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Studium Cartello Giacomo B. Contri AGLI AMICI DEL PENSIERO (“di natura”) con Freud amico del pensiero :::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::: e-book

AGLI AMICI DEL PENSIERO · che il pensiero ha (per il corpo, il moto del corpo), e oggettivo, ossia è amicizia per un tale pensiero. Il pensiero è la mediazione indispensabile all’amore:

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Studium Cartello

Giacomo B. Contri

AGLI AMICI

DEL PENSIERO

(“di natura”)

con Freud amico del pensiero

::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::::

e-book

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Giacomo B. Contri

AGLI AMICI DEL PENSIERO* (“di natura”)

con Freud amico del pensiero

1. “Amore” 2. Significato

3. Definizione dell’amore 4. Ricapitolazione e per-fezione

5. Fallimento o successo: dall’inconscio-pensiero al pensiero di natura 6. Intermezzo: il Mondo come Teorie

7. “Coscienza”: un solo concetto, due esistenze in conflitto 8. Conversione

9. Vecchia e nuova trinità 10. Il nuovo regime. Due regimi dell’angoscia

11. La nuova trinità 12. Breve excursus sessuale

13. Eremita 14. Operaio

15. Scienza e Università 16. Conclusione: errore e amore

1. “Amore” L’amore è l’amicizia del pensiero. L’aggiunta “di natura” è ormai esplicitazione pleonastica. Il genitivo “del” ha doppio valore grammaticale: soggettivo, ossia l’amore è l’amicizia

che il pensiero ha (per il corpo, il moto del corpo), e oggettivo, ossia è amicizia per un tale pensiero. Il pensiero è la mediazione indispensabile all’amore: l’amore immediato, a-tu-per-tu, odia, è la haĭne-amoration lacaniana, l’innamoramento. Aspiro ad avere amici del pensiero di natura, non potrei averne altri. Ne consegue che rischio di averne pochi. 2. Significato

Che cosa significa amicizia per il pensiero? E’ facile, amichevolmente obbligante senza militanza né dogma. Queste due distinzioni

attraversano millenni. Significa: a. un amico ha cura, coltivazione, di ciò di cui è amico, come del giardino (dell’Eden o di

Voltaire), b. un amico non è indifferente a ciò di cui è amico, c. un amico non è ostile a ciò di cui è amico. Circa l’indifferenza: la praticano inapparentemente l’oblatività (ossessiva-“amorosa”) e la

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dichiarazione di “interesse” senza cura. “Interessante!” può essere un’ingiuria. Circa l’ostilità: potrebbe non essere un segno tanto cattivo, a paragone della formazione

reattiva che ne è il camuffamento anche più efficacemente odioso. Questa definizione dell’amore supera secoli di dogmatismo e militanza. Quanti militanti

hanno osservato le tre condizioni? Quanti dogmatici non hanno odiato i loro dogmi cioè il loro stesso pensiero? Non ce l’ho col dogma quando è tale, cioè semplicemente una frase ben formata (well

formed) senza dogmatismo. Esempio: un dogma del pensiero di natura è che l’albero si

giudica dai frutti. Come pure che un figlio è un erede, genitus, non un prodotto biologico, factus (noi cristiani non ci siamo mai accorti che questa coppia di parole latine del Credo veicola una distinzione giuridico-psicologica indipendentemente dalla credenza). Una frase ben formata è un segno dell’amore come pensiero amico. Oggi al mondo esistono frasi ben formate? La mia risposta è positiva, ma sono frasi in ordine sparso (vi includo i lapsus, che non si ama, appunto, riconoscere) di quel pensiero dimezzato che chiamiamo “inconscio”. Coltivare il pensiero di natura significa assumere la distinzione già esistente tra scientia e prudentia ossia partecipare alla produzione di una scienza amica che è una scienza distinta, una iurisprudentia del rapporto di un soggetto con l’universo preso di volta in volta in ogni singolo altro. E’ un rapporto giuridico già quello del lavoro psicoanalitico (del divano per intenderci),

che del pensiero di natura è l’applicazione nella cura. Tale giurisprudenza, coltivata senza

limiti quanto alla sua estensione, assume la forma di una Enciclopedia detta Ordine giuridico

del linguaggio, e come lingua effettivamente parlata. 3. Definizione dell’amore Fuori da un tale amore questa parola è semplicemente priva di significato. Sarebbe un segno dell’amore farla finita con l’ossessiva sempiterna lamentazione canzonettistica,

predicatoria, trattatistica sull’amore, umano o divino che sia, eros o agàpe. La confusione sull’amore è stata la prima zizzania dell’era cristiana, e in ciò abbiamo aggravato la preesistente confusione umana sull’amore. Abbiamo perfino legittimato l’idea perversa che

l’“amore platonico” sia un casto amore tra due anime timide, mentre qualsiasi studente

liceale apprende che significa l’“amore” omosessuale tra anime ambiziose (Platone). Eros, il Dio dell’innamoramento, è - con la sola eccezione dell’ Eros e Psiche di Apuleio in cui Eros per una volta ama in prima persona senza le frecce letali di… Eros - un Dio feroce o, come correttamente lo definisce R. Reeves a proposito di Medea, “malvagio”, con

la logico-automatica e generale conclusione tragicomica del dramma. Eros, con il suo innamoramento imposto a tradimento e analogo a una droga pesante, fa “perdere la testa”,

ossia è contro il pensiero, e l’amore. Colpisce che i cristiani in quasi due millenni non siano

stati vigilanti su questo punto (A. Nygren, Eros e agàpe), fino a non cogliere la perversione in cui consiste l’“amore cortese”. I cui adepti, letterari o storici, quando non sono gay sono feticisti. Non esito più a definire l’amore: è assicurare il proprio successo per il fatto di lavorare al

successo di un altro. O anche: è il fatto che il moto di un soggetto si con-pone con il moto di un altro soggetto affinché abbia conclusione (logica e pratica) cioè soddisfazione. E non c’è

moto che di corpi. Un esempio di esso è stato dato molto tempo fa in forma di parabola, la parabola dei talenti. Che propone la formula da cui partivamo agli inizi del pensiero di natura (1994): che il bene non si tratta di farlo, ma di agire in modo che si produca per mezzo di un altro, cioè un diritto posto nella natura, non naturale né ideale-imperativo (“fa’ il bene”) bensì positivo.

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Il pensiero pone - come norma non imperativo - la legge di moto del corpo, ossia pone trascendenza nella natura di corpi altrimenti destinati a non avere legge: avendo come unica alternativa all’inibizione assoluta cioè alla morte, una legge patologica come contraffazione

di quella. Si tratta della legge di moto precedentemente detta “pulsione” (non istinto, che

semplicemente in tali corpi non esiste) quando vi abbia cittadinanza la meta o conclusione, senza impantanarsi nella confusione della meta con l’oggetto (su questo punto Freud restava

indeciso). Si tratta di una partnership fruttifera di lavoro. La conclusione volta a volta del processo, come processo a termine, è la soddisfazione o meta (Ziel) del moto del corpo, come conclusione insieme logica e pratica. Ho detto “trascendenza” senza filosofemi o teologemi: posso aggiungere “trasfigurazione”

senza religiosemi (mi si consentano questi buffi neologismi). Trasfigurato è il corpo umano nella sua vita ordinaria così come lo presenta Freud: tutta la sensibilità e tutta la motricità non si offrono mai allo stato bruto, animale, naturale, bensì immediatamente in uno stato “meta”.

Detto all’antica: il cielo - ma anche l’inferno: la psicopatologia - è da subito in terra. Con speciale evidenza per la vita alimentare e sessuale (non esistono istinti). Non c’è amore presupposto (“l’amor che move il sole e l’altre stelle”): “amore” è solo il

nome dell’atto che pone un corpo con un altro corpo nella condizione autonoma, ossia come

fonte, di adire un moto con punto finale, meta o soddisfazione. Si tratta di un caso finora inesplorato di domanda e offerta, che sono atti. Alla questione se preceda l’offerta o la

domanda, rispondo che precede l’ec-citamento come citazione o vocazione a una iniziativa. Una vocazione, già nel suo concetto prima di ogni contenuto, impedisce che l’educazione

prevarichi andando a occupare il posto di comando. 4. Ricapitolazione e per-fezione L’intera storia dell’era cristiana - in quanto ha coinvolto tutto il mondo, non sempre per il meglio - è squassata dall’oscura guerra sull’amore, guerra tra il pensiero in-diviso come amore, elaborazione della partnership per la meta, e l’“amore” come svuotamento del

pensiero (abusivamente detto “in-amoramento”: questo abuso è una frode). Il pensiero di natura per-feziona cioè porta a termine la costruzione freudiana della legge di moto in un termine mancante, la meta (Ziel), perché ancora con-fusa con l’oggetto

(Objekt): invece, nel pensiero di natura l’oggetto è materia prima da mettere a frutto, punto di

applicazione del lavoro distinto di due soggetti (partnership), il cui profitto, come ambito e non oggetto del godimento, è la meta. Il godimento nella soddisfazione (notoriamente esiste anche un godimento senza soddisfazione) è il consumo non del profitto (cui seguirebbe miseria) ma nell’ambito insindacabile ossia libero del profitto (“ama et fac quod vis”, “quod

principi placuit legis habet vigorem”). Nell’esempio dei talenti è manifesto che la legge è giuridica e economica

simultaneamente: diversamente dal diritto comunemente noto in cui un accettabile ordinamento giuridico può convivere con la diseconomia generale e con la miseria di molti. Come si vede abbiamo ottenuto un concetto di giustizia, non più come valore morale affiancato o sovrapposto illusoriamente al diritto, ma come l’ordine di precedenza di un

primo diritto. E’ a porre una tale legge che provvede il pensiero di natura: anzi essa è il pensiero di

natura stesso in esercizio quotidiano (la “rimozione” è il rimando di tale esercizio quotidiano:

“Ci penserò domani” ripete Rossella O’ Hara”). 5. Fallimento o successo: dall’inconscio-pensiero al pensiero di natura

Freud non ha scoperto l’inconscio: ha scoperto il pensiero nello stato corrente - come si

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dice fare un rapporto sullo stato della nazione -, che è uno stato di crisi della sua esistenza, un’esistenza di sopravvivenza in regime di guerra intestina. “Inconscio” è il nome che egli ha

dato a tale stato corrente del pensiero. Anche la coscienza si rivelerà inconscia del suo stato di divisione, perfino nella prosopopea di tutte le sue assunzioni di responsabilità. Il più spesso la coscienza è una vera… incosciente! Bisogna essere cauti con la responsabilità:

salvo i casi in cui è dovuta, essa censura l’imputabilità (nel XX secolo i peggiori

massacratori, che sono stati anche degli educatori di massa, sono stati quelli che si sono assunti responsabilità “rivoluzionarie” non dovute). Il titolo del Seminario di J. Lacan del 1976-77 era un’asserzione: “L’insuccesso

dell’inconscio è l’amore” (in francese l’ortografia era più complessa ma ora non importa).

All’epoca non sapevo che pensare, se dargli ragione. Dopo anni gli ho dato ragione, per la

ragione che segue. Freud è stato l’esploratore del pensiero, l’unico nella storia. Cartesio non ha affatto esplorato il suo “cogito”, se ne è tenuto alla larga come poi Kant, per il quale la “ragione” è

stata anche un escamotage per evitare il pensiero, che gli metteva angoscia (come poi a Heidegger). Tutti hanno cercato di ridurre il pensiero, anche i logici novecenteschi della “nuova logica”. Tutti i termini lessicali freudiani designano sempre e solo una res di pensiero nella sua topica (giuridica), economica, politica, polemica incluso il sangue che ne cola, fisico e d’anima. Vi si tratta anzitutto di atti, atti di pensiero finalmente riconosciuti come atti

(rimozione, rigetto psicotico, perversione, sono atti, così come sogno, lapsus, motto di spirito, e la serie non è finita: anche quello psicoanalitico è atto, al che J. Lacan ha dedicato il Seminario del 1967-68). Atto di pensiero prima dell’atto dell’azione, che senza quello non

esisterebbe: non esiste atto bruto. Inoltre, e inflessibilmente, Freud ha asserito il pensiero come individuale: non c’è

pensiero sopraindividuale o collettivo. Ha bensì ammesso eccezioni, ma in quanto patologiche e gravi: il comando detto “superio” (“osceno e feroce”, J, Lacan), e la psicologia

di massa (“superio” anch’essa). Ha ammesso un’altra eccezione, questa volta accettabile e

degna di osservanza e stima, la Scienza, ma senza illusioni scientifiche. La sua critica della religione cristiana non riguarda i suoi contenuti neppure liturgici, bensì il caso del suo proporsi come pensiero sopraindividuale. Con parole che gli presto: non critica il pensiero di Cristo, né la Chiesa come tale, ma la Teoria presupposta del “corpo mistico” come Psicologia

di massa mascherata da Teologia. Ma finché l’inconscio-pensiero resta in tale stato di crisi - cioè come una delle due partizioni del pensiero risultanti dalla divisione del pensiero tra “coscienza” e “inconscio”,

che a sua volta risulta dalla guerra intestina o civile tra pensiero e Teoria invadente - esso non può che fallire (J. Lacan), e proprio nella vocazione del pensiero che è la riuscita o il successo dell’amore o del rapporto. Ma qui tempero J. Lacan: c’è pur sempre un successo

secondario, un guadagno (Gewinn) benché forzato: ecco perché a Freud è servita la parola “es” come designante un soggetto ancora astratto ma non inesistente. Siamo nel regno dell’ambiguità necessaria, dell’equivoco necessario: ogni patologia è un compromesso per un

povero successo. Dunque correggo Freud, ma con una correzione già presente passim in Freud (ho appena riletto l’articolo L’inconscio). La distinzione primaria che preme, drammatica come drammatico è un conflitto prima del drammatismo isterico e in generale patologico, non è quella tra inconscio e coscienza che è secondaria al regime di conflitto, bensì quella tra pensiero e mondo della censura (parola di Freud), che è fatto della stessa “pasta” del

pensiero, come il mondo del predicato vs proprietà, o il mondo della Teoria vs legislazione positiva, o il mondo del comando vs norma(-imputazione ossia retribuzione). E’ il Mondo in senso giovanneo: “i suoi non lo hanno - il pensiero - recepito”. La coscienza della coppia

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inconscio/coscienza si è venduta, benché con dispiacere, al Mondo censorio della Teoria per paura, non della morte (errore hegeliano) ma dell’angoscia (rimozione segue). 6. Intermezzo: il Mondo come Teorie Solo la Teoria contro il Pensiero massacra gli uomini, anima e sangue. L’abbiamo anche

chiamata il Mondo del predicato in-vece della proprietà, di bene/male in-vece di buono/cattivo ossia del giudizio, che è pensiero esso stesso (fin che Eva ha mangiato la mela, avendola trovata “buona” era ancora innocente: il peccato originale inizia dopo, con

l’intervento di Adamo). Da questo verdetto solleviamo la Teoria scientifica, per ragioni dette altrove. Ma la Teoria della scienza deve guardarsi dal confondersi con quell’altra (è ciò che è accaduto con la

Psicologia “scientifica” del Novecento). Negli anni abbiamo insistito specialmente su certe Teorie presupposte: quella dell’istinto

(variante: il bisogno) presupposto all’atto, anche quello alimentare e non solo quello sessuale

(“istinto di conservazione della specie”, ma non torno su Schopenhauer); quella dell’istinto di

conservazione individuale, che nessuno ha mai osato criticare con l’eccezione di Freud. Occorre il pensiero, quello che chiamiamo “di natura”, non un istinto, per la tenuta della vita,

dunque non “vita e pensiero” bensì: vita è pensiero, perché è il pensiero a distinguere il corpo, body, dal cadavere, corpse; quella dell’amore presupposto, e del correlato “bisogno”

di amore, ossia la madre di tutte le truffe; quella della mancanza nella donna ossia della monosessualità originaria; quella, derivata da questa, del desiderio di un figlio come desiderio di risarcimento, cui consegue il destino funesto del figlio stesso; quella dell’Ideale

“La Donna” subordinante non solo le donne ma l’umanità intera, anzi c’è stato perfino chi a

“La Donna” ha subordinato perfino Dio (quante decine di volte J. Lacan ha ripetuto che “La

Femme n’existe pas”!); quella della causalità universale, per la quale non c’è pensiero né

desiderio che non sia causato, almeno dall’educazione, la quale presuppone a sé il solo

istinto, ovvio pretesto per il primato dell’educazione che oggi domina il mondo intero. Le Teorie antiche dette “Il Bello”, “il Vero”, “il Buono”, e anche “il Giusto”, presupposte

al giudizio (all’imputabilità) sono solo terrificanti, e all’occorrenza terroristiche. Ripropongo

che non c’è verità che di un’imputazione, che è una proposizione che si presta all’alternativa

vero/falso. Ai fans dell’assolutezza ne faccio osservare la dissolutezza, perché esse sono il

massimo di relativismo: infatti ci si può mettere tutto quello che si vuole. E’ facile vedere che le Teorie dette, queste e altre, sono censura e dogana: non lasciano passare nessun pensiero che non sia loro conforme, con-forme alla loro forma brutale che certuni chiamano “Ideale”. 7. “Coscienza”: un concetto, due esistenze in conflitto La coscienza fa… obiezione di coscienza, per ingraziarsi il padrone che serve. La coscienza…: ma per nostra fortuna non esiste “La” coscienza. Dico “fortuna” perché

allora sarebbe semplicemente la facoltà di un coscienzioso sadismo o della sua sogghignante formazione reattiva, ossia l’organo della perversione. La sua esistenza sta in due diverse forme di cui l’una è obiezione all’altra. Le due forme

sono unificate solo nel concetto. Il suo concetto è quello di pubblico ufficiale, anche nell’operare in proprio come nel caso del notaio. Essa opera la presentazione ufficiale o pubblica - come accade con la carta d’identità - che uno fa della propria persona giuridica. Sì, ho proprio detto “persona giuridica”: il pensiero di natura, non la coscienza ma neppure

l’inconscio, fa della “persona fisica” una persona giuridica, al medesimo livello delle

massime istituzioni e dei massimi sistemi. Nel pensiero di natura l’individuo è il cittadino di

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una prima Città o primo diritto, si presenta nella sovranità. A costo di ripetermi: grazie al pensiero non diviso e non inibito, e come tale in-finito, la persona individuale è la san(t)a sede del diritto. Pur senza confondere la coscienza con la polizia, osservo che essa esiste in due forme proprio come la polizia, che ha duplice esistenza secondo i regimi politici in cui opera. Unificata nel concetto - l’ordine pubblico -, opererà in forme ben diverse tra loro, e una di esse liberticida, a seconda del regime in cui trova configurazione. Nel regime del Mondo della Teoria doganale, che non lascia passare un pensiero che non le è conforme, essa può solo fare infida coppia nella divisione del soggetto che ne risulta, coscienza/inconscio, essendosi resa serva e perfino servaccia del Mondo: allora essa presenta ufficialmente la sua stessa persona secondo le rappresentazioni (Vorstellungen) di teorie e predicati del Mondo ossia obbedendo alla censura. Si vende al Mondo per meno dei già pochi trenta denari. 8. Conversione Ma il pensiero di natura le offre una nuova possibilità, anzi, con una parola di Leopardi, una circostanza favorevole: anziché continuare a obbedire con ridanciana crudeltà a un padrone astrattissimo (magari in nome di un’astrattissima “concretezza”), può risolversi a

obbedire al pensiero della persona stessa che essa presenta e di cui fa parte. Ha la possibilità di una conversione (non isterica: l’isteria rifiuta la conversione che dico buttandosi in

un’altra), come novità a fronte del fatto che l’umanità è capace di piegarsi e obbedire a tutto

quanto fuorché al proprio stesso pensiero: l’unica obbedienza dignitosa e libera che esista. Rammento la frase di Leopardi: “Non possiamo sapere, né congetturare di che cosa sia

capace la natura umana messa in circostanze favorevoli.” (Zibaldone, 4166). La psicoanalisi, da cui partiamo, è la circostanza favorevole inventata anzi posta e proposta come legge da Freud: il pensiero di natura ne dà la forma generale aldilà e aldiqua del divano. Il pensiero di natura è il pensiero stesso che non ha più bisogno dell’espediente di approfittare delle sviste della dogana teorica della censura - il Mondo in fondo è caotico, incoerente e inconsistente: non l’inconscio è contraddittorio, meno ancora il pensiero di

natura, ma la Teoria e la coscienza che le si conforma -, di portarsi fuori vista da essa per non pagare il pesante balzello d’angoscia alla censura e alla coscienza mondana che le si è

superbamente quanto miseramente asservita. E’ il pensiero non più diviso - “divide et

impera” - tra inconscio e coscienza. Nel pensiero di natura, forma semper condenda di legge umana di moto dei corpi, il soggetto diventa fonte (Quelle) obbediente non a un comando, non a una causa, ma solo all’evento di un eccitamento-vocazione (Drang), cui accetta di sottomettersi non come premessa né causa dell’azione, ma come spunto per un’elaborazione senza sudore della

fronte: un’elaborazione applicata a oggetti (Objekt) anche ideativi come materie prime offerte alla successiva elaborazione di un partner per il profitto o successo di ognuno o meta (Ziel). Sono i quattro articoli freudiani della legge di moto detta “pulsione”. Qui il soggetto lo

è di una legislazione che è universale perché non presuppone alcuna preselezione del partner secondo i suoi predicati, domandandogli solo che sia o diventi buon intenditore. Questa legge rappresenta il soggetto come rappresentanza di esso (Repräsentanz) a ogni altro corpo e a ogni fine, non come rappresentazione (Vorstellung) ossia la mascherata del Mondo. Ma neppure le rappresentazioni cadono sotto censura: vivono come ancelle della rappresentanza. Nessuna iconoclastia quanto al corpo. Abito e mascherata si distinguono come la persona (giuridica) dalla maschera. Tra pensiero e azione come tra dire e fare non c’è di mezzo il mare (senza dire che il dire

è il primo dei fare). Non c’è bisogno di un ponte (ancora Platone) tra atto di pensiero e

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azione: nel corpo in pace l’azione accompagna la conclusione del pensiero. La legge di moto non passa più per il regime imperativo del volontarismo o del decisionismo: posta la legge, non occorre la dogana di un comando che la autorizzi a passare all’azione. Questa verità il

Mondo la riconosce sì ma solo al capitalista (nella misura in cui esiste ancora), cui nessuno impone di essere iscritto a un Albo professionale dei capitalisti. Lascio ad altre e successive pagine commenti pertinenti al comunismo marxista, e all’“Arricchitevi!” di Deng Xiaoping. Dice Amleto che “La coscienza ci fa vili”, ma è inesatto: è la Teoria-censura a fare vile la coscienza con il ricatto della minaccia dell’angoscia. Consegue che se “la florida tinta della

risoluzione si scolora”, non è per “il pallido riflesso del pensiero” - non c’è pallore del

pensiero legislativo -, bensì per la pallida riflessione della coscienza che farebbe meglio a riflettere solo un momento e quello giusto, così che “imprese di gran portata vengono dal loro

corso deviate e perdono il nome di azione”. Le imprese di gran o meglio in-finita portata sono del pensiero. Le cattive azioni sono altamente coscienziali e povere anzi debili di pensiero, e in fondo anche di azione. Nella pacificità, moralità e in-nocenza del pensiero di natura, l’azione non abbisogna di

lasciapassare, autorizzazione: è il pensiero stesso il lasciapassare del moto del corpo. Con altre parole: il pensiero non inibito dalla Teoria ha potere legislativo e giudiziario(-imputativo), senza bisogno di un potere esecutivo, volontaristico-decisionistico. E’ il

pensiero del tipo “intelligenza artificiale” ad abbisognare di potere esecutivo. La Teoria dà il lasciapassare alle peggiori azioni: il XX secolo, ma ormai anche il nostro, lo mostra senza dimostrazione e con i grandi numeri (di stragi). La coscienza si arrende al più grande potere che l’umanità abbia mai conosciuto:

l’angoscia, che non avrebbe alcun potere senza la mediazione dell’inganno. Ecco il limite del

comunismo fino a quello staliniano: Stalin, che poneva al primo posto il potere delle divisioni di carri armati, riconosceva però da buon marxista l’esistenza del potere spirituale,

“ideologia” secondo la dottrina. Ma non lo sfiorava neppure, né Marx prima di lui, il pensiero

del potere invincibile dell’angoscia finché perdura l’assenza del giudizio sul dolo di un inganno, un dolo massacrante proprio perché solo discorsivo. 9. Vecchia e nuova trinità Nel pensiero in quanto legislativo, e anche giudiziario, riabilitato rispetto al regime della Teoria avversa, censoria e doganale, passiamo da un regime a un altro: 1. dal regime della divisione del pensiero tra pensiero-inconscio e pensiero-coscienza - una coscienza debole anzi vile con i forti, forte anzi brutale con i deboli -, che è il regime di una mediocre trinità di soggetti, l’impotente sopravvivente servile terzetto io/es/superio: a. un io de(a)bilitato e irrimediabilmente contraddittorio, che può solo spostare in avanti le sue contraddizioni nell’angoscia; b. un es impersonale e astratto come soggetto di godimenti forzosi e poco desiderabili (“non per amore ma per forza”), che fa da fragile supporto alla Teoria di “istinti” naturali

(Freud: “es ist stärker als ich, è più forte di me”); c. un super-io in cui l’io si fa super-io o il kapò del regime stesso, ovviamente travestito da “coscienza morale”, magari versando lacrime sulla propria condizione (non c’è peggior

soggetto di quello che piange sulla propria vittima); 2. a un nuovo regime trinitario di cui tra breve diremo. Ma prima: “nuovo”? O il pensiero di natura preesiste? Anzitutto, esiste: nella psicoanalisi che ne è l’applicazione “tecnica” nella cura. Preesiste anche: a. come pensiero del bambino, che conosce una prima costituzione - e come Costituzione - del pensiero di natura nell’esperienza di soddisfazione per mezzo di un altro (il “principio

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di piacere” è Costituzione non natura). Questo pensiero sarà presto avversato-ingannato dalla Teoria - è questo il “trauma”: per il resto vale il detto che il bambino ha sette vite come i gatti

-, e fatto entrare passivamente in guerra. Ecco l’importanza riconosciuta da Freud ai primi

anni di vita. In cui la moralità non è ancora quella dell’innocenza ma dell’ingenuità ossia di

una non imputabile ingannabilità, anzitutto da parte della Teoria dell’amore presupposto, che brandisce alternativamente il bastone dell’angoscia e la carota della sedazione dell’angoscia.

Nel passaggio al nuovo regime, se avverrà, il passaggio dal principio di piacere al principio di realtà sarà il passaggio dall’ingenuità all’innocenza, che è realistica se significa ciò che significa cioè in-nocenza; b. miticamente nel mito biblico delle origini: nell’attività legislativa dei progenitori - in quanto partner: “non è bene che l’uomo sia solo”, valido alla pari per uomo e donna - descritta come “dare i nomi alle cose”; c. storicamente (non faccio questione di fede) nel costituirsi del pensiero di un tale chiamato Gesù, una Costituzione il cui primo articolo si formula “l’albero si giudica - e si conosce - dai frutti” ossia dalla produzione fruttifera (diritto-economia) e non dall’ontologia,

filosofica o scientifica, dell’albero. Non è un pensiero ellenizzante; d. attualmente - ed è l’argomento più forte, mentre dei primi tre s’infischiano tutti -, perché la totalità delle psicopatologie si riconduce punto per punto all’essere nient’altro che

deformazioni del pensiero di natura, quantunque irriconoscibili (di questa irriconoscibilità è stato proposto il modello, ancora ingenuo nell’essere puramente geometrico,

dell’anamorfosi). La psicopatologia, benché variamente ostile al pensiero di natura, non ha alcuna autonomia da esso, che dunque in certo modo le preesiste. e. ancora attualmente, lo stesso pensiero mostra di preesistere in quei frammenti, suscettibili di esegesi, emergenti in quelle evenienziali asserzioni o “atti psichici” che non si

riducono al sogno o al lapsus, e il cui raccolto ricapitolato chiamiamo “inconscio”,

sopravvivente con valore ma senza autonoma possibilità di successo. 10. Il nuovo regime. Due regimi dell’angoscia Sul nuovo regime con la sua nuova trinità - io/coscienza/Chi!, con decadenza del super-io - anticipo ancora che, quand’anche si realizzasse il passaggio a esso (“guarigione”), resterà

ordinaria la tentazione di ritorno al vecchio, perché l’avversario, non la coscienza ma la

Teoria presupposta, non è mai annullato: se anche dovesse darsi un giorno dopo l’Ultimo

giudizio - ossia l’ultima parola del pensiero -, il Regime della Teoria resterebbe come memoria, termine di paragone (che i nostri baldi progenitori non avevano ancora). Nel nuovo regime si dà ancora il caso dell’insorgenza dell’angoscia, ma momentanea:

essa passerà dalla minaccia della paura dell’angoscia (che è paura di perdere un amore

inesistente), a memento ordinario o “segnale” o sveglia sull’esistenza dell’avversario (quello

che minaccia la paura dell’angoscia). L’avversario, la psicoanalisi insegna a non combatterlo

(ma solo a giudicarne l’inganno), non per “non resistenza al male” ma per non rinforzarlo. Rammentiamo pure che l’avversario quando è in carne e ossa è angosciato anche lui, pur camuffando l’angoscia oscillando tra spiritualità e brutalità secondo i casi e i momenti. La

brutalità umana non è mai bruta cioè animale o naturale, è culturale. Dunque l’angoscia, come la coscienza, vive in due distinti regimi. Stiamo facendo un progresso rispetto alla divisione del pensiero coscienza/inconscio: nel nuovo regime, ora almeno configurabile, la coscienza ha l’opportunità di convertirsi, convertirsi a una leopardiana “circostanza favorevole” (già offerta dalla psicoanalisi): quella

di alle(g)arsi al pensiero di natura con la sua facoltà di giudizio, imputando la Teoria anziché sottomettersi a essa. Si tratta, senza fretta perché ci vuole il tempo, di un aut-aut, che non è affatto il

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kierkegaardiano vel-vel, enten-eller, che è stato un errore tradurre con aut-aut. L’alternativa

per la coscienza è: aut restare serva e collaborazionista dell’avversario, aut appunto alle(g)arsi al pensiero di natura. L’aut-aut è stato proposto già da Freud in L’io e l’es scrivendo: “(l’analisi”) non ha certo

il compito di rendere impossibili le reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per l’io

del malato la libertà [corsivo di Freud] di scegliere per una soluzione o per l’altra” (5, n 1).

Come si vede, già in Freud la psicoanalisi era un’applicazione del pensiero di natura. 11. La nuova trinità In questa conversione la coscienza diventa uno dei tre soggetti di una nuova trinità del pensiero, o del corpo: a. l’io è riabilitato, b. la coscienza è un ufficio distinto dell’io, c. l’impersonale es diventa il personale Chi! Trovo istruttiva questa concepibilità di una trinità senza passare per fede e teologia. Fatta questa distinzione, rammento che J. L. Borges diceva di non potere concepire la trinità: io sì: a. e b, io e coscienza, come due distinti uffici dell’io, distribuiscono tra loro il lavoro di

pensiero come lavoro legislativo, e anche giudiziario, in ordine a procurare quotidianamente legge di moto al corpo nell’universo dei corpi, con i giudizi imputativi o di merito che

convengono. Amico del corpo, il corpo gli sarà amico; a. l’io come Avvocato o procuratore del corpo, difensore individuale (meglio che “privato”), e con arricchimento del concetto di “difesa” nel senso di difendere e perfino

promuovere una tesi, che in questo caso è una norma del “regime dell’appuntamento” come

regime giuridico di un corpo con l’universo degli altri corpi; b. coscienza come Notaio, pubblico ufficiale, che pensa senza ignorantia iuris, ossia vaglia il pensiero legislativo dell’io nel paragone di esso con la realtà degli ordinamenti

giuridici esterni al pensiero (tra i quali quello che chiamiamo diritto corrente o secondo diritto). Il pensiero ha così facoltà di farsi interlocutore delle istituzioni e dei “massimi

sistemi”. Poi la coscienza può e deve terminare il suo lavoro, che diventerebbe patologico e

disturbante se proseguisse; c. Chi!: mentre nella divisione inconscio/coscienza come pensiero residuo nell’astrattezza

della Teoria imposta, poteva sussistere come soggetto del frui o godimento solo un soggetto forzatamente astratto e qualunque - es in tedesco, ça in francese: qui l’italiano è migliore perché lascia un puro vuoto grammaticale ossia non finge riempimento -, nel nuovo regime senza divide et impera il soggetto del godimento è un Chi! personalmente presente, mobilis ossia mobile perché muovibile, soggetto di una passione finalmente gradita, e senza distinzione maschile/femminile nella passio. E ovviamente senza masochismo. La presenza e attualità di Chi! è facilmente illustrabile nell’esperienza della lettura,

intendo quella fatta per… passione, non quella causata avendo il dovere come causa, lo studio (“laissez-le à ses chères études!”). Il caso della lettura è notevole a più effetti: tra i

quali la facilità dell’osservazione che anche in Chi! si tratta di pensiero: un pensiero che si fa-fare dalla lettura, azione nella passione. In essa il lettore è terza persona in atto, Chi!, perfettamente distinguibile da io e coscienza che, se convertita al suo stesso pensiero come reale ossia come fosse quello di un altro, dopo avere esercitato il suo breve ufficio se ne sta buona come il mio gatto, non imperversa a disturbare la mia lettura come sempre fa “La” Coscienza patologica con le sue pre-occupazioni e pre-supposizioni. Come psicoanalista ho costatato la relazione inversa tra patologia e lettura. Ecco tre soggetti diversi per un solo pensiero, ma anche tre persone diverse per un solo corpo. Ma mi tengo lontano dalla Teologia: pericolo! Nella lettura Chi! è il soggetto del godimento: si fa consumare passivamente, senza

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obiezione, dal pensiero-libro che sta consumando. Consumazione senza consunzione, tutt’al

più un certo gradito sfinimento (forse capite l’analogia qui allusa). E’ passivo perché prende l’altro - in questo caso il soggetto che ha scritto il romanzo - come proprio soggetto al quale cede volentieri il passo e il corpo, cioè al suo pensiero come propriamente fecondante (la concezione puramente eiaculatoria della fecondazione è da... selvaggi). Conviene qui l’antica parola “passione”, senza patologia né umiliazione. Va notato - il gatto-coscienza lo annoti semplicemente - che l’esperienza della lettura è quella di una

penetrazione non sessuale (idem per l’ascolto). 12. Breve excursus sessuale Questa penetrazione non sostituisce quella sessuale “sublimandola” ossia annullandola,

ma ne precostituisce nel pensiero come forma la possibilità né proibita né prescritta, ossia finalmente esente dal giudizio morale: semplicemente perché la moralità è questo regime stesso del pensiero. Diversamente, tutte le morali sono inquinate di immoralità. Come tale, l’astensione non è mai segno di moralità. Anzi, l’astensione per principio - che è obiezione di principio - è un correlato di quella forma generale della psicopatologia che chiamiamo “narcisismo” cioè il vizio anticamente detto “superbia”, vistosamente nella schizofrenia,

nell’anoressia, nella perversione. La vita sessuale è come tale humilis. Quando l’esperienza sessuale riesce - “riesce” significa che, dopo, per gli amanti c’è

ancora domani aldilà della sigaretta postcoitale o delle buone maniere -, è perché già prima la differenza sessuale non era tra le pre-occupazioni dei partner, cioè da giustificare teoricamente . Invece nell’omosessualità è una preoccupazione selettiva assoluta, così nella perversione. Nel pensiero di natura, che nella sua giuridicità - propiziazione del rapporto di partnership per il profitto - è immediatamente moralità, l’esperienza sessuale esce dalle liste morali sia di

proscrizione che di prescrizione (“istinto”, “bisogno”, “debito coniugale”), per passare a caso

di onore reso all’altro nel suo corpo. L’onore è l’anticamera obbligata dell’amore: come la

noblesse anche l’amour oblige. Onore come nel distaccato baciamano o, per i più audaci d’intelletto, nel bacio tout court. Onore, ossia cielo e terra riuniti senza sacrificio per l’uno o

per l’altra. Se è questa la moralità, bisogna riconoscere che nel Mondo essa esiste solo in tracce, proprio come il pensiero. Pensiero e moralità sono sinonimi. La teoria dell’istinto, e dell’innamoramento come amore, produce morali immorali,

pretesche o no (i preti non hanno il privilegio dell’errore). L’immoralità è la Teoria stessa. Coloro che pensano l’atto sessuale come “scarica” o “sfogo” di un istinto (“foncez

Dolmancé!”), sappiano che avranno bisogno di almeno una dozzina di reincarnazioni. Ma è

solo una battuta, non credo nella reincarnazione: quel che ci vuole è l’incarnazione, cioè il

pensiero come legislazione del corpo. Nel concetto, senza pasticci logici con la fede, è così che penso l’Incarnazione. 13. Eremita Chi ha chiamato “Ermitage” quello sontuoso e sovrano di San Pietroburgo (e numerosi altri) non ha fatto lo spiritoso, bensì si è avvicinato al concetto di “eremita”. Variante: forse voleva fare lo spiritoso, ma la cosa gli è sfuggita di mano. Dell’eremita è prevalsa una Teoria, tra le tante che popolano il Mondo facendo deserta la Città, che lo vuole uno che cerca la solitudine, che si ritira dalla Città nel deserto, con comodo di grotta o di colonna. Non è così: è uno che non si ritira, se non dal deserto del Mondo per la

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Città. La solitudine precedeva (tutta la letteratura è lì a dirlo, specialmente per l’amore come innamoramento). E’ un politico: nei primi secoli dell’era cristiana qualcuno ai vertici del Potere lo aveva capito, non per promuoverlo ma per censurarlo. Lo definisco uno che non ha paura dell’angoscia. Non dico uno esente dall’angoscia: la contraddizione non è evitabile a priori. Inoltre l’angoscia quando è senza paura di essa diventa un filo conduttore (in Freud un “segnale”), se la si prende sottovento. Nella terna solitudine-angoscia-amore, “eremita” è chi non ha il fantasma dell’amore

presupposto, ossia non ha l’infernale “bisogno” presupposto di un oscuro amore. Sa che

l’amore, se è, è posto non presupposto: presupposto ad opera dell’infernale Dio chiamato

Eros. Il pensiero dell’eremita comporta il massimo di universo - dei corpi - nel minimo di mondo. Rende abitato quel deserto che ha riconosciuto essere il Mondo. Sottolineo la distinzione tra paura e angoscia nella loro correlazione. L’avversario del pensiero (censura, dogana, teoria, predicato, “significante”) minaccia l’angoscia, ossia corrompe il pensiero convincendolo alla paura di essa, introducendolo alla dimensione paranoica di un eterno “al lupo al lupo!”. E’ la prima corruzione morale, con passaggio a una cattiva coscienza (in accezione diversa da quella marxista) sempre disponibile a diventare coscienza cattiva, pura crudeltà. Segnalo una mia esperienza di numerosi anni fa che a volte mi torna alla mente. Passeggiando alla periferia di Gerusalemme arrivai in una strada aldiqua della quale c’erano ancora case, aldilà il deserto, bruscamente. In quel momento ho conosciuto la paura dell’angoscia, in forma di resistenza a inoltrarmi anche solo per pochi passi in quel territorio di sabbia e rari arbusti. L’assenza di paura dell’angoscia introduce un regime di pensiero, “spirituale” o “psichico” - non accettiamo più questa malevola e malefica distinzione, una distinzione da miseria psichica - che è di sovranità, senza la prosopopea stracciona del narcisismo. Narciso si specchia nella pozzanghera delle sue deiezioni, feces et urinas: il suo mito è la più antica cartella clinica della schizofrenia. Questo regime è il regime - giuridico o amoroso - dell’appuntamento, o appunto del pensiero di natura, illimitato: i limiti sono solo pregiudiziali, non ontologici né psicologici. A un tale regime si oppone quello della sopravvivenza: quest’ultima parola è diventata l’Ideale o Cultura di tutte le culture (rinvio appena alla critica di Freud alla sordidità alta dell’Ideale, anima mundi della psicologia di massa). E’ l’Ideale del “Mondo”, Ideale in cui la coscienza alza la testa sub-limemente, sub-liminarmente (è la perenne ambiguità della parola “sublime”), sopra-vivendo al sotto, boccheggiando appena sopra il sotto presupposto in cui sguazza come un maiale chiamandolo “natura” o “istinto”. Con la sublimazione gli psicoanalisti non si sono raccapezzati: è solo un nome della perversione. Il Mondo non è amico del pensiero, non fa posto al pensiero (di natura: pleonasmo). Questo vi fa rare apparizioni come inconscio-pensiero o, inapparentemente, come quel Diritto comunemente detto che - eccezione al Mondo - vive pur sempre, non per amore ma per forza, di quel primo diritto che il pensiero di natura è come legislazione universale dei rapporti ossia come sovranità individuale. Ma il Diritto comunemente detto - che ai giorni nostri non se la passa affatto bene, e abbiamo forti motivi di temere per la sua…

sopravvivenza - vive ancora di divisione, quella tra diritto e economia, che nel pensiero di natura sono uniti: anzi, il pensiero di natura è la loro riunione. Concepire la loro riunione nella Città rende almeno pensabile un comunismo impensato. L’amore è una relazione tra eremiti che implementano l’uno il lavoro dell’altro. Il loro

numero non… conta, non fanno massa. Dico da tempo che nell’universo siamo in tre, io-Chi!-un altro senza contare tutti gli altri ossia senza subordinare l’universo alla teoria degli

insiemi: ecco l’universalità senza ossessività. E anche senza contare la distanza fisica,

compreso il caso della massima prossimità fisica. Può essere anche il caso dei coniugi, quelli di cui è detto che “saranno una sola carne”. Per togliere ogni residuo equivoco: considero

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questa definizione di eremita estendibile ai coniugi più entusiasti, disinibiti e, diciamo così, inventivi. All’amicizia del pensiero che fa-l’amore ha in qualche modo e malgrado tutto soddisfatto

Leopardi, detto “eremita dell’Appennino” (ne ho scoperto solo recentemente lo Zibaldone). A essa soddisfa lo psicoanalista nel suo eremitismo logico. L’eremita non fa correre rischi a nessuno, non offende nessuno, non vuole convincere nessuno. 14. Operaio Ancora più in prima persona desidero chiarire che da tanti anni sono e sono stato solo un operaio cioè un produttore, non un maestro (se non per un errore che mi è stato difficile correggere), e che l’eremita di cui parlo è un tale operaio di un atelier aperto, a rischio che

resti solo ma di una solitudine a due posti. L’amore, anche coniugale, è tra compagni d’opera cioè amici nel pensiero della

ripartizione del lavoro, come individui e non classi di individui. Mi sento di parlare di un individualismo comunista, ignoto alla cultura sia liberale-individualista che collettivista di oltre un secolo. Sto rileggendo la mia bibliografia in costruzione nei decenni: vedo un lavoro di fabbrica. Dopo tanti anni sono arrivato a quello che al futuro anteriore è un desiderabile punto di partenza, senza rimorso né rimpianto o rimuginio: il desiderio di essere un eremita a disposizione, nel suo lavoro, di altri eremiti nel loro. Tutti gli errori che ho conosciuto nonché commesso, in una birds eye view di decenni personali e di millenni - l’ontogenesi ricapitola la filogenesi - si riducono a derivare tutti dall’amore presupposto: nella madre, nel padre, nella patria, nella comunità, negli “amici”,

nella Teoria, nell’Ideale, in Dio stesso. Il quale non potrebbe essere contento che gli si

attribuisca il predicato amoroso, ossia di essere accusato di ricattare gli uomini con la minaccia dell’angoscia. Non sono musulmano ma apprezzo, benché in negativo, il fatto che tra i cento predicati che sono attribuiti ad Allah (per quel che costano), non figura l’amore, salvo un blando cenno

in un punto avanzato della serie. Bensì soltanto, al secondo posto dopo la “grandezza” – nella quale abbiamo avuto anche dei cristiani musulmani - la misericordia. Ma la miseri-cordia è il cuore per il misero, mentre l’amore è cosa da ricchi (“a chi ha sarà dato, a chi non ha sarà

tolto anche quello che ha”: chi ha orecchie per intendere…). L’Islam si è risparmiato la

zizzania cristiana dell’amore presupposto in Dio (ma se la è trovata come premessa storica,

che ha sfruttato più del petrolio). Alla prima confusione se non eresia dell’era cristiana - la zizzania dell’innamoramento

che soffoca il buon grano dell’amore di partner o amicizia del pensiero - si è affiancata, non dico un’altra, ma l’esplicitazione della sua astrazione dalla persona del partner come individuo, ossia la freudiana psicologia di massa. La esemplificano bene due versi di una Lauda medioevale duecentesca, dal Laudario di Cortona, che inizia “O spes mea cara”: “ut inserar gratis (…) catervis beatis coelestium” in cui all’uomo viene attribuito il desiderio che l’Onnipotente lo iscriva nei reggimenti

(“caterve”) del cielo - coscrizione, caserma, divisa, marce, rancio, ed eventuali battaglie altrimenti a che servono i Reggimenti? -, e per di più “gratis” ovviamente in virtù del suo amore, ossia le beffe oltre il danno. E’ certo che io non ci vado (anche seccato che mi si

attribuisca-imponga un tale desiderio), affiancato dal pensiero di Cristo che è palesemente della mia stessa idea, dato che desidera e promuove personalità e pensiero individuale, con

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iniziativa, non individui-di-massa. Ecco un esempio di zizzania in era cristiana, rimasta inosservata: ha passato la censura-teoria semplicemente perché ne faceva parte. (Due note filologiche: 1. non sorprende che l’ispirazione di questa Lauda sia quella

dell’“amore cortese”, che non siamo i primi a riconoscere come assai poco… cortese; 2.

l’estensore dei versi sembrerebbe non sapere che la “caterva” era sì una formazione militare,

ma come disordinata orda barbarica in opposizione all’ordine della legione romana). La storia dell’era cristiana è una battaglia permanente sul campo del pensiero, o

dell’amore. 15. Scienza e Università

Il pensiero di natura come ragion pratica ancorché pura, non si stacca dalla ragion pura quanto alla conoscenza (scienza). Il fatto è che la Civiltà non ha mai saputo pensare, fin dal pensiero greco, una scienza subordinata, non a un’etica bensì al principio che “l’albero si

giudica dai frutti”, come principio di una scienza per fructus e non solo né anzitutto per

causas. Il frutto implica economia e diritto uniti e simultanei come concetto di giustizia. In mancanza si è ripiegato sulla bioetica. Non la Filosofia della scienza, bensì una scienza per fructus dovrebbe fare da supervisore della scienza. La scienza per fructus è morale senza invocare una morale esterna. Quella che chiamiamo “La Scienza” non è idonea per statuto a esplorare le leggi del moto

umano, perché non ha l’occhio né l’udito né la parola né il gusto per esse, insomma non ne ha facoltà. Le leggi della Scienza non sono prescrittive né normative. E’ sconfortante che la

duplice distinzione tra normativo e prescrittivo e tra causalità naturale e causalità giuridica - le ho assunte anzitutto da H. Kelsen - nella nostra cultura non risultino perfino ovvie (per la causalità giuridica ho anche concluso di non adottare più la parola “causalità”). Similmente

per “La Logica” quanto all’esplorazione delle leggi del pensiero, e per “La Linguistica” e

“La Semiotica” quanto alle leggi del linguaggio. Il Comportamentismo fin da J. B. Watson è nostro alleato benché in un primo momento soltanto. Le sue leggi non sono quelle della Scienza perché esse sono poste nella natura, im-poste o prescritte dallo sperimentatore nel suo caso, che dunque è una specie di legislatore (senza riguardo, in nome dell’“organismo”, per la distinzione tra uomo e animale). Il suo

laboratorio non è scientifico ma solo uno studio di fattibilità. Dopo avere fatto questo, il comportamentista potrebbe anche essere uno spiritualista, a condizione della distinzione tra psiche e spirito (ancora “divide et impera”). Invece e leggi di cui noi ci occupiamo a partire da Freud sono normative o giuridiche (di un primo Diritto), poste non im-poste o prescrittive o imperative, e il soggetto individuale ne è, per il meglio ma anche per il peggio, legislatore, come soggetto giuridico o san(t)a sede del diritto, non lo sperimentatore-comandante né un’autorità superiore. E certo non è questo lo psicoanalista, che nell’analisi fa offerta di legge a una domanda. Al quesito se preceda la

domanda o l’offerta rispondo: precede ambedue l’ec-citamento, che è una vocazione. La Psicologia pretesa “scientifica” del XX secolo presuppone la nostra viltà intellettuale collettiva fino alla vergogna. Infine. Il problema dell’Università storica a partire da quella medioevale, è quello di non

riuscire a… pensare. E’ il massimo regime della divisione del pensiero (coscienza/inconscio). Quando essa serve, e non lo nego anzi mi rallegro, lo fa come un politecnico di abilità diverse. Per il resto forma formatori di formatori di formatori. L’Universitario storico, dal

basso Medioevo alla Modernità, è quello che ha trovato pace dall’angoscia nel dovere (quello

di studiare, nel caso) come già Kant, il Maestro della sedazione dell’angoscia via dovere. Nella nostra ambizione abbiamo dato vita, a partire da Il pensiero di natura seguito da

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L’ordine giuridico del linguaggio, a un’altra “Idea di una Università”, che forse resterà ferma

al palo e forse no. Tale Idea veicola almeno un’affermazione: che il pensiero di natura non abolisce

l’Università: al contrario, aspira a promuoverne una in cui il primo posto sia occupato, solidarmente, dalla giurisprudenza perfezionata da un primo diritto (pensiero di natura e ordine giuridico del linguaggio), e dall’economia. Nel Corso di due anni fa - La logica e l’amore - abbiamo esplorato gli errori di pensiero, anzitutto nelle sue inconsistenze, derivanti dall’errore sull’amore, ossia ancora sul pensiero.

Nell’innamoramento si perde letteralmente la testa… logica. Non che io profetizzi un tempo in cui cesserà la più feroce delle guerre, quella della Teoria contro il pensiero, o del predicato contro la proprietà. Predicato e Teoria sono termini della logica, che non è né mai è stata un terreno di pacifistiche “universitarie” concertazioni.

L’ Università è ancora oggi la prosecuzione della guerra con altri mezzi. Tutto è stato fatto per separare errore e imputabilità, ossia per vanificare l’atto. 16. Conclusione: errore e amore Non c’è errore che sull’amore. Luglio 2006 Testo rivisto e riedito in agosto (*) Estratto dall’Introduzione alla terza edizione di Il pensiero di natura.

© Studium Cartello – 2007

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