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«Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Mario Roatta «Lo squadrismo ha a portata di mano proprio a Trieste un obiettivo concreto e simbolico al tempo stesso: il Narodni dom, casa della cultura slovena e centro di attività economica (vi hanno sede un teatro e una banca, un albergo e le associazioni culturali, e così via). È dato alle fiamme già nel luglio del 1920: ne Il rogo nel porto lo scrittore sloveno Boris Pahor ce lo racconta con gli occhi di sé bambino. Un bambino che non capisce perché i soldati stiano a guardare – senza far nulla – le fiamme che divorano “quella casa che era così bella e alta”. Perché lascino anche “gli uomini neri spinger via i pompieri, quando questi spiegavano il telone e qualcuno vi cadeva dalla finestra per sbalzare di rimando in alto come Branko quando si buttava sulle molle del letto della mamma”...». Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. Pag. 40 (nota 7bis)

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«Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nellaformula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Mario Roatta

«Lo squadrismo ha a portata di mano proprio a Trieste un obiettivoconcreto e simbolico al tempo stesso: il Narodni dom, casa della culturaslovena e centro di attività economica (vi hanno sede un teatro e una banca,un albergo e le associazioni culturali, e così via). È dato alle fiamme già nelluglio del 1920: ne Il rogo nel porto lo scrittore sloveno Boris Pahor ce loracconta con gli occhi di sé bambino. Un bambino che non capisce perchéi soldati stiano a guardare – senza far nulla – le fiamme che divorano“quella casa che era così bella e alta”. Perché lascino anche “gli uomini nerispinger via i pompieri, quando questi spiegavano il telone e qualcuno vicadeva dalla finestra per sbalzare di rimando in alto come Branko quandosi buttava sulle molle del letto della mamma”...».

Guido Crainz, Il dolore e l’esilio. Pag. 40 (nota 7bis)

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Nessuna interferenza “romantica”, invece, nelle affinità fra il toscano GiovanniPampaloni, sottotenente di artiglieria della Divisione Acqui a Corfù, ed il brescianoAlfredo Zanardelli, radiotelegrafista al Comando Marina di Spalato, in Jugoslavia, nelsenso che entrambi, sotto le bombe degli Stukas tedeschi, guardano con improvvisasimpatia (e non senza qualche residua speranza)1 ai partigiani delle rispettive basi.

«Quando arrivai sulla soglia della bettola che faceva da quartier generale ai ribelli diPapas Spiru, un’insolita scena si presentò ai miei occhi curiosi: quegli uomini scalzi,vestiti con abiti di foggia stranissima, armati di fucili lunghi come canne da pesca, miricordavano le storie di briganti che mi raccontavano quando ero bambino.[...] trovai nella bettola Papas Spiru in persona, il famoso capo ribelle. Era un uomodi media età, dall’aspetto energico, deciso, dallo sguardo freddo, metallico [...].Dopo una stretta di mano ed alcune parole di benvenuto, mi pregò di accettare unbicchiere di vino. Presi sorridendo il bicchiere dalle mani di un omaccione barbu-to, scalzo, dai piedi gonfi e pieni di ferite. “Cosa avete fatto a quei piedi?”,domandai prima di bere. “Eh, signore, ho fatto tanta di quella strada per arrivarefino a Corfù... Ero a Kicevo, in Albania”. Anche Papas Spiru bevve, dopo averalzato il bicchiere ad una specie di brindisi; poi, interrompendo bruscamente ilracconto del suo gregario, mi chiese di restare a cena con lui.2

E pescando a mani nude dal vassoio posto al centro di una tavola «imbanditasenza il minimo indugio» il pesce ammazzato dagli Stukas con le bombe cadute inacqua («era bastato raccoglierlo, alla fine del bombardamento»), il tenente Pampa-loni avrà modo di trovare «interessantissimi anche gli scambi di vedute e le notizieche i “ribelli” mi davano in un italiano più o meno comprensibile, a frasi mozze,staccate, interrotte da mugolii e da strani rumori».

«Guardavo curiosamente quelle facce irsute, con la barba lunga, i capelli ispidi:certuni avevano davvero un aspetto tutt’altro che rassicurante, patibolare ad-

«Cocito è rientrato dalla Croazia... Ad un tratto miguarda stranamente dicendomi: “Sai che a Mostar

professori e allievi del Liceo sono tutti in montagna afare i partigiani. Anche le ragazze ci sono andate...».

Pietro Chiodi, Banditi

1 Entrambi verranno catturati daitedeschi ed internati in campi diconcentramento, ma entrambi avran-no la fortuna di tornare e raccontarela loro storia.2 Giovanni Pampaloni, Resa a Corfù,Nardini Editore, pagg. 337 e seguenti.

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dirittura. “Che visi da galera!”, pensavo fra me mentre ascoltavo le parole che ilcapo di quella gente pronunziava quasi solennemente, volgendo il viso conregale lentezza ogni volta che uno dei suoi uomini gli domandava qualcosa oveniva ad annunziargli delle novità... [...] in quelle pause osservavo l’interlocuto-re. Quegli occhi chiari, metallici, attiravano la mia attenzione più di ogni altroparticolare del viso severo del capo ribelle. “Sono occhi impenetrabili” pensavo,cercando invano di scoprirvi dentro qualcosa. “Occhi che non dicono nulla dibuono: dev’essere un uomo duro, crudele”. Papas Spiru sorrise impercettibilmen-te, compiaciuto, mentre il suo cencioso coppiere, versandomi da bere, raccontavacome il suo capo fosse rimasto in quella stessa casa, con tutta tranquillità, mentregli Stukas bombardavano il porto e la sua casa sembrava scossa dal terremoto:giorno e notte. Comprendevo bene: era quello il gran segreto: era con quelcoraggio a tutta prova che il mio commensale poteva mantenere fra i suoi uomini,che non dovevano essere certo dei prodigi di disciplina, quel prestigio che facevadi lui un Capo a cui si ubbidiva senza fiatare.Un “ribelle” puliva il suo fucile, un fucile ad avancarica lungo come una pertica. Glidomandai se non avrebbe desiderato un’arma più moderna, più leggera; poi, senzaaspettare risposta, gli annunciai sorridendo che gli avrei fatto portare un moschettoitaliano non appena ritornato in fortezza. Gli occhi del “ribelle” mandarono un lampodi gioia: “Uh, grazie, signore” E mi manderete anche delle munizioni?”.Promisi di sì e mi volsi al mio ospite per domandargli se c’erano altri dei suoiuomini che avevano altrettanto bisogno di un’arma efficiente; questi risposesolennemente come al solito, con dignità regale; era una risposta evasiva, però:forse il capo non voleva mettere in tavola certe miserie.Credetti di capire il pudore del massimo esponente della potenza alleata delpresidio italiano di Corfù e lasciai cadere l’argomento. “Beh, vedrò di mandarvitutti i moschetti inutilizzati che ci sono nella fortezza: i carabinieri ne hannolasciati parecchi prima di andarsene fuori città».3

Contemporaneamente, sulla terraferma, Alfredo Zanardelli, che fin da prima del25 luglio cominciò a manifestare «insofferenza al regime”, cercava di «capire e dicomprendere il perché della reazione dei cosiddetti “ribelli” che rivendicavano i lorodiritti alla sovranità territoriale». Un interrogativo che gli sarà possibile comprenderesoltanto dopo aver incontrato le persone «adatte allo scopo».

«I ribelli jugoslavi mi insegnarono tutto questo, e da questi contatti espliciti eproficui prese avvio il sentimento di rivolta al fascismo che condusse la miavita, senza rincrescimenti, fino alla data della liberazione».4

3 Giovanni Pampaloni, Resa a Corfù,Nardini Editore, pagg. 337 e seguenti.4 Alfredo Zanardelli, Taccuino dellager KZ, a cura dell’Aned di Bre-scia, pag. 60.

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Finiranno entrambi in campo di concentramento in Germania, dai quali riusci-ranno ad entrare nell’esiguo novero dei “salvati”. Pampaloni torna in Italia nelgiugno del 1944, grazie a quella che viene descritta come «una semplice trovatapropagandistica», per dimostrare che «qualunque nostro “internato” potesse esse-re rimpatriato dalla Germania se richiesto per ragioni di lavoro». In realtà, nerientreranno solo alcune decine a fronte di molte migliaia: «Una fortuna insperata,per me, l’aver potuto far parte di quell’esigua schiera».5

Alfredo Zanardelli, invece, rientrerà solo a guerra finita, dopo essere sopravvis-suto alla “Marcia della morte” nell’aprile del 1945. Grazie agli appunti ritrovatifortunosamente 40 anni più tardi, scriverà un’autobiografia, dalla cattura alle diversetappe della deportazione a Bolzano, Dachau e Bad Gandersheim, comprendente glielenchi dei deportati e bresciani nei campi di sterminio in Germania e in Austria.

«Primo Levi mi aveva promesso la sua dedica alle mie testimonianze, mal’improvvisa scomparsa è avvenuta giusto il giorno in cui ho concluso l’ultimocapitolo. È stato lo stesso Levi, amico e compagno di deportazione, che mi haincitato a trasmettere questo mio diario, che non vuole eguagliare l’opera da Luisvolta. Ora che Lui non può apporre al mio testo le Sue note, sono io che dedicoa Lui queste pagine con le quali gli rivolgo il più affettuoso grazie per avermiincoraggiato a rievocare le vicende vissute nei campi di sterminio.6

La riprenderemo ampiamente in un capitolo specifico, la tragedia della deporta-zione e dello sterminio, ma intanto ci pare necessario ritornare sul confine orientaleper raccogliere ancora alcune significative testimonianze, partendo da quella diJoze Pirjevec, che pone in evidenza il nuovo rapporto fra “ribelli” e quel che rimanedell’esercito italiano:

«A Pisino giunsero il 23 settembre [del 1943] i quadri militari inviati dallo Statomaggiore dell’Esercito di Liberazione della Croazia, per organizzare le nuoveunità di combattenti, tra le quali anche un battaglione “Garibaldi” composto dasoldati italiani, decisi a lottare a fianco degli jugoslavi “per un’Italia progressi-sta di domani”. Grazie anche alla loro presenza fu possibile mettere un freno agliabusi e dare una qualche disciplina ai reparti degli insorti».7

Ma lo storico sloveno non si ritrae neppure di fronte al dramma delle foibe:

«Oltre all’aspetto rivoluzionario, sicuramente prevalente, il regolamento diconti postbellico ne ebbe però anche un altro, universale, più antico, legato albisogno catartico di vendicarsi dei responsabili della grande tragedia della

5 Cfr. Giovanni Pampaloni, Resa aCorfù, Nardini Editore, pag. 491.6 Alfredo Zanardelli, Taccuino del la-ger KZ, a cura dell’Aned di Brescia.7 Joze Pirjevec, Foibe. Una storiad’Italia, Einaudi, pag. 44.

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seconda guerra mondiale. La vendetta toccò infatti nell’aprile-maggio 1945 tuttii paesi europei dove s’era sviluppata una qualche resistenza. “È difficile conce-pire le stragi delle foibe – dice Giovanni Miccoli – senza l’educazione allaviolenza di massa compiuta nell’Europa centro-orientale a partire dal 1941 e ilgenerale imbarbarimento dei costumi che ne seguì”...».8

Qualcosa di non molto diverso lo aveva già scritto anche Giovanni Pampaloni:

«... nel Montenegro, invece, o in Croazia, o fra i monti dell’Albania, con tuttol’odio e il furore che si sarebbero scatenati a guerra finita, non sarebbe statocosì facile trovare il modo di riportare la pelle a casa».9

Ed ecco la drammatica testimonianza di un altro reduce di Corfù, Italo Poffettidi Erbanno, intervistato da Luigi Mastaglia nel novembre del 2014 (l’intervistaintegrale nel relativo capitolo), che dopo aver trovato rifugio nella casa di un pretes’incontra poi in chiesa con un gruppo di partigiani: «C’erano altri che avevanotrovato nascondiglio presso il prete ed una sera in chiesa ci siamo incontrati con ungruppo di partigiani. Questi ci hanno detto “domani mattina passiamo a prendervi esaliamo insieme in montagna”. Il prete, la stessa sera mi ha chiamato in disparte emi ha detto “tu domani non vai in montagna” e mi ha mandato a dormire su unabaracca costruita su un albero».

Di lì a poche ore troverà gli undici compagni di una sera crivellati di colpi:«Ho poi saputo, in base ad una ricostruzione approssimativa, che i partigianivolevano farsi consegnare orologi, catenine e i beni personali: probabilmentene è nata una discussione ed una sparatoria, la conseguenza è stata catastrofi-ca». Tuttavia il prete dal quale tornerà gli consiglierà di «consegnarmi diretta-mente al comando partigiano», dove «sono stato accolto e sono rimasto conloro per parecchio tempo, ho partecipato anche ad azioni militari, poi mi hannoimbarcato su un sommergibile e mi hanno portato a Taranto dove sono statoaggregato ad un’armata americana».

Un contributo molto importante per tentar di capire il 25 luglio e l’8 settembre1943 da parte di quei giovani italiani che entreranno nella Resistenza (andando«all’appuntamento con sé stessi»), dopo essere stati «traviati da una falsa educa-zione», ci viene offerto, ancora, da Alberto Cavaglion: «Per risalire, è necessariotoccare il fondo, ma se nel momento più buio si vede sempre l’aurora, come amavaripetere Giuseppe Mazzini, orientarsi non è semplice: “Basta un nulla, un passo

8 Joze Pirjevec, Foibe. Una storiad’Italia, Einaudi, pag. 101.9 Giovanni Pampaloni, Resa a Corfù,Nardini Editore, pag. 179

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falso, una impennata dell’anima e ci si trova dall’altra parte” osserva Kim,commissario partigiano nel Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino».

Per capire lo stato d’animo di un giovane di fronte a una scelta così complicata,dunque, continua Cavaglion, bisogna «lasciar da parte la letteratura e consultare undocumento, per molti versi unico»: ovvero, La traccia sul mare di Falco Marin.

L’autore, quando cade in combattimento sul fronte jugoslavo il 25 aprile del1943, «è un giovane di appena ventiquattro anni. Il suo diario, le sue lettere allesorelle, a due amiche, i suoi appunti, furono raccolti amorevolmente dal padre nel1950. Non vedo molti altri libri che possano aiutare a capire meglio il groviglioterribile in cui si trova un giovane italiano alla vigilia del crollo del 1943. Un destinoamaro, e una coincidenza, segnano la vita di Falco Marin. Egli muore nel giornostesso del tracollo del fascismo, il 25 luglio 1943, in Slovenia dove si trova dagennaio, sottotenente di artiglieria, mandato a combattere i “ribelli”. Il suo è unpunto di vista per noi del tutto eccezionale: possiamo rileggerlo scrollandoci didosso quel vago moralismo che ci condiziona quando analizziamo il comportamen-to di qualcuno, volendo prima di ogni altra cosa sapere se ha militato dalla partegiusta. Di Marin non possiamo dire nulla, muore prima. Non esiste per lui una partegiusta o una parte sbagliata. È “come se” le lancette del tempo si fossero fermateil 25 luglio 1943. Marin ci esonera dall’imbarazzante esercizio del senno di poi:attraverso le sue pagine possiamo in qualche misura capire la prospettiva di chicombatte accanto ai tedeschi, impegnato in una guerriglia vicino a casa. Valasciato deliberatamente in sospeso ogni pronostico. Sono realistiche entrambe lepossibilità: Marin potrebbe entrare in una Brigata Garibaldi in Friuli, arruolarsi fragli stessi partigiani slavi oppure entrare a far parte delle truppe nere. Un nienteavrebbe potuto spingerlo su una delle due vie, un crudele destino lo arresta unistante prima del passo falso o di quello giusto.

Nato nel 1919 – lo stesso anno di Primo Levi e di Nuto Revelli – aderisce alfascismo, ma senza rinunciare a una profonda vita spirituale. Lo si può definire instato di ipnosi oppure assomiglia a un cieco veggente, perché non vede le contraddi-zioni del regime che lo ha mandato a morire. È vittima di un incantesimo,10 perchénessuno lo ha abituato ad applicare alla politica l’intelligenza e la capacità critica chelo tormentano. “Non capisco” scrive nel diario il 13 marzo 1942 “che cosa muove ipopoli a scannarsi ininterrottamente da anni. Non c’è apparentemente nessunmotivo, e soprattutto i calcoli politici non ne offrono alcun pretesto”. Marin non puòcapire gli sloveni, i serbi, i croati, che “con tanto ardore si battono per qualcosa che

10 L’incipit del libro di Cavaglion èdedicato al racconto di ThomasMann, Mario und der Zauberer(Mario e il mago), dove il CavalierCipolla (l’illusionista) vuole essere laparodia di Mussolini, mentre Mario,il cameriere vittima dell’incantesimo,impersona il popolo italiano.

Eccone un breve stralcio tratto da unarecensione di Goffredo Fofi: «Annitrenta; in una località balneare tirre-nica un volgare “mago Cipolla” hadoti di ipnotizzatore e incanta il pub-blico, portatore di “un muto volerecollettivo diffuso nell’aria”. IpnotizzaMario, un cameriere, e gli si presentacome la ragazza da quello amata, sene fa baciare. Mario, destatosi, louccide. Non fu difficile vedere inquesta storia i riferimenti al fasci-smo, al duce, alla (sperata, lontana)ribellione del popolo. Che era ancoramolto lontana: ci vollero una guerramondiale e due anni di guerra civileperché questo accadesse».

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sfugge, ma che certamente porterà alla morte di tutti loro o alla loro libertà”. Perquesto la sua vicenda è di ammonimento:

“il gioco è mortale – scrive – perché ancora siamo forti da poterli ammazzaretutti; ma la loro forza sta in una nostra strana perplessità. Lui va nel bosco solocon un fucile, vive non si sa come, ma sicuro più che se stesse a casa. E noi cheandiamo in cento a prenderlo, subiamo il suo fascino e ci facciamo colpire senzariuscire a raggiungerlo”.11

Ed ecco l’amara chiosa finale di Cavaglion:

«Di questo libro nel 1950 scrisse una bellissima recensione uno spirito libero,Gaetano Salvemini. Nessuno, temo, lo ripubblicherebbe senza prendere le distanzedal pericoloso “revisionismo” delle sue parole. Marin, scrive coraggiosamenteSalvemini, avrebbe trovato posto nell’uno o nell’altro schieramento, perché di qui edi là avrebbe trovato “gente equivoca e peggio che equivoca”, ma anche gente “daleccarsi i baffi”, purtroppo, “traviata da una falsa educazione”».12

Pensa in modo particolare a quelle tormentate terre di confine, Ernesto Galli dellaLoggia, quando scrive che «per la prima volta divenne indiscutibilmente chiaro alleforze dell’antifascismo che nel campo del vincitore esistevano due progetti diversi econtrapposti riguardo all’Italia, dal momento che in realtà il vincitore non era uno mane comprendeva almeno due, e questi due, gli “occidentali” e gli “orientali”, obbedi-vano a visioni del mondo incompatibili».13

11 Alberto Cavaglion, La Resistenzaspiegata a mia figlia, Beat, pagg. 32e seguenti12 Ibidem, pag. 34.13 Ernesto Galli della Loggia, La mortedella Patria, Laterza, pagg. 68-69.