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431 I DISTURBI DI SOMATIZZAZIONE NEL DSM-5 Piero Porcelli In un suo libro su stregoneria e salute mentale ai tempi dell’Inquisizione, Thomas Szaz (1970) scrisse che «ai tempi del Malleus Maleficarum, se il me- dico non trovava prove di malattia naturale, ci si aspettava che trovasse prove di stregoneria. Oggi, se il medico non può diagnosticare una malattia organi- ca, ci si aspetta che faccia diagnosi di malattia mentale» (p. 23 ediz. del 1997). Questa citazione è stata spesso ripresa da Allen Frances negli ultimi tempi per criticare l’approccio alla diagnosi dei disturbi di somatizzazione adottato dal nuovo DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), «spietata macchina che produce disturbi e patologizza gli estremi della normalità», come l’ha de- finito J. Gornall (2013). Frances, com’è noto, ha intrapreso da molto tempo una battaglia ferocissima contro l’intero DSM-5 con conferenze, dibattiti in TV, blog su Internet, libri e articoli su riviste scientifiche autorevoli come il British Journal of Psychiatry. Anche Psicoterapia e Scienze Umane ha seguì- to da vicino il dibattito, pubblicando un suo contributo (Spitzer & Frances, 2011) e organizzando il seminario del 22 ottobre 2011 a Bologna, visionabile su YouTube (Frances, 2011). Di recente, Paolo Migone (2013) ha presentato il DSM-5 su questa rivista analizzandone puntualmente caratteristiche e criticità. Il presente contributo si riallaccia alla presentazione di Migone, cercando di approfondire la questione diagnostica dei disturbi di somatizzazione, argomento importante ma ritenuto probabilmente meno centrale rispetto ad altri classici della psicopatologia, come i disturbi dell’umore o di personalità. Com’è noto a chi ha seguito il di- battito on-line sul sito del DSM-5 (www.dsm5.org) e come si evince dalla presentazione di Migone, il Work Group del DSM-5 per questi disturbi (pre- sieduto da Joel Dimsdale – docente emerito della University of California di Unità Operativa di Psicologia Clinica, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) Ospedale “Saverio de Bellis”, Via Turi 27, 70013 Castellana Grotte (BA), Tel. 080- 4994685, Fax 080-4994340, E-Mail <[email protected]>. Dichiarazione sul con- flitto in interessi: L’autore del presente articolo non dichiara alcun conflitto di interessi. Psicoterapia e Scienze Umane, 2014, XLVIII, 3: 431-452 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it ISSN 0394-2864

, 2014, XLVIII, 3: 431-452 ... · Il DSM è un manuale diagnostico, e in medicina diagnosi significa identi-ficazione di una malattia e possibilmente delle sue cause. In psichiatria,

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I DISTURBI DI SOMATIZZAZIONE NEL DSM-5

Piero Porcelli∗

In un suo libro su stregoneria e salute mentale ai tempi dell’Inquisizione, Thomas Szaz (1970) scrisse che «ai tempi del Malleus Maleficarum, se il me-dico non trovava prove di malattia naturale, ci si aspettava che trovasse prove di stregoneria. Oggi, se il medico non può diagnosticare una malattia organi-ca, ci si aspetta che faccia diagnosi di malattia mentale» (p. 23 ediz. del 1997). Questa citazione è stata spesso ripresa da Allen Frances negli ultimi tempi per criticare l’approccio alla diagnosi dei disturbi di somatizzazione adottato dal nuovo DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013), «spietata macchina che produce disturbi e patologizza gli estremi della normalità», come l’ha de-finito J. Gornall (2013). Frances, com’è noto, ha intrapreso da molto tempo una battaglia ferocissima contro l’intero DSM-5 con conferenze, dibattiti in TV, blog su Internet, libri e articoli su riviste scientifiche autorevoli come il British Journal of Psychiatry. Anche Psicoterapia e Scienze Umane ha seguì-to da vicino il dibattito, pubblicando un suo contributo (Spitzer & Frances, 2011) e organizzando il seminario del 22 ottobre 2011 a Bologna, visionabile su YouTube (Frances, 2011).

Di recente, Paolo Migone (2013) ha presentato il DSM-5 su questa rivista analizzandone puntualmente caratteristiche e criticità. Il presente contributo si riallaccia alla presentazione di Migone, cercando di approfondire la questione diagnostica dei disturbi di somatizzazione, argomento importante ma ritenuto probabilmente meno centrale rispetto ad altri classici della psicopatologia, come i disturbi dell’umore o di personalità. Com’è noto a chi ha seguito il di-battito on-line sul sito del DSM-5 (www.dsm5.org) e come si evince dalla presentazione di Migone, il Work Group del DSM-5 per questi disturbi (pre-sieduto da Joel Dimsdale – docente emerito della University of California di

∗ Unità Operativa di Psicologia Clinica, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico

(IRCCS) Ospedale “Saverio de Bellis”, Via Turi 27, 70013 Castellana Grotte (BA), Tel. 080-4994685, Fax 080-4994340, E-Mail <[email protected]>. Dichiarazione sul con-flitto in interessi: L’autore del presente articolo non dichiara alcun conflitto di interessi.

Psicoterapia e Scienze Umane, 2014, XLVIII, 3: 431-452 http://www.psicoterapiaescienzeumane.it ISSN 0394-2864

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San Diego e past editor dal 1992 al 2002 di Psychosomatic Medicine, la rivi-sta dell’American Psychosomatic Society – e formato da 9 membri, tutti statu-nitensi a eccezione di due inglesi e un cinese di Hong Kong) ha deciso di cambiare radicalmente la sezione dei Disturbi Somatoformi del DSM-IV (A-merican Psychiatric Association, 1994), a cominciare dal nome: “Disturbi da Sintomi Somatici” (Somatic Symptom Disorders [SSD]), nome che indica sia l’intera sezione (con l’aggiunta “…e Disturbi Correlati”) che il disturbo speci-fico. Scopo di questo articolo è inquadrare il nuovo disturbo SSD all’interno del dibattito contemporaneo sulla diagnosi in psicosomatica.

Sintomi fisici fra medicina e psicologia Il DSM è un manuale diagnostico, e in medicina diagnosi significa identi-

ficazione di una malattia e possibilmente delle sue cause. In psichiatria, come in altre branche mediche, non essendo note le cause dei disturbi mentali, il concetto di diagnosi si riferisce solo alla prima parte della definizione (identi-ficazione di una malattia). La psicosomatica contemporanea è una disciplina molto più complessa di quanto appaia a prima vista (Porcelli, 2009, 2012), e un modo per entrare nel vivo della questione diagnostica è la messa in discus-sione del concetto di malattia. George Engel (1960), uno dei padri della psico-somatica contemporanea, criticava aspramente la tradizionale idea di malattia che «tende in pratica a ridurre ciò che viene categorizzato come tale a ciò che può esser compreso o riconosciuto dal medico (…). La malattia, però, non può esser definita solo in funzione del medico, figura sociale e istituzionale. È scientificamente necessario, invece, operare una chiara distinzione fra lo stu-dio della malattia come fenomeno naturale e la categorizzazione della malattia in funzione del ruolo del medico nella società» (p. 52). E inoltre, «molti fe-nomeni della vita quotidiana, considerati naturali (come una perdita oggettua-le o un lutto), non vengono visti in termini di malattia, anche se implicano processi che alla base non sono differenti da quelli che sono implicati nella malattia (per esempio, uno scompenso glicemico)» (p. 53). Più recentemente, Tinetti & Fried (2004) hanno sostenuto che il tradizionale concetto di malattia è oggi datato e potenzialmente anche pericoloso poiché può condurre inavver-titamente a eccessi o sottovalutazioni di diagnosi e trattamento a causa della diversa epidemiologia: prevalenza di malattie croniche su quelle acute e infet-tive che assorbono fino all’80% del costo sanitario complessivo, interazione complessa fra fattori biologici e non-biologici, invecchiamento della popola-zione, variabilità inter-individuale delle priorità per la propria salute.

A causa di questi e molti altri fattori, è quindi difficile distinguere ciò che è biologico da ciò che non lo è (psichico, ambientale, sociale) in quasi tutte le malattie contemporanee. E questo è molto più vero se si considerano alcune condizioni cliniche che si sono “spostate” nel corso del tempo attraversando il debole confine fra medicina e psicologia. Uno degli esempi più classici è quello dell’ulcera peptica che è stata “traslocata” dal campo psy (negli anni

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1950 era considerata una delle classiche sette malattie psicosomatiche della Scuola di Chicago) a quello biologico fra gli anni 1980 e 1990 dopo la scoper-ta dell’Helicobacter pylori di Marshall e Warren a cui fu per questo conferito il premio Nobel nel 2005 (Porcelli & Todarello, 2003). Il problema è quindi quello eterno fra le scienze psy che tendono a concepire le malattie (mediche e mentali) come brainless e bodyless e la medicina (e i settori più “organicisti” della psichiatria e delle neuroscienze) che tende a concepirle come mindless (Lipowski, 1989). La questione non è solo epistemologica ma è anche centrale nella pratica clinica: la definizione diagnostica di malattia non è un dato di fatto ma è inferita dalla concezione teorica che ne è a monte.

Questo aspetto influenza in primo luogo il fatto stesso di considerare una malattia come psicosomatica o medica, come nel caso dell’ulcera peptica, da cui le critiche di Engel (1960) e Tinetti & Fried (2004) sul concetto stesso di malattia. Esso influenza, in secondo luogo, anche la separazione fra malattia di tipo organico o funzionale, da cui l’accostamento di Szaz fra medicina, psi-chiatria e stregoneria. Solo per citare un esempio, la sindrome dell’intestino irritabile (irritable bowel syndrome [IBS]) è oggi considerata da moltissimi come un caso lampante di disturbo funzionale, psicosomatico per gli psichiatri o psichiatrico per i gastroenterologi. Se si guardano i dati della ricerca clinica, però, ci si accorge che questa sindrome non è né psichiatrica né gastroentero-logica, né organica né funzionale, ma è entrambe le cose. Un gruppo austra-liano, per esempio, ha recentemente valutato un campione di 244 pazienti af-fetti da IBS utilizzando 34 marker biologici (prevalentemente citochine e an-ticorpi) e genetici e, insieme, una serie di test per stress, ansia, depressione e somatizzazione (Jones et al., 2014). I marker bio-genetici e quelli psy, consi-derati isolatamente, hanno dimostrato una discreta capacità di identificazione diagnostica che è “schizzata” a un valore AUC (Area Under the Curve) di 0.94 (su una scala che va da 0 a 1.00) se considerati insieme.

Ancora più difficile è individuare il confine fra psichiatria e medicina nelle presentazioni fisiche di disturbi psicopatologici, come avviene per l’attacco di panico, che non a caso John Nemiah (1984) – autore con Peter Sifneos del co-strutto di alexithymia – considerava il prototipo dei disturbi psicosomatici, soprattutto quando si manifesta in forma mascherata come sindrome esclusi-vamente somatica (Porcelli & De Carne, 2008). Nell’ottica psichiatrica, un paziente con vari sintomi funzionali o medically unexplained symptoms (MUS) potrebbe ricevere una diagnosi DSM-IV omnibus di Disturbo di So-matizzazione mentre, visitato da vari specialisti, ricevere diagnosi multiple di sindrome ipoglicemica, sindrome da fatica cronica, sindrome vertiginosa, ecc. Si tratta di «una o più sindromi?» (Wessely, Nimnuan & Sharpe, 1999). In ot-tica specialistica, ogni clinico fa diagnosi in base a «ciò che può esser com-preso o riconosciuto», per usare le parole di Engel citate prima. In un’ottica più integrata, si riconosce un comune denominatore che possiamo definire di “somatizzazione” se si esaminano non i singoli sintomi o i singoli sistemi ana-tomici – così enfatizzati dagli specialismi biomedici per cui il corpo umano è una sorta di puzzle che sembra ricalcare la mappa di un policlinico composto

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dai tanti reparti specialistici – ma i fattori latenti che sottendono gli elementi comuni. Utilizzando la latent class analysis e l’analisi tassometrica, emerge infatti un dato omogeneo in popolazioni e paesi diversi: la somatizzazione è concettualizzabile come un continuum dimensionale piuttosto che come una o più categorie discrete caratterizzate da sintomi distinti. Lo confermano inda-gini svolte su 28.351 gemelli svedesi (Kato, Sullivan & Pedersen, 2010), 3.878 pazienti tedeschi di medicina generale (Jasper et al., 2012), 5. 062 indi-vidui tedeschi di popolazione generale (Kliem et al., 2014), e gruppi più ri-stretti di 400 pazienti olandesi con MUS (Lacourt, Houtveen & van Doornen, 2013) e 399 pazienti epilettici americani (Thomas & Locke, 2010). È quindi più probabile che sia vera un’unica sindrome latente di somatizzazione piutto-sto che tante sindromi discrete di tipo specialistico.

Emerge in modo sempre più evidente in letteratura la necessità di costrutti diagnostici più aderenti alla presentazione clinica reale e meno influenzati da inferenze teoriche che possono facilmente diventare ideologiche in questo campo, come sostiene Frances (2010, 2013a, 2013b) criticando il DSM-5. È quanto aveva probabilmente in mente Lipowski (1987) nel definire il costrutto di somatizzazione come la tendenza a vivere e comunicare il disagio psicolo-gico in termini di sintomi fisici e a cercare aiuto medico per essi. In questa de-finizione, l’accento va posto non sui sintomi fisici in sé ma sul fatto che essi sono un linguaggio che il paziente usa per rappresentarsi una condizione di disagio psichico. I sintomi di somatizzazione possono essere infatti transitori e non richiedere alcun intervento specialistico: si stima che l’80% degli adulti medi accusi uno o più sintomi fisici al mese e che il 75-95% di tali episodi sintomatici vengano gestiti autonomamente senza ricorrere a consultazioni mediche (Porcelli, 2009). Oppure possono diventare importanti, cronicizzarsi, spingere a consultare molti medici, diventare invalidanti e comportare eleva-tissimi costi socio-sanitari (Konnopka et al., 2012). È quindi l’interpretazione individuale a caratterizzare maggiormente ciò che di psicologico o psicosoma-tico c’è in una malattia medica e quindi a influire sulle ipotesi che il soggetto stesso si fa sulla probabile origine dei sintomi (cause alimentari, infettive, co-stituzionali, eziologiche, psicologiche), sul nome da dare a essi, sul vocabola-rio da usare per descrivere la narrativa del proprio malessere e sul comporta-mento da adottare di conseguenza. In questo senso, è stato ipotizzato che il costrutto di comportamento di malattia possa costituire un concetto unificante per comprendere il modo individuale di monitorare sensazioni fisiche e stati interni, definire e interpretare i sintomi fisici, effettuare ipotesi di probabili attribuzioni causali, ricorrere a comportamenti coerenti con i passi precedenti utilizzando fonti di cura sia mediche che informali o alternative o altro (Sirri, Fava & Sonino, 2013).

Il modello tradizionale di malattia, nell’accezione di cui sopra, non riesce quindi a spiegare adeguatamente come l’identificazione, la presentazione e l’esito stesso di un disturbo fisico possa essere largamente influenzato dai vis-suti e dalle risposte individuali alle sensazioni fisiche e ai sintomi somatici. Il problema non consiste nella natura della sindrome, se organica o funzionale,

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ma nel peso relativo da attribuire ai diversi fattori psicologici, biologici e so-ciali (Porcelli, 2009). La diagnosi, in questo campo, non può essere considera-ta come “identificazione di una malattia” poiché la nozione stessa di malattia è determinata da fattori individuali di tipo biologico ma anche psicologico, sociale e culturale (Kleinman, 1988). Una delle criticità più importanti di una classificazione diagnostica dei sintomi fisici mediante categorie psicopatolo-giche, ossia lo scopo principale del DSM, sta proprio in questa confusione di confine fra medicina e psicologia. Incentrare la procedura diagnostica sulla dimensione esplicita dei sintomi “oggettivi” implica la necessità di arrivare a una diagnosi in senso biomedico di “identificazione di patologia”, mentre nel campo che qui stiamo considerando è essenziale focalizzarsi sulla valutazione (nel senso anglosassone di assessment) dei meccanismi impliciti di formazio-ne (generazione, esordio, persistenza, cronicizzazione, presentazione, gestione clinica, esito) dei sintomi stessi. Ognuno dei due livelli, implicito ed esplicito, è importante ed entrambi sono importanti quanto i fattori biologici e quelli so-ciali. Se tutti i fattori possono essere legittimamente considerati causativi del-lo stato di malattia, non tutti hanno la medesima importanza essendo le malat-tie multifattoriali ed eterogenee. Compito dell’assessment è individuare quali sono i fattori psicologici con peso relativo importante rispetto a o in associa-zione con i fattori biomedici nello spiegare la patologia X in questo paziente specifico (Porcelli, 2009).

La classificazione diagnostica della somatizzazione nel DSM-5 Come descritto da Migone (2013, p. 569), l’impostazione “ateorica” del

DSM, inaugurata nella terza edizione del 1980, consiste nell’ignorare comple-tamente le ipotesi eziopatogenetiche e affidare la diagnosi dei disturbi psico-patologici esclusivamente ai sintomi osservabili dal clinico. Non sempre è sta-to possibile rispettare quest’assunto ma esso rappresenta indubbiamente la fi-losofia di fondo del DSM, mantenuta anche nell’attuale quinta versione. L’impostazione ateorica è stata mantenuta ovviamente anche per i disturbi di somatizzazione, il che significa fare diagnosi basandosi esclusivamente, o quasi, sulla valutazione di ciò che abbiamo definito come il primo livello e-splicito dei sintomi da parte del clinico.

Nel DSM-IV questo principio ha comportato una serie di decisioni strate-giche per la procedura diagnostica dei Disturbi Somatoformi. Anzitutto la scelta del suffisso “-forme”, a indicare una condizione simile a – o che imita – un’altra sindrome, come in “schizofreni-forme”. In questo caso, significa che sono presenti sintomi di una malattia fisica che però non sono reali, veri sin-tomi di quella malattia, ma ne sono solo simili, la imitano. Sono dei falsi posi-tivi, insomma, e quindi i criteri diagnostici si applicano a quelli che sono stati definiti “sintomi non spiegabili dal punto di vista medico” o MUS. È un’impostazione di massima “ateoricità” dei MUS per i quali il clinico non

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avanza alcuna ipotesi eziologica e si limita a definirli “sintomi fisici che io come medico non so spiegare”. È da notare per inciso che tale principio non è stato rispettato per tutte le diagnosi somatoformi: il disturbo di conversione e quello algico richiedevano anche come criterio che i fattori psicologici fossero associati a esordio, riacutizzazione e mantenimento della sindrome. Tuttavia, pur al massimo possibile della “ateoricità”, è evidente che la necessità di man-tenere la diagnosi al minimo livello di inferenza teorica sul piano esplicito dei sintomi osservabili non è ideologicamente neutra poiché presuppone la dico-tomizzazione fra ciò che è medico (ossia organico o mindless) e ciò che non lo è (ossia funzionale o psicologico o bodyless), ricadendo ancora una volta nel vecchio dualismo mente-corpo.

Il secondo punto fermo nella procedura diagnostica dei Disturbi Somato-formi del DSM-IV è dato dalla cosiddetta “regola gerarchica” per cui i sinto-mi fisici non devono essere ritenuti secondari a un altro disturbo psicopatolo-gico di Asse I, i più frequenti dei quali sono i disturbi dello spettro ansioso e di quello depressivo. Come notato nel paragrafo precedente, si tratta di un cri-terio estremamente difficile da rispettare poiché si scontra non solo contro un’ampissima letteratura di sovrapposizione di sintomi fisici e ansioso-de-pressivi, che parte dalla medicina di base e arriva alle statistiche mondiali dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ma si scontra soprattutto contro la reale pratica clinica. Nello sforzo di delimitare anche i MUS, i criteri dei Disturbo di Somatizzazione (diagnosi principale dei disturbi somatoformi) erano molto selettivi, prevedendo una soglia molto alta: esordio prima dei 30 anni, durata tendenzialmente cronica, dolore in almeno 4 distretti corporei di-versi, almeno due sintomi gastrointestinali, almeno un sintomo sessuale non dolorifico e almeno un sintomo pseudo-neurologico. Non c’è da meravigliarsi che i dati di prevalenza indicano una frequenza del Disturbo di Somatizzazio-ne attorno all’1% e una bassissima stabilità nel tempo anche a solo un anno di distanza (Simon & Gureje, 1999), mentre nella pratica clinica i disturbi di so-matizzazione sono frequentissimi e spesso cronici.

Il terzo punto fermo è stato il concetto secondo cui, in presenza di una cau-sa medica, il paziente percepisce i sintomi somatici in modo eccessivo rispetto all’entità della causa. Si tratta, com’è evidente, di una specie di salto logico rispetto alla “ateoricità”, necessario per disturbi come l’Ipocondria e il Distur-bo da Dismorfismo Corporeo. Per la prima, l’Ipocondria, si introduceva un fattore cognitivo (convinzione soggettiva di soffrire di una malattia…) e uno relazionale (…nonostante le rassicurazioni mediche), dipendente dalla qualità del rapporto medico-paziente. Per il secondo, si introduceva un fattore forte-mente soggettivo (preoccupazione eccessiva per un difetto fisico, immaginato o in associazione a una lieve anomalia fisica) non in relazione alla presenza di sintomi fisici. L’anomalia è stata “sanata” nel DSM-5 per quanto riguarda la dismorfofobia che è stata rubricata all’interno dello spettro del disturbo osses-sivo-compulsivo, a sua volta derubricato dalla sezione dei Disturbi d’Ansia e considerato categoria a sé.

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Con una coniugazione differente e modificando la nomenclatura dei di-sturbi, questi tre assunti sono rimasti alla base del DSM-5. Nella Figura 1 so-no schematicamente illustrati i cambiamenti delle diagnosi dal DSM-IV al DSM-5 (in corsivo nei box tratteggiati sono indicati i disturbi non compresi nel DSM-IV o nel DSM-5).

Figura 1. Cambiamenti dai Disturbi Somatoformi del DSM-IV al Distur-bo da Sintomi Somatici del DSM-5

I cambiamenti più importanti sono: (a) raggruppamento di gran parte degli ex-Disturbi Somatoformi in un’unica etichetta di Disturbo da Sintomi Somati-ci; (b) sdoppiamento della ex-Ipocondria nelle diagnosi di Disturbo da Sinto-mi Somatici e Disturbo da Ansia di Malattia a seconda della presenza o as-senza di sintomi MUS; (c) conservazione del Disturbo di Conversione ma e-liminando il criterio di associazione con stress psicologico; (d) spostamento del Disturbo da Dismorfismo Corporeo nella sezione dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi; (e) inclusione di due categorie considerate a parte del DSM-IV, ossia il Disturbo Fittizio (provocato su sé o su altri) e i Fattori Psicologici che Influenzano Altre Condizioni Mediche.

Esaminiamo ora i punti salienti.

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1) Raggruppamento della maggior parte dei disturbi somatoformi in un’unica categoria

L’intera sezione dei Disturbi Somatoformi del DSM-IV è stata rinominata “Disturbi da Sintomi Somatici e Disturbi Correlati”, in analogia alla nuova sezione dei “Disturbi Ossessivo-Compulsivi e Disturbi Correlati”: in entrambi i casi si è probabilmente voluto indicare che la sezione è composta da un di-sturbo principale (SSD, come lo si sta definendo in letteratura utilizzando l’acronimo di Somatic Symptom Disorder), insieme ad altri minori che rien-trano in una stessa classe di sindromi che implicano la presentazione clinica di sintomi fisici e/o elevata preoccupazione per le malattie. L’abolizione dell’etichetta Disturbi Somatoformi è stata decisa perché, secondo il Work Group, il termine “somatoforme” è ambiguo, linguisticamente complesso per la combinazione di matrice latina e greca, difficile da tradurre in altre lingue e può facilmente essere confuso con “somatizzazione” (Dimsdale et al., 2013). Concettualmente, in realtà, è un ulteriore rafforzamento della scelta ateorica secondo la quale anche il suffisso “-forme”, così come il termine MUS, impli-ca una quota residua di inferenza teorica che fa pensare a un’origine psicolo-gica dei sintomi fisici. Il livello zero di inferenza adottato con il termine SSD indica semplicemente la presenza di sintomi fisici di tipo esplicito, rischiando di fatto di proporre una diagnosi tautologica: poiché ho sintomi fisici, ho un disturbo da sintomi fisici. Con la modificazione del nome si è voluto evitare dunque l’ambiguità della diagnosi di Disturbo di Somatizzazione. Dubito francamente che, nell’essere stati più realisti del re in ossequio alla “ateorici-tà”, si sia favorita la comunicazione fra clinici e che un medico non-psichiatra capisca cosa vuol dire una diagnosi psicopatologica di “disturbo da sintomi somatici”.

La categoria centrale di SSD ha raggruppato il Disturbo di Somatizzazio-ne, il Disturbo Algico e il Disturbo Somatoforme Indifferenziato del DSM-IV e richiede un criterio di cronicità (sintomi persistenti per almeno 6 mesi, an-che se non continuativamente) e due criteri principali: (A) presenza di sintomi somatici: uno o più sintomi somatici che provocano

disagio o difficoltà significativa nella vita quotidiana; (B) eccessiva preoccupazione: pensieri, emozioni o comportamenti eccessivi

in relazione a tali sintomi somatici, definiti da almeno uno dei seguenti: (1) preoccupazioni persistenti e sproporzionate sulla gravità dei propri sin-

tomi; (2) livelli elevati di ansia per la salute o per i sintomi; (3) tempo ed energie eccessivamente dedicati a tali sintomi o preoccupa-

zioni. È poi possibile specificare (a) la predominanza del dolore, se costituisce la

sintomatologia preminente per il Criterio A (in questa specificazione rientre-rebbe il Disturbo Algico del DSM-IV); (b) la persistenza, se ha durata di oltre 6 mesi; (c) la gravità, suddivisa in lieve (soddisfatto solo un punto del Criterio B), moderata (2 o più punti del Criterio B) e grave (2 o più punti del Criterio B e sintomi somatici multipli). Vengono anche suggerite due scale per aiutare

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il clinico nella valutazione del Criterio A (il PHQ-15) e del Criterio B (la SSD Clinician Rated). Infine è da segnalare che la diagnosi di SSD ha avuto una lunga gestazione e alcuni rimaneggiamenti dalla prima versione messa on-line nell’aprile 2011 alla seconda dell’aprile 2012 e a quella definitiva, essendo inizialmente previste due sindromi SSD, una complessa (richiesti 2 su 3 punti del Criterio B) e una semplice (un solo punto necessario).

Nel suo blog su www.psychologytoday.com citato da Migone (2013, p. 583), Frances (2012) critica duramente la diagnosi di SSD come un “pericolo-so errore”. Basta un sintomo somatico particolarmente pervasivo, l’impres-sione del clinico che il paziente ne sia eccessivamente preoccupato e una du-rata di almeno 6 mesi (anche non consecutivi) perché si venga etichettati con una diagnosi di disturbo mentale. Per il principio ateorico di cui sopra, non ci sono inferenze sulla natura del sintomo fisico o sui correlati psicologici, nes-suna contestualizzazione nella vita del paziente, nessuna ricostruzione anam-nestica. Infatti i 3 punti del Criterio B non sono sufficientemente distinti dal punto di vista concettuale e quindi sono non-indipendenti l’uno dall’altro: è possibile infatti essere costantemente preoccupati per la propria salute (Crite-rio B1) senza provare una quota elevata di ansia per la salute (Criterio B2) e quindi starci continuamente dietro per tempo ed energie (Criterio B2)? (First, 2011; Sykes, 2012). In questo modo, persone con sindrome da fatica cronica, fibromialgia, sindrome dell’intestino irritabile, dispepsia non-ulcerosa, cefalea cronica, ma anche cancro, diabete, cardiopatie, malattia di Lyme, artrite reu-matoide, cistite interstiziale, lupus, distrofia simpatica riflessa e tante altre malattie croniche e disabilitanti potrebbero soddisfare i criteri di SSD, ag-giungendo alla patologia medica uno stigma psichiatrico. Nel field trial del Work Group per il SSD, su 952 individui (337 sani, 339 con patologie medi-che “organiche” e 107 con disturbi “funzionali”) sono stati trovati positivi alla diagnosi di SSD un paziente con cancro e cardiopatia su 6, uno su 4 con sin-drome dell’intestino irritabile e fibromialgia, e addirittura uno su 14 fra i sog-getti sani (Dimsdale et al., 2013). Non c’è quindi da meravigliarsi se, come riferisce Frances, durante la review pubblica on-line in pre-pubblicazione del DSM-5, la sezione di SSD sia stata quella che ha ricevuto più commenti criti-ci rispetto a tutte le altre. In risposta, il Work Group, commenta Allen (2012), «invece di rivedere i criteri in senso meno inclusivo o sottoporre l’intera se-zione a una review scientifica esterna e indipendente, ha abbassato ulterior-mente la soglia diagnostica del Criterio B da “almeno 2” [prima versione del Complex SSD; N.d.R.] ad “almeno uno” [versione attuale; N.d.R.]».

Il pericolo maggiore sottolineato da Frances è quindi quello di aver dato eccessivo peso alla correzione dei falsi negativi e aver così aperto le porte a una possibile inflazione di falsi positivi, pericolo costantemente presente in psichiatria (Wakefield, 2010). Non ci sono ancora dati di prevalenza in lette-ratura su cui poter ragionare in maniera più concreta. Le ricerche finora pub-blicate sono molto disomogenee e non consentono alcuna conclusione. Al momento, a mia conoscenza, i dati empirici disponibili provengono da un’in-dagine tedesca effettuata su 259 pazienti diagnosticati con un Disturbo Soma-

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toforme del DSM-IV in cui è stata trovata una prevalenza di diagnosi di SSD del 69% (Voigt et al., 2012); un’altra indagine tedesca su 321 soggetti con MUS dalla popolazione generale che ha trovato una prevalenza di SSD del 17% (Rief et al., 2011); e un’indagine italiana su 70 pazienti con cardiopatia congestizia che ha trovato una prevalenza simile del 18% (Guidi et al., 2013). Inoltre, Häuser & Wolfe (2013) hanno riportato che, in pazienti tedeschi con epatopatia cronica e malattie reumatiche, il 91% degli epatopatici, il 65% dei pazienti con lupus e il 56% di quelli con artrite reumatoide hanno evidenziato almeno un sintomo fisico grave e invalidante, con un carico soggettivo per sintomi multipli gravi nell’11% dei casi. È possibile – si domandano gli autori – chiedere a un paziente con una patologia di questo tipo se «si preoccupa spesso della sua malattia? Le risulta difficile dimenticarsi della sua condizione e pensare ad altro?» (p. 586). Altri, come King (2013), hanno sottolineato il rischio di incorrere in un grossolano errore diagnostico e ritenere mentalmente instabili pazienti con patologie mediche.

Infine è da segnalare brevemente un dato clinico che non viene citato ne-anche dai critici del SSD. Molti pazienti con patologie mediche possono evi-denziare ciò che Pilowski (1997) definiva “negazione di malattia” come aspet-to disadattivo dell’abnormal illness behavior. È stato trovato infatti che fino al 50% dei pazienti con dolore cronico severo muscoloscheletrico non si ri-volge al medico, correndo grossi rischi di progressione della patologia verso l’invalidità e ricorrendo massicciamente all’auto-medicazione (Cornally & McCarthy, 2011); che il 10% dei pazienti oncologici e fino al 30% dei pazien-ti ospedalieri per cui viene richiesta consulenza psichiatrica evidenziano ne-gazione di malattia (Porcelli, 2009); e infine che i pazienti alessitimici hanno un rischio di quasi 4 volte maggiore di chiamare il 118 con un ritardo di oltre 2 ore per infarto del miocardio, correndo un rischio di mortalità enorme per dilazione dei tempi di perfusione miocardica (Carta et al., 2013). Non vi è traccia nel SSD di questo comportamento fortemente a rischio poiché non è osservabile, non rientra nel livello esplicito dei sintomi e si colloca al polo opposto rispetto ai criteri SSD.

In conclusione, a quanto emerso finora dal dibattito, il SSD ha ricevuto molte più critiche che consensi. Secondo l’opinione di alcuni come Frances, questa nuova diagnosi corre il rischio di venir utilizzata eccessivamente e a-busivamente. Secondo l’opinione di altri, invece, come Steven King, presi-dente del Comitato per il Disturbo Algico del DSM-IV, la diagnosi di SSD non verrà usata se non raramente, come è accaduto al troppo generico e iper-inclusivo Disturbo Somatoforme Indifferenziato del DSM-IV: «Io ritengo – scrive King (2013) – che, almeno per come inquadra il dolore, la nuova dia-gnosi vada nella direzione sbagliata (…). Non riesco a vedere come si possa determinare cosa significhi “comportamenti, emozioni e pensieri eccessivi” per esempio per un paziente con dolore oncologico o per uno con un dolore cronico invalidante in quanto non abbiamo alcuna idea di cosa possa conside-rarsi una risposta normale o per lo meno attesa in questo tipo di problemi. Per la mia esperienza, sono invece senz’altro portato a credere che tali comporta-

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menti, emozioni e pensieri siano una reazione alla difficoltà di gestione clinica del dolore più che un problema psicologico del paziente in quanto tale» (p. f1580).

2) Sdoppiamento dell’ipocondria in due diagnosi distinte

Come indicato nella Fig. 1, la vecchia diagnosi di Ipocondria non esiste più, essendo stata “sdoppiata” in due tronconi. A differenza delle altre diagno-si somatoformi del DSM-IV, la diagnosi di Ipocondria era molto più inferen-ziale che ateorica poiché si basava su una combinazione di sintomi cognitivi (convinzione di avere una malattia per una personale interpretazione dei sin-tomi somatici) e comportamentali (comportamento di malattia caratterizzato dalla preoccupazione persistente anche dopo adeguata rassicurazione medica). Il Work Group del DSM-5 ha stabilito – in maniera apparentemente arbitraria poiché non ha fornito alcuna documentazione empirica – che il 75% dei pa-zienti ipocondriaci presenterebbero in modo predominante sintomi fisici su cui concentrare le preoccupazioni per la salute. In presenza di sintomi fisici, quindi, questi pazienti vengono riclassificati con la diagnosi di SSD. Nel 25% dei casi, invece, i pazienti ipocondriaci avrebbero pochi o nessun sintomo so-matico e la loro ansia riguarderebbe essenzialmente il sospetto di avere una malattia medica seria, il più delle volte non diagnosticata. Questa tipologia di pazienti con “ipocondria senza sintomi fisici” viene classificata con la diagno-si di Disturbo da Ansia di Malattia (Illness Anxiety Disorder [IAD]). La dia-gnosi di IAD è posta quando il soggetto mostra, da almeno 6 mesi, una persi-stente preoccupazione di aver contratto una malattia medica seria (Criterio A) in assenza o quasi di sintomi fisici (Criterio B). Inoltre il soggetto mostra una relazione inversa fra livello di ansia e soglia di allarme sulla propria salute (Criterio C), e pertanto può oscillare fra comportamenti compulsivi di control-lo e ispezione del corpo per scoprire i segni della malattia e comportamenti di evitamento di situazioni di tipo medico (visite, ospedali, ecc.) (Criterio D). A seconda della predominanza dell’uno o dell’altro, si possono specificare i sot-to-tipi di IAD “richiedente assistenza” (care-seeking type), caratterizzato dall’uso frequente di presidi sanitari, e “evitante l’assistenza” (care-avoidant type), caratterizzato dall’evitare medici, ospedali, esami, laboratori di analisi, ecc. a causa dell’aumento esponenziale di ansia.

Nella diagnosi di IAD, come sostiene Sykes (2012), il costrutto di medi-cally unexplained symptoms (MUS), cacciato dalla porta del DSM-5, ritorna dalla finestra. La sintomatologia clinica prevalente continua a essere cognitiva e comportamentale mentre l’unica concessione fatta al criterio ateorico dei sintomi fisici espliciti è ex negativo, come appunto nei MUS: il paziente è an-gosciato dall’aver contratto una malattia medica seria ma non ha sintomi o so-no minimi e non giustificati sulla base delle evidenze strumentali e di labora-torio. I problemi che potrebbero sorgere con questa diagnosi sono quindi di due tipi. Il primo riguarda la reale netta separazione fra soggetti molto preoc-cupati della propria salute sulla base di sintomi fisici (i tre quarti degli ipo-condriaci che riceveranno ora diagnosi di SSD, in modo pericolosamente iper-

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inclusivo, come abbiamo visto) e soggetti ugualmente preoccupati per la pro-pria salute ma che non hanno sintomi (un quarto degli ipocondriaci, ora con diagnosi di IAD). Sorprendentemente, però, il DSM-5, dopo aver così netta-mente differenziato le due sindromi, afferma che la prevalenza del SSD non è nota e si stima sia attorno al 5-7% nella popolazione generale sulla base dei risultati dei dati esaminati sui 952 soggetti di cui sopra (Dimsdale et al., 2013), e che le stime di prevalenza di IAD si basano su quanto si conosce del disturbo di Ipocondria del DSM-IV. Delle due l’una: o si avevano i dati per differenziare così decisamente le due sindromi sdoppiando il disturbo ipocon-driaco in ragione di una prevalenza 2:1, o non si comprende come mai è stata dissolta l’ipocondria che scompare dal vocabolario psichiatrico, come era già accaduto al concetto di nevrosi, espulso dalla nosografia ufficiale ma giusta-mente rimasto nella pratica clinica.

Il secondo aspetto problematico, correlato al primo, riguarda il contenuto effettivo della diagnosi di IAD. Come per il SSD, tutto qui ruota attorno all’eccessiva preoccupazione per la salute, concetto eterogeneo che si coglie meglio se espresso dimensionalmente lungo un continuum che va da un polo di normale bisogno di preoccuparsi per le proprie condizioni fisiche al polo estremo opposto di ipocondria. Il problema diagnostico si pone quindi per quanto riguarda il confine “inferiore” fra normalità ed eccessive preoccupa-zioni e quello “superiore” fra ansia per la salute e convinzioni ipocondriache. In mezzo non c’è la separazione fra SSD e IAD, come sostiene il DSM-5 sen-za alcuna evidenza empirica (Starcevic, 2013), ma le fluttuazioni del compor-tamento di malattia che necessariamente accompagnano gli individui in modo transitorio o stabile a seconda dei propri effettivi problemi di salute e che po-trebbero costituire uno degli aspetti teorici centrali della psicologia clinica in medicina, come evidenziato all’inizio (Sirri, Fava & Sonino, 2013). Qui sem-bra abbastanza evidente la concezione del DSM-5 del paziente come malato, per cui il peso decisionale della diagnosi viene caricato sul giudizio del clinico riguardo ai sintomi espliciti. Come sostenuto da Tinetti & Fried (2004), si tratta invece di passare da un modello classico di malattia a un modello di diagnosi su misura, “tagliato sull’individuo” (individually tailored), e basato sulle preoccupazioni del soggetto (ossia, non tanto i valori pressori ma la pau-ra di morire di infarto prima dei 50 anni come eventualmente accaduto al pa-dre), sulle sue priorità (bilancio personale fra rischi di malattia e effetti colla-terali dei farmaci) e sulla responsabilizzazione consapevole delle proprie con-dizioni di salute, dei rischi e del trattamento proposto dal medico.

3) Spostamento di alcune diagnosi in altre sezioni

Come evidenziato nella Fig. 1, vi sono stati spostamenti di alcune diagnosi fra varie sezioni. Il Disturbo Fittizio, che nel DSM-IV aveva una sezione a se stante, rientra ora pienamente nei disturbi SSD-correlati, distinguendo il dan-no fisico procurato a se stesso o ad altri. Allo stesso modo, i Fattori Psicologi-ci che Influenzano una Condizione Medica passano dalla sezione aggregata di

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“Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica” del DSM-IV a quella dei disturbi SSD-correlati. Percorso inverso è stato fatto compiere invece al Disturbo da Dismorfismo Corporeo, transitato dai Disturbi Somato-formi del DSM-IV alla sezione delle sindromi correlate del Disturbo Ossessi-vo-Compulsivo.

4) Il disturbo di conversione

Un’annotazione è doverosa anche per il Disturbo di Conversione. È l’unico disturbo rimasto inalterato all’interno di questa sezione rispetto al DSM-IV, indicando nella formula “Disturbo da Sintomi Neurologici Funzionali” un possibile sinonimo. Come detto sopra, da questo disturbo è stato eliminato il criterio di associazione con fattori psicologici per quanto riguarda esordio o riacutizzazione. Si tratterebbe quindi pienamente di un disturbo pseudo-neurologico. Nelle note cliniche che accompagnano i criteri DSM-5 del Di-sturbo di Conversione viene infatti specificamente affermato che i segni clini-ci classici della conversione (stretta relazione temporale con situazioni di stress o trauma psicologico o fisico, sintomi dissociativi, belle indifférence, guadagno secondario di malattia) possono esser presenti ma non necessari alla diagnosi. Anche in questo caso, le stime di prevalenza non esistono e vengono riproposte quelle del DSM-IV che contenevano però il riferimento agli ante-cedenti psicologici. Considerando la complessità e i costi della diagnosi neu-rologica con le sofisticate tecniche di neuroimaging, è davvero difficile capire se un esame clinico dei sintomi espliciti (paralisi, distonie motorie, parestesie, afonie, disartrie) sarà sufficiente a dichiarare “pseudo-” o “funzionali” i sin-tomi neurologici riferiti dal paziente. E inoltre, considerando che circa il 30% delle visite neurologiche è costituito da disturbi cosiddetti funzionali (Stone et al., 2009), quanto si potrebbe favorire la sovra-indagine diagnostica se si eli-mina il criterio ex-positivo della presenza dei fattori psicologici?

A questo proposito, in uno studio recente su un ampio campione di 1.489 pazienti medici eterogenei (Porcelli et al., 2012) è stata trovata una prevalenza soltanto dello 0.4% di Disturbo di Conversione con i criteri DSM-IV. La sin-drome di conversione è stata però valutata anche con i criteri di Engel (1970) che includono gli aspetti psicologici (ambivalenza, caratteristiche istrioniche di personalità, associazione dell’esordio o della riacutizzazione dei sintomi con stress psicologico, storia di sintomi fisici simili osservati in altri), ed è sta-ta trovata una prevalenza del 4.5%, cioè ben 10 volte superiore. Come soste-neva Engel (1968), non è la natura del sintomo (ossia ciò che qui abbiamo in-dicato come livello esplicito e che il DSM-5 chiama Disturbo da Sintomi Neurologici Funzionali) a fare la diagnosi di conversione ma il vissuto (o li-vello implicito) di quelle parti del corpo, rappresentabili mentalmente, che, associato ad altri contenuti mentali, fornisce elementi inconsci al processo di formazione dei sintomi (vedi anche Taylor, 2003, 2010). Guardando i criteri di Engel del 1968 e quelli del DSM-5 del 2013, è davvero difficile capire qua-li siano quelli meno datati, oltre che più sensati sul piano clinico.

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Le nuove proposte alternative alla diagnosi psichiatrica Nello sforzo massimo di osservare il principio di ateoricità, il Work Group

per i SSD ha, come abbiamo visto, eliminato l’ambiguo concetto di MUS, fi-nendo per considerare la semplice presenza di sintomi fisici come uno dei cri-teri sufficienti per fare diagnosi. Frances (2012) ha osservato che, così facen-do, viene disattesa quella che lui definisce la “regola aurea” (golden rule): «è necessario escludere l’esistenza di una malattia medica sottostante o di effetti collaterali ai farmaci prima di decidere che i sintomi fisici sono causati da un disturbo mentale». Ha pertanto avanzato una proposta – disattesa – di aggiun-gere 3 sottocriteri al SSD: (1) in presenza di una diagnosi medica, il soggetto mostra pensieri, emozioni e

comportamenti grossolanamente in eccesso rispetto a quanto ci si deve a-spettare data la natura della condizione medica;

(2) se una diagnosi medica non è stata ancora posta, è necessario effettuare un minuzioso esame medico da ripetere a intervalli ragionevoli allo scopo di scoprire condizioni mediche nascoste che possono manifestarsi con il passa-re del tempo;

(3) le preoccupazioni sui sintomi fisici non devono essere spiegate meglio da un altro disturbo mentale (come un disturbo d’ansia, depressivo o psicotico).

La “regola aurea” di Frances sembra ragionevole (a parte un eccesso di la-boriosità contenuto nel secondo sotto-criterio) e probabilmente viene tacita-mente molto seguita dai clinici, anche se comporta un serio rischio di quell’accanimento diagnostico noto come “medicina difensiva”. Da un punto di vista teorico, tuttavia, la regola auspicata da Frances ha senso solo a condi-zione di poter dividere nettamente i sintomi spiegabili da quelli inspiegabili (o MUS), e le malattie organiche (disease) dalle sindromi funzionali (illness). Farlo significa enfatizzare il principio gerarchico (i sintomi fisici non devono essere secondari a un altro disturbo di [ex-]Asse I) e quello di distanza ecces-siva fra condizione medica di base e percezione soggettiva dei sintomi fisici. Non farlo, secondo Frances, significa ampliare pericolosamente il range di pazienti con patologie mediche serie a candidati alla diagnosi di un disturbo psichiatrico, come fa il DSM-5.

Engel era estremamente critico sulla divisione artificiale fra malattia medi-ca e sindrome funzionale o MUS in considerazione di due principi, opposti a quelli del DSM, che possiamo definire di coesistenza (valutare i correlati psi-cologici dei sintomi percepiti, indipendentemente dalle distinzioni artificiali sulla natura della condizione medica) e di associazione (considerare tutte le variabili psichiatriche, psicosociali e mediche, tenendo presente che ciascuna ha il proprio peso relativo nello spiegare la percezione dei sintomi e della sa-lute fisica). Sono, in sostanza, i principi alla base del suo famosissimo “mo-dello biopsicosociale” di malattia (Engel, 1977). Ma si tratta soprattutto di un’inversione completa della prospettiva di “diagnosi” rispetto al DSM dalla

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terza edizione in poi: non valutare esclusivamente la dimensione esplicita dei sintomi somatici ma quella implicita dei correlati biopsicosociali della salute fisica, del tutto indipendentemente dalla natura dei sintomi. In breve, si tratta di mettere al centro del concetto di diagnosi la percezione soggettiva della sa-lute (contro la prospettiva osservativa del DSM) e la clinimetria con tutte le variabili cliniche dimensionali di temporalità, durata, decorso, severità, ecc. (contro l’approccio categoriale del DSM) (Fava, Rafanelli & Tomba, 2012).

Vi sono in letteratura alcuni tentativi di diagnosi secondo un modello basa-to sulle dimensioni cliniche implicite, ossia sui meccanismi psicologici sotto-stanti e associati alla somatizzazione. Se ne possono menzionare due fra i più importanti. Uno è il manuale PDM, cioè il Manuale Diagnostico Psicodina-mico (PDM Task Force, 2006; Migone, 2006) in cui il fenomeno della soma-tizzazione viene inquadrato nell’Asse P (Personalità), che include i Disturbi Somatizzanti di Personalità (P108), e nell’Asse S (Sintomi), che include i Di-sturbi di Somatizzazione (S305). In sintesi, il funzionamento di personalità P108 viene inquadrato nel range di organizzazione borderline con una combi-nazione variabile di preoccupazioni ipocondriache, patologie mediche note per essere correlate a condizioni di stress o sintomi fisici che “traducono” e-mozioni troppo ansiogene e dolorose per essere trasformate in parole (reazioni di conversione) oppure bloccate da un deficit espressivo e comunicativo degli stati affettivi (alexithymia). Alla base vi sono pattern costituzionali (fragilità fisica costituzionale, esperienze infantili di malattia, possibili abusi precoci), preoccupazioni centrali (sull’asse dell’angoscia della frammentazione del Sé corporeo), affetti centrali (stress generalizzato, difficoltà alessitimica di identi-ficazione e comunicazione delle emozioni), convinzioni patogene su sé (sen-tirsi fragile e in pericolo continuo) e sugli altri (percepiti come potenti e indif-ferenti) e una linea centrale difensiva (sull’asse somatizzazione/regressione). L’aspetto sintomatologico S305 di questa personalità viene descritto come un insieme di esperienze soggettive costituite da stati affettivi (che possono anda-re da un’estrema preoccupazione dovuta ad amplificazione somatosensoriale alla negazione di malattia fino a scissioni di tipo alessitimico fra sensazioni somatiche e consapevolezza introspettiva degli affetti), pattern cognitivi (va-riabili a seconda della condizione medica ma generalmente imperniate sulla modalità catastrophizing), stati somatici (da attivazione autonomica) e pattern relazionali (anch’essi variabili su un continuum che va da una ricerca persi-stente passivo-aggressiva di cure mediche e rassicurazioni impossibili a un’eccessiva inaccessibilità e allontanamento distanziante). Il PDM è oggi in corso di riformulazione ma il nuovo PDM-2 (curato da Vittorio Lingiardi e Nancy McWilliams e previsto per il 2015) dovrebbe conservare il focus sulle dimensioni implicite nella diagnosi di somatizzazione.

Il secondo modello diagnostico proposto è costituito dai Diagnostic Crite-ria for Psychosomatic Research (DCPR) e, a differenza del PDM, ha generato una considerevole mole di studi e di dati negli ultimi 15 anni, ha avuto un im-

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patto internazionale con studi pubblicati anche in Lituania e India, è corredato da un’intervista strutturata per fare diagnosi e ha evidenziato ottime caratteri-stiche psicometriche di affidabilità e validità (per una rassegna della letteratu-ra sui DCPR, vedi Sirri & Fava, 2013; Porcelli & Sonino, 2008). L’intento dei DCPR è di estendere il modello tradizionale di malattia traducendo l’insieme di fattori psicosociali individuati nella ricerca in psicosomatica in concetti o-perazionali. Questo progetto nasce da alcuni sviluppi convergenti nella ricer-ca, parte dei quali già menzionati qui: la classificazione del DSM non rappre-senta adeguatamente la realtà clinica perché i criteri dei disturbi somatoformi o sono troppo restrittivi o troppo larghi; i fenomeni psicosomatici vengono diagnosticati riaffermando la vecchia nozione di dualismo mente-corpo; i cri-teri del DSM tendono a sovra-psicologizzare i sintomi somatici se associati a disturbi psicopatologici o, al contrario, a sotto-stimare gli aspetti psicosociali se in presenza di patologie mediche; il DSM ignora totalmente il peso dei fat-tori di personalità e degli aspetti comportamentali disfunzionali.

Per render conto “in positivo” degli sviluppi della psicosomatica contem-poranea, i DCPR prevedono 12 sindromi organizzate in 3 cluster differenti e 2 costrutti di personalità (alexithymia e demoralizzazione), indipendentemente dalla presenza o meno di una diagnosi medica e/o psichiatrica.

I 3 cluster sono costituiti da: - somatizzazione: raggruppa le sindromi di Somatizzazione Persistente (sin-

dromi funzionali croniche e sintomi fisici multipli persistenti), Sintomi Fun-zionali Secondari a un Disturbo Psichiatrico (eliminazione della regola ge-rarchica del DSM), Sintomi di Conversione (secondo i criteri di Engel men-zionati prima) e Reazione da Anniversario (concomitanza di malattia con date importanti del soggetto, senza consapevolezza della coincidenza);

- comportamento abnorme di malattia: secondo il costrutto di Pilowski (1997), raggruppa le sindromi di Nosofobia (timore fobico di avere una spe-cifica malattia grave), Ansia per la Salute (sintomi fisici di cui il soggetto è spaventato e molto preoccupato, attenuati dopo rassicurazione medica ma che si ripresentano nel tempo), Tanatofobia (fobia della morte accompagna-ta da condotte di evitamento), Negazione di Malattia (diniego di avere la condizione clinica da cui il soggetto è affetto, con inevitabili comportamenti a rischio);

- irritabilità: raggruppa le sindromi di Comportamento di Tipo A (tratti di o-stilità e senso elevato di competizione) e di Umore Irritabile (irritabilità co-stante non attenuata da scoppi di rabbia);

I 2 costrutti di personalità sono i seguenti: - alexithymia: caratterizzata dalla difficoltà di identificare e di descrivere le

proprie emozioni, pensiero concreto e riduzione della vita fantasmatica; - demoralizzazione: caratterizzata da un senso individuale di incapacità ad af-

frontare le situazioni e da un senso di fallimento personale verso gli obiettivi della vita.

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In vista della preparazione del DSM-5, due fra i maggiori rappresentanti della psicosomatica mondiale, Giovanni A. Fava & Thomas N. Wise (2007), hanno proposto di mantenere la diagnosi di Ipocondria, di eliminare i criteri troppo generici e per nulla operativi dei Fattori Psicologici che Influenzano una Condizione Medica, e di inserire i DCPR in un nuovo raggruppamento di Fattori Psicologici che Influenzano Condizioni Mediche Specifiche o Temute. Come accaduto ad Allen Frances, anche questi suggerimenti sono caduti ma-lamente nel vuoto nel nuovo DSM-5.

Conclusioni La diagnosi, come detto all’inizio, identifica una malattia. Per la psicopato-

logia, non essendo note le cause e non disponendo di marker diagnostici, il concetto di diagnosi assume significati più articolati nella clinica psicologica. La diagnosi ha senso se migliora la conoscenza (ossia fornisce una cornice cognitiva significativa che aiuta a identificare la condizione clinica latente al di là delle manifestazioni esplicite dei sintomi), migliora la comunicazione (ossia fornisce un linguaggio condiviso di scambio informativo) e ha utilità clinica (ossia è in grado di influenzare significativamente il percorso decisio-nale e il programma terapeutico nella pratica clinica) (Barron, 1998). Se dav-vero il SSD del DSM-5 mette insieme e quindi considera omogenei pazienti ipocondriaci e oncologici, come temono in molti, dov’è il senso di questa dia-gnosi in termini di incremento di conoscenza, miglioramento della comunica-zione e utilità clinica?

Contestualizzando un po’ tutta l’impresa DSM-5, si deve considerare che il sistema sanitario americano, largamente privato, consente la copertura delle spese di trattamento (dalla psicoterapia ai farmaci) se il paziente riceve una diagnosi del DSM. Se si vuol tenere sotto controllo un dolore cronico o una certa malattia, può quindi tornare utile una diagnosi di psicopatologia. Ma, per gli stessi motivi, “patologizzare la normalità” (Wakefield, 2010) fa sorgere subito il sospetto che in gioco ci siano anche gli interessi di Big Pharma. Lisa Cosgrove, dell’Università del Massachusetts, ha pubblicato dati inquietanti sul conflitto di interessi degli autori nei vari Work Groups tanto del DSM-IV quanto del DSM-5 (Cosgrove & Krimsky, 2012). In una sua recente indagine ha scoperto che 7 su 10 trial a sostegno delle diagnosi del DSM-5 erano rela-tivi a farmaci blockbuster (ossia che hanno ottenuto un profitto sopra il milio-ne di dollari in un anno) e che i rispettivi principal investigators erano anche panel members di 5 delle più discusse nuove diagnosi introdotte nel DSM-5 (Cosgrove et al., 2014).

La conclusione da trarre da questa discussione è che, per limiti concettuali, di impostazione metodologica e anche per la compromissione con il grande mercato economico delle aziende farmaceutiche, la psichiatria ha poco da dire

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a riguardo dei correlati psicologici in medicina o psicosomatica, intesa in sen-so contemporaneo (Angell, 2011; Porcelli, 2012). La categoria dei SSD del DSM-5 non ha fornito solidi motivi per includere i disturbi di somatizzazione, o comunque li si voglia chiamare, fra i disturbi mentali. Ci sono invece ottime ragioni per distribuire le sotto-categorie costitutive adeguatamente rinominate, come le sindromi DCPR, in un quadro generale concettualmente adeguato, clinicamente fondato e teoricamente appropriato all’oggetto del discorso, co-me già molti autori hanno suggerito (Sirri & Fava, 2013; Fava & Wise, 2007; Sykes, 2012; Mayou et al., 2005). Per quanto possa sembrare che questi temi (psicosomatica, fattori psicosociali in medicina, disturbi di somatizzazione) siano di interesse marginale per gli addetti ai lavori (medici, psichiatri, psico-logi clinici, psicoterapeuti) e al massimo “di nicchia”, su di essi si gioca forse uno scontro molto più grande fra un vecchio e un nuovo modo di intendere la psichiatria, la medicina, la malattia e la psicologia. Il vecchio modo è quello fatto di contrapposizione fra medicina/psichiatria mindless e psicologia body-less, di una concezione del corpo come puzzle di organi separati ognuno con i suoi iper-specialisti e della malattia come affezione acuta eziologicamente de-terminata. Il nuovo modo è quello fatto di integrazione delle conoscenze su salute e malattia, di una concezione multifattoriale della salute fisica compo-sta da fattori epigenetici, rapporti sociali, fattori endocrino-immunitari, rego-latori biologici nascosti nelle relazioni interpersonali, agenti socio-ambientali, traumi infantili, dimensioni implicite di personalità, carico allostatico da stress, regolazione emotiva e stili di vita. Soprattutto è caratterizzato dalla condivisione degli obiettivi terapeutici posti dal medico con le priorità di vita del paziente. Se mettere insieme tutto questo è probabilmente troppo per le conoscenze scientifiche attuali e costituisce al più un orizzonte futuro per la ricerca e la clinica (Wise, 2014), sicuramente ridurre questa complessità a un’etichetta diagnostica di disturbo mentale concepita con i criteri SSD del DSM-5 è troppo poco.

Riassunto. L’articolo illustra i criteri diagnostici per i Disturbi da Sintomi Somatici nel nuovo DSM-5. Il DSM-5 ha conservato alcuni principi fondamentali delle prime edizioni, come l’ateoricità e la regola gerarchica, e ha modificato radicalmente la sezione dei Disturbi Somato-formi del DSM-IV eliminando l’Ipocondria, raggruppando tutte le sindromi principali in due categorie di Disturbo da Sintomi Somatici e Disturbo da Ansia di Malattia e spostando la Di-smorfofobia nei Disturbi Ossessivo-Compulsivi. La nuova classificazione ha generato moltis-sime critiche di metodo e di merito con il timore che i nuovi criteri possano sovra-patologizzare le sensazioni fisiche normali, stigmatizzare come malattia mentale i sintomi delle malattie me-diche gravi ed essere più attenti agli interessi commerciali di Big Pharma che all’utilità clinica. Vengono quindi illustrate alcune alternative fondate, come i criteri del Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM) e i Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research (DCRP). [PAROLE-CHIAVE: diagnosi, disturbo da sintomi somatici, DSM-5, psicosomatica, somatizzazione]

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Abstract. Somatization syndromes in the DSM-5. This paper aims at describing diagnostic criteria for Somatic Symptom Disorders in the new DSM-5. The DSM-5 has preserved some core features of the earlier DSM versions, such as the atheoretical approach and the hierarchical rule, and has substantially changed the category of DSM-IV Somatoform Disorders by elimi-nating Hypochondriasis, grouping the main syndromes into two categories of Somatic Symp-tom Disorder and Illness Anxiety Disorder, and moving Body Dismorphic Disorder in the Ob-sessive-Compulsive Disorder category. This new classification has caused much criticism from the methodological as well as content perspective, highlighting the risk of over-pathologizing ordinary somatic sensations, providing psychiatric stigma to severe medical diseases, and pay-ing more attention to Big Pharma than clinical utility. Some alternative criteria are then re-ported, as those included in the Psychodynamic Diagnostic Manual (PDM) and the Diagnostic Criteria for Psychosomatic Research (DCRP). [KEY-WORDS: diagnosis, somatic symptom disorder, DSM-5, psychosomatics, somatization] Bibliografia American Psychiatric Association (1994). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disor-

ders, Fourth Edition (DSM-IV). Washington, D.C.: APA (trad. it. basata sulla “Versione internazionale con i codici dell’ICD-10” del 1995: DSM-IV. Manuale diagnostico e statisti-co dei disturbi mentali. Quarta edizione. Milano: Masson, 1995).

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