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117 S iamo nel 1601, Caravaggio ha lasciato da tempo la bottega del Cavalier d’Arpino e grazie all’appoggio di importanti prelati riceve incarichi per opere fondative. Se il suo modo di dipingere traccia un arco evolutivo che va dall’avvincente, fedele descrizione della realtà a un crescente abbandono dei particolari superflui, fino alla drammatica essenzialità degli ultimi dipinti, possiamo dire che la Cena in Emmaus della National Gallery di Londra segna un momento di transizione. Sono ancora presenti gli oggetti la cui resa ha accresciuto la fama dell’artista, ma il fulcro della composizione si è spostato e va dal naturale al sacro. Il quadro, nonostante sia da camera e non da altare, è di devozione intensa. Esso segue il Vangelo di Luca (Lc 24, 30-31) nel punto in cui descrive due discepoli, Cleopa e un altro, forse Filippo, che, giunti in Emmaus in compagnia di uno sconosciuto incontrato durante il cammino (i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo), si siedono con lui alla mensa. Gesù ripete il gesto sacrificale compiuto durante l’Ultima Cena, quando disse “prendete e mangiate, questo è il mio corpo”, benedice e spezza il pane offrendolo ai due seguaci che trasecolano, poiché in quel preciso istante hanno la rivelazione che l’uomo davanti a loro è Cristo risorto. L’uomo di sinistra si appoggia con forza ai braccioli della sedia, come per alzarsi di scatto; l’uomo di destra allarga entrambe le braccia in un gesto di stupore e di adorazione. L’oste assiste immobile, il pollice infilato nella cintura, in testa una cuffia; la sua camicia ha un colletto smerlato, seicentesco. Gesù, assorto nel rinnovare il dono di sé stesso agli uomini, abbassa le palpebre, interiorizzando i gesti rituali. Kallab (1906-1907) riferisce le sue guance glabre a Luini e Boltraffio. Gregori (1985a, p. 31) sottolinea i rapporti con la pittura e la trattatistica lombardo-veneta. Secondo Calvesi (1971 e 1990) il volto imberbe richiama il Cristo apollineo dei mosaici paleocristiani. A essi in effetti si ricorreva in quegli anni come fonte di fisionomie e iconografie del Buon Pastore, degli Apostoli e dei Santi, sulla spinta conoscitiva della nascente archeologia cristiana; ancora Calvesi (1985) nota un ricorso a un dettato borromaico secondo il quale Gesù deve assomigliare a Maria. Possiamo supporre che la scelta di Caravaggio di dare a Gesù una fisionomia inusuale servisse a motivare il mancato riconoscimento da parte dei due discepoli. Peraltro anche il Cristo del Giudizio Universale di Michelangelo non è barbato (Salerno, Kinkead, Wilson 1966, pp. 116-117). Siamo negli anni in cui il Merisi osserva gli ignudi della volta della Sistina: si veda il San Giovanni Battista-Coridone Mattei, oggi alla Pinacoteca Capitolina (Longhi 1927; Benkard 1928), ma anche, per lo scorcio delle braccia spalancate dell’apostolo di destra, la drammatica torsione di Aman crocifisso. Il Risorto è vestito all’antica (come una statua romana e come il Cristo della Vocazione di san Matteo nella cappella Contarelli), un manto bianco (il sudario?) 116 Silvia Danesi Squarzina CENA IN EMMAUS Il quadro … segue il Vangelo di Luca ( Lc 24, 30-31) nel punto in cui descrive due discepoli, Cleopa e un altro, forse Filippo, che, giunti in Emmaus in compagnia di uno sconosciuto incontrato durante il cammino (i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo), si siedono con lui alla mensa. Gesù ripete il gesto sacrificale compiuto durante l’Ultima Cena, quando disse “prendete e mangiate, questo è il mio corpo”, benedice e spezza il pane offrendolo ai due seguaci che trasecolano, poiché in quel preciso istante hanno la rivelazione che l’uomo davanti a loro è Cristo risorto. L’uomo di sinistra si appoggia con forza ai braccioli della sedia, come per alzarsi di scatto; l’uomo di destra allarga entrambe le braccia in un gesto di stupore e di adorazione. Cena in Emmaus, 1601 Olio su tela con interventi a tempera, 141 196,2 cm Londra, The National Gallery 01a_Caravaggio RIV6:CAMMEO GONZAGA 1-02-2010 17:18 Pagina 116

01a Caravaggio RIV6:CAMMEO GONZAGA 1-02-2010 17:18 …multimedia.pierreci.it/albums/Caravaggio/118_175.pdf · melagrane fuori di stagione”. E in effetti la scena si svolge, come

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Siamo nel 1601, Caravaggio ha lasciato da tempo la bottega del Cavalierd’Arpino e grazie all’appoggio di importanti prelati riceve incarichi peropere fondative. Se il suo modo di dipingere traccia un arco evolutivo

che va dall’avvincente, fedele descrizione della realtà a un crescente abbandono deiparticolari superflui, fino alla drammatica essenzialità degli ultimi dipinti, possiamo direche la Cena in Emmaus della National Gallery di Londra segna un momento ditransizione. Sono ancora presenti gli oggetti la cui resa ha accresciuto la famadell’artista, ma il fulcro della composizione si è spostato e va dal naturale al sacro.

Il quadro, nonostante sia da camera e non da altare, è di devozione intensa.Esso segue il Vangelo di Luca (Lc 24, 30-31) nel punto in cui descrive due discepoli,Cleopa e un altro, forse Filippo, che, giunti in Emmaus in compagnia di unosconosciuto incontrato durante il cammino (i loro occhi erano incapaci diriconoscerlo), si siedono con lui alla mensa. Gesù ripete il gesto sacrificale compiutodurante l’Ultima Cena, quando disse “prendete e mangiate, questo è il mio corpo”,benedice e spezza il pane offrendolo ai due seguaci che trasecolano, poiché in quel

preciso istante hanno la rivelazione che l’uomo davanti aloro è Cristo risorto. L’uomo di sinistra si appoggia conforza ai braccioli della sedia, come per alzarsi di scatto;l’uomo di destra allarga entrambe le braccia in un gesto distupore e di adorazione.

L’oste assiste immobile, il pollice infilato nellacintura, in testa una cuffia; la sua camicia ha un collettosmerlato, seicentesco. Gesù, assorto nel rinnovare il dono disé stesso agli uomini, abbassa le palpebre, interiorizzando igesti rituali. Kallab (1906-1907) riferisce le sue guanceglabre a Luini e Boltraffio. Gregori (1985a, p. 31) sottolineai rapporti con la pittura e la trattatistica lombardo-veneta.Secondo Calvesi (1971 e 1990) il volto imberbe richiama ilCristo apollineo dei mosaici paleocristiani. A essi in effettisi ricorreva in quegli anni come fonte di fisionomie eiconografie del Buon Pastore, degli Apostoli e dei Santi,sulla spinta conoscitiva della nascente archeologia cristiana;ancora Calvesi (1985) nota un ricorso a un dettatoborromaico secondo il quale Gesù deve assomigliare aMaria. Possiamo supporre che la scelta di Caravaggio di

dare a Gesù una fisionomia inusuale servisse a motivare il mancato riconoscimento daparte dei due discepoli. Peraltro anche il Cristo del Giudizio Universale diMichelangelo non è barbato (Salerno, Kinkead, Wilson 1966, pp. 116-117). Siamonegli anni in cui il Merisi osserva gli ignudi della volta della Sistina: si veda il SanGiovanni Battista-Coridone Mattei, oggi alla Pinacoteca Capitolina (Longhi 1927;Benkard 1928), ma anche, per lo scorcio delle braccia spalancate dell’apostolo didestra, la drammatica torsione di Aman crocifisso.

Il Risorto è vestito all’antica (come una statua romana e come il Cristo dellaVocazione di san Matteo nella cappella Contarelli), un manto bianco (il sudario?)

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Silvia Danesi Squarzina

CENA IN EMMAUSIl quadro … segue il Vangelo di Luca (Lc 24, 30-31)

nel punto in cui descrive due discepoli, Cleopa e unaltro, forse Filippo, che, giunti in Emmaus in

compagnia di uno sconosciuto incontrato durante ilcammino (i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo),

si siedono con lui alla mensa. Gesù ripete il gestosacrificale compiuto durante l’Ultima Cena, quando

disse “prendete e mangiate, questo è il mio corpo”,benedice e spezza il pane offrendolo ai due seguaci che

trasecolano, poiché in quel preciso istante hanno larivelazione che l’uomo davanti a loro è Cristo risorto.

L’uomo di sinistra si appoggia con forza ai bracciolidella sedia, come per alzarsi di scatto; l’uomo didestra allarga entrambe le braccia in un gesto di

stupore e di adorazione.

Cena in Emmaus, 1601 Olio su tela con interventi a tempera, 141 ✕ 196,2 cmLondra, The National Gallery

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avvolge la sua spalla sinistra e gira intorno alla vita. L’effetto di straniamento datodall’abito lo fa vivere in un mondo inattuale e senza tempo e lo stacca da ciò che locirconda, in un clima di Sacra Rappresentazione, mentre i due apostoli, come attoripresi dalla strada, sono vestiti alla moderna e appartengono a una sfera umile e aun’epoca contemporanea: quello seduto sulla savonarola (una sedia uguale a quelladella Vocazione di san Matteo Contarelli e del San Matteo e l’angelo nella primaversione) indossa una giacchetta marrone sdrucita e rotta sul gomito, l’altro ha una“mozzetta di cuoio” uguale a quella del viandante lauretano che si inginocchia aipiedi della celebre Madonna della chiesa di Sant’Agostino (la conchiglia appuntata

sul petto lo designa come pellegrino). La storia sacrairrompe nel presente, Caravaggio dimostra la suapadronanza della teatralità dell’azione, colta nell’attimosaliente, in una fissità che ostende l’essenza di quanto sivuole rappresentare. La luce proviene dall’alto e da sinistraed esalta gli oggetti carichi di simbologie e la trasparenzadei vetri presenti sulla tovaglia bianca.

Tra le fonti biografiche di Caravaggio la piùcircostanziata è Bellori, che parla sia di questo dipinto,apprezzandone l’imitazione del colore naturale, che di

quello Patrizi, analogo e più tardo (Bellori 1672, ed. 1976, p. 223); poche pagine piùavanti (ivi, p. 231), egli inserisce il suo secondo commento alla Cena in Emmaus inuna lunga lista malevola di motivi per cui i quadri del Merisi venivano “tolti da glialtari” e dopo aver criticato il Transito della Madonna che troppo imita “una donnamorta gonfia”, dopo aver ricordato “le sozzure dei piedi del pellegrino” in ginocchiodavanti alla Vergine, nella chiesa di Sant’Agostino, depreca “le forme rustiche dellidue apostoli”, “il Signore figurato giovane senza barba” e il “piatto d’uve, fichi,melagrane fuori di stagione”. E in effetti la scena si svolge, come dicono le Scritture,tre giorni dopo la sepoltura, ossia al momento della Pasqua, epoca in cui questi fruttinon maturano, dunque nell’evocazione, sul bordo del tavolo, della “fiscella”borromaica vi è un’incongruenza da ricondurre non tanto a sciatteria quanto, a miomodesto avviso, alla volontà del Merisi di imprimere anacronismo e universalità allaraffigurazione del sacro evento. Bellori scrive in anni in cui i grandi cardinali vicinialla Riforma cattolica hanno perso potere e quindi avverte e avversa l’adesione agliaspetti sociali del cristianesimo, innegabile in Caravaggio. In linea con Bellori,Berenson (1951) scrive: “il Redentore [...] è divenuto un ragazzo predicatore chesbalordisce due zoticoni”.

L. Venturi (1951) l’identificava correttamente col quadro commissionato daCiriaco Mattei, nonostante la diversa indicazione di Bellori. La datazione al 1601scaturisce da un preciso documento contabile, di pugno di Ciriaco Mattei, che il 7gennaio 1602 registra 150 scudi anticipati dal banco Ceuli e versati a Caravaggio per“il quadro de N. S. in fractione panis” (Cappelletti, Testa 1994, p. 139). Passato, nonsappiamo in che data, in collezione Borghese, vi rimase fino al 1801. Venduto daCamillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, al mercante Durand, nel 1831 vienedonato alla National Gallery da George Vernon.

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La storia sacra irrompe nel presente, Caravaggiodimostra la sua padronanza della teatralità

dell’azione, colta nell’attimo saliente, in una fissitàche ostende l’essenza di quanto si vuole

rappresentare. La luce proviene dall’alto e da sinistraed esalta gli oggetti carichi di simbologie e la

trasparenza dei vetri presenti sulla tovaglia bianca.

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La precisazione della provenienza Mattei, religiosissima famiglia che ospitavasan Filippo Neri e i suoi fedeli, ogni anno, per una refezione in villa, durante la visitadelle Sette Chiese, è importante per comprendere l’alto significato teologico deldipinto e il suo contesto. I tre fratelli Mattei, il primogenito Ciriaco (1545-1614), ilsecondogenito Girolamo (1546-1603), che, fatto cardinale da Sisto V nel 1586, nel1601 dà ospitalità a Caravaggio (Parks 1985, p. 441 pubblica il contratto per ilTransito della Madonna, 14 giugno 1601, dove Caravaggio è detto “commorans inPalatio Ill. et R.mi D. Cardinalis Matthei”; cfr. anche Macioce 2003, p. 105 e Marini2005, p. 493), e il terzo Asdrubale (1556-1638) – tralasciamo un quarto fratello, mortoin giovane età – mostrano omogeneità di intenti patrimoniali e artistici. Il cantiere dipalazzo Mattei di Giove, progettato dal Maderno, è testimoniato dai cinque volumi dispesa tenuti da Asdrubale fra il 1595 e il 1625, studiati dalla Panofsky-Sörgel (1967-1968) che, grazie alla cortesia di Giulia Antici Mattei, fece ricerche negli archivi difamiglia a Recanati, senza però approfondire la contabilità di Ciriaco e quindi senzaintuire che il Gherardo della Notte, menzionato nella lista datata 1 febbraio 1802(Archivio Mattei, CVII) comprendente sei dipinti venduti dal marchese LorenzoMattei, era in realtà un Caravaggio (ivi, p. 150).

Nel 1801 il titolo di marchesi dei Mattei di Giove era passato ai principiAntici Mattei (la madre di Giacomo Leopardi era Adelaide Antici). Questo spiega levicende dell’archivio, in epoca moderna (anni trenta del Novecento) trasportato aRecanati, in palazzo Antici Mattei. Devo alla squisita gentilezza di Anna Maria AnticiMattei Spinola, primogenita delle tre figlie di Giulia, e alla fitta corrispondenzaintercorsa fra lei e me alla fine degli anni ottanta, se furono accolte a Recanati, edebbero accesso alle carte di famiglia, le nostre giovani allieve dottorande FrancescaCappelletti e Laura Testa. I loro studi fra il 1990 e il 1994 portarono alla definitivaidentificazione della committenza Mattei per il quadro qui analizzato e reseroincontrovertibile, con la forza dei documenti, l’attribuzione a Caravaggio della Catturadi Cristo nell’orto ora a Dublino, ventilata da Longhi (1969) e da Frommel (1971),formulata da Benedetti (1993) quando ebbe davanti il dipinto per restaurarlo.

Una mostra al Museo di Brera a Milano, voluta dalla direttrice SandrinaBandera, propose nel 2009 un puntuale confronto fra la Cena in Emmaus Mattei equella Patrizi, oggi appunto a Brera, databile al 1606, ossia al momento della sostapresso Costanza Sforza Colonna, marchesa di Caravaggio, nei feudi Colonna, dopo lafuga da Roma per l’uccisione di Ranuccio Tomassoni. Mina Gregori, nel catalogo(Gregori 2009, pp. 35-36), sottolinea le profonde differenze nell’uso della luce e delcolore e la giovanile baldanza della versione Mattei, della quale decifra le simbologieriposte negli oggetti che affollano la tavola.

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Sergio Guarino

SAN GIOVANNI

BATTISTA

Sacro e impudico, un santo felice, un giovane ricolmo di gioia di vivere.Che abbraccia l’ariete, non nasconde la propria nudità e si volgeluminoso e beato verso lo spettatore, con un sorriso che attira dentro il

quadro e coinvolge. È seduto, in parte disteso su una pelle di animale a sua volta posatasu un mantello rosso e presso un panno bianco; a destra, in basso, un rigoglioso tassobarbasso (“verbascum”) e in alto una pianta di vite.

Il San Giovanni Battista di Caravaggio della Pinacoteca Capitolina è unamagistrale combinazione di apparente leggerezza e intrinseca gravità: la sua disarmantesemplicità (Dio è semplice, l’amore è semplice) turba a volte gli spettatori, oggi come ieri,spingendo a pensare che ciò che si vede sia troppo facile, lanciandosi in viaggi all’internodel quadro – talora davvero improbabili – per scoprire i tanto celebrati (e superflui)significati nascosti e reconditi, convincendosi che un’opera d’arte possa essere compresae spiegata grazie a un piccolo dettaglio in secondo piano. Forse non si è più abituati allapura bellezza della pittura, al suo linguaggio, gli sguardi non riescono più a posarsi alungo su un’immagine, abituati al ritmo assurdo e innaturale di quanto ogni giorno ci sfiladavanti agli occhi.

Caravaggio invece, in linea con la grande tradizione dell’arte italiana, riscopre iltempo del sacro, che si combina con i ritmi dell’esistenza, oppure li supera, ma senzaallontanarsi dalla vita umana: le sue opere non sono icone, ma parlano di carne, sangue,stupore, tormento – e anche di grazia, di mistero, di ricerca di Dio.

Così avviene per il San Giovanni Battista, un quadro realizzato in una fasecruciale del percorso di Caravaggio, che trasferisce in una dimensione di assoluta novitàle proprie riflessioni sui modelli artistici cinquecenteschi, sulla trasposizione in immaginedel sentimento religioso e sull’esperienza della natura. Destinata a un palazzo privato enon a un luogo di culto, la tela non è né il racconto di un episodio biblico né un’operadevozionale dalla percezione immediata e spesso superficiale, ma una profonda sintesidelle meditazioni dello stesso pittore e dell’ambiente che egli frequenta sulla persona diCristo, in questa circostanza evocato attraverso la sua prefigurazione più immediata, ilBattista. Non certo a caso Caravaggio si rivolge al modello più difficile, all’opera piùeclatante e irripetibile, vale a dire agli affreschi della volta della cappella Sistina, cosìuniversalmente celebrati quanto tralasciati per la loro intrinseca complessità:Michelangelo è un gigante che può stritolare chiunque gli si accosti e Caravaggio, cosìattento alla specificità del linguaggio artistico, è tra i pochi (o il solo?) in grado dicompiere con successo l’impresa di affrontarne la rilettura, sia pure in una singola figura,superando la pura ripresa formale; non si può escludere che allo studio di Michelangelofosse stato condotto, anni prima, dal Cavalier d’Arpino, di cui sono noti i disegni daibrani della Sistina. Credo di non essere davvero il primo a notare che proprio sulla voltasistina, tra i Nudi bronzei, compaiono ripetute teste di ariete; l’idea di pensare cheCaravaggio abbia volutamente combinato due diversi elementi michelangioleschi in unanuova, gioiosa immagine è senza dubbio suggestiva.

Il “caso” del San Giovanni Battista è oggi ben conosciuto. Malgrado la presenzanella raccolta della Pinacoteca Capitolina dalla metà del Settecento, il quadro aveva personel corso del tempo ogni “riconoscibilità”, sia per il tema sia per l’autore. In apparenza, ilproblema non avrebbe avuto motivo di esistere. La tela è ricordata in modo preciso nella

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raccolta Pio da Francesco Scannelli (1657, ma il testo è del 1654), che tra le opere diCaravaggio cita “nella Galleria dell’Eminentissimo Pio alcuni quadretti, ed in particolareuna figura di S. Gio. Battista ignudo, che non potria dimostrare più vera carne quandofusse vivo”, e da Giovanni Pietro Bellori (nella Nota delli musei… del 1664 e poi nelleVite del 1672: “San Giovanni nel deserto, che è un giovinetto ignudo à sedere, il qualesporgendo la testa avanti, abbraccia un agnello; e questo si vede nel Palazzo del SignorCardinale Pio”), così come il passaggio al Campidoglio nel 1750 di numerosi quadri dellaraccolta Pio, in cambio del permesso da parte di Benedetto XIV di esportare a Madrid ilresto della collezione, è un episodio noto alla letteratura artistica.

A lungo queste circostanze non sono state però collegate tra loro. Così, conl’aggravante di un’incerta lettura iconografica, la tela era stata vista nei primi tempi delNovecento solo come una copia della versione Doria Pamphilj (oggi si è unanimementecerti del contrario). Tolta dagli ambienti espositivi e finita nell’ufficio del sindaco diRoma, solo nel 1953 venne di nuovo considerata da Denis Mahon come il dipintooriginale di Caravaggio citato dalle fonti; sembra che alla stessa conclusione, nelmedesimo arco di tempo, fosse giunto anche Federico Zeri. Dopo il ritorno del quadronelle sale della Pinacoteca Capitolina, a opera di Carlo Pietrangeli, una lunga serie dicontributi, indagini documentarie e analisi tecniche ha consentito di ricostruirne in modopiù accurato la vicenda critica e i passaggi di proprietà.

Il quadro è menzionato per la prima volta in modo esplicito nell’inventario deibeni di Giovanni Battista Mattei del 4 dicembre 1616: “Un quadro di San Gio. Battistacol suo Agnello di mano del Caravaggio con cornice rabescata d’oro” (una similecitazione si trova nel successivo inventario Mattei del 1624). Gli studi moderni sonoconcordi – con una sola, recente eccezione – nell’identificarlo con l’opera pagata aCaravaggio da Ciriaco Mattei, padre di Giovanni Battista, il 26 giugno (o luglio, su questopunto esistono alcune difficoltà) e il 5 dicembre 1602, per un totale di 85 scudi, di cuiperò non viene specificato il soggetto; la commissione è indirettamente confermata daGiovanni Baglione, che menziona l’interesse per l’artista da parte del “Signor CiriacoMatthei, a cui il Caravaggio havea dipinto un s. Gio Battista”. Per il Mattei Caravaggioesegue nello stesso periodo la Cena in Emmaus (Londra, National Gallery), per cui riceve125 scudi il 7 gennaio 1602, e la Cattura di Cristo (identificata con quella oggi in depositopresso la National Gallery of Ireland a Dublino), pagata con la stessa cifra il 2 gennaio1603. È forte la tentazione di stabilire un legame tra il tema del quadro del Campidoglio eil nome del primogenito del committente (Giovanni Battista Mattei era nato nel 1569 eaveva intrapreso la carriera ecclesiastica).

In un codicillo del 5 giugno 1624 al proprio testamento del 21 gennaio 1623Giovanni Battista Mattei dispone di trasferire il quadro al cardinale Francesco Maria DelMonte (“lascio all’illustrissimo Signor Cardinale del Monte come unico mio signore etpadrone il quadro di S. Giovanni Battista del Caravaggio”), e difatti la tela comparenell’inventario post mortem dei beni del cardinale redatto il 21 febbraio 1627: “Un S.Giovanni Battista di mano del Caravaggio con cornice negra rabescata di palmi sei et1/4”. Passata ai nipoti del prelato (dapprima a Uguccione e, dopo la sua precocescomparsa, al fratello Alessandro), viene quindi venduta il 5 maggio 1628 insieme allaBuona ventura, al San Sebastiano di Reni e a un Orfeo di Jacopo Bassano per un totale di

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San Giovanni Battista, 1602Olio su tela, 131,8 ✕ 98,5 cm Roma, Pinacoteca Capitolina

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240 scudi. Queste opere – tranne l’Orfeo, tuttora disperso –sono presenti nell’inventario Pio del 1641 (il Battista è il“quadro con un giovine nudo a sedere mezzo colco, qualetiene con il braccio dritto abbracciato un agnello e se loaccosta al viso in tela alto p.mi 5 3/4 largo p.mi 4 3/4 concornice nera, et oro”) e si riteneva quindi che l’anonimoacquirente fosse proprio il cardinale Carlo Emanuele Pio; direcente questa verosimile congettura è stata confermata subase documentaria.

In un elenco dei quadri Pio esposti alla mostra diSan Salvatore in Lauro del 1697, redatto da Giuseppe Ghezzi,non compaiono dubbi (“S. Giovanni, del Caravaggio, daimperatore, più alto”), ma di nuovo nell’inventario Pio del1724 si ritorna alla sola descrizione formale (“un Giovinenudo, quale appoggia il braccio sinistro sopra i suoi panni, econ il destro abbraccia la testa di un agnello, alto palmicinque, e tre quarti, largo palmi quattro, in tela con cornicedorata, del Caravaggio”), ripresa dall’inventario del 1689. Almomento del passaggio al Campidoglio l’incertezza appare

totale: si tace il soggetto dell’opera, individuabile solo per un confronto e per la presenzadel nome del Merisi (“Un quadro di misura di palmi cinque per alto, con cornice dorata,compagno della S. Maria Egizziaca, originale di Michel Angelo da Caravaggio”; ilparagone è con la Maddalena penitente di Domenico Tintoretto).

Le difficoltà interpretative erano comparse molto presto, poiché la presenzadell’ariete rendeva meno sicuro vedere nel personaggio san Giovanni Battista, spingendoa rintracciare possibili alternative. Gaspare Celio, nella sua Memoria delli nomidell’artefici del 1638 (ma il testo era stato redatto entro il 1620), è il primo a dareun’interpretazione profana, chiamando il giovane “Pastor friso” (cioè pastore dellaFrigia); in occasione della vendita del 1628 il termine usato dal compilatore deidocumenti Del Monte è invece “Coridone”, erudito richiamo alla letteratura classica digenere bucolico. Dopo l’arrivo in Campidoglio, la lettura del soggetto come “Giovanenudo con caprone” persiste in alcune guide della Pinacoteca Capitolina, fino ai primitempi del Novecento.

In seguito alla “riscoperta” del 1953 gli studi hanno progressivamente accoltol’autografia caravaggesca, alla luce dei ritrovamenti documentari e delle analisi; laletteratura artistica è da tempo concorde nell’individuare la ripresa formale dall’Ignudoalla sinistra della Sibilla Eritrea della volta sistina. Non è invece ancora risolto in modounanime il problema dell’individuazione del soggetto. Sulla base della citazioneinventariale del 1616 è certo che per Giovanni Battista Mattei il quadro fosse unaraffigurazione del Precursore di Cristo, connessa al tema della Passione, presente anchenegli altri due quadri realizzati dall’artista per la famiglia romana nello stesso giro ditempo. Personalmente continuo a concordare pienamente con questa lettura. L’ariete èl’animale sacrificale per eccellenza, abbracciato dal Battista perché il soggetto principalenon è l’immagine del Precursore ma, per l’appunto, il Sacrificio di Cristo, la Redenzione.

… seduto, in parte disteso su una pelle di animale a suavolta posata su un mantello rosso e presso un panno

bianco; a destra, in basso, un rigoglioso tasso barbasso(“verbascum”) e in alto una pianta di vite.

Il San Giovanni Battista di Caravaggio dellaPinacoteca Capitolina è una magistrale combinazione

di apparente leggerezza e intrinseca gravità: la suadisarmante semplicità (Dio è semplice, l’amore è

semplice) turba a volte gli spettatori, oggi come ieri,spingendo a pensare che ciò che si vede sia troppo facile,

lanciandosi in viaggi all’interno del quadro – taloradavvero improbabili – per scoprire i tanto celebrati (e

superflui) significati nascosti e reconditi, convincendosiche un’opera d’arte possa essere compresa e spiegata

grazie a un piccolo dettaglio in secondo piano.

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Giovanni, nelle parole stesse di Cristo, “era una lampada che arde e risplende, e voi avetevoluto solo per un momento rallegrarvi alla sua luce” (Gv, 5, 35: forse a questa fraseevangelica rimanda la presenza del tasso barbasso, impiegato tra l’altro, all’epoca, per glistoppini; la pianta sembra comunque tradizionalmente legata al Battista).

Non ci sono prove reali in favore di una lettura in chiave letteraria e profana,filone interpretativo legato alla non chiara definizione di Gaspare Celio, mentre laproposta di vedere nel soggetto una raffigurazione di Isacco, certamente suggestiva per ilpiù diretto legame con l’ariete, appare adesso meno convincente per l’assenza diqualunque riferimento a Isacco negli inventari e nei documenti, nonché, tra l’altro, per

una più attenta lettura della “macchia” rossa in basso asinistra, che non si può vedere come il fuoco del sacrificio, macome un residuo della preparazione del mantello che, come siricava dalla radiografia, in un primo tempo aveva unamaggiore estensione.

La più recente tesi interpretativa considera la telacome il frutto di una diretta commissione del cardinaleFrancesco Maria Del Monte, che l’avrebbe richiesta per il suo“palazzetto” al Pincio (poi passato ai Ludovisi, che lo farannodecorare da vari artisti, tra cui Guercino con l’affresco con

l’Aurora), dove in un piccolo ambiente Caravaggio realizza a olio il suo unico dipintomurale, con Giove, Plutone e Nettuno. Nello Studiolo al primo piano si sarebbero trovatiil Suonatore di liuto, nella versione con la caraffa di fiori – interpretato come Apollo – e ildipinto del Campidoglio, letto come il “Pastore Coridone” ma che la presenza dell’arieteinteso in senso zodiacale (proposta già avanzata in passato) trasformerebbe in un simbolodell’equinozio di primavera: il segno dell’Ariete – per chi crede all’oroscopo – “copre” ilperiodo 21 marzo - 20 aprile. Per sostenere questa articolata ipotesi è ovviamentenecessario affermare che il quadro non sia mai appartenuto ai Mattei e che i pagamentidel 1602, le citazioni inventariali e il dono al cardinale Del Monte si riferiscano a unadiversa opera, scomparsa o da identificare con un altro Battista caravaggesco, impresanon facile. Inoltre, e ancor di più, la datazione sarebbe anticipata di diversi anni. Mentre,a parere della maggior parte degli studi recenti (e, per quanto può valere, anche secondol’opinione di chi scrive questa nota), la tela della Pinacoteca Capitolina è un autografocaravaggesco del 1602, realizzato dopo le tele Contarelli, a stretto ridosso della Cena inEmmaus di Londra e in parallelo con l’Amore vincitore di Berlino: una splendida,entusiasta, felice raffigurazione di san Giovanni Battista.

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L’ariete è l’animale sacrificale per eccellenza,abbracciato dal Battista perché il soggetto principale

non è l’immagine del Precursore ma, per l’appunto, ilSacrificio di Cristo, la Redenzione. Giovanni, nelleparole stesse di Cristo, “era una lampada che arde e

risplende, e voi avete voluto solo per un momentorallegrarvi alla sua luce” (Gv, 5, 35).

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Sergio Benedetti

CATTURA DI CRISTO

NELL’ORTO

Nella quiete notturna, in un concitato movimento di corpi, il Cristoè assalito e ghermito dalle guardie del tempio. Gli aggressori siavventano sul Redentore con l’impeto violento di un’onda a cui

non può essere opposta alcuna resistenza. Con le mani giunte in basso, Gesù apparesottomesso al suo sacrificio. Poco prima, sul monte degli Ulivi, dopo aver tentatoinvano di opporsi al proprio destino, egli si è infine piegato alla volontà divinaaccettando così la sua Passione.

La luce che irradia la scena coglie Giuda nell’attimo successivo al suotradimento, mentre ancora trattiene nel suo falso abbraccio il Cristo. Dietro di loro, ilpiù giovane degli apostoli fugge terrorizzato e nel frattempo dal gruppo delle guardiesi erge sulla destra il volto di un uomo che tiene in mano una lanterna. In lui, aragione, si è riconosciuto l’autore del dipinto che partecipa, come in altre sue opere,da osservatore all’evento tragico.

Normalmente, nell’iconografia tradizionale l’episodio della cattura appareilluminato dai bagliori della luna e dalle lanterne degli aggressori. Qui, in questa suacomposizione, Caravaggio nasconde queste fonti e riducendo il campo d’azioneintorno alle figure aumenta la forza emotiva della vicenda e il suo impatto visivo. Laluce, pur cadendo dall’alto, è esterna alla scena. Essa ha comunque un valoresimbolico perché squarcia le tenebre scoprendo la toccante umanità del Figlio di Dio.Questo è il dramma che Roberto Longhi non esitò a paragonare al Macbeth diShakespeare (1943, p. 13). Ed è grazie all’intuizione di questo grande studioso che haavuto inizio il recupero moderno di quest’opera del Merisi. Ricordando la descrizionefattane dal Bellori, Longhi riusciva a riconoscerne la composizione in alcune mediocricopie di collezioni private e a presagire la possibile esistenza di un originale nonancora rinvenuto. Il ritrovamento avveniva poi molti anni più tardi, nel 1990, inIrlanda, presso una comunità religiosa, a opera dello scrivente che lo rendevapubblico (Benedetti 1993). Oggi, fortunatamente, in seguito alle ricerche capillaricondotte da diversi studiosi, si è potuta ricostruire l’intera storia di questo dipinto ele sue peregrinazioni.

Nel 1601, dopo anni di permanenza presso il cardinale Francesco Maria DelMonte, suo primo grande protettore, Caravaggio decise di accettare l’ospitalità di unaltro eminente prelato, il cardinale Girolamo Mattei (Parks 1985). Presso di questi,nel palazzo che il cardinale divideva con il fratello più anziano Ciriaco, uno dei grandicollezionisti del tempo, l’artista eseguì tre tele per quest’ultimo. La terza di questeopere è il quadro di cui parliamo, che viene pagato al pittore, prima della fine del1602, 125 scudi inclusa la cornice (Cappelletti, Testa 1990a). Alla morte di CiriacoMattei il dipinto è poi ereditato dal figlio Giovanni Battista che successivamente ne fadono al cugino abate Paolo Mattei. Intorno a questi anni il padre di Paolo,Asdrubale, altro appassionato raccoglitore di dipinti, non possedendo l’originale necommissiona una copia (1626) a un non meglio noto Giovanni di Attilio (Cappelletti,Testa 1990a, p. 238, n. 58). Questa riproduzione riteniamo che possa essereidentificata con l’esemplare già esistente nel Museum of Western and Eastern Art diOdessa (Benedetti 2004, n. 26). Il quadro della Cattura di Cristo sarà poi l’unicodipinto di Caravaggio a rimanere a lungo in possesso della famiglia Mattei. Questa

Cattura di Cristo nell’orto, 1602 Olio su tela, 133,5 ✕ 169,5 cmDublino, National Gallery ofIreland (inv. 14.702), depositopermanente della comunità deiGesuiti di Leeson Street, inricordo della dottoressa MarieLea-Wilson

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tela, ammirata da generazioni di visitatori (De Brosses 1745-1755), diviene anche unadelle opere del pittore lombardo più copiate. Malgrado ciò, nella seconda metà delSettecento, forse su consiglio di qualche nuovo connaisseur, il quadro viene ascritto aun altro artista: Gherardo delle Notti (Gerrit van Honthorst). E come opera di questopresunto autore viene venduto nel 1802, insieme ad altri dipinti, dai Mattei persopperire alle loro gravi difficoltà finanziarie (Panofsky-Sörgel 1967-1968). Aeffettuarne l’acquisto è il suocero di Lord Elgin, William Hamilton Nisbet, un riccogentiluomo scozzese di passaggio a Roma che trasferirà il quadro nella sua dimora diBiel, in East Lothian (Benedetti 1995a). Lì il dipinto, ormai ritenuto di Honthorst,rimarrà fino al 1921, per poi essere venduto ad asta per solo 8 ghinee a John Kemp,alias Joseph. K. Richardson, un antiquario di Edimburgo (Wilson 2009). Ma dopopochi mesi la Cattura di Cristo viene nuovamente acquistata da una vedova irlandese,Marie Lea-Wilson, che trasferisce il dipinto a Dublino e, a distanza di qualche anno,lo dona alla comunità gesuitica di Leeson Street dove viene, come è stato detto,

riscoperto dallo scrivente nel 1990 e aggiunto alle pitturegià note del Merisi.

A questo punto è giusto spiegare, pur brevemente,anche altri aspetti importanti del quadro. La suacomposizione orizzontale è quella del cosiddetto “quadromezzano”, un formato adatto al collezionismo privato, cioè“da camera”. Questa scelta era molto frequente,soprattutto per le “mezze figure”, tra i pittori di culturaveneto-lombarda ed è una tipologia particolarmente

favorita dall’artista nel suo primo periodo romano. È una fase che vede Caravaggioprendere spunti anche dalla scultura classica, come risulta perfino in questa tela, sianella figura atterrita dell’evangelista Giovanni – tratta da un bassorilievo romano –che nelle due teste di Cristo e di Giuda, racchiuse dal manto dell’apostolo come inun clipeo marmoreo. I partecipanti alla scena appaiono poi essere dei modelli reali.Del volto del pittore si è già accennato e va solo aggiunto che, in un’identica posa,egli si ritrarrà di nuovo nel Martirio di sant’Orsola, l’ultimo lavoro della suasfortunata esistenza. Dei due armigeri in primo piano, quello più esposto veste uncorsaletto di acciaio brunito con bordi dorati di cui esiste un esemplare quasiidentico nel Museo Diocesano di Mantova (Boccia 1982, pp. 269-271). Nel secondo,dal naso affilato e dalla folta barba, è facile riconoscere invece le fattezze di unmodello che aveva già posato in diversi altri dipinti dell’artista, tra il 1601 e il 1603,quali la Conversione di san Paolo, la Cena in Emmaus Mattei, il secondo San Matteo,l’Incredulità di san Tommaso e il Sacrificio di Isacco. Va detto inoltre che, osservandoquesto personaggio, Giovanni Pietro Bellori aveva notato come il pittore col suopennello avesse creato un preciso effetto realistico: “Imitò l’armatura rugginosa diquel soldato coperto il capo, e ’l volto dall’elmo, uscendo alquanto fuori il profilo”.Questo dettaglio, cioè l’elmo rugginoso, è di grande importanza perché, mentre èchiaramente visibile nella tela dublinese, risulta essere assente in ogni altra presuntaversione dimostrando quindi che questa tela è l’unica che sia stata vista e ammiratadal Bellori in casa Mattei (1672, ed. 1976, p. 207). Un altro aspetto interessante di

… il più giovane degli apostoli fugge terrorizzato e nel frattempo dal gruppo delle guardie si erge

sulla destra il volto di un uomo che tiene in mano unalanterna. In lui, a ragione, si è riconosciuto l’autore

del dipinto che partecipa, come in altre sue opere, daosservatore all’evento tragico.

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questa composizione è che nel rappresentare il gruppo di figure centrali Caravaggiosi è servito, come è stato giustamente rilevato, di un’incisione del Dürer (HermannFiore 1995). Ciò non deve scandalizzare, perché l’uso di stampe da cui trarresuggerimenti era una pratica comune a gran parte dei pittori dell’epoca. Suicontenuti religiosi e morali dell’opera ci pare giusto supporre che un’influenzanotevole possa essere stata esercitata dal fratello del committente, il cardinaleGirolamo Mattei. Questi, tra i vari incarichi che ricopriva nella curia, rivestiva anchela posizione di cardinale protettore dei frati Minori Osservanti. Pertanto èpresumibile che lo stesso dovesse sinceramente condividere i principi eticidell’ordine francescano, a partire dall’Imitatio Christi che veniva espressa attraversol’umiltà, l’abnegazione e l’obbedienza, virtù che si rispecchiano pienamentenell’atteggiamento esibito dal Cristo caravaggesco.

Per concludere, credo valga la pena spendere ancora alcune parole sulleannotazioni esistenti negli inventari Mattei a riguardo del nostro quadro o di altrisimili. Questi elenchi sono stati, come è noto, dettagliatamente analizzati e pubblicati

diversi anni fa (Cappelletti, Testa 1994). Più recentementesi è voluto speculare su una seconda presunta Cattura diCristo nell’orto di Caravaggio, che sarebbe esistita in quellacollezione. Un’accurata lettura delle liste di quellaquadreria prova invece il contrario. Nella raccolta diCiriaco Mattei fino al 1624, cioè alla morte del figlioGiovanni Battista, appaiono registrati solo tre quadri delsuddetto soggetto: la tela di Caravaggio, che passeràall’abate Paolo Mattei, e due altri dipinti che includonoperò l’episodio di san Pietro che taglia l’orecchio a Malco.Nell’altra raccolta, quella di Asdrubale, il fratello più

giovane di Ciriaco, vi è menzionato nel 1595 l’acquisto di un quadro di questo tema,probabilmente un piccolo olio su rame, il cui costo è talmente basso da fare escludereche si tratti di un’opera del Merisi. Vi è poi un inventario di Asdrubale, datatoinizialmente 1613 ma con aggiunte successive come i quadri ereditati nel 1624 dalnipote Giovanni Battista. Qui troviamo un’altra “Presa di Nostro Signore”, senzaattribuzione, che plausibilmente dovrebbe essere la copia di Giovanni d’Attilio fattaeseguire nel 1621. Asdrubale muore nel 1631 senza mai avere posseduto il quadro diCaravaggio, che rimarrà con Paolo Mattei fino alla sua scomparsa nel 1638. Laraccolta di Asdrubale passerà quindi al figlio Girolamo, primo duca di Giove, chesuccessivamente erediterà dal fratello Paolo anche il quadro di Caravaggio. Infine,nell’inventario di quest’ultimo, del 1676, il più completo, vengono chiaramenteregistrate le cinque “catture di Cristo” già menzionate e viene specificato che vi eraun solo originale di Caravaggio, e una sua copia.

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Con le mani giunte in basso, Gesù appare sottomesso alsuo sacrificio. Poco prima, sul monte degli Ulivi, dopo

aver tentato invano di opporsi al proprio destino, egli si è infine piegato alla volontà divina

accettando così la sua Passione. La luce che irradia la scena coglie Giuda nell’attimosuccessivo al suo tradimento, mentre ancora trattiene

nel suo falso abbraccio il Cristo.

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Adistanza ravvicinata rispetto all’osservatore, con la punta del piededestro poggiata sul pavimento d’assi e la gamba sinistra piegata, il diodell’amore terreno è raffigurato con un insieme di oggetti che

simboleggiano diverse discipline, arti e scienze. Con un sorriso provocante e sensuale, ilgiovane cerca il contatto visivo con chi è di fronte, offrendo il proprio sesso allo sguardo.Le frecce che tiene nella destra e le ali spiegate permettono di identificare la figura conCupido, la cui rappresentazione è qui una testimonianza del realismo di Caravaggio, cherifiuta di nobilitare la natura attraverso l’arte: alcuni particolari fisici del garzone –probabilmente Cecco da Caravaggio – che in base agli aneddoti sull’artista si ritiene abbiaposato come modello, sono dipinti in tutto il loro naturalismo.

L’opera fu creata nel 1602 su incarico del marchese Vincenzo Giustiniani per lasua collezione privata. Insieme al fratello, il cardinale Benedetto Giustiniani, Vincenzo eratra i più importanti mecenati del Caravaggio. Nel 1815 l’opera divenne proprietà del re diPrussia, che acquistò l’intera collezione Giustiniani.

Gli oggetti sparsi ai piedi di Cupido, che già Giovanni Pietro Bellori definisce“trofei”, si riferiscono alle arti liberali, alla celebrità letteraria, all’arte militare: uno spartitocon due strumenti a corda (violino e liuto), squadra e compasso come attributi dellageometria, un corsaletto, dietro a questo un manoscritto con la corona d’alloro e unapenna. Più in alto, sul drappo su cui poggia la gamba sinistra flessa di Cupido e accanto aquesto, si intravedono corona e scettro. Infine, quasi coperto dalla coscia destra delgiovane dio, vi è un globo celeste.

Quest’ultimo è una modifica apportata in un secondo tempo, che complicaulteriormente la postura della figura: Cupido siede su uno spigolo che dal bordo destrodel dipinto si proietta orizzontalmente nella composizione, coperto da un drappo bianco.Analisi radiologiche e i pentimenti visibili a occhio nudo dimostrano comeoriginariamente questo spigolo si estendesse oltre il centro della composizione; proprioqui Caravaggio inserì in un secondo momento il globo celeste.

Fin dall’inizio l’opera è stata oggetto di differenti interpretazioni (cfr.Preimesberger 2003, p. 245): Joachim von Sandrart, curatoredella Galleria Giustiniani dal 1632 al 1635, la descrive inmaniera neutra come “Cupido in grandezza naturale/ con lesembianze di un giovane di circa dodici anni/ seduto sulglobo del mondo/ alzando nella destra il suo arco/ sullasinistra vari strumenti d’arte/ anche libri per studi e unacorona d’alloro sopra i libri/ Cupido aveva dietro a sé grandiali scure d’aquila/ tutto disegnato in corectura/ con coloritoforte, purezza e tale armonia/ che poco dista dalla vita.”(“Cupido in Lebens-Grösse/ nach Gestalt eines ohngefehrzwölffjährigen Jünglings/ sitzend auf der Welt-Kugel/ und inder Rechten seinen Bogen über sich haltend/ zur Linkenallerley Kunst-Instrumenta/ auch Bücher zu Studien und einLorber-Kranz auf den Büchern/ Cupido hatte nach seinerGestalt grosse braune Adlers-Flügel/ alles zusammen inCorectura gezeichnet/ mit starker colorit, Sauberheit und

Bernd Wolfgang Lindemann

AMORE VINCITORE

(AMOR VINCIT OMNIA)

Con un sorriso provocante e sensuale, il giovane cerca il contatto visivo con chi è di fronte, offrendo il

proprio sesso allo sguardo. Le frecce che tiene nelladestra e le ali spiegate permettono di identificare

la figura con Cupido, la cui rappresentazione è qui una testimonianza del realismo di Caravaggio,

che rifiuta di nobilitare la natura attraverso l’arte:alcuni particolari fisici del garzone – probabilmente

Cecco da Caravaggio – che in base agli aneddoti sull’artista si ritiene

abbia posato come modello, sono dipinti in tutto il loro naturalismo.

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solcher Rundirung/ daß es dem Leben wenig nachgegeben”, von Sandrart 1675, p. 190).D’altronde l’opera fu coperta con una tenda proprio su suggerimento di Sandrart – nontanto perché fosse ritenuta offensiva la nudità del modello, bensì perché si temeva chealtrimenti avrebbe offuscato gli altri tesori della collezione. Ai visitatori era permessoammirarla dopo aver visto tutti gli altri dipinti: solo allora la tenda poteva essere tolta.

L’inventario redatto alla morte di Vincenzo Giustiniani descrive l’opera comesegue: “Un quadro con un Amore ridente, in atto di dispregiare il mondo, che tiene sottocon diversi stromenti Corone, Scettri et armature chiamato per fama il Cupido delCaravaggio…”. Giovanni Pietro Bellori invece chiama il soggetto “Amore vincitore” (cfr.Preimesberger 2003, p. 245, nota 1); infatti si afferma sempre più l’interpretazionesecondo cui l’opera rappresenterebbe il trionfo dell’amore fisico sulle arti. Solo molto piùtardi Robert Enggass (1967, pp. 13-20) proporrà di rovesciare questa visione leggendo ildipinto come un elogio del committente e delle sue virtù. Tale interpretazione è statarecentemente confermata e ampliata da Rudolf Preimesberger (2003, pp. 247-248), ilquale mette in relazione gli oggetti che circondano Cupido con particolari discipline epreferenze del committente – musica, architettura, arte militare, astronomia ecc. – e infinefa notare che la forma della squadra potrebbe essere letta come la lettera “V”, rimandandocosì al committente Vincenzo Giustiniani, esattamente come l’iniziale del canto nellospartito aperto. In questo modo il dio dell’Amore diventa Amore vincente o Amor vincens.

Benché la raffigurazione sia realistica, non trasfigurata dall’arte, la posadell’effigiato non è affatto casuale. Apparentemente si tratta di una parafrasi voluta dialmeno un’opera dell’omonimo di Caravaggio, Michelangelo Buonarroti. HerwarthRöttgen (1992, p. 41) vi scorge riferimenti alla scultura michelangiolesca della Vittoria(Firenze, Palazzo Vecchio); Seymour Howard è il primo a rimandare alla figura delBartolomeo nel Giudizio Universale della cappella Sistina (Howard 1979, p. 161; cfr.Preimesberger 2003, p. 251); infatti la postura del vecchio nell’affresco di Michelangelocorrisponde fin nei particolari a quella del giovane Cupido caravaggesco. Con quest’operaCaravaggio si pone dunque in competizione con il grande modello, riportando in unacondizione di giovinezza e vitalità il vecchio dell’affresco di Michelangelo, il quale com’è

noto rappresenta un autoritratto dell’artista. Per concludere, torniamo ancora una volta al motivo

del globo celeste. Pare quasi che questo dettaglio, aggiunto inun secondo tempo nella composizione, sia un ulteriore invitodel Caravaggio a una lettura polivalente del suo dipinto. Ilglobo sembra servire da sedia al dio dell’Amore, che poggia sudi esso con la coscia della gamba destra e la natica sinistra. Unasfera, non utilizzata come sedia ma come appoggio,rappresenta tradizionalmente un attributo della dea Fortuna emette in evidenza il carattere instabile e inaffidabile dellabuona sorte. Molto probabilmente Caravaggio prese inprestito questo elemento per il suo Cupido con l’intenzione dialludere all’altrettanto grande inaffidabilità dell’amore terreno:avendo una seduta così instabile, questo Cupido non rivolgeràeternamente la sua attenzione a chi lo guarda.

Amore vincitore (Amor VincitOmnia), 1602 Olio su tela, 156,5 ✕ 113,3 cm Berlino, Staatliche Museen,Gemäldegalerie

Gli oggetti sparsi ai piedi di Cupido, che già GiovanniPietro Bellori definisce “trofei”, si riferiscono alle arti

liberali, alla celebrità letteraria, all’arte militare: uno spartito con due strumenti a corda (violino e

liuto), squadra e compasso come attributi dellageometria, un corsaletto, dietro a questo un manoscritto

con la corona d’alloro e una penna. Più in alto, sul drappo su cui poggia la gamba sinistra flessa diCupido e accanto a questo, si intravedono corona escettro. Infine, quasi coperto dalla coscia destra del

giovane dio, vi è un globo celeste.

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“Nella Chiesa Nuova alla man dritta c’è del suo nella secondacappella il Christo morto, che lo vogliono seppellire conalcune figure, a olio lavorato; e questa dicono che sia la

miglior opera di lui...”. Così il Baglione (Baglione 1642, p. 137). Che il dipinto ora nella Pinacoteca Vaticana fosse il capolavoro assoluto di

Caravaggio romano lo pensavano anche i francesi, che lo requisirono nel 1797 peresporlo nel Museé Napoléon di Parigi; unico fra i quadri del Merisi sottratti allechiese della capitale. Al suo posto venne collocata una copia realizzata dalCamuccini, a sua volta sostituita nel 1818 da quella di Michael Köck ancor oggi nellachiesa (Mancinelli 1983, pp. 160-163, n. 85).

Restituita a Roma da Parigi nel 1817, la Deposizione entrò a far parte dellaPinacoteca Vaticana nelle sue varie dislocazioni fino all’ultimo allestimento curato daBiagio Biagetti e inaugurato da papa Pio XI Ratti nel 1932.

Per il Baglione, come per i commissari francesi, come per la sensibilità e ilgusto del XIX secolo, la Deposizione della Chiesa Nuova era il capolavoro diCaravaggio perché fra tutti appariva come il più classico, il più nobilmente impostatosui modelli della tradizione. Anche a noi sembra tale e questo ci permette di capiremeglio la formazione culturale e l’immaginario estetico del pittore.

Caravaggio è un formidabile innovatore. È il primo a far saltare la gerarchiadei generi con la sua celebre “galileiana” sentenza: “... tanta manifattura è fare unquadro buono di fiori come di figure”. È il primo a usare la luce come disvelamento,come colpo di mano sul Vero visibile. È il primo a intuire e a rappresentare laterribile moralità immanente alle cose quando il lume e l’ombra ce le fanno apparirecosì come sono.

Eppure la proposta rivoluzionaria di Caravaggio poggia su una catena diriferimenti stilistici ben individuabili. Il suo nome di battesimo era Michelangelo econ un altro Michelangelo, il Buonarroti da Firenze, voleva confrontarsi. Non c’è chinon veda come il corpo del Deposto nel quadro vaticano sia una citazione dal

bellissimo nudo che sta sulle ginocchia della Vergine nellaPietà di San Pietro, scolpita dal Buonarroti più di un secoloprima. Allo stesso modo, una citazione dall’affrescomichelangiolesco con la Crocifissione di san Pietro nellacappella Paolina è l’apostolo che ci guarda irato nel quadrodi uguale soggetto che Caravaggio dipinse per la cappellaCerasi in Santa Maria del Popolo.

La Deposizione già in Santa Maria in Vallicella,meglio nota come Chiesa Nuova, e ora nella PinacotecaVaticana, è dunque consapevole riferimento a unatradizione illustre, si colloca su una linea stilistica che larivoluzione rinnova e vivifica ma non cancella.

E ora esaminiamo con qualche attenzione l’opera.Cominciamo col dire, prima di tutto, che il termineiconografico con il quale il quadro è conosciuto è sologenericamente corretto. L’episodio che qui Caravaggio mette

Antonio Paolucci

DEPOSIZIONE

E poi c’è la pietra, la vera silenziosa protagonista del quadro. La lastra marmorea

presenta verso di noi il suo angolo e subito viene allamente il Salmo 118: “La pietra scartata dal

costruttore è diventata testata d’angolo”. In questo momento Cristo è la pietra scartata dalla

storia. I suoi discepoli lo hanno abbandonato,rinnegato, si sono dispersi. La sua meravigliosa utopia è finita sulla croce e ora si dissolverà per

sempre nel sepolcro. Questi pensieri, in questomomento, attraversano gli astanti e Caravaggio li

rappresenta con implacabile verità.

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in figura è l’atto che, nel rito giudaico comune del resto a tutte le culture delMediterraneo, immediatamente precede l’inumazione vera e propria. Il corpo di Cristo,appena disceso dalla croce, verrà spogliato, disteso sulla grande pietra ben visibile(diremo poi del significato di quella pietra) per essere lavato, unto, profumato. Nondella pietra destinata a coprire e a sigillare il sepolcro dunque si tratta, ma del lettomarmoreo, destinato ai riti funerari, che in latino veniva chiamato lapis untionis.

La tela oggi in Vaticano si trovava in una cappella minore di patronatoVittrice, sul lato destro della Chiesa Nuova. Pietro Vittrice, titolare del patronato, eramorto nel 1600. Il nipote Girolamo volle onorarne la memoria commissionando ildipinto a Caravaggio, il quale frequentava il circolo degli Oratoriani, custodi alloracome oggi della chiesa (Spezzaferro 1981).

All’inizio del ’600 gli Oratoriani di San Filippo Neri erano un ordine nuovonato nello spirito della Controriforma. La loro missione si rivolgeva ai ceti urbanipopolari e borghesi. Predicavano una religiosità riflessiva e personalistica che attiravai giovani, gli intellettuali, gli artisti. È nel circolo degli Oratoriani da lui frequentatoche Caravaggio ebbe l’incarico di dipingere la Deposizione. È in quel clima diprofonda e moderna spiritualità cattolica che prende forma e significato l’iconografiadel dipinto.

Notiamo subito, in primo piano, la figura di Nicodemo che sostiene,reggendolo per le gambe, il corpo di Cristo. Volge lo sguardo verso di noi e il suo voltoha tutte le caratteristiche di un ritratto. In effetti – io credo – è il ritratto di PietroVittrice, alla cui memoria è dedicata la tela. Posto nei panni di Nicodemo, il giudeomisericordioso che schiodò Gesù dalla croce e lo depose nel sepolcro, il defunto vienequi presentato come custode del Corpus Christi. Per questo verrà salvato.

Dietro di lui ci sono i testimoni storici della Passione e della Morte di nostroSignore. C’è il grido disperato di Maria di Cleofa che alza le braccia al cielo urlandola sua disperazione, c’è Maria Maddalena che piange tutte le sue lacrime, c’è laMadre, il volto impietrito dal dolore, c’è Giovanni l’Evangelista che cerca di sfiorareper un’ultima carezza il corpo del Maestro amato.

E poi c’è la pietra, la vera silenziosa protagonista del quadro. La lastramarmorea presenta verso di noi il suo angolo e subito viene alla mente il Salmo 118:“La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo”. In questo momentoCristo è la pietra scartata dalla storia. I suoi discepoli lo hanno abbandonato,rinnegato, si sono dispersi. La sua meravigliosa utopia è finita sulla croce e ora sidissolverà per sempre nel sepolcro. Questi pensieri, in questo momento, attraversanogli astanti e Caravaggio li rappresenta con implacabile verità.

Eppure noi sappiamo, Caravaggio sa, che su quella pietra riposa la speranzadi salvezza per Pietro Vittrice e per ognuno di noi. Quando il celebrante, nelmomento della consacrazione, elevava l’ostia (Hoc est enim corpus meum), essa sitrovava allineata con il corpo di Cristo e con l’angolo della pietra profetica. Ilmessaggio non poteva essere più efficace e più immediatamente comprensibile.

“Il dirompersi delle tenebre rivelava l’accaduto e nient’altro che l’accaduto...”.Così scriveva il giovane Roberto Longhi nei Quesiti caravaggeschi del 1928-1929 aproposito della rivoluzione della luce inaugurata da Caravaggio. Occorre aggiungere

Deposizione, 1602-1604Olio su tela, 300 ✕ 203 cm Città del Vaticano, MuseiVaticani

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tuttavia che il mondo svelato dalla luce con inesorabile obiettività per il Merisi è, puòessere, un mistero ontologico abitato dai segni del Sacro.

In questo senso il dipinto vaticano ha offerto alla critica specialisticaargomenti di riflessione e di decodificazione importanti, con W. Friedländer (1955,pp. 17, 125-128, 186-189, cat. 25), con M.A. Graeve (1958), con M. Calvesi (1971, n.9-10, pp. 121-122, 135, 136), con G. Wright (1978), con M. Cinotti (1983, pp. 493-496), con A. Zuccari (1983).

Per il primo Novecento delle avanguardie e delle rivoluzioni e dunque perRoberto Longhi, Caravaggio era il peintre maudit descrittoci nel 1603 dalcontemporaneo Karel van Mander (“quando ha lavorato un paio di settimane, se neva a spasso per un mese o due con lo spadone al fianco e un servo dietro, e gira da ungioco di palla all’altro, molto incline a duellare e a far baruffe”) ed era soprattuttol’alfiere di un rinnovamento artistico radicale, ideologicamente connotato in sensolaico e progressista.

È stato il secondo Novecento a capire e a dimostrare che il Merisi daCaravaggio, questo personaggio irascibile e violento, frequentatore di cattive

compagnie, più a suo agio fra donne di malaffare e ragazzidi vita che fra i gentiluomini e i prelati che pure loammiravano e lo collezionavano (i cardinali Del Monte eBorromeo, il marchese Giustiniani, fra gli altri), era unospirito autenticamente religioso, portatore delle idee edelle sensibilità più avanzate nella moderna esteticacristiana.

La spiritualità cattolica che i manuali chiamanodella Controriforma invitava gli artisti ad aderire allalettera e al senso della Scrittura e, allo stesso tempo, adattualizzarne il messaggio, così da renderlo a tutti

comprensibile e per tutti efficace. Nella Vocazione di Matteo di San Luigi deiFrancesi, nella Madonna di Loreto di Sant’Agostino, nella Conversione di Saulo e nellaCrocifissione di san Pietro di Santa Maria del Popolo, nella Morte della Vergine delLouvre, nei capolavori di Napoli, di Malta, di Siracusa, di Messina, in tutti i quadri disoggetto religioso di Caravaggio, la moralità del Vero visibile svelato dalla lucediventa moderna epifania del Sacro, essenziale catechesi spoglia di ogni retorica.

Tutto questo lo vediamo significato in maniera mirabile nella Deposizionedella Pinacoteca Vaticana.

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Caravaggio è un formidabile innovatore. È il primo afar saltare la gerarchia dei generi con la sua celebre

“galileiana” sentenza: “... tanta manifattura è fare unquadro buono di fiori come di figure”. È il primo a

usare la luce come disvelamento, come colpo di manosul Vero visibile. È il primo a intuire e a rappresentare

la terribile moralità immanente alle cose quando illume e l’ombra ce le fanno apparire così come sono.

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Marco Pupillo

SAN GIOVANNI

BATTISTA

La più antica descrizione del quadro (o meglio: della fedele copiad’epoca che si trovava sull’altare dell’oratorio della Compagnia dellaMisericordia nel borgo ligure di Conscente) si trova in un

manoscritto dedicato ai luoghi sacri della diocesi d’Albenga, il Sacro e vagoGiardinello (1624, I, cc. 367r-v). L’autore è Pier Francesco Costa, vescovo ingaunodal 1624 e figlio del committente della versione originale dell’opera, il banchiereOttavio. Afferma quel testo che l’immagine del Battista “dipinta dal celebre enominato Michel Angelo Caravaggio nel deserto a pianger le miserie humaneindirizza alla vera penitenza non solo i devoti disciplinati ma anche i forestieri”.Giovanni Battista, vox clamantis in deserto, predicatore e battezzatore di folle, qui èraffigurato come un personaggio solitario e introspettivo, immerso in una dolorosameditazione sulle “miserie humane”. È la sua stessa figura allora a costituire unapredicazione esigente e del tutto muta – le sue labbra sono completamente serrate –che, negli auspici del vescovo, dovrebbe indirizzare “alla vera penitenza” tutti ivisitatori dell’oratorio, invitati a mettersi in sintonia con il clima austero dellacomposizione. Il deserto è piuttosto una foresta (San Giovanni Battista nel boscoaveva intitolato il dipinto Roberto Longhi nella sua monografia del 1952, ed. 1999,p. 214) e il Precursore è posto accanto a una quercia le cui foglie sono ingiallite,come a contraddire il primario significato di vigore e solidità che la tradizioneattribuisce all’albero. Più di uno studioso ha ritenuto che il pittore abbia volutoambientare la scena nella stagione autunnale. Le severe parole che il Battista rivolgeai farisei e sadducei venuti a cercarlo nelle regioni desertiche possono forseindirizzare meglio la comprensione di questo particolare contesto figurativo: “Già lascure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene

tagliato e gettato nel fuoco” (Mt 3, 10). La querciaavvizzita del dipinto potrebbe quindi essere emblema diquelle piante di cui Giovanni parla, annunciandol’imminente avvento del Cristo. L’esegesi patristicainterpreta il fatto che la scure sia stata solo posta allaradice di quegli alberi infecondi ma non li abbia ancoratagliati come un’ammonizione perché essi abbiano timoree ricomincino a fare frutto: un esplicito invito allaconversione che, giuste le premesse qui ipotizzate, sembrabene accordarsi con il significato penitenziale attribuitodal vescovo Costa al dipinto.

La composizione è disseminata di indizi cherimandano alla caducità, come il ramo segato postoproprio accanto alla testa di Giovanni (un’allusione al

martirio per decapitazione del Battista?) o le profonde scheggiature alle estremitàdelle canne che formano la povera croce impugnata dal santo. Al tempo stesso lafigura di questo giovane uomo, dotata di un indubbio fascino straniante, risultacarica di un’intima energia. Caravaggio ha creato un eroe eremitico e silvano. La suainstabile postura è esemplata su illustri precedenti figurativi, dal Torso del Belvedereagli ignudi michelangioleschi della Sistina, e mostra una condizione sospesa tra la

Le severe parole che il Battista rivolge aifarisei e sadducei venuti a cercarlo nelle regioni

desertiche possono forse indirizzare meglio lacomprensione di questo particolare contesto figurativo:

“Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciòogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e

gettato nel fuoco” (Mt 3, 10). La quercia avvizzita deldipinto potrebbe quindi essere emblema di quelle

piante di cui Giovanni parla, annunciandol’imminente avvento del Cristo.

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riflessione e l’azione. Il piede è appoggiato al terreno con le sole dita e la cosciamostra la tensione muscolare di chi è pronto ad alzarsi (ma non è chiaro a cosa si stia appoggiando, né cosa celi il suo manto rosso). Il Battista è investito da una lucepotente e innaturale, che qualcuno ha definito lunare. Provenendo da sinistra rompeil buio della boscaglia e “cala sugli occhi quei grandi schermi d’ombra”, una sorta di maschera che dona profondità allo sguardo, e proietta sul fianco una “macchiabeffarda che addenta il costato” – così nella lettura del Longhi (1968, ed. 1999, p. 266).

È noto il talento di Michelangelo Merisi come innovatore dell’iconografiareligiosa: l’umanizzazione del tema sacro è una delle caratteristiche di maggioreimportanza della seconda parte della sua carriera. Risulta comunque sorprendente lasua capacità di confrontarsi in maniera sempre nuova con un soggetto tradizionalecome quello del Battista, più volte affrontato nel corso della sua carriera econtinuamente reinventato, pur avendo a disposizione pochi elementi dicaratterizzazione iconografica, in un serrato confronto tra la propria creatività e idesiderata dei suoi committenti (Treffers 2000). Basti l’esempio del San GiovanniBattista della Pinacoteca Capitolina, realizzato solo pochi anni prima per i Mattei,raffigurato come un adolescente nudo e ridente.

Il quadro è stato convincentemente messo in relazione con la ricevuta autografadel 21 maggio 1602, nella quale il pittore lombardo dichiara d’avere ricevuto un accontodi 20 scudi dal banchiere Ottavio Costa per un non meglio identificato “quadro, ch’iogli dipingo” (Terzaghi 2007). Lo stile dell’opera, a proposito del quale si è parlato di“maniera grande”, ovvero di quella composta monumentalità verticale con cuiCaravaggio costruisce le sue figure negli anni della sua maturità romana, colloca la suaeffettiva realizzazione un po’ più in là nel tempo, tra 1603 e 1604.

Di origini liguri, Ottavio Costa è uno dei più importanti uomini d’affari dellacittà papale. Con il suo Banco, costituito nel 1579 in società con lo spagnolo JuanEnríquez de Herrera, accoglie i depositi di aristocratici ed ecclesiastici e amministraredditizi uffici curiali, come la Depositeria generale pontificia e le Depositerie delSacro Collegio e della Santa Inquisizione. Il banchiere è probabilmente un estimatoredel Merisi sin da quando il pittore muoveva i suoi primi passi sulla scena artisticaromana: nelle sue collezioni si trovava il San Francesco in estasi oggi a Hartford, operadatabile non oltre il 1594-1595. Recenti ricerche collocano i legami tra i due in unquadro complesso e articolato, che senz’altro travalica un occasionale rapporto diordinaria committenza.

Risulta probabile che il San Giovanni Battista fosse in origine destinatoproprio al feudo di Conscente, dal 1584 di proprietà della famiglia Costa, ma cheOttavio abbia invece preferito trattenere nella sua dimora romana il bellissimo dipinto– l’opera è ai vertici assoluti dell’arte caravaggesca – inviando in Liguria al suo postouna buona copia, giunta in loco almeno dal 1616 (un’altra copia antica, provenientedal mercato romano, si trova oggi a Napoli, al Museo di Capodimonte). Il banchiere simostra dunque sensibile alla qualità dell’opera e anche al suo valore economico, checonsidera più importanti della sua originaria destinazione ecclesiastica. Anche in altreoccasioni aveva compiuto operazioni analoghe, mostrando di saper utilizzare in

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San Giovanni Battista, 1603-1604 Olio su tela, 173,4 ✕ 132,1 cm Kansas City (MO), TheNelson-Atkins Museum of Art

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maniera consapevole e sorvegliata le copie dei dipinticaravaggeschi in suo possesso. Ottavio nutre un’autenticavenerazione per il Caravaggio, che considera l’artista dimaggior pregio della sua vasta collezione. Nei suoi dueultimi testamenti del 1632 e del 1639 vieta esplicitamente aipropri eredi di alienare i quadri del Merisi, così come quellidi Guido Reni e del Cavalier d’Arpino (sebbene neiconfronti degli altri due autori non si fosse mostratoaltrettanto possessivo in vita). Significativamente,nell’inventario post mortem dei suoi beni i dipinti delMerisi sono gli unici di cui venga indicato il nomedell’autore. Non sono state ancora chiarite le vicende del

“quadro con l’imagine di San Giovanni Battista nel deserto fatto dall’istessoCaravaggio” successive alla morte del committente. Dopo essere stata esposta allastraordinaria mostra caravaggesca di Milano del 1951 la tela, allora di proprietà dellacollezione privata inglese Chichester-Constable, è entrata nelle raccolte del Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City. Secondo alcune testimonianze il San Giovannisi trovava in Inghilterra già da due secoli ed era stato acquistato a Malta. Recentiacquisizioni documentarie (Costa Restagno 2004) sembrano invece indicarne lapermanenza a Roma ancora intorno alla metà del XIX secolo. Resta così apertol’interrogativo su quanto i discendenti ed eredi abbiano voluto e potuto rispettare levolontà testamentarie di Ottavio Costa.

La composizione è disseminata di indizi cherimandano alla caducità, come il ramo segato posto

proprio accanto alla testa di Giovanni (un’allusione almartirio per decapitazione del Battista?) o le profondescheggiature alle estremità delle canne che formano lapovera croce impugnata dal santo. Al tempo stesso la

figura di questo giovane uomo, dotata di un indubbiofascino straniante, risulta carica di un’intima energia.

Caravaggio ha creato un eroe eremitico e silvano.

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Questo San Giovanni Battista, esposto alla mostra romana “Il Potere ela Grazia” (Roma, Palazzo Venezia, 7 ottobre 2009 - 31 gennaio2010), assente nelle citazioni delle fonti, è forse da mettere in

relazione (Gregori, in Michelangelo Merisi da Caravaggio... 1991, p. 262) con quelloposseduto dalla vedova di Onorio Longhi, architetto e grande amico del Caravaggio,presente nell’inventario dei suoi beni mobili del 22 luglio 1655. L’opera è poi citatanell’inventario del 1808 della collezione Corsini, descritta come “un S. Gio. Batta stile diCaravaggio”, e in uno successivo, del 1827, fatto redigere da Tommaso Corsini, alla cuifamiglia il dipinto sarebbe pervenuto, come ipotizzato da Sivigliano Alloisi, a seguito delmatrimonio di Bartolomeo con donna Felice Barberini (1758). Acquistato dallo Statoitaliano nel 1883, il dipinto è stato da sempre esposto alla Galleria di palazzo Corsini.

Il San Giovanni fu reso noto per la prima volta da Roberto Longhi nel lontano1927 (p. 31; ed. 1928, p. 104; ed. 1967, p. 306), ripubblicato nel 1943 (p. 14) quando sitrovava temporaneamente esposto alla Galleria Spada, con attribuzione a seguace diCaravaggio, e ancora dallo studioso esposto alla mostra milanese del 1951 (p. 24, n. 22).L’attribuzione longhiana al Merisi ha trovato concordi Berenson (1951, pp. 32-33) eMahon (1951, p. 234, nota 117 e 1952, p. 19, nota 95), insieme a numerosi studiosi nelcorso degli anni (per cui cfr. Cinotti 1983, pp. 517-518), mentre altri come Brandi (1972-1973, p. 109), Moir (1976, pp. 119, n. 118, 161 nota 284) e Howard Hibbard nel 1983 (p.320, nota 326) hanno negato fortemente la paternità caravaggesca. L’Arslan (1951, p.445) la riteneva addirittura opera settecentesca, salvo poi rettificare la sua ipotesi, se nonnell’autografia almeno nella cronologia, in seguito alla radiografia eseguita nel 1953dall’Istituto centrale del restauro, nella cui relazione Giovanni Urbani rivelava unapreparazione della tela molto prossima a quella dei sicuri autografi caravaggeschi.

Longhi, che, s’è detto, per primo avanzò l’attribuzione al Caravaggio, nepropose, in linea con la sua cronologia anticipata dell’attività giovanile del pittore, unadatazione al 1598-1599. La proposta del grande studioso era in linea con la datazioneprecoce delle tele di San Luigi dei Francesi, con le quali trovava legami anche, inparticolare, per il modello del giovane spadaccino con il capello piumato presente nelMartirio di san Matteo. Lo studioso avanzava anche un accostamento tra l’opera dellaCorsini e l’Amore vincitore di Berlino, raffronto che il resto della critica non ha reputatodel tutto convincente, pure essendo Longhi, con quella interpretazione, riuscito acogliere l’anticlassicità delle due figure a tre quarti e la modernità, nell’opera romana, dicerti tocchi “rapidi e decisi” e del lume, in anticipo addirittura su Velázquez. Proprio inragione del profondo intacco d’ombre sulla spalla, egli aveva ancora accostato il modellodella Corsini a quello di Kansas City che aveva giudicato di poco precedente. Le ipotesidegli altri studiosi sulla cronologia, dal Mahon (1952, p. 19) alla Cinotti (1971, p. 128),oscillano tra il 1602 e il 1604. Il prevalere dei toni cupi, un certo fare vigorosamenteabbreviato e la gestione della luce hanno indotto in particolare Mia Cinotti (1983, p.518) a datare il dipinto al 1605, accanto alla Madonna dei Palafrenieri: la studiosa viravvisava “un identico modo di condurre la luce e divorare i contorni delle carni(braccio del Battista e braccio del piccolo Gesù), la materia nelle carni e nei panni è piùdecantata e alleviata e la morsura della luce per estrarre dall’ombra le entità plastiche sitrasforma in una distribuzione chiaroscurale più pacata e diffusa”.

Vincenzo Pacelli

SAN GIOVANNI

BATTISTA

San Giovanni Battista, 1606 Olio su tela, 97 ✕ 133 cm Roma, Galleria Nazionaled’Arte Antica di PalazzoCorsini

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Mi sembra del tutto condivisibile una datazione all’anno 1606 proposta a piùriprese dal Marini (1974, pp. 198, 441, n. 57; 1983, p. 131; 1987, pp. 236, 488-489), inconsiderazione degli effetti crepuscolari del paesaggio e della preparazione rossastra dellatela, che ne farebbero un’opera dipinta appena prima della partenza per Napoli. Reputo inquest’opera anticipato, difatti, sul modello del giovane Battista, quel particolaredell’incarnato roseo che prende più vigore dalla preparazione rossiccia della tela. Essoviene sfruttato sapientemente, come poi Bellori indicherà nella sua lettura del Battista diMalta, all’altezza dell’attaccatura del collo, sul ginocchio e sulle mani, a causa della pelleesposta al sole e agli agenti atmosferici, come si manifesterà con più compiutezza formalenel Cristo della Flagellazione De Franchis, nella figura dell’apostolo nella Crocifissione disant’Andrea di Cleveland o nel San Gerolamo di Malta. Ancora come nella Flagellazione diCapodimonte, questo San Giovanni Battista è investito da una luce intensa, dall’alto, quasiperpendicolare, che, mentre illumina la figura del santo, l’albero e il rametto in primopiano (utile, nella scansione delle superfici, a rappresentare il piano più vicino allospettatore), lascia in ombra il resto della scena.

La posizione del busto e delle gambe del San Giovanni Corsini impongonocertamente un raffronto necessario con l’opera di analogo soggetto conservata a KansasCity, che tuttavia sembra precedere l’opera romana “per il contrasto tra la compattezzadella superficie dell’incarnato e la rappresentazione molto libera degli oggetti e deglielementi naturali” (Gregori, in Michelangelo Merisi da Caravaggio... 1991, p. 263). Il SanGiovanni del museo americano mostrerebbe tuttavia zone d’ombra più spettacolari e ilpanno si distinguerebbe per un trattamento più ampio e barocco, nel ricordo delletoghe senatoriali della statuaria antica. Del tutto plausibile, invece, il confronto tra il SanGiovanni Battista di Caravaggio e quello di Battistello Caracciolo, suo più fedele seguacee amico napoletano, conservato in California all’University Art Museum di Berkeley:comune a entrambe le opere sembra l’idea del braccio sinistro che, compiendo lo stessomoto rotatorio, si appoggia sul ginocchio destro aggettante.

Nel San Giovanni Corsini Caravaggio ha adottato una tecnica esecutiva piùrapida (che Longhi 1952, p. 32 notava nella ciotola “svuotata dal pennello vorticoso,rapido, infallibile come in un Velázquez di vent’anni dopo”), che diventerà il solo mododi dipingere del Merisi a partire dal primo periodo napoletano, utilizzando“l’imprimitura rossastra come valore cromatico di base” (Gregori, in MichelangeloMerisi da Caravaggio... 1991, p. 263). Anche in questo dipinto, in prossimità degliincarnati, tra le diverse campiture pittoriche si nota il bordo scuro, in cui il colore delfondo o della preparazione è lasciato in vista.

La figura di tre quarti di questo prematuro “bel tenebroso” volge la testa fuoricampo, intento a osservare qualcosa, mentre l’intensità delsuo sguardo, percepito appena sotto la folta massa di capelli,rappresenta forse il brano poeticamente più alto dellacomposizione. Non sembra condivisibile l’interpretazione diPapa (in Il Potere e la Grazia 2009, pp. 246-247), checonsidera la torsione della testa del personaggio verso un“altrove” (da leggersi piuttosto come una naturale posa delragazzo di borgata di turno, eletto a Battista dal Caravaggio)

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La figura di tre quarti di questo prematuro “beltenebroso” volge la testa fuori campo, intento a

osservare qualcosa, mentre l’intensità del suo sguardo,percepito appena sotto la folta massa di capelli,

rappresenta forse il brano poeticamente più alto della composizione.

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come la rappresentazione di colui che vede arrivare il Messia e lo annuncia comeSalvatore. L’indicazione del Messia è quasi sempre percepibile attraverso l’indicazionedell’indice, come nel dipinto che alla mostra romana lo precedeva di qualche metro: ilSan Giovanni Battista di Leonardo da Vinci.

Giovanni appoggia la mano sinistra sul ginocchio destro per compiere piùcoerentemente quel gesto di torsione che è favorito ancor più dalla mano destra che siappoggia alla croce di canna. Accanto a questa una ciotola, ricavata dal legno, che è asua volta oggetto per raccogliere l’acqua ma anche ricordo di quell’attività dibattezzante di cui Giovanni sarà protagonista. Altro elemento di novità dellacomposizione è il taglio diagonale della figura con la testa compressa dal limite altodella tela da cui scendono dei rami dell’albero cavo che ha il suo tronco alla sinistra dichi osserva. Un albero che, oltre ai cipressi nel fondo, si pone anch’esso ad accamparela sua parte di spazio al pari degli altri elementi della composizione. L’albero,

genericamente considerato una quercia, è invece moltosimile a quello del San Francesco di Cremona,probabilmente da identificare con l’albero del sicomoro,qui senza corteccia, già menzionato nelle Sacre Scritture epresente anche nella valle del Giordano, dalla cui cavitàGiovanni ricavava il miele, suo nutrimento insieme allelocuste, come dal racconto evangelico. Proprio il discorsosull’albero e sulla vegetazione, che differentemente

appaiono nelle altre raffigurazioni del Battista di Caravaggio, ci permette diriconoscere l’onestà professionale del Merisi, che nelle tante richieste della figura delBattista ha sempre proposto modelli, rappresentazioni e corredi iconografici nuovi.

Il dipinto si presenta in buono stato di conservazione, a eccezione di danni diminima entità, quali leggere svelature e lievi mancanze di colore (cfr. la scheda tecnica diR. Lapucci, in Michelangelo Merisi da Caravaggio... 1991, pp. 268-271, che rivela anchecome il ciuffo di capelli sia stato sovrimpresso alla testa già dipinta).

La frequenza delle raffigurazioni di Giovanni Battista è in sintonia con lapredicazione della chiesa controriformata sulla validità dei sacramenti, tra i quali, inprimo luogo, è il Battesimo, che, com’è ovvio, è connesso alle tante rappresentazioni diGiovanni come colui che battezza Cristo. Secondo il Vangelo di Marco (Mc 1, 4,8), “sipresentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione peril perdono dei peccati. Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti diGerusalemme, e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loropeccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno aifianchi, si cibava di locuste e miele selvatico e predicava: ‘dopo di me viene uno che èpiù forte di me e al quale io non son degno di chinarmi per sciogliere i legacci dei suoisandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà con lo Spirito Santo’”.

Sembra evidente che Caravaggio non abbia interpretato alla lettera né il passodi Marco, né quello tratto da Jacopo de Varagine e dalle altre fonti evangeliche,sinottiche o apocrife, per una serie di ragioni: anzitutto, la figura di giovane modellopreso da una borgata romana mostra una giovinezza non proprio caratterizzata dapatimenti o stenti, non di colui insomma che si nutre solo di locuste e miele selvatico, e i

Altro elemento di novità della composizione è il taglio diagonale della figura con la testa compressa dal limite alto della tela

da cui scendono dei rami dell’albero cavo che ha il suo tronco alla sinistra di chi osserva.

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suoi lombi non sono coperti da peli di cammello e da una cintura di pelle, ma vestepanni, uno un po’ più chiaro che gli copre il basso ventre e un altro grande panno rosso,una sorta di mantello, che lo avvolge dalle spalle in giù sulle gambe e che tanto ricorda igrandi rossi della Morte della Vergine, che in ordine di tempo certamente lo precede. Lestesse stoffe rosse sono caratteristica che ritorna anche nel Battista di Kansas City,nonché in quello di collezione privata tedesca e nell’altro della Galleria Borghese diRoma. La dignità della figura del Battista, negli atteggiamenti, nelle vesti,nell’espressione del volto, è direttamente connessa, per il ruolo di precursore diGiovanni, all’ideologia cristocentrica del pittore.

Caravaggio non entra dunque nella querelle teologica sul battesimo, a cui purelo avrebbe potuto portare una corretta interpretazione dei brani evangelici, che conchiarezza indicano come “penitenziale” il battesimo di Giovanni, mentre “salvifico”quello affidato da Cristo agli apostoli dopo la sua resurrezione, quando apparve loroinvitandoli ad “ammaestrare tutte le nazioni e a battezzare nel nome del Padre, del Figlioe dello Spirito Santo”. In verità, per esigenze controriformate, è stata reiteratamenterichiesta la raffigurazione di Giovanni per il fascino che emanava dalla sua figura, ma inmodo particolare perché identificato come l’istitutore del sacramento del Battesimo. Atutt’oggi, nonostante l’invito di Gesù a battezzare nel nome del Padre, del Figlio e delloSpirito Santo, nella cerimonia battesimale viene ancora versata l’acqua sulla testa delcatecumeno a ricordo di quanto eseguito da Giovanni e del valore purificatoredell’acqua. A rafforzare la sua fortuna iconografica non bisogna poi dimenticarel’episodio della decollazione, le sue teste tagliate, segni che riferiscono il valore eroico delsacrificio nell’affermazione della verità a costo della propria vita, per cui ricevette lapalma del martirio come i tanti martiri morti per la testimonianza della fede.

Sotto il rispetto iconografico la figura del Battista è stata variamenteinterpretata: gli evangelisti lo presentano come un personaggio apocalittico, GiuseppeFlavio come un moralista, l’arte bizantina come un asceta, la speculazione umanistico-rinascimentale come un profeta. Solo in ambito naturalistico trovò un’espressione piùcorrispondente al suo ruolo di precursore e predicatore. Per la drammaticità legataall’evento e per la forza dell’espressione naturalistica in ambito caravaggesco si diffuse lasua decollazione.

Giovanni Battista è tra i personaggi evangelici più appassionanti. Precursore diCristo, costituisce la connessione tra l’Antico e il Nuovo Testamento. In base allacronologia del Vangelo di Luca, Giovanni comparve il quindicesimo anno del regnodell’imperatore Tiberio (29 d.C.) nel deserto di Giuda come predicatore di penitenza eper annunciare la venuta di Gesù. Di origine sacerdotale, figlio di Zaccaria edElisabetta, come dice Luca, visse nel deserto fino al giorno in cui doveva manifestarsi aIsraele. Una serie di indizi convergenti rende probabile gli influssi degli Esseni diQumran sulla formazione e la predicazione profetica di Giovanni. Luca dice che ilBattista visse nei deserti, le fonti cristiane specificano che si tratta del deserto di Giuda,a sud-est di Gerusalemme, lungo il Giordano e il mar Morto, praticamente in quellaregione in cui erano gli Esseni.

Il testo che caratterizza il ministero di Giovanni è quello di Isaia (Is 40, 3):“Una voce grida nel deserto: preparate la strada al Signore, appianate i suoi sentieri”.

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Giovanni dunque conduceva una vita da asceta, predicava e battezzava nelleacque del Giordano coloro che venivano a lui pentiti dei loro peccati. Coperto da unapelle, come si è detto, si nutriva di miele selvatico e di cavallette. Come il battesimo diGiovanni richiama per molti aspetti quello degli Esseni, così anche il nutrimento trovariscontro in quello che costituiva il cibo della comunità. Ma tutto ciò non prova cheGiovanni fosse un esseno.

Il suo arresto da parte di Antipa, figlio di Erode il Grande, non avvenne pertimore di una rivolta provocata dalla predicazione, ma per i rimproveri fatti al tetrarcaper l’irregolarità del suo matrimonio. Questi fatti sono narrati nei Vangeli di Marco,Matteo e Luca e confermati da Giuseppe Flavio.

Nelle raffigurazioni dei vari san Giovanni e san Giovannino del Caravaggio,sempre il Battista e mai l’evangelista, da una prima analisi non sembra che il pittoreabbia voluto entrare nella complessità delle figure del precursore di Cristo. Oltre altema iconografico della decollazione del Battista, sia in atto che come già avvenuta, intutte le altre opere raffiguranti san Giovanni – circa una ventina – il predicatoreevangelico è quasi sempre mostrato come un giovane, o poco più che adolescente, per lopiù interamente nudo e coperto quasi sempre di un panno rosso che gli copre i lombi, inatteggiamento pensoso, spesso seduto su una pietra o su un tronco, nella solitudine diun deserto, con accanto un agnello piuttosto cresciuto.

Si tratta dunque di un’iconografia che di per sé costituisce una scelta originale.Forse sotto l’aspetto ideologico Caravaggio ha voluto sottolineare proprio quelmomento della vita di Giovanni mentre medita in attesa del Verbo. Non si puòsottovalutare neppure, almeno sotto il rispetto della composizione, che il Merisi, nelraffigurare il Battista in meditazione, ha avuto modo di realizzare uno dei nudi giovanilitra i più belli delle sue creazioni: si pensi, oltre a quello della Corsini che qui si presenta,a quello dallo sguardo torvo di Kansas City che, a parte le considerazioni di chi loaccosta al busto dell’Apollo del Belvedere, si mostra non come il profetanell’atteggiamento profetico che era stato annunciato, ma nella possanza classica delMarte Ludovisi di Palazzo Altemps o di un atleta che si deterge con lo strigile, unApoxyómenos uscito dallo scalpello di Lisippo o di altri scultori classici o ellenistici.

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Cristina Acidini

SACRIFICIO

DI ISACCO

Vanto delle sale del Seicento nella Galleria degli Uffizi, il Sacrificio diIsacco rappresenta il Caravaggio maturo e affermato, a differenzadegli altri due capolavori – il Bacco e la Medusa – che raggiunsero le

collezioni granducali entro il Cinquecento. La provenienza dai Barberini, d’origine fiorentina, per commissione di

monsignor Maffeo futuro papa Urbano VIII nel 1623, è certificata dal pagamento di100 scudi nel 1603-1604 (Aronberg Lavin 1967) e da successivi inventari; ma chiriferisce il compenso a un altro quadro per Maffeo, che fu ritratto dal Caravaggioalmeno una volta, suggerisce di anticipare il Sacrificio al 1601-1602 (Papi,comunicazione personale). Nel 1610 l’ambasciatore di Francia lo fece copiare. Ilquadro rimase in famiglia fino al tardo Ottocento, quando Maffeo Colonna di Sciarradovette venderlo a creditori, dai quali lo acquistò John Fairfax Murray, figlio delpittore preraffaellita Charles, per poi donarlo agli Uffizi nel 1917 (esaurienti schededi Marini 2000; 2001): tra i dipinti del Caravaggio nelle Gallerie fiorentine, ilSacrificio di Isacco si distingue per esservi entrato buon ultimo. Ne uscì per variemostre (Firenze 1922, Milano 1951, Utrecht-Anversa 1952, San Paolo del Brasile1954, Parigi 1965, New York-Napoli 1985, Firenze-Roma 1991-1992, Roma 2000,Milano 2000-2001, Mantova 2004-2005, fuori catalogo, Amsterdam 2006) e per essernascosto durante la Seconda Guerra mondiale; trafugato, venne recuperato a SanLeonardo in Val Passiria nel 1945. La tela, restaurata nel 1965, presenta numeroseincisioni che delineano i contorni delle figure, già segnalate fin dal tempo di Longhi(poi Christiansen 1986, pp. 429-430; Lapucci, in Michelangelo Merisi daCaravaggio… 1991, pp. 230-237).

La potenza della composizione, con i protagonisti ricondotti in primo piano,si esprime nella concatenazione di gesti e sguardi che blocca la tragica azionenell’istante stesso in cui sta per compiersi. Secondo il testo biblico un angelo scende asalvare il fanciullo Isacco, che il padre Abramo si accinge a sacrificare su comando diDio, dando prova di fede e obbedienza assolute. All’arrivo dell’angelo il patriarca hagià spinto il figlioletto sulla pietra sacrificale e gli tiene la testa abbassata così cheporga il collo al coltello. Isacco dunque non “cade”, come scrisse con unfraintendimento il Bellori (1672, ed. 1976, p. 224): ma certo “grida”, con la golaturgida, la bocca spalancata e sghemba, gli occhi senza lacrime scuri sotto un cipigliodi bambino incredulo. L’angelo compie in simultanea i gesti che esprimono il nuovoduplice ordine divino, poiché afferra il polso di Abramo bloccando la traiettoria delcoltello levato in aria e indica il montone da sacrificare, che affaccia il muso mite sulladestra. Con lo sguardo intento e con la bocca schiusa il messaggero celeste trasmettel’urgenza ad Abramo, che sentendosi fermato lo interroga con gli occhi, ridotti a cupefessure sotto la fronte calva corrugata da un dolore che non si è ancora mutato insperanza, né tanto meno in sollievo.

Il Sacrificio degli Uffizi è tra i non molti quadri del Caravaggio ambientati inun vasto scenario di paesaggio, aperto sulla destra di un tronco che proietta sul cielorami e fronde in controluce. La veduta pacifica mostra in valle un fiume, che lepennellate bionde suggeriscono indorato dalla luce crepuscolare o semplicementefangoso, con quell’oscillazione tra la nobiltà dell’oro e la ferialità del limo che rende

Sacrificio di Isacco, 1603Olio su tela, 104 ✕ 135 cmFirenze, Galleria degli Uffizi

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ambigua l’interpretazione dell’aggettivo flavus applicato da Virgilio al corso delTevere. Contro l’azzurra montagna sullo sfondo, poggi e balze ospitano casolari lungosentieri, forse un ponte, una sorta di monastero fortificato in alto, figurette lontane; unbreve filare in fuga di cipressi introduce una nota toscana. Alla luce radiosa sigiustappone in alto un velario grigio-azzurro di nubi (del tipo nembostrato, a volerclassificare), tempestoso ma in via di schiarita.

È, questo brano pittorico, di quelli che per il Caravaggio rendono inevitabile ilriaffacciarsi della dibattuta questione del rapporto con la pittura veneziana, che ricorrenella letteratura dal celebre motto ascritto dal Baglione a Federico Zuccari di fronte allaVocazione di San Matteo nella cappella Contarelli – “… io non ci vedo altro, che ilpensiero di Giorgione…” – fino all’assunto, sotteso alla mostra “Le ceneri violette”, cheesista un ponte Giorgione-Caravaggio avente un punto di forza in Savoldo (Sgarbi, in Leceneri violette... 2004). E del resto, già dal 1929 Roberto Longhi aveva visto del

savoldesco proprio nel “paese” di questo Sacrificio, ch’eglidatava agli anni novanta. Ma nel proseguire e approfondire iltenace impegno critico longhiano di ricondurre la formazionedel Caravaggio ai precedenti lombardi, pure non si è intesosottostimare il ruolo di capolavori veneziani in terrafermaquale il polittico Averoldi di Tiziano a Brescia, che quirammento proprio per il cielo corrusco solcato di nubi.

Nel primo piano, schermato dalla cortina cupa deitronchi (scuriti dall’alterazione dei verdi), la calda cromiava dal carnicino degli ignudi al terracotta e rosso delle vestidi Abramo, donde riverberi rosei salgono a scaldare la pelledell’angelo dal profilo “greco” e il volto stesso del padre,mentre il massimo del chiarore naturale si concentra sullaspalluccia angolosa del figlio. “Un fiume di luce scende indiagonale […] dalla spalla alla mano dell’angelo, poi dallaspalla allo zigomo di Isacco” (Filippetti 2005, p. 37). Convariazioni di chiome e velli, sono biondi i ricciolidell’angelo, canuta la barba del patriarca, nera lacapigliatura di Isacco, color mastice il montone.

La pastosità degli incarnati, lisci nei giovani egrinzi nel vecchio, e l’opacità delle lane sono esaltate dallaperspicuità di puntuali osservazioni naturalistiche: lepiumette alla nascita dell’ala, gli orli sfrangiati dellemaniche, il capezzolo di Isacco erto per il freddo, il chiodo

scuro e lucente nel manico ligneo, i solchi ondulati del corno del montone che nel suoavvolgimento tortile, con virtuosismo prospettico, punta verso l’esterno del quadro.La guancia elastica di Isacco cede sotto il pollice dall’unghia nera. E a fronte di tantaacribia sorprende per contrasto l’indistinto perdersi di forma (e, si direbbe, d’ossa)del braccio del fanciullo che, disegnata una curva luminosa simmetrica al crinale dellamanica di Abramo al di qua di un’ansa d’ombra, va come a confondersi insieme alresto del corpo nel gorgo della mortale stretta paterna.

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Il Sacrificio degli Uffizi è tra i non molti quadri delCaravaggio ambientati in un vasto scenario di

paesaggio, aperto sulla destra di un tronco che proiettasul cielo rami e fronde in controluce. La veduta

pacifica mostra in valle un fiume, che le pennellatebionde suggeriscono indorato dalla luce crepuscolare o

semplicemente fangoso, con quell’oscillazione tra lanobiltà dell’oro e la ferialità del limo che rendeambigua l’interpretazione dell’aggettivo flavus

applicato da Virgilio al corso del Tevere. Control’azzurra montagna sullo sfondo, poggi e balze

ospitano casolari lungo sentieri, forse un ponte, unasorta di monastero fortificato in alto, figurette

lontane; un breve filare in fuga di cipressi introduceuna nota toscana. Alla luce radiosa si giustappone in

alto un velario grigio-azzurro di nubi (del tiponembostrato, a voler classificare), tempestoso

ma in via di schiarita.

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Si è proposto che un medesimo modello abbiaposato per l’angelo e per Isacco; ma – anche a sorvolare suicapelli – il naso fine del primo mi pare diverso da quello delsecondo, che ha setto grossolano e accenno di gibbosità.Per Isacco, è credibile che sia il ragazzo dell’Amorevincitore, dell’angelo nella prima Conversione di Saulo e delSan Giovannino capitolino, con una possibileidentificazione con Francesco Buoneri, cioè Cecco delCaravaggio, garzone adolescente forse di famigliabergamasca e poi grande pittore (Papi 2001). Quantoall’anziano, convince la somiglianza di tratti e di vesti con ilsecondo San Matteo Contarelli.

Nella gestualità violenta, la critica ha sottolineatol’impeto di un crudo naturalismo, che non mancò di

riaffacciarsi in quadri d’ispirazione caravaggesca: ne è esempio la stretta della manosul polso nel Marte che punisce Amore di Bartolomeo Manfredi a Chicago (Gregori1987, p. 19) e nel Cristo coronato di spine di Orazio Gentileschi a Braunschweig. Èdello stesso Gentileschi un’intensa riedizione della presa brutale che affonda nel visoed espone il collo indifeso nel Cristo deriso Matthiesen (in Christiansen, Mann 2001,n. 49). Quanto all’urlo di Isacco, è fin ovvio inserirlo nell’antologia di volti atterritiquali Medusa, Golia, san Giovanni decollato e altri (Vaughan 2003). Si deveall’approfondita esegesi di Marco Gallo (1996) la riconduzione dell’iconografia altema della “satisfactio” trattato nella Patristica, e quindi a una molteplice letturasimbolica in cui Isacco urlante sarebbe l’umanità peccatrice che il Padre sta perpunire, ma che grazie alla parte divina di Cristo (l’angelo) viene salvata, per lasciareche sia la parte mortale di Cristo stesso (il montone) a espiare.

E a proposito di iconografie innovative, non si può omettere che, in seno a unvivace dibattito, si è associato al Sacrificio il cosiddetto San Giovannino capitolino,fanciullo nudo reclino sulle vesti che abbraccia ridente un montone. Che si tratti diIsacco, grato all’animale salvatore, è ipotesi suggestiva (Barroero 1997; Papa 1998;Rudolph, Ostrow 2001), ricusata però da più parti, ultimamente da von Rosen (2007)e Whitfield (2007a, come pastore Coridone).

Infine: come leggere nell’urlo di Isacco un “atto di dissenso” inedito (Marini2001, p. 481), se da due secoli era visibile una scena con tratti assai simili nellaformella bronzea del Brunelleschi per il concorso delle porte del battistero fiorentinodel 1401 che, donata a Cosimo de’ Medici, stava all’altare della sagrestia Vecchia inSan Lorenzo? Anche qui Isacco si ribella con un grido, afferrato per il collo daAbramo, al quale l’angelo stringe il polso. E verrebbe da entrare nella questione, postada Battisti e da Gregori e magistralmente sviluppata da Berti (2005), se il Caravaggiofosse passato per Firenze, aggiungendo agli indizi noti questo riflesso brunelleschianoe, perché no, l’urlo nero di Eva cacciata di Masaccio al Carmine… Ma non mancheràl’occasione per tornare altrove sull’argomento.

L’angelo compie in simultanea i gesti che esprimono ilnuovo duplice ordine divino, poiché afferra il polso diAbramo bloccando la traiettoria del coltello levato in

aria e indica il montone da sacrificare, che affaccia il muso mite sulla destra.

Con lo sguardo intento e con la bocca schiusa ilmessaggero celeste trasmette l’urgenza ad Abramo,

che sentendosi fermato lo interroga con gli occhi,ridotti a cupe fessure sotto la fronte calva corrugata

da un dolore che non si è ancora mutato insperanza, né tanto meno in sollievo.

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