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Prof. Monti – Filosofia III scienze applicate – Aristotele – parte prima – a.s. 2016/2017 1 ARISTOTELE - PARTE PRIMA - 1. LA VITA Aristotele nacque a Stagira, una piccola città del nord della Grecia, situata ai confini con la Macedonia, nel 384/83 ac. Figlio di Nicomaco – che fu medico di corte di Aminta, padre di Filippo II e nonno di Alessandro Magno – nel corso della sua infanzia ebbe forse modo di frequentare la corte di Macedonia: è del resto certo che per tutta la vita tenne contatti essa . Dopo essere rimasto orfano, all’età di diciassette anni (nel 367/66 ac), Aristotele si recò ad Atene per diventare scolaro dell’Accademia di Platone. Rimarrà affiliato a questa istituzione per circa vent’anni, sino alla morte di Platone. Qui Aristotele scrisse le sue prime opere imitando lo stile del maestro , cioè la forma dialogica, oppure utilizzando una esposizione continuata (lo stile tipico delle lezioni orali). Platone si rese immediatamente conto delle straordinarie capacità di questo giovane allievo , invitandolo ben presto, nonostante la giovanissima età, a partecipare alle discussioni più impegnative e difficili in seno all’Accademia. Alla morte di Platone – avvenuta nel 348/347 ac – forse a causa di un conflitto con Speusippo relativo a chi dovesse succedere al venerato maestro nella direzione dell’Accademia, Aristotele lasciò Atene e si recò nella città di Asso, dove grazie alla protezione del tiranno di Atarneo, Ermia (della quale sposa anche la figlia, Pitia) fondò una sua scuola insieme ad alcuni platonici. Qui conobbe anche Teofrasto, che gli succederà dopo la morte, e con lui compì ampi studi di tipo naturalistico. Nel 342 ac Filippo II chiamò Aristotele alla corte di Macedonia allo scopo di istruire il figlio Alessandro. Nel 338 ac, con la vittoria di Cheronea, Filippo II impose il suo dominio sulla Grecia . Aristotele tornò ad Atene nel 335 ac dove fondò la sua celebre scuola, il Liceo Peripatetico (“Liceo” perché vicina al tempio di Apollo Licio; “peripatetico”, da peripatos, passeggiata, visto che Aristotele soleva insegnare passeggiando). Questa scuola ebbe caratteristiche assai differenti rispetto all’Accademia di Platone. Fra i suoi membri non ci fu, infatti, un’unità di tipo religioso o politico . (anche se, come vedremo, l’influenza di Aristotele fu enorme anche in matematica!). È probabilmente in questo periodo, quello dell’insegnamento presso il Liceo, che Aristotele compose le opere che di lui sono state conservate sino ad oggi, opere che il maestro intendeva come riservate solo per un uso interno alla scuola. Nel 323, improvvisamente, Alessandro Magno morì e in Atene subito vi fu una ripresa del malcontento anti-macedone. Aristotele, che tutti conoscevano anche come amico di corte macedone, venne accusato di empietà e si ritirò a Calcide in Eubea, patria della madre, dove morì nel 322 ac, a 62 anni di età. In tutta l’opera di Aristotele si può rilevare un forte rapporto con Platone. È, però, altrettanto vero che egli si distaccò nettamente dal maestro.

11 - ARISTOTELE scienze applicate - prima parte · la Macedonia, nel 384/83 ac. Figlio di Nicomaco – che fu medico di corte di Aminta, ... Le opere di Aristotele sono state divise

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Prof. Monti – Filosofia III scienze applicate – Aristotele – parte prima – a.s. 2016/2017

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ARISTOTELE - PARTE PRIMA -

1. LA VITA

Aristotele nacque a Stagira, una piccola città del nord della Grecia, situata ai confini con la Macedonia, nel 384/83 ac. Figlio di Nicomaco – che fu medico di corte di Aminta, padre di Filippo II e nonno di Alessandro Magno – nel corso della sua infanzia ebbe forse modo di frequentare la corte di Macedonia: è del resto certo che per tutta la vita tenne contatti essa. Dopo essere rimasto orfano, all’età di diciassette anni (nel 367/66 ac), Aristotele si recò ad Atene per diventare scolaro dell’Accademia di Platone. Rimarrà affiliato a questa istituzione per circa vent’anni, sino alla morte di Platone. Qui Aristotele scrisse le sue prime opere imitando lo stile del maestro, cioè la forma dialogica, oppure utilizzando una esposizione continuata (lo stile tipico delle lezioni orali). Platone si rese immediatamente conto delle straordinarie capacità di questo giovane allievo, invitandolo ben presto, nonostante la giovanissima età, a partecipare alle discussioni più impegnative e difficili in seno all’Accademia. Alla morte di Platone – avvenuta nel 348/347 ac – forse a causa di un conflitto con Speusippo relativo a chi dovesse succedere al venerato maestro nella direzione dell’Accademia, Aristotele lasciò Atene e si recò nella città di Asso, dove grazie alla protezione del tiranno di Atarneo, Ermia (della quale sposa anche la figlia, Pitia) fondò una sua scuola insieme ad alcuni platonici. Qui conobbe anche Teofrasto, che gli succederà dopo la morte, e con lui compì ampi studi di tipo naturalistico. Nel 342 ac Filippo II chiamò Aristotele alla corte di Macedonia allo scopo di istruire il figlio Alessandro. Nel 338 ac, con la vittoria di Cheronea, Filippo II impose il suo dominio sulla Grecia. Aristotele tornò ad Atene nel 335 ac dove fondò la sua celebre scuola, il Liceo Peripatetico (“Liceo” perché vicina al tempio di Apollo Licio; “peripatetico”, da peripatos, passeggiata, visto che Aristotele soleva insegnare passeggiando). Questa scuola ebbe caratteristiche assai differenti rispetto all’Accademia di Platone.

Fra i suoi membri non ci fu, infatti, un’unità di tipo religioso o politico. (anche se, come vedremo, l’influenza di Aristotele fu enorme anche in matematica!).

È probabilmente in questo periodo, quello dell’insegnamento presso il Liceo, che Aristotele compose le opere che di lui sono state conservate sino ad oggi, opere che il maestro intendeva come riservate solo per un uso interno alla scuola. Nel 323, improvvisamente, Alessandro Magno morì e in Atene subito vi fu una ripresa del malcontento anti-macedone. Aristotele, che tutti conoscevano anche come amico di corte macedone, venne accusato di empietà e si ritirò a Calcide in Eubea, patria della madre, dove morì nel 322 ac, a 62 anni di età. In tutta l’opera di Aristotele si può rilevare un forte rapporto con Platone. È, però, altrettanto vero che egli si distaccò nettamente dal maestro.

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Illuminante, a questo riguardo, può essere la differente posizione che i due avevano in relazione alla sapienza, all’insegnamento e quindi alla scuola. Platone era un cittadino di Atene e aveva fondato l’Accademia perché insoddisfatto della politica: con la sua scuola è appunto la politica che voleva rifondare. Il binomio sapienza-bene giustificava, per Platone, la teoria dei filosofi al potere. Se è vero che anche per Aristotele la sapienza è il massimo valore umano, va però detto che il suo essere cittadino (seppure egli non sarà mai cittadino di Atene) non acquistò mai queste così forti implicazioni e doveri morali. Per Aristotele la scuola sarà un luogo dove acquisire sì la sapienza, ma questa non necessariamente doveva essere impiegata per fini socio-politici. Essa, invece, aveva in sé stessa il proprio valore.

2. LE OPERE Le opere di Aristotele sono state divise dalla tradizione in due diverse tipologie. -1- Le cosiddette OPERE ESSOTERICHE, ossia “rivolte verso l’esterno”, erano pubblicazioni rivolte al grande pubblico (come potrebbe essere, oggi, un saggio divulgativo scritto da uno scienziato) ed erano assai rifinite dal punto di vista letterario, tali da essere paragonate ai dialoghi platonici. -2- Ci sono, poi, le cosiddette OPERE ESOTERICHE, ossia “dirette verso l’interno”, dette anche ACROAMATICHE. Questi testi circolavano solo all’interno del Liceo e, molto probabilmente, erano i testi sulla base dei quali Aristotele teneva lezione. Egli riprendeva questi testi nel corso degli anni, anche a distanza di molto tempo, aggiungendo delle nuove parti. Queste opere, dunque, non hanno il carattere di finitezza e precisione delle altre e, in effetti, per lungo tempo non circolarono affatto: potremmo quasi paragonarle ad “appunti”. Dopo la morte di Aristotele la sua fama fu per molto tempo legata solo alle opere essoteriche, mentre le altre rimasero, del tutto dimenticate, chiuse in una cantina. Oltre due secoli dopo la morte del filosofo, i suoi manoscritti vennero ritrovati per caso e, successivamente, furono portati a Roma. Ivi Andronico di Rodi, intuendo l’enorme valore di questi testi, ne preparò una edizione ordinata per la pubblicazione, che avvenne attorno alla prima metà del I secolo ac. Da questo momento in poi furono le opere del primo gruppo, le essoteriche, a cadere nel dimenticatoio e ad andare quasi del tutto perdute (se ne conservano, oggi, solo frammenti). Bisogna, in considerazione di questa complessa vicenda, tenere presente che le opere di Aristotele, come noi oggi le possiamo leggere, ci giungono in un’edizione risalente a trecento anni dopo la morte dell’autore! Andronico, poi, non si limitò a pubblicare il materiale di cui era venuto in possesso così come esso gli si presentava, ma cercò di dare unitarietà e consequenzialità agli scritti, operò quindi un ordinamento non presente in Aristotele stesso. È comunque certo, conviene ripeterlo ancora, che Aristotele non considerò mai questi scritti come opere ultimate e pronte per la pubblicazione. Essi ebbero per lui il valore di bozze, sempre in via di modifica e approfondimento, utili per le lezioni orali. Vediamo, comunque, quale fu l’ordine che Andronico diede alle opere a lui pervenute, ordine rimasto a tutt’oggi canonico.

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Vi sono innanzitutto le cosiddette OPERE DI LOGICA: Categorie, De Interpretatione, Analitici Primi, Analitici Secondi, Topici, Confutazioni Sofistiche. Questi differenti testi vennero raccolti sotto il titolo di Organon (“strumento”). OPERE DI FILOSOFIA E SCIENZA DELLA NATURA: Fisica, De Caelo, De generatione et corruptione, Meteorologia, De Anima, Parva naturalia, Historia animalium, De partibus animalium, De incessu animalium (locomozione degli animali), De generatione animalium, De motu animalium. C’è, poi, la METAFISICA, il più lungo e discusso testo di Aristotele, certamente uno dei più importanti libri di tutta la cultura dell’Occidente. Il titolo “Metafisica”, si noti bene, non è originale, ma appartiene ad Andronico. Il “dopo” (meta) può essere riferito sia all’ordine delle opere, sia all’ordine degli oggetti di indagine. Aristotele designava il livello dei suoi discorsi metafisici con l’espressione filosofia prima. Ci sono, poi, un gruppo di OPERE DI FILOSOFIA MORALE E POLITICA: Etica Nicomachea, Etica Eudemea, Politica, Costituzione degli Ateniesi. Seguono, infine, la Retorica e la Poetica.

3. ARISTOTELE VERSUS PLATONE Già nel testo essoterico Sulle Idee (composto all’incirca nel 360 ac), il giovanissimo Aristotele portò delle obiezioni alla teoria platonica delle Idee. Le Idee non possono essere separate, trascendenti rispetto alle cose, ma sono invece immanenti alle cose (cioè stanno dentro alle cose) come loro causa formale.

DEFINIZIONE Il termine trascendenza (trans + scandere = oltre + salire), è antitetico al concetto di immanenza (in + manere = dentro + restare), indica in filosofia e in teologia il carattere di una realtà concepita come “ulteriore”, situata “al di là”, “oltre” questo mondo fisico, in una visione che potremmo definire dualistica.

Aristotele afferma, senza mezzi termini e direttamente contro il suo maestro, che le Idee, come enti separati, non esistono. Esse erano nate in Platone a partire dall’esigenza di garantire la stabilità (verità e falsità in senso forte) di quanto affermiamo. Lo sappiamo: secondo Platone, essendo il mondo sensibile eternamente mutevole, non c’è certezza che le nostre predicazioni si riferiscano correttamente ad esso: da ciò egli trasse la convinzione che le nostre affermazioni, per essere “scientifiche”, debbano avere per oggetto una realtà separata ed immutabile (“trascendente”, appunto!): il mondo delle Idee. Le cose sensibili, poi, parteciperebbero (metessi) delle Idee, derivando da esse. Ora, l’esigenza teorica di fondare saldamente il sapere è del tutto valida anche per Aristotele. Egli però dice che, nelle cose, dentro le cose, vi sono più proprietà comuni a molte: sono queste proprietà che costituiscono l’oggetto dei predicati, esse sono dentro le cose e non si danno senza di esse.

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Queste “proprietà comuni” sono i cosiddetti UNIVERSALI, ovvero quelle caratteristiche che si predicano di più cose e che i più accettano per valide. Gli universali si trovano nelle cose fisiche concrete, né esisterebbero senza di esse. Si noti inoltre, cosa importantissima, che le Idee platoniche erano anche paradigmi, modelli delle cose fisiche, mentre gli universali costituiscono solo aspetti parziali, caratteri specifici delle cose. Le Idee dunque, per Aristotele, sono completamente da rifiutare. Non solo mancano il loro obiettivo, moltiplicando enormemente il numero degli enti esistenti, ma non si capisce mai in che modo esse partecipino delle cose sensibili, e addirittura conducono a contraddizioni. Per esempio, anche una predicazione come “l'essere mortale” dovrà avere come elemento fondante un’Idea, ma le Idee non sono tutte immortali ed immutabili? Centrale nella dottrina aristotelica è la TEORIA DELLE CATEGORIE, cioè dei generi di predicazione. A questo riguardo è fondamentale, innanzitutto, comprendere la base di partenza della riflessione aristotelica. Lo scopo, come ormai sappiamo bene, è trovare un modo per descrivere il mondo in modo vero. Bene: per fare questo da sempre gli uomini usano il linguaggio e, in particolare, il linguaggio verbale, cioè fatto di parole. Ma come è possibile questo? Ecco che, ragiona Aristotele, la struttura del linguaggio di fatto riproduce quella del mondo reale. Diciamo meglio: a quello che grammaticalmente è il “soggetto” di una proposizione corrisponde sempre ciò che, fisicamente, è un “oggetto”, o “cosa”, di un qualunque tipo (esempio: alla parola “Socrate”, intesa come soggetto di una frase, corrisponde Socrate in carne ed ossa!). A quello che grammaticalmente è il “predicato” di una proposizione, corrisponderà sempre ciò che chiamiamo “caratteristica” o “proprietà” della cosa di cui stiamo parlando (al predicato “è sapiente” corrisponde ciò che chiamiamo proprietà, in questo caso una caratteristica posseduta da Socrate!). Se è vero che al soggetto corrisponde – di solito, anche se non sempre – qualcosa di “singolare”, al predicato corrisponde – anche se non sempre – qualcosa di “astratto” o “generale” o, appunto come dice Aristotele, “universale”. Riassumendo: esistono “cose fisiche”, “materiali”, che possiedono delle “proprietà”, o “caratteristiche”. Le prime sono ognuna singolare, le seconde sono generali, o astratte: si applicano cioè a più cose fra loro diverse! Ecco che la “relazione fisica” “oggetto” “proprietà” dà origine alla “affermazione linguistica” che descrive quella relazione: “soggetto” “predicato”. Esiste Socrate, come essere fisico, ed ha delle caratteristiche ben precise. L’uomo coglie questa verità tramite il linguaggio e può farlo perché il linguaggio riproduce la struttura del reale. Così accade che, del soggetto “Socrate”, possiamo predicare che è “uomo”, ma anche che è “mammifero”, “animale”, “sapiente”, “brutto”...

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MONDO REALE LINGUAGGIO COSE SOGGETTO + + PROPRIETÀ PREDICATO

Il mondo fisico è infinitamente vario e molteplice: ecco che infinite sono le possibili predicazioni, così come sono infiniti i possibili soggetti di predicazione, ma questo non costituisce un problema: se paragoniamo le varie predicazioni fra loro, infatti, ci accorgiamo che alcune di esse sono correlate. Per esempio, le predicazioni “uomo”, “mammifero” e “animale” presentano fra loro un nesso evidente. Possiamo dire che la predicazione ‘uomo’, infatti, sta all’interno, come caso particolare, della predicazione ‘mammifero’, e che questa è un’articolazione interna alla predicazione ‘animale’. Per contro, se confrontiamo ‘uomo’ e ‘colorato’, vediamo come le due predicazioni non siano in alcun modo inscrivibili l’una nell’altra. Perché questo avviene? Così come i soggetti, le predicazioni sono infinite, ma le domande che generano tali predicazioni non lo sono, e sono anzi riducibili ad un numero limitato. Così le predicazioni “uomo”, “mammifero”, “animale”, ecc. rispondono tutte, con sempre maggior precisione, alla domanda “che cos’è?” “Colorato” e “rosso”, invece, rispondono ad una domanda circa la qualità del soggetto. Altre risponderanno in relazione alla quantità, e via dicendo. Ora, i vari predicati, secondo quanto visto, si possono disporre in colonne distinte, ognuna delle quali risponde ad una ben specifica ed irriducibile domanda. Le categorie sono i generi più ampi, quindi le predicazioni più ampie che rispondono a queste domande. Alla domanda “che cos’è?” corrisponde la categoria di sostanza, a “quale?” risponde la qualità, a “quanto?” la quantità, a “dove?” il luogo, a “quando?” il tempo, a “in che relazione?” la relazione, e le altre quattro sono l’agire, il subire, lo stare e l’avere.

ELENCO DELLE CATEGORIE

SOSTANZA QUALITÀ

QUANTITÀ LUOGO TEMPO

RELAZIONE AGIRE

SUBIRE STARE AVERE

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Ritorniamo al discorso su soggetto e predicato, considerando la categoria di sostanza: “I mammiferi sono animali” e “L’uomo è un mammifero”. Nelle due proposizioni vediamo che, scendendo dal generale al particolare, "mammifero" prima è soggetto e poi predicato. Questo vale per ogni predicazione, ma, ad un certo punto, arriveremo ad un soggetto che non può più fungere da predicato: “Socrate è un uomo”. È facile capire come "Socrate" non possa fungere da predicato per un soggetto ancora minore. Capiamo, dunque, che tutte le predicazioni, dalla più ampia alla più ristretta, vanno ad applicarsi ad un soggetto individuale, una cosa esistente. Queste cose sono dette sostanze prime, tutte le altre sono sostanze seconde. Ora, riproponendo la stessa operazione con le altre categorie abbiamo che l’ultimo termine esce dalle categorie stesse, essendo un altro oggetto singolo, una sostanza prima. I soggetti ultimi per tutte le categorie sono dunque sostanze prime. È importante sottolineare come la struttura linguistica ora accennata, quella soggetto-predicato, ha una precisa correlazione nella realtà. Le sostanze prime infatti, come detto, sono le singole cose, mentre le varie predicazioni sono le proprietà di queste cose. Senza la struttura soggetto-predicato, cioè quella struttura che termina su una cosa, non potremmo dire alcunché. Fondamentale è anche il concetto di accidente. Sono accidentali tutte quelle predicazioni che non mutano la sostanza, il loro soggetto. “Socrate è all’ombra” e “Socrate è colto”. È evidente che Socrate rimarrebbe tale, cioè rimarrebbe sempre se stesso, anche se non fosse ‘colto’ o non si trovasse ‘all’ombra’. Si noti come anche gli accidenti abbiano gradi: ‘colto’ si predica solo degli uomini, ‘all’ombra’ no. Torniamo alla "contrapposizione" Platone-Aristotele. Possiamo dire che per Platone "l’essere uomo" e "l’essere bianco" venivano prima degli uomini esistenti e delle cose bianche esistenti, anzi, queste erano tali solo per partecipazione alle Idee di uomo e di bianco. Per Aristotele invece vale l’opposto: le categorie "uomo" e "bianco", senza i singoli uomini e senza le singole cose bianche non avrebbero alcuna esistenza (e questo è più o meno quanto noi, ancora oggi, pensiamo!). Sia anche detto che per Aristotele non ci può essere una categoria così ampia da comprendere tutte le possibili predicazioni, ovvero tutte le altre categorie. Il candidato sarebbe l’essere ma, dice Aristotele, l’essere non è una categoria. Le categorie, infatti, hanno il compito di operare una separazione, una distinzione, ma l’essere non distingue nulla! L’essere è, caso mai, il presupposto implicito di ogni predicazione. Se, per esempio, dico: “Quel gatto è bianco” l’esistenza del gatto sta, implicitamente, alla base della mia predicazione! Se l’Essere fosse la categoria somma, poi, ci sarebbe un problema: da una parte ci sarebbe appunto l’Essere, con tutte le sue articolazioni, divisioni interne, ed esso sarebbe dunque alla massima distanza dalle cose singole. Dall’altra ci sarebbero le cose, dove queste predicazioni sono ricongiunte in un modo che non risulta spiegabile senza introdurre qualche altro elemento. L’Essere è invece per Aristotele il predicato che si predica (implicitamente o esplicitamente) di tutte le cose di cui si predica qualcosa. Esso dunque è alla massima prossimità con le cose. La scienza dunque, studiando le cose, studia automaticamente l’Essere.

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4. LA CONCEZIONE GENERALE DEL SAPERE SENSAZIONE, RICORDO, ESPERIENZA, ARTE, SCIENZA Caratterisica fondamentale dell'uomo, ma non solo, è la "conoscenza", il "sapere". Bene: qual è il tragitto che l'uomo percorre per giungere alla conoscenza? Una parte di questo percorso, in effetti, è comune anche agli animali e, forse, a tutti gli esseri viventi. La base, la condizione assolutamente necessaria perché si giunga alla conoscenza è per Aristotele la sensazione, senza la quale nulla potremmo sapere. Le creature dotate di memoria poi, cioè quelle che possono ricordare la sensazione provata, procedono oltre. Molti ricordi analoghi infatti producono l’esperienza di una cosa (empeiria). L’esperienza è l’insieme, anzi la scoperta dei tratti che identificano la cosa percepita e che nel contempo la differenziano da tutte le altre cose. Tali aspetti comuni e distintivi sono proprio quelli che entrano nelle proposizioni e che ci permettono di articolare in un linguaggio tutti i nostri discorsi. È dunque evidente che, per quanto i nostri discorsi possano venire malamente impostati, essi dovranno per forza aderire con le cose, con la realtà, perché è da essa che direttamente prendono origine. Il discorso, poi, permette l’elaborazione e la trasmissione di un sapere. I fenomeni sono per Aristotele sia i dati raccolti direttamente tramite la sensazione e l’esperienza, sia i nostri discorsi che dicono tale esperienza. I nostri discorsi però ancora non sono sapere scientifico. Questo si ha quando dai discorsi, dall’esperienza, emergono le cause delle nostre esperienze. Facciamo un semplice esempio: ho esperienza del fuoco quando so che questo brucia e scotta; ne ho scienza quando so anche il perché brucia e scotta! Tra i vari perché, cioè tra le varie teorie, dovrò poi saper scegliere quali siano quelle corrette. Lo saranno quelle, ancora una volta, che si dimostreranno aderenti alle cose esperite, alla realtà fisica. Così, per esempio, l’Essere di Parmenide andrà rifiutato proprio perché contraddice ai nostri sensi e alla nostra esperienza. Si noti come il sapere e la scienza moderna siano abbastanza diversi da quelli aristotelici. Lo scienziato odierno mette da parte sia le esperienze comuni che il comune linguaggio. Diversamente, egli elabora dei linguaggi artificiali e sostituiamo le semplici esperienze tramite procedure guidate e sofisticate: non più esperienza, ma esperimento! Ecco che il linguaggio, la convinzione comune, non è più aderenza al vero, ma fonte di confusione.

5. UNITÀ E ARTICOLAZIONE DELLE SCIENZE Il sapere aristotelico si articola in settori distinti, ma ha un’unità di tipo enciclopedico, il che significa che i vari saperi vengono coordinati in una struttura unitaria. Questa articolazione già si comprende pensando alle categorie. Per esempio, la biologia sarà quella scienza che si occupa di tutte le cose che ricadono sotto la predicazione, il genere di ‘animale’. La botanica si occuperà, invece, del genere ‘piante’. Le matematiche si occupano della categoria di ‘quantità’. Ciascuna scienza ha, comunque, principi suoi propri, non derivabili né dipendenti in modo stretto da quelli di un’altra scienza. Questa presa di posizione aristotelica rispecchia una situazione ormai evidente nel IV secolo, quando si cominciava a capire che le varie scienze avevano una certa autonomia l’una rispetto all’altra. Nel Timeo Platone aveva compiuto un estremo sforzo di riunificazione del sapere, cosa che Aristotele rifiuta. - Aristotele, in particolare, articola i diversi saperi in questo modo: ci sono discipline poietiche, pratiche e teoretiche.

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1) Le discipline poietiche, anche dette produttive, sono quelle atte alla produzione materiale di qualcosa: un semplice tavolo, una nave, un'automobile... Esse sono saperi nel senso che richiedono la conoscenza di determinati procedimenti, ma non sono scienze, perché hanno carattere fondamentalmente empirico, non necessitando della conoscenza delle cause. A questa categoria appartengono tutte le attività manuali, per esempio tutti i lavori artigianali, ma, in senso lato, anche molte attività che, all'epoca di Aristotele, ancora non esistevano, come i lavori di tipo impiegatizio. 2) Le discipline che Aristotele chiamò pratiche, invece, sono quelle che mirano alla regolazione dei comportamenti e dell’agire dell’uomo, come la politica. Fate attenzione, quindi, al fatto che Aristotele dà al termine "pratico" un significato differente da quello che gli attribuiamo noi! Queste attività non sono ancora definibili come rigorosamente scientifiche, data l’estrema variabilità ed imprevedibilità dei comportamenti dell’uomo. Ancora nell'800, come avrete modo di vedere, ci saranno autori della medesima opinione. 3) Le discipline teoretiche, infine, sono quelle fatte di pura contemplazione, cioè osservazione (theòria): esse conoscono il loro oggetto per via, appunto, osservativa e sfuggono del tutto alla logica dell’utilità in senso materiale. Le discipline teoretiche sono, internamente, articolate su tre livelli distinti: le discipline fisico-naturalistiche, quelle matematiche, la teologia o filosofia prima. Parleremo, più oltre, sia delle discipline fisiche che della teologia. Limitiamoci ora a qualche brevissimo cenno sulla matematica: questa scienza si occupa, come già abbiamo detto, degli aspetti quantitativi (e, in quanto tali, misurabili attraverso i numeri) delle cose, ovvero della categoria di quantità. È importante dire che per Aristotele gli enti matematici - pensiamo ai numeri, ma anche alle figure geometriche - non hanno un’esistenza propria (come, invece, riteneva Platone e, prima di lui, Pitagora), ma sussistono solo come proprietà di sostanze prime. Sono appunto le matematiche che, nel loro studio, astraggono (cioè "tirano fuori", "separano") queste caratteristiche e se ne occupano separatamente da tutte le altre. Se dunque la matematica e la geometria possono risultare utili, per esempio, allo scopo di descrivere il movimento di stelle e dei pianeti, oppure per misurare un terreno, questo non significa che esse esauriscano la trattazione di tali argomenti: tali scienze, infatti, si occupano solo di alcuni aspetti, quelli matematici appunto, di tali enti. Non dovrebbe sfuggire che tale considerazione della matematica e del suo ruolo è, in linea di massima, uguale a quella che ancora oggi noi abbiamo.

6. L'ORGANON: LA LOGICA E LA DIALETTICA Nell’ordine canonico stabilito da Andronico da Rodi, il primo gruppo delle opere aristoteliche si occupa di studiare il linguaggio e i discorsi: il logos. Questo gruppo di opere ha assunto il nome (non aristotelico) di Organon (che significa “strumento”). In effetti, secondo l’articolazione di Aristotele queste discipline non sono di tipo strettamente teoretico, non andando direttamente a indagare gli oggetti della realtà. Esse si occupano, piuttosto, degli strumenti (da qui il nome di organon) attraverso i quali ci occupiamo di studiare la realtà. Poiché la maggior parte delle opere dell’Organon trattano di logica, spesso si dice che Aristotele considera la logica lo strumento conoscitivo della realtà, cosa che sappiamo non

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essere vera. Noi, di fatto, a parere Aristotele elaboriamo le nostre conoscenze attraverso i sensi e l’intelletto, mentre il linguaggio, e quindi la logica, costituiscono un mezzo di esposizione ed articolazione delle conoscenze. Quella che noi oggi chiamiamo “logica”, fra l'altro, Aristotele la chiamava con il termine “analitica” (la parola “analisi” significa “scomporre”, “risolvere”, ecc.). Pensate, per esempio, alla grammatica: analizzare una proposizione (o un periodo), in effetti, significa scomporla negli elementi semplici dai quali questa è composta. Le proposizioni sono fatte di termini, e la verità o falsità delle proposizioni dipende da come questi termini sono correlati fra loro. La proposizione sarà vera se i termini congiungono ciò che davvero è congiunto, diversamente sarà falsa. Ora, non tutte le proposizioni sono passibili di un giudizio di verità. Delle preghiere, delle domande, non possiamo certo dire se siano vere o false, la cosa non avrebbe alcun senso! Ci occupiamo, quindi, delle sole proposizioni assertorie. All’interno di queste, possiamo operare una duplice distinzione: universale/particolare affermativa/negativa. Avremo dunque quattro tipi di proposizioni assertorie: l’universale affermativa (per esempio: “tutti gli uomini sono mortali”), l’universale negativa (“nessun uomo è mortale”), la particolare affermativa (“qualche uomo è mortale”), la particolare negativa (“qualche uomo non è mortale”). Stabiliti questi concetti preliminari, possiamo andare oltre. Il fondamentale procedimento logico è, per Aristotele, il sillogismo (oggi lo chiamiamo deduzione, ma anche la parola "sillogismo" è ancora usata!). In generale, un sillogismo è il processo di ragionamento per cui da certe asserzioni, dette premesse, si trae logicamente o necessariamente una conclusione. Perché a partire da delle premesse si giunga a una conclusione, i termini coinvolti nelle proposizioni debbono assumere forme definite, intrattenendo delle precise relazioni reciproche. Proponiamo qui un banale esempio di sillogismo: premessa 1: Tutti gli uomini sono mortali premessa 2: Tutti i greci sono uomini quindi...

conclusione: Tutti i greci sono mortali La premessa 1 è detta “premessa maggiore” (perché contiene il predicato della conclusione), la premessa 2 è detta “premessa minore” (perché contiene il soggetto della conclusione). La parola “Uomini” è il cosiddetto “termine medio” (detto "medio" perché a metà strada fra ‘mortali’ e ‘greci’). L’esempio citato è tratto dalla figura più perfetta di sillogismo, la prima, quella che è composta interamente da asserzioni universali affermative. Sostituendo, nella varie posizioni i vari tipi di asserzioni avremo tutte le altre figure possibili. Un esempio di sillogismo di altro modo potrebbe essere il seguente:

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premessa 1: Tutti gli dèi e i loro discendenti sono immortali premessa 2: Alcuni uomini sono discendenti di dèi quindi...

conclusione: Alcuni uomini sono immortali Nella nostra trattazione non ci soffermiamo nella descrizione di ogni singola figura, cosa che sarebbe un poco noiosa e, forse, poco utile. Mettiamo in evidenza, invece, gli elementi di maggiore interesse. Aristotele è l’inventore di quella branca della matematica che, ancora oggi, si chiama "logica formale" oppure "logica matematica". Cerchiamo di capire cosa si intende con il termine "formale"... Abbiamo visto, anche solo considerando i due esempi sopra indicati, che il sillogismo è una forma di ragionamento. So delle cose - le premesse - e attraverso un ragionamento giungo a scoprire un'altra cosa - la conclusione. Sappiamo molto bene che un ragionamento può essere giusto (corretto), come nei due casi esposti sopra, ma può anche essere sbagliato (scorretto). Facciamo un esempio banale di ragionamento sbagliato: premessa 1: Tutti gli uomini sono mortali premessa 2: Tutti i francesi sono uomini quindi...

conclusione: Tutti i cani sono mammiferi Notate che, in questo terzo esempio, le due premesse e la conclusione sono tutte asserzioni vere. Nonostante ciò, il ragionamento, ovvero il sillogismo, è sbagliato. Perché? È molto semplice: le due premesse e la conclusione parlano di cose diverse - uomini e cani - e quindi non ha senso legarle fra loro: dalla verità di queste premesse non si può trarre la verità di questa conclusione! Fra le due premesse e la conclusione non c'è alcun rapporto! Facciamo un altro esempio, volutamente assurdo: premessa 1: Tutti i cavatappi sono animali premessa 2: Tutti i tulipani sono cavatappi quindi...

conclusione: Tutti i tulipani sono animali In questo quarto esempio notiamo che, al contrario del caso precedente, le due premesse e la conclusione sono tutte asserzioni false. Di più: sono asserzioni ridicole, assurde! Nonostante ciò, e questo potrebbe stupirvi, il ragionamento esposto con questo sillogismo è perfettamente corretto!

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Non siete convinti? Allora, per far vedere la cosa più chiaramente, trasformiamo il precedente sillogismo categorico in un sillogismo ipotetico: vedrete che, in questo modo, comprenderete la correttezza del ragionamento! premessa 1: Se tutti i cavatappi fossero animali premessa 2: Se tutti i tulipani fossero cavatappi quindi...

conclusione: Tutti i tulipani sarebbero animali Ammessa, per ipotesi, la verità delle due premesse, la conclusione è corretta! Tutto questo, nel complesso, cosa significa? Aristotele, per primo, si accorse che la verità o falsità delle affermazioni coinvolte nel sillogismo non necessariamente è determinante per la correttezza del sillogismo stesso, cioè del ragionamento. La verità/falsità delle proposizioni (aspetto contenutistico) di per sé non determina la correttezza/ non correttezza del ragionamento (aspetto formale). In altre parole: verità/falsità e correttezza/non correttezza sono cose ben diverse! Spieghiamo meglio: Aristotele considerò l'aspetto formale del ragionamento, cioè la sua forma, in modo del tutto indipendente dallo specifico contenuto del ragionamento stesso. Egli, praticamente, esula dal discorso intorno alla verità o falsità delle proposizioni prese in esame e cerca di capire in quali casi il sillogismo è valido, ovvero permetterà alla conclusione di discendere correttamente dalle premesse. Egli è il primo che, proprio a questo scopo, sostituì a termini dotati di significato e contenuto proprio, ed in relazione ai quali potremmo giudicare della verità, lettere dell’alfabeto intese come variabili, del tutto prive cioè di uno specifico contenuto! Vediamo, dunque, un ultimo esempio chiarificatore! premessa 1: Tutti gli X sono Y premessa 2: Tutti gli Z sono X quindi...

conclusione: Tutti gli Z sono Y Capite che, qualunque sia lo specifico contenuto delle variabili X, Y e Z, questo sillogismo risulterà per forza corretto da un punto di vista formale, cioè per ciò che concerne la sua forma, o struttura! Sulla base della teoria del sillogismo Aristotele elaborò anche la sua teoria della scienza. Quando una disciplina può affermare di essere “scientifica”? Aristotele risponde così: una disciplina è scientifica quando tutti i suoi risultati derivano da una catena inferenziale (o catena di ragionamento) di tipo sillogistico (cioè deduttivo). Insomma: si parte da alcune premesse e da queste si deduce una o più conclusioni. Le conclusioni saranno, poi, premesse di nuove deduzioni e così via...

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C’è a questo riguardo, un’altra questione importante: una catena deduttiva può anche essere lunghissima, certo, ma non può essere infinita! In particolare, essa dovrà per forza avere un punto di inizio. Ciò significa che dovranno esserci delle premesse non dimostrate, cioè che non siano a loro volta conclusioni di un ragionamento. Queste sono poi i principi della scienza in esame. La dimostrazione acquista il suo credito di scientificità, dunque, non solo dal processo sillogistico, ma anche dalla validità dei suoi principi. I principi su cui una scienza si può fondare sono di tre tipi: assiomi, ipotesi e definizioni. 1) Gli Assiomi sono asserzioni comunque vere, senza le quali non potremmo neppure ragionare. Alcuni assiomi, come il principio di non contraddizione, sono valide in qualunque ambito disciplinare; altri, come per esempio “sommando a quantità uguali quantità uguali si ottengono quantità uguali” hanno valore solo in determinate discipline (in questo caso, quelle di carattere quantitativo). Questo secondo tipo di assiomi sono anche chiamati postulati. 2) Le ipotesi sono quelle che, nell’ambito di una determinata disciplina, costituiscono affermazioni di esistenza. Per esempio, la geometria di Euclide assume per ipotesi che esistano della grandezze continue. 3) Ci sono poi le definizioni. Esse stabiliscono il senso dei termini in uso in ciascuna scienza. La geometria, per esempio, definisce con la parola “solido” ciò che è una “grandezza continua tridimensionale”. I principi sono peculiari a ciascuna scienza e ciò vale anche per gli assiomi che hanno validità generale. Anch’essi, infatti, presi all’interno della singola scienza si “specializzano”, andando a significare qualcosa di particolare. Non esiste, quindi, una scienza universale, che tramite principi universali dimostri proposizioni interne a tutte le scienze particolari. Abbiamo detto che alla base delle scienze ci sono i principi. Ma proviamo a rispondere a questa domanda, che sorge abbastanza spontanea: se i principi non vengono dimostrati, come accade invece per tutte le conclusioni scientifiche, come siamo giunti a stabilire la loro validità? Questi principi li conosciamo tramite un'altra forma di ragionamento, quella che viene chiamata induzione. Essa non è niente di nuovo: si tratta semplicemente del processo che abbiamo in precedenza descritto. Dalle sensazioni si passa al ricordo, dal ricordo all’esperienza, e nell’esperienza avviene l’individuazione di tratti identificativi e distintivi delle cose. Facciamo un esempio assai semplice e famoso di induzione: un uomo vede un corvo e nota che è di colore nero, poi ne vede un secondo e anche questo è nero... La stessa persona vede, in successione, dieci corvi e tutti quanti sono neri! Quale ragionamento potrà, molto semplicemente, fare? Potrà dire questo: “Tutti i corvi sono neri!”. Questo è un ragionamento non deduttivo, ma induttivo! Con il termine dialettica Aristotele intende qualcosa di assai diverso rispetto a Platone. Essa, per il filosofo di Stagira, riguarda quel genere di discorsi che, pur procedendo sillogisticamente, non partono da premesse scientifiche, ovvero da principi ben fondati. La dialettica è utile per confutare un avversario, oppure per valutare i pro e contro di una certa situazione. Nella dialettica, le premesse non devono per forza essere interne al genere trattato, essa infatti si occupa delle opinioni, e queste precedono la divisione in generi operata dalla scienza.

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La dialettica si usa per trattare quelle questioni che, per loro stessa natura, non rientrano in alcuna singola scienza. La dialettica interviene a proposito di questioni come il principio di non contraddizione ed il principio del terzo escluso. Essi non sono dimostrabili scientificamente, essendo assiomi, ma la dialettica è comunque utile perché permette di confutare chi li nega. La dialettica, inoltre, è utile quando sia necessario stabilire quali debbano essere i principi di una data scienza, e bisogna a questo scopo valutare le diverse opinioni esistenti. Aristotele usa proprio la dialettica per vagliare l’attendibilità dei principi adottati da autori precedenti, o per collegarli con opinioni esistenti e largamente diffuse.

7. LA NATURA E IL MUTAMENTO; I CONCETTI DI “SOGGETTO”, “FORMA”, “PRIVAZIONE”, “POTENZA”, “ATTO”

La natura è ciò di cui Aristotele maggiormente si occupa, infatti oltre la metà delle opere che di lui conserviamo tratta di scienze naturali. La sua vera e grande passione furono, infatti, gli esseri viventi. Ma qual è, per Aristotele, la caratteristica che, se posseduta, rende una cosa naturale? Questa è il principio di movimento, o mutamento: Kinesis. Va subito detto che per Aristotele "movimento" non è solo quello che noi comunemente intendiamo, ce ne sono infatti di quattro tipologie distinte: mutamento secondo sostanza (nascita e morte), secondo la qualità (alterazione), secondo la quantità (accrescimento o diminuzione), secondo il luogo (spostamento). Il principio di mutamento è interno alle cose naturali. Un tavolo di legno, per esempio, così come un qualunque oggetto artificiale, non lo possiede: un tavolo marcisce, potremmo dire, un tavolo può cadere, ma in effetti non è il tavolo in quanto tale a compiere questi movimenti, bensì il legno di cui esso è fatto. La concezione generale della natura, esposta nella Fisica, ha dunque alla base l’analisi del mutamento. Nell’analisi delle caratteristiche del mutamento, ancora una volta, Aristotele parte del linguaggio, ovvero dal modo in cui diciamo il mutamento. In tutte le predicazioni che lo coinvolgono, il mutamento può essere visto secondo due accezioni diverse, la prima copulativa e la seconda no: il mutare, appunto, e il nascere. Ad esempio: “Una cosa diviene nera”, “Un uomo diviene colto”, oppure “Un uomo nasce”. Ora, queste predicazioni possono essere così riformulate (esempio): “Una cosa non nera diviene una cosa nera”. Analizzando la frase vediamo che ci sono tre elementi: uno è il soggetto, o sostrato, che è oggetto del mutamento, ciò che muta. C’è poi la forma che tale soggetto assume al termine del processo, e la forma che aveva all’inizio e che ora non ha più, cioè la privazione. Aristotele ci dice che in ogni mutazione c’è sempre un elemento che funge da sostrato. Altri due concetti fondamentali, collegati a questo discorso, sono quelli di potenza e atto. Di una cosa si dice che “è in potenza” quando ha la possibilità, la predisposizione ad assumere una determinata forma, anche se ancora non l’ha assunta. L’atto invece è la medesima cosa dopo che ha assunto questa forma. Bisogna dire che i termini ora introdotti: sostrato, privazione, forma, potenza e atto non si riferiscono ad oggetti reali, ma alla funzione che di volta in volta un medesimo oggetto può assumere. Infatti un oggetto che sia forma può divenire privazione nell’ambito di un’ulteriore mutamento. Inoltre, la struttura appena analizzata ha la caratteristica di rendere intelligibili, ovvero razionalmente comprensibili, i processi di mutazione. Seguendo questa struttura, infatti, non succede che ad una cosa si sostituisce un’altra cosa

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diversa, ma il rapporto stesso privazione-forma, potenza-atto, ed il loro rapporto con il sostrato rende intelligibile, comprensibile, il processo.

8. LA TEORIA DELLE CAUSE: LE QUATTRO CAUSE; LE COSE COME COLLEZIONE DISORDINATA La teoria delle cause si occupa di indagare per ogni cosa passibile di mutamento, ovvero per ogni cosa naturale, le cause per cui essa è così come è. Per Aristotele ci sono quattro diversi tipi di cause. La causa materiale si riferisce alla materia di cui una cosa è fatta (la causa materiale di un tavolo è il legno di cui il tavolo è fatto) La causa formale è quella che riguarda la "forma", ovvero la struttura delle cose. La causa formale di un uomo, per esempio, è l’organizzazione interna delle sue varie parti, delle sostanze che lo compongono. La causa finale è ciò verso cui il processo di mutazioni della cosa naturale tende come suo stadio compiuto. Per esempio, la causa finale del bambino è l’uomo adulto. La causa efficiente, o motrice, è quella che concerne ciò che ha messo in moto la catena della mutazione, è ciò che realizza nella materia le condizioni iniziali per cui questa possa cominciare a mutare. Si noti che questa è l’unica causa, fra le quattro, ad avere un’origine esterna alle cose stesse. Facciamo ora due esempi. Ammettiamo di avere davanti a noi la statua di un cavallo: essa ha come causa materiale il bronzo (e qualunque altro materiale utilizzato nella sua costruzione) di cui è costituita; come causa formale vale il cavallo preso a modello dall'artista; quella finale è la forma del cavallo riprodotta nel bronzo, la causa efficiente è, invece, lo scultore stesso. Ammettiamo, ora, di trovarci di fronte a un cavallo vero, in carne ed ossa. La causa materiale è costituita dalle numerosissime sostanze chimiche delle quali l'animale è composto; la causa formale è la forma specifica del cavallo, già esistente nel padre; quella finale è la forma del cavallo riprodotta nel figlio, quella efficiente è il padre, o il seme del padre. Si possono facilmente notare le differenze fra le varie cause nell’esempio di oggetto artificiale e in quello di oggetto naturale. Nel caso dell’oggetto artificiale forma e materia non sono strettamente collegate, infatti la forma è presente solo nella mente dello scultore il quale, peraltro, avrebbe ben potuto costruire il cavallo con un’altro materiale! Nel caso dell’oggetto naturale, invece, forma e materia sono collegate. È la specifica forma del cavallo, infatti, che richiede certe sostanze chimiche e non altre. Si noti, infine, come la produzione (o mutamento) naturale e quella artificiale abbiano la medesima struttura. Questo è dovuto al fatto che l’arte (cioè la tecnica) imita, nei suoi processi, la natura. Cosa ancora più importante: Platone giustifica il mondo dei sensi tramite la mente plasmatrice del Demiurgo, Aristotele invece fa vedere chiaramente come la causa, l’origine delle cose stia nelle cose stesse. Egli, dunque, ricerca la causa dei mutamenti fisici all'interno del mondo fisico e non al di fuori, esattamente come fanno gli scienziati contemporanei. È importante, però, dire che l'impressionante l’apparato esplicativo sin qui introdotto da Aristotele si occupa di spiegare l’esistenza, la costituzione di ogni singola cosa, ma non di tutte le cose prese come insieme ordinato. <-> Le cose, insomma, alla luce dei principi sin qui esposti, appaiono una sorta di collezione di elementi diversi, che non presentano un legame di tipo finalistico tra loro. Vediamo di capirci meglio tramite un semplice esempio: noi sappiamo, esattamente come Aristotele sapeva, che la pioggia (l'acqua) è una condizione indispensabile affinché possa

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crescere della vegetazione. Questo non significa, però, che piove affinché le piante crescano! Il fine, lo scopo della pioggia, non è la crescita delle piante. Come direbbe uno scienziato di oggi, così dice Aristotele: la pioggia e la crescita dei vegetali sono fenomeni fra loro distinti, seppure collegati fra loro. L'acqua piovana è certamente una delle cause che consentono, come proprio effetto, la crescita e lo sviluppo della pianta, ma questo non significa che questo sia lo scopo, la finalità della pioggia! Un altro elemento importante della fisica aristotelica: Aristotele non parla praticamente mai di una materia prima, di una materia pura, cioè priva di qualunque forma (come l'àpeiron di Anassimandro!). Ogni materia, invece, è vista come un composto di materia e di forma. Detto in termini più moderni, ma concettualmente identici: ogni sostanza chimica, quale che sia, è dotata di una sua propria struttura. Questo vale, come abbiamo in effetti già veduto, che la medesima cosa può valere come materia o come forma, a seconda delle circostanze: il legno è da considerarsi forma prodotta dai suoi costituenti interni, mentre è materia in relazione alla nave (fatta, appunto, di legno!). Vedremo più avanti che anche Aristotele non si ferma qui, ma introduce una sorta di ordinamento sistematico tramite la sua cosmologia.

9. LA CONCEZIONE DEI CORPI VIVENTI: FUNZIONI, ORGANI, SPECIE In relazione alla composizione della materia, Aristotele non mette in discussione la tradizione: egli infatti ammette come elementi materiali primi i quattro ormai classici, terra, acqua, aria e fuoco. Questi elementi sono sempre divisibili (rifiuto dell'esistenza degli atomi) e si distinguono fra loro attraverso alcune proprietà qualitative, a due a due opposte: freddo-caldo, secco-umido. Tutte le altre proprietà - salvo il leggero-pesante, come vedremo - sono riconducibili a queste. Si ha che la terra è fredda e secca, l’acqua fredda e umida, l’aria calda e umida, il fuoco caldo e secco. Gli elementi primi possono trasformarsi l'uno nell'altro tramite la variazione di una delle loro proprietà costitutive: così la terra che da secca divenga umida si trasforma in acqua. Il ciclo di trasformazioni fra le quattro materie è così regolato: terra --> acqua --> aria --> fuoco --> terra... - Attenzione: in natura i quattro elementi si trovano, normalmente, mischiati fra loro. La diversa proporzione della mistura dà origine alle numerosissime sostanze che conosciamo. Nel mescolarsi, gli elementi non rimangono distinti, seppure in particelle piccolissime, ma si fondono in sostanze omogenee, che Aristotele chiama omeomerie. Dalla mera materia passiamo, ora, agli esseri viventi: quando parla di "sostanze naturali", Aristotele intende primariamente riferirsi proprio a piante ed animali. È in essi che il rapporto materia - forma si nota nel modo più chiaro. All'interno degli esseri viventi accade che, in modo progressivo, la materia si organizza secondo strutture via via più complesse. Ecco che le omeomerie, nei viventi, formano dapprima i vari tessuti (per esempio, il tessuto nervoso). A loro volta, tessuti diversi formano gli organi: cuore, polmoni, ecc. Diversi organi presi insieme costituiscono, sempre dentro i viventi, gli apparati (esempio:

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l'apparato digerente) ed i sistemi (esempio: sistema nervoso). Come potete facilmente notare, si tratta di concetti che anche la biologia contemporanea continua ad utilizzare! Su questa base Aristotele può fare intervenire la sua teoria delle cause e, in particolare, la causa finale. L'idea fondamentale è che, negli esseri viventi, ogni organo è giustificato, causato dalla funzione che esso deve assolvere all'interno del corpo, ovvero dal suo fine. La struttura di ogni organo, insomma, è tale affinché questo possa assolvere ad una data funzione utile al mantenimento della vita. La mano, per esempio, è fatta di quelle determinate sostanze – materia – e le sostanze che la compongono sono organizzate in quella determinata struttura – forma – affinché possa assolvere a certe ben precise funzioni. Sulla base del rapporto funzione-organo Aristotele può, per primo, istituire un’analisi di anatomia comparata. Lui si accorse, infatti, che anche organi e apparati diversissimi fra loro (come, per fare un esempio, i polmoni e le branchie) possono assolvere ad un’identica funzione (la respirazione!). Moltissimi sono gli organi diversi nei diversi animali, come Aristotele ebbe modo di notare grazie ai suoi lunghi studi naturalistici, ma le funzioni fondamentali di questi sono riducibili ad un insieme piuttosto piccolo. È così anche possibile classificare i diversi viventi secondo le diverse funzioni che essi svolgono: non tutti i viventi, infatti, svolgono tutte le funzioni proprie dei viventi. Esiste dunque una certa scala naturale e nel punto più alto vi è, naturalmente, l’uomo: egli esplica tutte le funzioni possibili! Questo però non significa che l’uomo abbia un maggior grado di perfezione rispetto ad altre specie. Ogni creatura è, infatti, perfetta in relazione alle funzioni sue proprie. Esempio banale: un uomo è in grado di compiere ragionamenti complessi, cosa che un cane e un gatto non sono in grado di fare, ma questo non rende l'uomo "superiore" e il cane o il gatto "inferiori": essi, infatti, non hanno affatto bisogno di compiere ragionamenti complessi per essere esemplari perfetti rispetto alla propria specie di appartenenza! Un altro principio della biologia aristotelica è quella della fissità delle specie. Le specie non aumentano né diminuiscono, e neppure mutano. Le specie sono sempre state, sono e sempre saranno le stesse. Questa conclusione appare piuttosto strana. In effetti il punto di vista funzionale, assunto da Aristotele, avrebbe potuto facilmente condurlo ad una visione evoluzionistica dei viventi: per meglio assolvere alla propria funzione gli organi possono infatti modificarsi col tempo... In alcuni passi Aristotele sembra avere in mente questa conclusione – che il mondo moderno deve a Darwin, non a caso uno dei moltissimi estimatori di Aristotele – pure non solo non la enuncia mai esplicitamente, ma esplicitamente dice l’esatto contrario!

10. I MOTI E LA COSMOLOGIA DI ARISTOTELE Aristotele utilizza la sua teoria delle cause soprattutto in relazione alle mutazioni dei primi tre tipi: la nascita/morte, l’alterazione e l’accrescimento/diminuzione. In effetti, spiegare il quarto tipo di moto, moto in senso stretto o moto locale, nei termini delle quattro cause appare piuttosto difficile. La caduta di un sasso da una rupe, per esempio, appare piuttosto difficilmente spiegabile in quei termini. D’altra parte, il moto locale è uno dei fenomeni fondamentali all’interno della natura e, in qualche modo, occorre spiegarlo!

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Aristotele fa rientrare la sua dottrina dei moti nella cosmologia. In effetti sono proprio i moti locali sono quelli che giustificano l’assetto cosmologico che egli assume. La cosmologia aristotelica è impegnata a stabilire quale sia l’ordine di insieme di tutte le cose che sono, garantendo così la stabilità di tale ordine. Siamo qui nell’opera De caelo (“Il cielo”, o “Sul cielo”). Aristotele assunse come base della sua cosmologia quella comunemente accettata all’epoca: il cosmo è una grande sfera finita, le cui zone più esterne sono costituite dai cieli, dotati di moti circolari e uniformi; all'interno di questi, nella zona detta "sublunare", ci sono gli elementi che si muovono disordinatamente, mescolandosi per dare origine ai corpi. Aristotele distingue, all’interno di questa struttura, i moti semplici e i moti composti. I moti semplici sono di due tipi: il moto circolare (caratteristico dei cieli) e il moto rettilineo. I corpi al di sotto del primo cielo, nel mondo sub-lunare, si muovono di moto semplice in linea retta e lo fanno o verso il basso (cioè verso il centro della sfera) o verso l’alto (cioè verso l’esterno della sfera). Ad ognuno dei quattro elementi tradizionali, poi, Aristotele assegna un moto che gli è connaturato. Così accade che la terra e l’acqua si muovono naturalmente verso il centro, il basso, mentre l’aria ed il fuoco, per la loro leggerezza, tendono naturalmente a salire. Da sottolineare il fatto che, se non impediti o deviati, gli elementi presenterebbero proprio questi movimenti, che sono loro propri. Dunque, in relazione al loro differente peso, gli elementi tenderebbero a formare, al di sotto dei cieli, quattro sfere concentriche, dalla più grande alla più piccola: fuoco, aria, acqua, terra. Tali sfere costituiscono i luoghi naturali degli elementi, quello verso cui il loro moto naturale, rettilineo, tende a portarli. Ogni elemento, raggiunto il proprio luogo naturale, permarrebbe in quiete. L’assetto del mondo risulta così ordinato proprio dall’ordine necessario dei moti. Da sottolineare il fatto che il luogo naturale non è visto come il vero e proprio fine degli elementi. Ma come si spiega, allora, il moto di un sasso che sale verso l’alto (perché qualcuno lo ha scagliato con forza, per esempio)? Aristotele ci dice che questo avviene in seguito ad una violenza esterna, una spinta od una trazione, la quale produce un moto innaturale. Esiste anche, poi, una dimensione di quiete innaturale (ad esempio, quando tengo un gas rinchiuso in un contenitore...). Da quanto detto, emerge come nessuno dei quattro elementi costituisca i cieli, perché essi si muovono circolarmente. Aristotele dunque introduce un quinto elemento, il cosiddetto etere o quintessenza, che per natura si muove circolarmente. Tale elemento non interagisce mai con gli altri, ma si muove solo all’interno della propria sfera: nei cieli non c’è dunque né generazione né alcun mutamento che non sia il moto locale (peraltro circolare, dunque eternamente ritornante su se stesso). Ma come sono costituiti i cieli e come se ne spiegano i moti? Il grande matematico Eudosso aveva ideato un sistema fatto di 26 sfere concentriche, che presto divennero 33 ad opera di Callippo. Nel lavoro di questi astronomi le sfere si presentavano come essenzialmente facenti parte di un modello matematico. Aristotele invece, una volta introdotto l’elemento corporeo proprio del cielo, l’etere, attribuisce una fisicità a queste sfere, che appaiono come tante “trottole” rotanti l’una dentro l’altra. Ognuna delle sfere di Aristotele, che ne prevede ben 55, è imperniata su quella di grandezza immediatamente superiore. Questi perni costituiscono un collegamento meccanico fra tutte le sfere. Questo preciso

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modello non durerà molto a lungo, ma l’idea delle sfere concentriche, seppure notevolmente modificata, durerà fino al sorgere della scienza moderna. Aristotele dice che il fattore principale della regolazione delle trasformazioni sublunari è il sole che, attraverso il suo calore, provoca il ciclo delle stagioni e stabilisce il ciclo e il ritmo delle trasformazioni. - Nella Fisica e nel De caelo Aristotele affronta altri problemi generali di cosmologia. Innanzitutto stabilisce la finitezza del cosmo. Infatti, se il mondo fosse infinito non sarebbe possibile stabilire, neppure concettualmente, dei luoghi naturali per gli elementi. Nella Fisica, poi, Aristotele considera l’infinito come proprietà possibile di un corpo, una sua potenza. Dice che un corpo non può mai essere infinito in atto, ma solo in potenza. La nozione di infinito esiste, ed è presente nei corpi, seppure solo in potenza e mai si può realizzare in atto. Del pari anche la serie numerica è potenzialmente infinita, ma in atto dovremo sempre considerare una quantità finita di numeri. D’altro canto, ogni corpo è potenzialmente divisibile all’infinito (Aristotele non accetta gli atomi), ma tale divisione, in atto, dovrà essere finita. Lo spazio, per Aristotele, è il limite del corpo contenente. Tutti i luoghi, poi, sono contenuti nel luogo più grande, che è quello del mondo. Oltre non c’è nulla, non c’è più spazio, dato che esso si dà solo con i corpi. Il vuoto per Aristotele assolutamente non esiste. Così come lo spazio non esiste senza il corpo, il tempo non esiste senza il movimento. Il tempo è una dimensione misurabile del movimento. Esso è, per sua stessa natura infinito, non ha origine né fine. Infatti ogni movimento è generato da un altro movimento, né potrebbe essere altrimenti. Con questo assunto Aristotele scarta ogni possibile cosmogonia (ovvero origine dell’universo”). Aristotele, a questo punto, poteva tutto sommato ritenersi soddisfatto di aver dato un ordine sufficientemente stabile al mondo. Questo però non gli basta: infatti dota il mondo di un’ulteriore garanzia di ordine teologico. Lo fa sia nella Fisica che nella Metafisica.

11. LA METAFISICA Come abbiamo già detto, il termine “metafisica” fu introdotto da Andronico di Rodi nella sua famosa edizione delle opere aristoteliche. L’espressione utilizzata da Aristotele era, invece, “filosofia prima”. L’aggettivo “prima” non sta ad indicare il fatto che essa è il primo momento del processo conoscitivo, anzi! L’oggetto della Metafisica viene per ultimo, solo dopo tutte le indagini sulla natura. Questo ambito di indagine è però “primo in sé”: esso è il termine più lontano dalla nostra conoscenza, ma quello primo in se stesso, cioè quello di maggiore importanza. Ma qual è l’oggetto di tale scienza? Aristotele ne dà due definizioni. La prima: la filosofia prima studia l’essere in quanto essere (ontologia). Come già sappiamo, tutte le scienze "ritagliano" come proprio oggetto di studio un ben preciso campo nell’insieme delle cose reali. La biologia, per esempio, si occupa degli esseri viventi e solo di quelli, le matematiche si occupano degli aspetti quantitativi del reale, la chimica delle proprietà e delle trasformazioni della materia, ecc. La Metafisica, invece, concerne quelle caratteristiche, quelle strutture basilari comuni a tutte le cose appunto in quanto sono, in quanto esistono. Ammettiamo, idealmente, di togliere tutti i possibili oggetti di studio delle scienze particolari, ecco: quanto resterebbe, ciò che è comune a tutte le scienze, è appunto l’oggetto della Metafisica.

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In questo ambito Aristotele riconsidera altre teorie assai generali, quella delle categorie, della potenza e dell’atto, dei principi e delle cause, seppure ad un livello diverso, cioè distaccato da qualsiasi altra determinazione specifica. La primarietà della metafisica è data dalla massima generalità del suo oggetto. La metafisica non è solo un’ontologia, ma anche una teologia. In un passo famosissimo Aristotele dice che se esistessero solo le cose naturali, e quindi le cose “mobili”, sarebbe la fisica la filosofia prima, ma dato che esiste una sostanza non naturale, e dunque “immobile” (la divinità), allora la filosofia prima è appunto la teologia. Se la metafisica come ontologia, cioè come scienza dell’essere in quanto essere, ha per oggetto tutte le cose esistenti, la metafisica come teologia ha per oggetto un’unica e particolarissima sostanza. Questa sostanza sarà, di fatto, il principio motore di tutta la catena causale, e quindi di tutta la catena della mutazione naturale. Dal punto di vista ontologico, la questione più importante che pone la Metafisica è la domanda di massima generalità di ogni ontologia: “che cos’è l’essere?” Aristotele dice che, in effetti, questa domanda si può ricondurre alla seguente, più chiara: “che cos’è la sostanza?” Per capire questo passo basta ripensare alla teoria delle categorie, dove tutti i termini di predicazione si sostenevano, e avevano consistenza, grazie all’esistenza delle sostanze prime, ovvero degli oggetti particolari. Perché di una cosa, cioè di una sostanza prima, si possa dire che esiste, essa deve rispondere a queste due fondamentali caratteristiche: la cosa deve essere separabile e deve essere determinata. La cosa, insomma, deve esistere in se stessa (cioè non deve dipendere da altro, deve dunque essere “separabile” da tutto il resto), e allo stesso tempo deve essere identificabile (ovvero riconoscibile come questa cosa, questa cosa determinata). Potremmo dire che l’essere è la materia indeterminata, sostrato di tutte le cose (come l’àpeiron di Anassimandro), questo però non è sufficiente per dire che tale materia esiste: visto che è priva di qualunque determinazione non può essere identificata. L’essere vero e proprio dunque è il cosiddetto sinolo, ovvero la materia e la forma insieme, che si attua negli individui concreti. La sostanza, l’essere è dunque, come già detto, primariamente dato dai singoli individui concreti. In effetti, nei singoli individui, la separabilità e la determinatezza è data dalla forma. La forma dunque è primaria rispetto alla materia. Si vede bene come questo fatto si accorda assai bene con quanto detto sin qui. Tutte le scienze si occupano di sostanze, di individui esistenti, composti di materia e forma. Materia e forma però non esistono separatamente, al di fuori del sinolo, ma solo insieme in esso, dunque nell’individuo concreto. È vero che l’oggetto dell’esperienza è l’individuo concreto mentre la scienza si occupa dell’universale, ma l’universale è presente solo in ogni individuo concreto come forma. Vedremo però, adesso, che esiste anche un altro tipo di sostanza. Abbiamo già detto di come Aristotele avrebbe potuto ritenersi soddisfatto del grado di stabilità ed ordine raggiunto dal suo sistema cosmologico. Ma non è così. Infatti non basta dire in che modo la totalità delle cose naturali e quindi mobili mutano naturalmente. Tale mobilità, infatti, richiede nel suo complesso un qualche principio che la causi e la mantenga. Se così non fosse tutto l’equilibrio sarebbe instabile o, comunque, non ben fondato. Questo principio è il celebre primo motore immobile. Per Aristotele tutte le cose che si muovono lo fanno in virtù di un motore esterno, o nel senso che le spinge (moti innaturali) o nel senso che determina la condizione per cui l’oggetto si possa muovere (moti naturali). Ora anche i "motori", a loro volta, si

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muovono, e il loro movimento deve essere quindi causato da un altro motore... Se non esistesse un Motore primo la catena causale del moto regredirebbe all’infinito, cosa che distruggerebbe l’ordine causale. Abbiamo visto come la sfera sublunare, quella degli elementi, abbia nel sole il proprio motore. Ma anche il sole si muove e, lo abbiamo visto, non è possibile che il primo motore sia a sua volta mobile. In quanto mobile, infatti, dovrebbe essere soggetto alla dinamica della struttura potenza/atto, ma sappiamo che tale passaggio (dalla potenza all'atto) richiede una causa che, in quanto tale deve essere a) già in atto. b) sempre in atto, perché diversamente non potrebbe fungere da causa di un eterno movimento. c) essenzialmente ed esclusivamente in atto, cioè del tutto scevra di potenza. Se questo primo motore avesse un qualche aspetto di potenzialità infatti, il movimento non sarebbe garantito: la potenza non necessariamente si attua! Tale motore però, perché sia esclusivamente atto, deve essere immobile. Ma in che modo, essendo esso stesso immobile, il Primo Motore muove le altre cose? Esso muove le cose come l’oggetto amato muove l’oggetto amante. Il cielo quindi si muove circolarmente perché, avendo come oggetto del proprio "desiderio" e del proprio "pensiero" tale motore, cerca di imitarlo al meglio. Vediamo qui come i cieli hanno la caratteristica del divino. Si ricordi ora che le sfere celesti sono, per Aristotele, 55 e, pur essendo incentrate l’una nell’altra, hanno ognuna un moto proprio. Da ciò deriva che ci sono 55 motori immobili e a tutti si potrebbe attribuire il titolo divino. Potremmo, però, immaginarli in un ordine gerarchico, per cui tale titolo spetti solo al primo motore immobile, cioè a quello che causa il movimento della prima sfera, quella più esterna. Sia anche detto che questo motore è puramente forma, perché alla materia è necessariamente associata la potenza e dunque il mutamento. Si tratta di una teologia razionale, alla quale si è giunti cioè non grazie ad una rivelazione divina, ma con il solo pensiero. È anche "naturale", nel senso che da sempre per gli uomini le sostanze più alte sono gli déi. Soprattutto, questi déi sono posti come primaria garanzia dell’ordine e della stabilità del mondo. Sono assai poche, ma famosissime, le pagine in cui Aristotele tratteggia le caratteristiche di questa divinità, al di là della sua funzione. Visto che è Dio, la cosa più bella e perfetta, non può che essere l’oggetto del desiderio e del pensiero migliori, in particolare del pensiero, perché è questo che orienta il desiderio. Ma il fine in vista del quale questo pensiero migliore pensa, altro non può essere che questo stesso pensiero pienamente in atto. Dio, allora, è quella sostanza che è pensiero pienamente in atto. Ma cosa può pensare questo pensiero, se non la cosa migliore, cioè se stesso? Dunque Dio non pensa affatto al mondo, ma solo a se stesso, e rimane immobile nella contemplazione di se stesso: esso è pensiero di pensiero. Poi, pensando a se stesso, pensa anche all’ordine ed alla stabilità del mondo dato che queste cose sono determinate da Lui medesimo. Questo Dio dunque non si cura degli uomini, né ha senso rivolgergli delle preghiere. Sbagliano quelli che dipingono gli déi come garanti della giustizia e, con questo, intendono solo ottenere l’obbedienza alle leggi. C’è però una figura di uomo per cui Dio ha un significato particolare, e si tratta del filosofo primo. Questi, occupandosi degli oggetti primi della scienza, quando giunge a contemplare i principi primi, seppure dopo molto tempo e per brevi momenti, si assimila ad essi. Va anche detto che tutte le altre scienze non hanno bisogno di risalire sino al primo motore immobile per trovare giustificazione: esse sono di fatto indipendenti rispetto alla teologia.

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12. LA CONCEZIONE DELL'ANIMA: IL DE ANIMA Il discorso sull’anima è da considerarsi preliminare a tutta la biologia di Aristotele: l’anima infatti è una caratteristica peculiare a tutti gli esseri viventi e non un proprio dell’uomo. Il trattato De Anima, dunque, tratta anche di animali e piante. Inoltre non tratta di ciò che riguarda il comportamento degli uomini fra di loro, dominio questo dell’etica e della politica. - Possiamo facilmente dividere le cose in viventi e non viventi. I viventi, rispetto ai non viventi, possiedono due precisi requisiti: 1) hanno una struttura complessa organizzata in vista dello svolgimento di determinate funzioni. 2) hanno in sé un principio che costituisce la facoltà di esercitare tali funzioni: si tratta, appunto, dell’anima. È vero che anche molti oggetti inanimati hanno una struttura creata in vista di un fine - la cosa, in effetti, vale per tutti gli oggetti artificiali - ma non hanno in se stessi il principio dello svolgersi di tale funzione. In questo, senso, il concetto aristotelico di anima è assai vicino al nostro concetto di vita. L’anima è la realizzazione compiuta, insomma l’atto, della potenzialità ad esercitare determinate funzioni garantita dalla struttura di cui sopra. Un’importante precisazione: l’anima non è l’esercizio attuale delle funzioni, infatti essa permane anche quando le funzioni non vengono esercitate appieno (come ad esempio nel sonno). Per Platone, come del resto per tutta la tradizione precedente, l’anima era invece qualcosa di fondamentalmente separato dal corpo, qualcosa che si aggiungeva ad esso, fosse essa stessa un principio materiale o meno. L’anima, dunque, poteva esistere indipendentemente dal corpo. Questo per Aristotele non ha senso. L’anima è per Aristotele semplicemente la facoltà di esercitare, di attuare determinate funzioni, determinate potenzialità: nel momento in cui non vi fosse un corpo non vi sarebbero neppure funzioni da esercitare ad esso peculiari! Questo si spiega anche con la coppia potenza-atto, infatti ogni potenza è potenza di realizzare un determinato atto, ed ogni atto è atto di una determinata potenza. Le due cose non sono assolutamente scindibili. Da tutto questo emerge, netto, un fatto: l’anima è mortale. A questo punto il De Anima distingue diversi tipi di anima, a partire dai diversi tipi di funzione che i viventi possono assolvere. Le funzioni irriducibili dei viventi sono tre: vegetativo-riproduttiva, sensitiva, intellettiva. La prima è propria delle piante, la seconda (che comprende anche la prima) lo è degli animali e la terza (che comprende le prime due) lo è dell’uomo. Funzione propria dell’anima sensitiva è appunto la sensazione. La sensazione si organizza attorno a due poli: l’organo di senso e l’oggetto percepito. L’occhio, di un qualunque oggetto, percepisce le forme che gli sono proprie, ovvero la luce e i colori, mentre l’orecchio, dello stesso oggetto, percepirà altre forme, quelle sue proprie: i suoni. L’organo di senso è, in potenza, l’insieme di tutte le forme che gli sono proprie, nel momento in cui percepisce è una o molte forme precise in atto. C’è dunque una sorta di assimilazione da parte dell’organo nei confronti dell’oggetto. Non c’è alcuno scambio di materia (si pensi all’esempio del timbro che imprime il suo sigillo nella cera: il timbro è l’oggetto e la cera è l’organo sensoriale). Si notino due cose importantissime: per Aristotele l’organo di senso è passivo, ovvero riceve le forme ad

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esso proprie e ad esse si assimila. Inoltre la percezione è infallibile, risulta sempre vera. La questione non è conclusa: esistono anche quelli che Aristotele chiama percepibili comuni, che sono quelle forme percepite non da un solo senso, ma da diversi sensi (movimento, quiete, figura, grandezza). Bisogna anche dire che ogni forma non viene percepita isolatamente, ma tutte le forme sono assimilate su un unico oggetto. Io non sento un canto e vedo un giallo e un movimento, come cose separate e distinte, ma, ad esempio, percepisco un canarino che vola e canta. Un’altra cosa: l’anima sensibile sente che sta percependo, ha ciò consapevolezza del suo sentire. Come avviene tutto questo? Per spiegare i tre fenomeni Aristotele introduce il cosiddetto senso comune, non una specie di sesto senso (infatti non ha un organo) ma una funzione che svolge quanto detto sopra. Se la sensazione è infallibile il senso comune può però sbagliare. È infatti possibilissimo assegnare un dato suono ad una fonte sbagliata. Problemi più complessi riguardano la facoltà dell’anima tipica solo dell’uomo, l’intellezione. Anche qui abbiamo una bipolarità: da una parte c’è il cosiddetto intelletto passivo, che si può paragonare in via metaforica a una tavoletta di cera vergine, che è in potenza tutte le forme. Dall’altra parte c’è ciò che si imprime sulla cera, sull’intelletto passivo, mediante l’intellezione. Anche qui si ha un processo di assimilazione da parte dell’intelletto passivo alla cosa “percepita”. La differenza è che la sensazione riguarda la forma percepibile, mentre l’intellezione la forma intelligibile. Tale forma si crea sulla base della forma percepibile. Ad esempio: il mio occhio vede un tavolo e la mia mano lo tocca. Sulla base di queste sensazioni il mio intelletto assimila la struttura del tavolo, la sua forma intelligibile, insomma la definizione del tavolo. Una difficoltà sta nel fatto che l’intellezione non ha alcun organo di senso corporeo. Una difficoltà maggiore è un’altra: perché l’intellezione possa avvenire, ovvero affinché l’intelligibile si imprima sull’intelletto passivo, è necessaria l’azione di un altro ente, l’intelletto attivo, che è pensiero sempre in atto. Questo non è legato all’individuo, è inoltre immortale ed eterno. Aristotele parla dell’intelletto attivo solo in poche righe ed è questa forse la questione più lungamente dibattuta della sua filosofia. Taluni interpreti hanno identificato questo intelletto con Dio, altri (Tommaso d’Aquino) hanno sostenuto che esso appartiene a ciascuna anima individuale. Si può forse, concludendo, dire che l’intelletto attivo sta nell’anima individuale, seppure non ha nulla a che fare con la dimensione individuale, essendo del tutto slegato dalle circostanze della vita, come la memoria o il corpo. In effetti questo ultimo carattere, l’intelletto attivo, non sembra ben integrabile in una prospettiva naturalistica.