono pattuire clausole compromissorie di cui all’articolo 808 del codice di procedura civile che rinviano alle modalita` di espletamento dell’arbitrato di cui agli articoli 412 e 412-quater del codice di procedura civile, solo ove cio` sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente piu` rappresentative sul piano nazionale.”. La norma sembrerebbe quindi proporsi in termini di tutela, e cioè con la suggestiva sottolineatura del criterio per cui la possibilità di pattuire clausole compromissorie è ammessa “solo ove ciò sia previsto da accordi interconfederali o contratti collettivi di lavoro stipulati dalle organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, mentre invece il nucleo della norma non sta in questo, ma nella previsione della possibilità per i lavoratori di perdere la facoltà di ricorrere alla tutela giurisdizionale. L’apparente residua ed esigua tutela di cui al primo periodo viene poi addirittura smentita dal quarto periodo dello stesso 9° comma, in cui si prevede che comunque, anche ove intervenisse l’assenso delle “organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”, la possibilità di perdita del diritto di ricorrere alla tutela giurisdizionale potrà realizzarsi a séguito dell’emanazione, trascorsi appena dodici mesi, di un decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di definizione delle modalità di attuazione e di “piena operatività” delle disposizioni del 9° comma. In sostanza, la maggioranza parlamentare ha voluto, con tale 9° comma, consentire che, a séguito di un semplice atto del prestatore di lavoro (e cioè di una sua firma), egli perdesse un diritto primario, quale quello di agire in giudizio per la tutela dei suoi diritti.

Tale essendo l’incontestabile contenuto della norma, va ora, in primo luogo, rilevato come la stessa segni un profondo mutamento di tendenza rispetto alle caratteristiche, non solo dell’ordinamento repubblicano, ma addirittura prerepubblicano. E infatti, a parte le problematiche del periodo precedente al 197332, è certo che con l’art. 5, 1° comma della L. 11.8.1973 n. 533 si era chiaramente stabilito che l’eventuale previsione della possibilità di definizione delle controversie in forme arbitrali (rituali o irrituali) era ammessa “senza

32 Per una compiuta ricostruzione delle vicende dell’arbitrato rituale e irrituale prima della L. 11.8.1973 n. 533, v. BARONE Carlo Maria in ANDRIOLI–BARONE–PEZZANO–PROTO PISANI, Le controversie in materia di lavoro, 2ª ed., Bologna – Roma, 1987, p. 207-230.

pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria” . Ciò era stabilito, per l’arbitrato rituale, dall’art. 4, 2° comma, della L. 11.8.1973 n. 533, che aveva fissato tale principio nel testo del riformulato 2° comma dell’art. 808 c.p.c. e per l’arbitrato irrituale dall’art. 5, 1° comma, della stessa legge. La normativa sull’arbitrato rituale era stata poi riscritta dall’art. 20 del D. Lgs. 2.2.2006 n. 40 (approvato dalla stessa maggior maggioranza parlamentare di centro-destra e, in qualche misura, premonitore della svolta successiva), con cui si è modificato l’art. 806 c.p.c., introducendovi, al 2° comma, la formulazione anodina e sincopata, per cui “Le controversie di cui all’articolo 409 possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o acconti collettivi di lavoro” . Ma anche se tale formulazione non riprendeva quella lineare ed esplicita, contenuta nel testo dell’art. 808 c.p.c. vigente dal 1973, e cioè quella per cui le controversie di cui all’art. 409 c.p.c. potevano essere decise con arbitrato rituale “purché ciò avvenga, a pena di nullità, senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria” , sia la limitata incidenza (per non dire l’estrema marginalità) dell’arbitrato rituale in materia di lavoro, sia la rilevanza del mantenimento (cioè della mancata abrogazione) dell’art. 5, 1° comma, L. 11.8.1973 n. 533 (e cioè della norma per cui l’arbitrato irrituale può essere previsto ma “senza pregiudizio della facoltà delle parti di adire l’autorità giudiziaria”), aveva indotto la più autorevole e sensibile dottrina33 ad attribuire a tale principio valore generale, e quindi rilevante anche per lo stesso arbitrato rituale. Inoltre in ogni caso era presente la garanzia dell’impugnabilità della decisione arbitrale per violazione delle norme di legge dei contratti collettivi, che esplicitamente prevista per rituale arbitrato (v. art. 829, 4° e 5° comma, c.p.c.) e, veniva considerata sussistente, almeno da una parte della dottrina34, anche per l’arbitrato irrituale. In sostanza, nella Costituzione materiale del nostro Paese era iscritto, fino al recente disegno di legge, un principio in forza del quale era insopprimibile (e quindi non poteva essere cancellato) il diritto di ciascun lavoratore di adire l’autorità giudiziaria ordinaria per la tutela dei propri diritti. Ove, invece tale principio fosse stato derogato e smentito l’ordinamento avrebbe spianato la strada al principio opposto, e cioè quello per cui è ammesso (a condizione di una semplice firma) che il lavoratore, e di fatto i milioni di lavoratori (subordinati e “para-subordinati”) italiani si spoglino di tale diritto, cioè acconsentano a restare privi di tutela giurisdizionale. Si trattava, quindi, almeno in prospettiva, di una svolta epocale, cioè di un nuovo modo di intendere i rapporti fra i lavoratori (e quindi la maggior parte della popolazione) e l’ordinamento giuridico. In qualche modo è una svolta, che riporterebbe all’indietro, non tanto (e non solo) rispetto al 1948, ma addirittura rispetto al 1789.

A fronte di tale contenuto, la prima esigenza che si imponeva era quella di sottolineare che la norma aveva solo una “motivazione”, e nessun altra. E la motivazione stava in una avversione contro i diritti dei lavoratori e contro la tutela giurisdizionale degli stessi che si è maturata in certe aree, che hanno trovato una sponda nella formazione politica rivelatasi, ai sensi della legge elettorale, nel 2008 maggioritaria. Si trattava cioè di un’ avversione alla sfera dei prestatori di lavoro, diffusa in taluni ambienti imprenditoriali, ma anche genericamente di “ceto medio”, e più in generale di una corrente reazionaria presente in vari strati della società italiana. In tale contesto poi il “nemico”, ancor più che nei lavoratori, fu visto nel “magistrato del lavoro”, in quanto soggetto meno suscettibile di altri di essere coinvolto in logiche di scambio, nelle quali i detentori di potere economico, politico, amministrativo possano far valere la loro influenza. Il “magistrato del lavoro”, fu quindi visto come un’oasi di contropotere, legato solo alle norme e per questo tanto più “pericoloso”, perché insensibile, e molto più difficilmente irretibile, in un sistema 33 V. ROCCELLA Massimo, Manuale di diritto del lavoro, 3ª ed., Torino, 2008, p. 470 ed ivi nota 36.

34 V. ancora ROCCELLA Massimo, op. cit., p. 470-471; ma, contra, VALLEBONA Antonio, Breviario di diritto del lavoro, 5ª ed., Torino, 2009, p. 507.

conoscitivo di potere allargato. Per questo, il primo obiettivo dell’intervento normativo fu quello di esautorarlo, cioè di creare le condizioni poiché non potesse più intervenire, facendogli mancare la materia prima, e cioè l’afflusso delle domande di tutela giurisdizionale. La prima motivazione fu la celerità, dal momento che il processo di fronte al giudice del lavoro aveva talora evidenziato tempi lunghi, sarebbe stato opportuno prevedere un meccanismo alternativo. Il nuovo art. 412-quater c.p.c. (così come sostituito dal comma 7 dell’art. 31) delineava uno scenario di avvio del procedimento faticoso, poiché, dopo la notifica (prevista dal 3° comma) di un ricorso (sostanzialmente corrispondente al ricorso di cui all’art. 414 c.p.c.), si apriva una fase travagliata, nel cui ambito era previsto che il convenuto, ove accetti la procedura di conciliazione ed arbitrato, nominasse il proprio arbitro di parte. A questo punto si apriva un’ulteriore sub-fase, nel senso che i due arbitri (quello nominato dall’istante nel ricorso introduttivo e quello nominato dal convenuto) dovrebbero scegliere un terzo soggetto, svolgente funzioni di arbitro presidente (con la contrapposta speranza, da parte di ciascuno dei due, di pervenire alla scelta di uno più sensibile alle esigenze della parte che li ha nominati). Ove tale schermaglia non riesca, l’istante avrebbe dovuto rivolgersi al Presidente del Tribunale (neppure, sembrerebbe, della Sezione Lavoro, ove costituita), che sceglieva il terzo arbitro. Per cui già la fase dell’avvio del Collegio era costellata di notevoli tempi tecnici. Una volta costituito e insediato il collegio, si aveva uno svolgimento preliminare non dissimile da quello del processo del lavoro con il deposito entro 30 giorni ( 5° comma) di una memoria difensiva da parte dell’avvocato del convenuto, e con il deposito nei venti giorni successivi (6° comma) prima di una replica del ricorrente e poi di una controreplica del convenuto. Ma a questo punto il collegio non poteva fare altro che quello che fa il giudice del lavoro, per cui, se questi ha necessità di ammettere prove e poi di farle espletare, lo stesso farà il collegio, e non vi è alcun elemento per ritenere che il tempo occorrente per l’istruttoria al giudice sia minore di quello che occorrerà al collegio. Fra l’altro, mentre l’istruzione testimoniale di fronte al giudice era regolata da norme precise, più difficile è fissare, o far rispettare, regole analoghe di fronte al collegio. E così pure, nel caso molto frequente di necessità di accertamenti peritali tramite un consulente tecnico di ufficio, non vi è alcun elemento che consenta di prevedere una durata inferiore delle operazioni peritali. Infine, anche per la fase post-istruttoria sarebbe stato preferibile che le parti avessero tempo per esporre le loro valutazioni in atti scritti (per i quali probabilmente chiederanno e otterranno anche un termine per repliche), così come ne avrebbe bisogno il collegio per la valutazione finale. Per cui non vi è alcuna garanzia neppure di rispetto del termine, meramente “ordinatorio” cioè non vincolante, di venti giorni previsto dal 10° comma del nuovo art. 412-quater c.p.c. (secondo cui “La controversia è decisa, entro venti giorni dall’udienza di discussione, mediante il lodo”). Il procedimento di fronte al collegio avrebbe quindi la stessa possibilità di durata di quello di fronte al giudice ordinario.

Ma, in realtà, vi era un altro elemento, che diversificava l’operatività del procedimento arbitrale, e cioè quello della sua collegialità. In un’epoca caratterizzata, sia in sede penale che civile, che addirittura di giurisdizione contabile, dall’affermazione della monocraticità, stupisce un ritorno alla collegialità, nel senso che a distanza di circa 40 anni dall’introduzione della L. 11.8.1973 n. 533 la trattazione delle controversie di lavoro sarebbe tornata a rivolgersi ad un organo collegiale. La scelta cadde su un organo collegiale, non solo per un generico timore della monocraticità, ma perché si è voluto fare in modo che un arbitro nominato dal convenuto e un arbitro nominato dal ricorrente (ma, pur egli, prevalentemente di matrice sindacale e quindi proclive ad atteggiamenti di

mediazione) tallonassero il presidente nelle sue decisioni. Ma la soluzione della collegialità aveva però un evidente costo in termini di efficienza: riunire tre persone è assai più difficile che fissare un’udienza di fronte a un giudice singolo, in quanto ogni esigenza e ogni impedimento di uno qualunque dei tre arbitri (fra l’altro, presumibilmente già vincolati da propri impegni personali, accademici e/o professionali) comporterà una più difficile individuazione delle date di riunione, o un rinvio di quelle già prefissate. Non è quindi affatto vero che il collegio potrà funzionare meglio e più speditamente del giudice ordinario.

Il confronto fra i due organi non può poi non far rilevare la perdita, nel collegio, di quell’inestimabile valore che è costituito nella giustizia ordinaria, dalla caratteristica istituzionale di una precostituita imparzialità. Il giudice ordinario fa parte, come tale, di un corpo posto in posizione di terzietà e imparzialità e che quindi, istituzionalmente, non deve dipendere da meccanismi altrui. L’ipotetico presidente del collegio sarà invece un professore universitario di materie giuridiche (non necessariamente a tempo pieno, per cui potrà essere anche a tempo definito e quindi contestualmente svolgente funzioni di avvocato, o comunque professionali) o un avvocato ammesso al patrocinio davanti alla Corte Suprema di Cassazione, e quindi un soggetto coinvolto nel mare delle relazioni sociali e personali (ove non anche, come pur non infrequentemente si verifica, in formazioni associative non particolarmente palesate all’esterno). Vi è quindi, per sua natura, un fortissimo dislivello di attendibilità circa l’imparzialità del magistrato e di quello che potrà essere il presidente del collegio.

Infine, e ovviamente, priva di ogni senso è la tesi per cui l’arbitrato rappresenterebbe “un’opportunità in più proprio per i tantissimi lavoratori che, da sempre, non sono tutelati dall’articolo 18 perché lavorano in piccole o piccolissime aziende”35 , in quanto è del tutto evidente che la devoluzione della controversia ad arbitri non incide in alcun modo sul campo di applicazione dell’art. 18. Per cui, non vi è neanche un elemento che supporti oggettivamente (al di fuori della motivazione reazionaria) la scelta di consentire la devoluzione delle controversie al collegio.

Peraltro anche i due più significativi precedenti in tema di collegi arbitrali non hanno dato risultati esaltanti. Uno è quello contemplato dal 6° comma dell’art. 7 della L. 20.5.1970 n. 300 in tema di sanzioni disciplinari, che era stato previsto per l’incentivo, prospettato ai lavoratori, di ottenere in tal modo, cioè già solo con la richiesta della costituzione del collegio, la sospensione dell’applicazione della sanzione disciplinare. Ebbene, se si facesse una approfondita indagine statistica, si vedrebbe che, da un lato, molto spesso sono stati gli stessi datori di lavoro a preferire che la decisione della controversia venisse effettuata dall’autorità giudiziaria ordinaria e, dall’altro, che assai spesso i collegi di conciliazione e arbitrato si sono persi per strada, cioè non si sono più riuniti, per assenza di questo o quel componente. In ogni caso, si è trattato di un’esperienza minore, quando addirittura non ha dato luogo a problemi per la liquidazione dei compensi degli arbitri. L’altra esperienza è stata quella dei collegi di conciliazione e arbitrato per le controversie sui licenziamenti dei dirigenti, in ordine ai quali si vedrebbe, in un indagine statistica, che, su 100 casi di impugnazione di licenziamento, fra quelli in cui il dirigente si è rivolto direttamente al giudice ordinario e quelli in cui è stato il datore di lavoro (pur di fronte all’adizione del collegio da parte del dirigente) a preferire la definizione della controversia tramite giudice ordinario, si avrebbe una netta

35 In tal senso v. una dichiarazione del segretario confederale della UIL Paolo Pirani, quale riportata dal Sole-24 ore del 12.3.2010, p.5.

maggioranza. In sostanza, si è trattato, in entrambi i casi, di surrogati del tutto inidonei e non suscettivi di porsi al livello della giustizia ordinaria. Già su questo primo piano della celerità, efficienza e imparzialità, non vi è quindi alcun elemento che giustifichi la scelta legislativa di consentire la possibilità di soppressione della tutela giurisdizionale.

Nelle prime dichiarazioni successive all’approvazione della legge si è osato poi addirittura cercare di giustificare la stessa addirittura con l’elemento del costo, e cioè sostenendo che l’adizione del collegio sarebbe meno onerosa per il lavoratore di quella del giudice ordinario36. È un argomento questo, in cui la colpa lata equivale al dolo. E infatti è indiscutibile che il processo del lavoro è stato, almeno dal 1973 (ma in parte lo era già prima), completamente gratuito, in quanto esente da ogni forma di contributo; tanto che già come un pericoloso segno di inizio di controtendenza può essere vista l’introduzione, disposta dall’art. 212 della L. 29.12.2009 n. 191 (recante l’introduzione di un comma 6-bis all’art. 10 del T.U. in materia di spese di giustizia, di cui al D.P.R. 30.5.2002 n. 115), del contributo unificato obbligatorio per i ricorsi di lavoro alla Corte Suprema di Cassazione. In sostanza, il magistrato (monocratico) del lavoro, ma anche i magistrati (collegiali) di appello svolgono una funzione, che non comporta alcun onere per le parti. Del tutto e gravemente diversa è la situazione per quanto riguarda il collegio di conciliazione e arbitrato. Qui infatti è specificamente previsto (v. comma 11 del nuovo art. 412-quater c.p.c.) che il collegio funziona a spese delle parti e che, in particolare, “almeno cinque giorni prima dell’udienza” ciascuna delle parti deve consegnare presso la sede del collegio un assegno circolare di importo pari all’1% del valore della controversia. È altresì stabilito che ciascuna parte deve compensare il proprio arbitrio nella misura dell’1%, salvo la liquidazione finale (relativa al complessivo 4% suindicato, oltre che alle spese legali) nell’ambito del lodo. Ora tale regolamentazione riesce ad essere incongrua sia per il ricorrente (quasi sempre il lavoratore), sia per il convenuto. Per il ricorrente, può diventare un onere quello di versare il primo 1%, soprattutto quando egli reclami somme o danni ingenti. Nell’eventualità poi che il lavoratore, non arretrando di fronte agli oneri conseguenti, formuli una domanda di un importo esuberante (ad es. , come finora spesso si è verificato, di € 300.000,00 per danni professionali, biologici, esistenziali e morali), il datore di lavoro si troverà costretto a versare anche lui una somma iniziale di € 3.000,00 e il costo complessivo del collegio si determinerà automaticamente in € 12.000,00. È quindi un’offesa alla realtà e alla verità prospettare un carattere del collegio migliorativo in termini di costi rispetto al giudizio di fronte al giudice ordinario, poiché, al contrario, il confronto vedrà sempre per sua natura un onere del collegio maggiore o molto maggiore (nell’ordine di varie migliaia di euro) rispetto al giudice ordinario, il cui costo è zero. Proprio perché il ricorso al collegio si prospetta tendenzialmente molto costoso, tale costo agirebbe poi intrinsecamente come fattore di disincentivo alla utilizzazione del collegio stesso. E infatti, mentre oggi il lavoratore sa che comunque il servizio giudiziario è gratuito, rispetto al collegio non potrebbe non considerare che l’attivazione di una tale procedura comporterebbe, come tale, e a prescindere dalle spese legali, un costo estremamente rilevante, di cui egli correrebbe il

36 Per una tale singolarissima posizione v. una dichiarazione del segretario generale della CISL Raffaele Bonanni, riportata nel Sole-24 ore del 12.3.2010, p. 5, secondo cui oggi il lavoratore “deve pagare almeno 200 euro solo per la prima lettera del suo avvocato”, come se il ricorso al collegio non richiedesse un’analoga (ed ancora più complessa) assistenza tecnica.

rischio di subire il carico, in quanto in primo luogo deve comunque anticipare l’1% e poi, in caso di sua soccombenza, il collegio potrebbe tranquillamente porre l’intero 4% a suo carico.

Contrariamente a quanto si è accennato, non vi sarebbe poi nella procedura avanti al collegio alcuna riduzione di spese legali. Va rilevata in primo luogo, al riguardo, una singolare sfasatura all’interno del nuovo art. 412-quater c.p.c., in quanto, mentre il 5° comma prevede che il convenuto deve costituirsi tramite una memoria difensiva “sottoscritta, salvo che si tratti di una pubblica amministrazione, da un avvocato”, un analogo obbligo non è previsto per il ricorrente. Il che è solo apparentemente un trattamento di favore per quest’ultimo, poiché in realtà equivale ad ammettere la possibilità di un confronto sperequato, fra chi può non essere assistito da un difensore tecnico e che necessariamente viene assistito da questo. Per cui può prospettarsi un vizio di illegittimità costituzionale anche su questo piano, per contrasto della norma con gli art. 3 e 24 Cost. Ma, in ogni caso, nella maggior parte dei casi entrambe le parti saranno assistite da avvocati e non vi è alcuna norma che preveda, per gli stessi, compensi professionali diversi da quelli previsti per un analogo giudizio di fronte al giudice ordinario. Ed è anche giusto che sia così poiché il procedimento non solo è sostanzialmente analogo, ma è, se mai, più complesso e complicato, sia per la fase di instaurazione (che prevede anche il sub-procedimento di richiesta di nomina del terzo arbitro al Presidente del Tribunale), sia per la fase (non specificamente regolamentata e quindi priva di criteri-guida e maggiormente esposta a insidie procedurali e comunque a eccezioni e obiezioni) istruttoria e per quella decisionale. Alla fine, i compensi degli avvocati (per funzioni e onorari) saranno gli stessi, o meglio anche maggiori, di quelli di fronte al giudice onorario, per cui la liquidazione finale, cioè quella disposta dal collegio ai sensi dell’11° comma, sarà portentosa, poiché si riferirà sia al 4% complessivo del valore della controversia per i compensi degli arbitri, sia al pagamento delle spese legali in favore della parte vincente, sia al pagamento delle spese della eventuale consulenza tecnica d’ufficio, per cui tutte queste voci (nell’ordine, anche, di varie migliaia di euro) potrebbero essere poste a carico del lavoratore. Si tratta quindi di un’eventualità, che potrebbe ulteriormente intimorire il lavoratore e farlo desistere da tale avventura “arbitrale”.

La gravità di tutto quanto suindicato non è affatto scalfita dalla “cautela” contenuta nell’Avviso comune firmato il 12.3.2010, secondo cui le clausole compromissorie non prevedranno una deroga alla facoltà dei lavoratori di ricorrere al giudice per le controversie relative all’applicazione dell’art. 18 della L. 20.5.1970 n. 300, né dall’impegno informalmente assunto dal Ministro del lavoro di allora di tenere conto di tale limite nell’emanazione dell’eventuale decreto ministeriale di attuazione. Di fronte infatti alle critiche, per cui il nuovo art. 412-quater c.p.c. avrebbe comportato la possibilità di disapplicazione, e quindi la vanificazione, della tutela dell’art. 18, si è voluto evitare il rischio di una diffusa e consapevole mobilitazione popolare analoga a quella che portò alla manifestazione, caratterizzata dalla presenza di milioni di persone, del 19 marzo 2002 in Roma. Ma ciò non toglie in alcun modo la gravità del nuovo art. 412-quater c.p.c., in quanto la legislazione sul lavoro non si compone solo dell’art. 18 e sono numerosissimi i diritti fondamentali del lavoratore (da quello alla retribuzione, a quello alla sicurezza, a quello a idonee condizioni di lavoro in tema di mansioni, qualifiche, sede di lavoro, ecc…) che meritano una tutela non dismissibile. Inoltre sempre in ragione delle motivazioni politiche che spinsero tale disegno di legge,non si è mancato di evocare il superamento dell’intero sistema di tutela inderogabile del lavoratore, quale previsto dalle leggi e dai contratti collettivi. E, poiché anche al riguardo l’uso degli eufemismi è sempre utilizzato, anche per evitare di dare consapevolezza alla collettività di ciò che si appresta, si è usata un’espressione ovattata, quale

quella di cui al 3° comma del nuovo art. 412-quater c.p.c., per cui il ricorso al collegio deve contenere “l’eventuale richiesta di decidere secondo equità, nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento”. In concreto, il piano perseguito da chi, nella maggioranza parlamentare, ha tirato le fila dell’operazione è stato il seguente:

a) previsione della possibilità della soppressione, per i lavoratori, del diritto di ricorrere alla tutela giurisdizionale;

b) previsione della possibilità della soppressione per i lavoratori dell’intero apparato di norme di legge ordinaria e delle discipline contrattuali collettive a loro favore, attraverso la sottoscrizione di una clausola compromissoria, che li obblighi a presentare ricorsi al collegio con la richiesta di decidere secondo equità o che comunque stabilisca che le controversie da loro proposte vanno decise secondo equità.

Si trattava quindi di un vero e proprio smantellamento del corpus juris a tutela dei lavoratori sedimentatosi in quasi un secolo, per cui si tornerebbe a una generica valutazione “equitativa” affidata all’umore del singolo collegio e priva di ogni effettivo riferimento normativo. Come si è puntualmente scritto, “si tratterebbe di un colpo al cuore dell’inderogabilità delle discipline lavoristiche”37 e in qualche misura del superamento dello stesso concetto del diritto del lavoro.

Che tutto ciò si realizzi, a parte le problematiche relative all’entrata in vigore e al mantenimento della legge di cui si parlerà in seguito, non è però ancora scontato. Innanzitutto, anche se il tema merita approfondimento ulteriore, può ritenersi, nella effettività delle relazioni sindacali italiane, che a tutt’oggi un qualsiasi contratto collettivo non sottoscritto dalla organizzazione sindacale verticale di categoria aderente alla CGIL, o un qualsiasi accordo interconfederale non sottoscritto dalla CGIL, non possano considerarsi stipulati “dalle organizzazioni sindacali… dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. Considerando individualmente le singole confederazioni, la CGIL è sicuramente quella comparativamente più rappresentativa sul piano nazionale e la stessa situazione si verifica anche sul piano della maggior parte dei settori industriali e del settore commerciale. Non solo, ma anche considerando le altre confederazioni (o associazioni di categoria) nell’insieme, è molto probabile che la CGIL risulti comunque comparativamente più rappresentativa, e in ogni caso l’onere probatorio, da assolvere in ogni singola controversia (anche dalla parte che deducesse l’improponibilità della controversia di fronte al giudice ordinario) sarebbe di chi formulasse l’eccezione stessa. Non è quindi affatto scontato che il meccanismo diventi operativo prima di dodici mesi. In secondo luogo, poiché il meccanismo presuppone, per i lavoratori già in servizio una loro disponibilità a presentarsi fisicamente presso le sedi degli organi di certificazione di cui all’art. 76 del D.Lgs. 10.9.2003 n. 276 per sottoscrivere la clausola compromissoria, non è realistico pensare ad una disponibilità in massa in tal senso, e che cioè milioni di lavoratori già in servizio (vengono sollecitati e comunque) siano disposti ad effettuare questo atto di sottomissione ed abdicazione. Diversa può considerarsi la situazione dei lavoratori ancora non assunti, nel senso che più agevole sarebbe nei loro confronti corredare l’apparato di assunzione con la richiesta di recarsi presso gli organi di certificazione per sottoscrivere tali clausole. E tuttavia anche qui si pongono vari problemi. In primo luogo, poiché anche gli imprenditori e i datori di lavoro sono molto più sensibili alle

37 V. ROCCELLA Massimo, op. cit., p. 471.

istanze dei lavoratori di quanto pensino coloro che hanno approvato il disegno di legge, non è affatto sicuro che si determini una diffusa tendenza dei datori di lavoro ad esigere tale sottomissione, essendo invece più probabile che il fenomeno resti circoscritto ad ambiti marginali. D’altra parte, il datore di lavoro, che così si comportasse, rivelerebbe subito un volto opposto a quello di una leale e positiva collaborazione, per cui comunque darebbe luogo a un rapporto di lavoro incrinato e minato fin dall’inizio. In secondo luogo, non può neppure escludersi che il condizionamento dell’assunzione alla sottoscrizione di una clausola compromissoria possa venire valutato, anche considerando tutte le circostanze del caso, come il tentativo di conseguire, attraverso la prospettazione del male della mancata assunzione, l’indebito vantaggio della rinuncia del lavoratore alla possibilità di ricorso alla tutela giurisdizionale (tanto più che la clausola compromissoria prevede la decisione delle controversie secondo “equità” ), e quindi creare i presupposti per l’apertura a carico del datore di lavoro di un procedimento penale per il delitto di cui all’art. 629 c.p. (estorsione) o per quello di cui agli art. 56 e 629 c.p. (tentata estorsione). Infine, non è neppure detto che le commissioni di certificazione non svolgano con compiutezza la funzione loro assegnata nel terzo periodo del 9° comma del nuovo art. 412-quater c.p.c. e cioè quello di accertare “la effettiva volontà” delle parti, e soprattutto del lavoratore, di rinunciare alla tutela giurisdizionale. Anzi, si può dire che se tali commissioni illustreranno adeguatamente al lavoratore la ben diversa portata delle due strade (una gratuita, l’altra stra-onerosa; una affidata ad un giudice singolo, l’altra a un collegio di incerta composizione; una affidata a un giudice facente parte di un corpo posto in posizione di autonomia, indipendenza e terzietà l’altra, affidata ad un soggetto esterno, che potrebbe essere un libero professionista, dipendente dalle commesse dei clienti), ben difficilmente una scelta libera si orienterà verso il collegio arbitrale. Per cui, ancora la stessa operatività del meccanismo è ancora tutta da verificare.

Ιl disegno di legge infatti era nato in partenza viziato da evidenti profili di illegittimità costituzionale. Infatti, se pur, in generale, non è inibito ai soggetti, in materie non provviste di una particolare rilevanza di ordine pubblico o costituzionale, prevedere che la decisione delle loro controversie avvenga nelle forme e con i modi di un arbitro rituale o irrituale, ciò non è più vero e non vale ove, da un lato, la materia sia di particolare rilevanza costituzionale e, dall’altro, le caratteristiche sociali del soggetto siano tali da far istituzionalmente dubitare della spontaneità dei suoi atti. Questo è quello che accade nella materia del lavoro sia sul piano oggettivo che soggettivo. Sul primo, l’ordinamento ha elevato il lavoro a valore primario, per cui si tratterebbe di una svolta epocale e unanimemente condivisa l’idea che si possa pervenire a una dismissione dei diritti fondamentali dei lavoratori. Quanto poi alla posizione soggettiva dei lavoratori, è l’intera esperienza storica del diritto del lavoro che accredita il principio per cui non si può rimettere la tutela del lavoratore in fase genetica nelle sue mani, cioè nella sua disponibilità, poiché il bisogno di lavorare (e quindi di cominciare a lavorare, ma anche di continuare a lavorare) potrebbe portarlo a rinunce e sottomissioni di ogni genere. Deve quindi ritenersi che per i lavoratori subordinati (e, per estensione, anche per quelli “para-subordinati”) il principio di cui all’art. 24, 1° comma, Cost. operi in modo rafforzato, e cioè nel senso che, pur in presenza di clausole compromissorie, essi non perdano il diritto “di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti”. D’altra parte, una ricostruzione del genere non solo non presenta nulla di discriminatorio, ma costituisce anzi precipua attuazione del dettato dell’art. 3, 2° comma, Cost., che impegna tuttora la Repubblica a trattare i lavoratori non in modo genericamente eguale agli altri cittadini e in generale agli altri soggetti, ma a rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la loro libertà ed eguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della loro persona.

La disposizione del 9° comma dell’art. 31 era affetta da una evidente illegittimità costituzionale, che potrebbe portare a considerare velleitaria tutta la manovra, che ha portato alla sua introduzione.

Il d.d.l. conteneva poi alcune norme, che si riferisvano ai contratti di lavoro subordinati a tempo indeterminato e, per gli stessi, alla materia del licenziamento e che incidedvano su due diversi piani:

a) l’art. 30, nei suoi commi 1, 2, 3 e 4, si riferiva ai criteri, cui deve attenersi il giudice nella valutazione circa la legittimità dei licenziamenti;

b) l’art. 32, 1° e 2° comma, si riferiva invece all’agibilità della tutela giurisdizionale, prevedendo ulteriori decadenze.

Poiché tale seconda serie di previsioni si legava a una più generale concezione restrittiva, vanno opportuno esaminati anzitutto i primi quattro commi dell’art. 30. Ma, al riguardo, può subito dirsi che essi sono, in larga parte, declamativi, cioè che vi si ripropongono principi già affermati in giurisprudenza. Con il comma 1 si enfatizza che “In tutti i casi nei quali le disposizioni di legge nelle materie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile e all’articolo 63, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell’ordinamento, all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.”. Ma, in sostanza, se pure il furore antigiurisdizionale può avere fatto pensare ad una innovatività, e quindi capacità di reale incidenza di tale disposizione, essa non fa altro che ribadire il principio già affermato dalla costante e consolidata giurisprudenza per cui “il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva è scelta riservata all’imprenditore, quale responsabile della corretta gestione dell’azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo, sicché essa, quando sia effettiva e non simulata o pretestuosa, non è sindacabile dal giudice quanto ai profili della sua congruità ed opportunità” (Cass., sez. Lav., 22.8.2007, n. 17887). Ovviamente, peraltro, essa non può voler dire (e neppure il predetto 1° comma lo dice) che, ove a fronte delle esigenze tecniche indicate dal datore di lavoro, sussistano anche esigenze di tutela della persona dei lavoratori, di queste non si debba tenere conto. Per cui ad es. in caso di trasferimento si applicheranno sempre i principi generali in tema di correttezza e buona fede, cosicché , specie a fronte di posizioni soggettive dei lavoratori meritevoli di particolare considerazione (si pensi alla madre, sola, con figli a carico), è evidente che il trasferimento sarà illegittimo se vi era una qualsiasi possibilità di diversa soluzione e quindi di evitarlo. Anche il 2° comma, il quale dispone che “Nella qualificazione del contratto di lavoro e nell’interpretazione delle relative clausole il giudice non può discostarsi dalle valutazioni delle parti, espresse in sede di certificazione dei contratti di lavoro di cui al titolo VIII del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni, salvo il caso di erronea qualificazione del contratto, di vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”, è privo di efficacia innovativa, in quanto non fa altro che riprendere, anche con gli stessi termini, il contenuto del 1° comma dell’art. 80 del D. Lgs. 10.9.2003 n. 276. Si tratta quindi, in sostanza, sia nell’uno che nell’altro caso, di norme velleitarie, poiché con le stesse non si scalfisce (né si può scalfire) il principio, per cui il giudice deve tenere conto della natura e realtà effettiva del rapporto di lavoro e non dell’etichetta (sia pure certificata), cioè del

famigerato nomen juris con cui il predisponente ha intestato la scrittura del contratto di lavoro. Il primo periodo del 3° comma si caratterizza per porre al giudice tre criteri-guida, quello “delle fondamentali regole del vivere civile”, quello “dell’oggettivo interesse dell’organizzazione” e quello “delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo” presenti nei contratti collettivi e in quelli individuali certificati. Quanto al primo, sorprende solo che si sia sentita la necessità della sua enunciazione. Infatti, ormai da circa 44 anni la giurisprudenza ha applicato tali regole, fino a praticare criteri di particolare (se pur giustificato) rigore (ad es. per i furti e in generale per le appropriazioni di buoni-punti), per cui, in sostanza, non vi era alcun bisogno della risottolineatura di un criterio già applicato. Anche in ordine al terzo criterio, è prassi costante della giurisprudenza riferirsi alle previsioni disciplinari contenute nei contratti collettivi, tanto che, se un rilievo può farsi, è che talora sono questi a prevedere norme in qualche modo lassiste (talora, come nel caso dell’art. 53 per il personale non dirigente di S.p.a. Poste Italiane del CCNL 11.7.2003, consentendo la prosecuzione del rapporto anche in caso di commissione di veri e propri reati, ad es. di furti di lievi entità, minacce, ingiurie gravi, ecc..). Per cui, sono stati veramente rarissimi (e per lo più riferiti a situazioni particolari, come quella delle lavoratrici in stato di gravidanza e puerperio) i casi in cui la giurisprudenza si sia distaccata, in melius per il lavoratore, rispetto alle previsioni dei contratti collettivi. Quanto poi all’ipotesi dei contratti individuali “certificati”, non è realistico pensare a casi in cui il datore di lavoro abbia perfino cura di elaborare una disciplina “personalizzata” dei casi di recesso. E in ogni caso, se ne dovrà valutare la legittimità in relazione all’obbligo dei datori di lavoro (aderenti alle associazioni imprenditoriali firmatarie dei contratti collettivi o che li abbiano recepiti, o che comunque abbiano dichiarato in sede di assunzione, anche nelle comunicazioni al Centro per l’impiego, di applicarli) di rispettarli. Il criterio dell’oggettivo interesse dell’organizzazione è quello nuovo e, come già indicato (sia pur con timore) da un noto giurista, potrebbe riservare amare sorprese per i suoi inventori. Esso, infatti, si pone sostanzialmente in antitesi con quanto indicato al 1° comma, poiché, mentre al 1° comma si enuncia che il giudice dovrebbe arrestarsi passivamente alle “valutazioni tecniche, organizzative e produttive”, e quindi “di merito” , “che competono al datore di lavoro o al committente”, nel 3° comma si dispone che egli debba tenere conto dell’oggettivo interesse dell’organizzazione, che quindi potrebbe risultare diversa dalle valutazioni unilaterali datene dall’imprenditore. Si tratta di una problematica meritevole di ulteriore approfondimento, ma che comunque evidenzia il sostanziale difetto di incidenza (e, per vero, di concretezza) del complessivo art. 30. Lo stesso dicasi della parte finale del 3° comma, in cui, sostituendosi di fatto i criteri di cui all’art. 8 L. 15.7.1966 n. 604 per la determinazione dell’indennità (in genere da 2,5 a 6 mensilità) per i rapporti di lavoro cui non è applicabile la disciplina della reintegrazione, e quindi per un aspetto comunque di modesto rilievo, si è fatta una enunciazione di criteri (in primo luogo, richiamando quelli eventuali previsti nei contratti collettivi, che però in genere non regolano tale materia, e nei contratti individuali, di là da venire, e in secondo luogo indicando “le dimensioni e le condizioni dell’attività esercitata dal datore di lavoro, la situazione del mercato del lavoro locale, l’anzianità e le condizioni del lavoratore nonché il comportamento delle parti anche prima del licenziamento”), sostanzialmente analoghi ai precedenti. In definitiva, la norma dell’art. 30 è una mera goccia d’acqua, che non tocca l’edificio normativo in materia di lavoro.

Ben diversa è la situazione dell’art. 32, e in particolare dei primi due commi, che intervengono, questa volta pesantemente e in modo immediato, sulla materia dei licenziamenti. Ma, al riguardo, s’impone una premessa di ordine generale. Come dimostra l’esperienza, sia storica, sia interdisciplinare, se c’è una spia del favore o sfavore

dell’ordinamento per una certa posizione soggettiva, essa è costituita proprio dalla disciplina della tutelabilità della stessa in termini di preclusione temporale: se vi è favore, l’ordinamento allunga i termini di esercizio (sino a prevedere ad es. , l’imprescrittibilità della pretesa punitiva dello Stato per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo, ovvero, sotto altro aspetto, per il diritto al risarcimento del danno conseguente ad omissione contributiva, la decorrenza dell’inizio della prescrizione decennale, non dalla data dell’azione o omissione, ma dall’evento, cioè dalla determinazione del danno); quando invece vi è la tendenza a sfavorire l’esercizio del diritto, i tempi si restringono. Ora, in sede civilistica si è consolidato da tempo il criterio per cui l’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1422 c.c.), e quella di annullamento è soggetta (art. 1442 c.c.) a prescrizione quinquennale. In astratto, su tale base si sarebbe dovuta prevedere negli anni 1966-1970 una disciplina conseguente, e che cioè stabilisse per il licenziamento annullabile l’esercizio dell’azione di annullamento in cinque anni. In concreto, la regolamentazione fu diversa e ciò perché nel 1966, paghi del fatto che comunque s’introduceva per la prima volta un controllo legale sui motivi del licenziamento, non sembrò di rilevante pregiudizio l’introduzione di un termine, a pena di decadenza, di appena 60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale e nel 1970, paghi dell’introduzione dell’art. 18, non si pensò di tornare sul punto. In ogni caso, la previsione di un termine di decadenza, sia pure particolarmente ristretto, quale previsto dall’art. 6 della L. 15.7.1966 n. 604, non ha sollevato grosse obiezioni, in quanto (anche se per la verità, in caso di recesso con preavviso e tanto più in caso di recesso con preavviso nei confronti di un lavoratore malato o infortunato, la decorrenza del termine di impugnazione non coincide con la data di cessazione del rapporto di lavoro, e può essere anche notevolmente anticipata rispetto alla stessa) la ricezione dell’atto scritto di licenziamento è comunque un evento traumatico, cui consegue, di solito, la fisiologica emotività di una risposta impugnatoria, quantomeno stragiudiziale, immediata. Ma, poiché al legislatore del 2008-2010 tale termine di decorrenza non bastava, ve ne ha, con il 1° comma dell’art. 32, aggiunto un altro, e cioè quello per cui “L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centoottanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l’accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo”. Ora, tali regole, da un lato, non rispondono ad alcuna esigenza sostanziale, dall’altro, introducono una disciplina fortemente differenziata in peius per i lavoratori licenziati rispetto alla generalità dei soggetti. Al datore di lavoro, che licenzia, deve riconoscersi, per ciò solo, l’interesse ad agire in sede di accertamento per far dichiarare la legittimità del recesso, per cui lo stesso potrebbe presentare un ricorso in tal senso ancor prima di avere ricevuto una impugnazione del licenziamento. In ogni caso, e questa volta del tutto indiscutibilmente, deve riconoscersi tale interesse al datore di lavoro, che abbia ricevuto una impugnazione stragiudiziale del licenziamento. In tale situazione, egli era (già prima della nuova legge) ed è perfettamente legittimato ad agire, quantomeno, già subito dopo avere ricevuto tale impugnativa. La previsione di un ulteriore termine di decadenza, di 180 giorni (decorrenti, a rigore dalla ricezione, ma, per sicurezza, conteggiabili dall’invio della lettera di impugnazione) per il deposito del ricorso non ha quindi alcuna giustificazione sostanziale (posto che, se voleva, il datore di lavoro anche nella normativa precedente poteva dare luogo all’azione) ed esprime solo un ulteriore elemento di sfavore per la tutela giurisdizionale dei lavoratori licenziati, i quali ora dovranno stare attenti a due termini (e ove propendano per la richiesta di conciliazione ed arbitrato poi non accolta, addirittura a tre termini).

Ma tale intensificazione di decadenze può dar luogo a qualche specifico dubbio di costituzionalità. Se la regola generale è che si può agire, con l’azione di annullamento, entro 5 anni, perché per i lavoratori licenziati il termine potrebbe essere al massimo di 240 giorni? E perché, fra gli stessi lavoratori, quello che si fosse dimesso a séguito di dimissioni derivanti da errore o violenza morale, potrebbe agire in 5 anni e quello licenziato in soli, al più, 240 giorni? E come si giustificherebbe che, per quelli che sono i più deboli fra i deboli (cioè i lavoratori licenziati), l’ordinamento, invece di apprestare ex art. 3, 2° comma, Cost. una disciplina di maggior favore, appresterebbe una disciplina enormemente più sfavorevole e restrittiva? Vi sono quindi le condizioni per individuare anche su questo specifico punto una rilevante questione di costituzionalità.

Ma la volontà restrittiva non si è limitata a questo, poiché con il 2° comma dell’art. 32 si è introdotta una c.d. norma di chiusura, secondo cui “Le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificate dal comma 1 del presente articolo, si applicano anche a tutti i casi di invalidità e di efficacia del licenziamento”. In concreto, la maggioranza parlamentare sembra aver voluto evitare che restassero varchi di agibilità della tutela giudiziaria in quei casi, in cui la giurisprudenza aveva escluso l’operatività dell’art. 6 della L. 15.7.1966 n. 604, quali:

a) il caso del licenziamento intimato in forma orale: è del tutto irragionevole ed incongruo che il datore di lavoro, che abbia violato il primo ed essenziale precetto formale del licenziamento (e cioè di comunicarlo con atto scritto), possa avvalersi del fatto che il lavoratore, anche per la mancanza di un tangibile documento, non si sia attivato entro i 60 giorni successivi (per cui potrà succedere che il datore di lavoro cerchi di attribuire a sue frasi, ad es. a quella con cui aveva detto al lavoratore di stare a casa per mancanza di lavoro, valore di licenziamento). Per cui, anche su questo piano omogeneizzare le due situazioni (quella di chi ha ricevuto un atto scritto di licenziamento e quella di chi non lo ha ricevuto) vuol dire porsi in contrasto addirittura con l’art. 3, 1° comma, Cost., ancor prima che con l’art. 3, 2° comma, Cost.;

b) il caso del licenziamento intimato per iscritto, ma indicato come effettuato ex art. 2118 c.c. , e cioè come recesso intimabile senza indicazione dei motivi, c.d. ad nutum (v. Cass 22.3.1994 n. 2728):

c) il caso del licenziamento di lavoratrice nel periodo dalla pubblicazione di matrimonio ad un anno dopo la celebrazione dello stesso e il caso di lavoratrice dall’inizio della gravidanza ad un anno dopo la nascita del figlio, che hanno sempre avuto una disciplina differenziata. Si tratta di situazioni particolari, che tutte rendevano giustificata la particolare tutela loro in precedenza accordata e che non meritavano quindi “l’onore” di una loro omogeneizzazione al regime generale. Analogamente in un quadro costituzionale, che proclama di voler tutelare la famiglia (art. 21 e 30, 1° comma, Cost.) e la maternità (art. 30, 2° comma, e 37, 1° comma, Cost.) stupisce che si vogliano addossare oneri perentori, ad es. , a una lavoratrice nelle delicate ultime settimane pre-partum e nelle prime post-partum. Per cui, anche su questo piano, e addirittura con la possibilità di evocazione di principi costituzionali ulteriori a supporto, è lecito dubitare della legittimità costituzionale del citato 2° comma.

Gli ulteriori cinque commi dell’art. 30 si caratterizzano per essere quelli di più immediata e negativa portata. Il loro contenuto (pur essendo essi legati da un solo comune filo ispiratore) è vario e può essere così ricostruito:

a) per i rapporti di lavoro, a tempo indeterminato, e già assoggettati alla L. 15.7.1966 n. 604, è previsto un doppio termine di decadenza (60+180 giorni) anche interno al rapporto, per l’impugnazione del trasferimento;

b) lo stesso è previsto per i casi di cessione del contratto di lavoro ex art. 2112 c.c. ;

c) il predetto doppio termine viene esteso anche all’impugnazione del recesso disposto dal committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche nella modalità a progetto;

d) viene esteso altresì all’ipotesi, di dimensione sociale e statistica rilevantissima, dell’azione di nullità della clausola a termine del contratto di lavoro a tempo determinato;

e) viene esteso “in ogni altro caso in cui, compresa l’ipotesi prevista dall’articolo 27 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, si chieda la costituzione o l’accertamento di un rapporto di lavoro in capo a un soggetto diverso dal titolare del contratto”;

f) per le controversie relative alle azioni di nullità del termine apposto al contratto di lavoro è previsto un limite quantitativo al risarcimento del danno che può essere liquidato dal giudice. Ora tutti questi interventi, che pur rispondono a una comune e precisa intenzione, vanno adeguatamente chiariti.

Già il primo intervento, e cioè quello relativo all’impugnazione del trasferimento, è di particolare gravità. La norma dell’art. 6 della L. 15.7.1966 n. 604, nella sua primigenia formulazione, aveva una sua oggettiva giustificazione, poiché è normale che, se il lavoratore licenziato vuole reagire, lo faccia subito e, d’altra parte, egli si trova in una situazione, rispetto al precorso rapporto di lavoro, in cui non ha più nulla da perdere, in quanto ha già perso tutto (taluni datori di lavoro si distinguono invero per aggiungere, al licenziamento, anche la sofferenza della mancata erogazione delle competenze di fine rapporto). Al contrario, il trasferimento è un atto interno al rapporto e porre termini perentori per la sua impugnazione, prima, in sede stragiudiziale e poi in sede giudiziale, vuol dire costringere il lavoratore, o a subire il trasferimento e quindi una pesante modificazione delle sue condizioni di vita, o ad accrescere, con il contenzioso, il suo contrasto con il datore di lavoro. Tale essendo la situazione, ne viene, in base ai principi della famosa e sempre fondamentale sentenza della Corte Costituzionale 10.6.1966 n. 63, che sicuramente tale scelta non è esigibile nei confronti dei lavoratori cui non si applichi l’art. 18 L. 300/1970, poiché, quantomeno per essi, sicuramente la scelta non è libera, in quanto anche la rinuncia ad impugnare il trasferimento potrebbe essere dettata dal termine di subire poi un recesso, che sarebbe comunque produttivo di effetti, pur se giudicato illegittimo. Né varrebbe sostenere che nella sentenza citata la Corte Costituzionale si era riferita come parametro solo al diritto alla retribuzione prevista dall’art. 36 Cost., poiché è fin troppo evidente che la messa a repentaglio del posto di lavoro, quale potenzialmente conseguente all’inasprimento del contrasto giudiziale, coinvolgerebbe anche il titolo alla percezione delle retribuzioni. Per quanto concerne poi i rapporti di lavoro, cui si applica l’art. 18, viene meno in tal caso la giustificazione propria del termine di decadenza, in quanto, a fronte del normale termine decennale di esercizio dei diritti (per non dire dall’imprescrittibilità dell’azione di nullità) e comunque di quello quinquennale per l’azione di annullamento, non si individuano apprezzabili giustificazioni per una previsione così sbilanciata a sfavore dei lavoratori, come quella che prevede un doppio ravvicinato termine (di 60+180) anche per l’impugnazione del trasferimento. Né, d’altra parte, sussistono per il datore di lavoro le esigenze proprie dell’art. 6 L. 15.7.1966 n. 604

in caso di licenziamento, poiché anche nell’ipotesi di impugnazione differita di un trasferimento egli non sarà tenuto a una retribuzione ulteriore.

Un’ipotesi ulteriore è quella prevista dal 4° comma lett. c), per cui anche in caso di trasferimento di azienda il lavoratore deve impugnare, entro brevi termini perentori, l’atto con cui il datore di lavoro alienante gli comunica la volontà di cessare la sua titolarità del rapporto, avendo egli ceduto l’azienda ex art. 2112 c.c. , per cui il rapporto continuerà con il cessionario. Si tratta di un atto particolare, in quanto, da un lato, è assimilabile al licenziamento, poiché comunque il datore di lavoro alienante esce dal rapporto, e, dall’altro, si distingue da questo, perché, se il lavoratore non si oppone, il rapporto continua con il cessionario. Deve comunque ritenersi che, anche in precedenza, il lavoratore, che avesse voluto impugnare l’atto (ad es. sostenendo che il datore di lavoro non aveva rispettato le regole e i termini di cui all’art. 47 L. 29.12.1990 n. 428, quale modificato dall’art. 2 D.Lgs. 2.2.2001 n. 18), fosse tenuto a impugnarlo entro 60 giorni, per cui su tale piano la previsione non ha concreto carattere innovativo.

Con la disposizione del 3° comma, lettera b), dell’art. 32 si realizza un singolare allineamento in negativo della posizione dei collaboratori autonomi a quella dei dipendenti, nel senso che essa è stata prevista per estendere ai primi, non una disciplina di tutela, ma un tratto sfavorevole della disciplina dei secondi. Ma anche questa norma si caratterizza in modo particolarmente negativo. Ove si tratti di vero rapporto autonomo, non è per sua natura applicabile una disciplina analoga a quella del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, per cui non si comprendono le ragioni della necessità di un onere di impugnazione. Ove si tratti invece (e questo sembrerebbe il vero retroterra della norma) di un falso rapporto autonomo, si ricadrebbe in pieno nella volontà legislativa di contrastare, per non dire addirittura boicottare, la tutela giurisdizionale in caso di recesso, imponendo al lavoratore di impugnare velocemente un licenziamento anche se il datore di lavoro non lo ha qualificato come tale. E ciò è confermato dalla previsione, di cui alla prima parte della lettera a) del 3° comma, per cui il lavoratore deve sottostare al doppio onere di decadenza anche nel caso di “licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro” il che vuol dire che, se anche si tratta di rapporto di lavoro “in nero”, o camuffati da collaborazioni autonome, o da appalti ad “imprenditori con partita IVA”, in ogni caso il soggetto lavoratore (che in realtà è un subordinato) deve stare attento al duplice sbarramento temporale dei 60+180 giorni. La finalità legislativa, chiara e manifesta, non è quindi quella di agevolare chi è stato maltrattato e turlupinato, ma di favorire chi ha posto in esse rapporti non regolarizzati o configurati all’esterno in modo falsificato e perverso.

A livello statistico, cioè sul piano del concreto impatto sociale, più pericolosa sarebbe stata quella delle lettere e) e d) del 3° comma dell’art. 32, con le quali si è disposto:

a) che anche i licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla legittimità del termine apposto al contratto, sono soggetti all’applicazione del nuovo art. 6 L. 15.7.1966 n. 604 e quindi del doppio termine di decadenza;

b) che anche l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro ai sensi degli art. 1, 2 e 4 del D.Lgs. 6.9.2001 n. 368, è soggetto a tale doppio termine, con decorrenza dalla data di scadenza del rapporto;

c) che tale disciplina si applica sia ai contratti in corso, sia a quelli già cessati (ancorché stipulati ai sensi della L. 18.5.1962 n. 230), con decorrenza dalla data di entrata in vigore della legge.

Trattasi di innovazioni di enorme portata, che sconvolgono una disciplina assestatasi quantomeno dal 1942 e quindi per circa 70 anni. In concreto, da ora in poi (e ci riferiamo ai rapporti di lavoro a tempo determinato in corso o che saranno istituiti) i lavoratori si sarebbero trovati di fronte, subito dopo la cessazione del rapporto di lavoro, una tagliola, perché, se non avrebbero agito subito (cioè entro i ben noti 60+180 giorni) avrebbero perso ogni loro diritto conseguente alla, pur eventualmente sussistente, nullità della clausola a termine, mentre, se viceversa avrebbero agito, si sarebbero trovati esposti (ove non riescano vincenti) a non essere più richiamati in servizio. Ed è proprio questa seconda condizione che toglie spontaneità al mancato esercizio della prima scelta. In questo modo si sarebbe ingenerato nel lavoratore il timore di precludersi (in caso di mancato accoglimento del ricorso) ogni possibilità di futuro richiamo. Ma è proprio in questo che si annida il nucleo di una illegittimità costituzionale della norma. Come ha indicato la Corte Suprema di Cassazione con orientamento consolidato (v., fra le tante, Cass. 13.8.1997 n. 7565), in tal caso i diritti dei lavoratori cominciano a prescriversi dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che accerta la nullità della clausola a termine e la conversione del contratto a tempo indeterminato. Si tratta quindi di un caso particolare, poiché, pur dovendosi riconoscere l’avvenuta conversione, non si può non prendere in considerazione che il rapporto di lavoro si è svolto senza alcuna garanzia soggettiva e psicologica di stabilità. Proprio per questo la giurisprudenza ha applicato a tale ipotesi il principio, costituzionalmente necessitato, della non decorrenza della prescrizione durante il rapporto di lavoro. Ma per la stessa ragione si rende costituzionalmente illegittima l’intera normativa suindicata, in quanto non si può considerare rilevante una mancata attivazione da parte di un soggetto, che, in quanto assunto solo a termine, è privo di stabilità. Non si possono perciò omogeneizzare le due situazioni, rispettivamente, del lavoratore licenziato nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e di un lavoratore che abbia in corso o abbia concluso un rapporto di lavoro a termine, poiché, mentre il primo ha visto comunque la cessazione patologica del suo rapporto e non ha più nulla da perdere, il secondo ha visto solo la conclusione apparentemente “fisiologica” di un rapporto a termine e non può escludere che (se non insorgerà giudizialmente) sarà richiamato. Non si può quindi approfittare di tale situazione di precarietà e di insicurezza del prestatore di lavoro, e quindi del suo metus di non venire riassunto in caso di controversia, per fargli perdere i diritti conseguenti alla nullità del termine stesso. L’intera normativa suindicata va quindi considerata incostituzionale per contrasto con gli art. 3, 4, 36 e 41, 2° comma, Cost. Di specifico rilievo negativo in tale quadro è poi la norma della lettera b) del 4° comma, con la quale si vorrebbe fare una ablazione generalizzata dei diritti di centinaia di migliaia (e forse di milioni) di lavoratori nel ridottissimo termine di sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge stessa. In un colpo solo i lavoratori precari italiani perderebbero ogni loro possibilità di agire giudizialmente, e ciò, fra l’altro, senza alcuna informazione di massa da parte degli organi (in specie radiotelevisivi) di informazione. Si consumerebbe cioè un atto nefasto, e in sostanza anche subdolo, verso una infinità di persone, e soprattutto donne e giovani, e quindi i più deboli.

Con un singolare fenomeno di riscrizione al contrario, dopo aver demolito l’impianto normativo di quella che era stata la L. 18.4.1962 n. 230, il disegno di legge si diresse a sovvertire anche i principi di quella che era stata la L. 23.10.1960 n. 1369, poi sostituita, in un modo un po’ rocambolesco, dagli art. 20 e 27 del D.Lgs. 10.9.2003 n. 276. In sostanza, si previde che se un lavoratore fosse assunto da un falso appaltatore e cioè da un

soggetto che si interponesse al posto del vero datore di lavoro, anche e perfino in questo caso avesse solo 60 giorni di tempo successivi alla cessazione del rapporto per chiedere in via stragiudiziale il riconoscimento dell’effettiva titolarità del rapporto e ulteriori 180 giorni per presentare il ricorso, in mancanza del rispetto dei quali termini avrebbe perso ogni relativo diritto. Ma la norma, nella sua virulenza, si espone allo stesso vizio di illegittimità costituzionale sopra rilevato: poiché, in realtà, il rapporto di lavoro si era costituito con il vero datore di lavoro, si avrà un caso di rapporto di lavoro a tempo indeterminato privo di garanzie soggettive e psicologiche di stabilità, il che rende inammissibile la previsione di termini di decadenza al suo interno. Per cui, anche questa norma, con la quale indirettamente si verrebbe ad avallare ogni fenomeno di illecita interposizione e di caporalato, non può che essere esposta ad un annullamento per incostituzionalità.

Come se non bastasse l’estensione smisurata delle norme di decadenza, l’art. 32 ha ristretto anche l’area del risarcimento del danno spettante al lavoratore a termine, prevedendo che il giudice non potrebbe liquidargli un’indennità inferiore a 2,5 mensilità e superiore a 12, ovvero, “in presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratti a termine nell’ambito di specifiche graduatorie” (trattasi di una norma pensata appositamente per S.p.a. Poste Italiane), a sole 5 mensilità. Anche questa previsione è insostenibile, perché contraria a tutti i principi dell’ordinamento. Al riguardo, va ricordato, per una equilibrata trattazione del tema, che da molti anni la giurisprudenza si è attestata nel senso che, pur in caso di nullità della clausola a termine, il lavoratore che abbia svolto quel rapporto e che in epoca successiva agisca giudizialmente, ha diritto al risarcimento del danno, non con decorrenza dal giorno di cessazione del rapporto, ma dal giorno in cui abbia offerto la sua prestazione lavorativa. Da questo giorno si determina una situazione di illegittimo rifiuto da parte del datore di lavoro delle prestazioni lavorative offerte dal dipendente, corrispondente alla c.d. mora del creditore (mora accipiendi) di cui agli art. 1206 e segg. c.c. Ma, se questa situazione si prolunga per oltre un anno (ad es. per due, tre anni) prima di pervenire alla sentenza, è assurdo che il lavoratore, cioè il soggetto che ha ragione, veda limitato il contenuto del risarcimento a sole 12 mensilità, poiché egli avrà diritto al risarcimento integrale del danno effettivamente subito. Il principio base del processo civile è quello per cui la durata del procedimento non può andare a danno della parte che ha ragione, e tale principio può ritenersi costituzionalizzato ai sensi dell’art. 24, 1° comma, e dell’art. 111, 1° e 2° comma, Cost. Ne consegue che i commi 5 e 6, e così pure di conseguenza, il comma 7 dell’art. 32 non possono che essere valutati costituzionalmente illegittimi per contrasto con le norme suindicate.

L’analisi svolta ha palesato come gli art. 31, 30 e 32 del disegno di legge in esame siano stati fra i più deplorevoli nella storia del diritto del lavoro del nostro Paese e come molti dei relativi enunciati siano esposti a densi profili di incostituzionalità. Tuttavia non si sarebbe sinceri se non si rilevasse che anche essi a loro modo sono un’immagine del nostro Paese e, se si vuole, delle generazioni attuali. Il fatto è che, specie dopo la scomparsa nel Parlamento eletto dopo la consultazione del 2008 di partiti politici di sinistra specifica, si è determinata una sorta di insensibilità diffusa e strisciante ai valori della solidarietà e di una almeno tendenziale eguaglianza. I lavoratori subordinati vengono visti, tanto più quanto sono deboli, non come il fulcro della società, ma come una serie di soggetti già dotati di troppe tutele e nei confronti dei quali bisogna procedere a una rimodulazione peggiorativa delle discipline. Su tale piano, l’intero decennio 2001-2010 (escludendo la pallida e non particolarmente feconda

parentesi dal maggio 2006 all’aprile 2008) è stato costellato di normative controriformistiche: 1) era tale il D. Lgs. 6.9.2001 n. 308 di tormentato allargamento dei casi di contratto a termine; 2) è stato tale l’apparato normativo di cui alla L. 14.2.2003 n. 30 e ai D. Lgs. 10.9.2003 n. 276 e 6.10.2004 n. 251; 3) sono state tali le frammentarie norme, in materia di rapporti di lavoro contenute nel D. L. 25.6.2008 n. 112, conv. in L. 6.8.2008 n. 133; 4) è stato massicciamente tale il recente disegno di legge n. 1167-B nei suoi art. 31, 30 e 32. Non è quindi una contingenza, ma un disegno preciso (e talora anche viscerale) di scremare le tutele e le garanzie per i lavoratori subordinati, che ha percorso ormai un intero decennio. Ma, proprio perché l’orientamento è stato ed è questo, esso delinea per le forze politiche e sindacali e per ogni soggetto legato ai valori costituzionali la possibilità (e, in realtà, la doverosità) di un obiettivo specifico, e cioè quello di porre fine alla normativa controriformistica e di riprendere la strada del riconoscimento di effettive tutele a chi vive (quando riesce a conseguirlo) del proprio lavoro. Su tale piano ha avuto un alto significato la decisione del Presidente della Repubblica di esercitare il potere di cui all’art. 74, 1° comma, Cost., e quindi di rinviare il disegno di legge alle Camere con l’evidenziazione, non solo dei vizi di legittimità costituzionale degli art. 31 e 32, ma anche del loro contrasto profondo con tutti i valori dell’evoluzione storica del diritto del lavoro; Una normativa, come quella degli art. 31, 30 e 32, che, se si intende la complessità dei lavoratori come gruppo, può considerarsi veramente discriminatoria di tale gruppo e quindi nuova “protagonista” di una impostazione discriminatoria, anch’essa presente nella storia, più negativa, dell’ultimo secolo e mezzo del diritto italiano38.

38 Per un’attenta e compiuta indagine sulla legislazione di discriminazione razziale, non solo nei confronti degli ebrei negli anni 1938-1945, ma già prima nei confronti della popolazione indigena africana delle colonie occupate dall’Italia, v. BIANCONI Sofia, La legislazione razzista in Italia e in Europa, Roma, 2009.