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Andrea Canevaro (a cura di) L’INTEGRAZIONE SCOLASTICA DEGLI ALUNNI CON DISABILITÀ Trent’anni di inclusione nella scuola italiana Erickson SCRITTI DI: Serenella Besio Fabio Bocci Mariateresa Cairo Roberta Caldin Lucia Chiappetta Cajola Andrea Canevaro Lucio Cottini Piero Crispiani Luigi D’Alonzo Lucia de Anna Angelo Errani Anna Maria Favorini Italo Fiorin Maria Antonella Galanti Patrizia Gaspari Elisabetta Ghedin Catia Giaconi Rossella Gianfagna Dario Ianes Franco Larocca Angelo Lascioli Elena Malaguti Pasquale Moliterni Antonello Mura Marisa Pavone Patrizia Sandri Franco Schiavon © Edizioni Erickson – Copia concessa all’autore per esclusivo uso nell’ambito della valutazione scientifica. Ogni riproduzione o distribuzione è vietata

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Andrea Canevaro (a cura di)

L’INTEGRAZIONE SCOLASTICADEGLI ALUNNI CON DISABILITÀ Trent’anni di inclusione nella scuola italiana

Erickson

SCRITTI DI:Serenella Besio

Fabio BocciMariateresa Cairo

Roberta CaldinLucia Chiappetta Cajola

Andrea CanevaroLucio Cottini

Piero CrispianiLuigi D’AlonzoLucia de AnnaAngelo Errani

Anna Maria FavoriniItalo Fiorin

Maria Antonella GalantiPatrizia Gaspari

Elisabetta GhedinCatia Giaconi

Rossella GianfagnaDario Ianes

Franco LaroccaAngelo LascioliElena Malaguti

Pasquale MoliterniAntonello MuraMarisa PavonePatrizia Sandri

Franco Schiavon

© Edizioni Erickson – Copia concessa all’autore per esclusivo uso nell’ambito della valutazione scientifica.Ogni riproduzione o distribuzione è vietata

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I n d i c e

7 Premessa (Andrea Canevaro)

13 Introduzione (Andrea Canevaro)

PRIMA PARTE Lo sfondo e alcuni analizzatori dello sfondo

39 CAP. 1 Integrazione/inclusione in Italia (Franco Larocca)

59 CAP. 2 La disabilità nel dispositivo istituzionale dello stato di diritto (Franco Schiavon)

75 CAP. 3 Le politiche di inclusione in Europa e in Italia, dalla scuola di base all’università (Lucia de Anna)

85 CAP. 4 L’educazione attraverso il movimento: promuovere il ben-essere sociale in un contesto di inclusione (Elisabetta Ghedin)

103 CAP. 5 Lo sguardo atteso. Genitori, fi gli con defi cit visivo e intervento formativo (Roberta Caldin)

121 CAP. 6 I rifl ettori possono accecare, una luce distribuita consente di vedere meglio (Angelo Errani)

SECONDA PARTE La scuola e la sua prospettiva inclusiva

129 CAP. 7 La scuola luogo di relazioni e apprendimenti signifi cativi (Italo Fiorin)

159 CAP. 8 La via italiana all’integrazione scolastica degli allievi disabili. Dati quantitativi e qualitativi (Marisa Pavone)

185 CAP. 9 L’integrazione scolastica dal 1977 al 2007: i primi risultati di una ricerca attraverso lo sguardo delle famiglie (Luigi D’Alonzo e Dario Ianes)

221 CAP. 10 L’impiego funzionale degli strumenti di integrazione scolastica: Diagnosi funzionale, Profi lo dinamico funzionale e Piano educativo individualizzato (Lucia Chiappetta Cajola)

249 CAP. 11 La strutturazione delle competenze in relazione al profi lo della mediazione didattica (Pasquale Moliterni)

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267 CAP. 12 La matematica per l’integrazione degli allievi disabili (Patrizia Sandri)

287 CAP. 13 Per un’integrazione scolastica di qualità del bambino sordo: problemi e attuali prospettive (Patrizia Gaspari)

303 CAP. 14 Indicatori di qualità dell’integrazione scolastica dei disabili (Piero Crispiani e Catia Giaconi)

TERZA PARTE I contesti e i supporti oltre la scuola

323 CAP. 15 L’alleanza terapeutica: confl itti e sinergie tra le diverse fi gure di cura (Maria Antonella Galanti)

339 CAP. 16 Sessualità e handicap (Angelo Lascioli)

355 CAP. 17 Il pedagogista «speciale» nel contesto clinico. Analisi di una esperienza sul campo (Fabio Bocci)

377 CAP. 18 I centri di documentazione handicap(Rossella Gianfagna)

389 CAP. 19 Gioco e disabilità. Assicurare un’occasione di apprendimento (Serenella Besio)

QUARTA PARTE Il percorso della vita

413 CAP. 20 Tra welfare state e welfare society: il contributo culturale e sociale dell’associazionismo al processo

di integrazione delle persone disabili(Antonello Mura)

431 CAP. 21 Disabilità e integrazione lavorativa (Mariateresa Cairo)

449 CAP. 22 Alleanze educative e alfabetizzazione affettiva con genitori e insegnanti. Verso il progetto di vita(Anna Maria Favorini)

467 CAP. 23 Il progetto di vita per la persona in situazione di di-sabilità mentale: aiuti di qualità quando l’età avanza (Lucio Cottini)

483 CAP. 24 Accompagnare un progetto di vita. Orizzonti contemporanei nella pedagogia speciale(Elena Malaguti)

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1Tra welfare state e welfare society:

il contributo culturale e sociale dell’associazionismo al processo

di integrazione delle persone disabiliAntonello Mura

Introduzione

Nel primo ventennio del Novecento il fenomeno associazionistico comincia a interessare i differenti settori della vita comunitaria e nuove identità e diritti di cittadi-nanza fi no ad allora mai reclamati fanno la loro comparsa. La voce fl ebile di soggetti marginali, ritenuti per tradizione millenaria «diversi», perché interessati da menomazioni sensoriali e/o psichiche, ha modo di esprimersi per mezzo delle associazioni. Costituite direttamente dai soggetti interessati da disabilità, dai loro familiari, dai volontari e/o dai professionisti del settore, concorreranno a realizzare, soprattutto nella seconda metà del Novecento, una parte signifi cativa della storia culturale e sociale dell’educazione, dell’integrazione e delle politiche di welfare state nel nostro Paese, ma le loro vicende sono scarsamente note e indagate.

Sul piano della conoscenza e della ricerca si tratta di una marginalità scientifi ca che non ha consentito di cogliere il contributo trasformativo che esse hanno arrecato alla costruzione di nuovi comportamenti e consapevolezze nella sfera pubblica e nei modelli di cittadinanza. La situazione oggi è certamente mutata rispetto agli anni Cinquanta, periodo in cui sorgono alcune delle associazioni oggi più note,1 tanto da poter affermare che i riconoscimenti in senso giuridico non mancano2 e che la visibilità pubblica è ormai conseguita. Si tratta piuttosto di capire se nel modello di welfare society, verso cui il nostro Paese si orienta, ci sia uno spazio consono a riconoscerne l’identità e il patrimo-

1 ANMIL (1943), «La Nostra Famiglia» (1946), AIAS (1954), ANMIC (1956), ANFFAS (1958).2 Fra i provvedimenti normativi di più diretta attinenza: la legge 266/1991, la legge 104/1992, la

legge 162/98, la legge 383/2000 e la legge 328/2000.

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nio di esperienze, di solidarietà, di responsabilità, di competenza e in ultima istanza, di «civismo» maturato al loro interno. Diviene altresì fondamentale comprendere se esse possono offrire un contributo reale al cambiamento societario, oppure se i riconosci-menti recentemente tributati siano di più «corto respiro» e il passaggio in direzione del nuovo modello di welfare, in parte da loro stesse promosso, implichi il rischio di una trasformazione tanto radicale da snaturarle e trasformarle in «soggetti altri» rispetto alla loro matrice originaria.

Rispondere a questi interrogativi non è affatto semplice, si tratta di un lavoro im-probo che reclama pluralità di apporti e competenze e che va molto al di là della prima esplorazione compiuta da questo breve saggio. Pertanto si presterà attenzione al dibat-tito sociologico più recente, evidenziando le polarità concettuali che hanno connotato l’affermazione del modello denominato di «welfare state» e quelle che orientano verso il suo superamento in favore della tipologia che viene indicata, non senza incertezze o altre combinazioni,3 con la locuzione di «welfare societario». Con prospettiva pedagogica, successivamente si osserverà come le associazioni, concorrendo in maniera determinante al riconoscimento dell’identità, dei diritti e dell’autonomia delle persone in situazione di disabilità, siano state protagoniste dell’affermazione del primo modello, ma nel fare ciò siano anche divenute artefi ci, più o meno consapevoli, del suo superamento in favore del secondo. Si renderà a tal punto necessario prendere in considerazione alcuni nodi critici con cui le associazioni si dovranno obbligatoriamente confrontare prima di de-cidere con quali modalità continuare a concorrere propositivamente e operativamente alla qualità del sistema e dei servizi. Le scelte delle associazioni risulteranno di cruciale importanza non solo per il loro futuro, ma anche per l’integrazione e più in generale per il contributo etico-sociale che da esse può giungere a tutta la comunità civile.

Dal welfare state alla welfare society

In un numero consistente di Paesi dell’area europea è in atto il passaggio da un sistema di welfare garantito dallo Stato e fondato su principi collettivi e universalistici di solidarietà e di integrazione sociale, verso un sistema che intende produrre solidarietà e benessere comunitario attraverso la riduzione dell’infl uenza dello Stato e la valorizza-zione delle differenti aggregazioni comunitarie che, con interessi di mercato differenti,4 operano nell’ambito del sociale e dei servizi alla persona. La transizione pone dilemmi

3 Molti autori utilizzano la locuzione «welfare mix», in luogo di «welfare society». È appena il caso di notare che quest’ultima, pur richiamando la relazione tra i medesimi soggetti, lascia maggiore spazio concettuale al protagonismo attivo dei cittadini e all’umanizzazione dei rapporti tra soggetti istituzionali, sociali e individuali.

4 Non si può non osservare che oggi in ambiti «sensibili» quali la cultura e la formazione, i servizi alla persona, la previdenza e la sanità operano sia i soggetti del terzo settore (non profi t) sia i soggetti privati (profi t).

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culturali, politici, etici ed economici di non facile soluzione, travalica i confi ni delle politiche nazionali e, pur mantenendo alcune specifi cità da non sottovalutare, riguarda cambiamenti che orientano globalmente le politiche tra governanti e governati e che danno nuova fi sionomia alle relazioni comunitarie in ambito locale e transnazionale.

Nel tentativo di cogliere gli elementi differenti tra le due prospettive ci appare utile fare un sintetico riferimento al contesto internazionale attraverso il lavoro di Rodger (2004), che prende in esame il dibattito svoltosi negli anni più recenti nei Paesi dell’area OCSE. L’analisi dell’autore cerca di stabilire se i mutamenti in atto abbiano l’effetto di omologare i diversi sistemi intorno a un modello standard e unitario. La rifl essione prende avvio con un interrogativo volto a comprendere se l’attuale ridimensionamento del ruolo degli enti pubblici nei servizi di welfare dipenda dai cambiamenti strutturali delle economie post-industriali e delle società moderne o sia piuttosto frutto delle nuove strategie dei sistemi politici ed economici che auspicano una riduzione dei servizi pubblici (Rodger, 2004, p. 69).

Scartata l’ipotesi di utilizzare un indicatore generico di riferimento quale la crescita dei servizi sociali essenziali e della spesa pubblica che li sostiene (poiché tutti i sistemi di welfare tenderebbero a convergere, considerato che quasi tutti i Paesi dell’area OCSE hanno sviluppato un graduale aumento degli investimenti nella spesa sociale), l’autore identifi ca una linea evolutiva comune ai diversi contesti nazionali che giunge fi no ai primi anni Ottanta del Novecento.5

L’itinerario ha avvio con la costituzione e la diffusione dei meccanismi assicurativi riferiti alle assicurazioni obbligatorie contro le malattie e gli infortuni sul lavoro, introdotti da von Bismarck (1883) in Germania e successivamente ampliati con ulteriori misure di previdenza e protezione sociale sulla scorta delle riforme liberali inglesi. Tra le due grandi guerre e fi no agli anni Cinquanta le iniziative di protezione sociale si svolgono in linea di continuità con l’esistente, riorganizzandolo e includendo nuovi rischi. Il pe-riodo compreso fra gli anni Cinquanta e i primi anni Settanta viene invece considerato come fase di ulteriore consolidamento dei servizi, ma anche di espansione quantitativa e qualitativa del welfare pubblico, il quale raggiunge tutte le fasce sociali, nei differenti ambiti dell’assistenza socio-sanitaria, della previdenza e dell’istruzione, secondo il principio dell’universalismo e dell’uguaglianza delle prestazioni. Ma già a metà degli anni Settanta, sulla base della prima grande crisi petrolifera, i regimi di welfare avanzati conoscono una fase di instabilità e, considerata anche la maggiore pressione fi scale esercitata sui cittadini, si avviano i primi dibattiti sull’incapacità di tali sistemi di rispondere alle nuove povertà (tossicodipendenza, immigrazione, terza età, disabilità, ecc.) e dunque sulla necessità di ristrutturarli, ridimensionarli e persino smantellarli.

Se si analizzano i macro-tratti comuni alla maggior parte dei sistemi nazionali europei in relazione al trend economico che ne ha decretato il sorgere, lo sviluppo e

5 I riferimenti escludono gli Stati Uniti dove le politiche di welfare hanno avuto fi n dalle origini un itinerario differente.

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la crisi, continua Rodger, si potrebbero anche intendere le politiche di welfare state e il loro declino come «l’altra faccia della medaglia dello sviluppo industriale». Questa sarebbe però una lettura lineare e schematica che presta attenzione alle sole variabili socio-economiche e che non dà conto delle modalità estremamente differenti con cui ogni Paese ha reagito al mutare della situazione economica (Rodger, 2004, pp. 70-72). Sulla base di tale prima analisi, l’autore fa riferimento a tre tesi differenti per interpretare l’affermarsi e lo svilupparsi dei sistemi di welfare. Per esigenze di sintesi, se ne richiamano solo i tratti principali:

1. la tesi dell’industrializzazione: «l’idea di fondo è che nelle società moderne sia inevitabile affrontare i problemi politici e sociali che derivano dalla “urbanizzazione” dei sistemi produttivi» (Rodger, p. 72). Pertanto, l’espansione dei sistemi di welfare presuppone, come prima variabile, l’esistenza di un sistema economico nazionale tanto sviluppato da reinvestire un surplus di ricchezze in attività non produttive. La seconda variabile riguarda le trasformazioni demografi che. Secondo tale indicatore il futuro delle politiche dipenderà più dai fattori reali di squilibrio tra le componenti «produttive» e quelle «improduttive», che dalle scelte dei politici e delle lobby che sostengono il welfare. Anzianità e funzionalità dei sistemi di welfare rappresentano l’ultima variabile: maggiore è il loro radicamento culturale e territoriale e più effi ciente è la loro funzionalità, più complesso risulta, in termini di consenso, ridurli o elimi-narli. In estrema sintesi si può affermare che in questa tesi la capacità redistributiva dello Stato e il ruolo della politica risultano marginali. È invece evidente una stretta correlazione tra sviluppo industriale, ricchezza nazionale ed estensione del welfare state;

2. la tesi politocentrica: si sviluppa a partire dall’analisi della situazione relativa ad al-cuni contesti nazionali (Regno Unito, Paesi scandinavi) per stabilire una correlazione tra la crescita dello stato sociale e il livello di apertura delle economie nazionali. Le strategie di welfare universalistiche si sarebbero realizzate per tutelare i cittadini dai rischi insiti nel commercio internazionale. Ciò non andrebbe letto come strategia interna alle sole forze economiche, quanto piuttosto alle scelte operate da una volontà e decisionalità politica forte e determinata. Nei Paesi con tradizione socialdemocratica avrebbe inoltre concorso la presenza radicata e strutturata dei sindacati e dei partiti di sinistra, orientati alla crescita del welfare secondo principi di universalità d’accesso e parità di trattamento fra i diversi gruppi sociali e lavorativi. Lo sviluppo di sistemi di welfare ben radicati, in più Paesi dell’area OCSE, risulta correlato anche ad altre spinte ideologiche (cattolicesimo, democrazia cristiana, socialdemocrazia), ma è sempre la decisionalità politica dello Stato e la sua capacità di concertazione con le diverse parti sociali il motore dello sviluppo delle politiche di welfare;

3. la tesi statocentrica: nel prospettare tale tesi il nostro autore fa riferimento a Lockhart (1984), il quale sostiene che la questione principale riguarda chi decide quanto investire nelle politiche sociali. L’analisi evidenzia che i policy maker debbono necessariamente tener conto dei fattori strutturali di ordine economico, politico e

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sociale e ciò pone non pochi problemi. Una volta entrati a regime i servizi vengono infatti tutelati non dai decisori politici, ma da élite corporative: rappresentanti di associazioni, di sindacati, di gruppi di interesse eterogenei. Queste si pronunciano quasi sempre per l’incrementazione e il miglioramento qualitativo dei servizi e sono dunque poco inclini ai mutamenti che tendono a ridurre o a modifi care i programmi avviati, se non previa indicazione dei cambiamenti medesimi da parte loro. Come si evince, l’analisi tenta di integrare e conciliare gli elementi descritti nelle due tesi precedenti, evidenziandone i punti di contatto.

Non si segue oltre l’analisi comparata per verifi care in che modo si siano diffe-renziati all’interno dei diversi macrocontesti nazionali le politiche dei servizi. Si fa però cenno alla conclusione a cui l’autore giunge e che identifi ca nella differenza di forma e di contenuto i descrittori più interessanti. La forma del welfare che si è realizzata nei Paesi occidentali può considerarsi in misura rilevante come «il prodotto delle trasformazioni industriali e demografi che, da cui sono derivati i processi di urbanizzazione da un lato, e di globalizzazione delle attività economiche e produttive, dall’altro» (Rodger, 2004, p. 79). In tal senso i Paesi dell’area europea andrebbero in direzione di una convergenza che indica nel modello di «welfare attivo» da parte dei cittadini la via da percorrere nel prossimo futuro. Il contenuto può invece considerarsi frutto «delle culture politiche, delle strutture di classe e degli equilibri di potere tra le parti sociali, che caratterizzano ciascun Paese» (Rodger, 2004, p. 79). In relazione a ciò le differenze signifi cative già realizzatesi tra i diversi contesti nazionali continueranno a intervenire, condizionando le scelte dei singoli stati membri più di quanto non possano fare le politiche sovranazionali (Rodger, 2004, pp. 189-212).

Le conclusioni aperte e dialettiche a cui giunge Rodger aiutano senz’altro a disegnare una cornice entro cui leggere i fenomeni trascorsi e quelli in atto, ma non corrispondono in toto alla realtà di nessun Paese singolarmente considerato, poiché tesi e variabili esplicative si intrecciano nell’analisi delle singole realtà. Si sarebbero incontrate diffi coltà non dissimili facendo riferimento ad altre analisi e classifi cazioni internazionali, prima fra tutte quella ormai classica di Titmuss (1958), che individua le coordinate entro cui leggere l’affermazione e lo sviluppo dei sistemi di welfare attraverso la proposta di tre modelli esplicativi: residuale, meritocratico-funzionale e istituzionale redistributivo. O quella di Ferrera che, utilizzando come indicatore d’analisi modelli e criteri di copertura pensionistica e sanitaria, individua sistemi «occupazionali puri», «occupazionali misti», «universalistici puri» e «universalistici misti», che si realizzano in un continuum di combi-nazioni differenti in ciascun contesto locale (Franzoni e Anconelli, 2003, p. 19).

Emerge dunque l’esigenza di un’analisi più approfondita delle realtà nazionali. Tuttavia, prima di focalizzare l’attenzione su singoli elementi d’analisi locale, occorre fare sinteticamente riferimento ai fattori principali che segnano il passaggio alla welfare society. Seguiamo dunque ancora per un po’ l’analisi di Rodger che indica nei soggetti «periferici» delle politiche di welfare state (famiglia, comunità e mercato) i veri protago-nisti delle future politiche di welfare society.

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Le argomentazioni muovono da una sintetica analisi delle cause di declino del welfare tradizionale, riconducibili alle mutate condizioni politiche e sociali realizzatesi alla fi ne del ventunesimo secolo. Vengono così individuati alcuni macrofenomeni che avrebbero determinato il passaggio verso il nuovo modello:

1. mutamenti sociali riconducibili alle trasformazioni del lavoro: passaggio occupazionale dal capo famiglia al lavoro femminile, ma anche a quello precario e poco qualifi cato;

2. dispersione delle strutture politico-sindacali della classe operaia, venute a mancare con il processo di deindustrializzazione;

3. frammentazione delle classi lavoratrici e degli interessi che nel passato reclamavano un progetto complessivo di welfare a favore di istanze particolaristiche legate all’ap-partenenza a specifi ci focus di interesse o a categorie sociali;

4. richiesta delle classi medie di provvedimenti a tutela di alcuni bisogni e disinteresse verso il riconoscimento dei diritti delle fasce più povere di popolazione;

5. insuffi cienza dei fondi da destinare alle politiche sociali e aumento del prelievo fi scale a fronte di una crescente insoddisfazione dei cittadini per la qualità dei servizi che non riesce a rispondere, pur nel moltiplicarsi delle tipologie di prestazione e delle esigenze sempre più differenziate dei fruitori;

6. necessità di riattivare comportamenti virtuosi che riducano l’uso improprio dei servizi pubblici, che sfocia in molti casi in vere e proprie forme di abuso.

Sono dunque le trasformazioni sociopolitiche evidenziate che hanno originato la modifi ca dei sistemi tradizionali di welfare e che hanno sollecitato risposte istituzionali da parte dei governi e di vicarianza e surroga da parte del mercato e della società civile. L’analisi non si spinge oltre e non prende in esame le scelte poste in essere. Sarebbe stato invece estremamente utile soffermare l’attenzione su queste ultime, poiché sono proprio esse6 che, inserendosi negli interstizi della crisi, hanno originato le attuali forme di integrazione nell’erogazione dei servizi, orientando verso ciò che in modo ancora incerto defi niamo welfare society. Dal canto suo l’autore conclude il ragionamento indi-viduando nella teoria del capitale sociale, così come proposta da Coleman (1988), un bene pubblico e una risorsa necessaria da attivare per facilitare l’impegno civico nella comunità. La possibile ricomposizione fra i diversi stakeholder passa infatti, sempre secondo Rodger, attraverso la promozione di un forte associazionismo civile, supportato e affi ancato da un’autorità politica altrettanto forte. Ne deriva per qualsiasi modello di

6 Sul versante politico e istituzionale le strategie amministrative ed economiche poste in atto sono state molteplici; fra le più evidenti: decentramento delle responsabilità in materia di welfare dallo Stato alle amministrazioni locali; introduzione di misure gestionali e operative tecnicistiche nella erogazione dei servizi pubblici; esternalizzazione di una parte rilevante di servizi pubblici a favore di soggetti terzi; varo di normative mirate a stimolare l’intervento di soggetti privati nella produzione dei servizi alla persona. Ci sembrano questi alcuni degli elementi più signifi cativi che, da un lato, hanno consentito l’espandersi degli interessi del mercato profi t e non profi t e che, dall’altro, hanno permesso di rico-noscere e valorizzare pubblicamente le risorse e le competenze maturate storicamente nell’ambito del volontariato e dell’associazionismo civile.

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welfare societario la necessità dell’istituzione di regole di partecipazione che incentivino e disciplinino lo sviluppo delle iniziative mutualistiche e dell’imprenditorialità sociale solidale da parte della società civile.

Per quanto interessante, la lettura dei macrofenomeni che hanno determinato prima l’affermazione e successivamente il declino e la trasformazione dei sistemi di welfare nella loro globalità e complessità non riesce a dar conto, seppure ne lasci intravedere l’importanza, del ruolo svolto dalle parti semplici del sistema, tant’è che nell’analisi il rapporto tra «forma» e «contenuto» resta dialetticamente aperto. In tempi di «modernità liquida», come li defi nisce Bauman (2002), ciò che rimane irrisolto non è certo un fatto secondario, poiché in ultima istanza le trasformazioni dei sistemi di welfare rinviano al rapporto tra individuo e società e alla possibilità che sia il primo a subire gli orientamenti, casuali e/o artefatti, della seconda piuttosto che a sceglierli e indirizzarli. Non si tratta di un problema di poco conto, poiché a un’analisi radicale il tema del mutamento sociale richiama quello del rapporto tra forma del soggetto e formazione nella sua universalità e implica dunque la necessità di «assumere un punto di vista che consideri il problema sistema-forma società o il sistema-forma individuo» (Fadda, 1998, p. 210). La scelta nella sua crucialità evidenzia l’insuffi cienza della sola prospettiva sociologica e richiama il contributo rifl essivo della pedagogia, che da sem-pre «studia i processi formativi e si trova a dover conciliare l’esigenza di un pensiero unitario e di ampia curvatura che sappia opporsi agli specialismi esasperati che fanno smarrire il senso globale dei problemi che tratta e quella di evitare i riduzionismi di ogni genere in cui può cadere il pensiero unifi cante» (Fadda, 1998, p. 211) qualunque ne sia la matrice. È sulla scorta di una siffatta linea rifl essiva che diventa estremamente interessante fare riferimento all’apporto che nel nostro Paese le associazioni che si occupano di disabilità hanno fornito al processo di integrazione e, contestualmente, al sorgere e al realizzarsi del sistema di welfare.

Tra storia e prospettive di sviluppo: il contributo dell’associazionismo all’in-tegrazione e al welfare

Nel primo ventennio del Novecento si assiste al formarsi dei primi comitati e delle prime associazioni di minorati sensoriali i quali, a causa del pregiudizio scientifi co e popolare, erano stati sospinti fi no ad allora ai margini della vita sociale, tanto da essere considerati degni del solo sentimento pietistico e dell’aiuto caritatevole (Ceppi, 1969, pp. 19-21). In particolare, sotto la duplice spinta della volontà di riscatto e di affermazione dei primi ciechi istruiti negli istituti rieducativi e dell’orgoglio dei redu-ci, che avevano perso la vista nel corso della prima guerra mondiale, si costituiva a Genova, nel 1920, l’Unione Italiana Ciechi (UIC). L’associazione, sorta per opera di Nicolodi, raccoglieva i diversi gruppi e comitati dei ciechi già esistenti e nell’arco di un quinquennio si diffuse con centri di riferimento organizzativi in quasi tutte le regioni

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italiane. I fondatori dell’UIC individuavano come scopo fondamentale dell’associazione l’assistenza morale e materiale dei ciechi attraverso l’intervento attivo e solidale, ma erano anche profondamente convinti che ogni possibilità di riscatto nei confronti della mendicità e del fi lantropismo non potesse che passare attraverso l’impegno ad agire nei settori dell’istruzione e dell’avviamento al lavoro. Non appaiono trascurabili in tal senso i risultati ottenuti in un brevissimo lasso di tempo sul versante dell’istruzione. A seguito infatti della partecipazione nel 1922 dei responsabili associativi ai lavori di una commissione di esperti sul problema dell’istruzione dei ciechi in Italia, la riforma scolastica di Gentile, l’anno successivo, operava la prima apertura nei confronti delle minorazioni sensoriali. Il RD 3126 estendeva infatti, per la prima volta nella storia, l’obbligo scolastico ai ciechi e ai sordi che non presentassero altra anormalità che ne impedisse loro l’ottemperanza. Appare altresì signifi cativo il varo del RD 2184 che, nello stesso anno, sanciva la trasformazione degli istituti per ciechi in istituti scolastici. Ciò «operava una sostanziale modifi ca nell’opinione pubblica e nel comportamento degli organismi interessati che si orientavano a considerare i fanciulli privi della vista non più come oggetti di assistenza ma come soggetti di educazione» (Ceppi, 1969, p. 28). L’anno successivo vennero anche varati i programmi didattici e un regolamento destinato ai giardini d’infanzia e alle scuole elementari e furono stabilite le norme per il funzionamento delle scuole professionali annesse agli istituti rieducativi. Non si procede oltre nell’indicazione di norme e provvedimenti, si osserva piuttosto che la presenza dell’UIC, come soggetto di coordinamento, dava i primi risultati positivi, prospettando «il problema dell’istruzione nella sua organicità, non solo come problema di formazione umana, ma anche come prospettiva di partecipazione attiva dei giovani non vedenti alla vita produttiva e in genere alla società in tutte le sue manifestazioni» (Ceppi, 1969, p. 28).

Nello stesso anno in cui si costituiva l’UIC si svolgeva anche il primo convegno dei sordomuti italiani e si costituiva la Federazione Italiana delle Associazioni fra Sor-domuti. La FIAS raccoglieva un cospicuo numero di piccole associazioni già esistenti e, in occasione del convegno di Roma del 1922, proponeva le sue linee d’azione: «istruzione obbligatoria dei sordi, avviamento al lavoro, istituzione del patronato per la difesa e l’assistenza dei lavoratori sordi nei confl itti con privati e istituzioni» (Centro nazionale documentazione e storia dei sordi «Vittorio Ieralla», 2004, p. 13). Anche la FIAS si adoperava immediatamente sul versante dell’istruzione, tanto da rivendicare come prima conquista congiunta con l’UIC i provvedimenti di cui al già citato RD 3126 sull’istruzione obbligatoria. L’anno successivo, proprio sull’interpretazione e realizzazione delle linee programmatiche, si apriva una crisi interna, che dava luogo a una scissione e alla costituzione di un altro organismo nazionale, l’Unione Sordomuti Italiani. Tale frattura veniva sanata solo nel 1932 quando, in occasione del convegno di Padova le due associazioni, dopo un confronto aspro e critico, decidevano di ricongiungersi dando vita a un unico soggetto associativo: L’Ente Nazionale Sordomuti. Nel 1942, l’ENS veniva riconosciuto dallo Stato come ente morale. Ciò consentiva di esercitare la rap-

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presentanza e il patrocinio degli interessi dei sordomuti e di gestire la regolamentazione e lo sviluppo degli istituti di educazione dei sordi in età scolastica. L’artefi ce principale di tale riconoscimento fu certamente Magarotto che lavorò intensamente per il suo conseguimento. Nella sua idea l’ENS doveva prima di ogni altra cosa operare per far superare la «pietosa benefi cenza» fi no ad allora riservata ai sordomuti e attivarsi

[...] per dare loro la possibilità di continuare gli studi, di perfezionarsi nelle loro arti e mestieri, di assicurare loro un posto dignitoso nella vita e le possibilità di formarsi una famiglia, di organizzare una assistenza mutualistica equa, di predisporre per loro e per i loro fi gli tutta una serie di provvidenze in modo da assicurare loro una tran-quilla vecchiaia e infi ne partecipare liberamente a tutte le attività e manifestazioni di carattere collettivo, schivando ogni idea dottrinaria o partigiana. (Magarotto, in Centro nazionale documentazione e storia dei sordi «Vittorio Ieralla», 2004, p. 55)

Il pensiero di Magarotto tracciava la rotta di lavoro dell’ENS e il suo impegno in prima persona fu totale, ma la sua vicenda personale, per quanto meritoria, non può essere seguita in questa sede. Si segnala invece che, per opera delle pressioni congiun-te dell’UIC e dell’ENS, giunse nel 1938 un altro risultato estremamente importante: l’abolizione dell’art. 340 del Codice civile, che fi no ad allora aveva dichiarato i sordi e i ciechi dalla nascita inabilitati di diritto una volta raggiunta la maggiore età.

Dai brevi richiami svolti emerge come l’azione iniziale delle prime due grandi associazioni fosse tesa a far comprendere e riconoscere che «dietro» lo stigma della minorazione sensoriale non c’era un «uomo mancato» a cui il defi cit aveva sottratto le caratteristiche di umanità, c’era piuttosto un soggetto che al pari di ogni altro essere umano desiderava di essere riconosciuto. Desiderava anche di essere istruito e educato. Per i fondatori delle prime associazioni era infatti chiarissimo che è la faticosa conqui-sta dell’educazione che rende ciascun essere umano protagonista libero del proprio progetto esistenziale. Si può altresì notare che quello associazionistico si presenta fi n dal suo sorgere come progetto globale, tant’è che il tema del lavoro, subito dopo quello dell’istruzione, divenne il principale cruccio dell’impegno associativo, trovando un primo parziale riconoscimento solo nel 1958, anno di istituzione della prima legge sul lavoro obbligatorio (legge 308/1958), che consentiva ai ciechi e ai sordomuti di trovare occupazione presso gli uffi ci statali e gli enti pubblici. Non mancano nemmeno i riferimenti ai bisogni assistenziali e previdenziali, ai quali si vuole provvedere mediante il lavoro e l’impegno diretto nella produzione del reddito, ma anche con la solidarietà attiva e mutualistica dell’associazione nei confronti degli inabili gravi che non possono esercitare alcuna attività lavorativa.

Riconoscimento del diritto all’identità, alla competenza e all’autonomia po-trebbero essere i termini che sintetizzano l’azione diretta e l’impegno rivendicativo delle prime associazioni a favore del soggetto in situazione di disabilità nella prima metà del Novecento.

Si era dunque tracciata la via che con maggiore ampiezza e intensità si sarebbe sviluppata nella seconda metà del secolo scorso.

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Quest’ultima si apriva ricca delle speranze sancite dal dettato costituzionale, ma la condizione esperita dai disabili doveva attendere ancora perché i diritti costituzionali trovassero applicazione. Basta prestare attenzione alle vicende istitutive delle principali associazioni che sorsero in quel primo decennio post-costituzionale per rendersi conto che la loro nascita non fu altro che la risposta diretta che le famiglie, i volontari e gli stessi disabili diedero al senso di isolamento sociale, alla prassi dell’istituzionalizzazione, al pregiudizio culturale e sociale radicato e diffuso, «alla assoluta assenza di interventi da parte degli organismi pubblici e agli atteggiamenti rinunciatari dei medici» (D’Amato, 2004, p. 9).

Nel 1952, la sig. Serra, madre di un bimbo spastico, rivolgendosi a un medico dell’ospedale Bambino Gesù di Roma, si senti rispondere che «quello degli spastici è un problema di lusso» (D’Amato, 2004, p. 9) rispetto alle altre urgenze. Si trovò così costretta, come tanti altri genitori, a recarsi all’estero (Inghilterra) dove venne incorag-giata — sulla base di quanto ebbe modo di osservare e di conoscere circa gli interventi e i trattamenti vigenti — a tornare in Italia e ad attivarsi per convincere i medici a stu-diare la spasticità e nel contempo offrire ai ragazzi gli interventi educativi, terapeutici e riabilitativi che consentissero loro di sentirsi vivi e protagonisti della propria esistenza. Fu così che nel 1954, a Roma, sorse uffi cialmente l’Associazione per l’Assistenza agli Spastici (oggi AIAS). A meno di un anno dalla fondazione, l’associazione contava già un primo successo, il varo della legge 218/1954 «Assistenza e cura dei bambini discinetici poveri». Ma la legge non garantiva continuità di assistenza nel tempo e non prevedeva alcun intervento educativo-scolastico, accanto a quello riabilitativo. I soci stilarono così un articolato programma di interventi,7 che diede modo all’associazione di diffondersi sul territorio nazionale, facendosi promotrice della creazione e apertura, in proprio, di centri riabilitativi ambulatoriali, con annesse le scuole.

Diversa nelle vicissitudini iniziali, ma non nelle motivazioni di contesto, è certamente la storia dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi Civili (ANMIC) che si costituì nel 1956 a Taranto per opera di Lambrilli e Quaranta. I due invalidi, aiutati da una buona istruzione e da uno status socio-economico favorevole, si incontrarono casualmente e dalla loro amicizia scaturì l’idea di un progetto che a quel tempo appariva estremamente complesso e improbabile negli esiti: aiutare gli altri invalidi civili (spastici, poliomielitici, cardiopatici, amputati, ecc.) a vedere riconosciuti i diritti di tutela costituzionale, ancora del tutto ignorati. Come si evince dalla cronaca giornalistica del tempo, l’accattonaggio e la mendicità a cui questi ultimi erano quasi sempre costretti per vivere venivano tollerati purché non sconfi nassero nella molestia, ma «il problema del loro reinserimento nella vita attiva della Nazione neppure sfi orava la mente dei “benpensanti”» (ANMIC, 2003,

7 Si riportano in forma sintetica i primi obiettivi dell’associazione: specializzazione e formazione degli operatori; lavoro d’équipe nell’azione di recupero, educazione scolastica e avviamento al lavoro dello spastico; lavoro di ricerca sull’incidenza del fenomeno spasticità; interventi di prevenzione; sensibi-lizzazione e divulgazione della problematica, reperimento di fondi per le famiglie che non potevano contribuire alla gestione del centro (D’Amato, 2004, p. 11).

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p. 9). L’idea iniziale che guidava i due fondatori era dunque quella di attivare il riscatto morale degli invalidi sollecitando l’impegno diretto dello Stato, ma anche dei privati, nella costruzione di centri di rieducazione fi sico-motoria e centri professionali di avvia-mento al lavoro, dove i minorati potessero qualifi carsi o riqualifi carsi a seconda delle attitudini e delle capacità lavorative residue. In breve tempo, a prezzo di un gravosissimo impegno personale, che privò i due anche delle proprie risorse economiche, la loro idea si diffuse, sezioni provinciali di riferimento furono create in ogni regione italiana e gli obiettivi iniziali vennero allargati fi no a sollecitare l’attivazione e l’attuazione delle principali responsabilità statali in materia di sicurezza sociale.

Le motivazioni istitutive non appaiono differenti se si fa riferimento a Menegotto, madre di un bambino con disabilità psichica, che nel 1958, «per abbattere la barriera dell’incuria e dell’incomprensione» (Mura, 2007, pp. 104-108) fondò con altri dieci genitori l’Associazione Nazionale Famiglie di Minorati Psichici (oggi ANFFAS). Anche in questo caso fu il profondo e totale disinteresse istituzionale e sociale, che per il defi -cit mentale generava ancor più che per le altre condizioni un clima di ghettizzazione e compatimento, a spingere i genitori a impegnarsi «a promuovere, sollecitare, attuare provvidenze assistenziali, educative, ricreative scolastiche e di qualsiasi altro genere, a favore di fanciulli e minorenni di ambo i sessi, comunque minorati psichici, meno dotati, anormali nel carattere» (Speziale, 2004, pp. 15-16).

Non si possono seguire singolarmente, né le vicende delle associazioni citate, né quelle delle centinaia di piccole associazioni che soprattutto a partire dagli anni Settanta si sono costituite su tutto il territorio nazionale. Si può però affermare che fu proprio a partire dalle iniziative assunte da questo primo nucleo di associazioni che, sul fi nire degli anni Sessanta, si sviluppò un ampio dibattito politico e culturale sulla disabilità che investì le responsabilità istituzionali nei differenti settori dell’istruzione, della sanità e dell’assistenza sociale, fi no a confi gurare un modo totalmente nuovo di rapportarsi alle esigenze e ai diritti delle persone disabili.

Non si possono citare neanche le molteplici iniziative e attività educative, ludiche, sanitarie, assistenziali, culturali e politiche realizzate dalle associazioni, ma a mero titolo esemplifi cativo di un contributo molto più ampio si possono ricordare: il memorandum che l’ANFFAS nel 1959 inviò alle massime autorità di Governo indicando precise azioni da perseguire per il miglioramento delle condizioni esistenziali delle persone con disabilità psichica e dei loro congiunti;8 le tre «marce del dolore» organizzate dall’ANMIC (1961, 1964, 1968) per reclamare i diritti di parità, di uguaglianza (nell’assistenza pensionistica, nel lavoro, nelle prestazioni sanitarie e protesiche) e il riconoscimento della categoria; la conferenza internazionale di Stresa (1965) organizzata dall’AMNIL e dall’AIAS congiun-

8 Nel documento si indicano alcuni importanti interventi da realizzare: a) istituzione di classi differen-ziali; b) iscrizione a carico dei comuni e delle province delle spese obbligatorie per l’assistenza ai minorati psichici; c) creazione di centri di lavoro industriale e agricolo; d) istituzione di previdenze pensionistiche e assicurative a benefi cio dei ragazzi rimasti orfani (Speziale, 2004, p. 16).

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tamente alla FIMITC (Féderation Internationale des Mutilés, Invalides du Travail et Civils) che avviò anche in Italia, il dibattito sull’abbattimento delle barriere architettoniche; l’attivazione di colonie marine e montane da parte di numerose associazioni, con lo scopo di migliorare la salute dei soggetti disabili e spezzare l’isolamento che li costrin-geva all’interno della famiglia; la richiesta di passaggio nel 1969 da parte dell’AIAS dei centri di riabilitazione agli enti pubblici; le collaborazioni internazionali intrattenute da quasi tutte le associazioni che informavano e consentivano la comparazione con gli altri contesti nazionali; i convegni nazionali e internazionali organizzati dalle associazioni sui temi dell’istruzione, della ricerca scientifi co-sanitaria e dello stato sociale; gli organi di stampa autonomi di cui la quasi totalità delle associazioni si era dotata per raggiungere i propri associati e informare tutti i cittadini delle problematiche connesse alla disabilità; i fi tti rapporti intrattenuti con le autorità politiche e religiose.

Quelli indicati sono solo alcuni degli elementi che consentono di comprendere quale sia stato il ruolo propulsivo e l’apporto delle associazioni per il dibattito politico e pubblico sviluppatosi intorno agli anni Settanta e concretizzatosi in riforme sostanziali. Tra le più signifi cative: la legge 482/1968 sul collocamento obbligatorio; la legge quadro 118/1971 che, oltre a disciplinare le provvidenze sanitarie ed economiche a favore degli invalidi civili e degli invalidi psichici in età evolutiva, prevedeva l’abbattimento delle barriere architettoniche e la frequenza nelle scuole normali per i disabili non gravi; la legge 517/1977 che avviava il processo di integrazione di tutti gli alunni disabili nella scuola ordinaria; la legge 833/1978 che istituiva il Servizio Sanitario Nazionale; la legge 33/1980 perequativa delle pensioni con riferimento al «reddito individuale»; la legge 18/1980, che prevedeva l’erogazione di un’indennità di accompagnamento per i disabili gravi.

Sono norme che superano defi nitivamente ogni concetto di welfare residuale e introducono un modello di welfare istituzionale che, attraverso i concetti di prevenzione, di universalismo, di uguaglianza delle prestazioni, di territorializzazione degli interventi, di formazione di personale qualifi cato, dà avvio alla moltiplicazione dei servizi facendosi carico quasi totalmente dei bisogni di sicurezza sociale di tutti cittadini. Si pongono altresì le basi per l’integrazione delle politiche sociali, sanitarie e educative e si mette in risalto la positività della partecipazione dei singoli individui, dei gruppi associativi e neocorporativi alla realizzazione dei servizi a fi anco dello Stato, delle regioni e degli enti locali (Zurru, 2006). È in un siffatto contesto che comincia a maturare l’idea che le famiglie e le associazioni di volontariato non siano da considerare meri destinatari dei servizi, ma interlocutori privilegiati nel processo programmatorio degli interventi socio-sanitari e educativi territoriali gestiti dagli enti locali.

Già nei primi anni Ottanta le politiche di welfare state cominciano però a esibire, anche nel nostro Paese, le diffi coltà legate ai tagli delle risorse economiche, all’incre-mento delle richieste di servizi sempre più particolareggiati e specialistici, alle risposte sempre più tecnicistiche e burocratiche che non soddisfano i cittadini, e all’eterogeneità quantitativa e qualitativa dei servizi realizzati dagli enti locali. Si tratta di diffi coltà che si

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oggettivano nella carenza qualitativa, ma anche nell’assenza dei servizi alla persona e che inducono i decisori politici a più di un’azione che invita i soggetti del privato sociale, fi no ad allora marginali, a collaborare con il settore pubblico. Ciò non riduce minimamente l’attività di sensibilizzazione, di advocacy e di tutela degli interessi dei disabili nei confronti dello Stato e della comunità svolta fi n dal loro sorgere, ma dà modo alle associazioni di proiettare anche al loro esterno il ricco patrimonio di esperienze di cittadinanza attiva e solidale che già da tempo, e prima di ogni altro soggetto, avevano maturato.

È così che, per quanto concerne le politiche dell’integrazione, le associazioni hanno modo di sollecitare e di accompagnare il processo di municipalizzazione del welfare e di sussidiarietà diffusa che si sviluppa a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta e che è pienamente in atto. Nel processo di transizione tra i due sistemi (nazionale-locale), esse non hanno mai rinunciato a svolgere la funzione critico-politica nei confronti delle istituzioni nazionali e locali, sollecitando provvedimenti normativi e interventi concreti che coinvolgessero l’intero ecosistema dei servizi di supporto ai bisogni educativi scola-stici, sociali, territoriali e sanitari, senza mai rinunciare a vedere anche nelle situazioni più complesse il diritto all’integrazione e alla piena realizzazione dei potenziali della persona. Hanno anche esibito e messo a disposizione della comunità e delle istituzioni un repertorio di competenze e di progetti originali e innovativi riguardanti gli interventi di integrazione e di servizio alla persona che l’istituzione pubblica, nella sua dimensione locale, non possedeva affatto. Si tratta di un’expertise culturale, progettuale e operativa che, fi nalizzata alla riduzione della disabilità e all’integrazione della persona disabile, si è sviluppata sulla base di una precisa intenzionalità formativa e solidale, e che per lungo tempo si è espressa nell’auto-mutuo aiuto associativo, nella sensibilizzazione dell’opinione pubblica e nell’attivazione e gestione in proprio di servizi, di iniziative di promozione e di sviluppo della ricerca scientifi ca e della formazione in ambito educativo, sociale, lavorativo e sanitario.

Non si ritiene opportuno entrare nel dettaglio delle iniziative e delle azioni svolte, peraltro già ampiamente documentate in un precedente lavoro (Mura, 2004), se ne richiama però il signifi cato per sottolineare che se si limita l’analisi di tale expertise alle evidenze fenomeniche più immediate si rischia di perdere il fondamento delle stesse e il signifi cato ultimo della loro azione.

Infatti, la progettazione, la gestione e l’erogazione dei servizi sono solo i dati più evidenti dell’istanza ontologica di riconoscimento, di co-appartenenza e di prossimità che l’uomo, disabile o meno, «invoca» da parte dell’altro uomo, e il merito delle associazioni è stato proprio quello di rispondere a tale «appello». Esse hanno individuato nel volto smarrito del disabile e nel suo isolamento quello di tutti gli uomini nella loro condizione di maggiore indigenza, ma anziché arrendersi al destino di disgrazia, di malattia e di abbandono, a cui la storia aveva consegnato la disabilità, hanno reagito con la preoc-cupazione e la sollecitudine che si radica nell’azione di cura e coltivazione educativa e hanno dato avvio a iniziative solidali di auto-mutuo aiuto divenute via via sempre più complesse per ricchezza umana, professionale, progettuale e organizzativa. Ciò ha

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dato modo alle associazioni di anticipare le risposte istituzionali, vicariandone l’assenza in più contesti. L’expertise maturata nel corso di quasi un secolo ha consentito loro di organizzarsi e di mobilitare risorse private e pubbliche, penetrando nella vita sociale del Paese come «agenti di mutamento sociale», capaci di prendersi cura dei diritti e dei bisogni individuali e collettivi e di promuovere progresso sociale ed etico. Le collabora-zioni con le istituzioni, gli enti locali e il territorio si sono sviluppate in modo crescente e ciò ha permesso che esse assumessero un ruolo e un peso sempre maggiore nella contrattualità politica, conseguendo una soggettività sociale che, sul fi nire degli anni Novanta, ha consentito loro di essere riconosciute a tutti gli effetti come soggetti co-responsabili, co-produttori e co-gestori nella progettazione e realizzazione dei sistemi integrati di intervento sociale, sanitario e dell’istruzione.

Bisogna però andare oltre l’evidente per comprendere appieno il valore dell’azione pubblica delle associazioni e nel contempo individuare i possibili rischi insiti nel potere simbolico maturato e nel riconoscimento politico da esse ottenuto. Per quanto concerne il primo aspetto, torna utile il riferimento ai concetti di sistema-forma «società» e di sistema-forma «individuo» già prospettati, per rimarcare che le scelte delle associazioni e il loro contributo alle politiche dell’integrazione e del welfare si possono inscrivere totalmente nella seconda opzione. Se si fa riferimento alla capacità di infl uenzare le politiche, i com-portamenti e le consapevolezze sociali è infatti evidente che esse, a partire dai bisogni del soggetto, hanno prefi gurato un sistema di cura formativa e sociale che sta trasformando la coscienza pubblica e istituzionale, modifi cando i valori costituiti per affermarne di nuovi. Nel fare ciò, le associazioni hanno utilizzato e acquisito un potere simbolico di enorme rilievo dovuto e riconosciuto dal fatto che la loro azione, a partire dalle esigenze dei soggetti più deboli, ha promosso e generato progresso sociale ed etico per l’intera comunità. Ora però i riconoscimenti acquisiti le inscrivono all’interno di un sistema di regole governato dalle politiche istituzionali, obbligandole a ripensarsi quali soggetti protagonisti e interlocutori di pari responsabilità con gli altri co-attori sociali pubblici e privati che affollano il proscenio ove si va costruendo la cittadinanza attiva. Se per un verso non si dubita che esse, in virtù del principio pedagogico di humanitas universale che fi nora le ha connotate, possano intrecciare le loro responsabilità educative e civiche con quelle di altri partner sociali, contri-buendo attivamente a costruire e animare nuove forme di cittadinanza solidale e societaria, per l’altro non si può escludere che, nelle regole non ancora ben defi nite che governano le politiche sociali, esistano pericoli di «snaturamento», legati alla eventuale adozione di ragioni politico-gestionali e culturali del tutto estrinseche ai principi e alle fi nalità che fi nora hanno ispirato e orientato le scelte e le azioni delle associazioni.

Aspetti problematici

Quanto fi nora esaminato induce a osservare che la normativa prodotta sul fi nire degli anni Novanta in materia di sistema integrato di servizi sociali nel nostro Paese

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sia anche il risultato di un lungo processo di crescita e maturazione della società civile, a cui le esperienze di cittadinanza attiva del mondo dell’associazionismo volontario hanno concorso in maniera più che rilevante. Fino a che punto, però, ciò può essere considerato elemento di garanzia per l’affermarsi di una cittadinanza attiva e autonoma, fondata sui principi di prossimità solidale e dunque di rispetto dei diritti anche di chi non li può esprimere direttamente? La domanda, in un sistema societario che si trova in una fase di trasformazione quale è quella attuale, è destinata a non trovare risposte immediate. Per un verso infatti, come si è già accennato, non c’è ragione di dubitare che l’associazionismo rappresenti un soggetto capace di attivare l’integrazione sociale delle persone interessate da disabilità in seno alla comunità, sia come promotore e mol-tiplicatore di senso civico, sia come innovatore progettuale e co-produttore di servizi alla persona e alla società. Per l’altro, si ha l’impressione di non poter nemmeno escludere possibili derive strumentali ed economiciste, soprattutto se si osserva la volubilità con cui vengono varate e interpretate anche decisioni politiche strategiche quali quelle assunte in ambito formativo e socio-sanitario, che talora sembrano legate più alle contingenze economiche delle leggi fi nanziarie e delle mutevoli alleanze di governo che a un pro-getto culturale e socio-politico meditato, condiviso e soprattutto capace di rispettare e orientare il singolo cittadino e la comunità.

Il riconoscimento del ruolo e delle funzioni che le associazioni assumono nella costruzione attiva del sistema di welfare, ottenuto con la legge 328/2000 e con la legge 383/2000 e salutato dalle stesse come una svolta storica fondamentale nel loro percorso evolutivo, le pone di fronte a nuove responsabilità e trasformazioni di non poco conto. Divenire uffi cialmente una componente del sistema di produzione/eroga-zione di servizi, per la maggioranza delle associazioni di medie e di piccole dimensioni, principalmente fondate sulla disponibilità del lavoro genitoriale e volontario, comporta una modifi cazione organizzativa e professionale che tende a istituzionalizzare/com-mercializzare le pratiche di cura educativa e socio-sanitaria alla stregua di qualsiasi altro bene di scambio. La questione si presenta estremamente complessa e l’entusiasmo delle associazioni non può non confrontarsi, in fase operativa, con alcuni nodi critici sia di carattere pedagogico, che attengono direttamente alla conferma/evoluzione della loro mission iniziale, sia istituzionali, che ostacolano la piena applicazione dei contenuti indicati dalla stessa legge 328/2000. Trattandosi di problematiche aperte che, per un verso, rinviano all’analisi e al dibattito critico-rifl essivo interno alle componenti asso-ciative e, per l’altro, al più ampio dibattito socio-politico, ci limitiamo a prospettarle in modo sintetico e dubitativo.

In primo luogo, si può realisticamente pensare che la cura educativa e sociale possa essere «erogata» e «venduta», senza violare l’intima natura pedagogica della stessa, a soggetti considerati «utenti», «clienti», «destinatari» dei servizi educativi, clinico-riabilitativi e assistenziali anziché partner dei processi posti in essere? Specifi cando ulteriormente, si può ipotizzare che la relazione d’aiuto, consustanziale alla cura educativa e sociale, possa essere «erogata» piuttosto che «co-costruita», «oggettivizzata» nelle prestazioni

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piuttosto che «interpretata» nelle relazioni, «standardizzata» dalle procedure piuttosto che «personalizzata» negli interventi, «parcellizzata» piuttosto che assunta in un «progetto globale di vita»? La neutralità e l’imparzialità a cui le norme, le regole e i principi di garanzia delle prestazioni istituzionalizzate inevitabilmente rinviano, non comportano il rischio di ricadere nella logica che da sempre le associazioni hanno avversato?

In secondo luogo, come conciliare il dialogo, il confronto, la solidarietà e il dono costitutivi dell’identità di una molteplicità di piccole associazioni di auto-mutuo aiuto con le logiche concorrenziali, progettuali e organizzative d’impresa che il «quasi-mercato» reclama, qualora si voglia far parte come attori della rete integrata delle risorse e dei servizi del territorio? È ovvio che molte associazioni, pena l’esclusione dal sistema, si doteranno di fi gure professionali che consentano di essere parte attiva e non esecutori residuali o agenti separati, ma si tratta di una scelta libera? Ancora, siamo certi che l’immissione di operatori specializzati, che tende a irrobustire organizzativamente e professionalmente le associazioni, non fi nisca per allontanare i principali promotori e artefi ci della cittadinanza attiva (Catalbianco, 2003) e dunque riduca il surplus di ricchezza che sarebbe dovuto derivare dall’apporto associativo?

In terzo luogo, parte rilevante dei riconoscimenti e del potere di rappresentanza civica ascritto alle associazioni è derivata in virtù della funzione critico-politica ed emancipatoria da esse esercitata nei confronti delle istituzioni e della coscienza collettiva (Mura, 2004; 2006; Moro, 2005). Come si può conservare tale funzione quando si diventa soggetti di «governo» compartecipi e corresponsabili delle scelte della politica istituzionale? Si tratta di conciliare l’inconciliabile o piuttosto si assisterà in maniera crescente, a livello locale, nazionale e internazionale, alla formazione di cartelli associativi che traggono forza dalla «sindacalizzazione» delle proposte da discutere con gli altri partner/concorrenti di collaborazione/contrattazione politica e del mercato imprenditoriale dei servizi?

In quarto luogo, i rapporti di convenzionamento sempre più frequenti che le asso-ciazioni intrattengono con gli enti pubblici per la gestione di interventi e servizi se, per un verso, generano relazioni di collaborazione e integrazione, per l’altro, sviluppano una forte dipendenza economica delle prime nei confronti dei secondi; considerata anche la progressiva riduzione delle risorse fi nanziarie disponibili, ciò non rischia di condizionare la capacità innovativa e l’autonomia progettuale e operativa delle associazioni? Se si considera poi che i progetti e gli interventi espletati dalle associazioni hanno fi nalità pedagogiche riconducibili alla valorizzazione individuale, al cambiamento sociale e alla produzione di beni relazionali solidali, e che per fare questo utilizzano logiche, processi comunicativi e relazionali del tutto differenti dalla produzione dei beni materiali (Alleruzzo, 2006), si ritiene che i decisori politici territoriali e i quadri direttivi delle pubbliche am-ministrazioni risultino suffi cientemente formati e aggiornati per accogliere, coordinare, regolare, valutare le proposte, i progetti e la qualità dei risultati (Lichtener, 1999; Shaw e Lishman, 2002)? Si può realisticamente pensare all’attivazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali fra co-attori tanto eterogenei, senza investire in maniera ingente, anche fi nanziariamente, nella formazione? Le diffi coltà connesse all’autorefe-

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renzialità e alla mancanza di competenze comuni condivise relative alla progettazione, gestione, valutazione dei servizi non sono forse fra i maggiori ostacoli incontrati nella elaborazione dei Piani di zona?

Infi ne, come si può garantire continuità e congruenza al processo avviato dalla legge 328/2000, conciliando l’etica di solidarietà universalistica di cui le associazioni sono portatrici, con i differenti regimi di welfare che le diverse realtà regionali autono-mamente sono libere di adottare a seguito della riforma del titolo V della Costituzione? Gli interventi fi nanziari a favore della riduzione della disabilità rappresentano un capitolo dell’economia sociale solidale abbastanza certo (quantunque sempre più esiguo): come evitare che la proposta di progetti innovativi e iniziative di sperimentazione, collegati all’attività sussidiaria di natura economica che le associazioni possono svolgere, diventi oggetto strumentale di esigenze occupazionali, che, per quanto legittime, rispondono più alla logica del profi t sociale che a quella etica della cittadinanza attiva solidale?

Quelli prospettati sono solo alcuni dei dilemmi che interessano le associazioni e le istituzioni, nei loro differenti livelli di articolazione, e che si originano da un nuovo modo di intendere e concepire la partecipazione politica e sociale dei cittadini al benessere comune. La possibilità per le famiglie e le associazioni dei disabili di essere ancor più protagoniste di cittadinanza attiva di quanto non lo siano state, appare però lastricata di dubbi e di incertezze derivate sia dalla tendenza a istituzionalizzare, professionalizzare e imprenditorializzare il lavoro associativo, fi no a rischiare di sovvertirne la matrice ori-ginaria, sia dal fatto che gli interventi normativi istituzionali relativi alla delineazione di un quadro organico di realizzazione delle politiche integrate di welfare risultano tutt’altro che defi niti. Si tratta di promuovere un ampio dibattito culturale e scientifi co e discutere, prima ancora che verifi care alla prova dei fatti, se nell’attuale contingenza e nel futuro più imminente, le associazioni riusciranno a mantenere il loro ruolo propulsivo di innovatori, costruttori e vitalizzatori della vita democratica, promuovendo l’autodeterminazione dei cittadini e la prossimità sociale, o se invece rischiano di assumere lo status di produttori ed erogatori, magari sempre più professionalizzati, dei servizi di welfare, scivolando verso la più ampia schiera delle organizzazioni dell’imprenditoria sociale senza distinguersi nettamente da esse, né per istanze etico-sociali e approccio relazionale, né per modalità organizzative e operative (Borzaga e Fazzi, 2004, p. 139).

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