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Critica del testo XVII / 1, 2014 viella

Un nuovo testo giudeo-provenzale

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Critica del testoXVII / 1, 2014

viella

Critica del testo, XVII / 1, 2014

Erica Baricci

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale”

In questo articolo presento l’edizione (non definitiva) di un testo finora sconosciu-to, che intitolo Ma‛aśēy-’Estēr (Le vicende di Ester). Si tratta di un poemetto provenzale trascritto in caratteri ebraici sulla storia della regina Ester, destinato ad essere cantato durante la festa di Pûrîm da una collettività ebraica residente nei pressi di Salon de Provence, intorno agli anni Trenta del XIV secolo. Il testo, trasmesso dal ms. 3140 della Biblioteca Casanatense di Roma, già noto in bibliografia, era però stato considerato un secondo testimone del Roman d’Esther, composto dal medico avignonese Crescas de Caylar intorno alla metà del XIV secolo. Dopo una breve presentazione di contenuto, stile e forma metrica, tento di ricostruire, confrontando Ma‛aśēy-’Estēr e Roman d’Es-ther, la tradizione “giudeo-provenzale” di testi per Pûrîm; infine, sulla base di alcuni argomenti, propongo di attribuire i Ma‛aśēy-’Estēr a Kalonimos ben Kalonimos, savant ebreo che vive intorno agli anni Trenta del Trecento a Salon de Provence.

Il testo che presento in questo articolo – e che, per le ragioni che esporrò, intitolo Ma‛aśēy-’Estēr (ME), ossia Le vicende di Ester – è un rimaneggiamento metrico in giudeo-provenzale1 del Libro di Ester, composto nella prima metà del XIV secolo nei pressi di Avignone.

Adespoto e anepigrafo, questo testo è trasmesso in unica copia dal manoscritto 3140 della Biblioteca Casanatense di Roma (cc. 190v-192r).2 Le carte del codice sono compromesse lungo tutti i margini da

1. Col termine “giudeo-provenzale” intendo in questo contesto la lingua proven-zale trascritta in caratteri ebraici. Per uno studio generale, vd. soprattutto C. Aslanov, Le provençal des Juifs et l’hébreu en Provence. Le dictionnaire Sharshot ha-Kesef de Jo-seph Caspi, Paris-Louvain, Collection de la Revue des Études Juives, 2001. Le traslitte-razioni dall’ebraico si conformano a quella impiegata in J. Weingreen, Hébreu biblique. Méthode élémentaire, Paris, Beauchesne, 1984 (ed. or. Oxford 1959).

2. In questo articolo tratterò solo del testo giudeo-provenzale, rimandando ad altro luogo per un esame codicologico e paleografico del manoscritto. Il testo

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ingenti guasti meccanici, tanto che il documento non risulta sempre leggibile e in molti punti è ricostruibile solo per congettura.

In questa sede presenterò una prima proposta di edizione del testo, da intendere come provvisoria. Essa costituisce, in sintesi, il risultato di uno studio condotto nell’ambito del mio progetto di Dottorato e ancora perfettibile.3 In attesa di offrire un’edizione più sicura e un’analisi più completa, mi sembra tuttavia interessante of-frire subito alla comunità scientifica un documento nuovo,4 perdipiù appartenente a un corpus testuale esiguo e poco conosciuto come quello giudeo-provenzale.

Il Libro di Ester narra come l’eponima protagonista, regina e spo-sa di re Assuero, e Mardocheo, suo zio, riescano a sventare il complot-to che Haman, il malvagio ministro del re, ordisce ai danni degli ebrei, con lo scopo di annientarli. Alla fine, grazie a Ester e a Mardocheo, sarà Haman ad essere impiccato, mentre gli ebrei, salvi e vittoriosi, si dedicano a grandi festeggiamenti. Da questa vicenda trae origine la festa di Pûrîm, che il 14 del mese ebraico di ’Adār (corrispondente a febbraio-marzo) commemora la vittoria degli ebrei sul loro tremendo nemico e prescrive di celebrarla banchettando e bevendo vino fino, secondo il proverbio, «a confondere Mardocheo e Haman».

Tra gli usi di Pûrîm vi è il precetto di leggere la Megillat-’Estēr (il “rotolo” di Ester) e di provvedere a che tutti ne comprendano il

occupa le ultime tre carte di un codice cartaceo (figg. 1, 2, 3 e 4), esemplato nel 1336-1337 da due copisti di Salon de Provence, che conserva, nelle precedenti 190 carte, i primi due libri del Mišneh Tôrâ di Mosè Maimonide.

3. Dati i limiti di spazio, in questa sede presenterò solo i risultati essenziali della ricerca. Anche la bibliografia dà conto esclusivamente degli interventi critici necessari alla mia linea argomentativa. Desidero ringraziare i professori che mi hanno assistito durante lo svolgimento della tesi o subito dopo, dandomi preziosi consigli e suggerimenti importanti. In particolare, sono molto riconoscente a Moni-ca Longobardi, Maria Mayer Modena, Maria Luisa Meneghetti, Laura Minervini, Michael Rhyzik, Alessandro Vitale Brovarone e Fabio Zinelli.

4. La prima a dare notizia del testo giudeo-provenzale conservato nelle carte fi-nali del manoscritto 3140 della Casanatense è Susan Einbinder, nell’articolo A proper diet: medicine and history in Crescas Caslari’s Esther, in «Speculum», 80 (2005), 2, pp. 437-463, a p. 437; la studiosa lo presenta però come un secondo testimone fram-mentario del Roman d’Esther, altrimenti monotestimoniato, sulla base della scheda dell’OPAC della Biblioteca dell’Università di Gerusalemme, che riporta questa infor-mazione. A seguito di un controllo diretto sul manoscritto, ho invece stabilito che si tratta di un altro volgarizzamento giudeo-provenzale del Libro di Ester.

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senso. Pertanto, con la Diaspora, gli ebrei cominciarono a far seguire alla lettura dell’originale ebraico una traduzione nella lingua locale parlata, ad uso di chi non comprendeva la lingua sacra, in particolare donne e bambini. Da ciò conseguì una antica e ricca tradizione di testi per Pûrîm nelle varie lingue delle comunità.

Pûrîm è l’occasione per cui furono composti i ME; ma i ME non sono l’unico esempio noto, nell’ambito della letteratura giudeo-pro-venzale, di mise en vers della Megillâ: celebre è il Roman d’Esther (RdE) di Crescas de Caylar, medico avignonese della prima metà del XIV secolo.5 Mutilo nell’unico testimone manoscritto che lo con-serva, il testo è un vero e proprio romanz in couplets d’octosyllabes che, nei 448 versi sopravvissuti, narra le vicende del libro di Ester dal principio – il banchetto di Assuero – fino all’incontro tra Ester e Assuero (Est. 2:16-18).

Sebbene i ME e il RdE non intrattengano tra di loro alcun rappor-to stemmatico, un reciproco legame testuale sussiste e va oltre il mero dato di fatto che si tratti di due volgarizzamenti dello stesso originale: entrambi i testi appartengono alla medesima tradizione di parafrasi giudeo-provenzali della Megillat-’Estēr da recitarsi a Pûrîm.

Questa tradizione probabilmente fu, agli esordi, solo orale, mentre nel XIV secolo essa si apre un varco nello scritto con testi, come ME e RdE, che costituiscono versioni letterariamente raffinate di canovacci semi-orali precedenti. Oltre ai ME e al RdE, conside-riamo appartenenti a questa tradizione:1. Una parafrasi giudeo-piemontese in versi della storia di Ester. La

lingua è italiana, ma il suo modello probabilmente fu provenzale. Il testo, tuttora inedito, è conservato in due manoscritti del XVI secolo, che ne presentano due redazioni in parte diverse: Londra, British Library (Br. Or 10463) e Mosca, Biblioteca Nazionale (coll. Guensburg 1052).6

5. P. Meyer, A. Neubauer, Le roman provençal d’Esther par Crescas du Cay-lar, médecin juif du XIVe siècle, in «Romania», 21 (1892), pp. 194-227. Le citazioni dal RdE in questo articolo seguono però il testo di S. Méjeanne-Thiolier, M. F. Notz-Grob, Nouvelles courtoises, Paris, Librairie Générale Française, 1997.

6. Il testo mi è stato gentilmente segnalato dalla professoressa Maria Mayer Modena, che lo sta studiando. Tutte le citazioni sono trascrizioni della studiosa, che ringrazio sentitamente per avermi messo a parte del cospicuo materiale e delle idee raccolte per questo suo studio. Alcune considerazioni appaiono già in M. Mayer

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2. La Tragediou de la reina Esther scritta in provenzale dal rabbino Mordekhay Astruc de l’Île-sur-Sorgue alla fine del Seicento e ri-maneggiata nel Settecento dal rabbino Jacob Lunel;7

3. Il ben più recente opéra bouffe Esther de Carpentras (1926) di Armand Lunel.8

Pur tardivi, la Tragediou e l’opéra bouffe attingono dichiarata-mente alla tradizione locale di testi per Purim.

Diversi autori provenzali trattano anche in ebraico della storia di Ester. Innanzitutto è d’obbligo citare il poemetto מי כמוך (‘chi è come te?’), composto in ebraico dallo stesso Crescas de Caylar, e concepito in dittico con il volgarizzamento provenzale, l’uno e l’al-tro orientati su un pubblico diverso: il primo è pensato per le donne, i bambini e chi non parla ebraico, il secondo per gli uomini ebrei che conoscono la lingua sacra.

Le due opere, come già precisato da Meyer,9 non sono l’una la traduzione dell’altra, ma costituiscono due autonomi adattamenti della Megillat-’Estēr, tanto che il loro studio comparato è di notevole interesse per farci cogliere cosa un ebreo si attendesse, intorno al 1330, da un testo divulgativo, godibile a tutti i livelli e spesso diver-tente, e cosa da un testo liturgico, che si inserisce nella tradizione letteraria del piyyûṯ, la poesia religiosa ebraica.

Ad articolare il quadro della produzione letteraria su Pûrîm in Provenza, vi è una serie di parodie in ebraico, coeve o persino an-tecedenti ai volgarizzamenti. Tra tutte, la più celebre è la Masseḵet-Pûrîm (1319-1322) di Kalonimos ben Kalonimos, che fa il verso a un trattato talmudico, assegnando una serie di rigorose norme halaḵiche per Pûrîm, “alla rovescia” e dunque molto ironiche.

Modena, Il teatro giudeo-provenzale e il personaggio drammatico di Vashti, in Stu-di sul teatro in Europa in onore di Mariangela Mazzocchi Doglio, Roma, Bulzoni, 2010, pp. 15-21 e Ead., Purim e gli albori del teatro ebraico in Italia, in «Altre Modernità», 2011 (numero speciale: La Bibbia in scena), pp. 15-21.

7. E. Sabatier, La Reine Esther, tragédie provençale, reproduction de l’édi-tion unique de 1774, Raphèle-lès-Arles, Marcel Petit, 1992 (ripr. anastatica di Nîmes, 1877).

8. A. Lunel, Esther de Carpentras. Opéra bouffe en deux Actes, paroles d’Ar-mand Lunel, musique de Darius Milhaud, Paris, Gallimard, 1926.

9. Meyer, Neubauer, Le roman d’Esther cit., p. 195.

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Posteriori di una decina di anni10 alla Masseḵet-Pûrîm sono il sefer ha-Baqbûq ha-Nāḇî’ (‘il libro del profeta Habaquq’) e la me-

gillat-setarîm (‘Il rotolo dei segreti’), entrambe attribuite a Levi ben Gershon e ispirate, negli intenti e nello stile, alla Masseḵet-Pûrîm.

Su Pûrîm e il libro di Ester esistono anche numerosi trattati teolo-gici.11 Degni di menzione, per coincidenza cronologica e geografica, sono i Gelilēy-Kesef (‘gli anelli d’argento’), il commento alla Megillâ che compose il grammatico Yosef Abba Mari Caspi nel 1331 a Maior-ca; e quello dello stesso Levy ben Gershon, redatto nel 1329. Come ri-peteremo più avanti, l’autore dei ME sembra conoscere quest’opera.

A concludere la rassegna delle possibilità (semi)letterarie che Pûrîm ispira nella Provenza medievale, ricordiamo che due dei ma-noscritti12 del sefer ha-Baqbûq conservano, in calce a questo testo, alcune frasi in giudeo-provenzale, di cui si può forse intuire una struttura metrica, che sembrano dei motti conviviali, forse da escla-mare durante il banchetto, poiché inneggiano al consumo di vino e all’allegria del Pûrîm.

Presenterò ora i ME nei punti principali d’interesse: titolo; con-tenuto e stile; forma metrica; tornerò infine sulla questione della tra-dizione dei testi per Purim nella Provenza medievale, con un’ipotesi di attribuzione dei ME; all’introduzione seguiranno il testo e la sua traduzione.

1. Perché Ma‛aśēy-’Estēr?

Il testimone unico dei ME non trasmette alcun titolo leggibile. Poiché il testo è molto lacunoso al principio (fig. 1), possiamo solo ipotizzare che l’autore definisca in ouverture ciò che sta proponendo al suo pubblico, purché sia giusta la congettura: «fenna Ester… antic farai *recon[tamen]…» (v. 1).

10. La megillat-setarîm è datata al 1332 e il sefer ha-Baqbûq a un periodo im-mediatamente precedente da I. Davidson, Parody in Jewish Literature, New York, Columbia University Press, 1907, p. 133.

11. B. D. Walfish, Esther in Medieval Garb. Jewish interpretation of the Book of Esther in the Middle Ages, Albany, State University of New York Press, 1993.

12. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Hebr. 107, 186 e Ox-ford, Bodleian Library, hebr. e. 10, 396. I dati dei mss. sono ricavati da Meyer, Neubauer, Le Roman cit., p. 195 e Davidson, Jewish Parody cit., p. 119.

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Qualche informazione in più può essere ricavata dalla nota di possesso posta a chiusura del testo (fig. 4), di cui diamo una propo-sta di lettura non totalmente sicura.

Sono terminati i M† Ester.Questa “raccolta” è mia, di Moshè Yosef Gard… Gard Di me è questa “raccolta” mia, Moshè Yosef ben R. Abraham Gard, che riposi in pace, acquisizione pecuniaria.“Ed ecco i censiti secondo la nostra famiglia, non i loro censiti secondo la loro famiglia, secondo la casa dei loro padri” (parafrasi di Num. 4:40).

Il termine che definirebbe il genere letterario del poemetto è illeggibile per una lacuna meccanica che interessa esattamente la parola in questione.

Ciò che si legge è: tāmû m† ’Ēster. Il verbo tāmû è un plurale, significa ‘sono conclusi’. Cosa? Qualcosa ‘di Ester’: il termine inte-ressato comincia con m-.

Non può trattarsi della più scontata, ossia megillat- (“stato co-strutto” di megillâ), perché il verbo con cui deve accordarsi è un plu-rale, mentre megillâ è singolare. Inoltre, la sbaffo della lettera finale che intravvediamo non è la conclusione di una tāw, come dovrebbe essere in megillat; ciò permette di escludere anche qualsiasi parola femminile plurale, terminante in -ôṯ. Si tratta di una yôḏ legata a un’altra lettera, quindi abbiamo senz’altro a che fare con un plurale stato costrutto maschile (uscente in -ēy).

La parola ma’asîm possiede molte sfumature semantiche che si addicono al nostro testo: il singolare ma’aseh letteralmente significa ‘fatto’, ma anche ‘racconto, exemplum’, così che al plurale lo si può tradurre con ‘gli atti’ o persino ‘le gesta’ di un personaggio. Ma’aseh nell’accezione di ‘racconto’ compare già nell’ebraico medievale a

אסתר† תמו מ

גארד לא [...] למשה יוסף גארד + הרבגי זהמשה יוסף ב˝ר אברהם אגארד נ˝ח קנין כספי ממני זה הרבגי

פקדים למשפחתנו] ויהיו]

למשפחתם לבית אבתם לא פקדהם

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indicare, generalmente, una storia esemplare che ha per protagonisti personaggi umani, compresi i personaggi biblici. Si noti inoltre che la radice עשה ‘fare’ apporta al termine una sfumatura di “esecuzio-ne” che ben si addice al carattere performativo del testo.

Se la nostra congettura corrispondesse al vero, chi compilò la nota di possesso (costui, pur scrivendo in ebraico il titolo per con-ferire maggior prestigio al testo, pensava in provenzale), potrebbe avere scelto questo titolo per induzione da termini come los fach de o la novas de:13 così il calco dal provenzale giustificherebbe l’impie-go del plurale ma’asîm piuttosto che del singolare ma’aseh. D’altro canto, essendo questi termini romanzi associati a precisi generi lette-rari che non corrispondono a quello del nostro testo, abbiamo deciso di non tentare una traduzione del termine.

2. Contenuto e stileI ME sono un testo fedele, nel loro spirito, all’originale biblico,

senza alcuna volontà parodica, ma senza neppure la ricercatezza e l’umorismo tutto letterario che Crescas infonde alla sua narrazio-ne; ciò non significa, tuttavia, che essi siano una mera traduzione dall’ebraico, né che questa sia la finalità del testo: esso segue sì gros-so modo le vicende della Bibbia, ma parallelamente devia secondo una serie di direttrici: (1) compattamento o rimozione di certi pas-saggi della storia; (2) spostamento di episodi o variazioni nell’in-treccio rispetto alla fabula biblica; (3) sviluppo della narrazione tra-mite l’integrazione di Midrāšîm; (3) resa metrica del testo.

Per quanto è possibile ricostruire, dato che il testo è acefalo e le righe conclusive risultano pesantemente compromesse, esso affronta la storia di Ester, che nella Bibbia consta di dieci capitoli, dal primo – il banchetto indetto dal re Assuero per i suoi principi a Susa – fino all’ottavo – l’esecuzione di Haman e il riscatto degli ebrei – passando attraverso la tragica storia di Vashti, la prima moglie di Assuero, con-dannata a morte dal sovrano, l’investitura a regina di Ester, il complot-to dei due «bailons del rey» (v. 77) che tramano di uccidere Assuero, l’ascesa di Haman, il suo maligno progetto e la sua disfatta.

13. Il termine novas nel senso letterario di “racconto breve in versi narrati-vi”, è tipicamente usato solo al plurale (Méjeanne-Thiolier, Notz-Grob, Nouvelles courtoises cit., pp. 11-22).

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Poiché tutti questi eventi vengono sviluppati in circa 200 versi, se ne deduce la volontà da parte dell’autore di seguire la vicenda nelle sue linee narrative essenziali.

A volte, gli eventi sono solo accennati – è il caso delle lettere che Assuero spedisce nelle province del regno (Est. 1:21-22), evento che nei ME è condensato nell’espressione «lo rey trames sos messages» (v. 48) – o riplasmati: l’episodio in cui Mardocheo viene a sapere del piano nefasto di Haman e si straccia le vesti, con l’andirivieni del servitore Hatach che trasmette i messaggi tra Ester e Mardocheo (Est. 4:1-11), è condensato in una scena più dinamica (vv. 141-158), attuata tramite lo spostamento di blocchi narrativi, con meno ripetizioni e movimenti, anche in vista dei limiti di luogo e tempo richiesti dall’oc-casione domestica in cui si deve immaginare la performance. Altrove lo spostamento agisce solo su dettagli o espressioni che nei ME com-paiono in un momento della storia diverso da quello originario: del mager tro·l menre (v. 119),14 la vesta d’escarlata fina (v. 144),15 etc.

A volte gli episodi possono risultare addirittura obliterati – per esempio parte del capitolo IX, che descrive la vendetta degli ebrei sui loro nemici, che del resto tende sempre a essere omesso.16 Dalle poche parole chiare che emergono da c. 192v, propenderemmo infatti a individuare nel capitolo VIII il momento in cui si conclude la nar-razione dei ME, con gli ebrei che ricevono il permesso di distruggere tutti coloro che vorranno danneggiarli in qualche modo (Est. 8:11), compresi donne e bambini («si nat, gran o menuda», v. 195) e, salvi, fanno festa («comenset am una g<ra>n bruda», v. 196). Infine, forse, il già brevissimo capitolo X, che è un elogio di Mardocheo, è ridotto all’ultimo verso, di cui possiamo restituire una lettura parziale e una traduzione ipotetica: «Mordekhay vi que no·m paria gaire» (v. 200): ‘Mardocheo vide ciò che non mi sarebbe sembrato evidente’?

14. La frase nella Bibbia è riferita nell’editto sulla distruzione degli ebrei, che saranno uccisi «dal più grande al più piccolo» (Est. 3:13), mentre nei ME essa è riportata nel proposito di Haman, prima che questi parli col re.

15. Il dettaglio dell’abito scarlatto è una sottile allusione: qui si suppone che sia Ester a donarlo a Mardocheo per convocarlo a corte, mentre la Bibbia riferisce genericamente di “abiti”. Una veste scarlatta è donata a Mardocheo durante il suo trionfo, quando ormai Haman è fuori gioco (Est. 8:15).

16. Probabilmente l’assenza di trionfalismo fu dovuta, dato il rapporto sempre precario col mondo circostante, alla volontà di non suscitare reazioni aggressive (Walfish, Esther in Medieval Garb cit., pp. 127-135).

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L’autore potrebbe essersi volontariamente arrestato al punto della narrazione corrispondente al capitolo VIII, salvo qualche ra-pida allusione ai capitoli successivi, poiché la festa degli ebrei vit-toriosi possiede il vantaggio di ricondurre il passato del racconto al presente della recitazione, motivando quest’ultimo, dal momento che il testo era pensato per essere cantato durante il festino di Pûrîm, davanti a una collettività che si identificava nell’antico popolo ebrai-co sparso per le terre del re persiano.

Quanto ci resta è sufficiente a dare un’idea di come l’autore si confronta con la materia narrativa, dimostrando ampiamente di pri-vilegiare lo svolgimento dell’azione, di tanto in tanto vivacizzato dal ricorso al discorso diretto. Al contrario del RdE, mancano il tratteg-gio psicologico dei personaggi, il gusto per le digressioni erudite e il compiacimento molto romanzesco nelle descrizioni; queste ultime, ridotte al minimo, non sono altro che rapide spennellate funzionali a definire un setting. La descrizione del banchetto a Susa, per esem-pio, occupa nel RdE una quarantina di versi (vv. 123-162), mentre i ME dicono semplicemente che «*tos [en] Soshan foron gens mot servidas:/salvizinas, caponcs, aucas rostidas,/ samitz, polpres e lies dorets» (vv. 15-17).

L’estrema compattezza stilistica e narrativa dei ME è uno spec-chio efficace sul pubblico che sta oltre il testo, dal quale si esige una conoscenza consumata della vicenda, tale da integrare i pas-saggi narrativi che, taciuti o semplicemente allusi, rendono logico e consequenziale il passaggio da una scena all’altra. Sempre a questo scopo, gli spettatori devono dimostrare una profonda padronanza della letteratura Midrāšica.

La narrazione, infatti, presuppone a priori di essere integrata con i Midrāšîm, i racconti diegetici che affiancano la Bibbia. L’in-serimento dei Midrāšîm nello spazio del racconto risponde a un di-segno articolato che, nel caso dei ME, possiamo ricondurre a due modalità principali, già individuate da Elena Romero nelle coplas sefardite per Pûrîm.17

La prima è “l’estensione del motivo”: l’autore può decidere di ampliare la narrazione della Bibbia, aggiungendo particolari attinti

17. E. Romero, La influencia del Midrash en las coplas de Purim sefardíes, in Proceedings of the eighth World Congress of Jewish Studies (Jerusalem, August 16-21, 1981), Jerusalem, World Union of Jewish Studies, 1982, pp. 85-89, a p. 85.

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dal Midrāš. L’esempio più classico è il motivo del banchetto di As-suero: ricco di dettagli gastronomici – nel RdE è un vero e proprio menu, che occhieggia alle diete consigliate dai Regimina sanitatis

dell’epoca18 – la lista di portate in genere comprende i piatti tipici di Pûrîm, dalla selvaggina al vino fino, nel RdE, a una precoce al-lusione alle dolci “orecchie di Haman” (vv. 153-154). La serie di disgrazie che colpisce la regina Vashti, dalla lebbra alla coda che le spunta sulla fronte, si trova in tutti i Midrāšîm su Ester, ma quanto indulgervi è una scelta personale dell’autore. I ME si soffermano sul motivo e, per quanto in modo sintetico, presentano una scenetta ricca di dettagli; Crescas de Caylar non ne accenna affatto nel RdE, mentre ne parla profusamente nel poemetto ebraico.

Le trovate buffonesche di Assuero sono un altro spunto ricco di potenzialità narrative che in genere trova ampio sviluppo: il RdE, dipingendo in modo sottilmente comico il re, ne fa forse il perso-naggio più riuscito; nei ME, in linea con la generale serietà di tono, si rammenta solo della vana sciocchezza del sovrano, che emanò addirittura un editto per stabilire un uso che, a parte lui, già tutti applicavano nelle loro vite domestiche (vv. 50-55).

La nota comica è qui stemperata dalla spiegazione che è data del fatto, volta a riconoscervi un disegno divino preciso: è Dio che vuole che Assuero sembri folle, proprio perché i sudditi dubitino della capacità di intendere del loro re, ciò che risulterà cruciale al momento del secondo, e ben più pericoloso editto, quello contro gli ebrei. Così il popolo, scettico sul fatto che il re davvero voglia ciò che ha comandato, decide di attendere prima di eseguire gli ordini, tanto che gli ebrei avranno tempo a sufficienza per salvarsi.

Questo aneddoto già rientra in un’altra modalità di inserimento del Midrāš, consistente nel riferire, in modo più o meno velato, un dettaglio della narrazione assente nel testo originale, ma sentito come necessario per interpretare il passo in senso provvidenzialistico.

Così, in apertura si accenna al furto compiuto da Assuero, che si appropriò delle «aizes del temple» (v. 11), l’atto empio che secondo il Midrāš avrebbe determinato tutte le disgrazie che si sarebbero abbat-tute sul suo regno; quando Haman diventa il ministro più importante del re, i ME lo definiscono «mala branca» (v. 105), dando una conno-

18. Einbinder, A proper Diet cit., p. 444 ss.

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tazione esplicitamente negativa all’aggettivo che la Bibbia impiega in questo passo, dove Haman è chiamato “l’agagita”; non a caso il Midrāš spiega che già Agag, antenato (cioè branca) di Haman, era nemico degli ebrei; a proposito del digiuno indetto da Ester per tutti gli ebrei (Est. 4:16), i ME ricordano che essi «dejuneron sitot avian fe-sta» (v. 172), alludendo sottilmente a un Midrāš: quei tre giorni coin-cidevano con Pesaḥ, quando il digiuno non sarebbe ammesso; solo le condizioni estreme di pericolo lo resero lecito. E così via.

La scelta dei Midrāšîm nei ME concorda con quelli solita-mente ricorrenti in queste parafrasi. D’altro canto, non c’è mai una corrispondenza perfetta e scontata tra le scelte operate in materia midrāšica dai ME e dal RdE.

Si potrebbe rilevare che mentre Crescas impiega il Midrāš per connotare i suoi personaggi in senso stereotipico e comico – così As-suero diventa un buffone e Vashti una Santippe –, nei ME il Midrāš dà una profondità religiosa alla narrazione, spesso riconducendo alla Provvidenza divina passaggi moralmente complessi, come la con-statazione che poco importa se gli eventi concorrono a sconfortare il «nostre liyatge» (v. 55), poiché «lo Dieu que tot lo mont conporta / per salvar nos trobara bona porta» (vv. 161-162).

La Provvidenza è chiamata in causa anche per la vicenda di Vashti. La diversa connotazione di questo personaggio nel RdE e nei ME esemplifica perfettamente l’uso variato che è fatto del Midrāš nell’uno e nell’altro testo: nel primo si allude alle origini nobili di Vashti, figlia di Balthasar, che è solita rinfacciare al marito la sua origine di parvenu, aneddoto riferito dal Talmûd e da altre raccol-te Midrāšiche. Non si fa riferimento, invece, alla ragione per cui Vashti, secondo la tradizione rabbinica, non volle presentarsi a corte nuda, in contraddizione con la sua natura lasciva: l’angelo Gabriele, per volontà divina, provocò la lebbra alla regina e le fece crescere in fronte un corno – secondo altre fonti una coda – per renderla impre-sentabile. La mano divina che si stende dietro all’evento è, invece, dichiarata nei ME. A definirne ulteriormente la finalità religiosa, è il fatto che i Midrāšîm prescelti, a cominciare da questo di Vashti, sono spesso gli stessi che ritroviamo in mî kāmôḵa, il piyyûṯ di Crescas.

Certo, la lingua parlata garantisce un’immediatezza e un’effi-cacia che la lingua sacra non potrebbe dare; si veda per esempio il riuscitissimo passaggio in cui si racconta di come tutti i sudditi si

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inginocchiassero davanti a Haman, diventato potente, tranne Mar-docheo che «non movia l’anca» (v. 108).

Da un punto di vista stilistico, l’autore ricorre agli espedienti ti-pici dell’oralità: metafore pregnanti e concrete, inversioni V-S-O per rendere dinamica la frase e focalizzare l’attenzione su un concetto; alternanza di dialoghi e di racconto in terza persona per vivacizzare la vicenda, qualche intervento autoriale per suscitare pathos e coin-volgimento nel pubblico.

Per quanto riguarda il lessico, si osserva, da un lato, una cer-ta attenzione a seguire il testo biblico, formulando sintagmi o frasi che rendono precisamente l’originale, con la scelta non casuale di termini che rappresentano le traduzioni tradizionali e fisse apprese a scuola per tradurre la Bibbia dall’ebraico in volgare (כלים è aizes/aizinas, בית מקדש è temple, etc.);19 dall’altro, però, la necessità rimica spinge anche a improvvisare, tanto che il termine ribiera (v. 59) è usato per intendere i possedimenti del re.

Ci troviamo indubbiamente davanti a un autore perito, che conosce a fondo la sua materia e, al contempo, è abile e raffinato nel trasmet-terla. L’apparenza di immediatezza e semplicità che il testo comunica di primo impatto non deve trarre in inganno circa una sua eventuale provenienza “popolare”, quanto suggerire la sua finalità: mentre RdE si adegua stilisticamente al romanz, i ME sono pensati per essere ese-guiti oralmente davanti a un pubblico di convitati, durante l’occasione festiva, come la stessa forma metrica dimostra.

3. Struttura metrica

I ME sono costituiti di quartine monorime femminili di décasyl-labes, a volte imperfetti e tendenti all’alessandrino. Le quartine sono seguite da distici a rima baciata fissa (maschile), in genere in -es. Il secondo verso del distico presenta sulla cesura (tendenzialmente 6+4) una rima interna, che riprende la rima della quartina precedente.

Nella poesia ebraica esiste uno schema paragonabile. Si tratta del cosiddetto zûlat (letteralmente ‘all’infuori di’), un componimen-

19. Per una presentazione sintetica ed efficace della questione, vd. G. Sermo-neta, Un volgarizzamento giudeo-italiano del Cantico dei Cantici, Firenze, G. C. Sansoni Editore, 1974, pp. 21-40.

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to metrico che prende il nome dall’ultima parola della preghiera che, nell’ambito della liturgia del mattino di alcuni giorni festivi e Šabbāṯ, segue la recitazione dello Šema‛ Iśrāēl: “non avrai altro Dio all’infuori di me”. In particolare, nel cosiddetto zûlat “corale”, la quartina mo-norima è seguita da un distico con rima a se stante fissa, pensata per essere recitata da un coro.20

A livello strofico e rimico, questo schema coincide quasi perfet-tamente con il metro dei ME. La scelta della rima ricca nelle quartine del nostro testo si può motivare nell’ambito della stessa poesia ebrai-ca, che predilige rimanti bisillabici o addirittura parole-rime, mentre l’impiego del décasyllabe, un po’ instabile in genere per ipermetria (di un paio di sillabe), tradisce con tutta probabilità l’unità ritmica musicale e la modulazione della voce che lo intonava.

Lo zûlat corale fu introdotto nell’uso sinagogale quando invalse l’abitudine di contrapporre al ḥazzan (il cantore) un coro, che “ri-spondeva” al suo canto recitando versetti biblici e creando dunque un contrappunto. Non necessariamente lo zûlat prevede una rima interna, ma, trattandosi di un espediente stilisticamente ricercato che si confà allo sperimentalismo metrico del piyyûṯ, non deve stupire, quanto piuttosto essere considerato come una preziosa variazione sul tema. Inoltre, se si immagina che i distici fossero recitati dal coro dei convitati, in contrappunto col cantore, la rima interna potrebbe rivestire anche la funzione pratica di segnale per avvertire il coro del momento in cui cominciare a eseguire la sua parte (in tal caso si trat-terebbe solo del secondo emistichio del secondo verso del distico).

In ultima analisi, i ME potrebbero essere il contrafactum di un canto sinagogale in ebraico, composto su uno schema riconducibi-le allo zûlat e adattato parzialmente alle necessità prosodiche del provenzale.

Mentre dunque il RdE, in couplets d’octosyllabes, è anche for-malmente un romanz, il nostro testo è un piyyûṯ; il romanz costitu-isce probabilmente la rielaborazione autoriale di un canovaccio più breve, di cui sono recuperate il soggetto e l’occasione, ma che am-bisce a diventare un prodotto letterario di valore autonomo, pensato forse già per una lettura individuale, anche oltre Pûrîm.

20. T. Carmi, The Penguin Book of Hebrew verse, London, Penguin Books, 1981, pp. 54-55.

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I ME, invece, possiedono una natura performativa autentica e senz’altro furono composti con lo scopo di essere recitati a Pûrîm. Innanzitutto la loro brevità li rende più adatti a essere cantati nell’am-bito di un’occasione collettiva della durata di un banchetto; anche la modalità di inserimento del Midrāš è calibrata sulla capacità effet-tiva di concentrazione dell’uditorio, poiché, mentre le digressioni Midrāšiche sono numerose al principio, si diradano nel corso della storia, diventando, da vere digressioni, semplici allusioni e lascian-do più spazio all’azione.

Un indizio ulteriore conferma che il testo fu pensato per una autentica performance. A metà di c. 191r (fig. 2), comincia una sorta di digressione morale, che illustra il valore esemplare della storia di Ester per cui, nonostante l’odio che si scatena sugli ebrei da parte dei loro nemici storici, gli Amalechiti, Dio protegge sempre il suo popolo e lo porta al trionfo.21

Proprio alle due estremità di questa digressione (ll. 10-11; l. 19), si trovano due note in ebraico, la prima della quale, a cavallo di due righe, è solo parzialmente leggibile: [מר]כבודך || לנו ז ovvero ‘abbiamo il canto kaḇôdeḵa (‘il tuo onore’)’. Al termine della digres-sione, un’altra breve frase risalta all’occhio: [ון]וחוזר לענין לנגון ראש; (‘e torno all’argomento della musica iniziale’).

21. Questo “stacco” esegetico non attinge solo al materiale Midrāšico. In esso si ravvisano stringenti parallelismi con il summenzionato commento al Libro di Ester di Levi ben Gershon, in particolare quando si parla di una gens ses prezansa (v. 87), da identificare con gli Amalechiti, i nemici storici di Israele. Haman infatti è considerato un discendente del popolo di Amaleq, fatto che spiegherebbe sia il suo odio verso gli ebrei, sia il suo fallimento: così vuole il Signore, che la memoria di Amaleq sia can-cellata dalla terra (Ex. 17:14). L’identificazione di Amaleq coi nemici degli ebrei nel Libro di Ester fu pensata da Levy ben Gershon per inquadrare in modo più “urbano” i capitoli 8-10, in cui Ester chiede al re il permesso di far sterminare tutti i nemici degli ebrei presenti e futuri, il re dà il permesso e sono compiute grosse stragi. Secondo il Gersonide, Assuero non può che dare ragione a Ester nella sua richiesta, poiché si tratta di acerrimi rivali da distruggere. Di fatto, il commento del Gersonide (per cui vd. Walfish, Esther in the medieval garb cit., p. 132), illumina punto per punto la digressione dei ME. In generale, l’aspetto provvidenzialistico che l’autore dei ME sottolinea in molti passaggi della vicenda trova sempre riscontro nel commento del Gersonide (ibid., pp. 80-82), ma in molti casi si tratta di interpretazioni precedenti (ibid.), mentre fu proprio il grande filosofo il primo a istituire un contatto tra i nemici degli ebrei nel Libro di Ester e gli Amalechiti (ibid.). Ci pare dunque verisimile ipo-tizzare che l’autore dei ME conosca questo testo e lo usi come fonte.

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Effettivamente, subito dopo questa nota, la narrazione della storia di Ester, ossia “l’argomento iniziale”, riprende, come anche lo schema metrico quartine+distici, dal momento che la digressione segue una struttura prosodica a sé: si tratta di terzine monorime femminili di décasyllabes chiuse da un singolo décasyllabe a rima propria (in -i: si tratta comunque sempre di una rima maschile versus quelle femminili delle terzine), con (un abbozzo di) rima interna in -i,22 come se fosse una versione accorciata dello schema “narrativo” a più ampio respi-ro del resto del testo. Così si può forse spiegare anche il significato non immediato della prima nota: kaḇôdeḵa potrebbe essere il titolo del piyyûṯ di cui si riprende la melodia della digressione (che non corri-sponde a uno schema definito di nostra conoscenza).

Artifici quali la rima interna e le note in ebraico rivelano una volta di più un autore raffinato e suggeriscono di conseguenza che questo testo, per quanto più “occasionale” del RdE, sia da attribuire a un ambiente erudito e a un’eleganza formale non comune, ed è invece il pubblico e l’occasione che giustificano la sua apparente semplicità.

4. Tra tradizione orale e rielaborazione autoriale

Premesso che l’autore dei ME appartiene a un milieu colto e raffinato, esattamente come Crescas de Caylar, e che le loro opere rivelano una certa perizia letteraria, due questioni si pongono: 1. È verisimile presupporre l’esistenza nella Provenza medievale di una tradizione orale di testi per Pûrîm, da cui attingono sia Crescas sia l’anonimo autore dei ME? 2. È possibile delineare il profilo dell’au-tore dei ME e l’ambiente intellettuale da cui egli proviene, se non avanzare una proposta di attribuzione?

Partiamo dalla prima questione. Pur trattandosi di due testi in-dipendenti, ME e RdE presentano una serie di sintagmi, identici o quasi,23 che cadono sempre su una rima o almeno su una cesura;

22. Questo schema è chiaramente individuabile nelle prime tre strofe (e rela-tivi distici). Le ultime due sembrano seguire uno schema Bdd eeB, in cui gli unici décasyllabes sicuri sono i due con la rima fissa (B), mentre gli altri sono molto irre-golari, e vanno dalle nove alle tredici sillabe. In questa sede ci limitiamo a segnalare il fatto, sperando di poter risolvere quanto prima la questione.

23. Precisamente: «Los aizes santficas / fes traire dal temple ni los pres» (ME v. 11-12) : «E pres las aizinas del temple» (RdE v. 52); «capons, aucas rostidas» (ME

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anche quando nel sintagma non tutte le parole sono uguali, è comun-que mantenuto lo stesso rimante o la medesima assonanza.

L’idea che i due testi prendano spunto da una sorta di cano-vaccio, già in rima, diffuso a livello orale e che, per tale ragione, si modifica ad ogni performance, realizzandosi in numerose versioni e redazioni, sembra farsi strada con una certa forza. I sintagmi co-muni cadono sulla rima come se in concomitanza di nessi formulari o di passaggi particolarmente pregnanti e stilisticamente riusciti del “canovaccio”, la memoria rimica dell’autore fosse sollecitata a pre-servare le formulazioni tradizionali e a riutilizzarle.

I ME in questo caso costituirebbero un rifacimento più prossi-mo al canovaccio, poiché, pur ri-arrangiati, mantengono lo spirito e soprattutto la finalità performativa iniziali; il RdE invece è un pro-dotto letterario ormai autonomo, che reimpiega il canovaccio tenen-do come modello di riferimento il genere romanzesco e non più la poesia sinagogale.

Ciò nonostante, è nel RdE che rimane traccia della diffusione e della longevità di questo canovaccio. In un passaggio in particolare, infatti, si riscontra una coincidenza formulare tra più testi che non può che essere dovuta a una tradizione poetica di questo genere.

Si tratta del celebre passo in cui il consigliere Memucan spiega al re che occorre giustiziare Vashti come esempio per tutte le donne di disubbidienza punita:

Se aqest fag non es punittotz los maritz seran aunitznon trobares una de milqe a son marit mais sie umil (…)encars vos dic saran tant gaiasqe elas voldran portar las braias.

(vv. 299-302; 309-310)

La sentenza sulle donne “che porteranno i pantaloni” se comin-ceranno a disubbidire ai mariti – che non ha riscontri linguistici o

v. 15) : «aucas (…) farcidas (…) capons» (RdE vv. 141-143); «samitz, polpres e lieis doretz» (ME v. 16) : «Los leiz vuelh que sian garnitz / de polpra e de samitz» (RdE vv. 87-88); «als savis de la lei se revira» (ME v. 33) : «los savis de la lei antiga» (RdE v. 250); «Per qu’ieu vos dic, seyer, se Dieu mi valha» (ME v. 38) : «Per que vos dic, senher, se vos plag» (RdE v. 446); «un pauc escolorida» (RdE v. 414; ME v. 65).

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metaforici equivalenti nel testo ebraico – trova un perfetto corri-spondente nella Tragediou de la Reina Esther:

Touteis leis dames de la courde la reine prendrien exemple,(…) S’apprestarié ben tale sausse,leis femmes pourtarien leis causses.

(Sabatier, Tragediou cit., I, 1: 42)

La stessa espressione ritorna persino nel testo giudeo-piemon-tese cui si accennava:

[Vashti] Subirà mortal castigoper levar gran intrigoe dar esempio ai dòni falsiche vogliono portar li calsi.

(strofa 49)24

Considerando quanto la tradizione giudeo-piemontese e quella giudeo-provenzale possano essere connesse,25 data la contiguità geo-grafica e i reciproci contatti, la ricorrenza e l’antichità di questa frase ci sembrano legittimare l’ipotesi della possibile esistenza di una tra-dizione provenzale di testi per Pûrîm, prima cantati e poi messi in scena, caratterizzata da alcune immancabili battute o da frasi che si sono trasmesse per secoli nella coscienza collettiva.

24. La professoressa Maria Mayer Modena è la prima ad avere notato la coin-cidenza di questa formulazione nei tre testi summenzionati.

25. Che il modello del testo giudeo-piemontese fosse francese, lo intuisce brillantemente Maria Mayer Modena, commentando i versi su Vashti: «(…) che li (a Vashti) vene un zanav (coda) / al di dietro, come un ganav (ladro) / ancor piena di zora’at (lebbra) / senza sekel (senno) e senza da’at (scienza)» (strofa 66). Come nota la studiosa, il paragone con il ladro ha senso solo se si immagina che l’autore parta da un testo francese, in cui ladro = lebbroso (Mayer Modena, La figura di Vashti cit., p. 405). In effetti la parola labroza compare in ME. Da osservare che le tracce della “tradizione” si concentrano soprattutto nei versi dedicati a Vashti o al banchetto, ossia all’inizio della narrazione. Il “canovaccio” sviluppava solo la prima parte della storia? Su questo punto occorrerà tornare. Certo degno di nota è, in quest’ottica, la presenza consecutiva di ben due distici in -es (vv. 28-31) a chiosa e spiegazione del motivo per cui la regina non si presentò nuda a corte; diversi e complementari nel loro contenuto, essi sono, volendo, interscambiabili. Si può con-siderare la possibilità che l’autore riporti nel suo testo entrambi i distici presenti, ciascuno, in uno di due modelli di cui disponeva e che stava rielaborando.

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Una fonte in particolare pare confermare che, nel primo Trecen-to, ci si cominciava a porre la questione della trascrizione di questi “canovacci”. La Māsseḵet-Pûrîm, infatti, discute dell’eventualità o meno di leggere in traduzione la megillâ,26 cosa che, implicitamen-te, ci suggerisce che fosse una pratica diffusa, ma non scontata. La questione del resto non è nuova: se già la Mišnâ permette di recitare in lingua locale alcuni testi religiosi e preghiere a vantaggio di chi non sa l’ebraico, anche in seguito numerose autorità rabbiniche di varie aree ed epoche, compreso Maimonide, sentiranno la necessità di reiterare questa prescrizione e di dichiararsi favorevoli alla prassi della traduzione.27 Nel passo in questione, Kalonimos si schiera a favore di una lettura in traduzione della Megillâ, ma, in più, propone di trascrivere la versione vernacolare in caratteri ebraici, perché ciò a suo parere ne garantirebbe la legittimità.

In verità, anche su questo punto diverse voci si erano già espres-se, opponendosi all’impiego dei caratteri ebraici per una lingua di-versa dall’ebraico.28 Di fatto, però, troviamo ovunque, dal tardo Medioevo in avanti, rifacimenti, parafrasi, traduzioni della Megillâ, sempre in caratteri ebraici, spesso in rima, a testimoniare come la volontà di comprendere e divulgare la storia di Ester, unitamente all’apertura carnevalesca del Pûrîm e alla bellezza irrinunciabile di questi testi, abbiano infine risolto la questione da sé.

In questo passo, dunque, Kalonimos si sta confrontando con la tradizione rabbinica per esporre un’idea, sua o dell’ambiente a lui prossimo, che renda legittima una prassi diffusa: la questione posta dall’autore infatti concerne non tanto la creazione di queste parafrasi

26. S. M. Silberstein, The provençal Esther poem written in hebrew charac-ters c. 1327 by Crescas de Caylar: critical edition (tesi di dottorato inedita), Uni-versity of Pennsylvania, 1973, p. 35.

27. K. Fudeman, Vernacular Voices. Language and identity in Medieval French Jewish Communities, Philadelphia-Oxford, University of Pennsylvania Press, 2010, p. 24.

28. La questione, molto complessa, è già trattata nella Mišnâ (per es. bab., Šabbāṯ 115b e bab. Megillâ 9a e 18b); altrove, si vieta di impiegare un alfabeto diverso per la propria lingua, per cui una traduzione del libro di Ester a rigore non dovrebbe essere redatta in caratteri ebraici, come lo stesso Maimonide nel Mišneh Tôrâ (Hilḵôṯ Megillâ, II, 3-4) ribadisce, vd. V. Colorni, L’uso del greco nella liturgia del giudaismo ellenistico e la Novella 146 di Giustiniano, in «Annali di Storia del Diritto», VIII (1964), pp. 19-80, alle pp. 52-58.

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in volgare, ma la loro trascrizione. Una proposta di tal genere dovet-te apparire importante, in un’epoca in cui l’impiego letterario della lingua locale, per quanto ancora circoscritto, cominciava a rinforzar-si e a divenire irrinunciabile.

Ora, Kalonimos redasse la sua opera durante il soggiorno ro-mano, tra il 1319 e il 1322. Pochi anni dopo, è già di ritorno in Pro-venza: le sue tracce si perdono dopo il 1328, quando ormai risiede ad Arles. È in questa fase post-italiana che si può ragionevolmente supporre che la sua opera si sia diffusa nel paese natio, in particola-re negli ambienti intellettuali frequentati dall’autore. Considerando che la Massekhet-Pûrîm ebbe una certa risonanza, come ci attestano la sua discreta tradizione manoscritta e la sua fortuna letteraria, è probabile che Crescas e l’autore dei ME la conoscessero; tuttavia, alcuni dati storico-letterari forse possono fornire qualche argomento supplementare all’ipotesi (che resta tale).

Per quanto riguarda Crescas, sembra quasi che l’autore abbia messo en vers le indicazioni di Kalonimos, confrontandosi col tratta-to come se fosse un’enciclopedia sull’argomento: il menu imbandito a Susa è molto simile, per numero di pietanze e qualità, all’elenco di portate indicate da Kalonimos come tipiche di Pûrîm, e in entrambi i testi sono prescritte una serie di norme igieniche e alimentari cui attenersi.

Nel caso dei ME, si ricordi che il manoscritto Casanatense 3140 fu esemplato da due copisti, Ṭôḇî ben r. Šēm Ṭôḇ ʼAbî e Šemûʼēl ben r. Šēm Ṭôḇ Ṭôḇî, i quali, oltre ad avere lo stesso cognome di Kalonimos,29 vivono a Salon de Provence, dove Kalonimos studiò. Certo il colophon attesta che i due copiarono solo il Mišneh Tôrâ, mentre non sappiamo chi trascrisse i ME nelle pagine finali rimaste vuote. Tuttavia, vista l’affinità delle grafie, si tratta di qualcuno pro-veniente dallo stesso ambiente, un ambiente in cui si studiava Mai-monide, ma non si disdegnavano allegri testi in versi su Pûrîm.

Se si guarda alla produzione letteraria per Pûrîm in Provenza, si noterà che tutti coloro (Gersonide, Kalonimos ben Kalonimos, Abba Mari Yosef Caspi, etc.) che compongono testi per questa occasio-ne o sull’argomento, in ebraico o in la‛az, si inseriscono nel solco

29. Šēm Ṭôḇ è nome proprio (lett. ‘Buon nome’), di cui Kalonimos rappresen-ta la perfetta – e tradizionale – traduzione.

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della filosofia razionalista inaugurata da Maimonide, che proprio nella Provenza trecentesca suscitava forti polemiche, tenaci rifiuti o entusiastiche adesioni. Il fatto che i testi per Pûrîm e la filosofia razionalista spesso si accompagnino potrebbe confermare l’idea che scrivere – e trascrivere – testi letterari su Pûrîm e sulla Megillâ fosse percepita come una novità.

I personaggi succitati presentano un altro aspetto in comune; tutti sono legati a Salon de Provence. Il manoscritto della Casana-tense fu esemplato a Salon, dove Kalonimos studiò; Yosef Caspi, prima di scrivere il suo trattato sulla Megillâ, passò da Salon e, come ci attesta lo stesso Kalonimos, ebbe scambi intellettuali e libreschi con i maestri locali; sia il Gersonide sia Crescas vissero ad Avigno-ne. Infine, le cinque frasi in provenzale menzionate in precedenza sono contenute in due manoscritti, uno dei quali, il Vaticano 107 (c. 186), datato 1438, appartenne a un altro salonese, anche se eviden-temente posteriore, Vidal Bonafoux.

È dunque verisimile supporre che l’area tra Salon de Proven-ce e Avignone sia l’epicentro della tradizione dei testi per Pûrîm. Nella Salon di inizio XIV secolo Astruc de Noves aveva fondato una scuola, dove ci si occupava «de la poésie, de la littérature ri-tuelle e de la médecine»,30 si esemplavano traduzioni dall’arabo, soprattutto di Aristotele e Averroè, e si studiava Maimonide. Oltre che filosofi e scienziati, dunque, gli esponenti della scuola erano letterati e traduttori.

Questo ambiente, presumibilmente favorevole già di suo alla traduzione della Megillâ, potrebbe rappresentare dunque il centro di diffusione della Māsseḵet-Pûrîm, visti i contatti mantenuti da Kalo-nimos coi suoi maestri. L’esortazione a trascrivere testi in provenza-le su Ester – che nella zona dovevano essere diffusi semi-oralmente – potrebbe essersi propagata da lì, ispirando alcuni intellettuali pros-simi a questo ambiente. Uno è Crescas; chi potrebbe essere, invece, quell’intellettuale ebreo che frequentava l’ambiente dei maestri di Salon e decise di comporre i ME?

30. D. Iancu-Agou, Provincia Judaica. Dictionnaire de géographie historique des juifs en Provence médiévale, Paris-Louvain, Collection de la Revue des Études Juives, 2010, p. 123.

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5. Un testo in cerca d’autore

L’autore sembra conoscere il commento al Libro d’Ester com-posto dal Gersonide, poiché vi attinge a piene mani per la “morale” provvidenzialistica che imprime al suo testo, riportando idee e inter-pretazioni della Megillâ note per essere state formulate da Gersonide per primo.31 Il commento è datato al 1329. L’autore dei ME, dunque, è qualcuno che vive in quel periodo e che potrebbe avere contatti con Gersonide.

Sulla base di quanto già chiarito, propongo che dietro ai ME si nasconda Kalonimos ben Kalonimos: è probabile che nella fioren-te ma piccola comunità ebraica di Salon tutti i Kalonimos fossero imparentati ed è proprio nell’atelier di Ṭôḇî e Shemuel Kalonimos che circola una copia dei ME, che sarà trascritta a conclusione del Mišneh Tôrâ. Abbiamo visto quanto Kalonimos si occupò del tema con la Massekhet-Pûrîm, nella quale esorta a trascrivere le parafrasi della storia di Ester e inserisce numerosi termini giudeo-romaneschi di pietanze tipiche della festa.

Nondimeno, l’indizio più persuasivo lo riferisce, nella Maḥberet 28 (970-990), Manoello Giudeo, amico di Kalonimos negli anni romani del nostro autore, se fosse vera l’identificazione tra Kalonimos e un poeta di cui egli parla come ambasciatore pres-so la Santa Sede:

E il quinto baldacchino per il maskil Tizio della città Tizia che fece dimentica-re i poeti dell’epoca con le sue poesie che ci mostrò, (che) vennero in nostra mano [e] delle quali godemmo. (…) Egli possiede la poesia penetrante e gra-devole in lingua ebraica, cristiana e araba (בלשון עברי ובלשון נצרי ובלשון ערב) e nessun estraneo può uguagliarlo (…) [980] Ed egli vedendo che tutti i potenti traevano benedizioni dal suo nome (כל אילי הארץ יתברכו בשמו), fu geloso della sua terra ed ebbe pietà per il suo popolo (…) Egli andò in Provenza dal capo Magdiel a parlar bene di Israele. Sui potenti della terra egli eleva la sua alta poesia e sui notabili della terra egli brontola con la sua voce.32

Nel 1321, il Pontefice emanò un editto di espulsione degli ebrei dai suoi territori; un’ambasciata, capeggiata da Kalonimos, si recò da

31. Vd. n. 21.32. Il corsivo è mio. Il testo è tratto da Immanuello Romano, L’Inferno e il

Paradiso, intr., note e commenti di G. Battistoni, tr. di E. Weiss Levi, prefazione di A. Luzzatto, Firenze, Giuntina, 2000, pp. 108-110 e a p. 136.

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Roma ad Avignone per perorare la propria causa.33 Il poeta di cui Ma-noello parla è coperto da anonimato, ma la maggior parte degli studio-si propende a riconoscervi Kalonimos, giustificando come un atto di discrezione il fatto che il poeta italiano non faccia il nome dell’amico, visto che era implicato in questioni diplomatiche riservate.34

Un altro punto a favore dell’identificazione è costituito dall’elo-gio che Manoello fa di Kalonimos nella Maḥberet 22 e che corri-sponde quasi perfettamente al ritratto dell’anonimo provenzale. La Maḥberet 22, però, è un’arma a doppio taglio: se la descrizione coin-cide, vi sono nondimeno alcune importanti differenze, soprattutto quando Manoello afferma che Kalonimos non è un poeta. L’eviden-za manoscritta dimostrava, finora, che Manoello aveva ragione: Ka-lonimos scrisse tanto, traduzioni, parodie, opere in prosa rimata, ma niente versi, né in ebraico, né apparentemente in arabo o nella “lin-gua dei cristiani”. Nonostante ciò, Cecil Roth propende per vedere Kalonimos nell’anonimo poeta [ibid.]; Renan e Neubauer invece negano l’identificazione [cit. 421], giustamente obiettando che non avrebbe senso elogiare Kalonimos una seconda volta, riferendosi in più a poesie, persino “nella lingua dei cristiani”, quando non c’è traccia di questa produzione.

Questo fatto diventerebbe, alla luce dei ME, una conferma all’identificazione tra il poeta e Kalonimos: egli potrebbe avere composto questi versi dopo35 che Manoello scrisse il primo elogio dell’amico e, tra questi versi, potrebbero esserci i ME.

Non ci sono invece prove dirette sul fatto che Kalonimos cono-scesse il Gersonide, più giovane di lui di qualche anno; tuttavia, la fama di Levy ben Gershon come filosofo e gli argomenti di interesse comune avrebbero potenzialmente portato Kalonimos a leggere le opere di Gersonide, se le avesse potute reperire. E ciò non era diffi-cile visto che, oltre che entrambi nativi e residenti nell’area tra Arles

33. C. Roth, Lo sfondo storico della poesia di Immanuel Romano, in «La Ri-vista mensile di Israel», XVII (1951), 10, pp. 426-440, alle pp. 426-430.

34. E. Renan, A. Neubauer, Les écrivains juifs français du XIV siècle, Paris, Imprimerie Nationale, 1893, pp. 421-422.

35. D’altro canto, le maḥberôṯ non sono datate con precisione; Roth crede che la 28 sia stata composta nel 1321 (ibid., p. 430), subito dopo i fatti di cui si parlava; Battistoni (L’Inferno e il Paradiso cit., p. XIII) la posticipa al 1332; secondo quanto propongo, questa seconda datazione sembra più calzante.

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e Orange, almeno per un certo periodo tutti e due frequentarono la corte papale ad Avignone. Se anche non si conobbero direttamente – sappiamo che il commento del Gersonide alla Megillâ è del 1329 e non abbiamo più tracce di Kalonimos dopo il 1328 – senz’altro avrebbero potuto entrare in contatto librescamente; e infatti Ger-sonide si ispira alla Māsseḵet-Pûrîm per le sue parodie; nulla osta immaginare che, a sua volta, Kalonimos abbia attinto all’innovativo commento al Libro d’Ester del grande filosofo.

6. Nota all’edizioneFornisco qui di seguito il testo dei ME in una prima, ma au-

spicabilmente non definitiva proposta di edizione, che prevede la “decodificazione” del testo provenzale in caratteri ebraici e, ove ci sembri necessario, la sua normalizzazione secondo il sistema fono-morfologico del provenzale e/o la sua correzione, nel caso di termini palesemente errati. Nell’apparato critico36 si dà ragione di ogni inter-vento che si discosti dalla versione del manoscritto.

In primo luogo si è proceduto a separare le unità trascritte in scriptio continua, che in genere consistono in sintagmi costituiti da monosillabo e plurisillabo – per esempio l’articolo e il suo sostanti-vo, la copula o il pronome relativo e la parola consecutiva – mentre l’assenza di abbreviazioni non ha richiesto un loro scioglimento. Si è provveduto anche a inserire la punteggiatura, dal momento che il testimone manoscritto presenta (spesso, ma non sempre) come unica scansione sintattica un punto in alto alla fine di ogni unità metrica.

L’edizione presenta il testo metrico diviso in strofe (quartine e distici), laddove sia possibile ricostruire i versi. Nel caso delle par-ti pesantemente compromesse da guasti materiali, in particolare le prime tre/quattro righe circa delle cc. 190v e 191v, se non è pos-

36. L’apparato non si presenta diviso per versi, per ciascuno dei quali dare conto di tutte le scelte di deviazione dal manoscritto; si tratta invece di un sistema di note, per cui ogni termine commentato è contrassegnato da un numero progres-sivo che rimanda al piè di pagina, dove esso è discusso. La scelta è determinata da un’esigenza di chiarezza, poiché alcuni versi presentano molteplici questioni degne di discussione, così che un unico nucleo di commento risulterebbe di difficile lettu-ra. Per contro, la brevità complessiva del testo non comporta un numero infinito di rimandi e, dunque, il corpo di note non appesantisce eccessivamente il testo.

Erica Baricci32

sibile ripristinare la scansione metrica originaria, lasciamo il testo continuo. La numerazione dei versi, di conseguenza, è arbitraria. Per convenzione, consideriamo v. 1 la prima frase che riusciamo, almeno parzialmente, a leggere.

Il processo di interpretazione non implica soltanto la traslitte-razione dei caratteri ebraici e l’integrazione delle vocali, ma anche un tendenziale adeguamento all’ortografia del provenzale relativo all’area di pertinenza del testo. Per ragioni di spazio, non darò conto in questa sede del sistema fono-grafematico di corrispondenze tra la fonetica provenzale e le lettere ebraiche, rimandando all’ampio stu-dio che Cyril Aslanov37 ha dedicato all’argomento e precisando qui di seguito solo gli usi grafici propri del compilatore dei ME.

Si è scelto di rappresentare la spirale dentale sorda con <s> e la sonora con <z>; la laterale palatale con <lh>; <g> finale rappre-senta l’affricata palatale sorda, che a inizio o in corpo di parola è rappresentata da <ch>. L’affricata palatale sonora è resa con <j> se seguita da vocale posteriore e con <g> se seguita da vocale palatale. Impieghiamo i digrammi <qu> e <gu> per rappresentare l’occlusiva velare sorda e sonora se precede una vocale anteriore, mentre si tro-vano le semplici <c> e <g> se la vocale che segue è posteriore.

Scriviamo sempre <ca> e <ga> occlusive, partendo dalla con-statazione che il testo, proveniente da Salon de Provence, appartiene a un’area che non prevede la palatalizzazione del nesso velare + [a]. Anche questa, certamente, è una generalizzazione, ma nessun dato grafico dimostra una lettura palatale di <ca>, <ga> (salvo forse due casi, che però sono solo congetture, per cui vedi la n. 73), per cui ci atteniamo alla scelta non marcata.

Il caso più significativo di uso grafico del copista è quello della nasale palatale, rappresentata da yôḏ quasi sempre duplicato (<yy>; <y>) e non, come in tutti gli altri testi del corpus, da <ny>; data la peculiarità di questo tratto, si è deciso di conservarlo e rappresen-tarlo con <y>.38

37. Aslanov, Le provençal des Juifs cit., pp. 47-73.38. Questa particolarità grafica si riscontra solo nelle scriptae catalane in ca-

ratteri latini (vd. per es. F. Zufferey, Recherches linguistiques sur les Chansonniers provençaux, Génève, Librairie Droz, 1987, p. 243). Tuttavia, a proposito della na-sale palatale in guascone, è stato detto che: «la disparition de la nasale intervo-calique affecte la variété palatale de celle-ci, c’est-à-dire [ṋ] (…) la toponymie

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 33

Quanto ai segni diacritici, una parentesi tonda con tre punti (…) indica lacuna non definita; al contrario, quando è possibile misurare l’entità della lacuna, all’interno della parentesi viene posto un nu-mero di punti equivalente alle lettere perdute. L’espunzione è mar-cata da uncinate; le unità espunte sono in corsivo quando risalgono al copista. L’integrazione è tra parentesi quadre; i caratteri, distinti in tondo o corsivo con criterio analogo all’espunzione. La crux (†) indica parola, per ora, irrecuperabile. Tutte le parole contrassegnate da asterisco sono congetturali. In nota si chiariscono solo i termini di significato meno evidente. Laddove ci si discosti dal testo mano-scritto39, in nota si fornisce una giustificazione dell’intervento e si dà il termine in pura traslitterazione.40

montre que ce traitement a été plus étendu autrefois: doublets Aubian/Aubignan, Auriac/Aurignac, et aussi graphies anciennes Armaiac (Armagnac), Lugaian (Lu-gagnan)…» (X. Ravier, Okzitanisch: Areallinguistik / Les aires linguistiques, in Lexicon der Romanistischen Linguistik, ed. G. Holtus, M. Metzeltin, C. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 1991, V/2, pp. 80-105, a p. 87). Apparentemente, questo non sarebbe l’unico guasconismo del testo, poiché si ritrova anche la forma dauna (v. 69) accanto a dona.

39. Rimandando ad altra sede la discussione della tipologia di alterazioni del manoscritto, preciso solo che, se il copista dimostra un’indubbia perizia, tanto che dei pochi errori rintracciabili molti risultano già auto-corretti, è d’altra parte sicuro che ci troviamo di fronte a una copia. Tra gli errori più frequenti, si riscontrano: anticipazione di segmenti di testo; aplografia; scambi tra lettere simili: wāw/yôḏ; śîn e tāw. Difficile stabilire, nel caso di rêš e dāleṯ, se si tratti di uno scambio o di una grafia poco distintiva: le due lettere sono praticamente identiche, non fosse che l’angolo della dāleṯ è lievemente più quadrato. La vocalizzazione interessa le prime diciassette righe e mezzo della prima carta, prima di interrompersi ex abrupto da una parola all’altra.

40. Per il sistema di traslitterazione adottato, vd. Weingreen, Hébreu biblique cit., pp. 11-14.

Erica Baricci34

Ma‛aśēy-’Estēr4142434445

[c. 190v]

(…)fenna *Ester antic *farai *recon[tamen] (…) 1 (…) *dic *que *remes la gabela, *l’ac *ape[l]at *dal *sel(…)*per *tos *per *lei *ses *si *m(…).

[e]s *nom de *mesier del marques 5que plag †nanri[la] *totz omes qu’al *metables

fo nat be e fo †jos non trigues gaireque es baron, *[p]e[r] *serrar *pueis *Daire,*parar corts41 tan bonas que non es nat de maireque tan ricas anc las auzis retraire. 10

*Mai mal o fes, car los aizes santficasfes traire dal Temple ni los pres.

*Seis mes foron as barons establidase mai *senor‹s›42 las fes grans e complidas.[Dedin]s Šôšan foron gens mot servidas: 15salvizenas, caponcs,43 aucas rostidas,

samitz polpras e lies dorats (…)

[Mot]s *vincs44 eran a cu[i]45 beure voliaaparelhats, que res non o tolia,

41. ME: cortas.42. Se il termine in questione è, come sembra, senhor, la nasale palatale, tra-

scritta sempre con doppio yôd (yy), in questo caso è resa con una nûn (n): śēṅwreś. Espungo -s finale poiché occorre un soggetto al singolare. Dato il collasso della declinazione bicasuale in ME, ristabilire un cas objet al singolare, anche se in fun-zione nominativale, sembra la correzione più economica.

43. Mantengo la seconda qôf, interpretandola (a livello di ipotesi) come una resa grafica della componente velare della nasale.

44. Vd. n. precedente.45. ME: ʼqw.

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 35

que lai cascu avia *que li plazia: 20si volguessa, de son luec el l’avia.

Lo rey ente[nne]t46 en los omes,la reina *fazia a donas gran[s]47 conres.46474849505152

El sete jorn la cort fo jozozalo rey mandes en cort *venir sa spoza: 25Vashti respont de no co[n] ergulhoza,48

mai del venir era mot olentoza;

*Mas ben o fes Gabriel, la santa res,49

una coza en mei dal front li mes.

O vos *dises e pausares que Dieu la fes 30labroza per tal que non vengues.

E rescos50 si lo rey *e *foguet d’irae als savis dela Lei se revira,demandet51 lor en qual sens la punira.52

Dis [Mem]ucan: «Seyer, ieu establira 35

que no lo avoas, mai non vengues tro vosen la delira co[n] ome omras.

46. ME: ente[nne]s. Da intendere come una forma analogica di perfetto debo-le al posto della abituale forma di perfetto forte (entenc), con scambio / fraintendi-mento di <ś> / <ț>?

47. Esigendo la rima un’uscita in -es, aggiungo una -s di plurale a gran piut-tosto che correggere nel sing. conre.

48. ME: ʼergûlyawḏʼh. La <a> sottoscritta a <ly> sembra un errore di copia; probabilmente il copista, inserendo la vocalizzazione, ha tracciato un segno voca-lico di patakh (= a) in più.

49. ME: la santa res, Gabriel. Inverto l’ordine dei componenti per ristabilire la rima.

50. ME: reśeqeś. Rescos: ind. pf. III s. dal verbo escoire ‘irritarsi’, ‘ribolli-re’, con prefisso r(e)-?

51. ME: demndaś.52. ME: pwry’h.

Erica Baricci36

Qu’ieu vos dic, seyer, si Dieu mi valha,que contra tot53 [l]o mont a fag la falha,qu’aques[t] fag a tot lo mont sonalha 40que mai marit no es prezat [de nu]lha:5354555657

per que bon es qu’o castiarese d’ela non vos calha, que mot melhor l’[a]ures».

Lo rey crida ‹l›54 ‹e›, la destral fon esmolta,‹jorn› dela spata la testa li fo tolta: 45[jorn de]55 la festa - nuza e dezenvoltafazia obrar dauzelas - non fon colta.

Lo rey trames sos [mes]sagesqu’ome seyorage en sa molher agues.

Pertot lo sagel mes56 d’aquest uzage, 50tota res lo i tenc a gran folage:que·l mont non es tan ‹l› fol ni tan salvage, ‹a› [e]n sa molher non aya seyorage!

Mai Dieu o fes qu’om no crezesque per nostre liyage [de nu]lha fe·n prezes. 55

Pauzet57 lo rey e l’ira tenc carriera, penset si : «que ais er ‹s› [si me mo]lhere!».Ar diseron sos cavalhes: «om quiera

53. ME: ṭwś.54. ME: cridal. Espungo la <l>, forse indotta nella trascrizione del copista

dalla sequenza rêš <r>+ lāmeḏ <l> con cui si chiude la parola successiva ldśṭrl (la destral). Da tenere in conto che rêš e dāleṯ sono pressoché identiche in questa gra-fia, quindi è quasi impossibile distinguere una sequenza -dl da una -rl.

55. Espungo la parola jorn dal verso precedente e lo integro al verso successivo. Il verso si aprirebbe con la parola jorn a cui seguirebbe de la spata (dlśpṭh), di senso poco chiaro, mentre il verso successivo si apre con [de] la festa (dlpśṭ’) che, oltre ad avere più senso come specificazione di jorn, è anagramma di de la spata, a generare confusione. Il participio colta (v. 47) si accorda con festa e non con jorn, ma forse si tratta di un accordo a senso. Così si ripristina il décasyllabe di entrambi i versi.

56. ME: lo mes sagel.57. ME: p’dwws. Ammettendo una metatesi grafica, la forma a testo sarebbe

pauzes. Correggo -s in -t per ristabilire l’indicativo perfetto.

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 37

las dau[ze]las que son en la ribieracar [a]ras vos trairas e meteras 60en cadiera la cal mais amaras».

Al rey plac fort [que] *sian establidase dauselas non i foron gequidas.troberon se am una res [polida][si] tot era un pauc escorolida. 65

Non que re *gabesses ni (…)ia tant (…)

[c. 191r]

(…) can Mordekhay saup *que (…)(…)[dizi]a que non lor traises. Hegay totas las daunas gardava*om (…) lor dava. 70Sobre tot lo rey li comandavaservir Ester aissi co ma[jorana]

(…) *en pres a prezar mase alienet esclava[s] francadas de grans mas.58 58596061

Non es *jorn [que] Mordekhay no[n] s’asete: 75«a los del rey demanz ques *en *sie *te». Auz dos bailo[n]s del rey qu’avia[n] consire

58. ME: de grans francadas mas.59. ME: qwlwpw. In provenzale sono attestate le forme colp/colbe/cop (‘colpo’) o

colpa (‘crimine’). La Bibbia (Est. 2:21) dice che Bigtan e Teresh decisero di (lett.) ‘lan-ciare un colpo di mano’ contro il re ( ), formulazione perfettamente ripresa dai ME se si presuppone che l’espressione sia colp ensire. Per senso, dunque, il termine colp sembra ottimo. Perché la forma colpo? Ipotizzo che il copista volesse scrivere colpe (qwlwpy), ovvero colp + vocale finale d’appoggio, tipica del provenzale (cfr. F. Zinelli, La Légende Dorée catalano-occitane: étude et édition d’un nouveau fragment de la version occitane A, in L’occitan, une langue du travail et de la vie quotidienne du XII au XXI siècle. Les traductions et les termes techniques en langue d’oc, Actes du colloque (Limoges, 23 et 24 mai 2008), éds. J-L. Le Maître et F. Viellard, Ussel, Musée du Pays d’Ussel, Centre Trobar, 2009, pp. 263-350, a p. 292), ma abbia scritto colpo (qwlwpw) per induzione dalla lunga serie di wāw, visto che wāw e yôḏ sono molto simili.

60. ME: gʼrn.61. ME: ’nṣyry.

לשלח יד

Erica Baricci38

e pensavan *colpe59 gran60 ensire:61

car o apres Mordekhay, pres Esterqu’o ar[as] *dira al rey que·n cargues. 80

La cauza fo be[n] e fort enquenta,62

Aiss[i] co·n dis *Mordekhay fon trobada,penduts foron, la cauza fo pauzada,mas en libre non fo guizardonada.62

Vos veires e trobares que *Dios 85l’ac estujada el temz qu’auzires.

לנו ז[מר] כבודך

Aras aujas d’una gent ses prezansaen que mal luc nos cuges far *pe[zansa];aital comport fes ala comensansa,

car el pres nostra gent, qui tantost *tos esdi. 90

Tomtems apres am nostra Lei a i guerra;sempre comenset en anar per terra:mai non que *re·n *trobes, mi esquera

qu’entro·l fin lor sanc nos[tra]gens lo descomfi.

Haman fradelh sobre nos sort geta, 95el mes que mori Mu[y]sen la pro[fe]ta:cuget que sa sors63 fos vera e certa,63

mai o vi qu’el nasquet en a[i]tal jorn car mori:

el savia be qu’anc non gazeyes re!Am nos *be˙n fes gran folia. 100Mot ac gran tort, qu’el non se castia:

62. Il termine è scritto molto chiaramente e per senso è buono; la rima non è però rispettata e il verso è ipometro.

63. = sortz. Relitto di cas sujet?

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 39

car mei devi deu esser qui sap la cauza *pres; Mai [qu’e]l fes folia, beure *lais,64 a comtar vos e a dir farai *si.6465666768

וחוזר לענין לנגון ראש[ון]

[L]o rey amet Haman, la mala branca 105ac pro aur e argent e terra franca,om que·l ves en seti no ‹es› se stanca,mai Mordekhay per el non movia l’anca. Fon l’*escu[son]: mots de vos non *c‹a›re[s]65

qu’am *gazanca66 far moure lo poquesses. 110 Vi o Haman e ac gran *en[ueg]: [co]m i fera?E mai car ac apres que Juzieus era,dis: «per sa fe, testa non escapera!».D’aucir tots los Juzieus preguera. E sa sort fes que tost saupes en qual mes 115que to[s] (…) (.)ser spazes. getet67 sa sort, la cauza va i anpenre qu’el treze jorn d’ ’Adār li fes alpenr[e],aucir nostra gent del mager tro·l menre;e dis de far lo fuec e escompenre. 120 *Leu[get] tant per la causa, *qu’el promes68

i penre el *jor[n], d’agir si dises.

64. ME: lśy.65. Ristabilisco la -s finale per aggiustare la rima in -es; la forma cres (= crei),

III p.s. di crezer con -s analogica, si giustifica in quanto tipica della varietà proven-zale (vd. aus III p.s. di auzir e ves di vezer). Cfr. Zinelli, La Légende Dorée cit., p. 297, con rimando alla bibliografia di riferimento.

66. Pur non attestato altrimenti, il termine è degno di confronto con l’antico lionese gazanque che significa, anche se il senso non è sicuro, «pièce de chêne, sorte de levier» (FEW 22/2 98b).

67. ME: yyṭś.68. ME: a el promes tant far la causa; inverto l’ordine dei componenti del

sintagma per ripristinare la rima.

Erica Baricci40

Dis al rey: «una [gent] a *[re]sidenzaen ta terra e fai m’en avenenza;e ades si farai en sa prezenza (…) 125(…) *plas d’argent valensa.69707172

Venja[r]69 los fas, si [a] vos plaguesfar penre en mes (…)

[c. 191v]

(…) ia (…)na siam pais*respont [lo rey]: «ses folo(…) 130 (…) *go(…)s te si[e] donada:fai en carta e[nsir]e con te agrada.

S(…) e als primses e als comtes per tal sie la cauza mandad[a](…)

(…)*escrig †vns70 e·ls correus mandet querre, 135Mandet peltot qu’om los Juzieus [aucira],be que *hat gran fes ala vila o ensire.Oi tan gran trauc non *crei que mai se serre(…)

(…) *tal es que *l’ais, si l’auzisses, be agueras cor de fera que no vos ploras. 140

Mordekhay a sa[c] [es]quintat e s’esta calina;va71 per Šôšan e crida i72 uchinaam dolor gran; qant o a[uz] [la rei]na

69. ME: Vngʼ.70. ME: wwnś.71. A testo si legge wwy (vi ‘vide’); per senso però sembra più appropriato va

‘va’ (= wwʼ) che presuppone uno scambio tra yôḏ e ʼalēph/hēy più che ammissibile; si decide di intervenire, anche sulla base del testo biblico che dice «Mordekhay uscì per Susa».

72. ME: w. Possibile confusione wāw e yôḏ, forse a causa della parola succes-siva che comincia con <w>.

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 41

trames vestir er d’escarlata fina,mai no·s ‹per› poguesses qu’el los prezes. E·n dis 145[la] reina: «delire a mestier *‹p›gases!73».7374757677

Ester cant o auzi non ac puis pauza;trames [Hathac] saber qu’era la cauza,el mandet li: «vengues, no a qui auza Haman e tan estiam [consiro]s e[n] la cauza! 150

Ma preguesses e al rey disesses74

“aguessa bauza, seyer, non sofreses”

Respos Ester: «que puesc per [que]75 die·us ajuda?E el sap be que sempre costuma76

*qu’en la cort sia nulha res venguda 155ses apel del rey, que mal es resaupuda.

So d[o]ncs non [sia] si, am plan en mans,sa verga aya aguda, dal rey qui lai proces.

Mordekhay dis: «aquest res[pos]t mi portaa Ester si ela nos de[s]cono[r]ta: 160mon leu lo Dieu que tot lo mont conportaper salvar nos trobera bona porta; e non cujas ni vos al rey pensas77

es[ser] estorta car *sela queres.

Respos Ester: «doncs aflechits sias 165e aitan juzieus *can trobariasdejunar fai tres ‹noi› nuis e tres diasqu’aital farai am las dau[se]las meas

73. gases = jasetz? Vd. ja per ga al v. 127 (venjar - wngʼ).74. ME: e disesses al rey: inverto l’ordine dei componenti per ristabilire la

rima. 75. Si introduce un que per giustificare il ricorso al congiuntivo.76. ME: costuma sempre. Inverto l’ordine dei componenti per ristabilire la

rima.77. ME: pensas al rey.

Erica Baricci42

(…) [e o]nras e preguerasa Dieu que nostra via denant lo rey adres». 170

Mordekhay acampet to[tz] [e·n diz]ia gesta:dejuneron sitot avian gran festa.E al ters jorn a Ester plac que [vesta][vest]ir real per tal qu’al rey fos genta;

venc al *[s]omons,78 lo rey la vi, verga del aur li *p[orset] 175(…) [respo]s li que vengues.7879

Donc[s] lo rey dis: «Ester qu’e[s] ta demanda?Qu’entro la mitat de ma renda [pue]scas querer, qu’o ieu vol que se tenda».Doncs dis Ester «non vuelh autra fazenda 180

[mai demande]ra manges vos e·l pagesHaman a liranda qu’ai fag a nos tres»

Car lo rey auz so que [Ester volia],a el plac fort fos fag so que dizia. Mandet Haman que lo rey lo queria, 185fo[n] (…)g gran gabei qu’avia. A via *davanz79 mas, lai anet e *n’es, mai dejus ‹enl› en plan‹a› v[ezia] *(….)mpre li fes.

Ac pro manjar deliurat la reina,lo rey vi la blanca con *pol[ina] 190(…) «digas, dona fina,si voles re, ni argent ni aur, vuelh qu’o (…)

78. ME: ’nṭmwnś. Il copista sovrascrive una <ṭ>, che correggiamo in <ś> (graficamente quasi identica), per dare senso all’espressione: somons = “invito”.

79. Parola confusa: il copista ha trascritto erroneamente, quindi ha tentato di correggere ricalcando le lettere giuste su quelle errate, cosicché non si capisce cosa sia giusto e cosa no, eccetto la dāleṯ iniziale; ipotizzo davanz, ma con un forte margine di dubbio.

Critica del testo, XVII / 1, 2014

I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 43

(…)vos so ag[uas], dona, tot que voles(…)»[c. 192r]80

(…) †tpi80 *fes qu’umpeques lor(…)(…) acanpar, si nat, gran o menuda 195Tant (…) comenset a[m] una g[ra]n brudaVeyas qu’en gran(…)[vo]s trovareQue *l’autra venguda, non lai aura l(…) tos (…)fos tal pro fairecar Mordekhay vi que *no·m paria gaire. 200

Traduzione

[vv. 1-6] (…) Farò l’antico racconto della donna Ester (…) dico che (As-suero?) rimise la tassa (…) è il nome da servo del marchese poiché piace (…) [vv. 7-12] Nacque sotto una buona stella e si dice che non attese molto che subito divenne nobile, per poi assediare Dario, approntare corti così belle che uomo nato non le avesse mai sentite descrivere così tanto ricche. Ma lo fece male, poiché fece sottrarre gli utensili sacri dal Tempio e li prese. [vv. 13-17] Sei mesi furono le feste comandate per i nobili e nessun signore le fece mai così grandi e perfette. Dentro la cittadella di Susa molte persone furono servite e riverite: selvaggina, capponi, oche arrosto, sete, vesti di porpora, letti d’oro… [vv. 18-23] molti vini erano preparati per chi voleva bere, tanto che niente mancava, perché là ciascuno aveva ciò che gli piaceva: se avesse voluto, l’avrebbe avuto dal suo posto. Il re si occupò degli uomini, la regina preparava grandi pasti alle donne. [vv. 24-31] Al settimo giorno la corte fu lieta che il re comandasse che la sua sposa venisse a corte: Vashti risponde di no, da orgogliosa, anche se era molto desiderosa di venire. Ciò fece Gabriele, la santa creatura: le mise una coda in mezzo alla fronte. Voi dite ciò e concluderete che Dio la rese lebbrosa perché non venisse. [vv. 32-37] E il re ribollì e arse d’ira, e ai saggi della Tôrâ si rivolge e domandò loro in quale modo la punirà. Dice Memucan: Signore, io stabilirei che non lo ammettiate, perché (la regina) non venne da voi al momento dell’ordine, come una persona onorata. [vv. 38-43] Ché io vi dico, signore, che Dio mi aiuti, che contro tutti ha commesso una colpa, perché questo fatto risuona in tutto il mondo, così che nessun marito conta più nulla; per cui è bene che la puniate e non vi importi di lei, ché

80. ME: ṭpy.

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una migliore ne avrete. [vv. 44-49] Il re fa la sua dichiarazione, la scure fu affilata, la testa le fu tolta dalla spada; il giorno di festa (Šabbāṯ) – nuda e svestita faceva fare alle fanciulle ebree dei lavori – non fu celebrato. Il re inviò i suoi messaggi, che l’uomo abbia dominio sulla propria moglie. [vv. 50-55] Dappertutto appose il sigillo di questa regola e tutti lo presero come un atto di gran follia, perché il mondo non è tanto folle né tanto incivile da non avere dominio sulla propria moglie; ma Dio fece ciò, che nessuno gli credesse, cosicché, a vantaggio della nostra stirpe, di nessuna fiducia lo (= Assuero) si stimasse. [vv. 56-61] Il re si placò e il dolore prese la sua stra-da, così pensò: «che occasione sarà se mi sposerò!». Allora dissero i suoi cavalieri: «Che si cerchino le fanciulle che sono nell’estensione dei domini, poiché ora voi prenderete e metterete in trono colei che amerete di più». [vv. 62-66] Al re piacque molto che le fanciulle fossero portate a palazzo e non ne furono tralasciate. Si trovarono con una creatura molto bella, anche se era un po’ pallida. Non che vantasse niente (…) [vv. 67-74] Quando Mordekhay seppe che (…) diceva che non li tradisse… Hegay custodiva tutte le donne e dava loro (unguenti e profumi?) (…) soprattutto il re gli ordinava di servire Ester così come una sovrana. Prese ad apprezzarla di più e le donò schiave inviate da grandi palazzi. [vv. 75-80] Non c’è giorno che Mordekhay non si sieda: «stai zitta davanti alle domande del re». (Mor-dekhay) ode due ministri del re che tenevano consiglio e che pensavano di fare un grosso colpo di mano. Quando Mordekhay apprese ciò, prese Ester che ora lo dirà al re, affinché se ne incarichi. [vv. 81-86] La cosa fu ben indagata, si rivelò così come la denunciò Mordekhay, (i ministri) furono impiccati, la questione fu chiusa, ma nel libro non fu passata sotto silenzio. Voi vedrete e immaginerete che Dio l’ebbe segretamente collocata (questa vicenda) nel momento di cui ascolterete.[c. 191r, ll. 9-10] Abbiamo (ora) il canto “il Tuo onore” (kaḇôdeḵa). [vv. 87-90] Ora udite di una gente senza valore, in che brutto momento pensò di farci dispetto: tale comportamento tenne all’inizio, quando prese la nostra gente, che discolpò subito tutti (?). [vv. 91-94] Sempre, in seguito, con la nostra Legge c’è guerra; (questa gentaglia) sempre cominciò col collassare: visto che non trova mai soddisfazione, io desidererei che alla fin fine la nostra gente la sconfigga, la loro stirpe. [vv. 95-98] Haman lo scellerato su di noi getta la sorte, la profetizza nel mese in cui morì Mosè: pensò che la sua sorte fosse vera e sicura, eppure lo vide, che egli nacque nello stesso giorno in cui morì; [99-101] lo sapeva bene che non ci avrebbe guadagnato niente! Con noi commise proprio una gran follia, ed ebbe torto nel momento in cui non desistette: [vv. 102-104] perché mezzo indovino dev’essere chi conosce un fatto imminente (?). A maggior ragione lui compì una gran follia! Vi lascio bere, a raccontarvi e a dirvi farò in questo modo.

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I Ma‛aśēy-’Estēr: un nuovo testo “giudeo-provenzale” 45

[ll. 18] E torno all’argomento della musica iniziale[vv. 105-110] Il re si prese a cuore Haman, quel figlio di cotanto padre ebbe molto oro, argento e terra libera. Chi lo vede sullo scranno non si stanca (di inchinarsi), ma Mordekhay per lui non si piegava. Fu il pettorale: molti di voi non credo che sarebbero riusciti a smuoverlo neanche con una leva. [vv. 111-116] Haman vide ciò ed ebbe una grande irritazione: come potrebbe fare? A maggior ragione dal momento che ebbe appreso che (Mordekhay) era ebreo, si disse: «A causa della sua fede, nessuno scapperà!». Avrebbe pregato di uccidere tutti gli ebrei. E compì il suo destino perché volle sapere subito in quale mese (…) li uccidesse. [vv. 117-122]. Gettò la sorte, vi apprenderà la cosa, che il tredicesimo giorno di ‘Adār egli lo fece impiccare, (fece) uccidere la nostra gente dal più grande al più piccolo. E disse di fare il fuoco e di attizzarlo. Egli gioì tanto per la cosa, che ripromise di impiccarlo quello stesso giorno, se (il re) gli dicesse di agire. [vv. 123-128] Disse al re: «un popolo risiede nella tua terra: fammene accordo e subito io farò in tua presenza (…) se vi piace il valore del denaro. Fateli punire, se vi piaccia, e prenderli nel mese (…)» [vv. 129-134] (…) Siamo appagati (…) risponde il re: «senza (?) (…) ti sia donata: fai pubblicare una notizia scritta come ti aggrada (…) di modo che ai principi e ai conti sia comandata questa cosa (…)» [vv. 135-140] (…) scritto (?) e inviò i corrieri a reclamarlo; comandò che ovunque si uccidessero gli ebrei, tanto che con grande urgenza lo fece proclamare nella città. Non credo che (persino) oggi una tale ferita si richiuda (…) tale è la situazione che se la udiste, avreste un cuore davvero inumano per non piangere. [vv. 141-146] Mordekhay si è strappato l’abito di sacco e si mette la cenere; va per Susa e vi lancia un grido con gran dolore; quando la regina sente ciò, invia adesso abiti di fine scarlatto, per quanto non si riuscisse a farglieli accettare. E la regina disse (ai servi): «in fretta! Voi poltrite». [vv. 147-152] Quando Ester udì ciò, non ebbe più requie; inviò Hathac a sapere qual era la situazione, lui le riferì che venisse: «non c’è chi osa (affrontare) Haman e siamo preoccupati per quello che lui ha in mente», ma che pregasse e dicesse al re «non tollerate, signore, che avvenga questo imbroglio». [vv. 153-158] Risponde Ester: «cosa posso fare perché io vi dia aiuto? Egli sa bene che si usa sempre che nessuno entri nella corte senza appello del re, perché questo atto è visto male. Ciò dunque non (è possibile) a meno che in modo spontaneo non abbia avuto il suo scettro tra le mani, dal re, che là opera giustizia». [vv. 159-164] Disse Mordecay: «questa risposta porta per me a Ester se ella ci sconforta: molto facilmente il Dio che regge tutto il mondo per salvarci troverà un buon sistema; e non pensate di essere risparmiata agli occhi del re solo perché reclamate il trono». [vv. 165-170] Rispose Ester: «dunque fate pentimento e fai digiunare per tre giorni e tre notti, tanti ebrei quanti riusciresti a

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trovare, che io farò altrettanto con le mie ancelle (…) onorate e pregate Dio che indirizzi la nostra via davanti al re». [vv. 171-176] Mordekhay radunò tutti e raccontava la vicenda: digiunarono anche se era giorno di festa. Al terzo giorno Ester volle mettere la veste regale in modo da essere bella per il re, e venne all’appuntamento. Il re la vide, le porse lo scettro d’oro, le rispose di venire. [vv. 177-182] Dunque il re disse: «Ester, qual è la tua domanda? Perché tu potresti chiedere fino alla metà del mio regno, che io voglio che ti si dia ciò». Dunque Ester disse: «Non voglio nient’altro fuorché che mangiate voi e quel villano di Haman al banchetto che ho indetto per noi tre». [183-188] Quando il re seppe ciò che voleva Ester, gli piacque molto che fosse fatto ciò che diceva. Fece chiamare Haman, giacché il re lo voleva (…) il gran vanto che ne aveva. Sulla via davanti a casa, là andò e ne uscì, ma giù in piazza vide chi lo fece (infuriare?). [vv. 189-193] La regina aveva preparato molto cibo; il re la vide, bianca come una puledra (…): «Dite, nobildonna, qualsiasi cosa voleste, sia argento sia oro, voglio che ciò (…) voi abbiate, o donna, tutto ciò che volete». [vv. 194-200] (…) fece sì che li si impiccasse (…) radunare così ogni persona, grande o piccola, tanto (…) cominciò con un gran baccano, vedete che in grande (…) voi troverete che l’altra venuta, non là avrà la (…) tutti (…) fosse tale da fare abbastanza (…) poiché Mordechay vide ciò che non mi sarebbe mai sembrato evidente (?).

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Fig. 1. Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 3140, c. 190v. Su concessione del Mini-stero per i Beni e le Attività Culturali.

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Fig. 2. Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 3140, c. 191r. Su concessione del Mini-stero per i Beni e le Attività Culturali.

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Fig. 3. Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 3140, c. 191v. Su concessione del Mini-stero per i Beni e le Attività Culturali.

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Fig. 4. Roma, Biblioteca Casanatense, ms. 3140, c. 192r. Su concessione del Mini-stero per i Beni e le Attività Culturali.