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I TUFI ZEOLITIZZATI NELL’ARCHITETTURA DELLA CAMPANIA Abner Colella a , Domenico Calcaterra b , Piergiulio Cappelletti a , Alessio Langella c , Luigi Papa a , Maurizio de’ Gennaro a a Dipartimento di Scienze della Terra, Università degli Studi di Napoli Federico II b Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Geotecnica ed Ambientale, Università degli Studi di Napoli Federico II c Dipartimento di Studi Geologici e Ambientali, Università del Sannio, Benevento ABSTRACT The architecture of Campania region, as many other Italian areas, is characterized by a widespread use of local stones as building materials. In the past, these stones have been deeply investigated from a genetic and compositional point of view, but little is known about their petrophysical features as well as their behaviour towards the decay agents. This lack of information does not allow an accurate choice of the most proper procedures to follow in case of restoration of important architectural pieces of work necessary to guarantee a long lasting life. In this frame the research aims at widening the knowledge on the zeolitized tuffs used in the architecture of Campania, the Neapolitan Yellow Tuff and the yellow facies of the Campanian Ignimbrite, in order to provide a contribution for a better comprehension from a mineralogical and petrophysical point of view and to evaluate their transformations induced by interaction with the surrounding environment. RIASSUNTO L’architettura della Campania, come quella di molte altre regioni italiane, si caratterizza per l’uso diffuso, come materiale da costruzione, di rocce di provenienza locale. Molte di queste, pur essendo state approfonditamente studiate dal punto di vista genetico e composizionale, sono poco note per quanto riguarda le caratteristiche petrofisiche ed il loro comportamento verso gli agenti del degrado. Questa mancanza di informazione rende difficile la scelta di adeguati interventi di restauro di importanti opere architettoniche necessari alla sopravvivenza dell’opera stessa. Su questa base la ricerca è stata diretta ad arricchire le conoscenze sui tufi zeolitizzati utilizzati nell’architettura della Regione, il Tufo Giallo Napoletano e la facies gialla dell’Ignimbrite Campana, al fine di dare un contributo ad una migliore conoscenza dei materiali, sia dal punto di vista mineralogico e petrofisici, sia per quanto concerne le trasformazioni che essi subiscono in seguito all’interazione con l’ambiente circostante. PAROLE CHIAVE: Tufo Giallo Napoletano, Ignimbrite Campana, caratterizzazione mineralogica e petrofisica, degrado. 1. INTRODUZIONE Il patrimonio architettonico italiano rappresenta una delle principali ricchezze culturali ed artistiche del nostro paese, per la cui realizzazione nel corso dei secoli sono state ampiamente impiegate rocce di varia natura. Tali rocce, benché inizialmente dotate di idonei requisiti prestazionali, allorché messe in opera sono interessate da inevitabili processi di alterazione

Sul ritrovamento a Gallipoli (LE) di alcuni elementi architettonici in piperno

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I TUFI ZEOLITIZZATI NELL’ARCHITETTURA DELLA CAMPANIA

Abner Colella a, Domenico Calcaterra b, Piergiulio Cappelletti a, Alessio Langella c, Luigi Papa a, Maurizio de’ Gennaro a

a Dipartimento di Scienze della Terra, Università degli Studi di Napoli Federico II b Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Geotecnica ed Ambientale,

Università degli Studi di Napoli Federico II c Dipartimento di Studi Geologici e Ambientali, Università del Sannio, Benevento

ABSTRACT

The architecture of Campania region, as many other Italian areas, is characterized by a widespread use of local stones as building materials. In the past, these stones have been deeply investigated from a genetic and compositional point of view, but little is known about their petrophysical features as well as their behaviour towards the decay agents. This lack of information does not allow an accurate choice of the most proper procedures to follow in case of restoration of important architectural pieces of work necessary to guarantee a long lasting life. In this frame the research aims at widening the knowledge on the zeolitized tuffs used in the architecture of Campania, the Neapolitan Yellow Tuff and the yellow facies of the Campanian Ignimbrite, in order to provide a contribution for a better comprehension from a mineralogical and petrophysical point of view and to evaluate their transformations induced by interaction with the surrounding environment.

RIASSUNTO

L’architettura della Campania, come quella di molte altre regioni italiane, si caratterizza per l’uso diffuso, come materiale da costruzione, di rocce di provenienza locale. Molte di queste, pur essendo state approfonditamente studiate dal punto di vista genetico e composizionale, sono poco note per quanto riguarda le caratteristiche petrofisiche ed il loro comportamento verso gli agenti del degrado. Questa mancanza di informazione rende difficile la scelta di adeguati interventi di restauro di importanti opere architettoniche necessari alla sopravvivenza dell’opera stessa. Su questa base la ricerca è stata diretta ad arricchire le conoscenze sui tufi zeolitizzati utilizzati nell’architettura della Regione, il Tufo Giallo Napoletano e la facies gialla dell’Ignimbrite Campana, al fine di dare un contributo ad una migliore conoscenza dei materiali, sia dal punto di vista mineralogico e petrofisici, sia per quanto concerne le trasformazioni che essi subiscono in seguito all’interazione con l’ambiente circostante.

PAROLE CHIAVE: Tufo Giallo Napoletano, Ignimbrite Campana, caratterizzazione mineralogica e petrofisica, degrado.

1. INTRODUZIONE

Il patrimonio architettonico italiano rappresenta una delle principali ricchezze culturali ed artistiche del nostro paese, per la cui realizzazione nel corso dei secoli sono state ampiamente impiegate rocce di varia natura. Tali rocce, benché inizialmente dotate di idonei requisiti prestazionali, allorché messe in opera sono interessate da inevitabili processi di alterazione

che si sviluppano naturalmente e/o per azione antropica e comportano lo scadimento delle proprietà tecniche. Sulla base di tali premesse, è andata sempre più accentuandosi la necessità di tutelare e conservare il costruito dei centri storici con la convinzione che lo studio del degrado dei materiali lapidei e la conseguente progettazione dei possibili interventi di restauro possano essere affrontati solo conoscendo approfonditamente i materiali stessi. Al momento, se esistono numerosi studi sui materiali più diffusamente impiegati per la realizzazione di importanti opere, come ad esempio i marmi, le conoscenze relative ai materiali di provenienza locale sono invece ridotte o insufficienti a consentire la scelta degli interventi più adeguati a garantirne la durata nel tempo. E’ per questa ragione, che già da molti anni sono state avviate ricerche (Calcaterra et al., 1995; Calcaterra et al., 2000, Calcaterra et al., 2003, Calcaterra et al., 2004) finalizzate ad approfondire le conoscenze sui materiali lapidei maggiormente utilizzati nell’architettura campana (Tufo Giallo Napoletano, Piperno, Ignimbrite Campana). Ciò al fine di studiare la loro distribuzione nei centri urbani di maggiore interesse, verificarne lo stato di conservazione, interpretare i fenomeni alterativi in funzione della natura mineralogica e petrografica della roccia, ed eventualmente proporre interventi che nel tempo non arrechino danni alla stessa. Questo lavoro rappresenta un approccio preliminare al problema ed è incentrato sulla caratterizzazione fisico-meccanica oltre che chimico-mineralogica del Tufo Giallo Napoletano (TGN) e della facies zeolitizzata dell’Ignimbrite Campana (IC). Dal confronto tra i dati acquisiti su materiali inalterati e quelli ottenuti su analoghi campioni sottoposti a cicli di invecchiamento si è cercato di interpretare i processi alterativi che interessano i due litotipi al variare delle condizioni fisiche dell’ambiente.

2. INQUADRAMENTO GEOLOGICO

Il Tufo Giallo Napoletano è un esteso deposito piroclastico (15 ka, Deino et al., 2004) correlabile all’intensa attività vulcanica dei Campi Flegrei (Scarpati et al., 1993; Cole et al., 1994). La formazione del TGN si rinviene in affioramenti situati sia alla periferia dei Campi Flegrei che nella Piana Campana (Rosi & Sbrana, 1987). La sorgente dedotta del TGN è localizzata nella parte nord-est dei Campi Flegrei e gli affioramenti di tufo raggiungono una distanza massima di 31 km da questa bocca eruttiva. Per questa formazione è stato stimato un volume di 49,3 km

3 DRE (Scarpati et al., 1993). Sulla scorta delle caratteristiche di campagna

e dei parametri granulometrici, Scarpati et al. (1993) hanno individuato in questa formazione due unità distinte: la più bassa (membro A) è costituita da sei depositi incoerenti intervallati da strati cineritici; l’unità superiore (membro B) è caratterizzata da diverse stratificazioni suddivisibili in due facies, quella inferiore di colore giallo e litoide (TGN s.s.), quella superiore incoerente e grigia (pozzolana). Sono stati rilevati spessori massimi dell’ordine di 60-70 m per la facies litoide e di 20-25 m per l’altra. Entrambi i membri sono costituiti da pomici e frammenti di ossidiana, litici e cristalli immersi in una matrice cineritica che ha dato luogo, nel membro B, alla formazione di minerali secondari come le zeoliti (phillipsite, cabasite e analcime) e subordinatamente di minerali argillosi (smectite). Feldspato alcalino, clinopirosseni salitici o diopsidici, biotite e plagioclasio sono i pochi fenocristalli pirogenici presenti (de’ Gennaro et al., 2000). L’Ignimbrite Campana (39 ka; De Vivo et al., 2001) costituisce uno dei depositi tra i più importanti per potenzialità e tenore di minerale utile presenti sul territorio italiano (de’ Gennaro & Langella, 1996). Essa rappresenta, infatti, il prodotto vulcanico più importante della Campania, giacché ricopre una superficie molto estesa della regione. Attualmente l’ipotesi più accreditata è quella dell’origine da un unico centro d’emissione, molto probabilmente, localizzato tra Napoli ed i Campi Flegrei (Scarpati et al., 1993). Stime sulla quantità di materiale eruttato valutano valori da 80 (Thunnell et al., 1978) a circa 150 km3 DRE (Civetta et al., 1997), distribuiti su gran parte della regione campana e riconosciuti anche nel Mediterraneo orientale (Thunnell et al., 1978). La parte centrale della successione

dell’Ignimbrite Campana è formata da due unità principali: una inferiore grigia saldata ricoperta da una gialla litificata (Cappelletti et al., 2003). La facies grigia è interessata da un processo di feldspatizzazione autigeno ed il contenuto di feldspato varia dal 30 al 90%. La facies gialla, invece, ha subito un processo minerogenetico secondario che ha portato alla cristallizzazione di phillipsite e cabasite la cui concentrazione totale media è di circa il 60% (Cappelletti et al., 2003). Lo studio comparativo delle caratteristiche sia mineralogiche che vulcanologiche fa ipotizzare che le due unità si siano formate in conseguenza di processi secondari caratterizzati da differenti temperature e, relativamente alla facies zeolitizzata, da interazione con acque meteoriche. La porzione caratterizzata da temperature di messa in posto più elevate è stata saldata e feldspatizzata, dando origine alla facies grigia, mentre la parte interessata dalla circolazione di acque meteoriche, è stata zeolitizzata e litificata, dando origine alla facies gialla (Cappelletti et al., 2003). La facies zeolitizzata è molto più localizzata rispetto a quella grigia ed particolarmente concentrata nelle province di Caserta, Napoli ed Avellino.

3. MATERIALI E METODI

I campioni utilizzati per la ricerca sono stati prelevati da due importanti affioramenti, localizzati nella provincia di Napoli. Il Tufo Giallo Napoletano proviene dalla cava “Liccarblock” di Quarto (NA) mentre, per la formazione dell’Ignimbrite Campana in facies gialla, la campionatura è stata effettuata nella cava della ditta Apostolico & Tanagro a Comiziano (NA) nel comprensorio di Nola (Fig. 1).

Figura 1. Ubicazione dei siti di provenienza dei campioni di TGN e IC.

La campionatura è stata operata da fronti di cava aperti, avendo cura di prelevare i campioni dallo stesso orizzonte stratigrafico. Lo studio mineralogico e chimico rappresenta una fase analitica fondamentale per una corretta caratterizzazione dei materiali, mentre la caratterizzazione geomeccanica consente di simulare e valutare, attraverso prove di laboratorio, il comportamento del materiale sotto l’azione di sollecitazioni di varia natura. Le informazioni ottenute permettono di caratterizzare compiutamente il materiale lapideo e di fornire possibili indicazioni sulla provenienza dei materiali usati e sui processi alterativi che lo interessano. Le proprietà fondamentali dei materiali sono state valutate sulla base delle specifiche tecniche previste dalle normative vigenti (NORMAL, UNI EN). I campioni sono stati predisposti alle varie fasi analitiche avendo cura di eliminare tutte le patine superficiali di alterazione. I provini da destinare alla caratterizzazione fisico-meccanica, dopo la sagomatura, sono stati lavati con acqua deionizzata (per eliminare i residui di polvere derivanti dal taglio) e posti in stufa ad una temperatura di 70°C per 24 ore fino al raggiungimento della massa costante.

3.1 Diffrattometria Raggi X

È stata realizzata un’analisi diffrattometrica RX su campioni rappresentativi delle rocce in toto utilizzando un diffrattometro automatico Philips PW1730/3710, con monocromatore a cristallo curvo di grafite con le seguenti condizioni operative: radiazione CuKα, 40 kV, 30 mA, step size = 0,020° 2θ e tempi di conteggio pari a 4 sec per step. Gli spettri di polvere sono stati interpretati in chiave quantitativa seguendo la metodologia RIR (Chipera & Bish, 1995).

3.2 Analisi spettrochimiche

L’analisi chimica è stata effettuata su campioni rappresentativi delle due rocce presso il Centro di Servizio Interdipartimentale per le Analisi Geomineralogiche (CISAG, Napoli), utilizzando uno spettrometro automatico per fluorescenza RX modello Philips PW 1400 equipaggiato di tubo al W. L’analisi in fluorescenza RX prevede la stima della percentuale in peso degli elementi maggiori in accordo con il metodo descritto da Melluso et al. (2005). L’accuratezza analitica è intorno a ± 1% per SiO2, TiO2, Al2O3, Fe2O3, CaO, K2O e MnO; ± 4% per MgO, Na2O e P2O5.

3.3 Osservazioni al S.E.M.

Le indagini in microscopia elettronica finalizzate alla valutazione delle relazioni tessiturali dei diversi costituenti della roccia sono state eseguite con un’apparecchiatura Jeol JSM 5310 (CISAG, Napoli).

3.4 Peso specifico apparente

La misura del peso di volume o peso specifico apparente, espresso in kg/m3, è stata effettuata su provini di forma cubica (7,1 cm di lato).

3.5 Peso specifico reale e porosità aperta

La determinazione del peso specifico reale, funzione del peso specifico dei costituenti e della porosità non accessibile, espresso in kg/m3, è stata effettuata con l’ausilio di un picnometro ad elio (Multi Volume Pycnometer 1305 Micromeritics), su provini cilindrici (diametro pari a 2,5 cm e altezza ≤ 3 cm) con un’accuratezza di ± 0,1-0,2%. Le misure del volume apparente e di quello reale hanno consentito di calcolare la porosità aperta.

3.6 Assorbimento d’acqua a pressione atmosferica

Questa prova consente di determinare la quantità d’acqua assorbita da un campione di pietra naturale dopo immersione a pressione atmosferica. Per ogni litotipo sono stati utilizzati provini di forma cubica (7,1 cm). La determinazione dell’assorbimento d’acqua a pressione atmosferica è stata effettuata secondo le indicazioni riportate nel documento UNI EN 13755.

3.7 Resistenza a compressione uniassiale

Per verificare la resistenza a compressione semplice dei materiali lapidei, espressa in MPa, è stata utilizzata una pressa meccanica universale rigida (modello Controls C5600), con carico massimo pari a 3000 kN e con velocità di applicazione del carico costante pari a 1±0,5 MPa/s. Le prove sono state eseguite in base alle indicazioni contenute nella Normativa UNI EN 1926 su provini di forma cubica (7,1 cm).

3.8 Velocità ultrasonica

La prova, eseguita secondo le specifiche della norma UNI EN 14579, consente di registrare il tempo che le onde ultrasoniche impiegano nell’attraversare il campione. E’ stata utilizzata

un’apparecchiatura Pundit 6 dotata di una coppia di trasduttori, aventi diametro di 50 mm e frequenza di 24 kHz, su provini cubici con lato di 7,1 cm.

3.9 Dilatazione lineare termica

Questa prova consente di determinare il coefficiente d’espansione termica delle pietre naturali mediante l’utilizzo di un dispositivo di misura meccanico realizzato secondo le specifiche della normativa UNI EN 14581. Le prove sono state effettuate su campioni prismatici (25 cm × 5 cm × 2,5 cm) collegati attraverso punte (di cui una mobile) al dispositivo di misura. Tutto il dispositivo è inserito in una cella climatica che permette di registrare le variazioni di lunghezza del provino all’aumentare della temperatura.

3.10 Dilatazione per immersione in acqua (swelling test)

La prova è stata effettuata su provini cubici di 5 cm di lato con un’apparecchiatura sperimentale realizzata appositamente dalla ditta Lonos Test di Brescia, in cui ogni faccia del provino è posta a contatto con i sensori di un dispositivo di misura (LVDT), che registra variazioni dell’ordine del µm.

3.11 Porosimetria a mercurio

La valutazione della distribuzione delle dimensioni dei pori è stata effettuata utilizzando un’apparecchiatura della Thermo Finnigan (Pascal 140 e 440).

3.12 Test di invecchiamento artificiale

Per l’esecuzione dei test di invecchiamento accelerato sono state adoperate due celle climatiche dotate di un sistema di programmazione di cicli climatici a temperatura ed umidità controllate. Per il test secco-umido (Wet-Dry) è stato utilizzato un forno Binder KBF 115, la cui programmazione ha previsto una variazione della temperatura da 25° a 75°C e dell’umidità dal 25% all’85%, per tre volte nell’arco delle 24 h. Per l’esecuzione del test gelo-disgelo (Freeze-Thaw) è stato impiegato un forno Binder MK 53 seguendo le indicazioni della norma UNI EN 12371. Il test prevede per i provini saturi ripetuti trattamenti di 6h nella camera climatica, con temperatura che varia da 20° a -12°C, e successivamente di immersione totale in acqua a temperatura ambiente per 6h.

4. RISULTATI E DISCUSSIONE

4.1 Caratterizzazione chimico-mineralogica

Il TGN e l’IC sono caratterizzati dalla presenza di fasi primarie e autigene. Le prime sono rappresentate principalmente da feldspati e subordinatamente da mica biotite e pirosseno, le seconde da zeoliti, in particolare phillipsite, cabasite ed analcime, e subordinatamente da smectite. Sulla base della valutazione quantitativa (Tabella 4.1) la phillipsite risulta la zeolite prevalente nel TGN, cui si associano la cabasite e, in percentuali minori ma comunque significative, l’analcime. Nell’IC i tenori di phillipsite e cabasite sono sostanzialmente equivalenti mentre l’analcime è totalmente assente. In entrambi i materiali è presente la smectite in tenori prossimi al 10%, le fasi amorfe oscillano tra il 13 ed il 19% e quelle primarie (feldspato e mica) tra il 13 ed il 18%.

Tabella 4.1. Analisi mineralogiche quantitative del TGN e dell’IC.

Smectite (%)

Biotite (%)

Feldspato (%)

Phillipsite (%)

Cabasite (%)

Analcime (%)

TOT (%)

Tot Zeolite (%)

TGN 12 0,5 12 36 19 7 87 63 IC 8 1,0 17 30 25 0 81 55

In Tabella 4.2 si riportano le analisi chimiche relative ai due materiali presi in considerazione dalle quali risulta evidente la tipica composizione trachitica delle vulcaniti flegree, caratterizzata da elevati tenori di K2O. Questa composizione, che caratterizza il vetro vulcanico originario, ne favorisce la trasformazione in zeoliti di tipo “intermedio” (Gottardi, 1978) quali appunto la phillipsite e la cabasite (de’ Gennaro et al.,2000; Cappelletti et al., 2003).

Tabella 4.2. Analisi chimiche del TGN e dell’IC.

SiO2

(%) TiO2

(%) Al2O3

(%) Fe2O3

(%) MnO (%)

MgO (%)

CaO (%)

Na2O (%)

K2O (%)

P2O5

(%) SUM (%)

LOI (%)

TOT (%)

TGN 53,43 0,42 14,39 4,09 0,15 1,02 3,26 1,54 7,17 0,10 85,57 14 99,57

IC 54,85 0,47 15,10 4,24 0,15 1,03 5,13 1,09 6,46 0,11 88,64 12 100,64

4.2 Caratterizzazione fisico-meccanica

In Tabella 4.3 sono riassunti i risultati delle analisi eseguite. Il peso specifico apparente del TGN varia tra 950 e 1060 kg/m3 e tra 1060 e 1140 kg/m3 quello dell’IC, variabilità questa che è da mettere in relazione all’eterogeneità tessiturale dei tufi (presenza di pomici di dimensioni molto variabili, presenza di litici, etc.).

Tabella 4.3. Caratteristiche fisico-meccaniche.

MATERIALE

PESO

SPECIFICO

APPARENTE (kg/m3)

PESO

SPECIFICO

REALE (kg/m3)

POROSITA’

APERTA (%)

COEFFICIENTE

DI

IMBIBIZIONE (%)

RESISTENZA A

COMPRESSIONE (MPa)

VELOCITA’

ULTRASONICA (m/s)

TGN 1030 2250 52,8 44,26 4,92 1691

min – max (dev. st.)

950-1060 (0,03)

2240-2270 (0,01)

51,2-55,5 (0,02)

42,61-45,77 (1,01)

4,10-6,65 (5,3)

1602-1756 (50)

IC 1110 2320 50,8 39,46 5,83 1751

min – max (dev. st.)

1060-1140 (0,01)

2310-2360 (0,04)

48,2-54,9 (0,02)

38,91-40,00 (0,39)

5,27-6,22 (2,08)

1681-1838 (50)

Il peso specifico reale varia entro limiti più ristretti sia per il TGN (2240 e 2270 kg/m3) che per l’IC (2310 e 2360 kg/m3). I valori medi leggermente più alti per l’IC sono verosimilmente da ricondurre al minore contenuto totale di zeoliti, fasi a basso peso specifico, ed al maggiore tenore di feldspato. Sulla basi di tali valori entrambi i materiali sono definibili come rocce leggere (Primavori, 1997). La porosità totale aperta per entrambi i materiali è prossima o maggiore del 50% (TGN: 51,2 - 55,5%; IC: 48,2 - 54,9%). Ancora una volta la variabilità del dato sembra essere condizionata prevalentemente dall’eterogeneità del materiale, mentre gli alti valori sono da mettere in relazione alla particolare struttura delle rocce, caratterizzate dalla presenza di abbondanti pomici di dimensioni molto variabili, immerse in una matrice cineritica profondamente trasformata in un aggregato di phillipsite e cabasite, minerali a loro volta a struttura microporosa. I risultati delle indagini in porosimetria a mercurio sono riportati in Tabella 4.4 ed evidenziano marcate differenze tra i due materiali.

Tabella 4.4. Principali parametri determinati con la tecnica di porosimetria a mercurio.

RAGGIO MEDIO

DEI PORI

(µm)

SUPERFICIE

SPECIFICA

(m2/g)

TGN 0,055 18,97 IC 0,79 9,60

Per quanto attiene alla distribuzione dei pori, il TGN presenta una distribuzione bimodale caratterizzata da una prima classe, meno abbondante, ricadente nel campo dei macropori, ed una seconda classe con pori di dimensioni minute (0,01÷1µm), distribuiti a cavallo dell’intervallo mesopori – macropori (Fig. 2). L’IC al contrario è caratterizzata da un’unica famiglia di pori ricadenti nella classe dei macropori (0,1÷1µm) (Fig. 2). Tali distribuzioni influenzano significativamente sia i valori della superficie specifica totale, che risulta essere più alta nel TGN (~19m2/g) rispetto all’IC (~10m2/g), che del raggio medio dei pori, più piccolo di un ordine di grandezza nel TGN.

Figura 2. Rappresentazione grafica della prova mediante porosimetria a mercurio di un campione di TGN (sinistra) e di IC (destra).

Le prove di assorbimento d’acqua per immersione totale hanno rivelato un’elevata attitudine dei due materiali ad assorbire acqua (Tabella 4.3), legata all’esistenza di un reticolo di pori intercomunicanti, che a sua volta facilita la penetrazione dell’acqua. I valori più alti del coefficiente di imbibizione per il TGN sono da mettere in relazione con la più alta porosità aperta. Il TGN presenta valori di carico a rottura (UCS) compresi tra 4,1 MPa e 6,65 MPa; l’IC si caratterizza per valori simili a quelli del TGN ma con minore variabilità (5,27 - 6,22 MPa). La dispersione ed i bassi valori di questo parametro sono da mettere in relazione rispettivamente alla particolare eterogeneità di queste rocce ed alle loro caratteristiche tessiturali tra le quali un ruolo importante è svolto dalla porosità (Evangelista & Pellegrino, 1990). Caratteristiche tessiturali, queste, che si riflettono anche sui valori delle velocità ultrasonica (Tab. 4.3).

4.2.1 Dilatazione termica lineare

Nel corso delle prove di dilatazione termica lineare (Tabella 4.5 e Fig. 3) entrambi i materiali hanno mostrato una contrazione dimensionale all’aumentare della temperatura dovuta alla disidratazione del cemento zeolitico. La riduzione complessiva della lunghezza del campione risulta dell’ordine dello 0,1÷0,2%.

Tabella 4.5. Risultati delle prove di dilatazione lineare termica.

Dilatazione (mm/mm) Campione

media max min dev. st. TGN -0,12 -0,15 -0,10 0,02

IC -0,18 -0,33 -0,10 0,09

Questi valori non sono concorrenti con la composizione mineralogica delle due rocce. Infatti la contrazione maggiore viene registrata per l’IC che si caratterizza per un tenore totale di fasi di neoformazione più basso. Si deve ipotizzare pertanto che il ruolo svolto da ogni singola fase sia diverso e che un peso maggiore sia “svolto” dalla cabasite e dalla fase amorfa presenti in quantità più alta nella IC.

Figura 3. Rappresentazione grafica di una prova di dilatazione termica lineare per un campione di IC.

4.2.2 Dilatazione per immersione in acqua (swelling test)

In Tabella 4.6 si riportano i risultati delle prove di dilatazione per immersione in acqua.

Tabella 4.6. Risultati delle prove di dilatazione per immersione.

Deformazione volumetrica per rigonfiamento (%) Campione

media max min dev. st. TGN 0,49 0,72 0,39 0,15

IC 0,47 0,68 0,32 0,12 La deformazione volumetrica misurata (Fig. 4) può essere ricondotta a molteplici cause concomitanti quali:

� idratazione delle zeoliti; il volume iniziale del provino è condizionato a valori di umidità relativa del 50%. La saturazione in queste fasi determina un aumento di volume;

� idratazione delle fasi amorfe presenti nel tufo (13% per il TGN e 19% per l’IC) con conseguente aumento del volume;

� idratazione della smectite (circa 12% per il TGN e 8% per l’IC) con conseguente aumento di volume.

Il ruolo giocato da ogni singola fase sembra meno evidente di quanto appare dalla “dilatazione termica”.

Figura 4. Rappresentazione grafica di una prova di dilatazione per immersione in acqua per un provino di TGN.

4.3 Test di invecchiamento accelerato

I test di invecchiamento accelerato sono stati i seguenti: � test secco-umido: costituito da 2 step da 50 giorni, con tre oscillazioni cicliche

nell’arco della giornata, simulando pertanto un invecchiamento di circa dieci mesi; � test gelo-disgelo: eseguito in conformità alle indicazioni della norma UNI EN 12371.

4.3.1 Test secco-umido

I test di invecchiamento secco-umido per entrambi i materiali comportano un incremento della porosità di poco superiore ad una unità percentuale (Tabella 4.7), una riduzione di poche unità percentuali della resistenza a compressione (Tabella 4.8) e della velocità ultrasonica (Tabella 4.9), in accordo con quanto riportato in letteratura (Langella et al., 2000, Topal & Doyuran, 1998).

Tabella 4.7. Confronto dei dati di porosità prima e dopo il test di invecchiamento secco-umido.

Campioni Porosità

(% )

Variazione dopo I step (% )

Variazione dopo II step (% )

media media media

TGN 52,8 +0,83 +1,28

IC 50,8 +0,69 +1,23

Tabella 4.8. Confronto dei dati di resistenza a compressione uniassiale prima e dopo il test di invecchiamento secco-umido.

Campioni UCS

(MPa)

UCS dopo 2 step

(MPa)

Variazione

(%)

media media media

TGN 4,92 4,8 -2,34

IC 5,83 5,68 -2,59

Tabella 4.9. Confronto dei dati di velocità ultrasonica prima e dopo il test di invecchiamento secco-umido.

Campioni Velocità

ultrasonica (m/s)

Variazione dopo

I step (% )

Variazione dopo

II step (% )

media media media

TGN 1691 -4,48 -12,26

IC 1751 -4,63 -12,65

4.3.2 Test gelo-disgelo

I test gelo-disgelo hanno determinato la formazione di un intenso reticolo fessurativo (Fig. 5).

Figura 5. Evidenza di reticolo fessurativo in un provino di TGN sottoposto al test di gelo-disgelo.

Dall’ispezione visiva eseguita in conformità alla norma è stata valutata l’intensità del danno che è risultata leggermente più alta per il TGN rispetto all’IC (Tabella 4.10).

Tabella 4.10. Risultati dei test di gelo-disgelo.

Campione n° cicli Descrizione dei danni Punteggio ispezione

visiva

2/3 dei provini con lesioni lievi 2 TGN 10

1/3 dei provini con lesioni di entità media 3 IC 10 1/3 dei provini con lesioni lievi 2

4.3.3 Osservazioni al SEM

Per valutare se i trattamenti di “ageing” hanno determinato la perdita di cristallinità delle fasi più labili (zeoliti e smectiti), sono state effettuate osservazioni al microscopio elettronico a scansione (SEM) dopo il test secco-umido. Un attento esame ad ingrandimenti via via crescenti non ha evidenziato significative modificazioni delle caratteristiche morfologiche dei costituenti principali del tufo ed in particolare della phillipsite e della cabasite; al contrario si evince un progressivo aumento della micro-fessurazione (Fig. 6).

Figura 6. Microfratture in IC dopo cicli secco-umido.

Le variazioni di temperatura e di umidità relativa determinano quindi la formazione di un esteso sistema microfessurativo od un’amplificazione di quello già esistente, e non già una perdita di cristallinità delle fasi più labili che costituiscono il cemento della roccia. Ciò spiega

la riduzione contenuta dei valori di resistenza a compressione e di velocità ultrasonica di cui al paragrafo precedente.

5. CONCLUSIONI

I tufi vulcanici rappresentano un importante materiale utilizzato nell’architettura di alcune città dell’Italia meridionale. In particolare, il Tufo Giallo Napoletano e l’Ignimbrite Campana

(facies gialla) sono stati diffusamente utilizzati nell’architettura di Napoli e della provincia di Caserta, sia come semplici pietre da costruzione sia come pietre con funzioni architettoniche quando impiegata facciavista. Per le loro caratteristiche tessiturali e per la composizione mineralogica, questi tufi sono affetti da importanti processi di degrado che spesso portano alla totale disgregazione della pietra con arretramento della sua superficie (de’ Gennaro et al., 1993; de’ Gennaro et al., 1995; Calcaterra et al., 1995). La causa principale di questi processi alterativi è l’acqua e, più in generale, il microambiente che, a secondo dei casi, può dar luogo a fenomeni di alterazione di tipo chimico o fisico. Nel corso di questo lavoro sono state approfondite prevalentemente le modificazioni di alcuni parametri fisici delle pietre indotte dalle variazioni di temperatura ed umidità. I test condotti sui materiali tal quale hanno evidenziato proprietà tipiche di rocce ad elevato tenore di zeoliti ed in particolare una sensibile contrazione per riscaldamento, causata dalla disidratazione di queste fasi, ed un’altrettanto sensibile variazione di volume per immersione in acqua. Ciò fa capire che quando la pietra è sottoposta a variazioni di temperatura o di umidità subisce delle deformazioni che possono comportare la perdita di coesione tra i suoi costituenti e quindi lo scadimento delle proprietà fisiche della roccia. Infatti i test di invecchiamento artificiale, limitati a dieci mesi per le esigenze sperimentali, hanno evidenziato l’insorgere di un diffuso reticolo microfessurativo che comporta variazioni limitate ma evidenti di alcuni parametri caratteristici ed in particolare della velocità di propagazione delle onde ultrasoniche e della resistenza a compressione uniassiale. Le variazioni di temperatura e umidità sono sicuramente le principali cause di deterioramento fisico dei tufi usati facciavista, in quanto comportano sia variazioni dimensionali dei conci sia l’insorgere di microfessurazioni. L’aspetto innovativo di questo lavoro è l’aver definito parametri finora poco conosciuti, quali le variazioni dimensionali per riscaldamento e per immersione in acqua. Le variazioni di umidità associate alla contrazione in seguito al riscaldamento rappresentano, in particolari condizioni, la principale causa del degrado fisico. Un approfondimento ulteriore condotto su un numero statisticamente più significativo di provini, provenienti da affioramenti diversi, potrà consentire di meglio interpretare i diversi fenomeni di degrado che interessano i tufi utilizzati nell’architettura storica della Campania e verificare se queste risultanze possano essere estese anche ai tufi vulcanici di altre regioni.

RINGRAZIAMENTI

Lavoro eseguito nell’ambito del “Progetto Dimostratore Campi Flegrei” del Centro di Competenza Regionale per lo Sviluppo ed il Trasferimento dell’Innovazione Applicata ai Beni Culturali e Ambientali “INNOVA” e con il supporto economico del PRIN 2003 – Resp. Scientifico M. de’ Gennaro. Si ringrazia il dott. Roberto de Gennaro (CISAG, Università Federico II di Napoli) per le osservazioni in microscopia elettronica a scansione.

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