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G. CASERTANO - A. MONTANO - G. TORTORA
Storia delle filosofie
LE FILOSOFIE MODERNE
di Aniello Montano
Storia della filosofia
Indice
Umanesimo e Rinascimento
Cultura e istituzioni nei secoli XV e XVI
Magia, scienza e filosofia della natura nel Rinascimento
La nascita della nuova scienza: Bacone e Galilei
Fisica, metafisica e filosofia nel secolo XVII
Spinosa e Leibniz
Fisica e filosofia in Inghilterra alla fine del XVII secolo
Le conclusioni dell' «empirismo»inglese
La cultura italiana tra Seicento e Settecento
Cultura, filosofia e politica nell' «età dei lumi»
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
La filosofia critica di Kant
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Ricchezza e cultura
Il fluire dell'attività umana attraverso i secoli, quantunque conosca l'alternanza di sviluppi
lineari e di fratture rivoluzionarie paragonabili a veri e propri salti, non può essere scandito
in una periodizzazione rigida e schematica. Di nessuna epoca, infatti, si può indicare con
assoluta certezza la data del suo inizio o quella del suo compimento. Le epoche storiche,
infatti, diversamente dagli individui, non vengono alla luce o scompaiono in un tempo
determinabile con esatta precisione, ma gradualmente vengono assumendo caratteristiche
proprie e connotati specifici attraverso la lenta usura di valori esistenti e l'altrettanto lento
sviluppo di nuove esigenze emergenti. Anche quando il processo dinamico della storia
umana si realizza con atti di violenta opposizione al passato, segnando svolte significative
e profonde rispetto al momento antecedente, bisogna riconoscere che quel "salto"
rivoluzionario non è frutto di una decisione capricciosa ed improvvisa di un gruppo sociale
o di un partito politico, ma rappresenta il momento di sintesi e di maturazione di una serie
di "germi" rivoluzionari già presenti nella "situazione storica" superata.
Risulta chiaro, da quanto abbiamo detto, che sarebbe impresa vana e poco significativa
quella con la quale ci si sforzasse di indicare in un anno preciso o in un determinato
evento storico la "nascita" o la "morte" del Rinascimento.
Col termine Rinascimento, infatti, più che un arco di tempo racchiuso tra due date,
dobbiamo intendere un atteggiamento di vita e di pensiero che, sulla scia delle imprese
commerciali e militari, si diffuse, dove più dove meno, in tutte le nazioni europee per circa
due secoli, il XV ed il XVI.
Il Rinascimento fu un fenomeno complesso, ma sostanzialmente unitario. Esso è
contrassegnato dall'accelerazione del ritmo di sviluppo di tutte le attività umane, tanto di
quelle economico-politiche quanto di quelle teorico-speculative, e da una valutazione
diversa delle capacità dell'uomo e del significato da dare alla natura. Tale fenomeno
presenta segni di maggiore evidenza nella parte centro-settentrionale della penisola
italiana. Già a partire dai secoli immediatamente precedenti si era venuto realizzando un
diverso assestamento economico e politico in molte città italiane e negli altri paesi
dell'Europa. In Inghilterra, in Francia, in Germania, anche se in quest'ultima con maggiore
difficoltà e lentezza, si andava realizzando un processo di unificazione politica e di
integrazione economica tra le diverse città, e si veniva profilando lo stato moderno
centralizzato e burocratizzato, con a capo un monarca assoluto che sottomette ai suoi
interessi dinastici e di potere tutti i sudditi. Nel centro-nord della penisola italiana, invece,
le varie città erano divise e contrapposte fra di loro. All'interno di ognuna di esse la classe
dirigente era rappresentata da una attiva borghesia, sensibile al fascino del guadagno e
dell'espansione economica più di quanto non fosse interessata al prestigio derivante dal
potere politico e militare.
Questa maggiore inclinazione verso la ricchezza è documentata in modo estremamente
chiaro, anche se con linguaggio troppo crudo sino all'irriverenza, in un gruppo di lettere,
indirizzate significativamente "ai signori ed amici denari e fiorini d'oro", scritte da un
anonimo nella prima metà del XIV secolo:
Vi amo, perché colui che vi ama e vi possiede, ha Cristo ed i Santi e guadagnerà la vita
eterna... I ciechi vedono grazie a voi, i sordi odono, i malati guariscono, i malfattori
diventano agnelli innocenti, se hanno il denaro. Il denaro muta il diritto, corrompe i
tribunali, compra le grazie del cielo anche ai peccatori più scellerati!
In un'altra lettera Denari e Fiorini personalizzati rispondono:
Il nostro nome è santo e terrificante poiché teniamo in nostro potere tutti i popoli del
mondo... Dove siamo noi, là è superbia; noi possiamo, di gente nata tra i rifiuti, fare nobili
illustri.
E concludono:
Un uomo senza noi non è un uomo.
(Cit. da Josef Macek, Il rinascimento italiano,
tr. it. di H.K. Casadei, Roma 1972, pag. 51)
La consapevolezza della potenza del denaro e la sua capacità di modificare i costumi degli
uomini è presente anche in autori più tardi, come Franco Sacchetti, ed in autori
rinascimentali. Non a caso Leon Battista Alberti considererà il denaro "la radice e
l'animatore di tutte le cose".
Proprio dall'intraprendenza industriale e commerciale di questa borghesia sbocciò l'"età
nuova"; anzi, meglio, proprio l'agiatezza economica, prodotta dalla frenetica attività di
questa borghesia, permise di soddisfare il desiderio della bellezza in tutte le sue
manifestazioni, e alimentò la fiducia nell'uomo e nel suoi poteri "divini". L'assenza di un
potere politico centrale assoluto favorisce l'affermarsi dello spirito concorrenziale tra le
diverse famiglie rivali nelle attività produttive. La concorrenza commerciale, però, ben
presto viene configurandosi come lotta politica per la conquista del potere e come gara per
rappresentare all'esterno i segni della ricchezza e della potenza, attraverso la pratica del
mecenatismo e la costruzione di dimore sempre più imponenti architettonicamente e
sempre più sfarzose per l'arredamento e per le opere d'arte in esse contenute.
Un contributo determinante alla nascita della nuova civiltà venne dalla borghesia
fiorentina. Attivi ed industriosi, i mercanti fiorentini erano presenti con i loro prodotti in
quasi tutti i paesi allora conosciuti. Famosi banchieri, come i Bardi, i Peruzzi, gli Strozzi, i
Pitti, i Medici, finanziavano con i risparmi dei loro clienti queste industrie e questi traffici.
Ben presto Firenze divenne la capitale finanziaria dell'Europa ed il centro in cui venivano
fissati i tassi di cambio delle varie valute. I guadagni erano talmente elevati che le più
ricche famiglie, oltre a condurre vita agiatissima, facevano a gara per abbellire Firenze con
opere che si sono rivelate capolavori dell'architettura, della scultura e della pittura.
Richiamati da tanta munificenza e da tanto mecenatismo, si affollarono intorno a questi
finanzieri e mercanti i nuovi uomini di cultura. Pittori, scultori, architetti, letterati, filosofi,
formatisi fuori dalle tradizionali università, in cui si attardava ancora la cultura
medioevale, animati da forti interessi speculativi, ma percorsi anche da una vigorosa
spinta attivistica, fecero corona ai potenti aiutandoli con la loro competenza a gestire gli
affari pubblici, o sostituendosi ad essi nella cura del governo. Tra politica e cultura si
stringono legami profondi. Per un certo periodo Firenze sceglie i suoi cancellieri tra i dotti
più famosi del tempo: Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Poggio Bracciolini.
La cultura si emancipa sempre più dalla organizzazione ecclesiastica e, pur rimanendo
permeata di spirito religioso, si caratterizza come cultura "laica". In tutta la penisola
sorgono, alimentati dal mecenatismo di principi o di ricchissimi mercanti, "studi" ed
"accademie". Artisti, letterati, filosofi lavorano su commissione o sotto protezione degli
Sforza di Milano, dei Gonzaga di Mantova, degli Estensi di Ferrara, dei Malatesta di Rimini.
La stessa Roma papale è attraversata dalla ventata di entusiasmo culturale che anima le
altre corti d'Italia. Anche le città più lontane dal cuore geografico e culturale di questo
movimento sono prese dal fervore innovativo: Napoli dà vita all'Accademia Pontaniana e
Venezia diventa un attivo centro culturale. Ma l'epicentro della "rinascita" rimane Firenze.
La classe dirigente fiorentina al fiuto per gli affari, all'abilità ed alla passione politica
accomuna l'amore per l'arte, per le lettere, per la filosofia, in breve per qualsiasi
manifestazione dell'intelligenza umana.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Il primato della vita attiva
I progressi ottenuti nelle attività industriali e la fortuna incontrata nei traffici commerciali
alimentarono una sempre maggiore fiducia nelle capacità della mente umana.
Pur conservando viva l'ansia della trascendenza e la tensione verso il divino, l'uomo
rinascimentale avverte di essere al centro di una serie di attività il cui esito positivo
sembra dipendere esclusivamente da lui. L'accresciuta consapevolezza delle proprie
possibilità e capacità operative produce in lui uno spostamento di interesse da una
problematica teologica ad una più schiettamente antropologica. Il fulcro intorno a cui
ruota tutta la speculazione non è più Dio, ma l'uomo. I problemi connessi alla morale,
all'impegno civile e politico e al senso da dare alla vita terrena segnano un superamento
delle "quaestiones" medioevali sulla natura di Dio, su quella delle creature angeliche, sul
destino dell'anima dopo la morte del corpo, come determinano anche l'abbandono delle
sottili "dispute" logiche della scolastica ed i contrasti tra "realisti" e "nominalisti".
Questo rinnovamento degli interessi culturali si accompagna fin dall'inizio alla
consapevolezza che un aiuto a risolvere i nuovi problemi che si ponevano all'attenzione
degli uomini non poteva venire dalla cultura medioevale, ma dalla cultura antica. Da qui il
rinnovato interesse e l'amore per i classici. L'incremento degli studia humanitatis e
l'utilizzazione della cultura classica, come sostegno e giustificazione delle nuove idee,
daranno una fisionomia tutta particolare al periodo iniziale del Rinascimento. Dal vero e
proprio culto riservato alle humanae litterae gli studiosi di questa epoca saranno chiamati
umanisti. La più significativa manifestazione di questa nuova mentalità, tendente a
celebrare in terra la "nobiltà" dell'uomo e la sua capacità a vivere e ad operare facendo
ricorso alle sue sole risorse mentali, è riscontrabile nella particolare attenzione riservata al
significato ed al valore della vita attiva e della vita contemplativa.
Con un capovolgimento totale della posizione tradizionale, gli umanisti volgono le spalle
all'ideale ascetico medioevale; ritengono inutile, se non dannosa per la comunità, la vita
dell'anacoreta; e, benché non disconoscano il valore della contemplazione, mostrano
chiaramente di preferire una vita al servizio dell'umanità in una milizia civile operosa e
fattiva.
Tra i primi ad avvertire un forte richiamo all'impegno sociale è Coluccio Salutati (1331
1406). Significativo è un famoso passo tratto dalla sua opera De nobilitate legum et
medicinae:
Io, per dire il vero, affermerò coraggiosamente e confesserò candidamente che lascio
volentieri, senza invidia e senza contrasto, a te e a chi alza al cielo la pura speculazione
tutte le altre verità, purché mi si lasci la cognizione delle cose umane. Tu, rimani pure
pieno di contemplazione; che io possa, invece, essere ricco di bontà. Tu medita pure per
te solo; cerca pure il vero e godi nel ritrovarlo... Che io, invece, sia sempre immerso
nell'azione, teso verso il fine supremo; che ogni mia azione giovi a me, alla famiglia, ai
parenti e ciò che è ancor meglio che io possa essere utile agli amici e alla patria e possa
vivere in modo da giovare all'umana società con l'esempio e con l'opera.
(cit. da E. GARIN, Filosofi italiani del Quattrocento, Firenze 1942, p. 97)
Emerge da questo passo un'immagine dell'intellettuale e del suo ruolo nella società di una
chiarezza e di una modernità veramente sorprendenti: l'intellettuale non deve chiudersi
nella "turris eburnea" della cultura per autocompiacersi della sua sapienza, come non deve
neppure limitarsi alla contemplazione della pura verità; deve, invece, tendere alla "
cognizione delle cose umane " ed operare in modo da raggiungere il fine supremo
consistente nel "giovare all'umana società con l'esempio e con l'opera". Non manca, però,
in quest'uomo, che fu per trent'anni Cancelliere della Repubblica fiorentina, l'ansia
religiosa, l'anelito al divino. Ma il dio cui aspira Coluccio si raggiunge non con l'isolamento
né con la pura e sterile contemplazione, ma con l'azione e l'impegno: "non sciendo, sed
merendo; non speculando, sed agendo".
La stessa fede religiosa viene sentita e vissuta come attiva testimonianza ed operosa
solidarietà umana.
Animatore della vita politica e culturale della Firenze della seconda metà del XIV secolo,
Coluccio Salutati si adoperò affinché venisse chiamato a Firenze ad insegnare greco
Manuele Crisolora, dando cosi l'avvio al maturare di quell'interesse per la lingua e la
cultura greca che segnò una considerevole svolta nella cultura umanistica.
L'ideale continuatore dell'opera di Coluccio fu Leonardo Bruni (1374 1444).
Con lui l'immagine dell'umanista impegnato in una vita attiva sostenuta da un vigile e
costante lavoro di riscoperta e comprensione del "vero" volto degli antichi si delinea in
maniera precisa. La padronanza della lingua greca, conseguita alla scuola del Crisolora, gli
consente di tradurre in un latino aderente al testo greco molti classici: Plutarco,
Senofonte, Demostene. Ma il suo impegno di traduttore filologicamente accorto conseguì
risultati notevoli nella traduzione di alcuni dialoghi platonici e soprattutto di alcuni scritti
aristotelici. Significativamente dello Stagirita volse in latino le opere che maggiormente
interessavano la vita morale e politica: l'Etica Nicomachea e la Politica, che contrappose
polemicamente alle traduzioni medioevali filologicamente meno rigorose. La lettura degli
antichi non si riduce mai, in Bruni, ad una pura esercitazione intellettualistica, ma ha
sempre un riferimento preciso ai problemi contemporanei. Il passato serve ad illuminare e,
non poche volte, a confortare il presente. Nell'Epistola con cui dedicava al papa Eugenio IV
la traduzione della Politica aristotelica Bruni segnala, infatti, la concordanza degli antichi
con i moderni su molte questioni:
Ma se volessi riferire quanto ho letto nei filosofi in accordo con le nostre verità, credo che
susciterei la meraviglia di molti. Poiché non solo in queste questioni comuni che
riguardano virtù e vizi, ma anche in ciò che sembra essere proprio del Cristianesimo, io
trovo che certi filosofi hanno le nostre stesse opinioni e le affermano e le insegnano.
(GARIN, cit., p. 114 115)
La conoscenza della cultura classica e di quella moderna deve essere, ovviamente, al
servizio della società, deve tendere a fare del dotto un buon cittadino:
Fra gli insegnamenti morali con i quali si forma e si educa la vita umana, tengono in certo
modo il posto più alto quelli che concernono gli Stati ed il loro governo, poiché una
disciplina del genere tende a procacciare la felicità a tutti gli uomini. E se è ottima cosa
dare la felicità ad uno solo, quanto più bello sarà conquistare la beatitudine a tutto lo
stato? Poiché il bene, quanto più ampiamente si estende, tanto più divino deve
considerarsi; ed essendo l'uomo debole e ricevendo dalla società civile quella compiutezza
e perfezione che non ha da sé, non vi può essere per l'uomo disciplina alcuna più
conveniente dell'intendere che sia la città, che lo Stato, in che modo si conservi e perisca
la società.
(GARIN, cit., p. 117)
Con impegno civile e politico, l'uomo non solo "procaccia la felicità a tutti gli altri uomini",
ma realizza pienamente la sua natura sociale.
Nell'opera di un altro grande umanista, fortunato scopritore di classici, Poggio Bracciolini
(1380 1459), nonostante serpeggi una visione pessimistica della vita, non si trova mai
l'invito a disertare la vita attiva, anzi quest'ultima viene esaltata fino al punto da far
coincidere, nel De nobilitate, operosità e nobiltà:
Poiché se ci convinceremo che gli uomini divengono nobili nell'onestà e nel bene, e che
vera nobiltà è quella che ciascuno si conquista operando, non quella che deriva dall'altrui
abilità e lavoro, saremo maggiormente spinti, credimi, alla virtù, né, vinti dall'ozio, senza
far nulla degno di nota, ci contenteremo dell'altrui gloria, ma tenderemo noi stessi ad
impadronirci delle insegne della nobilità.
(GARIN, cit., p. 129)
L'attenzione degli umanisti, come stiamo costatando, si concentra sempre più nell'esame
della natura e delle capacità dell'uomo. Un contributo apprezzabile all'approfondimento di
tale tematica fornisce Giannozzo Manetti (1396 1459), perfetto conoscitore della lingua
greca ed acuto ed attento studioso dell'etica aristotelica. Con Giannozzo si afferma una
visione antropocentrica dei rapporto uomo-natura. L'uomo è il padrone incontrastato del
mondo e su di esso deve instaurare il suo dominio. Nella sua opera più nota e fortunata,
De dignitate et excellentia hominis, Giannozzo esalta la natura "divina" dell'uomo ed
auspica la realizzazione sulla terra di un regnum hominis:
Dopo che dio ebbe creato gli uomini li benedisse e li fece padroni di tutte le cose create e
sovrani e signori assoluti di tutta la terra.
(GARIN, cit., p. 233)
Ma se la natura, pur dovendo obbedire all'uomo, è ancora opera di Dio, il mondo delle arti
e della scienza è prodotto esclusivamente dall'uomo. Quasi prolungando e perfezionando
l'opera del creatore, la mente umana ha dato vita al mondo della cultura, ha costruito la
civiltà:
Ma che dire dell'ingegno sottile ed acuto di quest'uomo cosi bello e ben fatto? Esso è cosi
grande e tale che tutto ciò che è apparso nel mondo dopo quella prima ed ancora informe
creazione appare trovato prodotto e compiuto da noi mediante quel singolare ed eminente
acume della mente umana. Nostre, infatti, e cioè umane perché fatte dagli uomini, sono
tutte le cose che si vedono, tutte le case, i villagi , le città... Sono nostre le pitture, nostre
le sculture, le arti, le scienze, nostra la sapienza... nostri sono infine tutti i ritrovati, che
ammirabili e quasi incredibili, la potenza e l'acume dell'ingegno umano o piuttosto divino
volle costruire ed edificare con una solerzia singolare ed eminente...
(GARIN, cit., p. 239)
Nello scenario della natura creata da Dio per l'uomo si esplica tutta la potenza e la
magnificenza dell'intelligenza umana, unica creatrice del mondo della storia, del mondo
del sapere. Il compito privilegiato dell'uomo rispetto a tutte le altre creature consiste,
infatti, nel capire e nell'agire; e nessuna delle due attività può essere ritenuta superiore
all'altra, perché l'uomo agisce in quanto capisce, e capisce in quanto agisce ed opera sulla
natura.
Quella di Giannozzo è l'esaltazione dell'homo miraculum, dell'uomo che celebra la sua
natura "divina" nella esplicazione delle due attività più tipicamente umane, quella
dell'intendere e dell'agire. La consapevolezza che la cultura (il capire) sia il portato storico
dell'attività umana ha raggiunto ormai la piena maturazione, ed è uno dei tratti più
caratteristici della nuova civiltà. Ma questa "divinizzazione" dell'uomo non impedisce al
Manetti di rivendicare pari dignità ai piaceri sensibili e a quelli intellettuali:
E' difficile a dirsi, e sarebbe anzi impossibile, quanto piacere prenda l'uomo dalla visione
chiara e nitida dei bei corpi, dall'ascoltare suoni e sinfonie e armonie varie, dall'odorare
fiori... e che diremo dei sensi interni? Quanto diletto nello stabilire le varie distinzioni delle
cose sensibili e quanto ci dilettano a loro volta il vario immaginare sostanze e accidenti
diversi, il calcolarli, il comprenderli, quando decidiamo di immaginare, comporre,
giudicare, ricordare ed interpretare ciò che cogliamo con qualche senso particolare, non
potremmo spiegare a sufficienza con le nostre parole.
(De dignitate hominis, IV, cit. da Il Quattrocento,
a cura di G. Ponte, Bologna 1966, p. 395)
La natura con oculata sapienza ha dato all'uomo la capacità di superare tutte le difficoltà e
di trarre più piacere da quelle azioni che maggiormente concorrono alla conservazione del
genere umano. Giannozzo si compiace nel ricordare con toni naturalistici come la vita
arrechi più piacere che molestie ed affanni:
Infatti come ci dilettiamo meravigliosamente nello scacciare la fame e la sete quando
mangiamo e beviamo, così ugualmente quando ci riscaldiamo, ci rinfreschiamo, riposiamo.
Ma le sensazioni del gusto appaiono in un certo qual modo più piacevoli delle comuni
sensazioni tattili, escluso il contatto sessuale; ed i filosofi hanno insegnato che la natura
attentissima ed acutissima e senz'altro unica maestra delle cose, non a caso e senza
ragione, ma per motivi sicuri ed evidenti, ha fatto in modo che si provasse maggior
piacere nella sessualità che nel mangiare e nel bere, perché essa mirava a conservare la
specie prima degli individui.
(De dignitate hominis, IV)
Siamo ormai lontanissimi dalla visione cupa e pessimistica della vita umana raffigurata in
tante opere medioevali. Il problema religioso, la trascendenza, pur non essendo espunti
dall'orizzonte degli umanisti, non impediscono una considerazione tutta umana e terrena
della vita, né impongono una valutazione negativa del godimento tutto sensibile e, perché
no? , materiale dell'esistenza. Il naturalismo va facendosi gradualmente strada
appannando e relegando nello sfondo la tematica religiosa.
Nonostante una vena di amaro pessimismo e di più disincantato realismo serpeggi in tutta
la sua opera, Leon Battista Alberti (1404 1472) testimonia, anch'egli, con accenti decisi la
virtus umana. L'uomo, anche se a costo di sforzi poderosi e di grande impegno, è capace
di vincere la sorte e di affermare la sua volontà.
Un'etica dell'impegno, dell'attiva e vigile laboriosità trova nel Della famiglia di Alberti una
riconferma energica e convinta:
Stimeremo noi soggetto alla volubilità e alla volontà della fortuna quel che gli uomini con
maturissimo consiglio, con fortissima et strenuissima opera a sé prescrivono!... Non è
potere della fortuna, non è, come alcuni sciocchi credono, cosi facile vincere chi non voglia
essere vinto, tiene giogo la fortuna solo a chi le si sottomette.
(GARIN, cit., p. 249)
L'uomo non consegue
pregio alcuno, dignità, sanza ardentissimo studio di perfectissime arti, sanza assiduissima
opera, sanza molto sudare in cose virilissime e faticosissime.
(GARIN, cit., p. 249)
La sua natura infatti l'ha "costituito nel mondo speculatore et operatore delle cose ",
affinché rifuggisse dall'ozio e si impegnasse fortemente in una vita attiva e operosa,
mettendo a frutto la sua intelligenza e tutte le sue forze psichiche:
Pertanto così mi pare credere sia l'uomo nato non per marcire giacendo, ma per stare
facendo. L'impegno, l'intelletto, el giudizio, la memoria, l'apetito dell'animo, l'ira, la
ragione et consiglio et l'altre divine forze e virtù, colle quali l'uomo vince la forza, volontà
e ferocità d'ogni altro animale, certo non so quale stolto negasse esserci date per nolle
molto operare.
(GARIN, cit., pp. 50 51)
Il motivo della superiorità dell'ideale della vita attiva, spesa nella realizzazione del bene
pubblico, sull'ideale dell'ascesi e della meditazione solitaria ricorre anche nel Della vita
civile di MATTEO PALMIERI (1406 1475):
Resta dunque che in terra non si faccia minima cosa più cara né più accetta a Dio che con
giustizia reggere e governare le congregazioni d'uomini unitamente... con giustizia
regnati.
(GARIN, cit., p. 259)
UMANESIMO E RINASCIMENTO
La polemica contro il medioevo e il "rinascere" degli studi antichi
L'ambiente culturale fiorentino si era arricchito ulteriormente quando Cosimo dei Medici
aveva offerto le sue sostanze e i suoi palazzi per ospitare i delegati al Concilio di Firenze
(1439). I prelati ed i dotti greci, venuti in Italia per discutere su una possibile
riunificazione della chiesa orientale con quella occidentale, alimentarono non poco il già
vivo interesse per lo studio della grecità. E quando Costantinopoli venne espugnata dai
Turchi (1453) molti di essi, memori della magnifica ospitalità ricevuta in precedenza,
ritornarono in Italia, e non pochi si stabilirono a Firenze dando un ulteriore, forte impulso
alla conoscenza del greco e all'interesse per quella cultura. Tra questi dotti oltre al già
ricordato MANUELE CRISOLORA, chiamato da Coluccio Salutati fin dal 1397 ad insegnare
greco nello studio fiorentino, vanno ricordati Giovanni Aurispa Da Noto, Gemisto Pletone,
Giovanni Argiropulo, Costantino Lascaris, Teodoro Gaza, Basilio Bessarione e tanti altri.
Già in precedenza avevano contribuito in maniera decisiva a creare un clima di viva
attenzione per la cultura greca la bibliofilia di Niccolò Niccoli che aveva collezionato ben
800 manoscritti, e la sensibilità culturale di Cosimo dei Medici, che spese gran parte delle
sue ricchezze nella raccolta dei testi antichi, messi poi gratuitamente a disposizione degli
studiosi.
Con gli umanisti il rinnovamento culturale è passato soprattutto attraverso la riscoperta e
la ricostruzione attenta e commossa della " lezione " dei classici. Il ritrovamento nella
filosofia e nella letteratura degli antichi di nuclei dottrinari e di regole morali ancora vivi
nella cultura cristiana moderna rappresentava ai loro occhi la riprova della capacità della
ragione a costruire in piena autonomia l'universo del sapere. La constatazione di una
corrispondenza di tematiche e di soluzioni tra antichi e moderni, mentre rendeva questi
antichi più cari ed amati, rafforzava la fiducia nell'uomo e nelle capacità della sua mente.
La riscoperta degli antichi si profilava sempre più come la scoperta dei moderni. Ma ciò
che ha reso la lettura umanistica dei classici più feconda rispetto alla lettura che di alcuni
di essi avevano offerto i medioevali è il modo nuovo di rapportarsi al testo antico. Alla fine
del medioevo non pochi classici erano conosciuti e letti. Ma l'interesse che muoveva quei
dotti era di natura dottrinaria e non storica. Ad essi, cioè, non importava tanto se quella
lettura fosse conforme all'originale, quanto se si accordasse o meno col dogma della fede.
In tal modo la distanza storica tra antico e moderno veniva cancellata, le dottrine
classiche, anche a costo di qualche forzatura, venivano conciliate ed amalgamate con gli
articoli di fede.
I dotti umanistici, invece, allargano e migliorano lo studio dei classici e, non avvertendo
eccessivamente la preoccupazione di amalgamare la cultura secolare con quella teologica,
lo curano con intento puramente storico. Fu proprio la filosofia umanistica che,
ricostruendolo amorevolmente, reintegrava il passato nella sua autenticità e lo collocava
storicamente, distinguendolo dal presente.
Nel mentre si definisce quel passato si prendono le distanze da esso, ci si definisce, a
propria volta, come moderni che alla scuola dei classici cercano suggerimenti per risolvere
i propri problemi e non per confondersi con gli antichi in una astorica coincidenza che tutto
appiattisce. Il critico distacco da quel mondo fornisce la coscienza della propria identità e,
soprattutto, il senso della storicità dei prodotti spirituali dell'uomo, mettendo
definitivamente in crisi la concezione di un mondo culturale fisso e rigido, definito una
volta per tutte in un testo sacro o nelle pagine di un autore. Gli umanisti leggono i classici
non per accettarne l'autorità, ma per confrontare con quella saggezza antica le soluzioni
che essi intendono offrire ai problemi, nuovi per loro, ma non per l'umanità. La polemica
molte volte aspra nei confronti del medioevo è diretta proprio contro la mancanza del
senso storico di quei dottori, che, nel ritenere la verità una ed immutabile, prestavano
maggior credito all'autorità alimentata dalla tradizione che non ai propri sensi e alla
propria ragione; che erano più propensi a modificare il testo antico per adattarlo a sé,
piuttosto che a guardarlo come il prodotto storico del passato, la cui rilettura aiuta ad
interpretare il presente e a delinearne il percorso.
Cultura umanistica ed ansia sperimentatrice sono le due linee direttrici lungo le quali si
forma la nuova civiltà. Già Leonardo Bruni aveva intuito questo legame tra cultura ed
esperienza quando nel De studiis et litteris esclamava:
La perizia letteraria e la conoscenza delle cose sono congiunte in un certo modo tra loro. E
unite insieme esse hanno dato gloria e fama al nome di quegli antichi di cui veneriamo la
memoria.
(G.A.F. XI, p. 101)
Di questa "distanza" tra cultura medioevale e moderna, gli umanisti sono pienamente
consapevoli, anzi tendono ad accentuarla e ad accreditarla come contrapposizione globale.
Esemplare a tale riguardo appare un'affermazione di Lorenzo Valla, del quale tratteremo
più avanti, con la quale si esalta il valore della lingua latina e la sua capacità di rinnovare
tutta la cultura moderna:
Ma quanto tristi furono i tempi passati, in cui non si trovò nessun uomo dotto, tanto
maggiormente dobbiamo compiacerci con i nostri tempi, nei quali, se ci sforzeremo un
poco di più io confido che rinnoveremo presto, più che le città, la lingua di Roma e, con
essa, tutte le discipline.
(Elegantiae, Praefatio, cit. da E. GARIN, Prosatori latini dei Quattrocento, Milano Napoli
1952, p. 599)
La contrapposizione come si vede è netta e decisa: i tempi passati furono tristi e non
conobbero alcun uomo dotto, il presente, invece, saltando i secoli bui, rinnova con la
lingua latina tutte le altre discipline. Tra l'antica civiltà di Roma e la moderna civiltà
umanistica, Valla stabilisce una continuità ideale, interrotta sul piano storico dalla
presenza di un'età di decadenza culturale e spirituale. Ed, inoltre, il ripristino dell'antico
non è spontaneo e quasi naturale, ma esige impegno e sforzo da parte dell'uomo.
Flavio Biondo (1392 1463), instancabile restauratore degli studi antiquari ed epigrafici, a
sua volta, fissa in mille anni, a partire dalle invasioni barbariche, il periodo di oscuramento
culturale ed esalta i moderni che hanno dato vita alla rinascita degli studi.
Perciò, poiché il tempo nostro per benevolenza di Dio è in condizioni migliori, poiché
rinacquero (revixerunt) gli studi così delle altre arti come, soprattutto, dell'eloquenza, e i
nostri contemporanei sono stati presi dalla brama di meglio conoscere la storia, ho voluto
tentare con la conoscenze che ho ottenuto delle vicende d'Italia, di dare novità di nomi
agli antichi luoghi e popoli, ai nuovi autorità, agli scomparsi vita nel ricordo e, infine, di
illuminare l'oscurità delle vicende italiche.
(In Italiam illustratam, G.A.F. VI, p. 114)
In questo passo, probabilmente, per la prima volta si usa il verbo rinascere (revixerunt),
da cui poi si ricavò l'etichetta Rinascimento.
Una polemica molto serrata aveva condotto già Poggio Bracciolini contro gli scolastici e la
loro logica in nome della nuova cultura letteraria:
Costoro, infatti, mentre si vantano di svolazzare sulle cime della logica e della filosofia, e
sono sempre pronti (vergogna!) a discutere con garrula disputa di qualsiasi argomento,
non comprendono né leggono i testi di Aristotele, ma quasi che la nostra terra non basti al
sapere, vanno a cercare non so quali scritti presso i Britanni divisi da tutto il mondo. Così
abbracciando questi scritti in tutte le loro elucubrazioni senza libri e senza il soccorso di
testi, apprendono la dialettica e la fisica e tutto ciò di cui tratta la speculazione
trascendente.
(De laboribus Herculis, G.A.F. XI, p. 70)
Oltre all'atteggiamento fortemente polemico nei confronti dell'ultima scolastica, è
importante sottolineare la lezione metodologica di Bracciolini: chi non si appoggia al testo
e non lo intende non tratta seriamente alcuna questione, ma " svolazza sulle cime " dei
problemi.
La consapevolezza della distanza dal medioevo è non soltanto contenutistica, ma anche,
se non soprattutto, metodologica.
Ovviamente l'amore e l'esaltazione dei classici non dà luogo, se non in casi di estrema
degenerazione, ad una imitazione pura e semplice. La lettura dei classici deve accendere,
invece, la fantasia, deve svegliare l'autonomia della ragione, deve fornire il materiale di
base su cui agire in maniera personale, libera da qualsiasi preoccupazione di fedeltà
puramente ripetitiva. Questo rapporto dialettico con gli autori del passato sembra
egregiamente focalizzato in un passo del Poliziano:
Quando invece Cicerone ed altri buoni autori avrai letto abbondantemente e a lungo, e li
avrai studiati, imparati, digeriti, quando avrai riempito il tuo petto con la cognizione di
molte cose, e ti deciderai finalmente a comporre qualcosa di tuo, vorrei che tu procedessi
con le tue forze... Vorrei che tu rischiassi mettendo in gioco tutte le tue capacità.
(Epistula ad Paulum Cortesium, GARIN, Prosatori, cit., p. 905)
La cultura classica, filtrata attraverso gli studi filologici, diventa così l'ispiratrice di
conquiste intellettuali nuove sempre più autonome ed originali.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'etica, il piacere e la libera ricerca
Il ritorno all'antico da parte degli umanisti si qualifica soprattutto come ritorno al
platonismo, letto, però, attraverso la mediazione plotiniana. A molti la ripresa degli studi
platonici sembrò un modo per opporsi al medioevo che aveva conosciuto poco e male il
filosofo ateniese. La diffusione della conoscenza del greco favorì non poco la riscoperta di
Platone e del neoplatonismo, come favorì anche il lavoro di recupero della genuina
fisionomia dell'opera aristotelica, ritenuta, e non a torto, fortemente compromessa dalle
traduzioni correnti nei secoli precedenti. Ma se platonismo ed aristotelismo sono le due
correnti filosofiche cui principalmente si riferiscono i dotti umanisti, esse non sono le sole
ad entusiasmare e ad essere imitate. Nella riscoperta del mondo antico una particolare
attenzione attirarono anche due scuole filosofiche tra le più importanti dell'età ellenistica:
l'epicureismo e lo stoicismo.
Questi due ultimi indirizzi, anzi, sono i primi a far presa sulla nuova cultura. La prima
generazione degli umanisti, infatti, nella sua ansia innovativa cercava di prendere le
distanze dal Medioevo e dai suoi simboli culturali con decisa determinazione. Platone ed
Aristotele, per quanto fortemente sfigurati dal tentativo di assimilazione che patristica e
scolastica avevano operato, rimanevano ancora i filosofi antichi più letti nel Medioevo. Ma
la preferenza dei primi umanisti per stoicismo ed epicureismo non può essere giustificata
soltanto come reazione al platonismo e all'aristotelismo medioevale. Essa trova, invece, la
sua giustificazione nella forte coloritura etica dei due indirizzi filosofici. L'entusiasmo per la
scoperta dell'uomo, del valore delle regole morali rispetto alle leggi fisiche o al sapere
metafisico, porta quasi spontaneamente gli umanisti della prima generazione ad esaltare
Cicerone e Quintiliano più di Platone ed Aristotele. E' proprio sui temi della "virtù" e della
"prudenza" che maggiormente esercitano il loro influsso l'etica stoica e quella epicurea.
Motivi stoici esaltanti la forza d'animo, il controllo delle passioni, l'autarchia del saggio e
l'impegno attivo dell'uomo in una cornice di rassegnato pessimismo circolano, ad esempio,
nell'opera di Leonardo Bruni, di Coluccio Salutati, di Poggio Bracciolini e di Leon Battista
Alberti. Motivi che, ovviamente, non vivono ed agiscono nella loro purezza, ma filtrati
attraverso una concezione cristiana della vita.
Contro il rigorismo ed il fatalismo stoico, d'altra parte, si levano le critiche dei seguaci
dell'indirizzo epicureo. Lo stoicismo, con la mortificazione delle passioni e del piacere, ha
spento la pienezza vitale dell'uomo, riducendolo ad "una sola dimensione", quella del
dovere, ed ha accreditato un'immagine intellettualistica, e perciò poco realistica, dell'etica.
L'uomo accanto al dovere sente fortemente come spinta all'azione lo stimolo alla
soddisfazione del piacere, inteso non come abbandono al più volgare sensualismo, ma
come realizzazione dell'antico ideale dell'eudaimonia, come realizzazione completa delle
sue possibilità, come serenità derivante dall'affrancamento dalle paure e dalle
superstizioni. Contribuirono maggiormente alla rinascita dell'epicureismo nel Rinascimento
FRANCESCO FILELFO (1398 1481) e COSMA RAIMONDI († 1435). Nel De morali disciplina
di Filelfo l'epicureismo si presenta come un'intelaiatura storico-razionale intesa a
giustificare il sentimento religioso dell'autore. Sul paganesimo filologico del Filelfo si
innesta, infatti, la sua fede cristiana, sicché cristianesimo ed epicureismo si fondono, e
l'esaltazione del piacere si spiritualizza fino al punto che l'autore discetta sul gaudio
celeste che l'uomo, reintegrato nella sua carne, proverà dopo la resurrezione. Accenti più
schiettamente epicurei sono presenti nell'Epistola ad Ambrogio Pignosi del cremonese
Cosma Raimondi. Il Raimondi è convinto che il fine di ogni attività umana risieda nel
piacere. L'uomo, pur essendo costituito di anima e di corpo, deve, finché dura la sua vita
terrena, seguire gli impulsi naturali, deve perseguire il summum bonum che la natura gli
ha indicato e che consiste nel piacere dei sensi. Tutte le tensioni morali dell'uomo, virtù ed
onore compresi, hanno valore strumentale rispetto al vero fine che l'uomo deve
perseguire, la felicità.
Ma chi diede autorevolezza di dottrina filosofica alla rinascita dell'epicureismo, fu il romano
Lorenzo Valla. Valla, nato a Roma nel 1407 ebbe, fra i tanti, due maestri di eccezione, il
celebrato grecista Giovanni Aurispa (1376 1459) e l'umanista Leonardo Bruni che gli
ispirarono l'amore per la classicità e la passione per la filosofia. Frequentò lo stuolo di
umanisti che si radunava intorno alla cancelleria pontificia ed appena ventenne dette
prova di autonomia di pensiero e di indipendenza da ogni moda culturale scrivendo un
opuscolo, De Comparatione Ciceronis Quintilianique, in cui, contro l'imperante
ciceronianesimo consistente nella celebrazione esagerata dell'oratore romano, proponeva
Quintiliano come maestro insuperabile di oratoria. Lasciata Roma si reca a Piacenza e poi
a Pavia, dove ottiene una cattedra di retorica; in questa città iniziò gli studi di filologia e
scrisse il De Voluptate. Venuto a diverbio con boriosi giuristi a proposito di un'opera di
Bartolo di Sassoferrato, sulla quale con la solita libertà di giudizio aveva espresso un
parere negativo, dovette lasciare Pavia. Dal 1434 al 1436 fu a Milano, poi a Firenze ed
infine si stabilì a Napoli alla corte di Alfonso d'Aragona. In questa città scrisse il De libero
arbitrio, le Dialecticarum Disputationum libri, il celeberrimo opuscolo De falso credita et
ementita Constantini donatione declamatio in appoggio al re di Napoli in quel momento in
urto col pontefice, e portò a termine le Elegantiae latinae linguae, iniziate a Pavia. Come
storico di corte scrisse una storia di Ferdinando d'Aragona. Nel 1448 si trasferisce a Roma
dove occupa la cattedra di eloquenza all'università "Sapienza".
Molti opuscoli polemici e dotte e raffinate traduzioni dal greco testimoniano l'attività di
questo periodo. Dalle opere del Valla emerge, come motivo costante, ispiratore di tutte le
sue posizioni, il fastidio per l'astratto intellettualismo e per le artificiali costruzioni mentali
e un forte richiamo alla semplicità e razionalità della natura. Di qui le vivaci polemiche
contro gli stoici e la loro etica intellettualistica, esaltante la virtù come valore
paradigmatico astratto, le insofferenze contro la cavillosità e la pedanteria dell'apparato
logico peripatetico e scolastico, e la battaglia contro i pregiudizi, le falsificazioni storiche,
la boria inconcludente dei falsi sapienti. Nel dialogo De Voluptate, ripubblicato in seguito
con il titolo De vero falsoque bono, egli pone a confronto l'etica stoica e quella epicurea, e
difende con argomenti brillanti e spregiudicati la seconda contro la prima. Agli stoici che
imputano "a difetto di natura " l'inclinazione al vizio da parte degli uomini, Valla risponde
esaltando con toni lirici la razionalità profonda della natura:
Tutto ciò che la natura plasmò e formò non può non essere sacro e lodevole, come questo
cielo che si stende sopra di noi, alternato di luci diurne e notturne, e disposto con tanta
razionalità, bellezza ed utilità. E' superfluo parlare dei mari, delle terre, dei monti, delle
pianure, dei fiumi, dei laghi, dei fonti, delle nuvole e delle piogge; superfluo ancora parlare
degli armenti, degli animali domestici, dei pesci, degli uccelli, degli alberi, delle messi. Non
si troverà nessuna cosa che non sia perfetta, compiuta e fornita del più grande motivo
della sua esistenza, sia per bellezza che per utilità. E di ciò può far testimonianza da sola
la struttura del nostro corpo.
(De Voluptate, I, 10)
Contro la difesa dell'onestà, intesa come "un bene la cui consistenza è fatta di virtù, un
bene desiderabile esclusivamente per sé", Valla esalta il piacere, la "voluptas" intesa come
"una lieta commozione nell'anima, una soave giocondità del corpo".
A dimostrare che solo il piacere, e non l'onestà, è secondo natura, basta osservare che il
compito fondamentale di ogni essere vivente è di conservarsi in vita:
Ora nulla di più conserva la vita quanto il piacere; senza il gusto, la vista, l'udito, il tatto,
l'odorato, non possiamo vivere, ma senza l'onestà sì. Così se qualcuno osa violare in sé
quello che la natura prescrive, lo farà contro la propria utilità; perché ciascuno deve
operare per il proprio vantaggio.
(De voluptate, I, 36)
Infatti è proprio l'utilità che spinge l'uomo all'azione mentre, invece,
l'onestà non è se non un vocabolo vuoto e futile che non serve a nulla, che non prova
nulla e per il quale non c'è da fare nulla.
(De voluptate, II, 24)
Tutta l'attività umana, le norme del vivere civile, le stesse delizie dello spirito e della vita
contemplativa vanno riferite all'utile e al piacevole: la convivenza civile, le leggi, le
magistrature negli stati, le arti (l'agricoltura, l'architettura, la pittura, la tessitura, la
tintura, ecc.), la letteratura, la medicina furono inventate per procurare piacere ed utilità
all'uomo.
Né è giustificata la comune distinzione dei piaceri in piaceri dell'anima e piaceri del corpo,
perché corpo ed anima non sono realtà distinte o addirittura opposte:
Chi dubita che i piaceri del corpo si generino con l'aiuto dell'anima e i piaceri dell'anima
con la collaborazione del corpo? Non è quasi corporeo ciò che pensiamo, ossia in relazione
a ciò che vediamo, sentiamo, percepiamo con qualche senso? (De voluptate, II, 36)
Il fondamento dell'etica, in conclusione, va cercato esclusivamente in rapporto alla natura.
Anche i più alti valori dello spirito hanno senso e sollecitano l'uomo all'azione in quanto
rispondono allo stimolo naturale dell'affermazione e della conservazione della vitalità e
contribuiscono a rendere la vita più piacevole e godibile. Nella parte finale del dialogo,
Valla cerca di conciliare epicureismo e religione cristiana mostrando come, dopo la morte,
c'è un mutamento, ma non la cessazione del piacere. I piaceri celesti, infatti, sono la più
alta manifestazione della voluptas.
Se il De Voluptate rappresenta una polemica esplicita contro i primi quattro libri del De
Consolatione Philosophiae di Boezio, il De libero arbitrio è una polemica contro il quinto
libro della stessa opera. L'esagerato intellettualismo e l'eccessiva fiducia nell'uomo -
sostiene Valla - avevano fatto correre a Boezio il rischio di negare la Provvidenza divina.
Lo sforzo del Valla, invece, è teso a salvaguardare contemporaneamente la libertà umana,
e con essa la responsabilità, e la prescienza divina. Ma i pregevoli sforzi di Valla intesi ad
armonizzare i due termini del problema non gli consentono di conseguire apprezzabili
risultati. Egli è costretto a ripiegare sulla soluzione già offerta dalla scolastica: la
prescienza divina non è causa necessitante dell'accadere degli eventi storici, Dio sa quello
che noi faremo non perché lo determina, ma perché lo prevede. In tal modo la libertà
umana di fronte alla prescienza divina è rivendicata e ribadita, ma non giustificata e
chiarita.
Con vigore maggiore, Valla nei tre libri sulla dialettica riafferma la libertà umana nel
campo della ricerca filosofica. Nessuno può credere di possedere tutto il vasto ed
inesauribile campo del sapere e, pertanto, nessuno può definirsi sapiente (sophós) bensì
soltanto "amante della sapienza" (filo-sophós).
Per questo appunto tanto meno si può tollerare i moderni peripatetici che negano ai
sostenitori di ogni setta il diritto di dissentire da Aristotele, quasi egli non fosse filosofo,
ma sapiente, e quasi che nessuno, prima d'ora, l'abbia mai discusso.
(Dialecticae disputationes, G.A.F. XI, p. 107)
La ricerca filosofica deve essere, pertanto, libera da ogni soggezione a presunte autorità,
deve procedere su strade diverse e sempre nuove. Il fastidio per l'ossequio acritico che gli
aristotelici del suo tempo riservavano al loro maestro dettò al Valla invettive violente
contro lo stesso Aristotele. Il filosofo greco, sebbene abbia composto più scritti degli altri,
non può assolutamente pretendere di aver esaurito il campo del sapere fino al punto che
gli altri non possono, dire più nulla e debbono adorarlo come un dio . Ma soprattutto sono
da vituperare i seguaci dello Stagirita che lo ritengono maestro infallibile e depositario di
tutta la verità, mentre non ne conoscono la dottrina se non attraverso cattive traduzioni
latine; ma ciò che è peggio, è che vogliono imporre agli altri questo loro assurdo
atteggiamento:
Mi vergogno addirittura a riferire che taluni usano indurre i loro discepoli a giurare che non
si opporranno mai ad Aristotele. Uomini superstiziosi e stolti e ingiusti verso se stessi,
perché si tolgono la facoltà di cercare il vero. Ma se possiamo riprenderli giustamente
perché si imposero questa norma, con quale rimprovero noi dobbiamo colpirli quando
pretendono di imporla agli altri? Sicché, sprezzandoli e trascurandoli, ove vi siano cose che
si possono dir meglio di quanto non abbia fatto Aristotele, cercherò di dirle meglio
umilmente, e non per colpire l'uomo... ma per onorare la verità.
(Dialecticae disputationes, G.A.F. XI, p. 109)
La fiducia nella libera ricerca e nel valore della filologia sostiene non soltanto la polemica
contro dottrine e pensatori lontani nel tempo, ma spinge Valla ad affrontare anche
tematiche scottanti per l'implicita carica politica ad esse connessa. Valla, infatti, sulla scia
di Marsilio da Padova e di altri autori, non esita a dichiarare false le Decretali, redatte
probabilmente verso la fine dell'ottavo secolo, con le quali si giustificava la cosiddetta
donazione di Costantino. Si voleva, infatti, che l'imperatore, guarito dalla lebbra da papa
Silvestro, avesse donato alla chiesa la parte occidentale dell'impero. Con osservazioni
filologicamente acute e penetranti, Valla mette in luce una serie di incongruenze presenti
nel documento, infirmandone completamente la presunta validità storica.
Un'ultima posizione degna di nota: nel De professione religiosorum, anticipando soluzioni
fornite poi dalla Riforma, Valla sostiene che l'uomo non ha bisogno della mediazione della
chiesa per stabilire il rapporto con Dio, che anzi "l'uomo libero non obbedisce che a Dio ".
La vita monacale, inoltre, risponde per molti più ad una esigenza di comodità che non ad
una vocazione all'altruismo. L'ascetismo, infatti, allontana dalla vita sociale ed impedisce
di operare nel mondo a vantaggio dell'umanità.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'universo, la mente e la matematica
A slargare l'orizzonte culturale del periodo storico di cui stiamo percorrendo le tappe
principali, contribuisce, e non poco, un pensatore, tedesco di nascita, ma italiano di
formazione: Nicola Cusano. Con la speculazione del Cusano, la cultura filosofica
rinascimentale si arricchisce di tematiche che, nel mentre riecheggiano motivi tradizionali,
quali la metafisica neoplatonica ed il misticismo eckhartiano, preannunciano motivi e
spunti i cui sviluppi caratterizzeranno molti aspetti del nuovo pensiero scientifico. Nella
ricca e complessa opera di Cusano, infatti, risultano fusi e resistenti a qualsiasi tentativo di
distinzione precisa e netta, intuizioni che con linguaggio moderno incaselliamo nella
categoria scienza e convinzioni che rappresentano il "proprio" della teologia.
Nicola Krebs nacque nel villaggio di Cues (oggi assorbito nella cittadina di Benkastel) da
cui prese il nome, nel 1401. La sua prima formazione, presso i Fratelli della vita comune,
fu ispirata ad una libera lettura dei classici e ad uno spirito religioso più pratico che
dottrinale. Nel 1416 si iscrisse all'università di Heidelberg e l'anno successivo a Padova,
dove studiò diritto. In quest'ultima università, a contatto con scienziati e medici insigni,
tra i quali Paolo Toscanelli, maturarono i suoi interessi matematici e naturalistici.
Nel 1425 studiò teologia a Colonia. Ben presto si fece fama di giurista e di umanista. Nel
1432 partecipò attivamente al concilio di Basilea, come difensore di Ulrico di
Manderscheid, che aveva ottenuto in modo poco chiaro il vescovato di Treviri. In questa
occasione scrisse il De concordantia catholica in cui sostenne le ragioni del concilio contro
le tesi curialiste rivendicanti il primato del pontefice. Convertito alla causa papale, fu
inviato a Costantinopoli con una delegazione per invitare l'imperatore e il patriarca di
Bisanzio al Concilio di Ferrara-Firenze con cui si voleva tentare il ravvicinamento della
chiesa ortodossa con quella romana. In quella occasione non poca influenza esercitarono
su di lui dotti come Basilio Bessarione e Giorgio di Trebisonda. Subito dopo il ritorno da
Costantinopoli compose il De docta ignorantia (1440) e poco dopo il De Conjecturis. Nel
1448 ebbe la porpora cardinalizia e due anni dopo a Roma, dove compose L'Idiota, fu
nominato vescovo di Bressanone.
In questo periodo scrisse opere di un certo rilievo come il De pace fidei, il De Beryllo e il
De visione dei. Tornato a Roma come vicario generale dello Stato Pontificio compose il De
possest, De ludo globi ed altre opere. Morì a Todi nel 1464, mentre era in viaggio per
raggiungere il Papa Pio II ad Ancona.
Di particolare rilievo si presenta il motivo animatore della prima importante opera del
Cusano: De concordantia catholica. Riprendendo tematiche dell'occamismo e
dell'avverroismo latino, Cusano assume atteggiamenti liberalistici e democraticistici.
Contro le tesi curialiste rivendicanti l'assoluta supremazia del Papa sul Concilio, il giovane
canonista, nel ribadire il fondamento pluralistico su cui è sorta la Chiesa, sostiene la tesi
secondo cui la vita della Chiesa si alimenta del contributo di tutti i corpi minori. Il Concilio
come unità armonica degli organismi intermedi, rappresentativi del popolo credente, viene
riconosciuto come la massima autorità in materia di fede:
Perciò il corpo sacerdotale, benché caduco, mortale e soggetto ad errore nei suoi membri,
non lo è tuttavia come totalità, poiché la parte maggiore rimane sempre nella fede e nella
legge di Cristo... E il giudizio sulla fede non è sempre individuabile nel consenso esclusivo
del romano Pontefice, poiché potrebbe egli essere eretico... al contrario in quel giudizio
della fede in cui consiste la sua autorità somma, egli soggiace al Concilio della chiesa
universale.
(De concordantia, I, 8)
I Concili, a loro volta, non debbono essere guidati alle decisioni da uno o da pochi dei
partecipanti, ma poiché per natura gli uomini sono liberi
in esso (Concilio) deve esserci tale libertà che ciascuno abbia libera facoltà di parola.
(De concordantia, II,3)
Nel rapporti con la società civile e con l'impero, la Chiesa non deve rivendicare privilegi o
poteri temporali, anzi deve concedere all'Imperatore la funzione di garante del pacifico e
regolare sviluppo della sua stessa vita interna. Ogni imperatore, sostiene Cusano, deve
puntare alla pace:
Ma principio della pace è l'arte di dirigere i sudditi verso il loro eterno fine, e i mezzi per
raggiungere questo sono le sacre istituzioni delle religioni. Perciò la prima cura
dell'imperatore deve essere intesa a che queste siano osservate.
(De concordantia, III, 7)
Prese di posizioni così decise ed energiche non portarono, però il Cusano sulle posizioni dei
più intransigenti sostenitori delle tesi anti-papali, anzi nel momenti più impegnativi,
quando il Papato tenterà la riconciliazione con la Chiesa greca lo vediamo attivo mediatore
al servizio del papa.
I motivi ispiratori di tutta l'opera cusaniana sono decisamente di natura teologica.
Ciononostante, essi si nutrono di un pensiero che ha una forte carica innovativa sia sul
piano metodologico-conoscitivo che su quello cosmologico. Nella sua opera più famosa, De
docta ignorantia, Cusano evidenzia come la mente umana nel tentativo di conoscere ciò
che è ignoto debba partire dal noto. Stabilendo così una continuità di termini intermedi,
fra di essi omogenei, si può rapportare al già conosciuto ciò che si vuole conoscere. Di
modo che quanto meno è lunga la serie dei termini, tanto più facile ed immediata si
presenta la comprensione. Questa serie di rapporti proporzionali tra le cose non può
essere espressa se non con numeri:
Tutti quelli, infatti, che compiono qualche ricerca, giudicano dell'incerto per mezzo di
qualche proporzione che stabiliscono di esso con un termine certo che possano
presupporre ... Ma la proporzione, dicendo contemporaneamente convenienza e diversità
rispetto ad una qualche e medesima realtà, non può essere espressa fuori del numero...
Forse perciò Pitagora giudicava che tutte le cose si costituiscono e s'intendono in forza dei
numeri.
(De docta ignorantia, I,1)
Ma perché si possa stabilire un rapporto di analogia tra un oggetto ed un altro c'è bisogno
che questi siano omogenei, cioè riconducibili ad una stessa natura. Di conseguenza
quando la mente umana tenta di capire l'infinito, non potendolo rapportare a nessuno
degli oggetti a lei noto, in quanto tutti di natura finiti, deve riconoscere la sua impossibilità
a conoscerlo attraverso la via razionale:
Il massimo, del quale nulla può essere più grande, essendo in modosemplice ed assoluto
più grande di quello che da noi si possa capire, poiché è verità infinita, noi non lo cogliamo
altrimenti che in modo incomprensibile.
(De docta ignorantia, I, 4)
Altrettanto dicasi del minimo, che, essendo pur esso assoluto, non rapportabile cioè a
nessuna grandezza nota, coincide col massimo. Ovviamente è inutile cercare di spiegare
razionalmente questa coincidenza: essa è al di fuori di ogni discorso razionale. L'unica
possibilità per tentare l'apprensione di Dio come coincidenza di infinitamente grande
(massimo) ed infinitamente piccolo (minimo) è offerta all'uomo dalla matematica. Solo gli
enti matematici per la loro immaterialità, e in quanto eliminano ciò che è instabile e
fluttuante dall'esperienza sensibile, si presentano come strumenti utili per la comprensione
del reale e di molte verità teologiche.
Un esempio per capire come Dio possa essere l'essenza di tutte le cose ci è fornito dal
concetto della linea infinita. Come la linea infinita infatti, è della stessa natura di tutte le
altre linee, ma tutte le comprende e le esaurisce in sé, così Dio è l'essenza infinita che
comprende ed esaurisce in sé l'essenza di tutte le cose. A questo Dio, nel quale tutti gli
opposti coincidono (coincidentia oppositorum) e le parti si armonizzano in unità, non
conviene alcuna definizione. Nel linguaggio umano, infatti ad ogni definizione se ne
contrappone un'altra, ma in Dio tutte le definizioni opposte si unificano. A Dio, infatti:
conviene... quella unità cui non si oppone né alterità né pluralità né molteplicità.
(De docta ignorantia, I, 23)
Unità che l'uomo intuisce solo quando valica anche le punte più alte del suo conoscere
razionale, quando cioè s'accorge che ogni suo sapere si presenta inadeguato alla
comprensione di Dio. Solo in questa "dottissima ignoranza" l'uomo afferra l'immensità di
Dio e la coincidenza in lui di tutti gli opposti. La teologia negativa della tradizione
neoplatonica, secondo la quale di Dio si può dire ciò che non è piuttosto che ciò che è,
offre così la soluzione al problema della conoscibilità e della predicabilità degli attributi di
Dio. Ma se sul piano conoscitivo c'è una distanza incolmabile tra mente umana e Dio, sul
piano dell'essere, invece, tra Dio e Universo c'è uno stretto rapporto. Cusano rifiuta,
infatti, la processione dei gradi degli esseri intermedi tra Dio e Mondo: Dio come unità
infinita possiede in sé contratto tutto quanto l'universo:
L'unità infinita è complicazione di tutte le realtà... E come nel numero, che esplica l'unità,
non si ritrova che l'unità, così in tutte le cose che sono non si trova se non il massimo.
(De docta ignorantia, II, 3)
Il mondo allora non è altro che l'esplicazione dell'essenza che, "complicata", si trova in
Dio. Tra Dio e mondo non c'è un taglio netto, una separazione assoluta perché l'universo
esplica nella molteplicità lo stesso Dio:
E poiché l'unità assoluta è la prima, e l'unità dell'universo procede da essa, l'unità
dell'universo sarà la seconda unità che consiste in una certa pluralità.
(De docta ignorantia, II, 6)
La vera realtà di questo universo, però, è costituita da sostanze individuali. Il motivo
unitario esaltante la coesione della molteplicità delle singole realtà nell'unità dell'universo,
è strettamente connesso alla rivalutazione delle realtà individuali:
In atto sono gli individui, in cui sono in modo contratto tutte le cose, e da questa
considerazione si vede come gli universali non sono in atto se non in modo contratto (negli
individui).
(De docta ignorantia, II, 6)
Da questa tesi Cusano ricava delle conclusioni che, per il tempo in cui furono elaborate,
hanno una carica fortemente innovativa. La prima grande affermazione, che è poi l'idea
dominante della cosmologia cusaniana, è l'infinità dell'universo:
L'universo… è illimitato, poiché non può esservi in atto qualcosa di più grande che lo limiti,
dunque è un universo privativo.
(De docta ignorantia, III, 1)
Di questo universo non è possibile individuare né il centro, né la circonferenza, in quanto il
centro e la circonferenza si caratterizzerebbero come l'infinitamente piccolo, il minimo e
l'infinitamente grande, il massimo, i quali, in quanto entrambi infiniti, coinciderebbero.
Solo Dio, come "coincidentia oppositorum", è centro e circonferenza dell'universo, ed è
anche principio, mezzo e fine di tutto.
Da questa prima affermazione rivoluzionaria scaturiscono conseguenze che sono in netto
contrasto con la scienza tradizionale:
La terra, che non può essere il centro dell'universo, non può essere completamente priva
di movimento.
(De docta ignorantia, II,11)
La credenza nella centralità della terra e nella sua immobilità, spiega Cusano, si è venuta
formando sulla scorta di un meccanismo psicologico che non tiene conto del fatto che
spazio e movimento sono concetti relativi all'osservatore:
Chiunque, qualunque sia il luogo in cui egli si trovi, crederà sempre di essere al centro.
(De docta ignorantia, II, 11)
Per spiegare la relatività del movimento, Cusano ricorre ad un'immagine che sarà ripresa
da uno scienziato contemporaneo, Albert Einstein:
Per questo a chiunque, si trovi egli sulla terra, o nel sole, o in qualsiasi altra stella,
sembrerà sempre di essere egli come in un centro quasi immobile, mentre tutto il resto si
muove: egli così si stabilirà sempre poli diversi, questo se esiste sulla terra, quest'altro se
sul sole ed altri se sulla luna, su Marte o altrove.
(De docta ignorantia, II, 12)
Questo universo infinito possiede una struttura di tipo matematico e presenta tra le parti
un ordine proporzionale, ordine che impresso da Dio all'atto della creazione, è
perfettamente conoscibile dall'uomo, la cui mente possiede la stessa struttura
matematica:
Nella creazione del mondo Dio si servì dell'aritmetica, della geometria, della musica e
dell'astronomia, arti delle quali anche noi ci serviamo quando indaghiamo le reciproche
proporzioni delle cose... Gli elementi furono disposti in ammirevole ordine da Dio, che creò
tutto secondo numero, peso e misura.
(De docta ignorantia, II, 13)
Con questa nuova visione del cosmo Cusano ha dato un forte contributo all'opera di
distruzione dell'immagine dell'universo chiuso fornita dalla cosmologia aristotelica-
tolemaica.
Tra sole, terra ed altre stelle, Cusano non segna più alcuna differenza. Come nessuna
differenza è riscontrabile tra le varie parti dell'universo: non esistono più luoghi naturali
verso cui si dirigono i diversi elementi costituenti il cosmo. La visione gerarchica
dell'universo insomma è completamente infranta, ad essa viene sostituendosi un nuovo
universo illimitato; al punto di vista cosmologico si sostituisce gradualmente il punto dì
vista fisico e si avvia il processo che porterà ad una nuova ontologia e alla
geometrizzazione dello spazio.
Nel De conjecturis Cusano analizza le possibilità che la mente umana ha di conoscere, e
riprende gli accenni già fatti, nel De docta ignorantia, alla struttura matematica della
mente:
Siccome la mente umana, nobile similitudine di Dio, partecipa per quanto può della
fecondità della natura creatrice, essa trae da se stessa, come dall'immagine della forma
onnipotente, degli enti di ragione al fine di raffigurarsi quelle reali.
(De Conjecturis, I, 3)
L'uomo quindi, grazie alla similitudine della sua mente con Dio, può, attraverso congetture
matematiche, rapportarsi al mondo e conoscerlo. L'atto attraverso cui la mente dispiega le
sue capacità conoscitive è la mensura, intesa come capacità di paragonare. ponderare e
misurare. La tensione conoscitiva della mente, ovviamente, sarà infinita in quanto infinito
è l'oggetto da conoscere.
Ne consegue che ogni sapere è sempre limitato e provvisorio, è un sapere storico,
passibile di sempre nuovi superamenti. Ma la limitatezza e la provvisorietà non
comportano incongruenza ed arbitrarietà. Se infatti la conoscenza discorsiva, la cosiddetta
logica dianoetica, mostra i suoi limiti relativamente all'infinità di Dio, essa, strutturata
come conoscenza matematica, risulta feconda sul piano della realtà fisica. Il
dispiegamento della ragione avviene attraverso il numero, e attraverso i numeri, come
enti della nostra mente, possiamo attingere la vera struttura della realtà costruita da Dio
con ordine. e proporzione matematici:
Né si può di certo comprendere composizione alcuna fuori del numero: sono infatti
contemporaneamente da essa e la pluralità delle parti, e la loro distinguibilità, e la
proporzione in base alla quale si possono raccogliere insieme. Né sarebbe distinta la
sostanza, distinto l'essere bianco, distinto l'essere nero, e così ogni entità, senza l'alterità,
che è, ed è per il numero.
(De Conjecturis, I, 4)
La logica dell'identità e della distinzione è perfettamente adeguata alla comprensione della
realtà naturale.
Proprio per la capacità di espandere all'infinito il proprio potere conoscitivo, l'uomo ben a
ragione può essere paragonato a Dio:
L'uomo è infatti un dio, ma non assolutamente, in quanto uomo; è perciò come un dio
umano. L'uomo è anche un mondo, ma in quanto uomo non è nella sua contrazione tutte
le cose. E' perciò l'uomo un microcosmo, o un certo mondo umano. La stessa sfera
dell'umanità perciò abbraccia, con la sua potenzialità umana, e Dio e l'universo mondo;
può quindi essere l'uomo un Dio umano e Dio umanamente; può essere un angelo umano,
e una bestia umana, un leone umano, o un orso o qualunque altra cosa.
(De Conjecturis, II, 14)
I temi più specifici della cultura rinascimentale riguardanti l'uomo sono già chiaramente
elaborati nelle pagine da Cusano dedicate all'argomento.
Nel De Idiota, che in italiano andrebbe tradotto " profano illetterato", il Cusano riprende la
tematica del De Conjecturis per condannare la sapienza frutto dell'erudizione letteraria o
retorica, basata sull'autorità. La sapienza vera è quella che si acquista con la lettura del
mondo della natura in chiave matematica.
Un ultimo scritto cusaniano merita di essere qui ricordato, il De pace fidei. La caduta di
Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453) aveva messo a diretto contatto il mondo
cristiano e quello islamico. Cusano, convinto assertore della soluzione pacifica e negoziata
del conflitto religioso, sotto la forma metaforica di una specie di congresso tenuto in cielo
davanti a Dio con la partecipazione dei rappresentanti delle diverse fedi religiose,
suggerisce la via della pacificazione e della concordia.
Si tratta soltanto di cercare un accordo sui comandamenti divini più semplici ed
elementari, rintracciabili nello stesso lume di ragione, e riducibili tutti al semplice
comandamento dell'amore. Sulla base di tale intesa, tutti i riti debbono essere tollerati.
Questo invito cusaniano diventa l'elemento basilare della lunga battaglia che filosofi e
scienziati condurranno contro l'intolleranza e le persecuzioni religiose.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Filosofia antica, cristianesimo e magia
La figura dell'intellettuale che svolge un ruolo culturale e politico all'interno della società in
cui opera ha conservato con Cusano ancora contorni abbastanza precisi. Ma ormai sono
lontanissimi i tempi della prima generazione degli umanisti, quando politica e cultura
erano unite da stretti legami ed i cancellieri della repubblica fiorentina erano scelti fra i
letterati-filosofi più celebrati del tempo. Con Cosimo, prima, e con Lorenzo, dopo, l'ascesa
politica dei Medici aveva toccato punte elevatissime; essi, seppure per un certo periodo da
privati cittadini (agivano infatti attraverso un consiglio formato da fedelissimi), gestivano
in prima persona gli interessi di Firenze che, per non poca parte, coincidevano con i propri.
Questo maggiore impegno politico non fece venir meno nei Medici l'interesse per la cultura
ed il gusto per il mecenatismo, anzi, forse, l'accentuò. Solo che, ormai, il rapporto poltica-
cultura era cambiato. La cultura, infatti, veniva isolata come in un limbo, tenuta lontana
dagli affari politici, avvolta in un atmosfera rarefatta e spiritualizzata. La seconda
generazione degli umanisti fiorentini risente fortemente della trasformazione politica
avvenuta nella città. Si attenua, fino a spegnersi del tutto, subito dopo la congiura dei
Pazzi (1478), l'entusiasmo attivistico che aveva coinvolto ricchi mercanti e folte schiere di
intellettuali in un "gioco" di libera concorrenza, di agone economico, politico e culturale.
L'umanesimo civile, esaltatore dell'uomo attivo, concreto operatore di storia, si consuma
lentamente e cede il posto ad un umanesimo, più raffinato ed elegante, se si vuole, ma
più astratto, che nutre sì interesse per l'uomo, ma per l'uomo ideale, per l'essenza
universale dell'uomo.
Le cause politiche di questo mutato atteggiamento della cultura fiorentina nella seconda
metà del XV secolo sono indicate con lucida intelligenza da un colto letterato appartenente
ad una delle grandi famiglie messe fuori gioco dall'irrobustirsi del potere dei Medici:
ALAMANNO RINUCCINI. Nel Dialogus de libertate, dopo aver stigmatizzato come dittatura
l'egemonia di Lorenzo sulla città. e dopo aver rimarcato il fatto che
tanti uomini di ingegno così elevati ed insigni per età e saggezza vivono oppressi sotto il
giogo della servitù,
(Dialogus de libertate, I, cit da Il Quattrocento, cit, p. 767)
il Rinuccini mostra come, anche per chi non aveva una naturale inclinazione, il rifugio nella
vita contemplativa si è rivelato una necessità. Non potendo realizzare
la felicità che un uomo, partecipe della vita civile, può conseguire in questa valle di
lacrime... ho ritenuto di dover scegliere una via di mezzo, che mi facesse migliore di
giorno in giorno, con l'imparare nuovi concetti... per questo più volte mi aggiro in questo
luogo solitario, parlando spesso con me e con quei libri che ora avete veduto e godendo
piacevolmente di quella libertà che così intensamente sostengo.
(Dialogus de libertate, II, cit, p. 779)
La cultura è costretta dallo strapotere dei Medici a ripiegare su se stessa, a trasformarsi in
cultura teoretica, le cui indagini poco o nulla influiscono sulla vita concreta degli uomini
comuni.
Un interesse per il platonismo, già vivo nella cultura italiana a partire dal Petrarca, era
stato ridestato da Giorgio Gemisto Pletone con l'opuscolo in greco Sulla differenza tra la
filosofia platonica e l'aristotelica (1439). Ne era seguita una polemica da parte degli
esaltatori dello Stagirita che presero posizione con la Comparatio Platonis et Aristotelis
(1455) di Giorgio Trapezunzio. Polemica che però sembrò volgere a favore dei platonisti
soprattutto con l'opera di Basilio Bessarione Contra calumniatorem Platonis (1457-58).
L'aristotelismo, battuto a Firenze, continuava ad avere una vita rigogliosa nelle università
e principalmente in quella di Padova. Ma chi veramente fece del platonismo un vero e
proprio culto fu Marsilio Ficino.
Nato a Figline in Valdarno nel 1433, Marsilio fu avviato dal padre agli studi di medicina,
ma rivelò subito un'inclinazione per gli studi filosofici e particolarmente un forte interesse
per Platone. Affinatosi nello studio del greco, tradusse, ancora giovane, gli Inni attribuiti
ad Orfeo e ad Omero, gli Inni di Prodo, la Teogonia di Esiodo. Questo interesse per il
mondo greco divenne assiduo e metodico quando Cosimo regalò (1462) a Ficino la villa di
Careggi corredata di una ricca biblioteca. Qui ben presto si formò un centro di cultura
platonica molto attivo, frequentato da pensatori, artisti e letterati. Frutto dell'impegno di
Marsilio fu la traduzione completa delle opere di Platone (1477), di Plotino (1485), dei
neoplatonici posteriori e quella dei Corpus Henneticum, una raccolta di scritti di carattere
filosofico-religioso ritenuta antichissima ed attribuita ad Ermete Trismegisto, ma compilata
forse tra il primo e il terzo secolo dopo Cristo, ad opera di diversi autori. Tra le opere
originali di Marsilio vanno ricordate la Theologia platonica ed il De cristiana religione.
L'orientamento della speculazione ficiniana è dichiaratamente religioso e risponde alla più
profonda convinzione della inscindibile complementarità di religione e filosofia. Immune da
accenti profetici e da sogni di palingenesi, la religiosità di Marsilio non si pone obiettivi
riformatori, ma punta soltanto a stabilire una saldatura profonda tra speculazione filosofica
e verità rivelata dal Cristianesimo. Ficino elabora ben presto il concetto di prisca theologia,
di una teologia precedente al Cristianesimo, la cui origine nel mondo pagano va fatta
risalire a Zoroastro e al cui punto culminante va individuato nell'opera del "divino" Platone.
Tutti questi antichi teologi avrebbero contribuito alla graduale conquista e rivelazione
dell'unica verità. Le dottrine di questi filosofi religiosi, tra cui Ficino cita anche Ermete
Tnismegisto, Orfeo, Aglaofemo e Pitagora, lungi dall'essere antagoniste alla rivelazione
cristiana, ne rappresentano gli antecedenti teorici e storici:
I primi filosofi... sempre congiunsero la filosofia con la pietà religiosa. Da principio infatti
la filosofia di Zoroastro non era altro se non una pietà e un culto divino affratellati con la
sapienza; ed anche le trattazioni di Mercurio Trismegisto prendono sempre le mosse da
una invocazione e si chiudono con un sacrificio. Anche la filosofia di Orfeo e di Aglaofemo
tutta quanta si occupa delle lodi di Dio; Pitagora dava inizio agli studi filosofici con il canto
mattutino degli inni sacri e Platone non solo nel parlare, ma anche nel pensare insegnava
a prendere le mosse da Dio.
(Teologia platonica, XII, 1)
Ma nella formazione filosofica di Marsilio lasciò traccia profonda, più che l'opera di Platone,
quella di Plotino. Messa completamente da parte la religiosità intrisa di aristotelismo che
aveva trionfato attraverso tutta la scolastica, Marsilio si riallaccia alla speculazione neo-
platonica e ne riconferma i due fondamentali capisaldi: la trascendenza-immanenza di Dio
e la centralità dell'uomo nell'universo. Il Dio ficiniano, infatti, non è solamente in sé,
separato dall'universo, ma è ovunque perché non è in alcun luogo determinato:
Dovunque si trova presente o sì pensa l'essere, che è appunto effetto universale, quivi è
Dio il quale è causa universale... Difficilmente si trova dove sia Dio, poiché non è in
nessun luogo ciò che non viene determinato né da alcun sostrato, né da alcun limite nello
spazio; ma più difficilmente si può trovare dove Dio non sia... Se la luce visibile, che parte
da qualche cosa di luminoso ed è di natura finita, ha il potere di dilatarsi per tutto il
mondo, senza dubbio la luce invisibile che parte da se stessa, che sussiste in se stessa ed
è infinita si deve estendere non solo per tutto il mondo, maanche al di là dei limiti dei
mondo... Per cui Dio, che sussiste in sé, esiste dovunque.
(Teologia platonica, IL 6)
La razionalità divina permea di sé tutta quanta la realtà, anche se non si esaurisce in essa.
Il mondo, dunque, è "Il migliore dei mondi possibili ":
Il mondo è stato creato dal bene stesso quale migliore non avrebbe potuto essere. Quindi
non è soltanto corporeo, ma è anche partecipe della vita e della intelligenza.
(De vita coelitus comparanda, 26, cit. da C. Colombero, Uomo e natura nella filosofia del
Rinascimento, Torino 1976, p. 166)
Ma pur essendo nel mondo, Dio non coincide con esso. La realtà, infatti, si snoda
attraverso gradi diversi, il più alto è Dio, il più basso è la materia, tra i due estremi si
trovano le qualità, l'anima razionale e le creature angeliche. L'anima umana, oltre ad
essere un grado dell'essere, svolge un vero e proprio ruolo di mediazione tra la realtà
superiore immobile ed eterna e la realtà inferiore soggetta al divenire temporale. Essa
è la terza essenza o essenza media, perché è nel mezzo del tutto ed è sempre terza... tra
ciò che è soltanto eterno e ciò che è soltanto temporale vi è l'anima, quasi come legame di
ambedue.
(Teologia platonica, 111, 2)
L'anima incarnata, l'uomo, rappresenta il momento centrale del reale. Partecipando del
corpo e dello spinto, l'uomo riassume in sé il mortale e l'immortale, il temporale e l'eterno,
e può pertanto svolgere il ruolo di unificatore dei vani gradi dell'essere:
Questa terza essenza, posta nel mezzo, è tale da rimanere legata agli enti superiori senza
abbandonare gli inferiori e così in lui ciò che è in alto si unisce con ciò che è in basso.
(Teologia platonica, 111, 2)
In questa unificazione di materia e spirito consiste la funzione copulatrice dell'anima,
l'attività per cui è detta "copula mundi". Marsilio valorizza al massimo l'attività conoscitiva
e volitiva dell'uomo. Grazie ad essa, soprattutto in virtù dell'intelletto e della volontà,
l'anima umana può raggiungere gradi di essere sempre più elevati, può "volare" fino a
Dio.
Questa ascesa l'uomo la realizza attraverso l'amore per la bellezza che Dio ha profuso
nella realtà. L'uomo, seguendo la via inversa, quella che dal terreno lo porta al divino,
cercherà la bellezza prima nei corpi, poi nelle anime e poi gradualmente in realtà sempre
più alte.
La visione dell'universo sostanzialmente unitaria, fuori dallo schema dualistico aristotelico,
porta Ficino a nutrire una grande fiducia nella capacità del "mago" di catturare e utilizzare
gli influssi benefici provenienti da alcuni pianeti e di neutralizzare gli influssi malefici
provenienti da altri. Con una raffinata "magia naturale" Marsilio insegna agli uomini a
liberarsi dalla malinconia. Le piante, i fiori, alcuni oggetti svolgono nella pratica medico-
magica di Marsilio la stessa funzione rasserenatrice e liberatrice che nella psicanalisi
moderna svolge la parola del terapeuta.
Il mago è paragonato all'agricoltore, che con gli innesti diffonde la vita delle piante e ne fa
nascere specie diverse e migliori, al medico, al fisico, al chirurgo, i quali cercano tutti di
favorire lo sviluppo della natura umana:
Lo stesso fa quel filosofo, esperto conoscitore delle cose naturali e degli astri, che
chiamiamo solitamente mago, il quale, con ben determinati incantesimi, congiunge le cose
celesti con le terrene nel modo più opportuno.
(De vita coelitus comparanda, 26, Colombero, cit, p. 235)
In Ficino, il filosofo, il medico ed il mago operano all'interno della stessa visione del
mondo. E' infatti, nell'ambito di una concezione unitaria del cosmo, in cui ogni parte è
direttamente e necessariamente articolata con il resto, che è possibile al medico e al mago
di suggerire rimedi e di operare "prodigi".
Nella stessa temperie culturale opera un altro filosofo neoplatonico: Giovanni Pico della
Mirandola.
Nella sua brevissima esistenza (visse appena 31 anni, essendo nato a Mirandola presso
Mantova nel 1463 e morto a Firenze nel 1494) Pico incarnò tutte le ansie ed i miti della
sua epoca. Fornito di una intelligenza acuta e penetrante, di una passione quasi morbosa
per lo studio, di una memoria prodigiosa, solcò i moltissimi campi dei sapere: poesia,
filosofia, letteratura, musica, architettura, ed in tutti portò la ventata delle sue esuberanti
doti intellettuali. Studiò a Bologna, a Ferrara e a Padova, dove entrò a contatto con gli
averroisti più famosi del tempo. Si recò a Parigi, dove studiò con la solita febbrile alacrità
la filosofia scolastica. Da Parigi tornò con la grande idea di organizzare un'assemblea di
dotti di tutto il mondo per sottoporre a discussione 900 tesi filosofiche da lui preparate..
Nel frattempo studiò l'ebraico, l'arabo, l'aramaico e sì appassionò alla cultura cabalistica.
La poca ortodossia di alcune di queste tesi lo espose all'accusa di eresia. Costretto a
fuggire riparò a Parigi. Tornato in Italia si stabilì a Firenze dove poté con maggiore
serenità dedicarsi ai suoi studi. Oltre alle 900 tesi, tra le sue opere bisogna ricordare:
l'Oratio de dignitate hominis, considerata da molti il manifesto culturale dell'umanesimo,
l'Apologia, il De ente et uno e le Disputationes in astrologiam divinatricem.
In polemica con la tendenza, espressa da una frangia di umanisti, a considerare la cultura
come pura forma letteraria, come pura retorica, Pico prende posizione a favore della
filosofia. Contro un fine umanista, Ermolao Barbaro (1453-1493), che aveva accusato i
dottori della scolastica (S. Tommaso, Giovanni Scoto, S. Alberto Magno) di esser "barbari"
per la poca eleganza dello stile, Pico tesse l'elogio della cultura che privilegia i contenuti,
ed immagina come qualcuno di quel "barbari" avrebbe potuto rispondere a quell'accusa:
Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici,
non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti dove
non si tratta né si discute sulla
madre di Andromaca, sui figli di Niobe, e su fatuità del genere, ma sui principi delle cose
umane e divine.
(GARIN, Filosofi, cit., p. 429)
L'idea che anima tutti gli scritti pichiani è quella della concordia fra le diverse religioni e le
diverse filosofie. Nella redazione delle 900 tesi, Pico, infatti, utilizzò la sua vastissima
cultura per tentare di illustrare la conciliabilità di cristianesimo, filosofia antica, cultura
orientale e magia. L'esigenza sincretistica, già presente in Ficino, nell'opera di Pico è più
marcata e possiede orizzonti più ampi. Non solo la filosofia classica e l'ermetismo magico
possono essere rapportati alla religione cristiana, ma anche il misticismo ebraico con le
sue pratiche cabalistiche intese ad invocare il vero nome di Dio attraverso un complicato
sistema di sostituzione di numeri alle lettere dell'alfabeto. Non poche conclusioni delle 900
tesi utilizzano, infatti, la magia e la cabala. Basti un solo esempio: niente, afferma Pico,
certifica l'esistenza di dio quanto la magia e la cabala. Ma la magia cui si riferisce Pico è la
magia naturale ed è della stessa specie di quella ficiniana. Il mago, cioè, in un universo
animato e unitario, utilizza tutte le sue capacità secondo i principi della magia simpatetica
per trasferire sulla terra i benefici influssi celesti.
In Pico l'esaltazione dell'uomo raggiunge toni epici: l'uomo è simile a Dio, soprattutto
nell'anima; è un microcosmo in quanto abbraccia in sé tutte le sostanze di ogni natura e
racchiude realmente la pienezza dell'universo intero. Nell'Oratio de dignitate hominis, Pico
accentua la considerazione "divina" dell'uomo. Libero da ogni soggezione a qualsiasi
determinismo, l'uomo ha una natura indeterminata, è capace di innalzarsi sino a Dio con
l'uso della sua "divina" intelligenza, ma può anche precipitare al rango dei bruti se cede
all'istinto e alla passione: egli stesso infatti è artefice dei proprio destino. Così Pico
immagina che Dio parl all'uomo, all'atto della creazione:
Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna
prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quella prerogativa che tu desidererai,
tutto appunto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura
determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da
nessuna barriera costretto. secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel
mezzo del mondo, che di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto
né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso, quasi libero e
sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai
degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti, tu potrai rigenerarti secondo il tuo volere,
nelle cose superiori che sono divine.
(ivi, p. 477)
L'uomo è ciò che si fa grazie alla sua libera scelta. Egli stesso con la sua volontà
determina la sua esistenza; Dio gli ha concesso un arco molto ampio di possibilità e gli ha
concesso di scegliere liberamente il suo destino.
Per difendere e confermare l'immagine dell'uomo mago, di natura ancipite, capace di
autodeterminare la propria, Pico scrive le Disputationes contra astrologiam divinatricem.
In questa opera la polemica è condotta contro un ben preciso tipo di astrologia, quello che
sulla scorta di una visione deterministica e causalistica dell'universo nega nell'uomo ogni
libertà ed ogni autonomia. In questo quadro filosofico-religioso il compito dell'uomo è la
rigenerazione spirituale. L'uomo rinasce a vera vita e realizza la propria felicità solo nel
ritorno al proprio principio, cioè a Dio. Con accenti fortemente mistici riecheggianti la
religiosità ficiniana e savonaroliana, Pico nel Heptaplus cosí si esprime:
Io definisco così la felicità: il ritorno di ciascuna cosa al proprio principio. Infatti la felicità è
il sommo bene ed il sommo bene è ciò cui tutte le cose tendono, e ciò cui tutte le cose
tendono è il principio di tutto... Quindi il fine ed il principio di tutto sono le stesse cose,
sono cioè Dio.
(Heptaplus, VII, Colombero, cit, p. 183)
Nel De ente et uno Pico opera il tentativo di realizzare la concordanza tra Platone ed
Aristotele. Se il filosofo ateniese ha rappresentato durante il Rinascimento l'ideale della
vita contemplativa e lo Stagirita quello della vita attiva, della vita spesa nella ricerca
scientifica, nella perenne tensione conoscitiva, il tentativo di conciliazione dei due filosofi
risponde al desiderio di armonizzare le due esigenze più profonde di Pico: l'ansia di
conoscere e dominare la natura e, quasi a completamento di questa, l'ansia di raggiungere
Dio.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Il "vero" Aristotele
La rapida diffusione in molti centri italiani di " Studi " e di " Accademie ", pur segnando il
declino culturale di molte università anche gloriose in un recente passato, non segnò la
decadenza di tutte le università. Un centro universitario che mantenne intatto il suo
rigoglio culturale attraverso tutto il Rinascimento fu quello di Padova. La tradizione
aristotelica, risalente ai secoli precedenti, in questa città si conserva e si espande nei
secoli XV e XVI. Gli aristotelici padovani avevano conosciuto ed accettato Aristotele fin dal
XIII secolo attraverso il commento del filosofo arabo Averroè, e avevano dato vita a quel
filone culturale comunemente etichettato come averroismo latino. Le nuove esigenze
filosofiche affiorate nel corso del XV secolo portano un gruppo di studiosi a tentare di
riscoprire la dottrina genuina di Aristotele, al di là della lettura del commentatore arabo,
ritenuto troppo lontano dal tempo e dalla temperie culturale del maestro per esserne un
fedele interprete. In questo clima di ritorno all'autentico Aristotele assumono un significato
particolare le nuove traduzioni delle opere dello Stagirita, condotte con maggiore perizia
filologica e su testi più sicuri perché maggiormente vicini agli originali. Accanto alla
ricostruzione del "vero Aristotele" si provvede alla traduzione delle opere dei
commentatori ritenuti più fedeli al testo aristotelico: fra questi, Alessandro di Afrodisia (II-
III sec. d.C.) e Simplicio (V-VI sec. d.C.).
Il tradizionale filone aristotelico si sfiocca, così, in due direzioni.
Già Marsilio Ficino nel Proemio al commento di Plotino puntualizzava la differenza tra
Alessandristi ed Averroisti:
I primi ritengono che il nostro intelletto è mortale, gli altri sostengono che è unico in tutti
gli uomini, gli uni e gli altri distruggono dalle fondamenta ogni religione, specialmente
perché negano l'azione della provvidenza divina sugli uomini, e gli uni e gli altri sono
infedeli allo stesso loro Aristotele.
(in Plotin., pr.)
L'accusa di infedeltà. da parte di Ficino, ovviamente, era avanzata da un angolo visuale
diametralmente opposto a quello degli aristotelici, perché interessato ad evidenziare più la
carica religiosa che non quella scientifica e naturalistica del pensiero aristotelico: Platonici
fiorentini ed aristotelici padovani, infatti, pur accomunati nell'opera di "riscoperta" della
autenticità dei testi classici, mirano ad obiettivi culturali assai diversificati.
Gli aristotelici padovani, infatti, esercitano la loro ricerca su un piano di più rigorosa
razionalità scientifica. Essi intendono approfondire e delimitare con un uso più freddo e
tecnico della ragione i metodi e i campi della ricerca filosofica e scientifica, distinguendoli
da quelli propri della fede. Un'audacia con cui moltissimi aristotelici teorizzano dottrine
contrarie a quelle della chiesa ed incappano in processi e condanne, deriva proprio dalla
loro convinzione che la fede e la scienza hanno procedimenti logici e metodi di ricerca
diversi, per cui anche sullo stesso argomento si possono professare verità diverse.
Questa distinzione così netta e decisa dei campi che sono propri della fede e quelli nei
quali deve essere esercitata la ragione consente agli aristotelici di Padova di rivendicare
una maggiore laicità della cultura e di indirizzarla con più matura consapevolezza critica e
scientifica nell'indagine naturale. Il principio della "doppia verità" era una libera
interpretazione delle convinzioni di Averroè, secondo cui fede e ragione hanno per oggetto
le stesse verità, ma la fede le espone in modo da renderle più comprensibili alle masse
incolte.
Una delle più significative figure dell'averroismo padovano può essere ritenuto, nonostante
alcune ritrattazioni delle posizioni precedentemente assunte, Nicoletto Vernia (1420 99).
Di questo filosofo, che fu maestro di Agostino Nifo e di Pietro Pomponazzi, ci restano
soltanto pochi scritti minori, essendo andata perduta la sua produzione maggiore.
Sostenitore della tesi avverroistica di un intelletto unico ed immortale per tutti gli uomini,
Vernia fu un rigido avversario delle interpretazioni scolastiche di Aristotele, sia di quella
tomistica che di quella scotista. Preoccupato di incorrere nei rigori dell'inquisizione
religiosa, prende le distanze dall'averroismoattraverso opuscoli in cui, pur affermando di
aver professato l'averroismo solo per motivi dialettici e per esercitazione intellettuale,
continua a ritenere la filosofia naturale superiore alla metafisica.
Atteggiamento ancora più ambiguo tiene il campano Agostino Nifo (1473- 1546),
professore a Padova solo per pochi anni. Editore delle opere di Aristotele e di Averroè,
professò un averroismo molto blando e intriso di platonismo. Proprio sotto l'influenza dei
neoplatonici, di Pico in modo particolare, sostenne nel De immorta1itate animae contro
averroisti ed alessandristi la tesi dell'immortalità dell'anima e tacciò di immoralità i
negatori di questa tesi. Ma al di sopra di tutti si eleva la figura di Alessandro Achillini
(1473-1512), il "secondo Aristotele", come fu chiamato dal contemporanei per la grande
padronanza del pensiero dello Stagirita. Nelle sue opere Achillini espone la cosmologia
metafisica aristotelica filtrata attraverso Averroè, e riconferma la dottrina dell'intelletto
unico ponendo anche egli attenzione a distinguere le verità di fede da quelle ricavate
dall'esame della filosofia di Aristotele.
Ma il merito maggiore ascrivibile ad Achillini deve essere cercato nelle sue indicazioni
intorno al metodo della conoscenza. La chiarezza con cui Achillini individua nel metodo
matematico l'unico metodo modellato sull'ordine stesso della natura e, pertanto, l'unico in
grado di darci conoscenze adeguate, da una parte lo ricollega al Cusano e, dall'altra, lo
segnala come portatore di un'istanza scientifica i cui sviluppi più importanti saranno forniti
di lì a poco dalla scienza galileiana.
La rivendicazione dell'importanza del problema metodologico non proviene, però, dal solo
Achillini, anzi diventa il merito principale di una gran fetta dell'aristotelismo
rinascimentale. JACOPO ZABARELLA (1533-1589), CESARE CREMONINI (1550-1631),
GIULIO CESARE VANINI (1585-1619) e lo stesso Pomponazzi, di cui parleremo più
diffusamente, avvertono con chiarezza che nessuna ricerca è possibile senza aver
preliminarmente messo a punto un procedimento metodologico che dia ordine e significato
alle vane esperienze.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'anima e l'ordine naturale
Tutta la speculazione di Pietro Pomponazzi infrange lo schema storiografico tradizionale
indicante Padova e Firenze come centri di cultura contrapposti fra loro, e rappresentanti, il
primo, la cultura scolastica, medioevale, lontana dal clima di rinnovamento che agita tutto
il resto d'Italia e di Europa, il secondo, il pensiero nuovo che porta i germi della cultura
moderna.
Per quanto il linguaggio e, molto spesso, la tematica, siano diversi, l'ansia che anima il
professore padovano e l'umanista fiorentino può essere ricondotta alla stessa
preoccupazione di capire la natura dell'uomo e le motivazioni che lo spingono all'azione.
Ovviamente, attingendo a fonti diverse e servendosi di metodi d'indagine diversi,
pervengono ad esiti, non poche volte, opposti.
Nato a Mantova nel 1462 Pomponazzi studiò a Padova sotto la direzione, tra gli altri, di
Nicoletto Vernia. Insegnò a Padova, a Ferrara ed infine a Bologna dove morì nel 1524. Nel
1516 pubblicò la sua opera più famosa e più discussa, De immortalitate animae. La
trattazione sulla natura dell'anima, e sul suo destino dopo la morte, apre la via alla
discussione sulla virtù e sul fine ultimo dell'uomo. Pomponazzi inizia il suo discorso
ribadendo un principio comune a tutta la filosofia rinascimentale:
L'uomo non ha natura semplice, bensì molteplice, non chiaramente determinata ma
ambigua, e si pone a mezzo tra gli esseri mortali e quelli immortali.
(De immortalitate animae, 1)
Ma la constatazione della natura ancipite dell'uomo non suggerisce al filosofo slanci lirici
sulla "divinità" dell'uomo stesso e sulla missione cui deve adempiere innalzandosi a Dio
per realizzare la sua natura immortale. All'ottimismo, in certo senso ingenuo e di maniera
di tanti neoplatonici, Pomponazzi sostituisce una visione più amara, se si vuole più tragica,
della natura dell'uomo, ma certamente più realistica e convincente. Senza negare la
tensione verso il divino, Pomponazzi radica l'uomo nella condizione naturale e individua
nell'indivisibile unità di anima e corpo l'argomento basilare per combattere sia le tesi
neoplatoniche che quelle averroistiche.
L'anima sensitiva è semplicemente atto del corpo fisico-organico, in quanto ha bisogno del
corpo sia come soggetto, non potendo esercitare la propria attività se non per mezzo di un
organo, sia come oggetto... L'intelletto umano invece non è completamente indipendente
dal corpo in nessuna sua operazione, ma non è neppure completamente immerso in esso.
(De immortalitate animae, 9)
L'anima umana, pur non coincidendo meccanicamente con il corpo, non è in alcuna sua
operazione indipendente da esso:
Da ciò si può ricavare la conclusione principale che ci eravamo proposti: cioè che l'anima
umana è in assoluto materiale e relativamente immateriale...
All'intelletto umano è essenziale intendere per mezzo delle immagini... e ciò appare
chiaramente dalla definizione dell'anima, essendo questa atto del corpo fisico-organico...
Ma poiché chi intende in questo modo è necessariamente inseparabile dal corpo,
l'intelletto umano è mortale... Dunque bisogna categoricamente affermare che l'anima... è
mortale.
(De immortalitate animae, 9)
La prova cruciale della materialità e mortalità dell'intelletto umano è indicata, dunque, nel
fatto che essa è, in ogni sua attività, necessariamente tributaria del corpo.
Pomponazzi arriva alla formulazione di un sillogismo per riaffermare la sua convinzione:
Se l'anima umana in ogni sua operazione dipende da un organo essa è inseparabile e
materiale, ma essa dipende effettivamente in ogni sua operazione da un organo; quindi
essa è materiale.
(De immortalitate animae, 8)
Rifacendosi ad un eloquente passo della Fisica aristotelica, Pomponazzi nega la creazione
dell'anima, sostenendo che essa è prodotta per generazione: "il sole e l'uomo generano
l'uomo".
L'anima dunque è materiale, generata col corpo e destinata con esso a perire, non può
operare né esistere senza di esso, ma grazie alla volontà e all'intelletto essa si avvicina
alla divinità, e "profuma" (odorat) d'immortalità, ma dell'immortalità non ha altro che
questo sentore.
A chi obietta che la dichiarazione di mortalità dell'anima automaticamente segna il crollo
del fondamento stesso della vita morale, Pomponazzi ribatte che la moralità non può e
non deve riposare sulla speranza di un premio o sul timore di un castigo ultramondani.
Essa deve avere in se stessa la sua fondazione e la sua giustificazione. La morale, cioè,
deve essere autonoma dalla religione:
Premio essenziale della virtù è la virtù stessa che rende l'uomo felice: infatti la natura
umana non può ottenere nulla di più grande della virtù stessa, dato che essa sola rende
l'uomo sereno e libero da ogni turbamento... precisamente l'opposto del vizio; la pena,
infatti, per il vizioso è il vizio stesso dei quale non si può trovare alcunché di più miserabile
e infelice.
(De immortalitate animae, 14)
La dottrina dell'immortalità dell'anima fu elaborata dai politici come espediente per
condurre gli uomini ad agire virtuosamente:
Il legislatore, considerando l'inclinazione degli uomini al male ed avendo di mira il bene
comune, sancí che l'anima è immortale senza preoccuparsi della verità, ma solo
dell'onestà, allo scopo di indurre gli uomini alla virtù.
(De immortalitate animae, 14)
La strumentalizzazione, a fin di bene, della religione ha prodotto il tentativo scientifico,
infelice e destinato al fallimento, di voler dimostrare con i mezzi della filosofia naturale la
verità di fede, di cui può dar ragione solo la rivelazione e la scrittura canonica. Difatti
l'unica sopravvivenza dopo la morte consiste nel ricordo dei vivi:
Le fortune e le sfortune dei discendenti non giovano né nuocciono ai
morti... ma solo alla stima che si ha di loro: i morti hanno, infatti, quella stessa esistenza
che Omero ha nelle nostre menti.
(De immortalitate animae, 14)
Il naturalismo e l'immanentismo pomponazziani, nelle analisi sulla struttura e sul
funzionamento dell'universo, per quanto portino all'affermazione di una realtà
unitariamente articolata, regolata da ritmi e leggi immodificabili, sono ben lontani dal
condurre ad una concezione scientifica della realtà nel senso moderno della parola. Nel De
incantationibus, la natura, infatti, non è considerata come un meccanismo regolato da una
causalità immanente, sperimentabile e matematicamente calcolabile, ma è ancora intesa
come una specie di animale vivente, in cui valgono le leggi simpatetiche, le forze astrali, le
"virtù" di cui sono portatori alcuni uomini. Ma quantunque lo sforzo naturalistico non
approdi alle conclusioni che saranno poi della scienza moderna, bisogna riconoscere a
Pomponazzi il merito di aver rivendicato con forza una concezione dell'ordine naturale da
cui siano bandite ogni forma di intervento miracoloso ed ogni spiegazione dei fenomeni in
termini magici. Tutti gli eventi, anche, piú rari ed inconsueti, debbono essere spiegati
attraverso un rigido meccanismo il cui punto di partenza è Dio e i cui strumenti necessari,
attraverso cui Dio stesso necessariamente opera, sono gli astri
In questo universo unitario, in cui tutto avviene per necessità, niente è male, ma tutto
concorre a realizzare la compiutezza del reale. Anche gli eventi che a noi appaiono
negativi e riprovevoli rispondono ad una esigenza della realtà e sono del tutto naturali,
come "il fatto che il lupo divori la pecora e che il serpente uccida gli altri animali".
Nel De fato, Pomponazzi tenta di accordare con questa visione deterministica e
necessitante della natura, scaturiente dalla provvidenza divina, la libertà dell'uomo. Il
futuro non ancora realizzato è conosciuto da Dio solo in quanto contingente, solo come
evento probabile che l'uomo potrà realizzare.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'etica, il piacere e la libera ricerca
Il ritorno all'antico da parte degli umanisti si qualifica soprattutto come ritorno al
platonismo, letto, però, attraverso la mediazione plotiniana. A molti la ripresa degli studi
platonici sembrò un modo per opporsi al medioevo che aveva conosciuto poco e male il
filosofo ateniese. La diffusione della conoscenza del greco favorì non poco la riscoperta di
Platone e del neoplatonismo, come favorì anche il lavoro di recupero della genuina
fisionomia dell'opera aristotelica, ritenuta, e non a torto, fortemente compromessa dalle
traduzioni correnti nei secoli precedenti. Ma se platonismo ed aristotelismo sono le due
correnti filosofiche cui principalmente si riferiscono i dotti umanisti, esse non sono le sole
ad entusiasmare e ad essere imitate. Nella riscoperta del mondo antico una particolare
attenzione attirarono anche due scuole filosofiche tra le più importanti dell'età ellenistica:
l'epicureismo e lo stoicismo.
Questi due ultimi indirizzi, anzi, sono i primi a far presa sulla nuova cultura. La prima
generazione degli umanisti, infatti, nella sua ansia innovativa cercava di prendere le
distanze dal Medioevo e dai suoi simboli culturali con decisa determinazione. Platone ed
Aristotele, per quanto fortemente sfigurati dal tentativo di assimilazione che patristica e
scolastica avevano operato, rimanevano ancora i filosofi antichi più letti nel Medioevo. Ma
la preferenza dei primi umanisti per stoicismo ed epicureismo non può essere giustificata
soltanto come reazione al platonismo e all'aristotelismo medioevale. Essa trova, invece, la
sua giustificazione nella forte coloritura etica dei due indirizzi filosofici. L'entusiasmo per la
scoperta dell'uomo, del valore delle regole morali rispetto alle leggi fisiche o al sapere
metafisico, porta quasi spontaneamente gli umanisti della prima generazione ad esaltare
Cicerone e Quintiliano più di Platone ed Aristotele. E' proprio sui temi della "virtù" e della
"prudenza" che maggiormente esercitano il loro influsso l'etica stoica e quella epicurea.
Motivi stoici esaltanti la forza d'animo, il controllo delle passioni, l'autarchia del saggio e
l'impegno attivo dell'uomo in una cornice di rassegnato pessimismo circolano, ad esempio,
nell'opera di Leonardo Bruni, di Coluccio Salutati, di Poggio Bracciolini e di Leon Battista
Alberti. Motivi che, ovviamente, non vivono ed agiscono nella loro purezza, ma filtrati
attraverso una concezione cristiana della vita.
Contro il rigorismo ed il fatalismo stoico, d'altra parte, si levano le critiche dei seguaci
dell'indirizzo epicureo. Lo stoicismo, con la mortificazione delle passioni e del piacere, ha
spento la pienezza vitale dell'uomo, riducendolo ad "una sola dimensione", quella del
dovere, ed ha accreditato un'immagine intellettualistica, e perciò poco realistica, dell'etica.
L'uomo accanto al dovere sente fortemente come spinta all'azione lo stimolo alla
soddisfazione del piacere, inteso non come abbandono al più volgare sensualismo, ma
come realizzazione dell'antico ideale dell'eudaimonia, come realizzazione completa delle
sue possibilità, come serenità derivante dall'affrancamento dalle paure e dalle
superstizioni. Contribuirono maggiormente alla rinascita dell'epicureismo nel Rinascimento
FRANCESCO FILELFO (1398 1481) e COSMA RAIMONDI († 1435). Nel De morali disciplina
di Filelfo l'epicureismo si presenta come un'intelaiatura storico-razionale intesa a
giustificare il sentimento religioso dell'autore. Sul paganesimo filologico del Filelfo si
innesta, infatti, la sua fede cristiana, sicché cristianesimo ed epicureismo si fondono, e
l'esaltazione del piacere si spiritualizza fino al punto che l'autore discetta sul gaudio
celeste che l'uomo, reintegrato nella sua carne, proverà dopo la resurrezione. Accenti più
schiettamente epicurei sono presenti nell'Epistola ad Ambrogio Pignosi del cremonese
Cosma Raimondi. Il Raimondi è convinto che il fine di ogni attività umana risieda nel
piacere. L'uomo, pur essendo costituito di anima e di corpo, deve, finché dura la sua vita
terrena, seguire gli impulsi naturali, deve perseguire il summum bonum che la natura gli
ha indicato e che consiste nel piacere dei sensi. Tutte le tensioni morali dell'uomo, virtù ed
onore compresi, hanno valore strumentale rispetto al vero fine che l'uomo deve
perseguire, la felicità.
Ma chi diede autorevolezza di dottrina filosofica alla rinascita dell'epicureismo, fu il romano
Lorenzo Valla. Valla, nato a Roma nel 1407 ebbe, fra i tanti, due maestri di eccezione, il
celebrato grecista Giovanni Aurispa (1376 1459) e l'umanista Leonardo Bruni che gli
ispirarono l'amore per la classicità e la passione per la filosofia. Frequentò lo stuolo di
umanisti che si radunava intorno alla cancelleria pontificia ed appena ventenne dette
prova di autonomia di pensiero e di indipendenza da ogni moda culturale scrivendo un
opuscolo, De Comparatione Ciceronis Quintilianique, in cui, contro l'imperante
ciceronianesimo consistente nella celebrazione esagerata dell'oratore romano, proponeva
Quintiliano come maestro insuperabile di oratoria. Lasciata Roma si reca a Piacenza e poi
a Pavia, dove ottiene una cattedra di retorica; in questa città iniziò gli studi di filologia e
scrisse il De Voluptate. Venuto a diverbio con boriosi giuristi a proposito di un'opera di
Bartolo di Sassoferrato, sulla quale con la solita libertà di giudizio aveva espresso un
parere negativo, dovette lasciare Pavia. Dal 1434 al 1436 fu a Milano, poi a Firenze ed
infine si stabilì a Napoli alla corte di Alfonso d'Aragona. In questa città scrisse il De libero
arbitrio, le Dialecticarum Disputationum libri, il celeberrimo opuscolo De falso credita et
ementita Constantini donatione declamatio in appoggio al re di Napoli in quel momento in
urto col pontefice, e portò a termine le Elegantiae latinae linguae, iniziate a Pavia. Come
storico di corte scrisse una storia di Ferdinando d'Aragona. Nel 1448 si trasferisce a Roma
dove occupa la cattedra di eloquenza all'università "Sapienza".
Molti opuscoli polemici e dotte e raffinate traduzioni dal greco testimoniano l'attività di
questo periodo. Dalle opere del Valla emerge, come motivo costante, ispiratore di tutte le
sue posizioni, il fastidio per l'astratto intellettualismo e per le artificiali costruzioni mentali
e un forte richiamo alla semplicità e razionalità della natura. Di qui le vivaci polemiche
contro gli stoici e la loro etica intellettualistica, esaltante la virtù come valore
paradigmatico astratto, le insofferenze contro la cavillosità e la pedanteria dell'apparato
logico peripatetico e scolastico, e la battaglia contro i pregiudizi, le falsificazioni storiche,
la boria inconcludente dei falsi sapienti. Nel dialogo De Voluptate, ripubblicato in seguito
con il titolo De vero falsoque bono, egli pone a confronto l'etica stoica e quella epicurea, e
difende con argomenti brillanti e spregiudicati la seconda contro la prima. Agli stoici che
imputano "a difetto di natura " l'inclinazione al vizio da parte degli uomini, Valla risponde
esaltando con toni lirici la razionalità profonda della natura:
Tutto ciò che la natura plasmò e formò non può non essere sacro e lodevole, come questo
cielo che si stende sopra di noi, alternato di luci diurne e notturne, e disposto con tanta
razionalità, bellezza ed utilità. E' superfluo parlare dei mari, delle terre, dei monti, delle
pianure, dei fiumi, dei laghi, dei fonti, delle nuvole e delle piogge; superfluo ancora parlare
degli armenti, degli animali domestici, dei pesci, degli uccelli, degli alberi, delle messi. Non
si troverà nessuna cosa che non sia perfetta, compiuta e fornita del più grande motivo
della sua esistenza, sia per bellezza che per utilità. E di ciò può far testimonianza da sola
la struttura del nostro corpo.
(De Voluptate, I, 10)
Contro la difesa dell'onestà, intesa come "un bene la cui consistenza è fatta di virtù, un
bene desiderabile esclusivamente per sé", Valla esalta il piacere, la "voluptas" intesa come
"una lieta commozione nell'anima, una soave giocondità del corpo".
A dimostrare che solo il piacere, e non l'onestà, è secondo natura, basta osservare che il
compito fondamentale di ogni essere vivente è di conservarsi in vita:
Ora nulla di più conserva la vita quanto il piacere; senza il gusto, la vista, l'udito, il tatto,
l'odorato, non possiamo vivere, ma senza l'onestà sì. Così se qualcuno osa violare in sé
quello che la natura prescrive, lo farà contro la propria utilità; perché ciascuno deve
operare per il proprio vantaggio.
(De voluptate, I, 36)
Infatti è proprio l'utilità che spinge l'uomo all'azione mentre, invece,
l'onestà non è se non un vocabolo vuoto e futile che non serve a nulla, che non prova
nulla e per il quale non c'è da fare nulla.
(De voluptate, II, 24)
Tutta l'attività umana, le norme del vivere civile, le stesse delizie dello spirito e della vita
contemplativa vanno riferite all'utile e al piacevole: la convivenza civile, le leggi, le
magistrature negli stati, le arti (l'agricoltura, l'architettura, la pittura, la tessitura, la
tintura, ecc.), la letteratura, la medicina furono inventate per procurare piacere ed utilità
all'uomo.
Né è giustificata la comune distinzione dei piaceri in piaceri dell'anima e piaceri del corpo,
perché corpo ed anima non sono realtà distinte o addirittura opposte:
Chi dubita che i piaceri del corpo si generino con l'aiuto dell'anima e i piaceri dell'anima
con la collaborazione del corpo? Non è quasi corporeo ciò che pensiamo, ossia in relazione
a ciò che vediamo, sentiamo, percepiamo con qualche senso? (De voluptate, II, 36)
Il fondamento dell'etica, in conclusione, va cercato esclusivamente in rapporto alla natura.
Anche i più alti valori dello spirito hanno senso e sollecitano l'uomo all'azione in quanto
rispondono allo stimolo naturale dell'affermazione e della conservazione della vitalità e
contribuiscono a rendere la vita più piacevole e godibile. Nella parte finale del dialogo,
Valla cerca di conciliare epicureismo e religione cristiana mostrando come, dopo la morte,
c'è un mutamento, ma non la cessazione del piacere. I piaceri celesti, infatti, sono la più
alta manifestazione della voluptas.
Se il De Voluptate rappresenta una polemica esplicita contro i primi quattro libri del De
Consolatione Philosophiae di Boezio, il De libero arbitrio è una polemica contro il quinto
libro della stessa opera. L'esagerato intellettualismo e l'eccessiva fiducia nell'uomo -
sostiene Valla - avevano fatto correre a Boezio il rischio di negare la Provvidenza divina.
Lo sforzo del Valla, invece, è teso a salvaguardare contemporaneamente la libertà umana,
e con essa la responsabilità, e la prescienza divina. Ma i pregevoli sforzi di Valla intesi ad
armonizzare i due termini del problema non gli consentono di conseguire apprezzabili
risultati. Egli è costretto a ripiegare sulla soluzione già offerta dalla scolastica: la
prescienza divina non è causa necessitante dell'accadere degli eventi storici, Dio sa quello
che noi faremo non perché lo determina, ma perché lo prevede. In tal modo la libertà
umana di fronte alla prescienza divina è rivendicata e ribadita, ma non giustificata e
chiarita.
Con vigore maggiore, Valla nei tre libri sulla dialettica riafferma la libertà umana nel
campo della ricerca filosofica. Nessuno può credere di possedere tutto il vasto ed
inesauribile campo del sapere e, pertanto, nessuno può definirsi sapiente (sophós) bensì
soltanto "amante della sapienza" (filo-sophós).
Per questo appunto tanto meno si può tollerare i moderni peripatetici che negano ai
sostenitori di ogni setta il diritto di dissentire da Aristotele, quasi egli non fosse filosofo,
ma sapiente, e quasi che nessuno, prima d'ora, l'abbia mai discusso.
(Dialecticae disputationes, G.A.F. XI, p. 107)
La ricerca filosofica deve essere, pertanto, libera da ogni soggezione a presunte autorità,
deve procedere su strade diverse e sempre nuove. Il fastidio per l'ossequio acritico che gli
aristotelici del suo tempo riservavano al loro maestro dettò al Valla invettive violente
contro lo stesso Aristotele. Il filosofo greco, sebbene abbia composto più scritti degli altri,
non può assolutamente pretendere di aver esaurito il campo del sapere fino al punto che
gli altri non possono, dire più nulla e debbono adorarlo come un dio . Ma soprattutto sono
da vituperare i seguaci dello Stagirita che lo ritengono maestro infallibile e depositario di
tutta la verità, mentre non ne conoscono la dottrina se non attraverso cattive traduzioni
latine; ma ciò che è peggio, è che vogliono imporre agli altri questo loro assurdo
atteggiamento:
Mi vergogno addirittura a riferire che taluni usano indurre i loro discepoli a giurare che non
si opporranno mai ad Aristotele. Uomini superstiziosi e stolti e ingiusti verso se stessi,
perché si tolgono la facoltà di cercare il vero. Ma se possiamo riprenderli giustamente
perché si imposero questa norma, con quale rimprovero noi dobbiamo colpirli quando
pretendono di imporla agli altri? Sicché, sprezzandoli e trascurandoli, ove vi siano cose che
si possono dir meglio di quanto non abbia fatto Aristotele, cercherò di dirle meglio
umilmente, e non per colpire l'uomo... ma per onorare la verità.
(Dialecticae disputationes, G.A.F. XI, p. 109)
La fiducia nella libera ricerca e nel valore della filologia sostiene non soltanto la polemica
contro dottrine e pensatori lontani nel tempo, ma spinge Valla ad affrontare anche
tematiche scottanti per l'implicita carica politica ad esse connessa. Valla, infatti, sulla scia
di Marsilio da Padova e di altri autori, non esita a dichiarare false le Decretali, redatte
probabilmente verso la fine dell'ottavo secolo, con le quali si giustificava la cosiddetta
donazione di Costantino. Si voleva, infatti, che l'imperatore, guarito dalla lebbra da papa
Silvestro, avesse donato alla chiesa la parte occidentale dell'impero. Con osservazioni
filologicamente acute e penetranti, Valla mette in luce una serie di incongruenze presenti
nel documento, infirmandone completamente la presunta validità storica.
Un'ultima posizione degna di nota: nel De professione religiosorum, anticipando soluzioni
fornite poi dalla Riforma, Valla sostiene che l'uomo non ha bisogno della mediazione della
chiesa per stabilire il rapporto con Dio, che anzi "l'uomo libero non obbedisce che a Dio ".
La vita monacale, inoltre, risponde per molti più ad una esigenza di comodità che non ad
una vocazione all'altruismo. L'ascetismo, infatti, allontana dalla vita sociale ed impedisce
di operare nel mondo a vantaggio dell'umanità.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'universo, la mente e la matematica
A slargare l'orizzonte culturale del periodo storico di cui stiamo percorrendo le tappe
principali, contribuisce, e non poco, un pensatore, tedesco di nascita, ma italiano di
formazione: Nicola Cusano. Con la speculazione del Cusano, la cultura filosofica
rinascimentale si arricchisce di tematiche che, nel mentre riecheggiano motivi tradizionali,
quali la metafisica neoplatonica ed il misticismo eckhartiano, preannunciano motivi e
spunti i cui sviluppi caratterizzeranno molti aspetti del nuovo pensiero scientifico. Nella
ricca e complessa opera di Cusano, infatti, risultano fusi e resistenti a qualsiasi tentativo di
distinzione precisa e netta, intuizioni che con linguaggio moderno incaselliamo nella
categoria scienza e convinzioni che rappresentano il "proprio" della teologia.
Nicola Krebs nacque nel villaggio di Cues (oggi assorbito nella cittadina di Benkastel) da
cui prese il nome, nel 1401. La sua prima formazione, presso i Fratelli della vita comune,
fu ispirata ad una libera lettura dei classici e ad uno spirito religioso più pratico che
dottrinale. Nel 1416 si iscrisse all'università di Heidelberg e l'anno successivo a Padova,
dove studiò diritto. In quest'ultima università, a contatto con scienziati e medici insigni,
tra i quali Paolo Toscanelli, maturarono i suoi interessi matematici e naturalistici.
Nel 1425 studiò teologia a Colonia. Ben presto si fece fama di giurista e di umanista. Nel
1432 partecipò attivamente al concilio di Basilea, come difensore di Ulrico di
Manderscheid, che aveva ottenuto in modo poco chiaro il vescovato di Treviri. In questa
occasione scrisse il De concordantia catholica in cui sostenne le ragioni del concilio contro
le tesi curialiste rivendicanti il primato del pontefice. Convertito alla causa papale, fu
inviato a Costantinopoli con una delegazione per invitare l'imperatore e il patriarca di
Bisanzio al Concilio di Ferrara-Firenze con cui si voleva tentare il ravvicinamento della
chiesa ortodossa con quella romana. In quella occasione non poca influenza esercitarono
su di lui dotti come Basilio Bessarione e Giorgio di Trebisonda. Subito dopo il ritorno da
Costantinopoli compose il De docta ignorantia (1440) e poco dopo il De Conjecturis. Nel
1448 ebbe la porpora cardinalizia e due anni dopo a Roma, dove compose L'Idiota, fu
nominato vescovo di Bressanone.
In questo periodo scrisse opere di un certo rilievo come il De pace fidei, il De Beryllo e il
De visione dei. Tornato a Roma come vicario generale dello Stato Pontificio compose il De
possest, De ludo globi ed altre opere. Morì a Todi nel 1464, mentre era in viaggio per
raggiungere il Papa Pio II ad Ancona.
Di particolare rilievo si presenta il motivo animatore della prima importante opera del
Cusano: De concordantia catholica. Riprendendo tematiche dell'occamismo e
dell'avverroismo latino, Cusano assume atteggiamenti liberalistici e democraticistici.
Contro le tesi curialiste rivendicanti l'assoluta supremazia del Papa sul Concilio, il giovane
canonista, nel ribadire il fondamento pluralistico su cui è sorta la Chiesa, sostiene la tesi
secondo cui la vita della Chiesa si alimenta del contributo di tutti i corpi minori. Il Concilio
come unità armonica degli organismi intermedi, rappresentativi del popolo credente, viene
riconosciuto come la massima autorità in materia di fede:
Perciò il corpo sacerdotale, benché caduco, mortale e soggetto ad errore nei suoi membri,
non lo è tuttavia come totalità, poiché la parte maggiore rimane sempre nella fede e nella
legge di Cristo... E il giudizio sulla fede non è sempre individuabile nel consenso esclusivo
del romano Pontefice, poiché potrebbe egli essere eretico... al contrario in quel giudizio
della fede in cui consiste la sua autorità somma, egli soggiace al Concilio della chiesa
universale.
(De concordantia, I, 8)
I Concili, a loro volta, non debbono essere guidati alle decisioni da uno o da pochi dei
partecipanti, ma poiché per natura gli uomini sono liberi
in esso (Concilio) deve esserci tale libertà che ciascuno abbia libera facoltà di parola.
(De concordantia, II,3)
Nel rapporti con la società civile e con l'impero, la Chiesa non deve rivendicare privilegi o
poteri temporali, anzi deve concedere all'Imperatore la funzione di garante del pacifico e
regolare sviluppo della sua stessa vita interna. Ogni imperatore, sostiene Cusano, deve
puntare alla pace:
Ma principio della pace è l'arte di dirigere i sudditi verso il loro eterno fine, e i mezzi per
raggiungere questo sono le sacre istituzioni delle religioni. Perciò la prima cura
dell'imperatore deve essere intesa a che queste siano osservate.
(De concordantia, III, 7)
Prese di posizioni così decise ed energiche non portarono, però il Cusano sulle posizioni dei
più intransigenti sostenitori delle tesi anti-papali, anzi nel momenti più impegnativi,
quando il Papato tenterà la riconciliazione con la Chiesa greca lo vediamo attivo mediatore
al servizio del papa.
I motivi ispiratori di tutta l'opera cusaniana sono decisamente di natura teologica.
Ciononostante, essi si nutrono di un pensiero che ha una forte carica innovativa sia sul
piano metodologico-conoscitivo che su quello cosmologico. Nella sua opera più famosa, De
docta ignorantia, Cusano evidenzia come la mente umana nel tentativo di conoscere ciò
che è ignoto debba partire dal noto. Stabilendo così una continuità di termini intermedi,
fra di essi omogenei, si può rapportare al già conosciuto ciò che si vuole conoscere. Di
modo che quanto meno è lunga la serie dei termini, tanto più facile ed immediata si
presenta la comprensione. Questa serie di rapporti proporzionali tra le cose non può
essere espressa se non con numeri:
Tutti quelli, infatti, che compiono qualche ricerca, giudicano dell'incerto per mezzo di
qualche proporzione che stabiliscono di esso con un termine certo che possano
presupporre ... Ma la proporzione, dicendo contemporaneamente convenienza e diversità
rispetto ad una qualche e medesima realtà, non può essere espressa fuori del numero...
Forse perciò Pitagora giudicava che tutte le cose si costituiscono e s'intendono in forza dei
numeri.
(De docta ignorantia, I,1)
Ma perché si possa stabilire un rapporto di analogia tra un oggetto ed un altro c'è bisogno
che questi siano omogenei, cioè riconducibili ad una stessa natura. Di conseguenza
quando la mente umana tenta di capire l'infinito, non potendolo rapportare a nessuno
degli oggetti a lei noto, in quanto tutti di natura finiti, deve riconoscere la sua impossibilità
a conoscerlo attraverso la via razionale:
Il massimo, del quale nulla può essere più grande, essendo in modosemplice ed assoluto
più grande di quello che da noi si possa capire, poiché è verità infinita, noi non lo cogliamo
altrimenti che in modo incomprensibile.
(De docta ignorantia, I, 4)
Altrettanto dicasi del minimo, che, essendo pur esso assoluto, non rapportabile cioè a
nessuna grandezza nota, coincide col massimo. Ovviamente è inutile cercare di spiegare
razionalmente questa coincidenza: essa è al di fuori di ogni discorso razionale. L'unica
possibilità per tentare l'apprensione di Dio come coincidenza di infinitamente grande
(massimo) ed infinitamente piccolo (minimo) è offerta all'uomo dalla matematica. Solo gli
enti matematici per la loro immaterialità, e in quanto eliminano ciò che è instabile e
fluttuante dall'esperienza sensibile, si presentano come strumenti utili per la comprensione
del reale e di molte verità teologiche.
Un esempio per capire come Dio possa essere l'essenza di tutte le cose ci è fornito dal
concetto della linea infinita. Come la linea infinita infatti, è della stessa natura di tutte le
altre linee, ma tutte le comprende e le esaurisce in sé, così Dio è l'essenza infinita che
comprende ed esaurisce in sé l'essenza di tutte le cose. A questo Dio, nel quale tutti gli
opposti coincidono (coincidentia oppositorum) e le parti si armonizzano in unità, non
conviene alcuna definizione. Nel linguaggio umano, infatti ad ogni definizione se ne
contrappone un'altra, ma in Dio tutte le definizioni opposte si unificano. A Dio, infatti:
conviene... quella unità cui non si oppone né alterità né pluralità né molteplicità.
(De docta ignorantia, I, 23)
Unità che l'uomo intuisce solo quando valica anche le punte più alte del suo conoscere
razionale, quando cioè s'accorge che ogni suo sapere si presenta inadeguato alla
comprensione di Dio. Solo in questa "dottissima ignoranza" l'uomo afferra l'immensità di
Dio e la coincidenza in lui di tutti gli opposti. La teologia negativa della tradizione
neoplatonica, secondo la quale di Dio si può dire ciò che non è piuttosto che ciò che è,
offre così la soluzione al problema della conoscibilità e della predicabilità degli attributi di
Dio. Ma se sul piano conoscitivo c'è una distanza incolmabile tra mente umana e Dio, sul
piano dell'essere, invece, tra Dio e Universo c'è uno stretto rapporto. Cusano rifiuta,
infatti, la processione dei gradi degli esseri intermedi tra Dio e Mondo: Dio come unità
infinita possiede in sé contratto tutto quanto l'universo:
L'unità infinita è complicazione di tutte le realtà... E come nel numero, che esplica l'unità,
non si ritrova che l'unità, così in tutte le cose che sono non si trova se non il massimo.
(De docta ignorantia, II, 3)
Il mondo allora non è altro che l'esplicazione dell'essenza che, "complicata", si trova in
Dio. Tra Dio e mondo non c'è un taglio netto, una separazione assoluta perché l'universo
esplica nella molteplicità lo stesso Dio:
E poiché l'unità assoluta è la prima, e l'unità dell'universo procede da essa, l'unità
dell'universo sarà la seconda unità che consiste in una certa pluralità.
(De docta ignorantia, II, 6)
La vera realtà di questo universo, però, è costituita da sostanze individuali. Il motivo
unitario esaltante la coesione della molteplicità delle singole realtà nell'unità dell'universo,
è strettamente connesso alla rivalutazione delle realtà individuali:
In atto sono gli individui, in cui sono in modo contratto tutte le cose, e da questa
considerazione si vede come gli universali non sono in atto se non in modo contratto (negli
individui).
(De docta ignorantia, II, 6)
Da questa tesi Cusano ricava delle conclusioni che, per il tempo in cui furono elaborate,
hanno una carica fortemente innovativa. La prima grande affermazione, che è poi l'idea
dominante della cosmologia cusaniana, è l'infinità dell'universo:
L'universo… è illimitato, poiché non può esservi in atto qualcosa di più grande che lo limiti,
dunque è un universo privativo.
(De docta ignorantia, III, 1)
Di questo universo non è possibile individuare né il centro, né la circonferenza, in quanto il
centro e la circonferenza si caratterizzerebbero come l'infinitamente piccolo, il minimo e
l'infinitamente grande, il massimo, i quali, in quanto entrambi infiniti, coinciderebbero.
Solo Dio, come "coincidentia oppositorum", è centro e circonferenza dell'universo, ed è
anche principio, mezzo e fine di tutto.
Da questa prima affermazione rivoluzionaria scaturiscono conseguenze che sono in netto
contrasto con la scienza tradizionale:
La terra, che non può essere il centro dell'universo, non può essere completamente priva
di movimento.
(De docta ignorantia, II,11)
La credenza nella centralità della terra e nella sua immobilità, spiega Cusano, si è venuta
formando sulla scorta di un meccanismo psicologico che non tiene conto del fatto che
spazio e movimento sono concetti relativi all'osservatore:
Chiunque, qualunque sia il luogo in cui egli si trovi, crederà sempre di essere al centro.
(De docta ignorantia, II, 11)
Per spiegare la relatività del movimento, Cusano ricorre ad un'immagine che sarà ripresa
da uno scienziato contemporaneo, Albert Einstein:
Per questo a chiunque, si trovi egli sulla terra, o nel sole, o in qualsiasi altra stella,
sembrerà sempre di essere egli come in un centro quasi immobile, mentre tutto il resto si
muove: egli così si stabilirà sempre poli diversi, questo se esiste sulla terra, quest'altro se
sul sole ed altri se sulla luna, su Marte o altrove.
(De docta ignorantia, II, 12)
Questo universo infinito possiede una struttura di tipo matematico e presenta tra le parti
un ordine proporzionale, ordine che impresso da Dio all'atto della creazione, è
perfettamente conoscibile dall'uomo, la cui mente possiede la stessa struttura
matematica:
Nella creazione del mondo Dio si servì dell'aritmetica, della geometria, della musica e
dell'astronomia, arti delle quali anche noi ci serviamo quando indaghiamo le reciproche
proporzioni delle cose... Gli elementi furono disposti in ammirevole ordine da Dio, che creò
tutto secondo numero, peso e misura.
(De docta ignorantia, II, 13)
Con questa nuova visione del cosmo Cusano ha dato un forte contributo all'opera di
distruzione dell'immagine dell'universo chiuso fornita dalla cosmologia aristotelica-
tolemaica.
Tra sole, terra ed altre stelle, Cusano non segna più alcuna differenza. Come nessuna
differenza è riscontrabile tra le varie parti dell'universo: non esistono più luoghi naturali
verso cui si dirigono i diversi elementi costituenti il cosmo. La visione gerarchica
dell'universo insomma è completamente infranta, ad essa viene sostituendosi un nuovo
universo illimitato; al punto di vista cosmologico si sostituisce gradualmente il punto dì
vista fisico e si avvia il processo che porterà ad una nuova ontologia e alla
geometrizzazione dello spazio.
Nel De conjecturis Cusano analizza le possibilità che la mente umana ha di conoscere, e
riprende gli accenni già fatti, nel De docta ignorantia, alla struttura matematica della
mente:
Siccome la mente umana, nobile similitudine di Dio, partecipa per quanto può della
fecondità della natura creatrice, essa trae da se stessa, come dall'immagine della forma
onnipotente, degli enti di ragione al fine di raffigurarsi quelle reali.
(De Conjecturis, I, 3)
L'uomo quindi, grazie alla similitudine della sua mente con Dio, può, attraverso congetture
matematiche, rapportarsi al mondo e conoscerlo. L'atto attraverso cui la mente dispiega le
sue capacità conoscitive è la mensura, intesa come capacità di paragonare. ponderare e
misurare. La tensione conoscitiva della mente, ovviamente, sarà infinita in quanto infinito
è l'oggetto da conoscere.
Ne consegue che ogni sapere è sempre limitato e provvisorio, è un sapere storico,
passibile di sempre nuovi superamenti. Ma la limitatezza e la provvisorietà non
comportano incongruenza ed arbitrarietà. Se infatti la conoscenza discorsiva, la cosiddetta
logica dianoetica, mostra i suoi limiti relativamente all'infinità di Dio, essa, strutturata
come conoscenza matematica, risulta feconda sul piano della realtà fisica. Il
dispiegamento della ragione avviene attraverso il numero, e attraverso i numeri, come
enti della nostra mente, possiamo attingere la vera struttura della realtà costruita da Dio
con ordine. e proporzione matematici:
Né si può di certo comprendere composizione alcuna fuori del numero: sono infatti
contemporaneamente da essa e la pluralità delle parti, e la loro distinguibilità, e la
proporzione in base alla quale si possono raccogliere insieme. Né sarebbe distinta la
sostanza, distinto l'essere bianco, distinto l'essere nero, e così ogni entità, senza l'alterità,
che è, ed è per il numero.
(De Conjecturis, I, 4)
La logica dell'identità e della distinzione è perfettamente adeguata alla comprensione della
realtà naturale.
Proprio per la capacità di espandere all'infinito il proprio potere conoscitivo, l'uomo ben a
ragione può essere paragonato a Dio:
L'uomo è infatti un dio, ma non assolutamente, in quanto uomo; è perciò come un dio
umano. L'uomo è anche un mondo, ma in quanto uomo non è nella sua contrazione tutte
le cose. E' perciò l'uomo un microcosmo, o un certo mondo umano. La stessa sfera
dell'umanità perciò abbraccia, con la sua potenzialità umana, e Dio e l'universo mondo;
può quindi essere l'uomo un Dio umano e Dio umanamente; può essere un angelo umano,
e una bestia umana, un leone umano, o un orso o qualunque altra cosa.
(De Conjecturis, II, 14)
I temi più specifici della cultura rinascimentale riguardanti l'uomo sono già chiaramente
elaborati nelle pagine da Cusano dedicate all'argomento.
Nel De Idiota, che in italiano andrebbe tradotto " profano illetterato", il Cusano riprende la
tematica del De Conjecturis per condannare la sapienza frutto dell'erudizione letteraria o
retorica, basata sull'autorità. La sapienza vera è quella che si acquista con la lettura del
mondo della natura in chiave matematica.
Un ultimo scritto cusaniano merita di essere qui ricordato, il De pace fidei. La caduta di
Costantinopoli nelle mani dei Turchi (1453) aveva messo a diretto contatto il mondo
cristiano e quello islamico. Cusano, convinto assertore della soluzione pacifica e negoziata
del conflitto religioso, sotto la forma metaforica di una specie di congresso tenuto in cielo
davanti a Dio con la partecipazione dei rappresentanti delle diverse fedi religiose,
suggerisce la via della pacificazione e della concordia.
Si tratta soltanto di cercare un accordo sui comandamenti divini più semplici ed
elementari, rintracciabili nello stesso lume di ragione, e riducibili tutti al semplice
comandamento dell'amore. Sulla base di tale intesa, tutti i riti debbono essere tollerati.
Questo invito cusaniano diventa l'elemento basilare della lunga battaglia che filosofi e
scienziati condurranno contro l'intolleranza e le persecuzioni religiose.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Filosofia antica, cristianesimo e magia
La figura dell'intellettuale che svolge un ruolo culturale e politico all'interno della società in
cui opera ha conservato con Cusano ancora contorni abbastanza precisi. Ma ormai sono
lontanissimi i tempi della prima generazione degli umanisti, quando politica e cultura
erano unite da stretti legami ed i cancellieri della repubblica fiorentina erano scelti fra i
letterati-filosofi più celebrati del tempo. Con Cosimo, prima, e con Lorenzo, dopo, l'ascesa
politica dei Medici aveva toccato punte elevatissime; essi, seppure per un certo periodo da
privati cittadini (agivano infatti attraverso un consiglio formato da fedelissimi), gestivano
in prima persona gli interessi di Firenze che, per non poca parte, coincidevano con i propri.
Questo maggiore impegno politico non fece venir meno nei Medici l'interesse per la cultura
ed il gusto per il mecenatismo, anzi, forse, l'accentuò. Solo che, ormai, il rapporto poltica-
cultura era cambiato. La cultura, infatti, veniva isolata come in un limbo, tenuta lontana
dagli affari politici, avvolta in un atmosfera rarefatta e spiritualizzata. La seconda
generazione degli umanisti fiorentini risente fortemente della trasformazione politica
avvenuta nella città. Si attenua, fino a spegnersi del tutto, subito dopo la congiura dei
Pazzi (1478), l'entusiasmo attivistico che aveva coinvolto ricchi mercanti e folte schiere di
intellettuali in un "gioco" di libera concorrenza, di agone economico, politico e culturale.
L'umanesimo civile, esaltatore dell'uomo attivo, concreto operatore di storia, si consuma
lentamente e cede il posto ad un umanesimo, più raffinato ed elegante, se si vuole, ma
più astratto, che nutre sì interesse per l'uomo, ma per l'uomo ideale, per l'essenza
universale dell'uomo.
Le cause politiche di questo mutato atteggiamento della cultura fiorentina nella seconda
metà del XV secolo sono indicate con lucida intelligenza da un colto letterato appartenente
ad una delle grandi famiglie messe fuori gioco dall'irrobustirsi del potere dei Medici:
ALAMANNO RINUCCINI. Nel Dialogus de libertate, dopo aver stigmatizzato come dittatura
l'egemonia di Lorenzo sulla città. e dopo aver rimarcato il fatto che
tanti uomini di ingegno così elevati ed insigni per età e saggezza vivono oppressi sotto il
giogo della servitù,
(Dialogus de libertate, I, cit da Il Quattrocento, cit, p. 767)
il Rinuccini mostra come, anche per chi non aveva una naturale inclinazione, il rifugio nella
vita contemplativa si è rivelato una necessità. Non potendo realizzare
la felicità che un uomo, partecipe della vita civile, può conseguire in questa valle di
lacrime... ho ritenuto di dover scegliere una via di mezzo, che mi facesse migliore di
giorno in giorno, con l'imparare nuovi concetti... per questo più volte mi aggiro in questo
luogo solitario, parlando spesso con me e con quei libri che ora avete veduto e godendo
piacevolmente di quella libertà che così intensamente sostengo.
(Dialogus de libertate, II, cit, p. 779)
La cultura è costretta dallo strapotere dei Medici a ripiegare su se stessa, a trasformarsi in
cultura teoretica, le cui indagini poco o nulla influiscono sulla vita concreta degli uomini
comuni.
Un interesse per il platonismo, già vivo nella cultura italiana a partire dal Petrarca, era
stato ridestato da Giorgio Gemisto Pletone con l'opuscolo in greco Sulla differenza tra la
filosofia platonica e l'aristotelica (1439). Ne era seguita una polemica da parte degli
esaltatori dello Stagirita che presero posizione con la Comparatio Platonis et Aristotelis
(1455) di Giorgio Trapezunzio. Polemica che però sembrò volgere a favore dei platonisti
soprattutto con l'opera di Basilio Bessarione Contra calumniatorem Platonis (1457-58).
L'aristotelismo, battuto a Firenze, continuava ad avere una vita rigogliosa nelle università
e principalmente in quella di Padova. Ma chi veramente fece del platonismo un vero e
proprio culto fu Marsilio Ficino.
Nato a Figline in Valdarno nel 1433, Marsilio fu avviato dal padre agli studi di medicina,
ma rivelò subito un'inclinazione per gli studi filosofici e particolarmente un forte interesse
per Platone. Affinatosi nello studio del greco, tradusse, ancora giovane, gli Inni attribuiti
ad Orfeo e ad Omero, gli Inni di Prodo, la Teogonia di Esiodo. Questo interesse per il
mondo greco divenne assiduo e metodico quando Cosimo regalò (1462) a Ficino la villa di
Careggi corredata di una ricca biblioteca. Qui ben presto si formò un centro di cultura
platonica molto attivo, frequentato da pensatori, artisti e letterati. Frutto dell'impegno di
Marsilio fu la traduzione completa delle opere di Platone (1477), di Plotino (1485), dei
neoplatonici posteriori e quella dei Corpus Henneticum, una raccolta di scritti di carattere
filosofico-religioso ritenuta antichissima ed attribuita ad Ermete Trismegisto, ma compilata
forse tra il primo e il terzo secolo dopo Cristo, ad opera di diversi autori. Tra le opere
originali di Marsilio vanno ricordate la Theologia platonica ed il De cristiana religione.
L'orientamento della speculazione ficiniana è dichiaratamente religioso e risponde alla più
profonda convinzione della inscindibile complementarità di religione e filosofia. Immune da
accenti profetici e da sogni di palingenesi, la religiosità di Marsilio non si pone obiettivi
riformatori, ma punta soltanto a stabilire una saldatura profonda tra speculazione filosofica
e verità rivelata dal Cristianesimo. Ficino elabora ben presto il concetto di prisca theologia,
di una teologia precedente al Cristianesimo, la cui origine nel mondo pagano va fatta
risalire a Zoroastro e al cui punto culminante va individuato nell'opera del "divino" Platone.
Tutti questi antichi teologi avrebbero contribuito alla graduale conquista e rivelazione
dell'unica verità. Le dottrine di questi filosofi religiosi, tra cui Ficino cita anche Ermete
Tnismegisto, Orfeo, Aglaofemo e Pitagora, lungi dall'essere antagoniste alla rivelazione
cristiana, ne rappresentano gli antecedenti teorici e storici:
I primi filosofi... sempre congiunsero la filosofia con la pietà religiosa. Da principio infatti
la filosofia di Zoroastro non era altro se non una pietà e un culto divino affratellati con la
sapienza; ed anche le trattazioni di Mercurio Trismegisto prendono sempre le mosse da
una invocazione e si chiudono con un sacrificio. Anche la filosofia di Orfeo e di Aglaofemo
tutta quanta si occupa delle lodi di Dio; Pitagora dava inizio agli studi filosofici con il canto
mattutino degli inni sacri e Platone non solo nel parlare, ma anche nel pensare insegnava
a prendere le mosse da Dio.
(Teologia platonica, XII, 1)
Ma nella formazione filosofica di Marsilio lasciò traccia profonda, più che l'opera di Platone,
quella di Plotino. Messa completamente da parte la religiosità intrisa di aristotelismo che
aveva trionfato attraverso tutta la scolastica, Marsilio si riallaccia alla speculazione neo-
platonica e ne riconferma i due fondamentali capisaldi: la trascendenza-immanenza di Dio
e la centralità dell'uomo nell'universo. Il Dio ficiniano, infatti, non è solamente in sé,
separato dall'universo, ma è ovunque perché non è in alcun luogo determinato:
Dovunque si trova presente o sì pensa l'essere, che è appunto effetto universale, quivi è
Dio il quale è causa universale... Difficilmente si trova dove sia Dio, poiché non è in
nessun luogo ciò che non viene determinato né da alcun sostrato, né da alcun limite nello
spazio; ma più difficilmente si può trovare dove Dio non sia... Se la luce visibile, che parte
da qualche cosa di luminoso ed è di natura finita, ha il potere di dilatarsi per tutto il
mondo, senza dubbio la luce invisibile che parte da se stessa, che sussiste in se stessa ed
è infinita si deve estendere non solo per tutto il mondo, maanche al di là dei limiti dei
mondo... Per cui Dio, che sussiste in sé, esiste dovunque.
(Teologia platonica, IL 6)
La razionalità divina permea di sé tutta quanta la realtà, anche se non si esaurisce in essa.
Il mondo, dunque, è "Il migliore dei mondi possibili ":
Il mondo è stato creato dal bene stesso quale migliore non avrebbe potuto essere. Quindi
non è soltanto corporeo, ma è anche partecipe della vita e della intelligenza.
(De vita coelitus comparanda, 26, cit. da C. Colombero, Uomo e natura nella filosofia del
Rinascimento, Torino 1976, p. 166)
Ma pur essendo nel mondo, Dio non coincide con esso. La realtà, infatti, si snoda
attraverso gradi diversi, il più alto è Dio, il più basso è la materia, tra i due estremi si
trovano le qualità, l'anima razionale e le creature angeliche. L'anima umana, oltre ad
essere un grado dell'essere, svolge un vero e proprio ruolo di mediazione tra la realtà
superiore immobile ed eterna e la realtà inferiore soggetta al divenire temporale. Essa
è la terza essenza o essenza media, perché è nel mezzo del tutto ed è sempre terza... tra
ciò che è soltanto eterno e ciò che è soltanto temporale vi è l'anima, quasi come legame di
ambedue.
(Teologia platonica, 111, 2)
L'anima incarnata, l'uomo, rappresenta il momento centrale del reale. Partecipando del
corpo e dello spinto, l'uomo riassume in sé il mortale e l'immortale, il temporale e l'eterno,
e può pertanto svolgere il ruolo di unificatore dei vani gradi dell'essere:
Questa terza essenza, posta nel mezzo, è tale da rimanere legata agli enti superiori senza
abbandonare gli inferiori e così in lui ciò che è in alto si unisce con ciò che è in basso.
(Teologia platonica, 111, 2)
In questa unificazione di materia e spirito consiste la funzione copulatrice dell'anima,
l'attività per cui è detta "copula mundi". Marsilio valorizza al massimo l'attività conoscitiva
e volitiva dell'uomo. Grazie ad essa, soprattutto in virtù dell'intelletto e della volontà,
l'anima umana può raggiungere gradi di essere sempre più elevati, può "volare" fino a
Dio.
Questa ascesa l'uomo la realizza attraverso l'amore per la bellezza che Dio ha profuso
nella realtà. L'uomo, seguendo la via inversa, quella che dal terreno lo porta al divino,
cercherà la bellezza prima nei corpi, poi nelle anime e poi gradualmente in realtà sempre
più alte.
La visione dell'universo sostanzialmente unitaria, fuori dallo schema dualistico aristotelico,
porta Ficino a nutrire una grande fiducia nella capacità del "mago" di catturare e utilizzare
gli influssi benefici provenienti da alcuni pianeti e di neutralizzare gli influssi malefici
provenienti da altri. Con una raffinata "magia naturale" Marsilio insegna agli uomini a
liberarsi dalla malinconia. Le piante, i fiori, alcuni oggetti svolgono nella pratica medico-
magica di Marsilio la stessa funzione rasserenatrice e liberatrice che nella psicanalisi
moderna svolge la parola del terapeuta.
Il mago è paragonato all'agricoltore, che con gli innesti diffonde la vita delle piante e ne fa
nascere specie diverse e migliori, al medico, al fisico, al chirurgo, i quali cercano tutti di
favorire lo sviluppo della natura umana:
Lo stesso fa quel filosofo, esperto conoscitore delle cose naturali e degli astri, che
chiamiamo solitamente mago, il quale, con ben determinati incantesimi, congiunge le cose
celesti con le terrene nel modo più opportuno.
(De vita coelitus comparanda, 26, Colombero, cit, p. 235)
In Ficino, il filosofo, il medico ed il mago operano all'interno della stessa visione del
mondo. E' infatti, nell'ambito di una concezione unitaria del cosmo, in cui ogni parte è
direttamente e necessariamente articolata con il resto, che è possibile al medico e al mago
di suggerire rimedi e di operare "prodigi".
Nella stessa temperie culturale opera un altro filosofo neoplatonico: Giovanni Pico della
Mirandola.
Nella sua brevissima esistenza (visse appena 31 anni, essendo nato a Mirandola presso
Mantova nel 1463 e morto a Firenze nel 1494) Pico incarnò tutte le ansie ed i miti della
sua epoca. Fornito di una intelligenza acuta e penetrante, di una passione quasi morbosa
per lo studio, di una memoria prodigiosa, solcò i moltissimi campi dei sapere: poesia,
filosofia, letteratura, musica, architettura, ed in tutti portò la ventata delle sue esuberanti
doti intellettuali. Studiò a Bologna, a Ferrara e a Padova, dove entrò a contatto con gli
averroisti più famosi del tempo. Si recò a Parigi, dove studiò con la solita febbrile alacrità
la filosofia scolastica. Da Parigi tornò con la grande idea di organizzare un'assemblea di
dotti di tutto il mondo per sottoporre a discussione 900 tesi filosofiche da lui preparate..
Nel frattempo studiò l'ebraico, l'arabo, l'aramaico e sì appassionò alla cultura cabalistica.
La poca ortodossia di alcune di queste tesi lo espose all'accusa di eresia. Costretto a
fuggire riparò a Parigi. Tornato in Italia si stabilì a Firenze dove poté con maggiore
serenità dedicarsi ai suoi studi. Oltre alle 900 tesi, tra le sue opere bisogna ricordare:
l'Oratio de dignitate hominis, considerata da molti il manifesto culturale dell'umanesimo,
l'Apologia, il De ente et uno e le Disputationes in astrologiam divinatricem.
In polemica con la tendenza, espressa da una frangia di umanisti, a considerare la cultura
come pura forma letteraria, come pura retorica, Pico prende posizione a favore della
filosofia. Contro un fine umanista, Ermolao Barbaro (1453-1493), che aveva accusato i
dottori della scolastica (S. Tommaso, Giovanni Scoto, S. Alberto Magno) di esser "barbari"
per la poca eleganza dello stile, Pico tesse l'elogio della cultura che privilegia i contenuti,
ed immagina come qualcuno di quel "barbari" avrebbe potuto rispondere a quell'accusa:
Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro, non nelle scuole dei grammatici,
non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti dove
non si tratta né si discute sulla
madre di Andromaca, sui figli di Niobe, e su fatuità del genere, ma sui principi delle cose
umane e divine.
(GARIN, Filosofi, cit., p. 429)
L'idea che anima tutti gli scritti pichiani è quella della concordia fra le diverse religioni e le
diverse filosofie. Nella redazione delle 900 tesi, Pico, infatti, utilizzò la sua vastissima
cultura per tentare di illustrare la conciliabilità di cristianesimo, filosofia antica, cultura
orientale e magia. L'esigenza sincretistica, già presente in Ficino, nell'opera di Pico è più
marcata e possiede orizzonti più ampi. Non solo la filosofia classica e l'ermetismo magico
possono essere rapportati alla religione cristiana, ma anche il misticismo ebraico con le
sue pratiche cabalistiche intese ad invocare il vero nome di Dio attraverso un complicato
sistema di sostituzione di numeri alle lettere dell'alfabeto. Non poche conclusioni delle 900
tesi utilizzano, infatti, la magia e la cabala. Basti un solo esempio: niente, afferma Pico,
certifica l'esistenza di dio quanto la magia e la cabala. Ma la magia cui si riferisce Pico è la
magia naturale ed è della stessa specie di quella ficiniana. Il mago, cioè, in un universo
animato e unitario, utilizza tutte le sue capacità secondo i principi della magia simpatetica
per trasferire sulla terra i benefici influssi celesti.
In Pico l'esaltazione dell'uomo raggiunge toni epici: l'uomo è simile a Dio, soprattutto
nell'anima; è un microcosmo in quanto abbraccia in sé tutte le sostanze di ogni natura e
racchiude realmente la pienezza dell'universo intero. Nell'Oratio de dignitate hominis, Pico
accentua la considerazione "divina" dell'uomo. Libero da ogni soggezione a qualsiasi
determinismo, l'uomo ha una natura indeterminata, è capace di innalzarsi sino a Dio con
l'uso della sua "divina" intelligenza, ma può anche precipitare al rango dei bruti se cede
all'istinto e alla passione: egli stesso infatti è artefice dei proprio destino. Così Pico
immagina che Dio parl all'uomo, all'atto della creazione:
Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna
prerogativa tua, perché quel posto, quell'aspetto, quella prerogativa che tu desidererai,
tutto appunto secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura
determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da
nessuna barriera costretto. secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel
mezzo del mondo, che di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto
né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso, quasi libero e
sovrano artefice, ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai
degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti, tu potrai rigenerarti secondo il tuo volere,
nelle cose superiori che sono divine.
(ivi, p. 477)
L'uomo è ciò che si fa grazie alla sua libera scelta. Egli stesso con la sua volontà
determina la sua esistenza; Dio gli ha concesso un arco molto ampio di possibilità e gli ha
concesso di scegliere liberamente il suo destino.
Per difendere e confermare l'immagine dell'uomo mago, di natura ancipite, capace di
autodeterminare la propria, Pico scrive le Disputationes contra astrologiam divinatricem.
In questa opera la polemica è condotta contro un ben preciso tipo di astrologia, quello che
sulla scorta di una visione deterministica e causalistica dell'universo nega nell'uomo ogni
libertà ed ogni autonomia. In questo quadro filosofico-religioso il compito dell'uomo è la
rigenerazione spirituale. L'uomo rinasce a vera vita e realizza la propria felicità solo nel
ritorno al proprio principio, cioè a Dio. Con accenti fortemente mistici riecheggianti la
religiosità ficiniana e savonaroliana, Pico nel Heptaplus cosí si esprime:
Io definisco così la felicità: il ritorno di ciascuna cosa al proprio principio. Infatti la felicità è
il sommo bene ed il sommo bene è ciò cui tutte le cose tendono, e ciò cui tutte le cose
tendono è il principio di tutto... Quindi il fine ed il principio di tutto sono le stesse cose,
sono cioè Dio.
(Heptaplus, VII, Colombero, cit, p. 183)
Nel De ente et uno Pico opera il tentativo di realizzare la concordanza tra Platone ed
Aristotele. Se il filosofo ateniese ha rappresentato durante il Rinascimento l'ideale della
vita contemplativa e lo Stagirita quello della vita attiva, della vita spesa nella ricerca
scientifica, nella perenne tensione conoscitiva, il tentativo di conciliazione dei due filosofi
risponde al desiderio di armonizzare le due esigenze più profonde di Pico: l'ansia di
conoscere e dominare la natura e, quasi a completamento di questa, l'ansia di raggiungere
Dio.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
Il "vero" Aristotele
La rapida diffusione in molti centri italiani di " Studi " e di " Accademie ", pur segnando il
declino culturale di molte università anche gloriose in un recente passato, non segnò la
decadenza di tutte le università. Un centro universitario che mantenne intatto il suo
rigoglio culturale attraverso tutto il Rinascimento fu quello di Padova. La tradizione
aristotelica, risalente ai secoli precedenti, in questa città si conserva e si espande nei
secoli XV e XVI. Gli aristotelici padovani avevano conosciuto ed accettato Aristotele fin dal
XIII secolo attraverso il commento del filosofo arabo Averroè, e avevano dato vita a quel
filone culturale comunemente etichettato come averroismo latino. Le nuove esigenze
filosofiche affiorate nel corso del XV secolo portano un gruppo di studiosi a tentare di
riscoprire la dottrina genuina di Aristotele, al di là della lettura del commentatore arabo,
ritenuto troppo lontano dal tempo e dalla temperie culturale del maestro per esserne un
fedele interprete. In questo clima di ritorno all'autentico Aristotele assumono un significato
particolare le nuove traduzioni delle opere dello Stagirita, condotte con maggiore perizia
filologica e su testi più sicuri perché maggiormente vicini agli originali. Accanto alla
ricostruzione del "vero Aristotele" si provvede alla traduzione delle opere dei
commentatori ritenuti più fedeli al testo aristotelico: fra questi, Alessandro di Afrodisia (II-
III sec. d.C.) e Simplicio (V-VI sec. d.C.).
Il tradizionale filone aristotelico si sfiocca, così, in due direzioni.
Già Marsilio Ficino nel Proemio al commento di Plotino puntualizzava la differenza tra
Alessandristi ed Averroisti:
I primi ritengono che il nostro intelletto è mortale, gli altri sostengono che è unico in tutti
gli uomini, gli uni e gli altri distruggono dalle fondamenta ogni religione, specialmente
perché negano l'azione della provvidenza divina sugli uomini, e gli uni e gli altri sono
infedeli allo stesso loro Aristotele.
(in Plotin., pr.)
L'accusa di infedeltà. da parte di Ficino, ovviamente, era avanzata da un angolo visuale
diametralmente opposto a quello degli aristotelici, perché interessato ad evidenziare più la
carica religiosa che non quella scientifica e naturalistica del pensiero aristotelico: Platonici
fiorentini ed aristotelici padovani, infatti, pur accomunati nell'opera di "riscoperta" della
autenticità dei testi classici, mirano ad obiettivi culturali assai diversificati.
Gli aristotelici padovani, infatti, esercitano la loro ricerca su un piano di più rigorosa
razionalità scientifica. Essi intendono approfondire e delimitare con un uso più freddo e
tecnico della ragione i metodi e i campi della ricerca filosofica e scientifica, distinguendoli
da quelli propri della fede. Un'audacia con cui moltissimi aristotelici teorizzano dottrine
contrarie a quelle della chiesa ed incappano in processi e condanne, deriva proprio dalla
loro convinzione che la fede e la scienza hanno procedimenti logici e metodi di ricerca
diversi, per cui anche sullo stesso argomento si possono professare verità diverse.
Questa distinzione così netta e decisa dei campi che sono propri della fede e quelli nei
quali deve essere esercitata la ragione consente agli aristotelici di Padova di rivendicare
una maggiore laicità della cultura e di indirizzarla con più matura consapevolezza critica e
scientifica nell'indagine naturale. Il principio della "doppia verità" era una libera
interpretazione delle convinzioni di Averroè, secondo cui fede e ragione hanno per oggetto
le stesse verità, ma la fede le espone in modo da renderle più comprensibili alle masse
incolte.
Una delle più significative figure dell'averroismo padovano può essere ritenuto, nonostante
alcune ritrattazioni delle posizioni precedentemente assunte, Nicoletto Vernia (1420 99).
Di questo filosofo, che fu maestro di Agostino Nifo e di Pietro Pomponazzi, ci restano
soltanto pochi scritti minori, essendo andata perduta la sua produzione maggiore.
Sostenitore della tesi avverroistica di un intelletto unico ed immortale per tutti gli uomini,
Vernia fu un rigido avversario delle interpretazioni scolastiche di Aristotele, sia di quella
tomistica che di quella scotista. Preoccupato di incorrere nei rigori dell'inquisizione
religiosa, prende le distanze dall'averroismoattraverso opuscoli in cui, pur affermando di
aver professato l'averroismo solo per motivi dialettici e per esercitazione intellettuale,
continua a ritenere la filosofia naturale superiore alla metafisica.
Atteggiamento ancora più ambiguo tiene il campano Agostino Nifo (1473- 1546),
professore a Padova solo per pochi anni. Editore delle opere di Aristotele e di Averroè,
professò un averroismo molto blando e intriso di platonismo. Proprio sotto l'influenza dei
neoplatonici, di Pico in modo particolare, sostenne nel De immorta1itate animae contro
averroisti ed alessandristi la tesi dell'immortalità dell'anima e tacciò di immoralità i
negatori di questa tesi. Ma al di sopra di tutti si eleva la figura di Alessandro Achillini
(1473-1512), il "secondo Aristotele", come fu chiamato dal contemporanei per la grande
padronanza del pensiero dello Stagirita. Nelle sue opere Achillini espone la cosmologia
metafisica aristotelica filtrata attraverso Averroè, e riconferma la dottrina dell'intelletto
unico ponendo anche egli attenzione a distinguere le verità di fede da quelle ricavate
dall'esame della filosofia di Aristotele.
Ma il merito maggiore ascrivibile ad Achillini deve essere cercato nelle sue indicazioni
intorno al metodo della conoscenza. La chiarezza con cui Achillini individua nel metodo
matematico l'unico metodo modellato sull'ordine stesso della natura e, pertanto, l'unico in
grado di darci conoscenze adeguate, da una parte lo ricollega al Cusano e, dall'altra, lo
segnala come portatore di un'istanza scientifica i cui sviluppi più importanti saranno forniti
di lì a poco dalla scienza galileiana.
La rivendicazione dell'importanza del problema metodologico non proviene, però, dal solo
Achillini, anzi diventa il merito principale di una gran fetta dell'aristotelismo
rinascimentale. JACOPO ZABARELLA (1533-1589), CESARE CREMONINI (1550-1631),
GIULIO CESARE VANINI (1585-1619) e lo stesso Pomponazzi, di cui parleremo più
diffusamente, avvertono con chiarezza che nessuna ricerca è possibile senza aver
preliminarmente messo a punto un procedimento metodologico che dia ordine e significato
alle vane esperienze.
UMANESIMO E RINASCIMENTO
L'anima e l'ordine naturale
Tutta la speculazione di Pietro Pomponazzi infrange lo schema storiografico tradizionale
indicante Padova e Firenze come centri di cultura contrapposti fra loro, e rappresentanti, il
primo, la cultura scolastica, medioevale, lontana dal clima di rinnovamento che agita tutto
il resto d'Italia e di Europa, il secondo, il pensiero nuovo che porta i germi della cultura
moderna.
Per quanto il linguaggio e, molto spesso, la tematica, siano diversi, l'ansia che anima il
professore padovano e l'umanista fiorentino può essere ricondotta alla stessa
preoccupazione di capire la natura dell'uomo e le motivazioni che lo spingono all'azione.
Ovviamente, attingendo a fonti diverse e servendosi di metodi d'indagine diversi,
pervengono ad esiti, non poche volte, opposti.
Nato a Mantova nel 1462 Pomponazzi studiò a Padova sotto la direzione, tra gli altri, di
Nicoletto Vernia. Insegnò a Padova, a Ferrara ed infine a Bologna dove morì nel 1524. Nel
1516 pubblicò la sua opera più famosa e più discussa, De immortalitate animae. La
trattazione sulla natura dell'anima, e sul suo destino dopo la morte, apre la via alla
discussione sulla virtù e sul fine ultimo dell'uomo. Pomponazzi inizia il suo discorso
ribadendo un principio comune a tutta la filosofia rinascimentale:
L'uomo non ha natura semplice, bensì molteplice, non chiaramente determinata ma
ambigua, e si pone a mezzo tra gli esseri mortali e quelli immortali.
(De immortalitate animae, 1)
Ma la constatazione della natura ancipite dell'uomo non suggerisce al filosofo slanci lirici
sulla "divinità" dell'uomo stesso e sulla missione cui deve adempiere innalzandosi a Dio
per realizzare la sua natura immortale. All'ottimismo, in certo senso ingenuo e di maniera
di tanti neoplatonici, Pomponazzi sostituisce una visione più amara, se si vuole più tragica,
della natura dell'uomo, ma certamente più realistica e convincente. Senza negare la
tensione verso il divino, Pomponazzi radica l'uomo nella condizione naturale e individua
nell'indivisibile unità di anima e corpo l'argomento basilare per combattere sia le tesi
neoplatoniche che quelle averroistiche.
L'anima sensitiva è semplicemente atto del corpo fisico-organico, in quanto ha bisogno del
corpo sia come soggetto, non potendo esercitare la propria attività se non per mezzo di un
organo, sia come oggetto... L'intelletto umano invece non è completamente indipendente
dal corpo in nessuna sua operazione, ma non è neppure completamente immerso in esso.
(De immortalitate animae, 9)
L'anima umana, pur non coincidendo meccanicamente con il corpo, non è in alcuna sua
operazione indipendente da esso:
Da ciò si può ricavare la conclusione principale che ci eravamo proposti: cioè che l'anima
umana è in assoluto materiale e relativamente immateriale...
All'intelletto umano è essenziale intendere per mezzo delle immagini... e ciò appare
chiaramente dalla definizione dell'anima, essendo questa atto del corpo fisico-organico...
Ma poiché chi intende in questo modo è necessariamente inseparabile dal corpo,
l'intelletto umano è mortale... Dunque bisogna categoricamente affermare che l'anima... è
mortale.
(De immortalitate animae, 9)
La prova cruciale della materialità e mortalità dell'intelletto umano è indicata, dunque, nel
fatto che essa è, in ogni sua attività, necessariamente tributaria del corpo.
Pomponazzi arriva alla formulazione di un sillogismo per riaffermare la sua convinzione:
Se l'anima umana in ogni sua operazione dipende da un organo essa è inseparabile e
materiale, ma essa dipende effettivamente in ogni sua operazione da un organo; quindi
essa è materiale.
(De immortalitate animae, 8)
Rifacendosi ad un eloquente passo della Fisica aristotelica, Pomponazzi nega la creazione
dell'anima, sostenendo che essa è prodotta per generazione: "il sole e l'uomo generano
l'uomo".
L'anima dunque è materiale, generata col corpo e destinata con esso a perire, non può
operare né esistere senza di esso, ma grazie alla volontà e all'intelletto essa si avvicina
alla divinità, e "profuma" (odorat) d'immortalità, ma dell'immortalità non ha altro che
questo sentore.
A chi obietta che la dichiarazione di mortalità dell'anima automaticamente segna il crollo
del fondamento stesso della vita morale, Pomponazzi ribatte che la moralità non può e
non deve riposare sulla speranza di un premio o sul timore di un castigo ultramondani.
Essa deve avere in se stessa la sua fondazione e la sua giustificazione. La morale, cioè,
deve essere autonoma dalla religione:
Premio essenziale della virtù è la virtù stessa che rende l'uomo felice: infatti la natura
umana non può ottenere nulla di più grande della virtù stessa, dato che essa sola rende
l'uomo sereno e libero da ogni turbamento... precisamente l'opposto del vizio; la pena,
infatti, per il vizioso è il vizio stesso dei quale non si può trovare alcunché di più miserabile
e infelice.
(De immortalitate animae, 14)
La dottrina dell'immortalità dell'anima fu elaborata dai politici come espediente per
condurre gli uomini ad agire virtuosamente:
Il legislatore, considerando l'inclinazione degli uomini al male ed avendo di mira il bene
comune, sancí che l'anima è immortale senza preoccuparsi della verità, ma solo
dell'onestà, allo scopo di indurre gli uomini alla virtù.
(De immortalitate animae, 14)
La strumentalizzazione, a fin di bene, della religione ha prodotto il tentativo scientifico,
infelice e destinato al fallimento, di voler dimostrare con i mezzi della filosofia naturale la
verità di fede, di cui può dar ragione solo la rivelazione e la scrittura canonica. Difatti
l'unica sopravvivenza dopo la morte consiste nel ricordo dei vivi:
Le fortune e le sfortune dei discendenti non giovano né nuocciono ai
morti... ma solo alla stima che si ha di loro: i morti hanno, infatti, quella stessa esistenza
che Omero ha nelle nostre menti.
(De immortalitate animae, 14)
Il naturalismo e l'immanentismo pomponazziani, nelle analisi sulla struttura e sul
funzionamento dell'universo, per quanto portino all'affermazione di una realtà
unitariamente articolata, regolata da ritmi e leggi immodificabili, sono ben lontani dal
condurre ad una concezione scientifica della realtà nel senso moderno della parola. Nel De
incantationibus, la natura, infatti, non è considerata come un meccanismo regolato da una
causalità immanente, sperimentabile e matematicamente calcolabile, ma è ancora intesa
come una specie di animale vivente, in cui valgono le leggi simpatetiche, le forze astrali, le
"virtù" di cui sono portatori alcuni uomini. Ma quantunque lo sforzo naturalistico non
approdi alle conclusioni che saranno poi della scienza moderna, bisogna riconoscere a
Pomponazzi il merito di aver rivendicato con forza una concezione dell'ordine naturale da
cui siano bandite ogni forma di intervento miracoloso ed ogni spiegazione dei fenomeni in
termini magici. Tutti gli eventi, anche, piú rari ed inconsueti, debbono essere spiegati
attraverso un rigido meccanismo il cui punto di partenza è Dio e i cui strumenti necessari,
attraverso cui Dio stesso necessariamente opera, sono gli astri
In questo universo unitario, in cui tutto avviene per necessità, niente è male, ma tutto
concorre a realizzare la compiutezza del reale. Anche gli eventi che a noi appaiono
negativi e riprovevoli rispondono ad una esigenza della realtà e sono del tutto naturali,
come "il fatto che il lupo divori la pecora e che il serpente uccida gli altri animali".
Nel De fato, Pomponazzi tenta di accordare con questa visione deterministica e
necessitante della natura, scaturiente dalla provvidenza divina, la libertà dell'uomo. Il
futuro non ancora realizzato è conosciuto da Dio solo in quanto contingente, solo come
evento probabile che l'uomo potrà realizzare.
Cultura e istituzioni nei secoli XV e XVI
Il nuovo impegno dell'intellettuale
L'elogio della follia
L'isola di Utopia
Riflessione sulla storia e teoria politica
Religione e politica nella Riforma luterana
Complessità della Riforma
Riforma cattolica e Controriforma
Gli sviluppi del pensiero politico
Scetticismo filosofico e fideismo conservatore
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Il nuovo impegno dell'intellettuale
L'accelerazione febbrile di tutte le attività umane, da quelle economico-produttive a quelle
più specificamente teoretico-conoscitive, aveva contribuito a richiamare con forza
l'attenzione della cultura sull'uomo, sulle sue capacità, sui suoi rapporti con la natura e
con Dio. L' effervescenza delle realizzazioni pratiche, il rinnovamento architettonico delle
città, l'utilizzazione della tecnica per migliorare le condizioni di vita, la fioritura rigogliosa
delle arti e della letteratura, l'incremento della produzione artigianale, l'espansione dei
traffici commerciali: tutto contribuiva a rafforzare il convincimento che l'attività umana da
sola producesse un mondo che, in piccolo, era specchio del cosmo. Questo ricco
dispiegamento delle umane capacità alimentava sempre più la fiducia nell'uomo come
centro di ogni attività e produceva la certezza che non necessariamente si dovesse uscire
dal mondo delle realizzazioni umane per conoscere tutto il reale. La " divinizzazione "
dell'uomo si spinge fino al punto da crederlo non solo padrone del mondo da lui prodotto,
il mondo delle attività pratiche e della cultura, ma anche del mondo fisico-naturale.
L'uomo-mago capace di "sposare la terra con il cielo ", come sostenevano Marsilio e Pico,
crede di poter agire con le sue "virtù" medianiche sulle forze cosmiche, per condurle nella
direzione desiderata in modo da neutralizzare quelle negative e da utilizzare quelle
positive.
Ma per quanto celebrato come mens da Pico, l'uomo delineato dalla cultura neoplatonica è
ancora fortemente permeato di religiosità; la sua "dignità" è ancora individuata nell'anima,
nella scintilla divina che lo vivifica dall'interno. L'afflato religioso, mistico, che circola in
tutta l'opera dei neoplatonici italiani, testimonia come il tema centrale di questa cultura sia
lo stretto legame che unisce l'uomo a Dio: nella natura e nell'uomo opera Dio; la
celebrazione dell'uomo è celebrazione di Dio.
Tutta la tensione speculativa dei neoplatonici si concentra sul grande tema del ritorno
dell'uomo a Dio, dell'uomo che, mortificati i suoi istinti e le sue passioni, si eleva al di
sopra della naturalità per celebrare la sua spiritualità. La filosofia si muove così nel cielo
della pura "teoria", su un piano di rarefatta spiritualità.
L'orientamento squisitamente "contemplativo" impedì a questa cultura di incidere
praticamente sul costume civile e sulle istituzioni politiche.
Chiuso in se stesso, il neoplatonismo assume il carattere di cultura elitaria per uomini
raffinati e colti, desiderosi di arricchire ancor più la loro sensibilità e la loro umanità.
Neppure il filone aristotelico, d'altra parte, riuscì ad avere presa sulla realtà storica
concreta. Dilaniato al suo interno dalla lotta tra averroisti e alessandristi, tutto impegnato
nelle discussioni sulla piano morale e politico. Sostanzialmente anche la rivendicazione
dell'autonomia della morale dalla religione operata da Pomponazzi rimase un fatto
dottrinario privo di effetti pratici. Una svolta profonda nella considerazione della morale e
della politica si realizza negli anni a cavallo tra il XV e il XVI secolo. Erasmo, Moro,
Machiavelli e Lutero forniscono dell'intellettuale l'immagine dell'uomo che si misura in
modo critico con la morale e le istituzioni statuali del proprio tempo, e che incide
profondamente sul costume, sul modo di pensare e, con Lutero in modo particolare,
sull'immediato destino politico dell'Europa.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
L'elogio della follia
La cultura europea, per quanto avesse come punto di riferimento i filosofi e i letterati
italiani, maturò le sue esigenze e sviluppò le sue idee in modo spontaneo ed originale. Se
dovessimo indicare il motivo di fondo caratterizzante tale autonomia, non faremmo fatica
ad individuarlo in un ansia di rinnovamento pratico e non solo dottrinale, di un
rinnovamento mirante ad incidere sul comportamento di larghe masse di uomini e non
solo sul modo di pensare di pochi dotti. Non è un caso, infatti, come vedremo, che i
riformatori d'oltralpe, più che riscoprire, esaltare, commentare e chiosare gli autori
classici, greci e latini, si rivolgono invece alle fonti della dottrina cristiana, ai testi sacri e ai
padri della chiesa. Essi credono che solo ispirandosi al testo della Bibbia ed alle opere della
patristica sia possibile per l'uomo un ritorno alla antica purezza. La " renovatio " consiste
in una " restauratio " della autentica parola di Dio. Mentre l'opera di un Marsilio Ficino si
muoveva nel cielo delle costruzioni intellettuali e cercava i segni di una "prisca theologia"
nelle dottrine dei filosofi di ogni tempo senza mai giungere ad un esame particolare delle
forme storiche di vita religiosa, l'opera di questi dotti non è mai priva di spunti polemici
nei confronti della prassi comune tra i fedeli e le gerarchie ecclesiastiche, non è mai scevra
da intenti largamente riformatori.
Il vero iniziatore dell'opera di rinnovamento della cultura europea è Desiderio Erasmo.
Nato a Rotterdam nel 1466, fu ordinato prete nel 1492. Geloso della sua indipendenza e
della sua libertà, chiese ed ottenne di essere dispensato da ogni obbligo ecclesiastico:
rifiutò ogni incarico onorifico ed ogni offerta vantaggiosa che esigesse impegno mondano.
Si spostò attraverso tutta l'Europa, suscitando ovunque nuovi interessi di studio e di
rinnovamento. Ma profuse la sua perizia di maestro soprattutto nella filologia. Morì a
Basilea nel 1535. Estimatore incondizionato del Valla, Erasmo ne continua l'opera,
concentrando la sua attenzione di filologo sui testi di Girolamo, di Ilario, di Ambrogio, di
Agostino, delle cui opere pubblicò edizioni pregevoli ed emendate. Sottopose a revisione
critica anche il testo del Nuovo Testamento suscitando la protesta e lo sdegno dei religiosi
più zelanti e bigotti. Ma, nonostante il lavoro di filologo, questo "gran signore"
dell'intelligenza fu sempre avverso ad ogni sorta di pedanteria, il suo sguardo si allargò
sempre alla considerazione di problemi di vasto respiro e di largo interesse. In alcuni
scritti dottrinali, tra cui l'Enchiridion militis christiani (1502), in uno stile antiaccademico,
Erasmo mette a punto i capisaldi del suo umanesimo cristiano. Il compito del credente è
quello di cercare la pace e la tranquillità, accettando da ogni dottrina quanto di buono essa
offra. Il tema della concordia religiosa e della pace ritorna infatti a più riprese nelle sue
opere:
comune è la preghiera, una sola è la richiesta a tutti comune, una la casa, tutti sono una
stessa famiglia; con quale voce invocherai il padre comune se stringi il ferro contro le
viscere del fratello tuo?... Mi appello a voi che portate il nome cristiano. Mostrate quanto
valga la concordia del popolo contro la tirannide dei potenti... L'eterna concordia unisca
coloro che la natura congiunse con vincoli così numerosi e più ancora Cristo... Qui tutto
chiama, per primo il senso stesso della natura, e la stessa umanità, poi Cristo... inoltre
tanti vantaggi della pace, tante sciagure della guerra.
(Querela pacis, G.A.F., XI, p. 1070…1074)
Il vero spirito religioso va cercato, infatti, fuori dalle complicate costruzioni
intellettualistiche dei dottori della scolastica che, con le intricate ragnatele dei loro
pensieri, hanno come imprigionato in una corazza concettuale lo spirito umanissimo e
tollerante del messaggio del Cristo. Quanti si rivolgono all'antica teologia, anche se non
troveranno alcun vantaggio,
non vi perderanno certo nulla del loro se a queste minuzie si avvicineranno coloro che
preferiscono bere le parole divine dalle loro purissime fonti e non da certi ruscelli o stagni,
tante volte travasati da un luogo a un altro, per non dire addirittura inquinati dagli zoccoli
di asini e porci.
(In novum Testamentum, G.A.F., XI, p. 151)
Il milite cristiano deve volgere la sua attenzione proprio all'esempio di Cristo; il vero
cristianesimo deve modellarsi sul buon senso e sulla ragionevolezza. "Carità, semplicità,
pazienza, purezza": sono queste le virtù che Cristo ha comunicato agli uomini. Questo
programma di semplificazione della vita religiosa, che rifiuta qualsiasi pratica non
direttamente sorretta dalla parola e dall'esempio di Cristo e degli apostoli, sollecita una
riforma che, al contrario di quella di Lutero, richiede il rinnovamento dei singoli e non le
sommosse collettive e violente. Ma ciò che qualifica Erasmo come antesignano della
dottrina luterana è la sua ferma convinzione che la lettura del testo biblico deve essere
consentita in lingua volgare anche agli indotti: " Desidererei che tutte le donnicciuole
potessero 1eggere l'evangelo e le lettere di S. Paolo ".
Ma lo spirito critico nei confronti dei costumi religiosi del tempo viene esercitato con ironia
a volte sottile e pungente, a volte sferzante e polemica nell'opera più famosa di Erasmo:
l'Elogio della follia (1509). Nato come scherzo letterario, concepito nel viaggio di ritorno
dall'Italia in Inghilterra, l'Elogio della follia rappresenta oltre che una satira sociale acuta
ed intelligente, l'esaltazione del piacere di vivere immediatamente avvertito e sfuggente
ad ogni tentativo di imprigionamento che l'intelletto opera con le sue categorie
paralizzanti.
"Follia" è il soffio vitale che ardisce spezzare ogni vincolo ed ogni norma codificata, è la
rivalsa della fantasia creatrice contro la ragione sistematizzante; è la critica alla piaggeria
e al conformismo dei poveri di spirito; è la fustigazione della boria e della vacuità dei
filosofi orgogliosi ed intolleranti. Erasmo introduce la " follia " stessa a parlare e a tessere
la sua difesa ed il suo elogio.
E' opera della follia il matrimonio, il perpetuarsi della specie, la società civile e tutto
quanto la regola e la conserva:
qual è l'uomo che sarebbe pronto a mettere il collo nel cappio del matrimonio se, come
sogliono fare questi sapienti, riflettesse fra sé e sé sulle scomodità dello stato coniugale? E
quale donna sarebbe pronta ad accogliere nel suo letto un uomo se conoscesse o pensasse
ai dolori del parto e alla noia dell'educazione dei figli?
(Elogio della follia, XI)
Ogni età dell'uomo gode a suo modo dei piaceri della follia. Ogni attività dell'uomo nasce e
prospera sotto la sua tutela:
senza di me dunque non vi è socievolezza, non v'è unione lieta né stabile. Giacché nessun
popolo potrebbe sopportare il suo monarca, il padrone non tollererebbe il suo servo, la
padrona l'ancella, il maestro lo scolaro, l'amico l'amico, il marito la moglie, il locandiere
l'ospite... insomma nessun uomo il suo simile, se non si ingannassero e adulassero a
vicenda, se l'uno non cedesse ai desideri dell'altro, se infine il miele della follia non
addolcisse ogni cosa.
(Elogio della follia, XXI)
In nome della "follia", Erasmo punzecchia con scherzosa ironia gli uomini, mettendo a
nudo debolezze e piccinerie anche dei personaggi più riveriti ed adulati del tempo. Il suo
sarcasmo si indirizza feroce contro la saccenteria dei filosofi e dei cosmologi. Essi
non sanno nulla e dicono di sapere tutto, non conoscono neppure se stessi... ma
affermano di vedere distintamente le idee, gli universali, le forme separate, le materie
prime, le essenze, le forme intrinseche, cose tutte così sottili che neppure Linceo, io credo,
potrebbe distinguere chiaramente.
(Elogio della follia, LII)
Ma soprattutto i suoi strali si appuntano contro la decadenza e la mondanizzazione della
chiesa e contro i teologi che si affannano a discutere su "sottiglianze squisite" difficili da
vedere,
a meno di non avere occhi così acuti da poter scorgere nel buio oggetti inesistenti.
(Elogio della follia, LIII).
Il linguaggio, fin qui garbato e scherzoso, assume toni forti per mettere a nudo la
meschinità e l'avidità di ricchezza dei religiosi che hanno trasformato la chiesa in luogo di
commercio e la fede in puro cerimoniale esteriore. La satira del costume cede il posto alla
requisitoria fustigatrice. Alla critica bonaria si sostituisce lo sdegno del riformatore che,
implacabile, scava nelle pieghe dell'organizzazione ecclesiastica e ne mette a nudo la
putredine.
Ma la chiara visione dell'immoralità esistente nel corpo della chiesa non si trasforma in
azione riformatrice. La considerazione intellettuale non alimenta la volontà e non la spinge
ad operare. Raffinato, aristocratico, Erasmo si terrà in disparte anche quando le sue
denunce, riprese da Lutero, produrranno l'incendio della Riforma. Non esiterà anzi a
prendere la penna contro Lutero per difendere la libertà umana. Scrive nella Diatriba de
libero arbitrio che l'uomo sceglie liberamente di salvarsi o di dannarsi, e a Lutero, che
ritiene che il peccato originale "abbia ucciso" la libertà umana, risponde che l' ha solo
offuscata e depravata, e che proprio per questo l'uomo ha bisogno della cooperazione
della Grazia per salvarsi
L'umanista pacato, distaccato, sdegnoso della notorietà e delle polemiche chiassose non
esita a lanciarsi in una controversia con un monaco passionale e focoso, qual era Lutero,
quando questi vuol ridurre l'uomo a pura passività, ad essere impotente, il cui destino è
deciso da altri senza il concorso della sua volontà.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
L'isola di Utopia
La distanza tra la situazione storica esistente nei diversi paesi dell'Europa e i traguardi
intellettuali raggiunti dalla cultura umanistica generò negli uomini di più fine cultura il
desiderio di un rinnovamento generalizzato dei costumi sociali e della vita religiosa.
Educati agli ideali di tolleranza e di collaborazione tra gli uomini dalla lezione dei classici,
non pochi di essi, di fronte alla durezza dell'esistente, si rifugiano in elaborate e raffinate
costruzioni mentali, vagheggiano società " comunistiche " in cui gli uomini, riconquistata la
purezza e la bontà della primitiva loro natura, vivono insieme felici di godere dei beni
comuni e di regolare i loro rapporti sociali all'insegna del rispetto e dell'amore reciproci,
senza aver bisogno di leggi scritte, di imposizioni, di dogmi o di scomuniche.
Questi "vagheggiamenti" contribuirono, anch'essi, a far maturare un fastidio ed una
insofferenza ancora maggiore negli animi di uomini vessati e sfruttati da regimi politici
dispotici e da una chiesa sempre più bisognosa di danaro destinato ad alimentare lo sfarzo
e la politica di potenza praticati in quegli anni.
Una delle opere che più agitò le passioni e alimentò l'ansia di rinnovamento - anche contro
la determinazione del suo autore che nello scriverla aveva voluto dare solo libero sfogo
alla fertilità, della sua fantasia - fu l' Utopia di Moro.
Combattuto tra affari pubblici e intensi studi umanistici, Tommaso Moro rappresenta il
momento più alto della cultura filosofica dell'Inghilterra a cavallo tra XV e XVI secolo. Nato
nel 1478, percorse tutto il cursus honorum della camera politica inglese fino a diventare
Cancelliere di Enrico VIII.
Spirito squisitamente religioso, anelava ad una moderata riforma interna alla chiesa che la
riportasse all'antica austerità e alla perduta semplicità. Quando nel 1534 il Parlamento
inglese fu chiamato dal re a votare l'Atto di supremazia che segnava lo scisma con la
chiesa di Roma, Moro non esitò a schierarsi contro il re rifiutando di giurare. Questa
insubordinazione gli costò la condanna a morte.
Nell'opera di Moro si possono individuare due motivi principali: uno di carattere politico-
sociale, l'altro di carattere storico-religioso. Dopo aver mosso una serie di rilievi e di
critiche alle società politiche dell'Europa, Moro descrive il modo di vivere di un popolo in
una immaginaria repubblica realizzata nell'isola di Utopia (dal greco ou-topos = nessun
luogo). In essa è adottata una sorta di democrazia rappresentativa nella quale la
maggiore preoccupazione degli eletti a posti di comando è di realizzare la felicità dei
cittadini.
Gli utopici hanno praticamente comunanza di beni: mettono insieme i prodotti del loro
lavoro e poi attingono dai magazzini tutto quello di cui hanno bisogno:
Ogni padre di famiglia preleva da essi [magazzini] qualsiasi cosa di cui lui e i suoi familiari
hanno bisogno e se la porta via senza sborsar denaro né dare contraccambio di qualunque
genere.
(Utopia, II, " I rapporti sociali ")
Lavorano a turni di due anni la terra e nel restante tempo si dedicano ad altre attività. La
giornata lavorativa è fissata in sei ore, e le ore libere sono dedicate al divertimento e allo
studio. Gli utopici, praticano una religione naturale molto semplificata, priva di dogmi; la
gran parte di loro infatti
ritiene che esiste un unico Iddio inconoscibile, eterno, immenso, inesplicabile, superiore
alla possibilità della mente umana, diffuso nell'intero nostro universo con la sua potenza
immateriale...
(Utopia, II, " Le religioni ")
Il fondatore stesso di questa comunità, Utopo,
stabilì che ciascuno era libero di professare la religione che più gli piacesse, ma che nel
tentativo di convertire altri poteva spingersi fino ad avvalorare la propria credenza
argomentando con toni pacati e rispettosi, non già fino... a far ricorso a violenze o a
scagliare improperi. Chi disputa su questi argomenti con arroganza viene punito con
l'esilio e con la schiavitù. (Utopia, II, " Le religioni ")
Gli ideali più belli dell'umanesimo sembrano tutti già realizzati nell'isola di Utopia.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Riflessione sulla storia e teoria politica
La teoria politica rinascimentale non è costruita, però, tutta per "vagheggiamenti" o per
"utopie". Essa, anzi, risente di quello spirito di concretezza e di quella esigenza
sperimentatrice che caratterizzano tante altre "scienze" ed "arti" del tempo. Così
all'interno di una tradizione avvezza a considerare la politica un capitolo della cultura
filosofico-letteraria, un momento dello sviluppo teoretico di una intuizione metafisica di
fondo, esplode una visione nuova, rivendicante alla politica la dignità di "scienza"
autonoma, con un proprio ambito preciso, con norme e tecniche che trovano legittimità e
giustificazione al suo stesso interno. Il lucido e coraggioso teorico di questa " svolta " nel
pensiero politico fu Niccolò Machiavelli.
Nato a Firenze nel 1469, Machiavelli fu protagonista e testimone intelligente di un periodo
storico travagliato come pochi altri. Incline per natura alla politica attiva, si inserisce
nell'apparato politico-amministrativo della città subito dopo la caduta di Savonarola (1499)
e profonde tutte le sue energie in difesa della Repubblica. Quando, per l'irresolutezza dei
Gonfaloniere Piero Soderini, i Medici ritornano in città (1512), è allontanato dalla carica di
segretario ed è costretto a ritirarsi in una sorta di esilio volontario in campagna. Nel
frattempo la penisola italiana diventa campo di battaglia per Spagna e Francia. Nel suo
ritiro Machiavelli scrive le sue opere più famose; ad animarlo ed a spingerlo a quella fatica
è ancora l'indomita passione per la politica pratica. Egli non cerca la fama letteraria, ma
vuole, come uno scienziato, sottoporre ad analisi attenta e minuta gli eventi storici che
hanno portato alla caduta della Repubblica per individuare gli errori commessi e trarne
insegnamenti per la storia futura.
L'esperienza acquisita negli anni di vita politica attiva, come la storia di Roma
repubblicana raccontata da Tito Livio, si trasformano allora in "reperti" da analizzare come
in un "laboratorio";
reperti su cui Machiavelli appunta la sua indagine per capirne i meccanismi interni, per
vedere quanta parte dei successi e degli insuccessi degli stati sia da imputare ad imperizia
umana e quanta invece a situazioni oggettive. Come egli stesso, afferma nella "dedica" del
Principe, il suo scopo era di realizzare e comunicare
la cognizione della azioni di uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose
moderne e una continua azione delle antique.
(Principe, dedica)
Machiavelli come i Cancellieri umanisti di Firenze, trae la sua lezione dalla cultura classica
e dall'esperienza vissuta. Ma lo spirito che lo anima è diverso. Egli vuole applicare alla
politica, come attività umana definita ed autonoma, un metodo nuovo di indagine inteso a
spiegare ogni evento facendo ricorso esclusivamente alle forze agenti nella storia, senza
nulla concedere a concezioni provvidenzialistiche. E trova che le uniche realtà
condizionanti gli eventi storici e determinanti l'esito di un'azione politica sono gli uomini e
le situazioni di fatto in cui essi operano. La conoscenza diretta dei funzionari di corte, di
quanti vivono nel meccanismo dello stato, acquisita attraverso una esperienza varia e
prolungata, unitamente a quella derivata dall'attenta lettura dei classici, lo porta al
convincimento che gli uomini
sieno ingrati, volubili, simulatori, e dissimulatori, fuggitori dei pericoli, cupidi di guadagno;
e mentre fai loro del bene, sono tutti tua, òfferonti (ti offrono) el sangue, la roba, la vita, e
figliuoli... quando il bisogno è discosto; ma quando ti si appressa, essi si rivoltano.
(Principe, XVII)
Essendo allora gli uomini egoisti, legati ai propri particolari interessi, è facile prevedere le
loro azioni: il comportamento di uno dei fattori della storia è " scientificamente "
calcolabile.
Il secondo, la situazione di fatto, per la sua variabilità, meno si presta ad essere costretto
in una norma unica con valore universale; rappresenta infatti l'aspetto imprevedibile della
storia.
La necessità di conoscere così analiticamente i fattori costitutivi della storia riveste per
Machiavelli un'importanza fondamentale se si vuole avere successo nell'azione politica. Ma
il "successo" cui mira Machiavelli non è semplicemente il soddisfacimento dell'istinto al
comando del principe; è, invece, la costituzione di uno stato ben organizzato, forte,
capace di far uscire una comunità civile dalla situazione di anarchia rappresentata da gravi
lotte intestine o dalla soggezione ad altri. L'imperativo categorico è, allora: costruire e
mantenere saldo lo stato!
Ma alla realizzazione di questo progetto è più utile la Repubblica o il Principato? Di
formazione squisitamente repubblicana, Machiavelli, nei Discorsi sopra la prima deca di
Tito Livio, sostiene esplicitamente:
quanto alla prudenza, alla stabilità, dico come un popolo [è] più prudente, più stabile e di
migliore giudizio che un principe... quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte,
quando egli ode due concionanti che tendino in diverse parti... che non pigli la opinione
migliore... Vedesi ancora nelle sue elezioni ai magistrati fare di lunga migliore elezione che
un principe, né mai si persuaderà a un popolo che sia bene tirare alla degnità un uomo
infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per
mille vie si persuade a un principe.
(Discorsi, I, 58)
Ma, nonostante egli veda con chiarezza la superiorità politica dei molti sul singolo, del
popolo sul principe, è fermamente convinto che, quando in una repubblica le leggi non
sono più sufficienti a frenare gli egoismi particolari che rovinano lo stato, bisogna
cambiare le leggi e con esse la struttura politico-amministrativa dello stato stesso. Ecco
perché in Firenze e negli altri territori italiani, indeboliti dalle fazioni interne ed esposti al
pericolo di invasioni esterne, bisogna tentare, se si vuole salvare l'autonomia e la coesione
dei cittadini, la via del principato. Alla domanda
se in una città corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi (quando c'è); o quando ei
non vi fusse, se vi si può ordinare,
Machiavelli risponde con chiarezza:
sopra la quale cosa dico che gli è molto difficile fare o l'uno o l'altro.
(Discorsi, I, 18)
Al di là della forma istituzionale s'impone, però, la necessità di organizzare uno stato
compatto e forte. Già nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, da molti letti come
espressione della vocazione repubblicana del segretario fiorentino, in contrapposizione al
Principe, Machiavelli dà prova di grande realismo e di aderenza alla "verità effettuale delle
cose". Sostiene, infatti, che
da tutte le soprascritte cose nasce la difficultà o impossibilità, che è nelle città corrotte, a
mantenervi una repubblica o a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o
a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo Stato regio che lo Stato populare...
(Discorsi, I, 25)
A suggerire la forma istituzionale è la situazione di fatto e non una astratta e preconcetta
"ideologia". In una situazione politica degenerata, "corrotta", necessitante di una riforma
legislativa ed istituzionale, c'è bisogno del Principato; in una città già ordinata la
popolazione è più atta del principe a conservare gli ordinamenti esistenti.
Ancora nel Discorsi Machiavelli scrive:
se i principi sono superiori a' popoli nell'ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti
ed ordini nuovi, i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate.
(Discorsi, I, 58)
Principato o repubblica allora sono soluzioni politiche che vanno considerate buone o
cattive a seconda della concreta situazione storica cui vanno riferite. Nella condizione di
Firenze e degli altri stati italiani, Machiavelli ritiene che solo il principato possa segnare
quel "ritorno al principio" che è la salvezza delle comunità in crisi. Ma l'impresa di costruire
il principato non può riuscire ad un uomo solo, per quanto virtuoso. La costituzione dello
stato nuovo, con ordinamenti nuovi non è "il capolavoro" di un individuo d'eccezione; lo
stato non è "l'opera d'arte" che un genio isolato concepisce ed esegue. La costruzione del
Principato è vista da Machiavelli come prodotto storico-collettivo in cui il principe svolge il
ruolo di interprete delle esigenze latenti e di sollecitatore delle energie sopite di un popolo.
Su un terreno storico favorevole il principe innesta il seme della sua virtù:
Era necessario a Moisé trovare el populo d'Israel in Egitto, stiavo (schiavo) et oppresso
dagli Egizii, acciò che quelli per uscire di servitù, si disponessino a seguirlo. Non posseva
Teseo dimostare la sua virtù, se non trovava li ateniesi dispersi... Ierone Siracusano... di
privato diventò principe di Siracusa, perché sendo i siracusani oppressi, lo elessero per
loro capitano; donde meritò di essere fatto loro principe... Costui spense la milizia vecchia,
ordinò della nuova, lasciò le amicizie antiche, prese delle nuove; e come ebbe amicizie e
soldati che fussino sua, possé in su tale fondamenta edificare ogni edificio tanto che lui
durò assai fatica in acquistare, e poca in mantenere.
(Principe, VI)
I principati nati dallo sforzo collettivo, animati e guidati da un capo dotato di "virtù", di
capacità e coraggio, si rivelano poi più stabili e duraturi, a condizione, però, che in essi
vengano apportate le necessarie innovazioni istituzionali. Proprio la consapevolezza che
principe e popolo debbono muoversi alla realizzazione degli stessi obiettivi suggerisce a
Machiavelli, accanto alla riforma istituzionale, la riforma militare. Un esercito cittadino, a
differenza delle truppe mercenarie, sa che battersi per il principe significa difendere anche
i propri interessi:
E' principali fondamenti che abbino tutti li stati, così nuovi come vecchi e misti, sono le
buone legge e le buone arme... non può essere buone legge dove non sono buone arme, e
dove sono buone arme conviene siano buone legge.
(Principe, XII)
Ma non bastano le armi e le buone leggi; il principe deve possedere il "fiuto" della
situazione, in modo da cogliere le occasioni favorevoli, da neutralizzare o volgere a proprio
vantaggio le sfavorevoli. La sua grandezza poggia, infatti, su un equilibrato rapporto di
"virtù" e "fortuna":
iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che
etiam lei ne lasci governare l'altra metà, o presso, a noi ... ; la fortuna... dimostra la sua
potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi volta sua impeti dove la sa che non
sono fatti li argini e li ripari a tenerla.
(Principe, XXV)
Sul piano comportamentale il principe, consapevole della natura degli uomini, deve agire
secondo l'occasione:
è necessità a un principe, volendosi mantenere, imparare a dovere essere non buono, e
usarlo e non l'usare secondo le necessità.. ed etiam non si curi di incorrere nella fama di
quelli vizii sanza quali e' possa difficilmente salvare lo stato; perché se si considererà bene
tutto, si troverrà qualcosa che parrà virtù, e seguendola sarebbe la ruina sua, e qualcuna
altra che parrà vizio, è seguendola ne riesce la sicurtà e il benessere suo.
(Principe, XV)
Neppure deve indietreggiare di fronte alla necessità di usare la forza o di essere crudele,
perché con pochi esempi eviterà la disgregazione dello stato. Il principe deve saper usare
con misurato calcolo prudenziale l'uomo e la bestia che convivono nella natura umana e,
necessitato ad usare "la bestia, debbe di quelle pigliare la volpe e il lione ".
In tal modo egli può preservare lo stato dagli attacchi esterni. Quanto ad eventuali
congiure interne, se non sono artificialmente prodotte dall'esterno, egli potrà
neutralizzarle
fuggendo lo essere odiato o disprezzato, e tenendosi el populo satisfatto di lui... Et uno dei
più potenti remedi che abbi uno principe contro alle coniure, è non essere odiato dallo
universale: perché sempre chi congiura crede con la morte del principe satisfare al popolo:
ma quando creda offenderlo, non piglia animo a prendere simile partito.
(Principe, XIX)
Anche la religione si presta a tenere il popolo unito:
debbono adunque i principi d'una repubblica o d'uno regno, i fondamenti della religione
che loro tengono, rnantenergli; e fatto questo, sarà loro facil cosa mantenere la loro
repubblica religiosa, e per conseguente buona e unita. E debbono tutte le cose che
nascano in favore di quella, come che le giudicassono false, favorirle e accrescerle: e tanto
più lo debbono fare quanto più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali.
(Discorsi, I, 12)
Ma nonostante tutta la prudenza e la "virtù" dei principi nessuno stato può mantenersi,
perennemente saldo e rigoglioso. Nelle Istorie fiorentine, infatti, Machiavelli formula la
cosiddetta "teoria dell'anaciclosi":
soglione le province il più delle volte, nel variare che le fanno, dall'ordine venire al
disordine e di nuovo poi dal disordine all'ordine trapassare... e così sempre da il bene si
scende al male, e da il male si sale al bene. Perché la virtù partorisce quiete, la quiete
ozio, l'ozio disordine, il disordine rovina; e similmente dalla rovina nasce l'ordine,
dall'ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna.
(Istorie, V, 1)
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Religione e politica nella riforma luterana
A determinare la grande vampata rivoluzionaria che porta il nome di Riforma protestante
concorsero molteplici fattori non sempre agevolmente individuabili ed isolabili. Se, da un
lato, è facile riconoscere nella grande ansia riformatrice generata dalla cultura
preumanistica prima, ed umanistica dopo, un fondamentale elemento di preparazione
psicologica e spirituale per un evento che si presentava a prima vista a forti tinte
rinnovatrici; dall'altro lato, è altrettanto facile costatare come la distanza presa dagli
eventi e dalle posizioni teoriche della Riforma dei più illustri banditori delle teorie del
"rinnovamento spirituale" testimoni la mancata identificazione della loro posizione con
quella di Lutero. Ed, inoltre, una spiegazione della Riforma in termini puramente culturali
non chiarirebbe sufficientemente lo slancio rivoluzionario di masse enormi di popolani e
contadini non toccate dai messaggi degli umanisti.
Se, infatti, il fastidio provato per la corruzione e la mondanizzazione del clero nei raffinati
ed eleganti filosofi europei è tutto dottrinario e culturale, di ben altra natura è il fastidio
provato dai nobili; e diverso ancora quello avvertito dagli strati produttivi della società
germanica; come di natura ancora diversa è la profonda avversione per la chiesa di Roma
che monta nell'animo di Martin Lutero.
I primi, i dotti, sulla scia della cultura rinascimentale, esaltatrice dell'uomo e della sua
libertà, volevano una riforma che investisse soltanto gli aspetti morali della religione, ed
invocavano una fede che fosse più manifestazione di un sentimento profondamente
avvertito nell'animo, che non frutto di elaborazioni intellettualistiche troppo sottili e
formalistiche, cristallizzate poi in sclerotiche formule scolastiche o in un culto liturgico
meramente esteriore.
I secondi, i nobili, sentivano come vera e propria spoliazione economica il trasporto a
Roma di grosse rendite provenienti dai benefici feudali e dalle proprietà lasciate dai
credenti alle istituzioni religiose.
I ceti produttivi, contadini soprattutto, sopportavano mal volentieri il peso delle decime
(una sorta di tassa) sui prodotti della terra. A far crescere l'avversione contro la chiesa di
Roma si aggiunse, ultima in ordine di tempo, la forzata vendita delle indulgenze.
Lutero, a sua volta, alimenta il sentimento antipapale già vivo nella società tedesca,
accusando la curia romana di essere un "sacco senza fondo" che incamera le ricchezze
raccolte da tutta l'Europa:
Ora, quando danno a credere di voler combattere i turchi mandano in giro ambascerie a
radunar denaro, e molte volte vanno offrendo indulgenze... nonostante noi ci accorgiamo
assai bene che né le annate, né il denaro delle indulgenze, né un soldo di tutto l'altro è
usato per la guerra contro i turchi. Invece tutte le volte finisce nel sacco senza fondo....
(Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, in Scritti politici,
a cura di G. Panzieri Saiya, Torino 1949, p. 149)
Lutero, da un lato, si sentiva vicino alla cultura umanistica invocante il ritorno all'antica
purezza della fede, alle fonti bibliche e alla autorità dei padri della chiesa contro i dottori
della scolastica; dall'altro, avvertiva fastidio per la celebrazione che quella cultura faceva
dell'uomo come libero artefice del proprio destino. La chiesa di Roma, che con i papi
umanisti aveva accettato questo spostamento delle radici del bene e della salvezza da Dio
all'uomo, appariva ai suoi occhi la fonte stessa del peccato e la nuova Babilonia.
Nonostante le differenti matrici, gli atteggiamenti riformatori degli umanisti e quelli di
Lutero confluivano nello stesso sentimento di avversione per la chiesa, anche se avvertito
con intensità e sfumature diverse.
Ma la convergenza iniziale era destinata ben presto a cedere il posto ad una successiva
separazione. Ad un primo atteggiamento neutrale, nei dotti si sostituì un sentimento di
rifiuto e di ostilità nei confronti della dottrina della radicale passività dell'uomo di fronte a
Dio, ed essi diventarono, come abbiamo visto in Erasmo, avversari accaniti della Riforma.
I contadini, quando si accorsero di non poter soddisfare le loro aspettative di
miglioramento economico, si staccarono dal movimento riformatore e si ribellarono ai
principi. L'unico vincitore risultò Lutero, perché al momento giusto decise di appoggiare
principi e nobiltà tedeschi nelle loro aspirazioni di indipendenza dall'impero di Carlo V e nel
loro desiderio di incamerare i beni ecclesiastici ricevendone in cambio la conversione e
l'aiuto militare.
Ufficialmente Martin Lutero (1483-1546) avviava nel 1517 la polemica antiromana con
l'affissione alla porta della chiesa di Wittenberg delle 95 tesi contro la vendita delle
indulgenze. Ma se per il popolo la vendita delle indulgenze aveva il carattere di una nuova
forma indiretta di tassazione, per Lutero aveva un significato di natura teologica. L'esborso
di una somma di danaro, sostitutiva di ogni altra penitenza per i peccati commessi,
rientrava, per l'ortodossia cattolica, in quella iniziativa umana (opus operantis) con la
quale l'uomo si rendeva meritevole della grazia divina. Lutero, invece, nel Della libertà
cristiana sostiene che è la fede e non le azioni a salvare l'uomo.
Né l'intelligenza, né la volontà conducono l'uomo alla salvezza, anzi entrambe lo
sprofondano negli abissi dell'avvilimento e dell'angoscia. Solo la fede offerta da Dio
all'uomo come dono gratuito lo salva.
Questa posizione teorica svalutatrice dell'attività umana riposa su una convinzione basilare
e genera una conseguenza immediata. Il pessimismo luterano circa la possibilità dell'uomo
di produrre opere capaci di condurlo alla salvezza deriva, infatti, dal profondo
convincimento che con il peccato originale l'integrità dell'anima. umana sia andata perduta
una volta per sempre:
Il peccato originale non è tanto la privazione di una qualità del volere, non tanto la
privazione di luce nell'intelletto, di forza nella memoria quanto è invece privazione di ogni
dirittura e potenza dell'energie tutte così dei corpo come dell'anima... e per di più è la
pronità stessa al male, la ripugnanza del bene, il fastidio della luce e della sapienza, il
diletto dell''errore e delle tenebre, l'abbominio delle opere onorate, la fuga da esse, la
corsa al male.
(cit. da E. DE NEGRI, La teologia di Lutero, Firenze 1967, p. 3)
L'uomo dal peccato originale è reso del tutto incapace di volere il bene. Nella sua mente la
colpa di Adamo ha prodotto un'inversione di finalità, una "aversio a Deo". Ogni qual volta
l'uomo agisce, il fine della sua azione non è più Dio, cioè il Bene supremo, ma un bene
particolare, inferiore, un bene della carne. L'uomo col peccato originale ha commesso il
peccato di orgoglio: ha creduto di essere al centro della realtà ed ha voluto sottomettere a
sé tutto, Dio compreso. Questo spostamento dal teocentrismo all'antropocentrismo è la
causa di tutti i mali. Solo quando l'uomo si nega come soggetto intelligente e volente si
rende degno della grazia rigeneratrice. Per questo motivo solo la fede ha proprietà
salvifiche, solo la grazia restaura la dignità umana e rende l'uomo degno della salvezza.
Tra la natura umana, bollata dalla colpa di Adamo e capace solo del peccato, e la grazia
divina non c'è alcuna mediazione, non si pone termine medio: l'uomo, come individuo, o è
con Dio o contro Dio. Di qui la svalutazione del ruolo che sacerdote e molti sacramenti
svolgono, secondo la concezione cattolica, tra credente e Dio. L'uomo si rapporta
direttamente a Dio o se ne allontana. Tra laico e prete rispetto a Dio non c'è alcuna
differenza. La dignità e le gerarchie sacerdotali sono invenzioni umane concepite per pura
sete di potere:
di qui è nata la detestabile tirannide dei chierici contro i laici. Poiché hanno le mani unte di
un'unzione corporale e portano quindi chierica ed abito talare, costoro non solo si pongono
al di sopra degli altri cristiani laici, ma li annoverano tra i cani indegni di appartenere alla
chiesa. Perciò osano comandare, esigere, minacciare, opprimere a libito loro. Il
sacramento dell'ordine fu ed è, insomma, una bellissima macchina per avvalorare gli
immensi portenti che si sono verificati e ancora si verificano nella chiesa. Così la
fratellanza cristiana se ne è andata, così i pastori si son fatti lupi, i servi tiranni e gli
ecclesiastici si sono convertiti nei peggiori dei secolari.
(DE NEGRI, pag. 179)
E' la dichiarazione del sacerdozio universale dei fedeli. Emerge, di necessità, l'esigenza di
modificare tutta la dottrina sacramentaria. La maggior parte dei sacramenti è connessa,
infatti, alla organizzazione ecclesiastica. Per Lutero possono essere conservati in via
definitiva soltanto due sacramenti: battesimo e comunione. Il terzo, la confessione, può
essere conservato solo provvisoriamente e solo per i cristiani più deboli, che, invece di
confessarsi direttamente a Dio, hanno bisogno della presenza di un confratello. Il
battesimo, però, non va inteso come recupero da parte dell'uomo della purezza, né come
rigenerazione del libero arbitrio e neppure come purificazione dagli istinti cattivi: esso è
solo una promessa per cui gli uomini vengono disposti a ricevere il bene che Cristo ha
meritato per loro. La negazione della funzione mediatrice del sacerdote e la conseguente
equiparazione dei credenti comporta la possibilità e la legittimità del libero esame della
Scrittura da parte di tutti i fedli:
perciò ragionevolmente la sola opera, la sola occupazione di ogni cristiano dovrebbe
essere questa: compenetrarsi bene della parola e dei Cristo, esercitare e rafforzare una
tale fede continuamente.
(G.A.F. VIII, p. 1079)
Sono queste le tesi sostenute nel De Captivitate babylonica Ecclesiae e Alla nobiltà della
nazione tedesca.
Risulta in perfetta concordanza con la visione dell'uomo come assoluta negatività, come
volontà sempre avversa a Dio, la posizione assunta da Lutero nell'opera De servo arbitrio.
Come abbiamo già accennato, la posizione di Lutero è diametralmente opposta a quella di
Erasmo. Mentre il dotto olandese si faceva interprete delle ragioni della cultura umanistica
e, ritenendo la Scrittura oscura sull'argomento, rivendicava all'uomo la libera scelta come
possibilità di applicarsi o distogliersi dalle attività che conducono alla salvezza; il monaco
tedesco, facendo appello alla "claritas scripturae" ritiene che se nel processo di salvezza
intervenisse il libero arbitrio l'uomo si metterebbe da solo sulla via della salvezza e
sarebbe completamente svalutata la figura e l'opera di Cristo:
Se infatti crediamo che la verità sia che Dio sa in precedenza tutto, e tutto preordina... e
che nulla può avvenire se non per suo volere, come la ragione stessa deve ammettere, ne
deriviamo... che non vi può essere affatto libero arbitrio né in uomo né in angelo né in
alcuna creatura... Parimenti se crediamo che il peccato originale ci ha così corrotti, da
opporre la sua ripugnanza al vero... è evidente che nell'uomo privo di Spirito, nulla rimane
che possa rivolgersi al bene, ma tutto è rivolto al male... Insomma, se crediamo che Cristo
ha redento gli uomini con il suo sangue, siamo costretti a riconoscere che l'uomo era
perduto tutto intiero; in caso contrario dovremmo supporre Cristo o superfluo o redentore
della parte più vile di noi, il che sarebbe blasfemo e sacrilego.
(G.A.F. VIII, p. 1148)
Con un fermo richiamo alla lettera della Scrittura e con una logica i cui termini erano
attinti dagli articoli di fede più popolari ed accettati, Lutero manda in frantumi tutti gli
sforzi dialettici di umanisti famosi, e per altro ferventi credenti, che tentavano di far
convivere l'onniscienza e l'onnipotenza di Dio con la libertà e la fattiva operosità umane.
Lo spostamento del baricentro della storia dall'uomo a Dio operato da Lutero rendeva la
riforma incompatibile con la cultura di quegli umanisti, come Erasmo, che pur avevano
ardentemente desiderato il rinnovamento "in capite et in membris" della chiesa.
Le idee di Lutero si diffusero con grande celerità anche grazie alla tolleranza dei principi
tedeschi che vedevano nella Riforma una occasione per conquistare l'indipendenza
dall'impero. Non a caso Lutero insisteva sull'uso politico, oltre che morale e spirituale,
della legge. Il principe, sostiene, riceve la sua investitura direttamente da Dio ed agisce in
suo nome; pertanto non è sottoposto alle leggi, ma egli stesso è la fonte del diritto. Il suo
compito consiste nella salvaguardia della comunità dai fuorilegge interni e dai nemici
esterni. Tra i primi, Lutero non esitava a comprendere "i cavalieri" che, capeggiati da
Ulrico von Hutten, si erano ribellati nel 1522-23, e "i contadini " che, sotto la guida di
Tommaso Münzer, nel 1525 avevano dato vita ad una ribellione di carattere politico-
sociale il cui programma prevedeva un rigoroso egualitarismo ed un comunismo totale dei
beni . Contro i contadini "anabattisti" (cioè ribattezzatori di quanti avevano ricevuto già da
bambini il battesimo) Lutero istigava alle violenze più atroci:
Nessuno abbia pietà dei contadini testardi induriti acciecati; anzi chi può e come può si
metta a picchiare trafiggere uccidere ammazzare come in mezzo ai cani arrabbiati.
(DE NEGRI, p. 29)
Contro i nemici esterni bisogna che popolo e principe si armino e portino la guerra:
E in questa guerra è una cristiana opera di amore ammazzare tranquillamente i nemici,
predare, incendiare e fare ogni quanto possibile, secondo il costume bellico e fino al giorno
della vittoria. Un simile evento lo si deve guardare come mandato da Dio che vuol ripulire
il paese e levar di mezzo la canaglia.
(DE NEGRI, pp. 26-27)
In tal modo Lutero liquidava i sogni di fratellanza, di tolleranza e di amore che da Cusano
in poi avevano contraddistinto la cultura europea. Con la sua predicazione e con la sua
azione, Lutero, da una parte, sembrava ritornare alla più cupa intransigenza religiosa di
tipo medioevale; dall'altra, metteva in crisi il cardine su cui si era retta la società
medioevale: l'unità religiosa e politica dell'Europa. Papato ed impero, infatti, usciranno
fortemente ridimensionati nel loro potere dalla secessione religiosa e politica della
Germania. Sul piano culturale la traduzione dei testi sacri in lingua tedesca e la diffusione
dei libri, fatta per consentire a tutti la lettura della parola di Dio, avevano contribuito alla
nascita della lingua nazionale tedesca e all'allargamento della cultura anche agli strati più
umili della popolazione. D'altra parte, però, la centralità riservata ai temi religiosi
caricherà la cultura tedesca posteriore di un forte retaggio teologico difficile da eliminare,
come pure la considerazione secondo cui il principe non è sottoponibile ad alcun controllo
e ad alcuna limitazione, in quanto il potere gli deriva direttamente da Dio, immette nella
vita politica della Germania quella ideologia assoluti-stica che l' ha caratterizzata poi per
secoli.
Sull'esempio di Lutero altri teologi operarono la secessione dal papato e riformarono la
dottrina della chiesa.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Complessità della Riforma
Lo svizzero Ulrico Zwingli (1484-1531) nelle sue opere De vera et falsa religione
commentarius, De Providentia, pur concordando con le tesi umanistiche secondo le quali
Dio si è rivelato non solo nei testi sacri, ma anche nelle dottrine dei filosofi, ribadisce la
concezione pessimistica di Lutero sull'uomo:
malvagia è dunque la mente, malvagio l'animo dell'uomo dall'infanzia poiché è carne che
ama se stessa, è bramosia di gloria, di piaceri, di beni materiali: questo nonostante cerchi
di dissimulare o di fingere... E l'Ecclesiaste incessantemente dichiara la nostra vanità:
vanità delle vanità e tutto è vanità.
(G.A.F. VIII, p. 1374)
L'uomo, questo "concentrato di malvagità", non ha alcuna possibilità di scelta, nessun
libero arbitrio, è condizionato in tutto e per tutto da Dio:
dal momento che un passero che non costa neppure un asse, non cade casualmente per
terra, ma solo per volontà del Padre Celeste, a maggior ragione voi che siete tenuti da Lui
in assai più elevata considerazione non cadrete mai senza la sua disposizione. E' dunque
indubitabile che di quelle cose che a noi sembrano accadere casualmente, Dio è l'autore.
(G.A.F. VIII, p. 1377)
Nonostante Zwingli difenda la teoria creazionistica e quindi la trascendenza di Dio rispetto
al mondo, la sua dottrina è permeata da una concezione teologica sostanzialmente
panteistica:
Poiché dunque l'infinito è uno solo, è necessario che fuori di questo nulla esista. Ne
consegue che qualunque cosa è, è in esso, anzi ciò che è e ciò che esiste derivano da Lui.
Ma poiché l'essere delle cose non deriva da Dio come se il loro esistere e la loro essenza
fosse diversa da Dio, ne consegue che per quanto riguarda l'essenza e l'esistenza, nulla vi
è che non sia la divinità: questa è infatti l'essere di tutte le cose.
(G.A.F. VIII, p. 1379).
Nel 1531 il movimento zwingliano è sconfitto a Cappel dall'unione Cristiana e in battaglia
muore lo stesso Zwingli.
Il movimento di riforma in Svizzera trovava un altro campione in Giovanni Calvino (1509-
1564), autore di Istituzioni della religione cristiana. Educato all'amore dei classici latini e
greci, permeato di cultura umanistica, Calvino si converte alla Riforma quando la sua
educazione è già perfezionata. Da tutta la sua dottrina traspaiono le tracce di questo
giovanile entusiasmo per l'umanesimo. Pur considerando l'uomo decaduto da ogni
perfezione in conseguenza del peccato originale, Calvino riconosce alla ragione umana una
certa capacità:
tuttavia quando l'intelletto umano si accinge a qualche studio, la sua fatica non è così
vana da non consentirgli di giungere, trattandosi delle cose inferiore a qualche risultato. E
parimenti non è così stupido da non poter avere qualche gusto delle cose superiori.
(G.A.F. VIII, p. 1287)
La potenza della ragione umana è verificabile nella facilità con cui gli uomini apprendono e
sviluppano le arti meccaniche e liberali e ci induce a credere "che vi è qualche principio di
queste cose impresso nell'intelletto umano". Il ricondurre a Dio le capacità umane
consentiva a Calvino di salvaguardare una certa fiducia nell'uomo, ma non fino al punto di
assolutizzarlo come autonomo artefice del suo destino. Riconosciuto l'influsso dell'attività
dì Dio sulla mente umana, Calvino è condotto a valorizzare anche la cultura pagana e a
riprendere, quindi, quel sincretismo neoplatonico che Lutero aveva aborrito:
Pertanto la magnifica luce di verità degli scrittori pagani che traspare dalle loro opere ci
deve ammonire che la natura dell'uomo, nonostante abbia perso la sua integrità e sia
molto corrotta, non è tuttavia esente da molti doni di Dio. Se noi riconosciamo lo spirito di
Dio come fonte unica di verità, non disprezzeremo il vero, da qualunque parte esso
appaia, a meno che noi vogliamo fare ingiuria allo spirito di Dio.
(G.A.F VIII, p. 1289)
Anche la volontà umana è spontanea e non coatta dall'esterno, ma, precisa Calvino,
spontanea chiamiamo quella volontà che spontaneamente si volge dove è condotta, né è
trascinata contro voglia;
(G.A.F,VII, p. 1294)
e l' anima umana, per una congenita depravazione, è spontaneamente condotta al male,
realizza cioè "liberamente" il male.
Queste considerazioni valgono naturalmente anche per la disposizione degli uomini alla
vita politica. Calvino, infatti, sostiene che
vi è in tutti gli uomini qualche principio di ordine politico. Ciò costi-tuisce un importante
argomento che dimostra come nessuno è destituito del lume della ragione quanto al
governo della vita presente.
(G.A.F. VIII, pag. 1288)
La conseguenza di questa convinzione è la rivendicazione dell'elezione popolare dei
ministri della chiesa ed, inoltre, l'ammissione della legittimità di un'eccezione nella dovuta
obbedienza ai "superiori", quando questa contrasta con l'obbedienza che dobbiamo a Dio.
Anche l'impegno dell'uomo nel mondo risente dell'impronta religiosa. Nella società, infatti,
ogni uomo deve esercitare l'attività per la quale avverte una particolare predisposizione.
Dio stesso, infatti, benedice il nostro lavoro facendoci conseguire abbondanti frutti,
quando seguiamo la "vocazione" cui egli ci ha indirizzato. L'intraprendenza e la fortuna
nelle attività produttive rappresentano per i calvinisti il segno manifesto dell'approvazione
di Dio. La riuscita delle nostre imprese dipende dalla nostra abilità e dal nostro lavoro.
Calvino immetteva, così, nella cultura europea i due principi base della concezione
borghese della storia: l'elezione dal basso dei capi politici e lo spirito imprenditoriale.
La forte impronta mistica porta il calvinismo ad instaurare nei paesi in cui si afferma
vittorioso una vera e propria dittatura religiosa intollerante di ogni lassismo morale e di
ogni deviazione "eretica". Vittima della intransigenza dottrinale di Calvino fu il medico
spagnolo MICHELE SERVETO (1511-1553), colpevole di pro-fessare nel De trinitatis
erroribus una concezione della trinità permeata di neoplatonismo e rivendicante la
supremazia dell'unità di Dio sulla successiva tripartizione.
Alla prima fase di rigida dittatura politica seguì una fase di maggiore liberalità e tolleranza
coincidente con la graduale espansione del calvinismo nei paesi dell'Europa: Germania,
Inghilterra, Francia, Scozia, Paesi Bassi. La bandiera della tolleranza religiosa contro
l'intransigenza calvinista fu tenuta alta soprattutto da un gruppo di "eretici" italiani
costretti all'esilio dalle persecuzioni religiose e politiche cui erano sottoposti in patria. Tra
essi vanno ricordati SEBASTIANO CASTELLIONE (1515-1563), BERNARDINO OCHINO
(1487-1564), ma soprattutto LELIO SOCINI (1525-1562) e suo nipote FAUSTO SOCINI
(1534-1604).
Su di un versante dottrinario diametralmente opposto pullulano all'interno della Riforma le
posizioni mistiche, svalutatrici del sapere razionale ed esaltatrici della fede.
GASPARE SCHWENCKFELD (1489-1561), tipico rappresentante del misticismo spirituale,
rivendica l'interiorità e la soggettività di ogni rivelazione, contro ogni formalismo esteriore
e contro l'attingimento intellettualistico della fede.
SEBASTIANO FRANCK (1499-1542) denunciava il fallimento del luteranesimo nel tentativo
di applicare alla vita collettiva l'esperienza religiosa, che per sua natura è un'esperienza
personale del tutto incomunicabile.
VALENTINO WEIGEL (1533-1588), autore tra l'altro di un Conosci te stesso, tenta di
sintetizzare tutti i motivi espressi dalla mistica tedesca a partire da Maestro Eckart. La
radicale svalutazione delle capacità conoscitive dell'uomo conduce Weigel non solo a
teorizzare una teologia negativa, ma a sostenere che solo con "l'annullamento di se
stesso, col morire a se stesso" l'uomo scopre Dio nella propria interiorità ed in questa
unione mistica attinge la verità.
Di gran lunga più noto di tutti è comunque Jacob Böhme (1575-1624). Tra le sue opere
vanno ricordate Aurora Nascente e Tre principi della essenza divina. Il primo problema che
afflisse questo calzolaio-filosofo fu di capire l'apparente lontananza di Dio dal mondo
dell'uomo. Egli afferma di aver intuito la verità come in una illuminazione.
Dio è più vicino a noi di noi stessi, non è separato dalla natura, ma agisce nell'uomo come
nelle masse celesti. La distanza tra Dio e mondo è completamente annullata. In Dio, nella
natura, come nell'uomo, si agitano le stesse forze. Uomo, mondo e Dio sono la stessa
realtà. Il peccato, il male, consiste nel tentativo di scissione di una parte dal tutto,
nell'orgoglio dell'uomo di volersi credere un tutto quando non è che una parte dell'intero.
Böhme rifiuta la tesi della creazione ex nihilo; per lui tutto ciò che esiste, esiste ab aeterno
in Dio:
In Dio, padre, nella sua profondità, sono tutte le potenze: in lui vi è luce e tenebre, aria e
acqua, caldo e freddo, duro e molle, denso e sottile, suono e tono, dolce e aspro, perché
io posso solo giudicare attraverso il mio corpo che da Adamo ad oggi è originalmente
formato da tutte le potenze di Dio e secondo la sua immagine.
(G.A.F. VIII, pag. 1609)
Tutto ha origine in Dio, il male come il bene, l'armonia come il contrasto:
Il santo mondo di Dio e l'oscuro mondo di Dio non sono due divinità: c'è un solo Dio. Egli è
ogni essenza, bene e male, cielo e inferno, luce e tenebre, eternità e temporalità, inizio e
fine. La luce è la sua essenza, l'ira la sua manifestazione.
(G.A.F. VIII, pag. 1616)
In Dio, dunque, c'è contrasto tra due tensioni contrapposte, pur sempre dialetticamente
collegate e articolate in unità. Il dispiegamento delle differenze deriva da un graduale
sviluppo dei contrasti. Con Böhme nella filosofia tedesca sono entrati così due importanti
concetti destinati a ben più significative fortune: il primo che l'unità rappresenta la verità e
il bene, e la scissione la falsità e il male; il secondo che la differenziazione e l'articolazione
del reale derivano per sviluppo dalla realtà stessa di Dio.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Riforma cattolica e Controriforma
La vampata antipapale suscitata dalla riforma luterana, per gli atteggiamenti troppo
radicali e per la carica fortemente polemica nei confronti della cultura umanistica, fin dal
primo momento non attrae le simpatie di quanti pur dall'interno della chiesa reclamavano
un ravvivamento del sentimento religioso tra i fedeli e un impegno più marcato in
direzione spiritualistica del papato stesso. Queste energie riformatrici, non adeguatamente
valorizzate fino al grande sconvolgimento provocato dalla Riforma, svolgono un ruolo non
trascurabile nel fervore di rinnovamento che pervade la chiesa scossa dalla secessione
luterana. Nell'interno della chiesa stessa, già a partire dalla seconda metà del XV secolo,
erano maturate tendenze riformatrici incitanti ad una fede più partecipata, più
intensamente vissuta e soprattutto tesa a modificare l'immagine, piuttosto paganeggiante,
della curia romana e dei pontificati del tempo. Una voce invocante la " moralizzazione " del
costume ecclesiastico, il disprezzo per la "vanità" del mondo ed un più intimo
raccoglimento mistico, si era levata dalla culla stessa del Rinascimento, Firenze. Le
prediche di fra' GIROLAMO SAVONAROLA (1452-1498) profetizzano l'avvento del regno
dello spirito e la rigenerazione politico-spirituale.
Gli scritti erasmiani, a loro volta, avevano contribuito a diffondere negli ambienti più colti
dell'Europa la speranza di un rinnovamento religioso e di un elevamento culturale e
disciplinare del clero. La ventata di speranza alimentata da Erasmo toccò anche le alte
gerarchie della Chiesa. Nel 1512 il pontefice Giulio II aveva riunito a Roma il V Concilio
lateranense pro reformanda ecclesia, che però non riuscì a realizzare l'auspicata riforma
morale. Nel 1517 a Roma si formava l'Oratorio del Divino Amore che annoverava nelle sue
file cardinali come il veneziano Gaspare Contarini e l'inglese Reginaldo Pole, entrambi
vagheggianti una rinascita religiosa modellata sui principi dell'umanesimo cristiano. Negli
anni immediatamente successivi alla clamorosa rottura col papato del movimento luterano
e di quello calvinista, le correnti erasmiane mantennero ancora viva la speranza che una
riforma moderata della chiesa, senza intaccare i principi religiosi, avrebbe potuto produrre
una pacificazione e una ricomposizione dell'unità, dei credenti. Al fallimento dei tentativi di
riavvicinamento portati avanti dall'ala moderata e riformatrice della chiesa, negli anni
intorno al 1540, corrispose in entrambi gli schieramenti un irrigidimento di posizioni. A
partire da questi anni la chiesa prese una serie di iniziative organizzative, disciplinari ed in
parte anche liturgiche che insieme caratterizzano quel fenomeno che, per la sua carica
polemica e concorrenziale nei confronti della Riforma protestante, comunemente viene
etichettato come Controriforma. La riorganizzazione dell'Inquisizione e l'istituzione dei
Sant' Uffizio nel 1542 possono essere considerati i primi atti significativi di questo
orientamento. Ad essi seguirono l'azione della Compagnia di Gesù fondata nel 1540 da
Ignazio di Loyola (1491-1556), il Concilio di Trento (1545-1564), la predicazione e le
attività assistenziali degli ordini religiosi sorti in quegli anni, l'attività delle missioni nei
paesi di recente scoperta, il rinnovamento dottrinale ad opera dei teorici dell'autorità e
della tradizione, la fioritura del misticismo cattolico spagnolo; tutti questi eventi diedero
forma e consistenza a quell'irrigidimento dottrinario ed organizzativo che caratterizzò, da
allora, per molto tempo la vita della chiesa.
Questa riorganizzazione interna della chiesa, in funzione della sua conservazione e della
riconquista della propria autorità, portava come segno distintivo l'accentuazione del
primato delle istituzioni rispetto alla spontaneità individuale e alla libertà di scelta.
L'aspetto più estrinsecamente disciplinare e reattivo alle innovazioni luterane si manifesta
nell'accentuazione del culto di Maria e della venerazione dei Santi, nell'uso frequente della
Comunione, nella sottolineatura dei meriti acquisiti attraverso le opere di carità, nel più
frequente invito ai fedeli a far ricorso alla pratica delle indulgenze. Ma soprattutto
l'atteggiamento "controriformistico" risultava palese dalla tendenza a controllare gli atti di
religione dei fedeli tanto da parte dell'ordinamento canonico che da parte di quello statale.
Un'imposizione di tale controllo, ovviamente, portò ad una caduta di spontaneità nel
comportamento religioso e ad un inaridirsi dell'anelito di fede; inoltre, contribuì a rendere
puramente formale ed esteriore, e quindi a svuotarla del più intimo significato, la pratica
dei sacramenti e la stessa devozione. E ciò in evidente opposizione alla concezione
riformata rivendicante il vincolo puramente interiore tra credente e Dio. Sul piano più
squisitamente dottrinario si insiste sulla necessaria mediazione sacerdotale e sulla
conseguente distinzione tra chiesa docente (la gerarchia religiosa) e chiesa discente (la
massa dei fedeli), tra pastore e gregge; si tenta di accreditare il valore del magistero
ecclesiastico e della tradizione apostolica al di sopra della Bibbia.
Una notevole opera di restaurazione del primato e dell'autorità del Papa fu condotta dalla
Compagnia di Gesù. Organizzata con concezione militare, essa, pur di restaurare l'autorità
della fede attraverso l'autorità del Papa e pur di recuperare l'unità interna della chiesa,
esigeva dai "milites" gesuiti una soggezione totale alla gerarchia fino a pretendere
l'annientamento della volontà del soggetto:
tendiamo tutti i nervi delle nostre forze a questa virtù dell'obbedienza che si deve rendere
per primo al Sommo Pontefice, poi ai superiori della Compagnia... così che la santa
obbedienza, sia nell'esecuzione, sia nella volontà, sia nell'intelletto sia sempre da parte
nostra perfetta in ogni parte, con grande sollecitudine, gioia spirituale e perseveranza
nell'eseguire qualunque cosa ci sia stata comandata, convincendo noi stessi che ognuna di
queste cose sia giusta, rinunziando con una sorta di cieca obbedienza ad ogni parere o
giudizio nostro contrario... E ciascuno persuada se stesso che coloro che vivono sotto
l'obbedienza debbono lasciarsi reggere e condurre dalla Divina Provvidenza per mezzo dei
Superiori così come fossero un corpo morto (perinde ac cadaver) che si lascia portare in
qualsiasi direzione e si lascia trattare in qualunque modo.
(Costitutiones Soc. Jeusu, VI, 1)
Il motivo dell'obbedienza e della soggezione alla tradizione sul piano più squisitamente
filosofico si configura come ritorno al " tomismo " inteso come insuperata
compenetrazione di religione e filosofia, di fede e ragione. Le personalità più
rappresentativa di questo movimento sono TOMMASO DE VIO, detto il CAIETANO, (1468-
1534), FRANCESCO DE VITORIA (1480-1546) e ROBERTO BELLARMINO (1542-1612), che
svolse un ruolo primario nel processo contro Giordano Bruno (1599) e in quello contro
Galilei (1576). Accanto ai centri universitari tradizionali ne sorgono di nuovi come
l'Università di Coimbra e il Collegio Romano. In questa "rinascita" di cultura cattolica
spiccano le personalità di LUIGI MOLINA (1535-1600), di GIOVANNI MARIANA (1536-
1623) e di FRANCESCO SUAREZ (1548-1617).
Un aspetto importante del pensiero dì questi dotti gesuiti è il capovolgimento da essi
operato nella individuazione del depositario del potere politico rispetto alla dottrina
luterana. Per il monaco tedesco, come abbiamo visto, Dio affida il potere politico
direttamente al principe, il quale diventa così la fonte del diritto, il solo operatore
legislativo cui tutti debbono obbedienza. I gesuiti, invece, certi della maggiore presa della
parola della chiesa sul popolo, sostengono il principio della sovranità popolare. Il potere
deriva direttamente da Dio, ma risiede immediatamente e naturalmente nel popolo. E'
questa, ad esempio, la convinzione di Bellarmino:
Il potere politico risiede in origine immediatamente nella moltitudine. Essendo, infatti,
questo potere di diritto divino, questo diritto non diede il potere a un qualunque uomo
particolare; lo diede quindi a tutta la moltitudine.
(G.A.F. XI, p. 1106)
Giovanni Mariana col suo De rege et regis institutione va ben oltre la semplice
rivendicazione della sovranità popolare quando teorizza la legittimità del tirannicidio da
parte del popolo:
riteniamo che si debbano tentare tutti i rimedi per rinsavire il Principe, prima di giungere a
questo punto estremo e gravissimo. Che se ogni speranza fosse ormai tolta, e fossero in
pericolo la salute pubblica e la sanità della religione, chi sarà tanto povero di saggezza da
non ammettere che sia lecito abbattere il tiranno con il diritto, con le leggi e con le armi?
(G.A.F. XI, p. 1174)
Idee affini sono professate anche da Francesco Suárez.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Gli sviluppi dei pensiero politico
principi della sovranità popolare e della legittimità, in casi estremi, del tirannicidio,
formano il nucleo delle dottrine politiche di un gruppo di pensatori noti con il nome di
Monarcomachi (coloro che combattono contro i re), tra i quali ricordiamo: STEFANO DE LA
BOÉTIE (1530-1563) autore poco più che ventenne, nel 1552-53, di La servitù volontaria
o Contr'uno, le cui tesi ritrattò più tardi; FRANCESCO HOTMAN (1524-1590), che scrisse
nel 1574 la Franco-Gallia; e TEODORO DI BEZA (1519-1605), autore nel 1574 dell'opera
Del diritto dei magistrati sui loro sottoposti.
Ben più ampio respiro teorico anima invece l'opera di Giovanni Bodin (1529/30-1596/97)
e di Giovanni Botero (1533-1617). Il primo, autore nel 1576 di Sei libri della Repubblica,
mentre muove una critica moralistica contro l'ateismo e l'empirismo di Machiavelli, esalta
il concetto di sovranità assoluta ed unitaria. La sovranità è lo Stato stesso inteso come
entità morale, indipendente dalle varie possibili forme di governo e dalla persona stessa di
chi governa:
per sovranità s'intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio di ogni tipo di
Stato... Ho detto che tale potere è perpetuo. Può succedere, infatti, che ad una o più
persone venga conferito il potere assoluto per un tempo determinato, scaduto il quale essi
ridiventano sudditi... Caratteristica essenziale della sovranità e del potere assoluto è la
facoltà di dare la legge ai sudditi in generale, senza bisogna del loro consenso.
(G.A.F. X, p. 637 e 639)
L'esigenza dell'assolutismo si faceva più forte di fronte alla costatazione della debolezza
dello stato rispetto alle varie fazioni che lo agitavano. Le guerre di religione che
insanguinavano l'Europa suscitavano il desiderio di uno stato unitario fortemente
accentrato. Bodin, pur propendendo per una religiosità sentita come universale esigenza
spirituale, finisce con lo schierarsi con quanti sostenevano il valore strumentale della
religione al fini dei potere (religio instrumentum regni):
Perfino gli scrittori atei sono concordi nell'affermare che non c'è cosa più atta della
religione a mantenere saldi gli Stati.
(G.A.F. X, p. 644)
Nella Ragion di Stato di Botero, in un contesto di formale opposizione a Machiavelli, sono
ripresi i motivi più vitali della dottrina di questo autore, ma per finalizzarli all'esigenza
controriformistica di circondare il sovrano di consiglieri religiosi.
Sarebbe necessario che il principe non mettesse cosa nissuna in deliberazione nel consiglio
di Stato, che non fosse prima ventilata in un consiglio di coscienza, nel quale
interevenissero dottori eccellenti in teologia ed in ragione canonica.
(G.A.F. X, pp. 656-657)
La religione, infatti, non solo è il fondamento di ogni principato, ma esercita anche una
forte azione di aggregazione politica intorno al sovrano; pertanto,
perché così conviene per la gloria e il servizio di Sua Maestà, deve il re usare ogni studio e
diligenza per introdurre la religione e la pietà e per accrescerle nel suo Stato... perché la
religione è quasi madre di ogni virtù: rende i sudditi obbedienti al suo prencipe, coraggiosi
nell'impresa, arditi nei pericoli, larghi nei bisogni, pronti in ogni necessità della repubblica.
(G.A.F. X, p. 652)
La ragion di stato non esitava ad annoverare tra i suoi strumenti la morale e la religione.
CULTURA ED ISTITUZIONI NEI SECOLI XV-XVI
Scetticismo filosofico e fideismo conservatore
Nell'opera di molti corifei della cultura rinascimentale serpeggia, più o meno palesemente,
una sottile vena di scetticismo nei confronti della ragione umana. Essa è riscontrabile, ad
esempio, nel De libero arbitrio di Valla, con una accentuazione maggiore nell'Elogio della
follia di Erasmo, e nelle tante opere mistiche, o semplicemente esaltatrici della potenza di
Dio, scritte nel periodo che va dalla seconda metà del '400 alla prima metà del '500. Più
esposta al "sorriso scettico" era ovviamente la considerazione dell'uomo microcosmo,
libero artefice del proprio destino e della propria storia, nonché conoscitore e dominatore
della natura.
Sulla scia di questo velato ed ironico antidogmatismo e sulla più aspra e corposa
svalutazione dei poteri dell'uomo operata dai teorici della Riforma, si sviluppa,
elegantemente modellata sui temi scettici presenti nell'opera del filosofo greco Sesto
Empirico (II sec. d.C.), Una corrente filosofica fortemente critica nel confronti della
tradizione culturale e delle capacità della ragione di attingere la verità.
Le linee essenziali di questa corrente emergono con grande nitore dall'opera di Michel de
Montaigne. Nato nella Francia meridionale nel 1533, ancora giovane si ritirò dalla vita
pubblica nella biblioteca del suo castello, dove attese, salvo una parentesi temporale non
troppo lunga, alla stesura dei suoi Saggi fino alla morte. Nell'opera di Montaigne,
scetticismo filosofico e fideismo religioso procedono in un rapporto direttamente
proporzionale: quanto più viene svalutata la ragione e le sue possibilità di attingere il
vero, tanto più viene esaltata la fiducia nella rivelazione e nella grazia:
La parte che abbiamo nella conoscenza della verità, qualunque essa sia, non è con le
nostre forze che l'abbiamo acquistata... Non è per ragionamento o per mezzo del nostro
intelletto che abbiamo ricevuto la nostra religione, è per autorità e per comandamento
estraneo. La debolezza del nostro giudizio ci aiuta in questo più della forza, e la nostra
cecità più della nostra chiaroveggenza.E' per mezzo della nostra ignoranza più che della
nostra scienza che siamo sapienti di questo divino sapere.
(Saggi, 11, 12)
Alla rinunzia al vero da parte della ragione e alla acritica e quasi mistica accettazione della
religione si affianca il conservatorismo politico e sociale. Come di fronte alla varietà delle
diverse teorie e dei differenti costumi l'atteggiamento più saggio è la tolleranza nei
confronti di quanti praticano costumi diversi dai nostri, così tra le innumerevoli costituzioni
politiche e la gran varietà di leggi esistenti nei diversi paesi, ciò che
la nostra ragione ci consiglia a tal proposito di più verosimile è che in genere ciascuno
obbedisca alle leggi del proprio paese.
(Saggi, 11, 12)
Scetticismo, fideismo e conservatorismo sono, perciò, tre atteggiamenti convergenti ed
utilizzabili come strumenti per il conseguimento dello stesso obiettivo. Gli eventi culturali e
politici degli ultimi cento anni avevano messo in crisi tutti i valori che fino a quel momento
erano riusciti a conservare una parvenza di universalità. Di fronte alla caduta delle
certezze filosofiche e scientifiche, alla destituzione del fondamento assoluto della morale e
della stessa politica viene meno ogni fiducia nell'impegno dell'uomo per la realizzazione di
valori comunitari e affiora sempre più prepotentemente l'individualismo. Il fine cui è
indirizzato tutto il discorso di Montaigne va individuato, infatti, proprio nella conquista e
nella conservazione di uno stato di serenità e di libertà personale al quale ogni uomo deve
aderire:
tutta la mia piccola prudenza in queste guerre civili in mezzo alle quali oggi ci troviamo,
s'industria a far sì che esse non mi impediscano la libertà di andare e venire. (Saggi, III,
12)
All'uomo celebrato come un dio, tutto proteso a realizzare in collaborazione con gli altri i
valori più belli dello spirito, lo scetticismo di Montaigne sostituisce l'individuo, il singolo,
chiuso nel suo "retrobottega privato", impegnato a realizzare una vita priva di
preoccupazioni e di affanni, una vita serena e tranquilla, depurata da tutti gli inconvenienti
derivanti dall'ambizione e dall'impegno politico:
Invero, o la ragione si fa beffe di noi, o non deve mirare che alla nostra soddisfazione, e
tutto il suo sforzo deve tendere in conclusione a farci vivere bene e a nostro agio. (Saggi,
I, 20)
All'indagine metafisica sull'uomo in generale si sostituisce l'esame psicologico,
l'introspezione, l'autoesame, anche se non manca la consapevolezza delle difficoltà che si
incontrano quando si vuole scandagliare la psiche umana:
E' un'impresa spinosa, e più di quanto sembri, seguire un andamento così vagabondo
come quello del nostro spirito; penetrare le profondità opache delle sue pieghe interne;
scegliere e fissare tanti minimi aspetti dei suoi modi.
(Saggi, II, 6)
Individualismo e analisi introspettiva sono i valori nuovi che emergono dalla critica al
sapere assoluto, alle certezze della ragione.
Lo stesso ideale di saggezza pratica fondato sulla corrosione scettica delle impennate
orgogliose dell'ottimismo, rinascimentale è rinvenibile nell'opera Della Saggezza di Pietro
Charron (1541-1603) amico e seguace di Montaigne. Lo scetticismo di Charron si carica,
però, di una valenza politica conservatrice più pronunciata e si lega maggiormente a quel
movimento politico-culturale, il libertinismo, che invitava il saggio ad essere esternamente
ligio ed ossequiente agli ordinamenti civili e religiosi esistenti, ed internamente libero di
pensare con la più ampia spregiudicatezza.
Pure in Charron lo sbocco della critica scettica è l'individualismo. L'unica esperienza valida
è quella che l'uomo fa di se stesso: "la vera scienza e il vero studio dell'uomo, è l'uomo".
Uno scetticismo che non rinuncia all'indagine e alla ricerca continua caratterizza l'opera di
Francesco Sanchez (1552-1632), Quod nihil scitur. Sanchez inizialmente utilizza lo
scetticismo come strumento per la ricerca di un metodo capace di condurre l'uomo al vero
sapere. Dopo una serrata critica alla sillogistica scolastica, conclude con la convinzione che
l'uomo nulla sa e nulla può sapere. Ma l'amarezza della conclusione non gli suggerisce un
atteggiamento di rinuncia alla ricerca, ma lo sollecita ad un'indagine continua capace di far
costatare in maniera concreta la debolezza dell'umana ragione e l'impossibilità di giungere
a un sapere universale.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Maghi e scienziati
A confermare l'immagine della cultura rinascimentale come cultura composita e complessa
contribuisce non poco l' esame dell'intricato rapporto tra scienze occulte e scienze della
natura. Accanto ad aspetti e tematiche che, per la loro affinità alle problematiche
moderne, si presentano del più vivo interesse, convivono nel Rinascimento motivi e spunti
culturali che sembrano a prima
vista retaggio di un'epoca oscura, animata da inquietanti fantasmi. Alle scienze occulte
arrise una grande fortuna per tutta la durata dell'età rinascimentale. Fortuna che fu
decretata non soltanto dall'interesse che il popolo minuto nutrì per la predizione del
futuro, per la formulazione degli oroscopi, o per le pratiche magiche, ma anche dalla
partecipazione attiva all'esercizio dell'astrologia, della magia e dell'alchimia di filosofi
illustri, di scienziati di fama, nonché di politici e di esponenti dell'alta gerarchia
ecclesiastica.
Nella comprensione di un'epoca così ricca, composta di molteplici e contrastanti aspetti,
com'è il Rinascimento, è ben difficile individuare un solo nucleo problematico ed
accreditarlo come caratteristica emblematica di quell'età. E neppure si può indicare un
solo atteggiamento come l'autentico rappresentante dello spirito nuovo che permea questo
mondo e considerare tutto il resto come continuazione o residuo di una mentalità in via di
superamento. Le spinte innovative che agitano quest'età sono così energiche e penetranti
che, anche se astrologi, alchimisti e maghi del '400 e del '500 si richiamano a remote
autorità o praticano antichi riti, agiscono sempre nell'ambito speculativo della nuova
temperie culturale.
Ogni qualvolta si opera il tentativo di staccare dal contesto complessivo alcuni aspetti della
cultura rinascimentale per indicarli come genuinamente moderni in contrapposizione ad
altri considerati ancora tenacemente legati alla tradizione medioevale, ci si accorge della
impossibilità di tracciare una linea divisoria che proceda a separare rigorosamente gli
scienziati dagli occultisti. Nelle elaborazioni dei primi sono sempre presenti motivi
teologici, giustificazioni religiose e, non poche volte, allusioni magiche. Nelle pratiche dei
secondi continuamente balza in primo piano una metodologia che riserva molta attenzione
alla matematica e al procedimento sperimentale, come pure risalta una visione unitaria
dell'universo del tutto simile a quella che è alla base della nuova scienza.
Il Rinascimento aveva ereditato dal mondo classico una rigorosa concezione cosmologica
secondo cui ogni parte dell'universo era ritenuta strutturalmente connessa con le restanti
parti; aveva ereditato, cioè, una visione del cosmo come un tutto unitario, ben ordinato e
definito, nell'ambito del quale niente avveniva a caso o per arbitrio di una divinità.
La simpatia che univa le parti di questo cosmo, come le membra di un grande animale
vivente, era la condizione di fondo per giustificare predizioni astrologiche, pratiche
magiche ed alchemiche, come rappresentava anche il motivo giustificativo del misticismo
naturalistico considerante la natura animata in ogni sua parte. In questa concezione
unitaria dei tutto persisteva con una certa insistenza la considerazione degli astri come
esseri divini, capaci di influenzare gli eventi mondani.
Il medioevo cattolico aveva combattuto contro l'astrologia una vigorosa battaglia a colpi di
processi e di anatemi. La polemica medioevale contro l'astrologia puntava, in effetti, a
combattere una visione dell'universo causalisticamente determinata, nell'ambito della
quale non poteva trovare posto il miracolo inteso come inserimento eccezionale e
taumaturgico della potenza soprannaturale di Dio nel corso degli eventi naturali. Come
pure intendeva difendere la libera iniziativa e, con essa, la responsabilità morale
dell'uomo. L'astrologia che filosofi e scienziati del Rinascimento accettarono era già filtrata
attraverso la critica dei teologi della patristica e della scolastica. Era, cioè, una forma di
astrologia liberata da tutte le contaminazioni occultistiche e diaboliche che avevano
contribuito alla formazione dell'immagine dell'astrologo come di un uomo alleato del
diavolo e dedito alle pratiche illecite inteso a scatenare gli spiriti maligni dell'universo.
L'impegno di questi filosofi e di questi scienziati a continuare la polemica contro la magia
diabolica assume il chiaro significato di una battaglia contro tutti quegli elementi che
risultassero estranei all'autosufficienza ed all'ordine causalistico dell'Universo. In definitiva
i rinascimentali, mentre dal modello aristotelico avevano accettato la visione di un
universo unitario regolato all'interno da una rigorosa causalità e nel cui ambito non c'era
posto per eventi arbitrari ed irrazionali, dal modello medioevale, invece, avevano accolto
l'istanza della libertà dell'uomo. Istanza che, liberando l'uomo dalla soggezione
necessariamente passiva nei confronti delle forze astrali, gli riconosceva autonomia
operativa e responsabilità morale. Da questo quadro culturale emerge una figura di
astrologo e di mago
completamente diversa da quella tradizionale: mentre l'astrologo classico intendeva
cogliere con la sua divinazione una serie di eventi necessari ed immodificabili, espressione
di un ciclo conchiuso la cui accettazione era necessaria ed ineludibile, l'astrologo ed il
mago rinascimentali intendono conoscere la struttura del tutto, le forze simpatetiche
agenti all'interno dell'universo per cogliere le circostanze, il complesso di possibilità in cui
l'azione umana deve inserirsi per avere esito positivo. Proprio questo aspetto pratico
consentì all'astrologia di avere un forte peso nella vita politica e civile, nelle attività
quotidiane, nelle scelte di principi e di papi e nell'ispirazione di artisti e letterati. MICHELE
NOSTRADAMUS (1503-1566) con le sue profezie influenzò la politica della regina di
Francia Caterina dei Medici; il papa Leone X istituì una cattedra di astrologia alla Pontificia
Università di Roma; il papa Paolo III concesse il cappello cardinalizio al suo astrologo di
fiducia.
L'alchimia, a sua volta, tenta di ripercorrere a ritroso il processo evolutivo della natura
tentando di risalire all'origine della vita. La meta finale a cui essa mira è la scoperta della
"pietra filosofale" capace di trasformare ogni metallo in oro, confermando così l'assunto
della unicità della materia originaria, e capace anche di ricondurre alla originaria sanità
l'organismo malato. Non pochi procedimenti pratici dell'alchimia favorirono lo sviluppo
della medicina e di tecniche che segneranno la nascita della chimica moderna. Il più
illustre rappresentante dell'alchimia rinascimentale, Teofrasto Paracelso (1493-1541),
esercitò la medicina intesa come arte di guarire le anime ed i corpi. Convinto assertore
della corrispondenza tra l'uomo, microcosmo, ed il mondo, macrocosmo, Paracelso ritiene
che il medico debba scoprire le connessioni segrete che uniscono l'uomo al mondo per
intervenire con la sua opera e con i suoi farmaci. La sua teoria dei tre elementi, zolfo,
mercurio e sale, dalla cui combinazione quantitativamente variata derivano tutte le altre
sostanze, contribuisce non poco alla nascita della chimica farmaceutica. Molte proprietà
terapeutiche di minerali e di veleni furono scoperte grazie alla pratica alchemica di
Paracelso. Un'attenta osservazione e la intelligente interpretazione richieste dalle
procedure alchemiche inducono Paracelso ad elaborare una metodologia che, nel mentre
difende i diritti dell'immaginazione, non trascura di riconoscere come momenti positivi
l'esperienza e la teoria (experimentum ac ratio) fornendo così una utile indicazione alla
nascente scienza sperimentale.
Nell'ambito della stessa concezione unitaria ed articolata del cosmo si inserisce anche la
magia. L'universo animato, con la sua fitta rete di corrispondenze, di simpatie ed
antipatie, possiede in sé infinite possibilità di realizzazione, le quali rimangono latenti
finché l'azione dell'uomo non le attualizza. L'opera dell'uomo, risulta, in tal modo,
indispensabile. L'uomo, attraverso la sollecitazione di alcune forze, l'arresto di altre, la
combinazione di altre ancora, realizza il suo dominio sulla natura. L'operazione del mago,
consiste, allora, nel controllo e nella direzione di forze puramente naturali. A seconda che
le forze da padroneggiare siano intese come forze demoniache o forze fisiche vitali, la
magia si distingue in cerimoniale o naturale. La prima, respinta da tutti gli uomini colti,
rimane appannaggio di pochi adepti che continuano le pratiche teurgiche ereditate dal
passato; la seconda, invece, ottiene risultati sorprendenti operando sulle forze dinamiche
della natura e prelude alla fisica moderna. Il mago, in questo secondo significato, l'unico
che ci interessa in questa sede, è egli stesso un filosofo naturale, un indagatore dei misteri
della natura, un ricercatore delle leggi fisiche e dei rapporti esistenti tra le varie parti
dell'universo. Il miracolo operato dal mago non è mai il frutto di un intervento
straordinario, eccezionale, fuori dalla logica naturale o contro le leggi razionali che
regolano l'universo. Uno dei più illustri occultisti rinascimentali, Cornelio Agrippa di
Nettesheim (1486-1535), sostiene:
I maghi attentissimi indagatori della natura, dirigendo ciò che dalla natura era stato già
preparato ed applicando le forze attive agli elementi passivi, molto spesso producono
prima del tempo un effetto già predisposto dalla natura: il che appare ai più come
miracolo, mentre è invece un fatto naturale, semplicemente anticipato nel tempo.
(Opere, Lione s.d., vol. II, pag. 90)
Nell'opera più famosa di questo mago, considerato una specie di dottor Faust della sua
epoca, il De occulta philosophia, accanto a ricette per l'elisir d'amore, a formule per
allontanare i fulmini e gli eserciti nemici, troviamo l'esaltazione chiara ed esplicita della
funzione della matematica nella conoscenza della realtà:
le scienze matematiche sono tanto necessarie alla magia e tanto strettamente connesse
ad essa che chi si dedica a queste prescindendo da quelle si svia completamente... Infatti
tutto ciò che si trova e diviene in questo mondo per virtù naturale, diviene e si governa
secondo numero, peso, misura, armonia, movimento e luce; e qui si trova la radice e il
fondamento di tutto ciò che vediamo in questo mondo.
(ibidem, vol. I, pag. 153)
Per mezzo della matematica, prescindendo dalle " virtù naturali ", è possibile produrre
effetti simili a quelli naturali,
come ad esempio corpi che si muovono o parlano, pur essendo inanimati.
(ibidem, vol. II, pag. 91)
La figura del mago-scienziato assume addirittura contorni ben definiti e circostanziati
attraverso l'elencazione delle scienze che concorrono alla realizzazione degli effetti "
miracolosi " dell'opera magica:
che cosa vi è dunque di strano nel fatto che il mago esperto di filosofia naturale e di
matematica, il quale conosca le scienze intermedie che ne derivano (come l'aritmetica, la
musica, la geometria, l'ottica e l'astronomia), scienze che si fondano sui pesi, sulle misure,
sulle proporzioni, sulle suddivisioni e sulle connessioni, il quale conosca anche la
meccanica e le arti che ne derivano, possa compiere molte opere meravigliose, capaci di
stupire anche i più sapienti ed i più dotti, ed emergere così al di sopra degli uomini grazie
alla propria arte ed al proprio ingegno?
(ibidem, vol. I, pag. 154)
Questa definizione di magia naturale trova molto credito nella cultura dell'epoca.
Giovanbattista Della Porta (1535-1615) procede ad separazione netta tra magia lecita e
magia celeste e demoniaca e identifica la prima con la conoscenza, l'azione ed il dominio
sulla natura:
non si creda che [la magia] sia altro che il perfetto compimento della filosofia naturale e la
più elevata delle scienze... Insegna poi a compiere per mezzo degli enti naturali e della
loro reciproca ed opportuna interazione, opere che il volgo ritiene miracoli, in quanto
trascendono l'umana comprensione... Quindi, voi che vi accingete ad esaminarle, non
crediate che le operazioni della magia naturale siano diverse dalla natura stessa, l'arte è
coadiutrice della natura e ad essa serve con zelo.
(Magia naturalis, Anversa 1564, pag. 12)
Questa concezione naturalistica e pratica della magia spinge il Della Porta ad una serie di
indagini di ottica e di matematica coronate da grande successo: la scoperta della camera
oscura, la composizione del principio della trasformazione della forza-vapore in forza
cinetica su cui si basò poi la scoperta della macchina a vapore, sono da ascrivere a suo
merito. La versatilità del suo ingegno gli consentì di scrivere anche commedie
letterariamente valide.
Non va taciuto in questa breve rassegna il nome dei matematico, medico, mago e
astrologo Girolamo Cardano (1501-1576), autore di un De subtilitate e di un De rerum
varietate in cui polemizza vivacemente con l'aristotelismo. Nutrì vasti interessi scientifici e
filosofici e, per quanto impigliato in una serie di convinzioni metafisiche ed animistiche,
avvertì forti esigenze sperimentalistiche i cui risultati furono felicemente utilizzati dalla
scienza immediatamente successiva.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Natura, ragione e arte
Il gusto per l'osservazione e per l'esperimento, che caratterizza la ricerca del mago e
dell'alchimista, assume un significato nuovo nella nascente "mentalità" scientifica. Alla
formazione di questa "mentalità" contribuisce in maniera decisiva il grande fervore
intellettuale di Leonardo da Vinci.
Nato ad Anchiano presso Vinci nel 1452, Leonardo, dopo aver frequentato a Firenze la
"scuola" del Verrocchio, fu al servizio di molti potenti del tempo. Morì in Francia nel 1519.
La versatilità dell'ingegno, gli consentì di operare da maestro in molti campi del sapere
umano: anatomia, disegno, pittura, scultura, geometria, meccanica, ottica, idraulica,
tecnica militare, urbanistica, geologia.
Al di là dell'abilità dell'ingegnere, della bravura del costruttore di macchine militari,
dell'estro e della perizia tecnica del pittore e dello scultore, il motivo filosofico per noi di
più vivo ed attuale interesse è rappresentato dal nucleo metodico che si può ricavare dai
suoi scritti.
Leonardo è convinto sostenitore della razionalità della natura:
la natura è costretta dalla ragione della sua legge, che in lei infusamente vive. Natura non
rompe sua legge.
(G.A.F XI, p. 612)
Una prima generalissima formulazione di questa legge può essere individuata nel principio
della semplicità ed economicità dei processi naturali, in virtù del quale ,
ogni azione naturale è fatta per la via brevissima... è fatta da essa natura nel più breve
modo e tempo che sia possibile.
(G.A.F. XI, p. 611)
Una tale concezione della natura spinge Leonardo a polemizzare con la cultura verbalistica
e retorica che si nega alla sperimentazione fisica, alla pratica tecnica e si sente paga di
rimasticare le dottrine degli antichi maestri. Contro i "trombetti e recitatori delle altrui
opere", Leonardo rivendica il valore dell'esperienza come base e fondamento della
scienza:
Le cose mentali che non sono passate per il senso sono vane, e nulla verità partoriscono
se non dannosa... La sapienza è figliola della sperienzia. Fuggi i precetti di quelli
speculatori che le loro ragioni non sono confermate dalla isperienzia.
(G.A.F. XI, pag. 612)
Ma egli intuisce che la sola esperienza non basta a fondare e a garantire la scienza.
Bisogna unire al senso la ragione. Sulla scia di Cusano, infatti, rivendica l'esistenza di una
corrispondenza tra la struttura della realtà e la struttura della mente umana. Alla
razionalità che "infusamente vive" nella natura, corrisponde la razionalità della mente
umana che si esprime attraverso il calcolo matematico. La via che la scienza deve
percorrere per conseguire risultati soddisfacenti procede, allora, dal senso alla ragione:
Mia intenzione è allegare prima l'esperienza e poi colla ragione dimostrare perché tale
esperienza è costretta in tal modo così da operare, e questa è la vera regola come li
speculatori delli effetti naturali hanno a procedere... cioè cominciando dalla sperienza e
con quella investigare la ragione.
(G.A.F. XI, pag. 613)
Questo rapporto tra esperienza e ragione è reso possibile dalla applicazione della
matematica alla fisica. Contro Aristotele e la Scolastica, che ritenevano matematica e
fisica due scienze autonome non suscettibili di un rapporto diretto, Leonardo, seguendo
Cusano, è convinto che a
nissuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s'essa non passa per le
matematiche dimostrazioni.
(G.A.F. XI, p. 612)
Il punto centrale della metodologia di Leonardo va individuato proprio in questa
rivendicazione del valore scientifico della matematica. Con luminosa chiarezza, egli "omo
sanza lettere", esalta la matematica come chiave interpretativa della realtà:
chi biasima la somma certezza delle matematiche si pasce di confusione, e mai porrà
silenzio alle contraddizioni delle sofistiche scienze, colle quali si impara un eterno gridore.
Nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche, over non
sono unite con esse matematiche. (G.A.F. XI, p. 612)
Una volta compresa la legge come norma razionale regolatrice degli eventi naturali risulta
superfluo continuare ad interrogare l'esperienza:
nessun effetto è in natura senza ragione: intendi la ragione e non ti bisogna esperienza.
(G.A.F. VI, p. 1170)
La conoscenza scientifica così conseguita non ha valore puramente contemplativo, ma
rivela la sua utilità quando, applicata alla tecnica, permette all'uomo di costruire strumenti
che gli consentono di assoggettare la natura e di esaltare la sua potenza. Il desiderio di
dominare la natura con Leonardo si libera dalle pratiche magiche per investire il piano
delle realizzazioni tecniche. La scienza come pura e disinteressata conoscenza della verità
cede il passo alla scienza intesa come teoria da sfruttare per la costruzione di strumenti
atti ad accrescere il potere e la forza dell'uomo; teoria e prassi si intrecciano, in tal modo,
in un rapporto di feconda collaborazione:
La scienza è il capitano e la pratica sono i soldati. Studia prima la scienza e poi seguita la
pratica nata da essa.
(G.A.F. XI, p. 613)
Proprio grazie a questo metodo che esalta "la ragione tratta dalla bona esperienza",
Leonardo può enunciare un primo, anche se imperfetto adombramento del principio di
inerzia:
Ogni moto attende al suo mantenimento - o vero ogni corpo mosso sempre si muove il
mentre che la impressione de la potenzia del suo motore in lui si riserva;
(G.A.F. VI, p. 1205)
può intuire il principio dei vasi comunicanti, affacciare l'ardita ipotesi della possibilità di
costruire macchine per volare, per scendere in caduta libera nell'aria, e scoprire principi e
leggi ancora oggi accettati in molti campi dal sapere scientifico. La stessa intuizione
metodologica che sottende il lavoro dello scienziato, guida l'artista nelle sue magistrali
esecuzioni:
La pittura... siccome la musica e la geometria considerano le proporzioni delle quantità
continue, e l'aritmetica delle discontinue, questa [la pittura] considera tutte le quantità
continue e le qualità delle proporzioni d'ombre e lumi e distanze nella sua prospettiva.
(G.A.F. VI, p. 1179)
Scienza ed arte, in tal modo, più che essere due distinti campi di intervento di un genio
multiforme e poliedrico, si presentano in Leonardo come estrinsecazioni di un solo
principio teorico; la conoscenza scientifica e la riproduzione artistica rispondono alla stessa
intuizione secondo cui tra le parti della natura esistono dei rapporti quantitativi esprimibili
matematicamente.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Matematica e astronomia
Un colpo mortale alla cosmologia aristotelico-tolemaica viene inferto da uno scienziato
polacco formatosi culturalmente nell'ambiente dell'umanesimo neoplatonico: Niccolò
Copernico.
Nato a Thorn in Polonia nel 1473, Copernico condusse a Cracovia studi umanistici,
matematici ed astronomici. Nei dieci anni di permanenza in Italia (1496-1505) seguì
l'insegnamento di valenti maestri nelle più rinomate università italiane: Bologna, Padova,
Ferrara. Attese per lunghi anni alla compilazione della sua opera De revolutionibus orbium
coelestium, pubblicata quando l'autore era sul punto di morte.
La cultura umanistica italiana esercitò qualche influsso nella elaborazione delle linee
metodologiche generali di Copernico.
Quando il giovane scienziato polacco intuisce l'"antieconomicità" e la complessità di un
sistema rivendicante il movimento dei pianeti intorno alla terra e va alla ricerca di
un'ipotesi più semplice, più logica e più congruente, cercherà nel libri degli antichi, come
facevano appunto gli umanisti, soluzioni alternative al geocentrismo imperante:
Per questo mi sono assunto il compito di rileggere le opere di tutti i filosofi, che fossi in
grado di avere, per cercare se qualcuno di loro avesse mai pensato che le sfere
dell'universo potessero muoversi secondo moti diversi da quelli che propongono gli
insegnanti di matematica nelle scuole. Ho trovato pertanto, come primo risultato in
Cicerone che Iceta [di Siracusa, secolo V a.C.]. aveva intuito che la terra si muoveva. Poi
ho trovato in Plutarco che altri [Filolao, V secolo a.C., Eraclide Pontico ed Ecfanto, IV
secolo a.C.] avevano avuto la medesima opinione.
(De revolutionibus, Prefazione)
Partendo da questa ipotesi, trovata nei libri degli antichi, e dall'altra della relatività del
moto, già sostenuta da Cusano (in base alla quale ogni movimento nello spazio può essere
spiegato e giustificato egualmente bene sia che si supponga in moto la cosa osservata sia
che si supponga in moto il soggetto osservante), Copernico opera una rivoluzione
cosmologica la cui portata non si limita al solo ambito scientifico. Si estende infatti anche
al campo filosofico, in quanto ha fornito agli uomini una visione prospettica dell'universo
radicalmente diversa da quella tradizionale. Nonostante i riferimenti a filosofi e a dottrine
filosofiche, Copernico giunge a dimostrare il suo eliocentrismo servendosi esclusivamente
di rigorose dimostrazioni operate col puro calcolo matematico. Facendo leva, infatti, sulle
incongruenze e sulle difficoltà presentate dai calcoli tolemaici, Copernico dimostra come
tali incongruenze e tali difficoltà siano agevolmente superabili quando si sostituisca come
ipotesi fondamentale alla centralità e alla immobilità della terra nell'universo, la centralità
e la immobilità del sole:
Peraltro la maggior parte delle persone autorevoli convengono che la Terra sta in riposo
nel mezzo dell'universo e ritengono impensabile e persino ridicolo il contrario. Se tuttavia
consideriamo la cosa con maggiore attenzione, si vedrà che tale questione non è ancora
definita e quindi niente affatto trascurabile. Infatti ogni apparente variazione di posto è
causata o dal movimento dell'oggetto osservato o dal movimento dell'osservatore oppure
ancora da movimenti ineguali di entrambi. Infatti, se i movimenti fossero uguali e
paralleli, non si avvertirebbe alcun moto fra oggetto e osservatore. Ed è dalla Terra, in
verità, che quella rotazione celeste viene osservata e offerta alla nostra vista. Se pertanto
si concepisce un qualche moto della Terra, questo stesso moto riapparirà in tutto ciò che è
esterno ad essa, diretto tuttavia dalla parte opposta, come se le cose fuggissero al nostro
sguardo: il che vale soprattutto per il moto di rivoluzione quotidiana. Questa infatti
sembra che trascini vorticosamente tutto il mondo, ad eccezione della Terra e delle cose
che sono nel suo intorno. Ammettendo invece che il cielo non riceva nulla da questo moto,
chi considerasse attentamente il fenomeno troverebbe che la Terra sì muove in realtà da
occidente ad oriente, secondo l'apparente corso da oriente ad occidente del Sole, della
Luna e delle stelle. E poiché il cielo è la dimora comune di tutti, in quanto contiene e
nasconde ogni cosa, non si vede perché non si debba attribuire il moto più al contenuto
che al contenente, più al dimorante che alla dimora.
(De revolutionibus, I, 5)
Ma Copernico, "più studioso de la matematica che de la natura " come lo definì Giordano
Bruno, nutriva più interesse per le procedure tecniche della matematica che non per la
filosofia della natura e per la cosmologia. Egli, pago di aver corretto e semplificato i calcoli
dei movimenti celesti e di aver spiegato più fenomeni di quanti non ne spiegasse il sistema
tolemaico, conservò la cornice cosmologica della vecchia teoria: il cielo delle stelle fisse,
considerato immobile, veniva inteso come contenitore di tutte le cose, mentre il problema
filosofico della finitezza o infinitezza dell'universo veniva accantonato (" lasciamo alle
discussioni dei naturalisti se il mondo sia finito o infinito"). Ed inoltre non pochi elementi
della vecchia teoria permanevano nella nuova: la circolarità e la uniformità dei moti
celesti; la teoria degli epicicli (snellita, ma non eliminata), che spiega l'orbita circolare dei
pianeti come movimento intorno ad un centro ideale a sua volta ruotante intorno al centro
del sistema; ed ancora tanti altri.
Ma tutto ciò non sminuisce la portata innovativa, anzi rivoluzionaria, dell'opera
copernicana. Anzitutto va sottolineato, dal punto di vista metodologico, il privilegiamento
del procedimento puramente logico matematico rispetto a quello empirico. Viene
rivendicata, in tal modo, alla mente umana la forza di oltrepassare la barriera "realistica"
rappresentata dalle apparenze sensibili, e le viene riconosciuta la capacità di cogliere il
vero servendosi di una procedura schiettamente razionale. Come pure va ascritto a merito
di Copernico il coraggio di sfidare, in nome della ragione e della
scienza, convinzioni fortemente radicate nell'opinione comune, nella cultura ufficiale e
nella religione dominante.
Ma la veste squisitamente matematica dell'opera e l'andamento spiccatamente tecnicistico
del discorso non favorirono la diffusione dell'opera presso i contemporanei. Ad attutire il
significato rivoluzionario del contenuto del De revolutionibus contribuì la cauta prefazione
al testo, scritta dal teologo protestante tedesco ANDREAS OSIANDER (1498-1552), nella
quale la teoria copernicana viene presentata come ipotesi matematica cui non si chiede né
di essere " vera " e neppure " verisimile", ma solo di " fondare esattamente il calcolo ".
Saranno i filosofi e gli scienziati successivi (Bruno e Galilei) a trarre tutte le conseguenze
implicite nella concezione copernicana e ad estendere la carica rivoluzionaria dal piano
tecnico-scientifico a quello filosofico e morale.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
La macchina del cielo e la fisica celeste
Le critiche all'eliocentrismo dei teologi luterani e cattolici, fermi all'interpretazione letterale
della scrittura, favorirono le prese di posizione contro Copernico anche nell'ambiente
scientifico. Uno dei più lucidi e coerenti difensori del geocentrismo tradizionale, anche se
integrato con elementi nuovi, fu Tycho Brahe (1546 - 1601).
La cosmologia di Tycho prevede la terra al centro dell'universo con il sole e la luna che le
girano intorno. Fin qui il sistema ticonico è di tipo tolemaico. Ma il centro intorno a cui
girano gli altri cinque pianeti è fissato nel sole. In effetti Tycho sviluppava il sistema di
Eraclide Pontico (IV sec. a.C.) che aveva centrato sul sole le orbite di Venere e di
Mercurio. Ma al di là della soluzione cosmologica, intesa probabilmente a conciliare
copernicanesimo e Bibbia, è importante segnalare alcune ardite soluzioni offerte da Tycho
ai fenomeni celesti, soluzioni che valsero a dare un ulteriore scossone alla cosmologia
aristotelico-tolemaica.
Contro la teoria aristotelica della invariabilità dei cieli, l'astronomo danese spiegò il
fenomeno luminoso comparso nel cielo nel novembre 1572 come la comparsa di una
nuova stella. Dalla costatazione che le orbite di Marte e del Sole si intersecano, deduceva
che i due pianeti non potevano essere trasportati come voleva Aristotele, da sfere solide e
cristalline:
La macchina del cielo non è un corpo duro ed impenetrabile pieno di diverse sfere reali,
come fin'ora è stato creduto dalla maggior parte degli uomini. Si proverà che esso si
estende dappertutto, fluido e semplice, e non presenta in nessun luogo gli ostacoli che
prima si credeva.
(Sui più recenti fenomeni del mondo etereo, X, citato da D. REI, La rivoluzione scientifica
Torino 1976, p. 49)
Notevoli sono, inoltre, le osservazioni e le spiegazioni dei movimenti delle comete, come la
forma dell'orbita che queste descrivono intorno al sole. Forma che per Tycho è "in un certo
modo oblunga, come nella figura comunemente detta ovoide". Come pure straordinaria è
la accuratezza e la precisione delle misurazioni che Tycho operava ad occhio nudo e con
l'aiuto di un semplice quadrante murale.
Molte delle intuizioni e delle osservazioni di Tycho trovarono più attenta giustificazione e
più articolato sviluppo nell'opera dell'astronomo tedesco Giovanni Keplero (1571-1630).
Studiò a Tubinga con l'astronomo Michael Maestlin, dal quale fu iniziato alla conoscenza
del copernicanesimo. Cacciato per il suo protestantesimo da Tubinga divenne assistente a
Praga dì Tycho Brahe al quale succedette come astronomo ufficiale dell'imperatore Rodolfo
II.
Keplero fu convinto copernicano ed esaltò la visione eliocentrica con accenti talvolta lirici,
ricavati dalla cultura neoplatonica alla quale rimase fortemente legato per tutta la sua
vita. Nel 1596 pubblica il Mistero cosmologico nel quale, pur riprendendo le stesse
argomentazioni di Copernico, criticava alcuni procedimenti matematici seguiti dal grande
astronomo polacco per la sostanziale affinità di essi con quelli di Tolomeo.
L'attenzione di Keplero si appuntò sul moto di Marte, la cui irregolarità. non era stata
esaurientemente spiegata né da Tolomeo, da Copernico, né da Tycho. Keplero intuì che
teoria matematica ed osservazione empirica potevano concordare solo nel caso si
ipotizzasse il movimento dei pianeti secondo orbite non più circolari, ma ellittiche. I
risultati di queste ricerche furono annunciati nella Nuova astronomia o fisica celeste nel
1609, e furono espressi nelle e due leggi sui movimenti dei pianeti: 1) i pianeti si
muovono in orbite ellittiche ed il sole occupa uno dei fuochi dell'orbita stessa; 2) il raggio
vettore condotto dal sole al pianeta descrive aree uguali in tempi uguali.
Con la formulazione di tali leggi il problema dei pianeti che aveva angustiato tutti gli
astronomi era finalmente risolto, e ciò che più conta in un universo dì tipo copernicano.
Nonostante permangano ancora nella visione kepleriana dell'universo motivi finalistici e
metafisici, ereditati dal pitagorismo e dal platonismo, "la fisica celeste" si è liberata da
molti elementi teologici; e, attraverso la trascrizione in termini matematici dei fenomeni
celesti, ha conseguito la stessa scientificità della fisica terrestre. La soluzione offerta al
movimento dei pianeti faceva realizzare un salto di qualità di notevole valore scientifico
all'astronomia. All'animismo antico e medioevale, affermante che i pianeti erano contenuti
in sfere che a loro volta erano mosse da intelligenze motrici, e al convenzionalismo
dell'astronomia matematica, considerante le sfere celesti pure e semplici ipotesi senza
alcuna realtà fisica, Keplero sostituiva una visione che, insistendo sul carattere "realistico "
dell'astronomia copernicana, affermava l'esistenza nell'universo di un ordine razionale la
cui struttura è conoscibile dalla mente umana.
Il rapporto tra i corpi celesti e, più specificamente, il rapporto tra i pianeti ed il sole
perdeva ogni connotazione animistica e veniva spiegato con il ricorso alle sole forze
fisiche. Fatta propria l'intuizione del medico inglese William Gilbert che aveva sostenuto
(De magnete, 1600) la natura magnetica della terra, Keplero la estese a tutti i pianeti di
modo che il sistema complessivo dei movimenti celesti risultava il frutto di una forza
magnetica direttamente proporzionale alle masse dei corpi celesti:
Attraverso dimostrazioni molto laboriose e servendomi dei risultati di moltissime
osservazioni giunsi finalmente a stabilire che la traiettoria del pianeta in cielo non è
circolare, ma è una traiettoria ovale, perfettamente ellittica. La geometria insegna che una
tale traiettoria viene descritta se si assegna ai motori propri dei pianeti la funzione di fare
oscillare il loro corpo lungo la linea retta che termina nel sole... La mia opera terminò
quando dimostrai che tale oscillazione è solita essere prodotta da una facoltà magnetica
corporea. In tal modo i motori propri dei pianeti mostrano in modo probabile di essere
delle affezioni degli stessi corpi planetari, simili a quella (affezione) che è nel magnete,
che tende verso il polo ed attrae il ferro. In tal modo tutto il sistema dei movimenti celesti
è governato da facoltà meramente corporee ossia magnetiche, esclusa la sola rotazione
del sole, ruotante permanentemente su se stesso, per spiegare la quale sembra
necessaria la forza proveniente da un'anima.
(cit. da P. A. GIUSTINI, Da Leonardo a Leibniz, Milano s.d., p. 104)
In tal modo veniva spiegato il rapporto tra il moto e le orbite di tutti i pianeti e veniva
formulata nell'Harmonices mundi (1618) la terza legge sul movimento dei pianeti, secondo
la quale i quadrati dei tempi delle rivoluzioni dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle
loro distanze medie dal sole.
Ma se il movimento dei pianeti può essere spiegato con la forza di attrazione magnetica,
quello del sole su se stesso a Keplero sembra possa essere spiegato solo facendo ricorso
ad una forza di natura spirituale. Il vecchio animismo contro cui Keplero aveva combattuto
battaglie vittoriose, sembra sedurre ancora l'astronomo e sembra risvegliare in lui l'antica
fede neoplatonica. Ed è ancora sotto l'influsso della seduzione neoplatonica rinascimentale
che Keplero difende il principio dell'antropocentrismo:
Tuttavia non sarò reticente sugli argomenti scientifici che mi sembrano possano addursi
per dimostrare non soltanto in generale.. che questo sistema di pianeti, in uno dei quali ci
troviamo noi uomini si trova nel luogo principale dell'universo, intorno al cuore
dell'universo, che è appunto il sole; ma anche in particolare che noi uomini ci troviamo su
quel globo che del tutto si addice alla creatura più importante e più nobile tra le corporee.
( GIUSTINI, cit. p. 105)
Come pure è la sua tenace fede in un universo finito e chiuso che gli farà avversare alcune
scoperte galileiane, temendo che queste comportino conseguenzialmente lo slargamento
all'infinito dell'universo.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Matematica, fisica e medicina
Accanto a queste figure di insigni e famosi scienziati, che con loro opere avevano infranto i vecchi schemi mentali ed avevano modificato la tradizionale immagine del mondo, nel Rinascimento opera una fitta schiera di studiosi e di operatori tecnici che segnano significativi progressi nei campi delle singole scienze e delle applicazioni tecnologiche. La frenetica attività produttiva, l'intensificarsi del commercio, l'esigenza di armi sempre più perfezionate il gusto per la vita comoda e civile, in una parola tutte le attività collegate all'ascesa della nuova classe sociale, la borghesia, esigevano la soluzione di problemi tecnici e scientifici sempre più complessi e difficili. Nelle botteghe artigianali, nei cantieri navali, nelle officine e in tutti gli altri luoghi di lavoro si affina lo spirito di osservazione e, nella pratica operativa, si unisce alla tecnica, intesa come sapere pratico, la scienza, intesa come consapevolezza teorica. L'arcaica distinzione tra conoscenza intellettuale e pratica meccanica viene sempre più attenuandosi. L'una risultava funzionale all' altra e da questa veniva sollecitata e stimolata. Non poche volte nella stessa persona convergevano forti interessi scientifici e buone capacità operative: il geometra, il fisico, l'alchimista collaborano per costruire macchine capaci di alleviare il peso del lavoro umano, di migliorare le strutture difensive e di approntare una macchina bellica o macchine utili per il trasporto e la commercializzazione delle merci. Questo fervore dì opere, ovviamente, provoca un grande progresso in ogni campo dell'attività umana, imprime una forte accelrazione alla, ricerca scientifica e alle applicazioni tecnologiche, suscita il rinnovamento di molte scienze e l'emergenza e l'affermazione di altre. Al metodo sillogistico che tutto deduceva da presunte verità universali si va sostituendo con crescente successo il metodo matematico sperimentale, che tutto calcola e misura. Si fa sempre più strada la convinzione che la struttura della mente umana corrisponde a quella della natura e che il processo conoscitivo deve servirsi della matematica. Tutto questo interesse incentrato sulla matematica, ovviamente, produce una considerevole fioritura di questi studi, anche per le applicazioni pratiche che i loro risultati trovano nell'astronomia e nella meccanica. La passione per la cultura antica orientò l'interesse di molti matematici rinascimentali verso i "classici". Furono messe in circolazione buone edizioni e traduzioni delle opere di Euclide, di Archimede e di Diofanto. Un impulso notevole all'approfondimento e alla diffusione dell'algebra venne dall'opera del
francescano LUCA PACIOLI di San Sepolcro (1445-1514), Summa de arithmetica, geometria, proportioni et proportionalità (1494). Il Pacioli, che per un certo periodo aveva insegnato matematica ai figli di un ricco mercante veneziano, si era reso conto della grande importanza dell'uso della matematica nel commercio. Una delle quattro sezioni della Summa è, infatti, dedicata alle registrazioni a partita doppia; le altre sezioni si riferiscono all'aritmetica, all'algebra e alla geometria euclidea. Ma il primo significativo contributo all'algebra si deve a SCIPIONE DAL FERRO (1465-1526) che trovò la soluzione dell'equazione di terzo grado, a NICOLA FONTANA, detto TARTAGLIA (1500 circa 1557) che era arrivato alle stesse soluzioni, ma indipendentemente da Scipione dal Ferro. L'equazione di quarto grado fu risolta da LUDOVICO FERRARI (1522-1565). Altro algebrista di talento fu RAFFAELE BOMBELLI (1526 circa 1573) che, oltre a risolvere equazioni di terzo e quarto grado, introdusse i numeri immaginari nell'algebra. La prima ideazione del simbolismo algebrico moderno fu opera del francese FRANCESCO VIÈTE (1540-1603). Per elevarsi ad un grado maggiore di astrattezza e mostrare con maggiore chiarezza ed evidenza la costante di alcune proprietà al di là del variare dei numeri, Viète sostituì ai numeri le lettere. Un contributo notevole Viète lo diede anche allo studio della geometria, tanto da essere annoverato tra i precursori della geometria analitica di Cartesio. Importanti opere furono scritte anche nel campo più specifico della trigonometria. Sono da ricordare gli studi del viennese GIORGIO VON PEUERBACH (1423-1461), quelli del suo discepolo GIOVANNI MÜLLER, detto REGIOMONTANO (1463-1476) e dell'italiano FRANCESCO MAURÒLICO (1494-1575). L'esigenza pratica di semplificare il calcolo delle potenze e delle radici favorì la scoperta dei logaritmi. A tale scoperta giunsero, quasi contemporaneamente, e l'uno indipendentemente dall'altro, lo scozzese JOHN NAPIER (1550-1617) e lo svizzero JOBST BURGI (1552-1632). Addirittura rivoluzionarie si rivelano le intuizioni e le scoperte nel campo della fisica. Alla fisica speculativa di Aristotele e degli scolastici e agli esiti metafisici di essa, i rinascimentali opposero una scienza che utilizzava esclusivamente la sperimentazione ed il calcolo matematico: la meccanica. L'emergere della nuova fisica fu determinata anche dalla esigenza di risolvere una serie di problemi tecnici. La meccanica, infatti, era indispensabile per la soluzione di importanti problemi pratici. Alcuni risultati delle applicazioni tecnologiche di questa scienza li abbiamo già visti nell'opera di Leonardo. Segnaliamo qui soltanto altri due nomi, quello dell'inglese GUGLIELMO GILBERT (1540-1603) e quello dell'italiano GUIDUBALDO DEL MONTE (1545-1607). Il primo con i suoi studi diede un notevole impulso alle ricerche sulla gravità, sul magnetismo, sulla elettricità. Il secondo contribuì in modo efficace allo sviluppo della meccanica evidenziandone le implicazioni tecnologiche e pratiche. Nel campo della chimica e della mineralogia, oltre agli studi ricordati di
Paracelso, vanno menzionate le ricerche del senese VANNUCCIO BIRINGUCCIO (1480-1539) e del tedesco GIORGIO BAUER, detto AGRICOLA (1494-1555), che nel De re metallica espose i procedimenti per estrarre metalli e minerali, per distaccarli e depurarli e descrisse il procedimento per la preparazione del vetro. Gli studiosi rinascimentali, sfidando il divieto di dissezionare cadaveri, fornirono un valido contributo anche alle scienze mediche e soprattutto all'anatomia. In questo campo si segnalò BARTOLOMEO EUSTACHIO, che scoprì le vene coronarie e la tromba dell'orecchio che porta ancora il suo nome. Ma il più grande medico rinascimentale fu Andrea Vesalio (1514-1564). Nel monumentale trattato di anatomia, De humani corporis fabrica, pubblicato nel 1543, Vesalio si vanta di essere il primo, a partire da Galeno, ad aver fatto un passo avanti nella scienza anatomica, perché da Galeno aveva appreso, più che i contenuti dell'anatomia, il metodo per essere ricercatore autonomo ed indipendente. Infatti, abbandonato il testo galenico, Vesalio descrive il corpo umano servendosi dell'osservazione diretta. Sulla scia di Vesalio si mosse una folta schiera di anatomisti. Vanno qui ricordati GABRIELE FALLOPPIO (1523-1562) che, studiando l'apparato genitale femminile, scoprì le trombe dette appunto falloppiane, e COSTANZO VAROLIO (1543-1575) che, sezionando con metodo nuovo il cervello, scoprì il "ponte" che unisce il cervello, il cervelletto e il midollo allungato. Una folta schiera di medici studiò il cuore e fece scoperte importanti sulla circolazione del sangue. Ricordiamo MATTEO REALDO COLOMBO (1520-1559), ANDREA CESALPINO (1519-1603) e soprattutto GUGLIELMO HARVEY (1573-1658), il quale completò e diffuse la scoperta.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
La natura e i suoi principi
La rigogliosa fioritura delle scienze specialistiche e delle conseuenti applicazioni
tecnologiche nel mentre segnò un poderoso incremento delle ricerche particolari ed un
significativo sviluppo della tecnica artigianale, non per questo determinò la caduta di
interesse per la visione globale del sapere, né fece venir meno il desiderio di
un'interpretazione unitaria e complessiva del reale.
Accanto al pensiero scientifico, indagatore e sperimentatore di parti limitate della realtà, si
afferma con vigore il pensiero filosofico. Filosofia e scienza, anzi, si intrecciano e si
condizionano reciprocamente: una diversa visione generale del reale produce ed
incoraggia un nuovo metodo di indagine ed, in definitiva, una diversa scienza. Come pure
una più puntuale ed attenta ricerca scientifica, con un diverso metodo di ricerca, alimenta
ed in definitiva determina una nuova filosofia. Non poche volte, abbiamo già visto, ansie
filosofiche ed esigenze scientifiche sono compresenti nello stesso studioso.
Filosofia, scienza e tecnica rinascimentali, pur tra incertezze ed esitazioni, pur con
ondeggiamenti tra "vecchio" e "nuovo", segnano una svolta significativa nella cultura
umana e contribuiscono alla formazione di quella nuova concezione dell'uomo e della
natura che sta alla base del sapere moderno.
L'esigenza fondamentale cui tentano di offrire una risposta i filosofi naturalisti, pur tra
molte incertezze, è il superamento della concezione del mondo come realtà inerte e
passiva, mossa dall'esterno da un ente trascendente che si pone quale fondamento primo
e fine ultimo del movimento e della vita.
Un tentativo di spiegazione dei fenomeni senza far ricorso a cause esterne ai fenomeni
stessi trovava il suo punto di partenza nella critica alla filosofia della natura di Aristotele.
Proprio dalla individuazione di un contrasto interno alla dottrina aristotelica iniziava un
vivace dibattito sulla natura e sui principi del divenire dei fenomeni.
Aristotele, infatti, mentre da un lato sostiene che le "forme " delle cose naturali sono
immanenti alle cose stesse e che il divenire è la realizzazione di queste forme immanenti,
dall'altro lato arriva alla conclusione che fuori dal mondo ed indipendentemente da esso
esiste un Dio, primo motore, il quale, pur essendo immobile, attira a sé tutto l'Universo,
come la calamita attira gli oggetti di metallo; a questo "motore immobile " farebbe capo
tutta la catena dei movimenti. Chiaramente con la postulazione di un Dio trascendente,
causa e fine del movimento, il mondo perde ogni autonomia ed ogni autosufficienza. Il
problema che si pone ai filosofi naturalisti del Rinascimento è allora il seguente: il
mutamento degli esseri naturali è causato da principi interni o da principi esterni agli
esseri stessi? Il mondo dipende da un Dio trascendente che si pone come fine ultimo di
ogni divenire, o vive la sua vicenda di continua trasformazione in virtù di principi ad esso
stesso? In una parola, il problema centrale che impegna la riflessione dei naturalisti
rinascimentali è il rapporto tra Dio e il mondo e riguarda il problema della autonomia e
dell'autosufficienza della natura.
Il primo ad affrontare con matura consapevolezza critica lo studio, del1a natura
servendosi esclusivamente dei principi ad essa immanenti fu Bernardino Telesio.
Bernardino Telesio nacque a Cosenza intorno al 1509. Dopo una prima educazione di tipo
umanistico si trasferì a Padova dove, dal 1527 al 1535, si applicò con grande zelo allo
studio della matematica ed alle ricerche naturalistiche. Peregrinò attraverso molte città
italiane: Roma, Bologna, Napoli, Cosenza. Nel 1565 pubblicò, in due libri, la sua più
famosa opera, De rerum natura iuxta propria principia. Nel 1570 la ristampò
aggiungendovi tre opere minori, De his quae aëre fiunt, De mari, De colorum generatione.
Nel 1586 pubblicò, a Napoli, l'edizione definitiva del De rerum natura in nove libri. Oltre
alle opere citate, Telesio fu autore di numerosi altri studi sui terremoti, sulle comete, sulla
respirazione, sui sapori, sul sonno, sul fulmine, tutti di argomento scientifico. Morì a
Cosenza nel 1587.
L'obiettivo principale a cui punta la riflessione telesiana è la liberazione delle menti da ogni
condizionamento e da ogni autorità per tentare di pervenire ad una visione della natura
che sia frutto di un'analisi attenta e diretta dei fenomeni ed aliena da ogni suggestione
aprioristica e teologica.
Un tale programma, indirizzato come suona lo stesso titolo dell'opera alla comprensione
della natura secondo principi insiti nella natura stessa, porta Telesio ad assumere una
posizione di vivace opposizione agli aristotelici e a tutti quel filosofi che nello studio dei
fenomeni sostituivano ai sensi la ragione. Essi,
troppo confidando in se stessi, e non guardando mai - ciò che si doveva invece fare - le
cose stesse e le loro forze, hanno inserito ed incluso [nel quadro delle] cose quella
grandezza, quella intelligenza e quella facoltà delle quali le cose a noi sembrano dotate…In
tal modo attribuivano ai corpi, dei quali sembra essere fatto il mondo, non la grandezza o
la posizione che mostrano per sé d'avere, né la dignità o le forze delle quali sembrano
forniti, ma piuttosto quei caratteri che il loro ragionamento presumevano ad essi
necessari.
(De rerum natura, Proemio)
Il tentativo di comprensione della realtà deve rifuggire dall'intellettualismo astratto che
induce molti a forgiarsi " quasi un mondo a loro arbitrio ", e deve affidarsi a ciò che i sensi
attestano e la stessa natura mostra:
In verità noi abbiamo seguito il senso e la natura (e null'altro che questo) la quale,
perpetuamente concorde con se stessa, è sempre la medesima e sempre agisce nel
medesimo modo ed opera sempre il medesimo.
(ivi)
Ora la natura ci rivela che il movimento, come forza produttrice di vita, non deriva da
principi metafisici quali 'la forma', ' l'atto ', 'la potenza', ma più semplicemente dal
contrasto tra due forze immanenti alla natura stessa: il caldo ed il freddo. Questi due
principi naturali, aventi la sede rispettivamente nel sole e nella terra, per essere incorporei
penetrano nell'intimo di ogni cosa e la animano con il loro contrasto. Ma non potendosi
percepire alcuna azione
del freddo o del caldo, che possa sembrare emessa dal puro calore o dal puro freddo
senza che essi ineriscano ad alcuna massa corporea, occorre di necessità [attribuire alla]
costituzione degli enti di natura, di cui noi andiamo indagando i principi e la natura
costitutiva, anche la massa corporea.
(De rerum natura, I, 4)
A fondamento degli eventi naturali particolari bisogna porre allora tre principi:
Due nature agenti, il caldo e il freddo ed una massa corporea, e questa è parimenti
propria e congrua all'uno e all'altro principio ed è atta ad espandersi, a dilatarsi, a
condensarsi e a ridursi e ad assumere quella disposizione che il caldo ed il freddo richiede.
(ivi)
La materia, come moles corporea, in se stessa non possiede altro che massa e corporeità,
è cioè priva di vita propria: è "inerte nel profondo e ignava e come morta e oscura ed
invisibile"; su questa materia, intesa come puro sostrato materiale, agiscono i principi
attivi, dando vita a tutti gli esseri particolari La lotta tra caldo e freddo si manifesta
sensibilmente come contrasto tra sole e terra. Il primo, infatti, dotato di calore, tenuità,
luminosità e motilità, vince con la sua forza attiva le qualità contrarie della terra, e,
rompendo la densità e la tenebrosità della terra stessa, riesce a strapparla alla sua
condizione di immobilità animandola dall'interno, con le sue qualità vitali. Proprio dal fatto
che l'uomo è la sede del calore e della vita e l'altra del freddo e della staticità, Telesio è
portato a credere che il sole "si muove di moto circolare rapidissimo e sempiterno",
mentre la terra " non è percorsa mai da alcun moto ".
Tutti i fenomeni naturali, prodotti dalla continua lotta dei due principi attivi sul sostrato
unico rappresentato dalla materia, hanno bisogno di uno spazio in cui situarsi e di un
tempo nel quale realizzare il loro mutamento. Spazio e tempo, per Telesio, hanno
consistenza reale, indipendente dai fenomeni che in essi si pongono o si svolgono:
Lo spazio... essendo soltanto un'attitudine a ricevere i corpi... e non differendo mai in
nulla da se stesso, ma essendo sempre uno ed unico tutto quanto, riceve in qualsiasi sua
posizione qualsiasi ente.
(De rerum natura, I, 25)
Il tempo, a sua volta, pur essendo percepito insieme al moto, non è una particolare
caratteristica del moto. Esso
esiste per sé... ed è persistenza, durata e spazio... nel quale avviene ogni moto e
mutamento.
(De rerum natura I, 29)
Ma se la realtà dei fenomeni può essere spiegata facendo ricorso esclusivamente a forze
naturali, immanenti nella natura stessa, l'esistenza del tutto, del mondo come globalità
(mundus universus) non può essere spiegata senza far ricorso a una forza creatrice ed
esterna al mondo, senza l'opera di un Artefice divino (opifex):
Chi vedendo che il cielo e la terra sono costituiti di una medesima mole e di nature
sommamente contrarie,.. che la terra è posta in mezzo al cielo…e viene mutata dalle sue
forze e si trasforma negli enti e continuamente essi si corrompe, e che tuttavia la mole
della terra non diminuisce mai e che gli enti e la loro generazione non vengono mai
meno... chi scorgendo…che i feti si formano perpetuamente con la medesima legge... chi,
se non è non solo empio e feroce, ma folle, non capirà che il mondo non è fatto dal caso,
ma come s'è detto, è stato costituito da un artefice?
(De rerum natura, IV, 29)
Il mondo della natura, allora, non è ab-aeterno: è stato creato da Dio nel tempo. Ma per
quanto Dio sia onnipotente e per quanto " tutte le opere della natura e tutti gli eventi
umani dipendano dalla sua volontà", il ritmo della. natura, è segnato dal contrasto tra le
due forze vitali presenti nel mondo, di modo che " ogni sostanza agisce secondo la propria
natura".
L'accettazione della tesi creazionistica non ostacola, in tal modo, la difesa del naturalismo
con cui Telesio si era prefisso di spiegare i fenomeni, facendo ricorso ai principi insiti nella
natura stessa. Voler spiegare i fenomeni particolari con l'intervento diretto di Dio,
significherebbe sminuirne la potenza riducendolo, da garante e regolatore del cosmo, a
produttore di particolari effetti naturali. Tutti gli enti, infatti, ad eccezione delle piante e
degli animali, si formano "dalla terra ad opera del sole".
I viventi, piante ed animali, si formano, invece, " da se stessi a partire dal propri semi ".
Ma il seme non produce solo la " mole corporea " dei viventi, ma anche l'anima. Telesio
considera, infatti,
la sostanza che nell'animale sente corporea in verità, ma tenuissima e continua in se
stessa e per natura mobile e lucida.
(De rerum natura, V, 10)
Questa anima materiale, spiritus, ricavata dal seme (semine educta), è presente
attraverso il tessuto nervoso in tutto il corpo dei viventi, anche se la parte principale di
essa, che è come la sua "universalità ed interezza ", deve essere collegata nei 'ventricoli'
del cervello. E' questa la parte egemonica che dirige tutte le porzioni periferiche
dell'anima.
La funzione più importante l'anima la esprime nella sensibilità che coincide con la
conoscenza. Telesio, attribuendo all'anima materiale la capacità di sentire, ha inserito i1
processo conoscitivo nella serie dei problemi biologici. La conoscenza, infatti, si riduce alla
modificazione dello "spirito" da parte di un movimento presente nella realtà esterna. Lo "
spirito", quando conosce, accoglie in sé e riproduce la vita delle cose esterne modificando
la propria. Questa modificazione è possibile solo per contatto. Tranne l'udito, tutte le altre
forme di conoscenza sensibile si realizzano, infatti, attraverso il contatto dell'oggetto
esterno con lo "spirito":
Unicamente il suono non tocca lo spirito… Tutti gli altri oggetti percepibili non modificano
lo spirito, né possono modificarlo, se non per contatto.
(De rerum natura, VII, 8)
E proprio l'immediatezza di questo contatto conferisce alla sensazione un elevatissimo
grado di certezza, in quanto lo "spirito" non solo subisce il movimento delle cose esterne,
ma "percepisce di qualcosa ". Lo "spirito", cioè, conosce non solo perché sente, ma perché
sa di sentire.
Anche la conoscenza "intellettuale" è riconducibile al senso:
Ogni ragionamento che pone qualcosa, lo pone sulla base della somiglianza con ciò che
viene percepito dal senso; e ciò che rifiuta, lo rifiuta in quanto è contrario ed opposto a ciò
che viene percepito dal senso... E così il principio di ogni intellezione è la somiglianza
percepita dal senso.
(De rerum natura, VII, 3)
Tutte le costruzioni intellettuali sono, allora, frutto di una estensione delle sensazioni
percepite a cose simili a quelle toccate ma lontane da esse.
Tutta la vita spirituale in tal modo è spiegata da Telesio naturalisticamente: a fondamento
della vita organica e della vita psichica non c'è che il contrasto tra caldo e freddo.Questo
contrasto spiega anche la vita morale: piacere e dolore, che forniscono l'indicazione di ciò
che si deve cercare e di ciò che si deve fuggire, hanno anch'essi una spiegazione
naturalistica:
Il piacere che l'azione delle cose sensibili apporta allo spirito, non viene prodotto se non
perché…conduce lo spirito al moto e cioè all'azione sua propria.
(De rerum natura; VII, 3)
Il piacere consiste nella sensazione di vitalità che lo spirito avverte a contatto con alcune
cose; il dolore, invece, nell'abbattimento prodotto nello spirito da quelle cose dotate di
forze contrarie al senziente: "non è lecito dubitare che il piacere non sia senso della
conservazione e il dolore della distruzione ". Tutta la vita morale deve tendere allora al
bene supremo dello spirito, e
Non si può porre in dubbio che il bene in vista del cui conseguimento si conturba e si
muove lo spirito, è la conservazione di se medesimo.
(De rerum natura, IX, 2)
Questo stesso principio dell'autoconservazione fonda la vita politica. Poiché l'uomo isolato
prova maggiore difficoltà a condurre una vita sicura e a procurarsi i piaceri e le gioie utili a
conservarla,
Si rende, dunque, necessario che ricerchi e curi di procacciarsi la società degli uomini e la
convivenza con essi ed anche la familiarità e la benevolenza loro.
(De rerum natura, IX, 3)
Telesio, grazie al suo naturalismo, garantisce in tal modo l'autonomia della scienza e della
morale da qualsiasi ingerenza teologica.
Ma la convinzione che l'uomo non sia una materia esistente ab aeterno fornita di moto,
ma sia creato da Dio nel tempo, reca implicita in sé la rivendicazione dell'esistenza in lui di
una tensione conoscitiva che, al di là del senso, punti alla comprensione di verità
superiori:
L'uomo non sembra placarsi, come è legge di tutti gli altri animali, nel sentimento, nella
conoscenza e nella fruizione di quelle cose grazie alle quali si nutre e per le quali si
conserva ed ha godimento; egli va investigando invece con somma ansietà la sostanza e
le operazioni di altre cose, anche di quelle che non gli sono di nessuna utilità pratica e che
anzi non possono essere afferrate col senso, ed anche la natura degli enti divini e di Dio
stesso.
(De rerum natura, V, 2)
L'anima materiale, pur riuscendo a spiegare naturalisticamente tutte le attività dell'uomo,
da quelle biologiche a quelle conoscitive, morali e civili, non è però in grado di soddisfare
la tensione che spinge l'uomo verso beni remoti e lontani. E' per soddisfare questa
esigenza che Telesio postula la presenza nell'uomo di una anima immateriale, non
commista al corpo, non mortale, di una "mens superaddita" capace di soddisfare
quell'ansia del trascendente che, con l'affermazione del Dio creatore, era, anche se
implicitamente, rivendicata all'uomo.
L'aver considerato il mondo autonomo ed autosufficiente nella sua vita interna, ma l'averlo
considerato pur sempre derivato, in quanto alla sua origine, da una potenza superiore ed
estranea ad esso, porta come conseguenza necessaria ed immediata la separazione dei
campi di ricerca e conduce allo sdoppiamento della vita psichica dell'uomo. Ad un'anima
materiale capace di conoscere la realtà esterna in base al principio della omogeneità, e
capace di individuare ciò che è bene e ciò che è male, si aggiunge, quasi in un gioco di
reduplicazione e di dematerializzazione della psiche, un'anima spirituale ed immortale
protesa all'attingimento di verità trascendenti. Il creazionismo, infatti, esige che ad una
descensio da Dio all'uomo corrisponda una ascensio dall'uomo a Dio.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Giordano Bruno: l'universo, la terra e Dio
Un groviglio di intuizioni scientifiche felici e di motivi magici affascinanti operanti in una
cornice metafisica audace e spregiudicata caratterizza la speculazione filosofica di
Giordano Bruno. Più di tutti
i filosofi e gli scienziati del suo tempo, Bruno si presta ad essere indicato quale emblema
di un'epoca, come quella rinascimentale ricca di contraddizioni e di conflitti, legata ancora
per molti versi alla tradizione scolastica medioevale, ma, pur sempre, faticosamente
impegnata in un'opera di rinnovamento filosofico e scientifico in grado di fornire una
nuova immagine dei mondo in contrapposizione a quella aristotelico-tolemaica.
Giordano Bruno nacque a Nola nel 1548; fino a quattordici anni studiò a Napoli latino,
logica e dialettica; a quindici anni, contrariamente a quanto lasciava presagire la sua
indole focosa e combattiva, ansiosa di novità e poco incline a subire l'autorità della
gerarchia e della regola religiosa, entrò nel convento di S. Domenico, mutando in Giordano
il suo nome di battesimo Filippo. La naturale curiosità intellettuale e la forte ansia del
nuovo che lo animavano lo spinsero a studiare, oltre Aristotele, com'era dovere di ogni
domenicano, anche gli scritti platonici di Ficino, le opere di Cusano, il De revolutionibus di
Copernico e i padri della Chiesa commentati da Erasmo.
Subì un primo processo mentre era ancora studente e fu redarguito per la eccessiva
libertà di pensiero. Egli stesso molto tempo dopo confesserà di aver cominciato molto
presto a dubitare del dogma della Trinità e di aver interpretato in senso neo-platonico,
come anima del mondo, lo Spirito Santo. Preoccupato per l'esito di un nuovo processo per
eresia intentato contro di lui nel 1576, lasciò il convento napoletano ed iniziò una serie di
peregrinazioni che da Roma, attraverso alcune città del nord della penisola, lo portarono a
Ginevra. Per iscriversi all'università di quella città abbracciò la fede calvinista, ma ben
presto dovette fuggire anche da Ginevra, dopo aver sperimentato che in quanto ad
intolleranza e a fanatismo i protestanti avevano ben poco da imparare dai cattolici. Riparò
a Tolosa, nella cui università insegnò con successo per due anni. Costretto dalle vicende
politiche ad abbandonare anche Tolosa, si trasferì a Parigi dove poté godere della
protezione del re Enrico III, più disponibile al compromesso religioso tra cattolici ed
ugonotti e più incline alla tolleranza. All'università tenne corsi sulla logica di Lullo (arte
combinatoria) e sulla mnemotecnica (l'arte della memoria). A Parigi scrisse la commedia Il
candelaio, un documento esplicito della polemica morale e sociale contro l'ambiente
pedante della Napoli della sua giovinezza, ed un'operetta di ispirazione neoplatonica, il De
umbris idearum. Nel 1583 si recò a Londra ed entrò a far parte del seguito
dell'ambasciatore francese alla corte della regina Elisabetta I. La battaglia promossa dalla
regina contro cattolici e protestanti, aveva favorito l'affermarsi di correnti di pensiero
permeate delle dottrine , di Cusano e di Copernico. Bruno trovava, in tal modo, terreno
favorevole per la sua polemica antiaristotelica. Il soggiorno a Londra fu particolarmente
fruttuoso , anche dal punto di vista letterario. Pubblicò infatti i dialoghi in italiano: La cena
delle ceneri. De la causa, principio et uno. De l'infinito, universo e mondi. Lo spaccio della
bestia trionfante. Degli eroici furori. La cabala del cavallo pegaseo. Nel 1585 Bruno ritornò
a Parigi dove la situazione politica inclinava a favore dei nemici del re. Costretto a lasciare
la Francia riparò in Germania passando da una città all'altra: Marburgo, Wittemberg, Praga
e poi Francoforte, dove pubblicò i dialoghi in latino: De minimo. De monade. De immenso
et innumerabilibus. Nel 1591 gli pervenne l'invito di un patrizio veneziano, Giovanni
Mocenigo, desideroso di apprendere dal Bruno la mnemotecnica e, forse, la magia. Bruno
accettò di andare a Venezia, fidando nella politica tradizionalmente liberale della
repubblica. Ma il Mocenigo, preso forse da scrupoli religiosi, denunciò il filosofo
all'Inquisizione. Nel maggio 1592 Bruno venne arrestato e sottoposto a processo. La sua
abilità dialettica gli consentì di operare una sottile distinzione tra le sue teorie filosofiche e
la sua fede. Ma proprio quando il processo sembrava volgersi a suo favore, grazie anche
alla nota larghezza di vedute degli inquisitori veneziani, il tribunale romano chiese
l'estradizione. La delicata situazione politica impedì a Venezia di opporre un rifiuto a tale
richiesta. A Roma Bruno rimase in carcere per sette anni e fu sottoposto a un duro
processo durante il quale furono analizzate minuziosamente tutte le sue idee filosofiche.
Bruno, che a Venezia era disposto a ritrattare alcune tesi, si irrigidisce sempre più fino a
dichiarare il 21 dicembre 1599 "di non volersi pentire, di non avere di che pentirsi e di non
sapere di cosa pentirsi". Dichiarato eretico impenitente e scomunicato, venne arso vivo in
Campo dei Fiori a Roma il 17 febbraio 1600.
Su quel rogo, insieme a Bruno, bruciarono le speranze di quanti, filosofi e scienziati, in
perfetta buona fede, come ad esempio Galilei, pensavano di poter conciliare la fede
religiosa e la ricerca scientifica, l'appartenenza ad un'organizzazione ecclesiale che si
ritiene depositaria della verità assoluta e la militanza culturale che esige un impegno
investigativo continuato.
In tutta l'opera di Bruno, pur nella varietà dei temi culturali e dei toni espositivi, è
individuabile un filo conduttore che a ragione può essere considerato la linea unificante di
tutto il suo pensiero. Dalla prima all'ultima opera è costante lo sforzo appassionato di
perfezionare la presentazione di una nuova visione cosmologica, caratterizzata dall'idea
dell'universo come realtà unitaria, infinita e vivente da contrapporre al cosmo aristotelico.
Alexander Koyrè, un grande storico della filosofia, ha scritto: "sviluppare l'idea del sistema
fisico:questo fu il compito di Bruno. Opera disuguale, senza dubbio, tumultuosa e anche
molto confusa: e inoltre viziata - dal punto di vista scientifico che in questo caso è il
nostro - dal profondo animiamo del suo pensiero. E tuttavia, questo pensiero oscuro e
confuso, ha svolto una grande funzione nella storia della scienza. Funzione positiva,
perché con una geniale intuizione, Bruno aveva capito l'infinitismo della nuova astronomia
"
(A. Koyrè, Studi galileiani, Torino 1979, pagg. 172-173).
La capacità del filosofo nolano di utilizzare e fondere insieme sollecitazioni filosofiche
diverse in una sola visione della realtà non è il frutto di un eclettismo che mette insieme
alla meglio, ma pur sempre in modo disorganico, elementi provenienti da vari sistemi, ma
è la logica conseguenza di un sincretismo che utilizza suggestioni ed intuizioni diverse per
giustificare, corroborare e sviluppare un unico progetto filosofico.
Già a partire dal De umbris idearum, composto durante il primo soggiorno parigino, è
presente nel pensiero di Bruno l'istanza naturalistica. L'intonazione neoplatonica dello
scritto - le cose sono le ombre delle idee - più che comportare una svalutazione del mondo
sensibile, ne esalta la struttura unitaria e ne sottolinea la natura divina. L'universo è un
tutto articolato in cui ogni parte è collegata al tutto in virtù di un vincolo profondo, di una
legge ideale che riconduce ad unità la molteplicità delle parti del cosmo.
Non è lecito pensare che questo mondo abbia più di un principio, e per conseguenza abbia
più di un ordine. Conseguentemente, se l'ordinato è uno, le sue membra sono le une alle
altre annesse e subordinate.
(G.A.F. VI, pag. 1136)
Il cosmo, dunque, è una sola realtà in cui circola una sola vita ed in cui è presente un solo
ordine; ogni parte è connessa con le altre in modo che l'una rimanda al tutto e da ogni
parte si può risalire alla totalità. Allo stesso modo, sul piano logico, la mente umana può
connettere fra di essi gli elementi primi del sapere in un discorso articolato e ordinato, ed
il pensare, come voleva Lullo, si riduce ad "arte combinatoria", consistente nel ridurre la
molteplicità irrelata ad una struttura significativa, in cui ogni elemento ha valore e senso
solo se rapportato al tutto. Di questa connessione, ad un tempo cosmologica e logica, ci si
può valere per conservare e riannodare le singole immagini nella memoria. Attraverso
l'arte della memoria (mnemotecnica) la mente può ricordare tutto e ricostruire l'ordine
unitario che interessa contemporaneamente il cosmo e la coscienza umana.
Il tema dell'universo è ripreso e sviluppato nei dialoghi in italiano composti a Londra. La
concezione neoplatonica del cosmo come organismo vivente viene, in questa fase del
pensiero bruniano, integrata con le dottrine copernicane. Copernico è l'uomo che ha osato
sfidare la tradizione ed il senso comune e che, contro Aristotele, ha avuto il coraggio di
fornire una nuova immagine del mondo. Bruno, nella Cena delle ceneri, tesse un elogio
caldo e sincero del polacco e lo saluta come
Ordinato dagli dei come un'aurora che doveva precedere l'uscita di questo sole de
l'antiqua vera filosofia per tanti secoli sepolta nelle tenebrose caverne de la cieca,
maligna, proterva invida ignoranza
(Dialogo I)
Ma non esita ad indicare i limiti dell'opera di Copernico. Lo accusa, infatti, di non aver
tratto tutte le conseguenze possibili dalla sua intuizione rivoluzionaria:
Perché lui, più studioso de la matematica che de la natura, non ha possuto profondare e
penetrare sin tanto che potesse a fatto toglier via le radici de inconvenienti e vanii
principii, onde perfettamente sciogliesse tutte le contrarie difficoltà e venesse a liberare e
sé, e altri da tante vane inquisizioni, e fermar la contemplazione ne le cose costanti e
certe.
(ivi)
Copernico, pur avendo messo in crisi il cosmo aristotelico sostituendo il sole alla terra
come centro dell'universo, non ha sviluppato questa sua felice intuizione fino a proclamare
l'infinità dell'universo stesso.
Bruno raccoglie l'eredità copernicana, ma la integra con la speculazione del "divino
Cusano". Sulla scia della filosofia cusaniana, infatti, il nolano immagina un cosmo animato,
infinito, immutabile, all'interno del quale si agitano infiniti mondi simili al nostro. Nella
Cena delle ceneri, come si vede, Bruno contrasta la cosmologia geocentrica di stampo
aristotelico-tolemaico, ma supera anche le posizioni eliocentriche di Copernico.
Prima di sviluppare ulteriormente quest'aspetto del suo pensiero, Bruno avverte il bisogno
di sgombrare il campo da ogni resistenza concettuale risalente alla fisica e alla metafisica
aristotelica. A tal fine nel De la causa, principio et uno, sviluppa una critica serrata ai
capisaldi dell'aristotelismo: la dottrina delle cause e la distinzione qualitativa tra cielo e
terra. Le quattro cause aristoteliche (materiale, efficiente, formale e finale) sono da Bruno
ridotte a due soltanto: materiale e formale. Ed inoltre, mentre nel filosofo greco, secondo
Bruno, la causa formale era intesa come principio separato dalla materia, come elemento
esterno funzionante da polo di attrazione e di sviluppo (il fiore diventa frutto realizzando
una forma che è altro da sé), nel nolano la forma è viva e operante all'interno della stessa
materia. Inclinando ancora verso un neoplatonismo reinterpretato alquanto liberamente,
Bruno così intende questa forma agente all'interno della massa corporea dell'universo:
L'universo universale è l'intima più reale e propria facoltà e parte potenziale de l'anima del
mondo. Questo è uno medesimo, che empie il tutto, illumina l'universo e indirizza la
natura a produrre le sue specie come si conviene…Questo…da noi si chiama artefice
interno, perché forma la materia e la figura da dentro come da dentro del seme o radice,
manda ed esplica il stipe (tronco); da dentro il stipe caccia i rami; da dentro i
rami…ispiega le gemme…le frondi, gli fiori, gli frutti…e da dentro, a certi tempi, richiama
gli suoi umori da le frondi e frutti alle brancie, da le brancie agli rami, dalli rami al stipe,
dal stipe alla radice.
(De la causa, II)
L'universo, dunque, è "uno, infinito, immobile". All'affermazione dell'infinità dell'universo
Bruno arriva partendo dal concetto di perfezione dinamica proprio del neoplatonismo. Fu
Plotino il primo filosofo ad offrire al concetto di perfezione (da Aristotele identificato con la
compiutezza e la staticità) un nuovo significato comprendente le nozioni di dinamicità e di
infinitezza. Bruno scrive:
L'universo sarà di dimensione infinita e gli mondi saranno innumerabili, perché,
incomparabilmente meglio in innumerabili individui si presenta l'eccellenza divina, che in
quelli che sono numerabili e finiti.
(De l'infinito, universo e mondi, I )
L'universo è finito perché al di fuori di esso non c'è alcunché che lo possa limitare e
circoscrivere, neppure Dio. Bruno, infatti, anche se con linguaggio che denuncia qualche
esitazione e qualche tentennamento, opera il tentativo di identificare Dio con l'universo:
Più esattamente sarà perfetto ciò che né in atto né in potenza, né in realtà né
nell'immaginazione è limitato da altro…Questo unico e presente ovunque nella sua
interezza è Dio, la natura universale di cui non può essere nessuna immagine perfetta o
simulacro, se non infinito.
(De immenso, II, 12 )
Dio, dunque, è risolto in tutto il cosmo e in ogni singola parte :
Dico Dio totalmente infinito perché tutto lui è in tutto il mondo e in ciascuna parte
infinitamente e totalmente .
(De l'infinito, universo e mondi, I )
Il rapporto tra Dio e mondo non è allora di assoluta trascendenza: Dio non è fuori dal
mondo, né è la causa finale esterna a cui tendono le creature terrene, ma è in tutte le
cose e pertanto di tutte le cose è principio; laddove per principio, avverte Bruno,
dobbiamo intendere
Ciò che intrinsecamente concorre alla costituzione della cosa e rimane nell'effetto
(De la causa, II )
Anche se, rispetto alle cose prodotte, Dio è anche causa prima, intendendo per causa ciò
Che concorre alla produzione delle cose esteriormente, ed all'essere fuori della
composizione, com'è l'efficiente e il fine, al quale è ordinata la cosa prodotta.
( De la causa, II )
Dio allora, pur essendo nelle cose, non si esaurisce nella loro particolarità. Come la
"natura universale", rispetto alle cose particolari, così Dio è nello stesso tempo dentro e
fuori le cose, é immanente e trascendente. Dal concetto di causalità così esposto, Bruno
trae argomento per giustificare la teoria dell'infinità dell'universo. A Dio causa infinita non
può non corrispondere che un universo infinito. Un effetto finito svilirebbe anche la causa
che lo produce.
La concezione naturalistica di Bruno, il quale manifesta simpatia per Democrito,
Parmenide e Lucrezio, si fonda sulla convinzione che esiste una immensa mole materiale,
sempre identica a se stessa nel variare delle sue forme accidentali, animata all'interno da
un solo principio formale:
Si come ne l'arte, variandosi in infinito ( se fosse possibile ) le forme, è sempre una
materia medesima che persevera sotto quelle…non altrimenti nella natura, variandosi in
infinito e succedendo l'una all'altra le forme, è sempre una materia medesima.
(De la causa, III)
Di questa unica materia animata è composto tutto l'universo. Essa pur rimanendo sempre
identica è soggetta ad un incessante divenire, si trasforma continuamente. L'uomo, nella
visione di Bruno, cessa di essere la creatura privilegiata, vagheggiata da Marsilio Ficino e
celebrata da Pico della Mirandola. E' nient'altro che uno dei tanti esseri che la natura
produce nel suo continuo divenire, è un momento del ritmo della natura:
Non vedete voi che quello che era seme si fa erba, e da quello che era erba si fa spica, da
che era spica si fa pane, da pane chilo, da chilo sangue, da questo embrione, da questo
uomo, da questo cadavero, da questo terra, da questo pietra ed altra cosa, e così oltre,
pervenire a tutte le forme naturali?
(De la causa, III )
In un cosmo infinito ovviamente non trovano posto più le determinazioni spaziali assolute
teorizzate da Aristotele; centro e circonferenza, alto e basso diventano nozioni relative.
Ogni punto è centro di qualcosa, ma segna il limite di qualche altra cosa; è in basso
rispetto ad un oggetto, ma in alto rispetto ad un altro. Ogni punto dell'infinito universo
può essere allora centro e circonferenza, alto e basso. In questo modo nel cosmo si
realizza la " coincidentia oppositorum " che Cusano vedeva realizzata in Dio.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Giordano Bruno: la conoscenza, i vizi e i furori
Considerando la natura un essere vivente, Bruno saltava completamente l'immagine
aristotelica del mondo, e si agganciava direttamente a quella sostenuta dai primi filosofi
della Grecia arcaica e soprattutto da Eraclito, salutato dal nolano come l'iniziatore di una
filosofia naturale da ripristinare e sviluppare. La comprensione della natura, infatti, non è
opera della sola metafisica, anzi, come sostiene Bruno,
non si richiede dal filosofo naturale che ammeni tutte le cause e principi; ma le fisiche sole
e di queste le principali e proprie
(De la causa, II)
La conoscenza della causalità fisica deve, per Bruno, far ricorso all'osservazione sensibile,
ma non fermarsi ad essa. Il senso va integrato e sorretto dalla ragione. Solo quest'ultima,
infatti, col suo procedere matematico, è capace di realizzare l'unificazione logica della
molteplicità frammentaria:
Però dev'essere modo circa il dimandare testimonio del senso; a cui non doniamo luogo in
altro che in cose sensibili, anco non senza suspizione (sospetto), se non entra in giudizio
gionto alla ragione.
(De l'infinito, universo e mondi, I)
Ma per conoscere ciò che i nostri sensi non possono afferrare, come ad esempio l'infinito,
c'è bisogno della sola conoscenza razionale:
A l'intelletto conviene giudicare e rendere ragione de le cose absenti e divise per distanza
di tempo ed intervallo di luoghi.
(ivi)
Un orientamento conoscitivo, così fiducioso della ragione, ovviamente imponeva a Bruno
di risolvere la vexata quaestio del rapporto tra fede e ragione, tra religione e filosofia.
Bruno imbocca l'unica strada che gli consentiva contemporaneamente di difendere la sua
posizione di filosofo che affida alla ragione il compito di capire la realtà e di giustificare la
diffusione della religione tra le masse. Fa appello, infatti, alla teoria averroistica della
doppia verità, così come era stata esposta da Pomponazzi:
I non meno dotti che religiosi teologi, giammai han pregiudicato alla libertà dei filosofi; e
gli veri, civili e bene accostumati filosofi sempre hanno favorito le religioni, perché gli uni e
gli altri sanno che la fede si richiede per l'istituzione di rozzi popoli che denno essere
governati, e la demostrazione. [razionale] per gli contemplativi che sanno governare sé ed
altri
(De l'infinito, universo e mondi, I)
La nuova concezione cosmologica si riflette anche in quei dialoghi che per il loro contenuto
sono generalmente definiti morali: Spaccio de la bestia trionfante e De gli eroici furori.
Lo Spaccio è uno scritto allegorico che, attraverso una critica all'etica cristiana, avanza
un'ipotesi di riforma morale. Particolarmente preso di mira è il principio luterano e
calvinista della salvezza per mezzo della sola fede. Ad una morale fideistica e
misticheggiante Bruno contrappone una morale attivistica e pratica che trova il suo segno
distintivo nell'invito all'operosità:
Approvi il credere e stimare, ma giammai al pari del fare ed operare.
(Spaccio,II)
Fa da sfondo a questo rinnovamento morale, come abbiamo accennato, la nuova visione
dell'universo elaborata da Bruno nei dialoghi precedenti. Il mondo, all'interno del quale è
operata la rivoluzione morale, è, infatti, l'universo "uno e infinito". Nell'Epistola
esplicatoria, preposta all'opera, Bruno riassume le tesi esposte nel De la causa
riaffermando che "il principio materiale... è vera sustanza de le cose, eterna ingenerabile
incorruttibile" e ribadendo che il mutamento negli esseri individuali, morte compresa, non
è un annullamento di materia, ma solo una trasformazione dell'aggregato, "perché morte
non è altro che divorzio di parti congiunte nel composto". Trasformazione che è frutto
dell'opera di un principio attivo, vitale che, come causa efficiente, opera all'interno della
materia stessa e "per il quale si fa la composizione". E'in questo universo, cosi concepito,
che Giove opera la sua rivoluzione. Bruno immagina, infatti, che Giove diventato 'maturo',
abbandonato lo spirito libertino della gioventù, si sia deciso ad operare una riforma morale
di portata universale:
Allora si dà spaccio a la bestia trionfante, cioè a gli vizi che predominano e sogliono
conculcare la parte divina; si ripurga l'animo da errori e viene a farsi ornato di virtù.
(Spaccio, Ep. Espl.)
Al posto dell'Orsa si colloca la verità. Essa porta i suoi frutti in ogni campo: "è metafisica,
fisica e logica"; la cacciata dell'Orsa significa la caduta della falsità, dell'ipocrisia,
dell'impostura e di altri vizi ancora. Al posto del Drago, che rappresenta la malizia,
l'inerzia, il sofisma, l'ignoranza, "la stolta fede con le serve, ministre e circostanti", si
instaura la prudenza. Al posto del Carro si colloca la Legge, cacciando " la Prevaricazione,
il Delitto, l'Eccesso, l'Exorbitanza con gli loro figli, ministri e compagni ". Alla lira di nove
corde si sostituisce
la madre musa con le nove figlie, aritmetica, geometria, musica,logica, poesia, astrologia,
fisica, metafisica, etica... dove distele l'ali il cigno,ascende la penitenza, ripugnanza,
palinodia, lavamento; ed indi per conseguenza cade la filautia [il narcisismo], immondizia,
sorditezza, impudenzia,protervia con le loro intere famiglie. (ivi)
Al feroce Perseo subentrano "la fatica, sollecitudine, studio, fervore, vigilanza ... "; e con
Perseo sono cacciati "il torpore, l'accidia, l'ocio e l'inerzia... dove era il Pegaseo cavallo,
ecco il Furor divino, Entusiasmo…Vaticini... onde fugge il Furore ferino, la Mania, l'impeto
irrazionale, la dissoluzione di spirito" (ivi). E così di seguito ai vecchi vizi si sostituiscono le
nuove virtù.
Sempre a Londra, nel 1585, pochi mesi prima del dialogo Degli eroici furori, Bruno
pubblica un opuscolo satirico Cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta dell'asino cillenico.
Cavallo pegaseo ed asino cillenico, identificabili con le 'bestie' dello Spaccio, riprendono il
loro posto in cielo, ritornano a rappresentare le divinità adorate dagli uomini. La critica
bruniana si appunta soprattutto contro l'ignoranza degli aristotelici tradizionalisti e contro
la "sant'asinità, santa ignoranza" del fedele cristiano che non si cura di indagare, studiare,
capire, "ma con man gionte e in ginocchion vuol stare aspettando da Dio la sua ventura".
Se lo Spaccio e la Cabala hanno polemizzato contro la vecchia morale ed hanno stabilito
una nuova tavola di valori indicanti la vera moralità, non hanno però consentito di
individuarne il fine e la caratteristica specifica. Saranno i dieci dialoghi De gli eroici furori a
fornire all'etica bruniana queste ulteriori determinazioni. In questi dialoghi, riallacciandosi
al mito platonico di Eros, Bruno accentua ancora una volta l'aspetto attivistico della morale
contro quello ascetico e misticheggiante. L'entusiasmo dell'uomo non deve, infatti, tendere
alla vita "ociosa e voluptaria" e neppure alla vita pratica che lo indirizza al conseguimento
di fini particolari, ma deve "aspirare alto", deve puntare al raggiungimento della
consapevolezza dell'intima unione che lega l'anima umana all'Uno infinito. Il fine cui tende
l'etica degli Eroici furori è appunto il conseguimento della consapevolezza della profonda
unità esistente tra l'uomo e la natura vivente. Il ricorso al linguaggio e a certe immagini di
tipo neoplatonico non deve far pensare ad un'etica di tipo religioso. Lo stesso Bruno, nella
prefazione al dialogo (Argomento del nolano) definisce la sua opera "naturale e fisico
discorso" e ribadisce le tesi fondamentali della sua speculazione facendo un esplicito
richiamo al De la causa.
In questa cornice metafisica, espressamente richiamata, Bruno inserisce la sua etica. La
conoscenza della natura come realtà unitaria, come l'uno'infinito oltre il quale non è
possibile immaginare l'esistenza di nessun altro ente: ecco il compito e la più alta
possibilità dell'uomo. A questo tende l'impeto della ricerca che, come un "eroico furore",
spinge l'uomo a superare ogni difficoltà ed ogni limite. Ma la conoscenza della totalità, in
cui si esprime il più alto grado della moralità, non si conquista cercando fuori di sé, nelle
cose del mondo, l'intimo legame che unisce l'uomo alla natura, ma cercando nel proprio
interno. La divina bellezza del tutto risplende nell'uomo stesso. Il mito di Atteone
simboleggia icasticamente l'unità esistente tra uomo e natura. Il cacciatore Atteone
insegue la preda e scioglie i suoi mastini e i suoi veltri: i primi rappresentano la tenacia
della volontà, i secondi l'agilità'dell'intelletto. Ma riflessa nell'acqua vede Diana, " il più bel
busto e faccia... che vedersi possa". Fuor di metafora il cacciatore scorge nelle sembianze
delle cose del mondo la vita che scorre nella natura, il principio divino che anima il mondo.
D'un tratto da cacciatore diventa preda e i cani si avventano contro di lui:
Così Atteone con quei pensieri, quei cani che cercavano estra di sé il bene, la sapienza, la
beltàde, la fiera boscareccia ed in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor
di sé da tanta bellezza, divenne preda, veddesi convertito in quel che cercava… perché già
avendola contratta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la divinità.
(De gli eroici furori, IV)
La conoscenza della natura immediatamente rivela alla volontà e all'intelletto che quello
che si cerca fuori dell'uomo è presente dentro di lui, che il divino, operante nella natura, è
vivo e palpitante anche nell'uomo. Tra uomo, natura e Dio non c'è frattura o trascendenza,
ma reale e concreta unità. Appena l'uomo sul piano intellettuale comprende lo stretto
legame che lo unisce al tutto, sul piano etico
Concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose
(De gli eroici furori, III)
intuisce che il principio della vera libertà si identifica con quello della necessità operante
nella natura.
Non la fede allora, ma la ricerca intellettuale rivela la vera natura di Dio. Una ricerca
razionale che però non esclude la fede, una filosofia che non esclude la religione. Esse
nella reciproca autonomia svolgono nella società ruoli diversi e si rivolgono ad uomini
forniti di nature diverse: la filosofia a "quelle che sanno governare sé ed altri"; la fede "ai
rozzi popoli che denno essere governati".
Nel 1591 Bruno stampava in Germania tre opere filosofiche scritte in latino: De triplici
minimo et mensura, De monade, De immenso. In questi dialoghi la concezione della
materia priva di ogni qualità, eterna ed immutabile, già esposta nel De la causa, viene
ripresa e sviluppata in senso atomistico. L'atomo è un minimum fisico non ulteriormente
riducibile, è impenetrabile ed indistruttibile. La convinzione che la materia sia composta da
un'infinità di atomi pone a Bruno il problema della definizione dello spazio esistente tra
atomo e atomo, ma per quanto ripetutamente egli faccia ricorso al termine "vacuo", non
ammetterà mai l'esistenza del vuoto. Dall'atomo Bruno distingue il minimo e la monade; il
primo rappresenta la figura minima di un dato genere (una figura minima in una superficie
minima, una scienza minima e così via); la seconda rappresenta a sua volta l'unità di un
particolare genere. Gli atomi che costituiscono la materia prima sono mossi da un principio
intrinseco e compongono tutto l'universo. In tal modo Bruno rivendica ancora una volta,
contro il dualismo aristotelico, l'unità e l'omogeneità dell'universo.
La visione unitaria del cosmo suggerisce a Bruno, come già ai neoplatonici rinascimentali,
la possibilità e la legittimità dell'uso della magia. Partendo dalla considerazione che una è
La divinità che si trova in tutte le cose, la quale, come in modi innumerabili si diffonde e
comunica, cossì ave nomi innumerabili, e per vie innumerabili si onora e cole, perché
innumerabili geni di grazia cercano impetrar da quella
(Spaccio, III)
Per ottenere, però, questa grazia c'è bisogno di
Quella sapienza e giudizio, quell'arte, industria ed uso di lume intellettuale, che dal sole
intelligibile a certi tempi più e a certi tempi meno, quando massima e quando
minimamente viene rivelata al mondo. Il quale abito si chiama magia: e questa, per
quanto versa in principi soprannaturali, è divina; e quanto che versa circa la
contemplazione della natura…è naturale.
(ivi)
La magia allora, più che una tecnica operativa, si rivela una disposizione intellettuale alla
ricerca, un "abito " morale.
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Tommaso Campanella: la natura animata e il senso
I sogni di palingenesi politica e religiosa di Tommaso Campanella affondano le loro radici
in una cultura che riprende e sviluppa il naturalismo telesiano combinandolo con una
riviviscenza della magia pratica ficiniana. In Campanella convivono in un rapporto di
scontro-incontro le due tendenze fondamentali della cultura rinascimentale. Da una parte
il tenace attaccamento alle ragioni profonde del cristianesimo e l'esigenza di una
restaurazione cattolica, dall'altra l'ansia di rinnovamento morale e politico della società.
L'uomo del medioevo, il discepolo di S. Tommaso, è percorso ed agitato da nuove
tendenze ed impulsi: antiche certezze metafisiche e moderne inquietudini morali e
politiche rendono viva e drammatica la personalità vulcanica di questo monaco calabrese.
Dopo Telesio e Bruno, Tommaso Campanella è il terzo pensatore rinascimentale fiorito nel
mezzogiorno d'Italia. Nacque in Calabria, a Stilo, nel 1568. Appena quattordicenne,
entusiasmato dalla lettura delle vite di Alberto Magno e di Tommaso d'Aquino, entra nell'
ordine domenicano e muta in Tommaso il suo nome di battesimo Giovanni. Dopo attenta
lettura dei testi di Aristotele e dei suoi commentatori greci, latini ed arabi, avverte un
profondo fastidio per l'astrattezza logica di questa filosofia e sente il bisogno di accostarsi
allo studio delle scienze naturali: legge Plinio, Galeno, gli stoici, i democritei, ma
soprattutto Telesio. Del pensatore cosentino condivide particolarmente la rivendicazione
dell'autonomia del filosofare da ogni dogma e da ogni autorità, si entusiasma per la libera
indagine sulla natura. Nel 1588 compone la Philosophia sensibus demonstrata che
rispecchia il pensiero di Telesio. Dopo varie insistenze, nel 1588 ottiene di recarsi a
Cosenza per conoscere il filosofo amato, ma lo trova morto e sulla sua salma depone una
Elegia. In questo periodo è avviato da un rabbino astrologo all'occultismo e alle pratiche
magiche che coltiverà per tutta la sua vita.
Trasferitosi a Napoli, subisce l'influsso del Della Porta. Dalla combinazione del naturalismo
telesiano e dell'occultismo dellaportiano scaturirà il primo significativo lavoro filosofico di
Campanella: Del senso delle cose e della magia (1590). Saranno le tesi esposte in questo
libro a fornire il pretesto per un processo di eresia, conclusosi con la condanna dei filosofo.
Liberato dopo alcuni mesi, si reca in molte città italiane fra cui Padova, dove conosce
Galilei. Arrestato una seconda volta nel 1593, rimane in carcere per due anni. In prigione
compone De regimine ecclesiae e i Discorsi ai principi d'Italia, in cui esprime per la prima
volta la posizione teocratica: contro la divisione e l'indebolimento dell'Europa e contro
l'avanzata dei Turchi, Campanella propone di riconoscere al Papa il potere politico su tutti
gli stati europei. Nel 1597 torna in carcere con l'accusa di eresia. Nell'anno seguente
ritorna a Stilo dove esercita le arti magiche. E nelle stelle gli pare di leggere che un
grande evento rinnovatore sta per verificarsi. Convintosi di essere chiamato a realizzare
praticamente questa "renovatio", organizza una congiura antispagnola. Ma, tradito, è
arrestato e sottoposto ad un lungo processo come eretico impenitente. Con questa accusa,
Campanella aveva una sola possibilità di evitare una condanna a morte: fingersi pazzo.
Sottoposto a tortura riuscì a sopportarla, accreditando in tal modo la sua follia. Fu allora
condannato al carcere a vita. In prigione scrisse le sue opere più importanti: La Monarchia
di Spagna (1600); la
Città del sole (1602); l'Apologia pro Galileo (1616); la Philosophia realis (scritta dal 1613
al 1619, pubblicata nel 1623) la Philosophia rationalis (scritta dal 1606 al 1614, pubblicata
nel 1638).
Nel 1626, dopo ventisette anni di carcere duro,Campanella fu rimesso in libertà. Riuscì a
conquistare la stima e la protezione del Papa Urbano VII, per il quale operava pratiche
magiche. Quando, scoperta a Napoli una nuova congiura antispagnola capeggiata da un
discepolo del nostro filosofo, l'aria diventò ancora una volta irrespirabile per Campanella,
fu proprio Urbano VII a consigliare e a favorire la sua fuga a Parigi. In Francia sollecitò il
Cardinale Richelieu a realizzare l'ideale di un impero universale cattolico che
precedentemente pensava potesse essere realizzato dalla Spagna. Ma le pratiche
astrologiche 'rivelarono' la sua prossima morte in occasione dell'eclissi del 1° giugno
1639:
A 71 anni, mentre andava cercando di rendersi favorevoli le sorti tra bagliori di torcie,
profumi di aromi e musiche carezzevoli,lo raggiunse infine la morte.
(A. Testa,Campanella, Milano l97l,pagg.,16-17)
Come abbiamo già accennato, il primo punto di riferimento filosofico per Campanella è il
naturalismo telesiano. Telesio aveva avuto il merito di rendere la spiegazione della realtà
autonoma da ogni presupposto metafisico esteriore alla natura. Campanella, seguendo
Telesio, vuole prendere le distanze sia dal meccanicismo materialistico di quanti, come i
democritei, sostengono che tutto derivi dall'aggregazione di atomi, sia dalle posizioni di
quanti vedono in ogni evento naturale la diretta presenza di Dio. Campanella è convinto
che il mondo sia una creatura divina, dotata, però, di una sufficiente indipendenza dal suo
creatore. Come Telesio, sostiene che si possa affermare l'autonomia e l'indipendenza della
natura senza negare l'opera di creazione da parte di Dio. Ma il naturalismo telesiano non
gli sembra sufficiente a spiegare tutta la ricchezza della realtà e perciò innesta su di esso
elementi ricavati dal neoplatonismo ficiniano.
La prima affermazione campanelliana è che tutta la realtà è animata:
Bisogna dunque affermare che il mondo sia un animale tutto senziente, e che godano tutte
le parti della comune vita; e, come in noi il braccio non vuole essere diviso dall'omero, né
l'omero dalle scapole, né la testa dal collo, né le gambe dalle coscie;…così tutto il mondo
aborrisce essere diviso.
(Del senso delle cose e della magia, I, 9)
Tutte le parti di questo organismo vivente posseggono la sensibilità:
Tutti dunque sentono; altrimenti il mondo sarebbe caos, perché il fuoco non andaria in
alto, né l'acqua al mare, né le pietre caderiano in giù, ma ogni cosa dove fusse posta
rimanerebbe, non sentendo la sua distruzione tra contrarii, né la conservazione tra simili.
Dunque veracissimo argomento del loro senso è l'ordine del mondo.
(ivi, I, 5)
I corpi che appaiono animati rispetto agli altri che a prima vista sembrano inanimati sono
in fondo formati dagli stessi elementi degli altri, e non vale secondo Campanella contro
questa teoria invocare la diversa conformazione fisica degli enti particolari:
Tanta sciocchezza è negare il senso alle cose perché non hanno occhi, né orecchie, quanto
é negare il moto al vento perché non ha gambe, e il mangiare al fuoco perché non ha
denti, e il vedere a chi sta in campagna perché non ha finestre d'affacciare, e all'aquila
perché non ha occhiali.
(ivi, I, 13)
La tendenza animistica telesiana è, come si vede, fortemente accentuata. Telesio aveva
avuto qualche perplessità a riconoscere la sensibilità al freddo e alla materia inerte,
Campanella non esita a sostenere che tutte le cose, freddo e materia compresi, sono
fornite di sensibilità. Questa convinzione permette a Campanella di riprendere e sviluppare
un'altra dottrina telesiana secondo cui tutta la conoscenza deriva dal senso. Lo stesso
termine sapere, secondo Campanella, deriva da "sapore" : " dalli sapori che il gusto sape".
Ora io trovo che li sensi son certi più che ogni altra conoscenza nostra, tanto di intelletto,
come di discorso, come di memoria, poiché ogni loro notizia dal senso nasce, e quando
sono incerte queste conoscenze, col senso s'accertano e correggonsi et esse non sono
altro che senso indebolito o lontano o strano
.
(ivi, II, 30)
Solo il senso, infatti, fornisce una visione completa e particolareggiata delle cose.
L'intelletto, con la sua forza astraente, vede soltanto ciò che accomuna le cose fra di esse
e non ciò che le diversifica:
E anco l'intelletto è senso del comune e della con similitudine degli enti e non delle
particolarità, ed è in perfettissima conoscenza…perché è lontano e vede sol quello che è in
tutti e non le minutezze.
(ivi, II, 30)
Dalle premesse animistiche e sensistiche, Campanella ricava la sua fiducia nelle scienze
occulte. Astrologia e magia non debbono essere considerate scienze demoniache, ma
tecniche naturali, operazioni dei tutto legittime e consentite. In un cosmo unitario,
articolato in modo che ogni parte è simpateticamente legata al tutto, è possibile e lecito
l'intervento dell'uomo che con la sua arte imita ed aiuta la natura:
Tutto quello che si fa dalli scienziati imitando la natura o aiutandola con l'arte ignota, non
solo alla plebe bassa, ma alla comunità degli uomini si dice opera magica. Talché non solo
le predette scienze, ma tutte l'altre servono alla magia. Magia fu d'Archita [di Taranto,
filosofo pitagorico V - IV secolo a.C.] fare una colomba che volasse come l'altre naturali, e
a tempo di re Ferdinando imperatore in Germania, fece un tedesco un'aquila artificiosa e
una mosca volare da se stessa, ma, finché non s'intende l'arte sempre dicesi magia: dopo
è volgare scienza.
(ivi, IV, 5)
Ma per Campanella, agitato da una forte passione politica, convinto assertore di una
renovatio politico-religiosa, "la più grande azione magica dell'uomo è dare leggi agli
uomini"
Gran mago bisogna che sia il legislatore che introduce cosa a tutti piacevole e giovevole, e
alli pochi repugnanti manifestarla e persuaderla per buona. Gli oratori e poeti sono secondi
magi che per lor laude introducono passioni piacevoli ma spesso inutili. Buono è quello che
l'uno e l'altro fa insieme.
(ivi, IV, 12)
MAGIA, SCIENZA E FILOSOFIA DELLA NATURA NEL RINASCIMENTO
Tommaso Campanella: politica e metafisica
Politica e metafisica: questi i due motivi ispiratori di tutta l'opera di Campanella. Già nel
corso dei primi processi, quasi a voler mostrare l'ortodossia della sua fede e l'amore e
l'attaccamento alla chiesa, compone una serie di opere in cui auspica l'unificazione
religiosa e politica di tutto il mondo sotto la guida del Papa. Questo ideale ierocratico è
presente già nel De monarchia christiana, andato perduto: la riforma luterana dall'interno
e la minaccia turca dall'esterno indeboliscono sempre piú l'Europa cristiana; se si vuole
evitare la sconfitta bisogna realizzare l'unificazione politica e religiosa dell'Europa sotto un
solo capo, e poiché nessun sovrano ha l'autorità ed il prestigio sufficienti per far tacere le
rivalità, bisogna mettere a capo di questo organismo politico il Papa. Il pericolo della
caduta dell'Europa in mano agli infedeli, infatti non può essere sventato
se li principi e le repubbliche non si accordano a far decreto universale, che il Papa sia
signore loro 'in temporalibus et spiritualibus' che li possa collegare 'propria auctoritate' e
mandare contro gli eretici e infedeli, o che possa deporre quelli che si oppongono alla luce
universale e alla unità conservatrice di tutto il Cristianesimo.
(Discorsi universali del governo ecclesiastico per fare una greggia e un pastore, in Scritti
scelti di G. Bruno e di T. Campanella, a cura di L. FIRPO, Torino 1949, p. 479)
Il braccio armato per la realizzazione di questo programma politico, Campanella lo
individua nella cattolicissima Spagna ed invita a tal fine i principi italiani ad accettare la
pax hispanica (Monarchia di Spagna). Solo quando, riparato a Parigi, diffida della Spagna,
indicherà nella Francia la nazione capace di realizzare il suo disegno politico (Monarchia di
Francia).
Negli anni del carcere Campanella lavora alla stesura di una sorta di Summa del sapere
umano distinta in due parti, la philosophia realis e la philosophia rationalis. In quest'ultima
opera tratta della grammatica, della dialettica, della retorica, della politica e della
storiografia. Mentre nella prima affronta argomenti di fisica, di etica, di economia e di
politica. Nell'ambito di questa Summa una forte rilevanza viene data proprio alla politica.
Questo aspetto della filosofia pratica (realis) è improntato ad un considerevole senso di
realismo. Campanella si sforza di fotografare la realtà politica qual è indipendentemente
da qualsiasi sogno profetico e millenaristico. Ma non pago di questo realismo, trasfonde la
tensione ideale ed il desiderio di rinnovamento politico nella Città del sole (1602).
Campanella in quest'opera immagina che un nocchiero di Cristoforo Colombo descriva ad
un cavaliere dell'ordine degli Ospitalieri l'organizzazione sociale, politica ed economica
della città di Taprobana posta sotto l'equatore, fornendo notizie anche sulla religione, sui
modelli educativi e sulla morale dei suoi abitanti. La città si estende su un colle ed è
organizzata in sette gironi. Alla sommità del colle c'è un tempio rotondo,
sopra l'altare non vi è altro ch`un mappamondo assai grande, dove tutto il cielo è dipinto,
e un altro dove è la terra. Poi sul cielo della cupola vi stanno tutte le stelle maggiori del
cielo. (La città del sole)
Il naturalismo campanelliano eleva in tal modo il cielo, la terra e le stelle a simboli divini.
Nella delineazione della struttura politica,della città solare è facilmente rilevabile la
presenza dell'ideale ierocratico del filosofo. Il capo della città, infatti, è
Principe, sacerdotale... che s'appella Sole, ed in nostra lingua si dice Metafisico: questo è
capo di tutti in spirituale e temporale…Ha tre principali collaterali: Pan, Sin, Mor, che vuol
dire: Potestà, Sapienza e Amore. Il Potestà ha cura delle guerre, delle paci e dell'arte
militare…il Sapienza ha cura di tutte le scienze e degli dottori e magistrati dell'arti liberali
e meccaniche…il Amore ha cura della generazione, con unire i maschi e le femmine in
modo che faccin buona razza…
(ivi)
Il potere metafisico è platonicamente fondato sul sapere, perché Campanella ritiene che
non sarà mai crudele, né tiranno, un uomo sapiente. Il Metafisico, infatti,
sa tutte l'istorie delle genti, e riti e sacrifizi e repubbliche e inventori di leggi e arti. Poi
bisogna che sappia, tutte, l'arti meccaniche e tutte le scienze ha da sapere, matematiche,
fisiche, astrologiche... non si trova chi sappia, più di lui e sia piú atto al governo.
Per prevenire l'egoismo che nasce dal possesso dei beni privati e della famiglia, i solari
si risolsero di vivere alla filosofica, in commune; si ben la communità delle donne non si
usa tra le genti della provinzia loro, essi l'usano… Tutte cose son communi; scienze e onori
e spassi son communi.
(ivi)
Ad ognuno è dato quanto bisogna e, lavorando tutti per quattro ore al giorno, e
alternandosi nei diversi mestieri, non hanno bisogno di schiavi. I fanciulli sono educati in
comunità e l'educazione è, si direbbe con termine moderno, integrale. Mira, infatti, alla
realizzazione dell'uomo completo, allenato alla speculazione filosofica, ma anche alla
esecuzione di lavori manuali. I ragazzi apprendono in maniera attiva guardando le
immagini del sapere dipinte sulle mura che circondano i gironi della città. La religione dei
solari è fondata sulla ragione e non sulla rivelazione, essi credono in un solo dio e lo
onorano naturalmente sotto la forma del sole. Credono nell'immortalità dell'anima e
ritengono che Dio sia Somma Potenza, Somma Sapienza e Sommo Amore.
La Città del Sole è l'opera chiave di tutta la speculazione campanelliana. Essa esprime
l'ideale fondamentale del filosofo, e cioè un cristianesimo rinnovato e snellito nella dottrina
e nell'organizzazione, più vicino all'ideale egualitario proposto dal Vangelo e dotato di
sufficiente autorità morale e culturale per procedere nell'opera di rinnovamento
dell'Europa del tempo.
Un rilievo particolare spetta all' Apologia pro Galileo, scritta negli anni della prigionia
(1616) in difesa dello scienziato pisano. Il discorso non verte sulla validità dell'ipotesi
copernicana che la chiesa condannava, ma sulla legittimità dell'intervento dei teologi nelle
questioni scientifiche. Con forza Campanella sostiene
che non si possa impedire la ricerca di Galilei, né togliere dalla circolazione i suoi scritti
senza rischio di irrisione per la Scrittura.
(Apologia di Galileo, a cura di S. FEMIANO, Milano 1971, pag. 149)
Campanella è convinto che la natura sia il libro di Dio e che chi riesce a penetrare nei
segreti naturali comprende Dio stesso:
Io imparo più dall'anatomia d'una formica o d'un'erba….che non da tutti li libri che sono
scritti da principio dei secoli a mò, dopo che imparai a filosofare e a leggere il libro di Dio.
Al cui esemplare correggo i libri umani malamente copiati e a capriccio, e non secondo sta
nell'universo libro originale.
(Lettere, a cura di V. SPAMPANATO, Bari 1927, p.134)
Per Campanella, come per Galileo, non può esserci reale opposizione tra fede e scienza.
Verità scientifica e verità rivelata sono espressioni diverse dell'unica verità divina; ma in
caso di contrasto tra di esse è la verità scientifica che va tenuta ferma e ad essa va
adeguata la lettura del testo sacro.
Nell'ultimo importante scritto di Campanella, la Metafisica, è compendiata la speculazione
filosofica più matura del filosofo. L'influsso telesiano, anche se non completamente
annullato, è ormai molto debole e marginale. La natura non può essere spiegata, come
voleva il filosofo cosentino, facendo ricorso soltanto ai principi naturali della materia, del
caldo e del freddo. La realtà possiede una struttura metafisica più complessa ed articolata
e si dispiega nell'universo secondo un ordine naturale i cui principi fondamentali sono le
tre primalità, ossia le tre caratteristiche essenziali degli enti.
Ma prima di affrontare il problema della struttura della realtà Campanella sente il bisogno
di trovare, al di là di ogni dubbio, un punto di partenza fermo e sicuro su cui costruire la
scienza della realtà. Contro lo scetticismo che investe con il proprio dubbio ogni verità,
Campanella fa proprio il punto di vista di S. Agostino quando polemizza contro gli
accademici:
Quelli che proclamano di non sapere se sappiano o non sappiano qualche cosa, non dicono
giusto. Difatti sanno necessariamente che non sanno…parimenti sanno cosa sia la verità e
cosa sia il sapere, altrimenti non potrebbero dire di ignorare la verità…conseguentemente,
quando dicono di non sapere, negano la perfezione della scienza, ma non negano che ci
sia sapere e arte e esperienza.
(Metafisica, I, 30-31)
La confutazione dello scetticismo è implicita nella stessa tesi con cui lo scettico afferma la
sua ignoranza: egli infatti sa di non sapere, e intanto possiede questa certezza, in quanto
presuppone l'esistenza di una verità non revocabile in dubbio. La prima intuizione di
questa certezza è la conoscenza che l'anima ha di se stessa:
L'anima conosce sé con una conoscenza di presenzialità e non con una conoscenza
obiettiva, eccetto che sul piano riflesso. E' certissimo principio primo che noi siamo e
possiamo, sappiamo e vogliamo; poi in secondo luogo è certo che noi siamo qualche cosa
e non tutto, e che possiamo conoscere qualche cosa e non tutto, e non totalmente.
(Metafisica, I, 32)
La prima consapevolezza per la quale siamo, possiamo, sappiamo e vogliamo è intrinseca
alla natura stessa dell'anima, mentre la seconda, che ci fornisce il limite del nostro essere,
delle nostre possibilità, del nostro sapere e del nostro volere, ci viene dall'esterno e
precisamente dalla conoscenza delle cose particolari:
Quando poi dalla conoscenza di presenzialità si procede ai particolari
per una conoscenza obiettiva comincia l'incertezza, per il fatto che l'anima
viene alienata, a causa degli oggetti, dalla conoscenza di sé, e gli oggetti
non rivelano totalmente e distintamente, ma parzialmente e confusamente.
E in vero noi possiamo, sappiamo e vogliamo l'altro perché possiamo, sap-
piamo e vogliamo noi stessi.
(Metafisica, I, 32)
La condizione fondamentale per la conoscenza della realtà esterna è, come si vede, la
consapevolezza che l'anima possiede di se stessa. Ma una tale consapevolezza non è
prerogativa esclusiva dell'uomo, ma è di tutti gli enti naturali, in quanto tutti dotati di
sensibilità; ed inoltre tale consapevolezza non deriva affatto da un pensiero ma da un
senso, non è un'autocoscienza nel significato spiritualistico del termine, ma, come afferma
Campanella, un sensus sui, senso di sé. Il principio ispiratore della metafisica
campanelliana è dunque un principio naturalistico. Il processo conoscitivo dell'animo
umano è infatti lo stesso per tutti gli altri enti naturali:
L'anima e gli enti conoscono in primo luogo ed essenzialmente se
stessi, mentre conoscono le altre cose secondariamente e accidentalmente,
in quanto conoscono se stessi modificati e trasformati in qualche modo
nelle cose dalle quali vengono modificati. Quindi lo spirito senziente non
sente il calore, ma in primo luogo e di per sé sente se stesso modificato dal
calore.
(Metafisica, VI, 8)
Sul sensus sui, sulla consapevolezza che ogni ente possiede di se stesso, si fondano le
condizioni prime della realtà e della sua conoscibilità:
Nessun ente sembra essere se non in quanto può essere. Infatti ciò
che non può essere non è, in quanto non può essere. Il fondamento
dell'essere è la potenza.
(Metafisica, VI, 5)
Ma accanto alla potenza (posse), come condizione essenziale dell'essere, va annoverata
anche la sapienza (nosse) e la volontà (velle):
L'ente è perché sa di essere e non si trova alcun ente che non conosca
se stesso. (Metafisica, VI, 7)
La sapienza è il principio che consente all'essere di conoscersi e di conservarsi. In virtù di
esso, infatti, ogni ente vuole conoscere e fuggire gli enti contrari ad esso, mentre vuole
conoscere e cercare quelli che favoriscono la sua conservazione.
Gli enti non sono soltanto perché possono essere e conoscono l'essere, ma anche perché
amano l'essere; se infatti non l'amassero non proteggerebbero tanto ciascuno il proprio
essere, ma si lascerebbero subito distruggere dal proprio contrario e non seguirebbero gli
enti amici conservativi del loro essere, né avverserebbero quelli nemici, né genererebbero
un simile nel quale conservarsi, e si ridurrebbero tutti al caos o sarebbero distrutti.
(Metafisica, VI, 11)
L'ordine e l'armonia del cosmo, la sua continuazione nel tempo è assicurata dalle tre
primalità, operanti in tutti gli enti indipendentemente dal gradino della scala dell'essere
occupato da ognuno di essi. Ma gli enti, anche se possono sanno e vogliono, non possono
non sanno e non vogliono in misura infinita. Essi sono limitati e finiti e perciò rimandano
ad un ente che può, sa ed ama infinitamente. Questo essere, da cui dipendono tutti gli
altri, è Dio. Oltre al ragionamento testimonia l'esistenza di Dio anche la stessa coscienza
che ogni ente ha di se stesso. In virtù di essa gli enti
conoscono ed amano se stessi e il loro creatore. Campanella segna un netto distacco tra
Dio (creatore) e mondo (creato): Dio ha creato il mondo nel tempo e dal nulla ed è proprio
il nulla che entra nella costituzione degli enti per renderli finiti e mortali. Dio oltre ad
essere la causa, è anche il fine ultimo cui tendono tutte le cose. Negli enti infatti vi è come
una tensione innata verso Dio, una religione naturale più perfetta della religione positiva
"determinata dalla legge ". Quest'ultima però, benché sia nata dalla religione naturale, con
i suoi dogmi finisce per offuscarla.
Il recupero della religione naturale intesa come cristianesimo riformato era un elemento, e
tra i più importanti del programma di rinnovamento che Campanella propugnò e difese per
tutta la vita.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Una vita fra politica e studi
Su pochi altri autori la storiografia filosofica ha espresso giudizi cosí contrastanti come su
Francesco Bacone.
Gli illuministi nel secolo XVIII, nella loro ansia di esaltare la società inglese, le sue
istituzioni politiche e le sue realizzazioni sul piano economico, non esitavano a considerare
"l'immortale cancelliere... a capo degli illustri personaggi" che "preparavano da lungi
nell'ombra ed in silenzio la luce che a poco a poco, per gradi insensibili, avrebbe illuminato
il mondo". (D'Alembert-Diderot, La filosofia dell'Encyclopédie, Bari 1966, p. 205).
Esaltatori altrettanto entusiasti di Bacone furono nel secolo XIX i positivisti che del
Cancelliere inglese apprezzarono soprattutto l'impegno per una scienza socialmente utile.
Ma ad una considerazione piú attenta e meditata, non condizionata da motivazioni
ideologiche, il ruolo di rinnovatore del filosofo inglese si riduce di molto ed, accanto ad
incontestabili meriti, affiorano limiti teorici precisi ed incontrovertibili. Se, infatti, è vero
che Bacone è tra i primi a porsi con lucida intelligenza il problema di un metodo
investigativo nuovo, capace di eliminare ogni residuo di verbalismo e di retorica dal
processo di una ricerca utile al fine dell'acquisizione di nuove verità scientifiche, se è vero
che persegue con tenacia il disegno del rinnovamento complessivo della cultura per
realizzare il dominio dell'uomo sulla natura, altrettanto vero è che il Cancelliere inglese
nutre ancora una concezione della natura sostanzialmente rinascimentale, di tipo
qualitativo ed essenzialistico e che il suo metodo punta tutto sull'esperienza, anche se
ordinata e metodica. Non fu un caso che preferi il sistema di Tycho Brahe a quello di
Copernico, considerando quest'ultimo troppo poco sperimentale.
Nonostante il suo entusiasmo per il rinnovamento del sapere, nonostante la sua
convinzione che la scienza debba servire al progresso economico e civile della società,
Bacone si trovò a pensare e a lavorare fuori da quella linea metodologica che da Cusano,
attraverso Leonardo e Copernico, arriva a Galilei, e che rappresenta la struttura portante
della nuova scienza.
Nato a Londra nel 1561 da Nicola, guardasigilli della regina Elisabetta 1, Francesco Bacone
studiò a Cambridge e poi a Parigi, dove si era recato al seguito dell'ambasciatore
d'Inghilterra. Rimasto orfano in giovane età, fu quasi costretto dalla necessità a dedicarsi
alla vita politica, ma nonostante la protezione del Conte di Essex, favorito della Regina,
finché visse Elisabetta non riuscì ad occupare alcuna carica importante. Con l'ascesa al
trono di Giacomo 1 Stuart, Bacone cominciò una brillantissima carriera politica: avvocato
generale, procuratore generale, Lord guardasigilli ed infine Lord cancelliere, barone di
Verulamio e visconte di S. Albano. Uomo di pochi scrupoli, non esitò a scagliarsi contro il
suo antico protettore, Conte d'Essex, quando questi fu processato. Si rese tanto inviso ai
sudditi del re nell'esercizio delle sue funzioni, da essere accusato di corruzione dal
Parlamento convocato nel 1621 per deliberare nuove imposte fiscali. Riconosciutosi
parzialmente colpevole, fu condannato ad una forte ammenda e al carcere nella Torre di
Londra finché avesse voluto il re. Ma ben presto fu restituito alla libertà grazie alla
benevolenza di Giacomo I. Da allora si ritirò a vita privata per dedicarsi completamente
agli studi. Vissuto nel periodo storico che segnò la trasformazione dell'Inghilterra da
potenza agricola, aspirante al dominio continentale di territori appartenenti alla Francia, a
potenza marinara e commerciale, Bacone seppe capire i nuovi valori economici, sociali e
culturali che avrebbero costruito la grandezza della nuova Inghilterra. Si fece perciò
banditore del rinnovamento della cultura fin dalle sue fondamenta. Egli intuí che ad
operare il rinnovamento della vita economica e sociale non era stata la cultura umanistica
intrisa di retorica e di poesia, ma le nuove tecniche operative, le arti meccaniche con le
loro procedure, con la loro convinzione che verità ed utilità non vanno scompagnate. Alla
venerazione per gli antichi filosofi egli sostitu' l'ammirazione per gli uomini nuovi che con
la sperimentazione e con l'applicazione della scienza alla tecnica avevano consentito il
salto di qualità dell'economia inglese trasformandola da agricola in industriale e
mercantile. In tutte le sue opere la polemica contro la cultura astratta e verbalistica della
tradizione è continua e serrata. A questa va prefenita una cultura capace di abbinare la
comprensione della natura (la teoria) con l'intervento operativo su di essa per piegarla al
servizio dell'uomo (la pratica).
Inizialmente Bacone coltiva interessi culturali di tipo umanistico e giuridico. Pubblica,
infatti, i Saggi, che sono analisi redatte sullo stile dei Saggi di Montaigne e riguardano
argomenti morali e politici. Ma ciò chel'entusiasma di piú è la cultura scientifica e
soprattutto il problema della elaborazione di un nuovo strumento di indagine, di un nuovo
metodo di investigazione. Proprio questo nuovo metodo è il Temporis partus masculus,
come suona il titolo di una sua opera redatta intorno al 1603, cui seguono i Cogitata et
visa (1607), il De Sapientia veterum (1609).
Negli ultimi anni di vita politica attiva, Bacone sogna una riforma generale del sapere, una
Instauratio magna il cui piano grandioso è delineato nel De augmentis et dignitate
scientiarum. Delle sei parti di cui doveva constare questa "enciclopedia del sapere", solo la
seconda parte venne sviluppata adeguatamente. Il Novum organum (1620) è, infatti, la
trattazione particolare e specifica del metodo di cui si deve servire la nuova scienza.
Bacone moriva nel 1626; l'anno successivo veniva stampata la Nuova Atlantide, uno
scritto incompleto in cui egli aveva enunciato il suo ideale di un organismo politico-
scientifico collegiale in grado di realizzare stupefacenti invenzioni e di dare l'avvio ad una
nuova umanità capace di dominare la natura con i ritrovati piú raffinati della scienza e
della tecnica.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
ll rifiuto della tradizione
La polemica contro la cultura tradizionale e la convinzione che i tempi fossero già maturi
per un radicale rinnovamento della cultura sono presenti in Bacone fin dai primi anni del
secolo. Nei Temporis Partus Masculus (1603) la critica contro la cultura tradizionale è già
tutta sviluppata, come è anche tracciata l'ipotesi metodologica per la elaborazione di una
nuova cultura. L'insofferenza baconiana ha due precisi obiettivi: la filosofia che si è servita
più della retorica e delle immagini fantastiche che non del contatto con la natura e la
presunta scienza dei cosiddetti sperimentatori, come i medici e gli alchimisti. Contro i più
autorevoli filosofi antichi Bacone avanza critiche molto severe. Aristotele è definito
detestabile sofista…entusiasta per le inutili sottigliezze ... vile ludibrio di parole,
(Temporis partus masculus,2)
e viene indicato come il capostipite di
quei cavillosi chiacchieroni che, essendosi allontanati da ogni inda-
gine mondana e misconoscendo la luce della storia e dei fatti, son giunti... ,
a porre di fronte a noi questa enorme quantità di feccia scolastica.
(ivi)
A Platone, chiamato "sfacciato cavillatore,... gonfio poeta... delirante teologo", Bacone
rimprovera soprattutto la tesi che "la verità è abitante nativo della mente umana e non
viene dall'esterno".
Gli alchimisti a loro volta hanno ingenerato molte speranze su fondamenta gracili. Essi,
pur esaltando l'esperienza, mancano di metodo e perciò non possono costruire un vero
sapere scientifico, le loro scoperte sono occasionali e frammentarie:
Vagando per le vie dell'esperienza talvolta, per caso e non per etodo, capìta loro di
incontrarsi con qualcosa di utile.
(ivi, 4)
La condanna per la cultura tradizionale, fatti salvi i presocratici che hanno operato a
contatto diretto con le cose, è netta e chiara.Al verbalismo retorico, al tecnicismo
sillogistico, allo sperimentalismo disordinato che animava quei filosofi bisogna opporre un
metodo che faccia appello direttamente alla natura:
Bisogna attingere la scienza dalla luce della natura e non cercare di
richiamarla dalle tenebre deirantichità.
(ivi, 5)
Ma non basta stabilire questo "connubio" tra la mente e le cose, non basta un metodo
nuovo che faccia appello all'espenienza metodica passata al vaglio della critica
intellettuale, c'è bisogno anche della collaborazione fra i vari ricercatori: la scienza vera è
frutto dell'impegno progressivo e collaborativo di un gran numero di studiosi e non
dell'intuizione o della sperimentazione di una sola persona, anche se geniale.
Anche il fine della scienza deve mutare col metodo. Ad un sapere puramente
contemplativo, al sapere per il sapere, bisogna sostituire un sapere produttivo, un sapere
che metta l'uomo in condizione di esercitare il proprio dominio sulla natura.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Le nozze della mente e dell'universo
La fonte prima di questa " scienza operativa " Bacone la individua nell'ambizione dell'uomo
stesso. Tra le varie ambizioni va esaltata come la piú nobile
quella di coloro che cercano di instaurare ed esaltare la potenza e il dominio dell'uorno
stesso, o di tutto il genere umano suIl'Universo... Il dominio dell'uomo consiste solo nella
conoscenza: l'uomo tanto può quanto sa... la natura infatti non si vince se non
ubbidendole.
(Cogitata et visa, 16)
Bacone osserva poi che le varie arti e tecniche, con i progressi realizzati senza un metodo
scientifico rigoroso, hanno già da sole mutato le condizioni di vita degli uomini, ma a
queste scoperte causali, quasi accidentali, bisogna sostituire una ricerca metodica,
sistematica, organizzata, capace di rinnovare e migliorare ancora di piú l'esistenza umana.
Bacone traccia le linee fondamentali di questo metodo, capace di rendere l'uomo signore
della natura, nel 1607 nel saggio Cogitata et visa.
Dopo aver ribadito l'accusa di sterilità scientifica ai "teologi", ai "dialettici" e agli
"sperimentalisti" che hanno consumato il "divorzio" tra mente e cose, gli uni fidando solo
sulla mente, gli altri solo sulle cose, e dopo aver indicato nel linguaggio e nella tradizione
le difficoltà che si frappongono alla realizzazione di un nuovo sapere, Bacone, ricorrendo
ad una colorita metafora, fornisce l'indicazione di massima del nuovo metodo:
per universale consenso le arti e le scienze sono distinte in empiriche e razionali o
filosofiche; ma benché siano gemelle queste due attitudini non sono state finora
appropriatamente mescolate e combinate. Gli empirici, come le formiche, accumulano e
conservano. I razionalisti, come i ragni, ricavano da sé medesimi la loro tela. La via di
mezzo è quella delle api che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi e la
trasformano e la digeriscono in virtù di una loro propria capacità. Non dissimile è il lavoro
della vera filosofia che ricava la materia prima dalla storia naturale e dagli esperimenti
meccanici e non la conserva intatta nella memoria ma la trasforma e la lavora con
l'intelletto.
(ivi, 17)
Non basta allora la pura razionalità (cogitata) e neppure la semplice esperienza (visa),
bisogna combinare le due attività affinché
possano derivare molte cose fauste e felici da una piú stretta e piú santa unione.
(ivi)
Allo sperimentalismo che accumula dati senza ordine bisogna sostituire l'"experientia
litterata", cioè una ricerca che classifica le esperienze fatte con metodo ed intelligenza. Ma
prima di intraprendere questo lavoro di classificazione bisogna rimuovere dalla mente
tutte le teorie, le opinioni e le nozioni correnti, affinché
l'intelletto reso piano e retto, [sia] nuovamente posto a contatto con
le cose particolari, di modo che l'ingresso al regno della natura non sia dis-
simile da quello al regno dei cieli, al quale non si può accedere senza rifarsi
bambini. (ivi, 18)
Dopo questa purificazione intellettuale si dovrà distribuire ed ordinare il materiale raccolto
attraverso le esperienze in tavole
in modo che l'intelletto possa lavorare su di esse per assolvere il suo
compito. (ivi)
Dopo queste prime indicazioni Bacone progetta la realizzazione di un'imponente
enciclopedia del sapere, una Instauratio magna. Nella prima delle sei parti preventivate, il
De dignitate et augmentis scientiarum, Bacone presenta la summa ovvero la descrizione
universale della scienza già in possesso del genere umano. In quest'opera Bacone
suddivide il sapere in scienze storiche, fondate sulla memoria, in arti poetiche, fondate
sulla fantasia, e in scienze filosofiche, fondate sulla ragione. Nella seconda parte, il Novum
organum, è trattato in modo completo e definitivo quel nuovo metodo che nei Cogitata et
visa era indicato ed appena abbozzato.
La " nuova logica ", avverte Bacone, differisce dall'antica per tre ragioni: per il fine, per
l'ordine delle dimostrazioni e per il punto di partenza della ricerca.
Il fine che questa nostra scienza si propone è di inventare non argo-
menti, ma arti; non cose conformi ai principi, ma i principi stessi; non
ragioni probabili, ma designazioni ed indicazioni di opere. Ad un'inten-
zione diversa fa pertanto seguito un diverso risultato. Là infatti è l'avversa-
rio ad esser vinto e costretto dalla disputa; qui è la natura ad esser vinta e
costretta dall'opera.
(Instauratio magna, 2)
A fine diverso corrisponde un metodo diverso. La vecchia logica sembra non aver dato
eccessiva importanza all'induzione;
l'ha appena ricordata ed è subito passata al sillogismo. E proprio nel sillogismo si annida
l'errore e la conseguente vacuità di quel metodo. Basato sulle parole e non direttamente
sulle cose, il sillogismo "non produce che confusione". I dialettici, infatti, con una
induzione troppo sbrigativa, basata su poche esperienze, e perciò esposta al pericolo di
essere contraddetta, "volavano" ai principi piú generali, dai quali poi facevano derivare le
proposizioni medie. Bacone ritiene, invece, che
gli assiomi devono ricavarsi gradatamente in modo da giungere solo in ultimo ai principi
generali. Questi principi, in tal modo, riescono non puramente ideali, ma ben determinati e
tali che la natura li riconosca come suoi propri e piú noti a sé ed essi ineriscono al midollo
delle cose.
(ivi)
Per la determinazione del punto di partenza bisogna risalire più in alto di quanto non sia
stato fatto finora, chiamando gli stessi principi delle scienze a rendere conto della loro
legittimità e della loro validità, ed, inoltre, sottoponendo a critica severa le nozioni prime
dell'intelletto e le stesse informazioni fornite dal senso. Solo quando è stato chiarito
che cosa proviene dalla natura delle cose e che cosa dalla natura della
mente, riteniamo di aver preparato ed ornato il talamo per le nozze della
mente e dell'universo. E l'augurio del canto nuziale sia che da questo con-
nubio nascano aiuti per gli uomini e una stirpe di inventori che riescano a
dominare e ad alleviare, almeno in parte, i bisogni e le miserie degli
uomini. (ivi)
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Il nuovo metodo e il trionfo della tecnica
Il Novum Organum, che contiene, come abbiamo accennato, la trattazione completa del
nuovo metodo, si compone di due parti. Nella prima, Bacone procede all'annunciata
purificazione della mente da ogni tipo di pregiudizio in modo da renderla adatta e pronta
ad un incontro con le cose. Nella seconda, invece, è esposta la teoria della nuova
induzione, cioè il nuovo metodo.
Prima di procedere, allora, nella costruzione del nuovo sapere, bisogna provvedere ad
un'opera di bonifica della mente sradicando da essa le false nozioni (idòla) che si sono
fissate in profondità rendendo difficile, se non impossibile, l'accesso alla verità. In questa
prima parte, che comunemente viene indicata come pars destruens,
Bacone consapevole del ruolo che la mente svolge nel processo conoscitivo, punta a
liberarla da ogni condizionamento. La novità della dottrina degli idòla consiste nel fatto
che la mente, fin'alIora considerata lo strumento di ogni indagine critica, è essa stessa
sottoposta a critica:
Non si può infatti pretendere che ci si sottoponga al giudizio di chi
deve essere chiamato egli stesso in giudizio.
(Nov. Org., 1, 33)
I falsi concetti (idòla) che condizionano la mente umana rendendola inadeguata a cogliere
le cose nella loro oggettiva realtà sono quattro; due radicati nella stessa natura umana, e
due avventizi, acquisiti cioè dalla mente nel corso della storia. Gli errori propri della natura
sono gli idòla tribus e gli idòla specus. I primi, propri della "tribù", cioè della razza umana,
sono comuni a tutti gli uomini e rendono la mente simile ad uno specchio che riflette le
cose non come sono esse stesse, ma modificate dalla sua particolare conformazione:
Pertanto si asserisce falsamente che il senso è la misura delle cose. Al
contrario, tutte le percezioni, sia del senso sia della mente, derivano
dall'analogia con l'uomo, non dall'analogia con l'universo.
(Nov. Org., 1, 41)
Accanto a questi pregiudizi derivati dalla razza umana convivono nell'intelletto quelli propri
dell'uomo in quanto individuo, gli "idòla specus". Il temperamento, l'educazione ricevuta,
le amicizie frequentate, i libri letti, il diverso modo di reagire all'ambiente esterno formano
in ognuno di noi
una specie di caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della
natura.
(Nov. Org., 1, 42)
Gli idòla specus rendono in tal modo
lo spirito umano... cosa varia e grandemente mutevole e quasi sog-
getto al caso (ivi)
e, quindi, incapace di conoscere la realtà come essa è veramente. Degli idòla che derivano
dall'esterno, alcuni sono frutti del linguaggio comune (idòla fori), altri derivano dai vari
sistemi filosofici e dalle errate dimostrazioni scientifiche (idòla theatri). Gli idòla fori
nascono nel mercato, nel luogo in cui gli uomini stringono recipro-
che relazioni, sono il frutto della approssimazione e dell'imprecisione del linguaggio:
Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi, ma i nomi vengono imposti secondo
la comprensione del volgo e tale errata ed inopportuna imposizione ingombra
straordinariamente l'intelletto... Anzi, le parole fanno violenza all'intelletto e confondono
ogni cosa e trascinano gli uomini in innumerevoli e vane controversie e finzioni.
(Nov. Org., 1,43)
Gli idóla theatri sono derivati dalle varie teorie filosofiche e scientifiche. I piú dotti tra gli
uomini, quelli che godono di maggior prestigio ed autorità, hanno elaborato le loro
dottrine con la stessa fantasiosa creatività con cui i poeti creano le favole che si recitano in
teatro. Le filosofie e le scienze del passato sono, infatti, simili a " mondi fittizi da
palcoscenico ".
Gli uomini sbagliano quando prestano fede alla sapienza antica, alla filosofia del passato.
Gli antichi rappresentano l'infanzia del mondo e non la vecchiaia. I veri antichi - esclama
Bacone - siamo noi! I moderni, infatti, sono in grado di ripercorrere una lunga serie di
teorie e possono, dall'alto della loro esperienza, indicare gli errori presenti in ognuna di
esse, possono costruire una "verità" piú alta e piú rispondente alla natura:
Per universale consenso la verità è figlia del tempo... Infatti l'opinione che gli uomini
hanno dell'antichità è superficiale... Il termine antichità indica propriamente la vecchiezza
e l'età adulta del mondo. Allo stesso modo che da un vecchio ci aspettiamo maggior
conoscenza delle cose umane e maggiore maturità di giudizio che da un giovane, a causa
della sua esperienza e del maggior numero di cose che ha visto, udito e meditato, per la
stessa ragione dovremo sperare dalla nostra età cose molto maggiori che dai tempi
antichi; giacché essa è la piú avanzata età del mondo, arricchita e progredita per infiniti
esperimenti e osservazioni.
(Cogitata et visa, 17)
La particolare insistenza sulla necessità di liberare la mente umana da ogni errore
condizionante la sua capacità di rapportarsi alle cose in modo da non deformarle, riposa
sulla convinzione baconiana che
l'intelletto non è un lume secco, ma riceve alimento dalla volontà e dagli affetti e ciò dà
luogo a ciò che si potrebbe chiamare le scienze come uno le desidera. Infatti l'uomo crede
piú facilmente vero ciò che preferisce
sia vero. (Nov. org., 1,49)
Bacone, con questa critica serrata agli idoli della mente e con la forte rivendicazione di
una preventiva purificazione intellettuale, dimostra come il problema di una "critica" della
mente umana fosse già avvertito ai primi del '600. La sfiducia nel senso e nell'intelletto
non emendati e purificati, la polemica dura ed intransigente nei confronti della cultura
tradizionale sono, probabilmente, tra i contributi piú significativi che Bacone ha fornito sul
piano metodologico al nuovo sapere.
La dottrina degli idoli, infatti, verrà ripresa e rimaneggiata da quelle filosofie che, al di là
dell'immediatezza
dell'apprendimento sensibile ed intellettivo, vorranno esercitare una valutazione critica
delle capacità e delle possibilità della mente umana nella conoscenza della realtà.
Alla pars destruens segue la pars construens in cui Bacone espone il nuovo metodo di
ricerca capace di "condurre gli uomini di fronte ai fatti particolari, alle loro serie ed ai loro
ordini". Preliminare ad ogni altro discorso è la precisazione ulteriore del fine ultimo della
ricerca. Bacone individua due fini fra di essi completamentari:
Compito e scopo dell'umana potenza è generare e introdurre una
nuova natura o nuove nature in un corpo dato. Compito e scopo
dell'umana scienza è trovare la forma di una natura data, ossia la
differenza vera, o natura naturante o fonte di emanazione. (Nov. Org. 11,1)
Il fine ultimo del sapere, allora, consiste nella conoscenza della forma, di ciò che
rappresenta la vera natura, la essenza profonda, di ciò che determina una cosa ad essere
quella che è e non altre. Solo se e quando riusciremo a conoscere la struttura profonda di
un fenomeno, le nature semplici che entrano nella sua costituzione, solo, quando
conosceremo l'ordine interno dei fenomeruì, cioè lo schematismo latente (schematismus
latens), ed il movimento interno in virtù del quale essi si generano e si trasformano, cioè il
processo (processus latens); solo allora avremo una conoscenza sicura della natura e
saremo in grado di intervenire su di essa. Quando, infatti, conosciamo la forma nel duplice
significato di struttura dei corpi in quiete e di legge che regola la loro trasformazione, solo
allora possiamo realizzare sul fenomeno conosciuto interventi capaci di cambiarne la
natura essenziale in un'altra da noi desiderata.
Ad esempio, quando si sarà conosciuto che nell'oro si trovano alcune nature semplici,
come il giallo, un determinato peso, la malleabilità, la duttilità, la fusibilità ad una certa
temperatura e cosí via, si troverà anche il modo per
far sí che queste cose possano congiungersi in un corpo, onde ne con-
segua la sua trasformazione in oro. (Nov. Org., Il, 5)
Allo stesso modo possiamo intervenire su una determinata cosa quando, invece di
conoscerne la struttura, lo schematismo, ne conosciamo il processo attraverso cui dalle
prime trasformazioni si è giunti fino alla sua perfetta realizzazione: ad esempio, il
processo attraverso cui, partendo dalle prime reazioni fisico-chimiche, la materia si è poi
trasformata in oro o in argento. Conoscere la forma, come principio ordinatore delle
nature semplici nei corpi stabili e come legge regolatrice dei corpi soggetti al divenire, è il
fine ultimo del sapere e la condizione fondamentale perché l'uomo possa esercitare il suo
dominio sulla natura.
Nonostante le sue accuse roventi alla filosofia aristotelica e ai sogni degli alchimisti, con la
dottrina della forma Bacone è piú vicino all'una e agli altri di quanto egli stesso non
sospetti. Come giustamente è stato osservato "la forma... quale principio statico e
dinamico dei corpi fisici, corrisponde esattamente all'autentica forma di Aristotele: la
sostanza, come principio dell'essere, del divenire e dell'intelligibilità di ogni cosa reale" (N.
ABBAGNANO, Storia della filosofia, vol. II cit., p. 180). Anche se, va precisato, in
Aristotele il processo di individuazione della forma è puramente logico-concettuale, mentre
in Bacone è un processo sperimentale volto a cogliere gli elementi reali costituenti la vera
natura del fenomeno. Così il desiderio di trasformare un metallo in oro, introducendovi le
"nature semplici" proprie dell'oro, era lo stesso sogno accarezzato dagli alchimisti
rinascimentali.
Ma ciò che distingue Bacone dai filosofi e scienziati precedenti è la chiara consapevolezza
di un metodo nuovo, di una metodologia che contemporaneamente sia fruttifera,
apportatrice cioè di scoperte utili, capaci, quindi, di migliorare le condizioni di vita degli
uomini, e 1ucifera, capace di far luce sui segreti della natura.
Per raggiungere il fine desiderato, quello cioè di conoscere la struttura interna ed il
processo dinamico dei corpi, c'è bisogno di procedere secondo le regole dell'induzione
vera, che non procede per enumerazione semplice, come quella aristotelica, ma per
esclusione.
La ricerca delle forme procede cosí: sopra una natura data si deve fare
un ordine di comparizione, di fronte all'intelletto, di tutte le istanze note
che si trovano insieme in una stessa natura, anche se in maniere oltremodo
differenti. (Nov. Org., Il, 11)
Si vuole, ad esempio, individuare la vera "forma" del caldo: si proceda allora alla
preparazione di tre tavole, quella dove vanno registrati i fenomeni in cui il caldo è
presente, quella dove vanno registrati i fenomeni per molti versi simili ai primi, ma dai
quali il caldo è assente, e quella in cui i fenomeni caldi sono elencati secondo il grado di
calore che presentano. Cosí nella tabula praesentiae segneremo i raggi del sole, i liquidi
bollenti, i vapori caldi e cosí via, mentre nella tabula absentiae annoteremo i raggi della
luna, i liquidi e i vapori freddi e cosí di seguito. Nella Tabula graduum segneremo quei
fenomemi nei quali il calore è presente in misura maggiore o minore. Questa tavola è di
grande utilità perché ci consente una prima esclusione:
Poiché, infatti, la forma di una cosa è la cosa in se stessa (ipsissima
res)…, ne deriva necessariamente che non si deve considerare una natura
come vera forma, se non decresce costantemente quando decresce la natura
stessa, e non aumenta costantemente quando la natura aumenta.
(Nov. Org., Il, 13)
Operata questa prima sistemazione dell'esperienza, bisogna procedere alla individuazione
della "forma" del calore, cioè alla scoperta di
una natura tale che, quando sia presente la natura data, sempre sia
presente, assente quando essa sia assente, e cresca e diminuisca con essa.
(Nov. Org., Il, 15)
Ritornando all'esempio dal calore, dobbiamo escludere che la luce sia la "forma" del
fenomeno in oggetto, in quanto, come nei raggi della luna, essa è presente anche in
assenza della natura (il calore) di cui si cerca la "forma". Passando di esclusione in
esclusione, arriviamo alla formulazione di una prima ipotesi (vindemiatio prima), che nel
caso del calore sembra essere il movimento. Sempre, infatti, al calore si accompagna un
movimento, il quale cresce e decresce con il crescere o il decrescere del calore.
Fatta l'ipotesi bisogna passare alla verifica. Bacone escogita una lunga serie di controlli: le
istanze "solitarie", "migranti", "clandestine ", " devianti ", " dell'accompagnamento " e cosí
di seguito. Ma le piú importanti di tutte sono le " istanze cruciali ":
Quando, nell'indagine su una natura, l'intelletto è come in equilibrio,
incerto se assegnare a una tra due o piú nature la causa della natura su cui
indaga..., allora le istanze cruciali mostrano che l'unione di una sola di
queste nature con la natura indagata è certa e indissolubile, mentre quella
con le altre è varia e separabile. (Nov. Org., 11, 36)
La conoscenza della forma del fenomeno ci permetterà di intervenire su di esso e di
operare la modifica o trasformazione desiderata. Capita la natura del vetro, ad esempio,
da frangibile lo possiamo trasformare in infrangibile. In tal modo il sapere si trasformerà in
potenza e l'uomo potrà dominare su tutta quanta la natura.
Il sogno del "trionfo della tecnica" è descritto da Bacone nella Nuova Atlantide.
In questa opera Bacone dà un saggio di come avrebbe voluto che fosse organizzata la
società umana. Tra gli abitanti della mitica Bensalem (tale è il nome dell'isola felice) regna
la concordia, la cortesia, la reciproca collaborazione. A guidare questo popolo è la "casa di
Salomone", una specie di società di sapienti e di tecnici che lavorano insieme per
migliorare le condizioni di vita materiale e morale degli uomini.
Nella descrizione di questa fattiva ed operosa collaborazione scientifica, Bacone ribadiva,
ancora una volta, un concetto destinato ad avere una grande fortuna: l'abbandono di ogni
pretesa individualistica nel processo di comprensione della natura e del conseguente
dominio su di essa a favore di una organizzazione collegiale del lavoro scientifico, di una
collaborazione diretta tra scienziati che fanno uso di un linguaggio e di un metodo unitario.
Proprio sul modello delineato da Bacone sorgeranno pochi anni dopo la morte del filosofo
le accademie scientifiche di Parigi, Berlino, Pietroburgo e, nella stessa Inghilterra, la
Società Reale Britannica.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Una vita per la scienza
Bacone e Galilei, pur presentandosi come eredi, sostenitori e perfezionatori di due
differenti indirizzi e metodi di ricerca, contribuiscono, ognuno con la propria opera, a porre
al centro del dibattito culturale il problema del rinnovamento del sapere scientifico. Se
Bacone, a giusta ragione, si autodefiní "l'araldo" del nuovo sapere, il "banditore" della
finalità sociale e morale della nuova scienza, Galilei ne fu il vero iniziatore sul piano
strettamente scientifico e piú precisamente sul piano metodologico. Entrambi avvertirono
un forte fastidio per il principio di autorità che allora predominava nell'opera degli
scienziati; entrambi sentirono come urgente ed improcrastinabile l'esigenza di un nuovo
metodo di indagine; entrambi fecero appello al lavoro oscuro e misconosciuto che, nei
cantieri, nelle officine e nelle botteghe, artigiani, tecnici, ingegneri svolgevano facendo
appello soltanto alla esperienza filtrata attraverso la ragione. Ma nonostante tutte queste
affinità, le strade percorse dai due filosofi-scienziati furono enormemente distanti l'una
dall'altra. Bacone non riuscí a rinnovare il sapere nella misura in cui aveva desiderato e
attraverso le sue opere l'aveva pubblicizzato, perché rimase ancorato ad un'antica visione
del mondo. La sua concezione della realtà rimase, infatti, la stessa della "aborrita" scienza
tradizionale. Come i filosofi naturalisti, Bacone è sostenitore di una concezione qualitativa
del reale ed assertore tenace delle capacità dell'uomo di sostituire in un fenomeno, una
volta conosciuta la sua interna formazione, ad una qualità esistente un'altra qualità.
Il richiamo all'attività dei tecnici è piú teorico che pratico. La fede nell'induzione, anche se
riveduta e corretta, lo vincola sempre più ad uno sperimentalismo che, scisso da un
modello teorico preordinato, si rivela sterile ed inconcludente.
Galilei, invece, riprende lo spirito matematico delle arti meccaniche e trasformandolo in
modello teorico generale, gli fornisce la dignità di metodo applicabile in ogni campo del
sapere scientifico. Con la forza dei suoi argomenti e con la incisività polemico-satirica del
suo stile, riesce a portare contro un sistema di sapere ben agguerrito ed accreditato le
armi della concretezza teorica ed inventiva. Per le sue scoperte, ma principalmente per il
suo metodo matematico, a Galilei va riconosciuto il merito di aver inferto un colpo
durissimo al sapere tradizionale e al connesso metodo retorico-logico,come gli va anche
riconosciuto il merito di aver indicato la strada per la costruzione di un sapere in continuo
sviluppo, aperto ai perfezionamenti metodologici e agli arricchimenti forniti da sempre
nuove "sensate esperienze".
Galileo Galilei nacque a Pisa nel 1564. Trasferitosi con la famiglia a Firenze nel 1574, qui
compí i primi studi di letteratura e logica. Nell'81 ritorna a Pisa per studiarvi medicina. Ma
questi studi, modellati ancora sulla tradizione peripatetica, poco rispondevano allo spirito
osservativo e riflessivo del giovane e addirittura cozzavano contro la sua propensione alla
tecnica. Ritornato a Firenze seguí le lezioni di matematica applicata ai problemi tecnici di
Ostilio Ricci, discepolo e continuatore del celebre Tartaglia.
Frutto di questi studi fu la scoperta dell'isocronismo delle oscillazioni pendolari (1583). Lo
studio delle opere di Archimede e gli esperimenti personali lo condussero nel 1586 alla
scoperta della "bilancetta" idrostatica per la determinazione del peso specifico dei corpi. Fu
proprio con la pubblicazione di quest'ultima scoperta che, grazie all'interessamento del
marchese Guidubaldo del Monte, ottenne con incarico triennale la cattedra di matematica
nell'ateneo pisano. A Pisa intensificò i suoi studi dedicandosi al problema della caduta dei
gravi e soprattutto del movimento. Scrisse, ma non pubblicò, un trattato in contrasto con
la teoria aristotelica del movimento, il De motu. Ma l'ostilità dell'ambiente accademico
pisano, fortemente influenzato dalla tradizione aristotelica, e la necessità di guadagnare di
piú per far fronte alle nuove responsabilità economiche nei confronti della famiglia dopo la
morte dei padre, spinsero Galilei a trovare un'altra, meglio retribuita, sistemazione.
Ottenne nel 1592 la cattedra di matematica all'Università di Padova, dove rimase per
diciotto anni, i piú fecondi e tranquilli della sua vita. In questa città Galilei poté apprezzare
la liberalità e la lungimiranza della politica della Repubblica Veneta. Spinto dal suo
interesse per la tecnologia, organizzò un'officina in cui costruiva attrezzature utili ai suoi
esperimenti, ma anche strumenti, quali calamite e bussole, dalla cui vendita ricavava
buoni guadagni. Frutto di questa passione per la tecnica furono il perfezionamento del
compasso geometrico militare e, nel 1605, il telescopio. Nonostante fosse già stato
progettato e realizzato nei Paesi Bassi, il telescopio fu usato a scopi scientifici per la prima
volta da Galilei. Con l'aiuto di un simile strumento Galilei poté scoprire cose fin'allora
inaudite: la via lattea era l'insieme di un'infinità di stelle, la luna presentava montuosità
sulla sua superficie come la terra, intorno a Giove ruotavano quattro satelliti, da Galilei
chiamati Medicei in onore di Cosimo dei Medici granduca di Toscana. Galilei diede notizia
di queste sue scoperte nel Sydereus Nuncius o Avviso Astronomico nel 1670.
Nello stesso anno è chiamato a Firenze come primario matematico e filosofo, senza
obbligo di insegnamento. Alle scoperte già fatte si aggiunsero la scoperta delle macchie
solari, i tre anelli di Satumo e le fasi di Venere. Ce n'era abbastanza per considerare ormai
completamente superata la vecchia distinzione aristotelica tra mondo sovralunare perfetto
ed incorruttibile e mondo sublunare soggetto al divenire. Galilei volle usare prudenza
cercando di avvicinare la Chiesa alla nuova scienza, consapevole che solo con l'avallo della
gerarchia ecclesiastica e con gli ingenti mezzi finanziari del papato la ricerca scientifica
avrebbe potuto proseguire indisturbata e spedita. Ma già si levava qualche critica nei
confronti delle sue scoperte, soprattutto per il cannocchiale accusato di far vedere anche
ciò che non c'era. Nel 1611 Galilei si recò a Roma dove ebbe la soddisfazione di veder
riconfermate le sue scoperte dagli autorevoli astronomi gesuiti del Collegio romano. Ma se
scientificamente le scoperte galileiane venivano confermate, dal punto di vista religioso e
politico suscitavano allarme e preoccupazione per il loro contrasto con il testo biblico e per
la loro totale opposizione alla tradizione aristotelico-tolemaica cui da tempo la Chiesa si
era appoggiata e che fungeva da struttura portante della morale del tempo. Lo stesso
gesuita che poco prima aveva confermato le scoperte galileiane, il padre Cristoforo Clavio,
affermò che le cavità delle valli della luna erano piene di una sostanza cristallina, che
rendeva il satellite perfettamente sferico e lucido come voleva la tradizione aristotelica. Le
nuove scoperte erano in tal modo riassorbite nella vecchia dottrina e la loro portata
rivoluzionaria era neutralizzata. Galilei a questo punto intuí che non c'era altra via che
prendere posizione aperta a favore della tesi copernicana e difendere con essa la nuova
metodologia scientifica. All'obiezione teologica sulla inconciliabilità delle nuove dottrine con
il testo della Scrittura, Galilei risponde con quattro lettere a personaggi illustri del tempo,
le cosiddette lettere copernicane in cui tenta di dimostrare che l'inconciliabilità tra scienza
e testi sacri è solo apparente. Alla fine del 1615 è di nuovo a Roma. La sua abilità, le
prove addotte a difesa delle sue tesi, la sua ironia sembrarono aver ragione degli
avversari. Ma tutto ciò non fece che accelerare una presa di posizione piú intransigente da
parte della Chiesa; il 24 febbraio del 1616 la teoria copemicana fu condannata come
assurda ed eretica, e Galilei fu ammonito verbalmente a non diffonderla né con scritti né
con l'insegnamento. Galilei tacque per un certo periodo in attesa di momenti piú
favorevoli. Ma quando nell'agosto del 1618 comparvero nel cielo tre comete, il suo
interesse per l'astronomia si risvegliò. Ad una dissertazione sulle comete del gesuita
Orazio Grassi, Galilei rispose prima attraverso un suo discepolo, il Guiducci, e poi
personalmente quando il Grassi sotto lo pseudominio di Lotario Sarsi pubblicò una risposta
con la Libra astronomica ac philosophica. Nel 1623 venne dato alle stampe il Saggiatore in
cui, in uno stile brillante da polemista garbato ma pungente, Galilei ribatteva a tutte le
affermazioni dei Grassi con una serie di osservazioni condotte con severa e rigorosa
metodologia.
A ridare speranza di successo alla sua battaglia di rinnovamento culturale intervenne
l'ascesa al soglio pontificio del cardinale Maffeo Barberini con il nome di Urbano VIII. Il
nuovo pontefice aveva sempre ostentato una particolare comprensione per la nuova
scienza e una particolare amicizia per lo stesso Galilei. Dal '23 al '29 potè dedicarsi in tutta
tranquillità al suo lavoro di ricerca i cui risultati confluirono nella grande opera Dialoghi sui
massimi sistemi, che, terminati nel 1630, furono pubblicati solo nel 1632 dopo un lungo e
faticoso lavoro volto ad ammorbidire l'atteggiamento ostile da parte della Curia romana.
Ma, nonostante l'autorizzazione a stampare, quando arrivavano da ogni parte entusiastici
consensi, da Roma giunse l'ordine di sospendere le vendite e Galilei perentoriamente fu
invitato a recarsi presso il Santo Uffizio. Galilei dapprincipio tentò di tergiversare, ma fu
poi costretto a cedere. Il processo si chiuse con la condanna di Galilei al quale, dopo
l'abiura, fu comminato il carcere a vita, tramutato poi in domicilio coatto prima presso il
Vescovo di Siena, poi ad Arcetri in una villa che aveva poco prima acquistato non lontano
dal convento dove viveva da monaca la figlia. L'inflessibile durezza della Inquisizione nei
confronti di Galilei, relegato vecchio e malato in una solitudine disperata, voleva essere di
monito agli altri. Allo scienziato era vietato pubblicare opere, ricevere persone, uscire per
la città. In questi anni, convintosi che ormai la battaglia propagandistica a favore della
nuova astronomia era da lui definitivamente perduta, si dedicò alla stesura di un'opera
teorica pubblicata nel 1638 in Olanda in cui non c'è piú la foga battagliera delle altre
opere: Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze. Il vecchio scienziato nel 1640
trovò ancora una volta il gusto dell'ironia e in un'ultima opera, Sul candore lunare, rifece
la satira della figura del pedante erudito che si nutre della scienza altrui e riaffermò i diritti
deIl'espenienza e della ragione. Si spense solo e cieco nella notte dell'otto gennaio 1642.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Le nuove scoperte e il valore della scienza
Il rapporto tra meccanica e geometria che sottende tutta l'attività galileiana è già presente
nella Bilancetta. Galilei con questa opera si rapporta consapevolmente al metodo di
Archimede (III sec. a.C., cfr. vol. I, cap. IX), le cui opere da poco tempo erano state
immesse nella cultura matematica del tempo grazie alla traduzione latina fattane dal
Tartaglia. La dimanica archimedea diviene il modello su cui costruire la nuova fisica
meccanica. Archimede con i suoi studi non solo offre al giovane Galilei lo spunto per
approntare uno strumento per la misurazione del peso specifico dei corpi, ma anche la
struttura di base del nuovo metodo matematico. Galilei, applicando due principi
archimedei, quello idrostatico e quello della leva, dimostra come pesantezza e leggerezza
non sono principi metafisici, non sono qualità dei corpi come voleva la fisica anstotelica
quando attribuiva alla terra e all'acqua la pesantezza e all'aria e al fuoco la leggerezza, ma
sono quantità perfettamente misurabili e trascrivibili in termini matematici ed
appartengono non agli "elementi" in generale, ma ai corpi particolari.
Finalmente dopo aver con diligenza riveduto quello che Archimede
dimostra nei suoi libri Delle cose che stanno nell'acqua ed in quelli Delle cose
che pesano ugualmente, mi è venuto in mente un modo che squisitissima-
mente risolve il nostro quesito: il qual modo crederò io essere l'istesso che
usasse Archimede, atteso che, oltre all'essere esattissimo, dipende ancora da
dimostrazioni ritrovate dal medesimo Archimede. (Opere, I, p. 215)
Il riferimento ad Archimede suona come aperta polemica nei confronti dell'autorità di
Aristotele. Nel De motu, la cui stesura cade negli anni di insegnamento nell'Università
pisana, la polemica aristotelica diviene piú serrata e precisa. Contro la dottrina aristotelica
che spiega il movimento locale facendo ricorso al "mezzo", all'aria che mossa dal lancio
continua a spingere in avanti l'oggetto, Galilei ripropone la dottrina dell'impetus, della
forza impressa, che era professata dai fisici "parigini" e da alcuni fisici italiani di poco piú
anziani di lui.
Da che cosa sono mossi i proietti? Aristotele, come quasi su tutte le
cose che scrisse sul moto locale, anche su questa questione scrisse contraria-
mente al vero... non aveva potuto osservare Aristotele che il motore deve
essere unito al mobile, altrimenti non avrebbe detto che i proietti sono
mossi dall'aria.
(Opere, I, p. 307)
Non è il "mezzo" che continuamente spinge in avanti la pietra scagliata, ma con il lancio si
comunica una forza motrice (virtus motiva) che si conserva anche quando la pietra è
separata da ciò che l'ha messa in movimento.
Concludiamo, pertanto, che i proietti in alcun modo sono mossi dal
mezzo, ma da una forza motrice impressa in essa da chi li scaglia.
(ivi, p. 314)
Questa forza va indebolendosi sempre piú finché la pietra perduta la forza necessaria per
continuare a salire, comincia la sua caduta sulla terra. La teoria della forza impressa
permette a Galilei di spiegare anche la caduta dei gravi con velocità accelerata. Se la
caduta di un grave dipendesse solo dal suo peso, i corpi dovrebbero cadere con velocità
costante, ma l'esperienza testimonia che essi cadono con velocità accelerata. La
spiegazione di questo fenomeno è da ricercare nel fatto che un grave per vincere la sua
naturale pesantezza e librarsi nell'aria ha bisogno di una forza impressa superiore alla
forza con cui tende a cadere verso il basso. Ma quando la forza impressa, diminuita con la
salita, diventa pari a quella di gravità, il corpo smette di salire ed inizia la discesa, con una
velocità che va aumentando man mano che la forza impressa va ulteriormente
diminuendo.
Cosí il proietto, perduta la leggerezza acquisita, discendendo riprende
la sua vera ed intrinseca gravità. (ivi, p. 314)
Ciò che va sottolineato nel discorso galileiano, non è tanto il risultato acquisito quanto il
rigore della dimostrazione, e soprattutto lo sforzo di eliminare ogni considerazione
metafisica dallo studio della fisica ed il tentativo di spiegare i fenomeni con una
metodologia di tipo meccanicistico.
Ma la fama di Galilei come scienziato fu assicurata dalla pubblicazione del Sidereus
Nuncius. La serie di scoperte che Galilei rendeva di pubblico dominio con questo libro, da
sola, senza alcun commento, costituiva una prova formidabile a favore della teoria
copenicana, della cui giustezza il filosofo era ormai fermamente convinto. La natura
montuosa della superficie lunare eliminava ogni differenza tra cielo e terra, mentre la
scoperta dei satelliti di Giove dimostrava che, oltre la terra, c'era un altro punto
dell'universo che serviva da centro di movimento. Ed, inoltre, poichè Giove ruotava
insieme ai suoi satelliti intorno al sole, niente vietava di pensare che anche la terra, con il
suo satellite, potesse ruotare intorno al sole.
Il Sidereus Nuncius provocò, come abbiamo accennato, grandi entusiasmi e grandi
polemiche e fornì l'esca per un intervento della Chiesa, dapprima generico e distaccato,
poi sempre piú specifico e pressante, sulla compatibilità tra la nuova scoperta e le
Scritture. Galilei rispose per precisare il suo pensiero in proposito. Il punto di partenza del
discorso di Galilei è il rifiuto della dottrina della "doppia verità" dietro cui si erano trincerati
molti filosofi e scienziati fino a Bruno. Non può esserci alcun intrinseco contrasto tra
Scrittura e natura, perché entrambe procedono da Dio. Il contrasto è solo apparente e
dipende dal diverso fine cui entrambe erano destinate. Per sortire il fine morale ed
educativo cui aspirava, la Scrittura fu redatta in un linguaggio poco rigoroso, mentre la
natura, invece, fu "scntta" in un linguaggio matematico preciso. Per superare le apparenti
discordanze c'è bisogno di non fermarsi al senso letterale nella comprensione della
Scrittura. In modo eloquente, nella lettera a Benedetto Castelli, Galilei cosi argomenta:
Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente
capace, ma necessariamente bisognosa d'esposizioni diverse dall'apparente
significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella dovrebbe
essere riservata all'ultimo luogo: perché procedendo di pari dal Verbo
divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito
Santo, e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio; ed
essendo, di piú, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all'intendi-
mento dell'Universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al signifi-
cato delle parole, dal vero assoluto; ma, all'incontro, essendo la natura ine-
sorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi
d'operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che
ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de
gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le
necessarie dimostrazioni ci concludano, non debba in conto alcuno essere
revocato in dubbio per luoghi della Scrittura che avesser nelle parole
diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a
obblighi cosí severi com'ogni effetto di natura... Stante questo, ed essendo
di piú manifesto che due venità non possono mai contrariarsi, è ofizio de'
saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de' luoghi sacri, concor-
danti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o
le dimostrazioni necessarie ci avessero resi certi e sicuri... Io credei che l'au-
to rità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuadere a gli
uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute
loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza nè
per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell'istesso Spirito Santo.
Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotato di sensi, di discorso e d'intel-
letto, abbia voluto, posponendo l'uso di questi, darci con altro mezzo le
notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il
crederlo, e massime in quelle scienze delle quali una minima particella e in
conclusioni divise se ne legge nella Scrittura.
(Opere, V, pp. 282-85, passim)
La convinzione che contro una dottrina scientifica non si può invocare qualche passo della
Scrittura, ma bisogna addurre prove contrarie rigorose e scientificamente inattaccabili, è
espressa nella Lettera alla Granduchessa Cristina di Lorena.
Senza negare il valore morale e religioso dei testi sacri, Galilei ha con forza rivendicato
l'autonomia del sapere scientifico da ogni
forma di "autorità" morale e religiosa. La dichiarazione di falsità di una dottrina può essere
espressa solo evidenziando gli errori di partenza o di procedura commessi dai suoi
sostenitori e non con un semplice riferimento agli scritti di altri filosofi o alla parola della
Scrittura. Galilei puntava in tal modo a condurre la controversia sul piano squisitamente
scientifico.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Il Saggiatore: il metodo della nuova scienza
Ma l'arma piú affilata con cui Galilei contava di colpire i suoi detrattori ostinatamente
legati al principio d'autorità e all'uso della metafisica nelle questioni naturali fu Il
Saggiatore. Con una ironia non troppo coperta Galilei analizza il libro scritto in occasione
della comparsa di tre comete nel cielo dal Grassi nascostosi sotto il pseudonimo di Sarsi, e
smonta ad una ad una tutte le tesi ivi sostenute.
Il punto di partenza, indubbiamente assunto attraverso un'ipotesi puramente teorica, è
che la natura ha una struttura matematica e che l'unico modo per comprenderne le leggi è
il ricorso al metodo matematico:
Parmi... di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia
necessario appoggiarsi all'opinione di qualche celebre autore... e forse stima
che la filosofia sia un libro e una fantasia d'un uomo, come l'Iliade e l'Or-
lando Furioso, libri nei quali la meno importante cosa è che quello che vi è
scntto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà cosí. La filosofia è scritta in
questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli
occhi (io dico l'Universo), ma non si può intendere, se prima non si
impara a intendere la lingua e conoscer i caratteri ne' quali è scritto. Egli è
scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre
figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile intenderne umana-
mente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labi-
rinto. (Opere, VI, p. 232)
La teoria, cioè la concezione matematica, non serve a "salvare" dall'esterno i fenomeni,
ma ne esprime la struttura fondamentale. La "sensata esperienza" di Galilei non è
l'esperienza sensibile immediata, perché i sensi nella loro immediatezza non forniscono
alcuna verità, ma è già un'esperienza teoricamente guidata. La natura non fornisce,
infatti, alcuna risposta se le domande non sono ben poste. Senza la matematica come
teoria generale dell'esperienza è impossibile intendere le leggi della natura. Tutto ciò
impone una prima razionalizzazione dell'espenienza, separando in essa ciò che si riferisse
ai corpi e ciò che si riferisce al soggetto senziente. In ogni fenomeno, infatti, ci sono
elementi oggettivi che sono qualità inerenti ai corpi ed elementi soggettivi che
rispecchiano la reazione del soggetto al contatto con i corpi stessi:
Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che
concepisco una materia o sostanza corporea a concepire insieme ch'ella è
terminata e figurata di questa e quella figura, ch'ella in relazione ad altre è
grande o piccola, ch'ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo,
ch'ella si muove o sta ferma, ch'ella tocca o non tocca un altro corpo,
ch'ella è una, poche o molte, né per veruna immaginazione posso separarla
da queste condizioni; ma ch'ella debba essere bianca o rossa, amara o
dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla
mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accom-
pagnate... Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per
la parte del soggetto nel quale ci par che riseggano, non siano altro che
puri nomi, che tengono solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che
rimosso l'animale siano levate ed annichilate tutte queste qualità.
(Opere, VI, p. 347)
Una tale distinzione è fondamentale per il modello di scienza puramente meccanico che
Galilei vuol realizzare. Tutto ciò che non è quantizzabile, riducibile cioè a quantità
misurabile, non esprime i caratteri essenziali delle cose. La conoscenza oggettiva dei corpi
si realizza, infatti, esclusivamente attraverso l'esame delle quantità e dei loro rapporti.
Grandezza, figura, numero, movimento, posizione spaziale e temporale, ossia le qualità
proprie degli oggetti sono tutte trasformabili in numero. Con la matematizzazione della
fisica, Galilei sconfigge definitivamente la fisica qualitativa e finalistica di Aristotele. Per
dare un solo esempio della differente spiegazione di uno stesso fenomeno da parte della
fisica aristotelica e di quella galileiana esaminiamo la caduta di un grave. Per Aristotele il
grave cade verso il centro della terra perché la sua pesantezza lo spinge a raggiungere il
suo "luogo naturale", ed è questo finalismo espresso dalla dottrina dei luoghi naturali che
spiega il fenomeno della caduta. Per Galilei, invece, nella natura non c'è alcun finalismo,
ma ogni fenomeno si forma, e di conseguenza si spiega, in virtù di un rapporto meccanico
tra diverse quantità. La caduta di un grave si spiega, infatti, misurando e calcolando i
rapporti tra la massa dell'oggetto, lo spazio percorso ed i tempi impiegati. Il possesso del
modello teorico generale (la struttura matematica della realtà) e l'osservazione sensibile
come scomposizione del fenomeno nei suoi costituenti matematici perfettamente
misurabili, consentono allo scienziato di formulare un'ipotesi per spiegare il "come", e non
il " perché ", si verifica il fenomeno stesso. Per utilizzare ancora l'esempio della caduta dei
gravi, l'ipotesi è che il grave cadendo percorre spazi proporzionali ai quadrati dei tempi
impiegati. La verifica sperimentale con la ripetizione in condizioni predeterminate delle
osservazioni già fatte può trasformare o meno in legge l'ipotesi esplicativa formulata, a
seconda se dall'esperimento essa riceve la conferma o la smentita.
In tal modo i due astratti schemi di induzione e deduzione si integrano nel nuovo metodo.
L'analisi quantitativa del fenomeno rappresenta il momento induttivo o, come dice Galilei,
"risolutivo", mentre l'ipotesi e la verifica (il cimento) costituiscono il momento deduttivo o
"compositivo" Con il suo metodo Galilei ha bollato ogni velleità sia dell'empirismo ingenuo,
che crede nella semplice osservazione e classificazione degli oggetti esperiti e pensa che
all'improvviso dalla massa dei dati raccolti possa venir fuori la legge, sia del razionalismo
deduttivistico che, poste delle proposizioni generali a priori, crede di poter ricavare da
esse ogni verità senza far ricorso all'esperienza.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
Il Dialogo sui massimi sistemi
Nel Saggiatore Galilei è soprattutto impegnato nella confutazione del metodo degli
aristotelici che con il ricorso all'autorità, al "mondo di carta", credono di poter fare a meno
dell'esperienza e delle "matematiche dimostrazioni".
Nel Dialogo sui massimi sistemi prevale, invece, l'indirizzo costruttivo, ha il sopravvento la
preoccupazione di elaborare una sintesi del nuovo pensiero scientifico in difesa della teoria
copernicana. Non mancano, ovviamente, notazioni di tipo metodologico, come pure lo stile
è ancora fortemente caratterizzato da una pungente ironia, ma, al di là del fine polemico,
lo scritto si prefigge lo scopo di imporre la nuova visione della natura e la ufficializzazione
del sistema eliocentrico. Galilei aveva già da tempo maturata la sua adesione al
copernicanesimo e fin dal 1587 aveva scritto a Keplero di aver tratto dalla teoria
copernicana i principi per la spiegazione di fenomeni altrimenti inspiegabili, ma che si era
deciso a non pubblicare alcunchè su tale argomento, atterrito dalla sorte toccata a
Copernico, deriso dai piú, apprezzato da pochi; non è da escludere, però, che Galilei
stesse seguendo allora anche la vicenda di Bruno e che aspettasse di sapere quale sorte
fosse toccata all'uomo che in quel momento aveva osato piú di tutti dichiarando il cosmo
infinito.
Nonostante la simpatia del nuovo pontefice per le scienze, il Dialogo potè vedere la luce
grazie alla sua struttura dialogica che consentiva di leggere le affermazioni copernicane in
esso contenute come ipotesi intese a dimostrare la loro conoscenza da parte della Chiesa.
Ma, a parte i vari espedienti messi in atto per cercare di neutralizzare la carica
rivoluzionaria dello scritto, già la scelta dei personaggi che nel dialogo dovevano difendere
le due teorie, la tolemaica e la copernicana, era fatta apposta per ridicolizzare i difensori
della prima ed esaltare quelli della seconda. Per esporre la teoria geocentrica Galilei indica
Simplicio, un personaggio che incarna la figura del pedante che utilizza piú la memoria che
l'intelligenza, che rappresenta il senso comune e attinge i suoi argomenti dal "mondo di
carta" della tradizione aristotelica e scolastica. La tesi copernicana, invece, è esposta e
difesa da Filippo Salviati, un nobile fiorentino amico di Galilei, che rappresenta
l'intelligenza matematica della nuova scienza. Da moderatore neutrale funge Giovan-
francesco Sagredo, che incarna l'intelligenza depurata dai pregiudizi della tradizione e del
senso comune e, di conseguenza, aperta alla nuova verità. Il Dialogo si svolge in quattro
giornate: nella prima si vuole dimostrare l'infondatezza della concezione aristotelica
dell'universo e dell'annessa teoria finalistica; nella seconda e nella terza si procede alla
difesa della teoria copernicana; nella quarta Galilei vuole portare in difesa del
copernicanesimo una prova sperimentale con la teoria delle maree, ma la preoccupazione
di eliminare ogni azione a distanza, sospettata di finalismo, e l'esigenza di ridurre ogni
fenomeno a puro meccanicismo conducono lo scienziato fuori strada, indirizzandolo verso
una spiegazione errata del flusso e del riflusso del mare.
La polemica galileiana piú che contro Aristotele si appunta contro i peripatetici
"reverentissimi ed umilissimi mancipii di Aristotele", che, contro l'evidenza dei fatti,
interrogati
direbbero che il mondo sta come scrisse Aristotele e non come vuole
la natura. (Opere, VII, p. 347)
Uno di questi peripatetici - secondo Sagredo - al quale era stato mostrato con
straordinaria diligenza e chiarezza attraverso un esperimento anatomico come i nervi si
partissero del cervello e non dal cuore, alla domanda se fosse pago della dimostrazione
rispose:
Voi mi avete fatto vedere cosa talmente aperta e sensata, cbe quando il
testo di Aristotele non fosse in contrario, cbe apertamente dice i nervi nascer dal
cuore, bisognerebbe per forza confessarla per vera.
(Opere, VII, p. 134)
Prima di esporre la nuova dottrina, Galilei si applica alla confutazione dell'antica. Contro il
teleologismo fondato sulla distinzione tra mondo sovralunare e mondo sublunare, tra
movimento circolare perfetto dei corpi celesti e movimento rettilineo ed imperfetto di
quelli terrestri, Galilei porta la abbondante messe delle sue scoperte, prime fra tutte la
comparsa di nuove stelle, le macchie solari, la rugosità della superficie lunare e la sua
opacità. Quest'ultima caratteristica dimostra come la luna, allo stesso modo della terra,
risplende perché riflette la luce del sole e non per luce propria: la luna, cioè, ha le stesse
caratteristiche della terra. All'obiezione secondo cui la mente umana sarebbe incapace di
capire veramente lo svolgimento dei processi naturali, Galilei risponde con la celebre
teoria della differente possibilità conoscitiva della mente di Dio e della mente dell'uomo:
Convien ricorrere ad una distinzione filosofica, dicendo che l'inten-
dere si può pigliare in due modi, cioè intensive o vero extensive; e che
extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intellegibili, che sono infiniti,
l'intendere umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille propo-
sizioni, perché mille rispetto all'infinito è come zero; ma pigliando l'inten-
dere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfet-
tamente, alcuna proposizione, dico che l'intelletto umano ne intende
alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n'abbia
l'istessa natura: e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e
l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa ben infinite proposizioni di
piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano
credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché
arriva a comprendere la necessità, sopra la quale non par che possa essere
sicurezza maggiore... ma vi concederò bene che il modo col quale Iddio
conosce le infinite proposizioni, delle quali noi conosciamo alcune poche,
è sommamente piú eccellente del nostro il quale procede con discorsi e
passaggi di conclusione in conclusione, dove il Suo è di semplice intuito.
(Opere, VII, p. 128)
Nella seconda giornata Galilei rintuzza tutte le obiezioni portate da Aristotele in poi contro
il movimento della terra. Di particolare rilievo sembra l'argomento con il quale è confutata
la convinzione secondo cui se la terra si muovesse, i gravi non dovrebbero cadere a
perpendicolo ai piedi del luogo da cui sono lanciati, ma obliquamente, perché, durante i
tempi di caduta, la terra girando si dovrebbe spostare. Galilei risponde con la celeberrima
teoria detta, appunto, della "relatività galileiana". La terra e l'atmosfera che la circonda
formano un unico sistema all'interno del quale i fenomeni, partecipando tutti al movimento
della terra, si comportano come se questo non esistesse. Basterà un piccolo esperimento a
provarlo:
Riserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto
coverta di alcun gran navillo, e quivi fate d'aver mosche, farfalle e simili
animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d'acqua e dentrovi de' pescetti;
sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vada ver-
sando dell'acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e
stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti
volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si
vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti
entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all'amico alcuna cosa,
non piú gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso
questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando noi, come si dice, a
pie' giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti... fate muovere la nave
con quanta si voglia velocità; che' (pur che il moto sia uniforme e non
fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in
tutti li nominati effetti, nè da alcuni di quelli potrete comprendere se la
nave cammina o pure sta ferma. (Opere, VII, p. 212 e segg.)
E che le cose debbano avvenire in questo modo si è certi prima ancora di fame esperienza
diretta:
lo - afferma Salviati - senza esperienza son sicuro che l'effetto
seguirà come vi dico, perché cosí è necessario che segua.
(Opere, VIII, p. 171)
Una riprova di questa affermazione? Immaginiamo
una superficie piana, pulitissima come uno specchio e di matenia dura
come l'acciaio, e che fusse non parallela all'orizzonte, ma alquanto incli-
nata e... sopra... di essa una palla perfettamente sferica e di materia grave e
durissima, come il bronzo, lasciata in sua libertà:
(Opere, VII. p. 17)
come prevediamo che si comporterà tale palla? Starà ferma o si muoverà? Sappiamo già
prima di procedere all'esperimento che si muoverà lungo il declive con moto accelerato. E
se immaginiamo che sia eliminata anche l'azione frenante dell'aria, come pensiamo che si
comporti? Possiamo in tutta tranquillità affermare che
ella continuerebbe a muoversi in infinito, se tanto durasse la inclina-
zione dei piano, e con movimento accelerato continuamente; che' tale è la
natura dei mobili gravi, che vires acquirant eundo: e quanto maggiore fosse
la declività, maggiore sarebbe la velocità. (Opere, VII, p. 172)
Se poi, invece del piano inclinato, immaginiamo un piano con le stesse caratteristiche del
precedente, ma perfettamente parallelo all'orizzonte, a priori possiamo stabilire che una
palla spinta su quel piano continuerebbe all'infinito il suo moto, ammesso che lo spazio da
percorrere fosse indeterminato. Indipendentemente dall'esperienza, Galilei ha mostrato
che si possono conseguire risultati che l'esperimento non potrà non confermare. Il
principio della conservazione del moto rettilineo uniforme e uniformemente accelerato è
acquisito per via puramente teorica.
L'affermazione galileiana della conservazione all'infinito del movimento rettilineo,
ammesso che lo spazio da percorrere fosse indeterminato, non è ancora, come sostiene il
Koyré, la formulazione chiara e precisa del principio d'inerzia. Per Galilei infatti lo spazio
non è infinito, ma finito; il cosmo galileiano non è il mondo infinito di Bruno, ma il cosmo
ordinato di Aristotele, un mondo circolare chiuso:
Noi non cerchiamo quello che iddio poteva fare, ma quello che Egli
ha fatto. Imperò che io vi domando, se Iddio poteva fare il mondo infinito
o no: se Egli poteva e non l'ha fatto, facendolo finito e quale egli è de facto,
non ha esercitato della Sua potenza, in farlo cosí, piú se l'avesse fatto
grande quanto una veccia. (Opere, VII, p. 565)
E in un mondo finito è impossibile la persistenza all'infinito del movimento rettilineo.
L'altro motivo che impedisce a Galilei la formulazione esplicita del principio d'inerzia è la
sua incapacità a concepire i corpi senza la gravità. I corpi gravi, come sono quelli
galileiani, hanno sempre una tendenza a cadere in giù, tendenza che ostacola un loro
ipotetico movimento rettilineo all'infinito. Cartesio, come vedremo, eliminata la gravità dei
corpi e riaffermata l'infinità dell'Universo, potrà affermare in piena coerenza questo
principio fondamentale della fisica.
Nella terza giornata, Galilei, facendo ricorso al principio che la natura segue la via piú
breve ed "economica" in tutti i suoi processi, facendo ricorso alle sue molteplici scoperte,
riconferma la tesi copernicana che i moti apparenti dei pianeti sono spiegati molto piú
facilmente e con maggiore semplicità con l'ipotesi eliocentrica che non con quella
geocentrica.
Nella quarta giomata è esposto l'argomento che Galilei considerava decisivo per la
conferma della dottrina copernicana: la teoria delle maree. Contro Keplero che aveva
spiegato correttamente tale fenomeno come frutto di una forza d'attrazione da parte della
luna, Galilei, per mantenere la sua fisica in un rigoroso meccanicismo senza concedere
nulla a ciò che gli sembrava un retaggio delle antiche dottrine simpatetiche dell'attrazione
a distanza, spiega le maree come frutto della composizione del movimento della terra
intorno al proprio asse con quello intorno al sole.
Costretto in solitudine ad Arcetri, Galilei abbandona definitivamente il programma di una
polemica culturale per educare gli uomini alla nuova scienza e si dedica completamente
alla fisica teorica. Compone, infatti, in questi anni il suo capolavoro scientifico: Discorsi e
dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. La prima scienza è quella che studia
il rapporto tra la grandezza e la resistenza degli strumenti meccanici. La seconda è la
dinamica. Nella trattazione di questa scienza Galilei raggiunge l'apice della sua ricerca ed
elabora, tra l'altro, la legge del moto uniformemente accelerato facendo ricorso
esclusivamente ai dati matematici, senza alcuna concessione alla sensibilità ed ai dati
qualitativi ad essa connessi.
LA NASCITA DELLA NUOVA SCIENZA: BACONE E GALILEI
I discepoli di Galìlei e la nascita delle Accademie
L'opera di Galilei fu proseguita da una schiera di suoi discepoli che si applicarono in vari
campi del sapere scientifico. Tra i primi bisogna ricordare BENEDETTO CASTELLI (1578-
1643), monaco cassinese, che fu amico fedelissimo, oltre che allievo, dello scienziato.
Matematico e fisico insigne, diede all'idraulica la dignità di scienza. Insegnò a Pisa, poi a
Roma ed ebbe come allievi giovani che furono poi vicinissimi a Galilei negli ultimi anni
della sua vita: BONAVENTURA CAVALIERI, EVANGELISTA TORRICELLI e VINCENZO
VIVIANI. Cavalieri (1591-1647) si distinse per i suoi studi di geometria e di matematica;
Torricelli (1608-1647) si occupò di geometria e di meccanica dei fluidi, ma la sua scoperta
piú originale e famosa è la misurazione della pressione atmosferica e l'invenzione del
barometro. Fino a Galilei per spiegare il perché l'acqua non salisse oltre un certo livello in
una pompa, si faceva ricorso ad una spiegazione vaga e generica: l'acqua si diceva ha
orrore del vuoto (horror vacui). Torricelli dimostrò che l'horror vacui nient'altro era che la
pressione atmosferica. La morte precoce gli impedí di sviluppare adeguatamente delle
felici intuizioni matematiche. Viviani collaborò con Torricelli e fu il primo a scrivere una
biografia di Galilei.
Gli scienziati europei di questa epoca svolgono le loro ricerche tra moltissime difficoltà.
Non ultima quella dovuta all'isolamento in cui ognuno di essi opera. Le Università
concedono ancora poco
spazio alle scienze, impregnate come sono di filosofia scolastica e peripatetica oltre che di
teologia. Tra i vari scienziati non esiste alcun rapporto ufficiale, comunicano fra di loro con
lunghissime lettere e scambiandosi i loro libri o i loro manoscritti. A favorire questi scambi
provvedono uomini di larga cultura che, per la loro posizione, piú facilmente riescono a
stabilire collegamenti, a favorire incontri, a mediare posizioni estreme. Tra questi
ricordiamo il monaco MARINO MERSENNE (1588-1648), di cui parleremo ancora nel
capitolo seguente. Ma gli scambi epistolari e i rapporti indiretti non erano sufficienti a
soddisfare un sentito bisogno di collaborazione. Si avverte, così, la necessità di costituire
delle Accademie. Tra le prime va ricordata l'Accademia del Cimento fondata a Firenze dagli
allievi di Galilei nel 1652. Gli aderenti all'Accademia operavano in stretta collaborazione e
pubblicavano i risultati delle loro ricerche in una stessa opera anonima. Pur senza
giungere a risultati eccezionali dal punto di vista scientifico, l'Accademia del Cimento pose
le basi di un modo nuovo di lavoro comunitario che evitava la dispersione di tempo e di
energie dovuta al fatto che diversi scienziati lavoravano allo stesso problema ingnorando i
risultati l'uno dell'altro. L'Accademia di Firenze, per l'ostilità dei teologi dell'Inquisizione,
venne chiusa nel 1688.
In Italia era, però, già operante un'altra Accademia, fondata da FEDERICO CESI (1585-
1630): l'Accademia dei Lincei.
In Inghilterra nel 1662 alcuni scienziati fondano la Royal Society. All'inizio, sulla scorta
dell'Accademia del Cimento e delle indicazioni fornite dal loro conterraneo Bacone, questi
scienziati decidono di lavorare insieme, me ben presto si dividono ed ogni membro della
Society riprende la sua autonomia, anche se discute poi con gli altri il frutto del proprio
lavoro.
Successivamente a Parigi, ad opera di un ministro illuminato, il Colbert, sorge l'Accademia
delle Scienze (1666) in cui entrano scienziati di tutta l'Europa. Solo piú tardi nascerà in
Germania l'Accademia di Berlino. A queste Accademie, come centri di collaborazione e di
scambi di informazioni, si affiancano anche dei periodici, come l'inglese Philosophical
Transactions, su cui i membri della Royal Society pubblicano i loro lavori, o il francese
Journal des Savantes, entrambi fondati nel 1665, o gli Acta eruditorum, uscito a Lipsia
qualche anno piú tardi.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
La fondazione filosofica del sapere scientifico
La battaglia culturale combattuta da Galilei per il rinnovamento della cultura scientifica
contro la tradizione ed il principio di autorità si chiudeva con la sconfitta dello scienziato
costretto al silenzio ed all'isolamento. Paradossalmente lo spirito innovativo
dell'Umanesimo e del Rinascimento sembrava battuto proprio quando, dopo sforzi titanici,
era riuscito ad elaborare una metodologia rigorosa e feconda, che prometteva risultati
oltremodo positivi. Ma la sconfitta galileiana era soltanto un aspetto di una piú ampia e
significativa situazione di crisi. In tutta l'Europa, infatti, la borghesia, che nei secoli
precedenti gradualmente era riuscita ad occupare posizioni economiche e politiche di
sempre maggior prestigio, è costretta a ripiegare prima sotto i colpi dell'assolutismo
monarchico, che in Inghilterra, in Francia ed in modo indiretto in Italia andava
riconquistando piú forti posizioni, e poi sotto i colpi di una crisi economica strisciante che
presenta i segni di maggiore drammaticità nei primi anni del '600. D'altro canto già da
tempo la baldanzosa sicurezza rinnovatrice della borghesia andava scemando e cedeva il
posto ad una politica di maggiore prudenza e di piú cauto ripiegamento conservatore. Sul
piano culturale alla fiducia nella scienza era subentrata una forma di scetticismo.
Scetticismo e conservatorismo, comparsi ufficialmente per la prima, volta nelle rassegnate
e dolenti meditazioni del moralista Montaigne, caratterizzano la cultura europea a cavallo
tra '500 e '600. Bacone e Galilei, nonostante la generosità dei loro sforzi, avevano fallito
l'obiettivo del rinnovamento culturale, in quanto all'esigenza del nuovo metodo non
avevano fatto corrispondere una nuova fondazione critica del sapere scientifico. Si
muovevano entrambi in un quadro filosofico tradizionale. Il cosmo baconiano è ancora il
mondo della tradizione, fatto di essenze e di qualità, detentore di segreti che la bravura e
la condotta metodica del ricercatore debbono saper scoprire. Galilei, da parte sua, aveva
visto il mondo come libro scritto da Dio, le cui leggi divine erano immediatamente
comprensibili all'uomo che sapesse decifrarne il linguaggio matematico. Sulla certezza di
poter comprendere le leggi della natura era fondata la speranza pratica, il progetto
tecnologico di dominio sul mondo.
La crisi scettica che ha investito la cultura negli stessi anni in cui Bacone e Galilei
costruivano i loro sistemi, ha però mostrato come una costruzione scientifica razionale non
può accontentarsi di poggiare su basi fragili, non rigorosamente fondate, accettate dalla
tradizione. Un nuovo metodo di indagine scientifica, se vuole veramente costruire un
sapere sicuro e razionale, deve poggiare su basi non attaccabili dalla critica scettica, non
esposte al tarlo del dubbio, resistenti non solo ad ogni obiezione razionale, ma anche
all'ipotesi di un dio maligno che si diverta a tendere all'uorno tranelli per trarlo in inganno.
La forza del discorso cartesiano consiste proprio nell'aver compreso l'esigenza di sanare
ogni frattura tra principi fondamentali del sapere e scienze particolari, di superare ogni
separazione tra metodo di individuazione degli elementi primi del sapere e metodi di
indagine nei campi particolari del sapere stesso. La filosofia cartesiana risponde, in effetti,
ad una esigenza fortemente avvertita: ricomporre l'unità di fondo tra quadro teorico
generale e ricerca scientifica particolare. Quest'opera di rìcucìtura era particolarmente
urgente e necessaria dopo che il processo di rinnovamento della scienza, sfociato nella
metodologia galileiana, aveva per la sua fecondità maggiormente evidenziato il contrasto
stridente tra la vecchia metafisica scolastica, tomistica, ed in ultima analisi aristotelica, e
le nuove acquisizioni scientifiche. Le condanne di Bruno, di Campanella, di Galilei agli occhi
dì Cartesìo non appaiono per niente incidenti evitabili, dovuti al particolare momento
politico-culturale o alla occasionale intransigenza e severità dell'inquisitore, ma atti logici e
conseguenti compiuti in difesa dì una concezione metafisica che gli stessi condannati
affermano di condividere e di voler difendere. Le giustificazioni fornite, ad esempio, da
Bruno e da Galilei per evitare la rottura col quadro metafisico tradizionale - la teoria della
doppia verità per il primo, la compatibilità tra scienza e fede a condizione di una lettura
non letterale della Scrittura per il secondo- nel mentre denotano la consapevolezza in
questi autori della scissione in atto tra esigenze scientifiche e fondamenti metafisici,
denunciano anche la loro incapacità a superarla con l'applicazione ad entrambi i campi di
un'unica metodologia.
La filosofia cartesiana mira al superamento di questa scissione proponendo un sistema
maggiormente compatibile con i principi della nuova scienza.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Tra fisica e metafisica
Da una famiglia della borghesia francese (il padre era consigliere al Parlamento della
Bretagna), nacque a La Haye il 31 marzo dei 1596 Renato Cartesio (da Cartesius, forma
latinizzata di Descartes). La condizione agiata della famiglia gli consentì una buona
educazione e una vita priva di preoccupazioni economiche. Ad otto anni entrò in una delle
piú celebri scuole d'Europa, il collegio dei Gesuiti a La Flèche, dove per circa nove anni
studiò grammatica e filosofia. Ne uscí con una buona educazione classica, ma soprattutto
con una forte passione per la matematica. Nel 1612 si iscrisse all'Università di Poitiers
dove conseguí il titolo di licenziato in diritto. Nonostante il giudizio negativo espresso in
seguito sulla educazione ricevuta a La Flèche, Cartesio non solo intrattenne con i suoi
maestri rapporti cordiali e sinceri, ma si serví in modo particolare di uno di essi, il padre
Marino Mersenne (1588-1648), dell'ordine dei Minimi, per far leggere le sue opere
manoscritte agli intellettuali europei con i quali il dotto monaco era in corripondenza e per
i quali fungeva da tramite negli scambi culturali. A conclusione degli studi, per completare
la sua formazione, Cartesio intraprende una serie di viaggi. Nel 1618 si arruola nelle
armate di Maurizio di Nassau, si reca a Breda, in Olanda, dove conosce il giovane medico
Isacco Beeckman (1588-1637) che, con il suo entusiasmo per gli studi, riuscí a scuoterlo
dal "torpore intellettuale" in cui era precipitato dopo la conclusione degli studi accademici.
I due giovani si impegnano in una serie di ricerche e collaborano soprattutto
all'applicazione della matematica alla fisica (caduta dei gravi, pressione dei liquidi).
Lasciata l'Olanda, Cartesio viaggia attraverso i paesi dell'Europa centrale, poi si ritira
presso Ulma per passare l'inverno. Nella tranquillità di questo rifugio riprende e sviluppa le
intuizioni sulla necessità di un metodo unitario applicabile in ogni campo del sapere.
Probabilmente a queste meditazioni va collegata la scoperta di quella "scienza mirabile"
che Cartesio afferma di aver intuito nella notte del 10 novembre dei 1619. Non sappiamo,
però, con precisione se questa "meravigliosa scoperta" consistesse nella decisione di
estendere il metodo deduttivo-matematico a tutti i campi del sapere, o se facesse
riferimento alla necessità dello studio dell'uomo, che sfocerà nel cogito. Questa intuizione
accese di entusiasmo il giovane studioso. Dal 1620 al 1625 si rimise in viaggio visitando
l'Austria, la Moravia, la Polonia e l'Italia, dove si trattenne circa un anno e mezzo. Dal
1625 al 1628 vive a Parigi
al centro dell'ammirazione dei dotti francesi. La sua ansia di elaborare una "scienza
generale dell'ordine e della misura", la mathesis universalis, lo spinge alla formulazione di
un metodo unitario capace di realizzare l'unità della cultura sulla base dell'unitarietà della
mente umana. In questo peniodo, allarga all'ottica l'applicazione del metodo matematico,
studia la rifrazione della luce e matura la convinzione che gli animali sono come dei
meccanismi privi di libero arbitrio, simili cioè ad automi. Nel 1628 compone la prima opera
di carattere metodologico, le Regulae ad directionem ingenii che, per quanto incompleta,
rappresenta la prima trattazione sistematica delle linee generali del nuovo metodo.
Desideroso di sottrarsi all'ambiente parigino ed alla mondanità, Cartesio ritorna in Olanda
dove può attendere liberamente ai suoi studi. E' in questo periodo che avverte fortemente
l'esigenza di una fondazione metafisica della scienza. Sugli interessi filosofici prevalsero,
però, quelli scientifici. Nel 1633 è pronto per la stampa un grande trattato Il mondo, o
Trattato sulla luce. Ma la notizia della condanna da parte del S. Uffizio dell'opera di Galilei,
Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, rese perplesso il filosofo sulla opportunità di
pubblicare un'opera in cui si sosteneva il movimento della terra. Deciderà, infatti, di non
stamparla.
Solo nel 1637 scorpora dal grande trattato di fisica tre argomenti (la diottrica. le meteore,
la geometria) e li pubblica facendoli precedere da un'introduzione. Ma fu proprio
quest'ultima che richiamò l'attenzione dei dotti: era il celebre Discorso sul metodo.
Intorno a questo scritto si accesero vivaci discussioni. Non mancò chi, come il teologo
protestante Voëtius, accusò Cartesio di ateismo e libertinismo. Cartesio avverte allora
l'esigenza di riprendere l'antico disegno di un'opera metafisica capace di dare ragione dei
fondamenti primi del sapere. Nel 1614 vedono la luce le Meditazioni metafisiche in cui si
dimostra " razionalmente " l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima. L'opera circola
manoscritta tra i piú famosi dotti europei i quali fanno pervenire all'autore, tramite padre
Mersenne, le loro obiezioni, che seguite dalle risposte di Cartesio, vengono stampate in
appendice al volume.
Pochi anni dopo, nel 1644, pubblica i Principi di filosofia, una sorta di summa della sua
opera di filosofo e di scienziato. In forma sistematica e scolastica venivano esposte sia la
metafisica che la filosofia della natura. Nel 1649 Cartesio dà alle stampe Le passioni
dell'anima, un'opera di argomento morale in cui sono ripresi in maniera piú ampia una
senie di spunti e di osservazioni già presenti nelle lettere inviate da Cartesio alla
principessa Elisabetta del Palatinato e alla regina Cristina di Svezia.
Nel 1649, su invito appunto della regina Cristina, si reca a Stoccolma. Ma l'abitudine
instaurata dalla regina di conversare con il filosofo alle cinque del mattino espose Cartesio
ai rigori del clima svedese. Ammalatosi di polmonite, morí nel febbraio del 1650.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
La materia, il movimento e la macchina dei mondo
Cartesio, come abbiamo accennato, si pone il problema del metodo fin dal 1619. E,
probabilmente, a questa data va ricondotto l'inizio della stesura di un'opera. che,
completata nel 1628, fu pubblicata postuma, nel 1701: Le regole per la condotta
dell'intelligenza. Nonostante molte affermazioni fatte da Cartesio in questo scritto
confluiscano poi nel piú celebre Discorso sul metodo, le Regole conservano una loro
autonomia ed una loro importanza specifica nella comprensione dello sviluppo del pensiero
del filosofo.
Le regole del metodo debbono, nel disegno cartesiano, condurre la mente alla
comprensione scientifica di una realtà intesa ancora come dato di fatto indubitabile.
L'opera dello scienziato deve limitarsi ad approntare strumenti capaci di farci cogliere il
vero essere della realtà, la cui obiettiva consistenza è fuori discussione e al di là di ogni
ragionevole dubbio; le regole debbono segnare il superamento della frantumazione dei
sapere in tante scienze operanti ognuna con una propria metodologia, debbono contribuire
a salvare il sapere da ogni frantumazione e da ogni scetticismo. Ma questa fiducia, ancora
tutta rinascimentale, nella possibilità di conseguire la conoscenza della realtà soltanto
grazie ad un metodo corretto, probabilmente è scossa quando ancora Cartesio lavora alla
stesura delle Regole. Lasciato incompleto ed impubblicato questo scritto, spinto dalla
necessità di cercare un fondamento sicuro e stabile agli stessi principi primi conosciuti
attraverso l'intuizione, Cartesio matura il proposito di elaborare una metafisica. Si dedica,
infatti, alla stesura di un trattato in cui intende dimostrare per via razionale l'esistenza di
Dio e l'immortalità dell'anima. Di questo scritto andato perduto, ci resta soltanto, in una
serie di lettere inviate nel 1630 a padre Mersenne, la testimonianza della tesi che le verità
matematiche e tutte le altre verità eteme sono stabilite da Dio, da cui dipendono. Il
ricorso a Dio come garante primo del sapere non sortisce, in questa fase dello sviluppo del
pensiero cartesiano, l'effetto desiderato, ma si limita a rafforzare la fiducia nella
corrispondenza tra la realtà e le conclusioni razionalmente dedotte dai principi
intuitivamente assunti.
Dal 1629 al 1633 in Olanda Cartesio attende alla stesura di un'opera, Il Mondo, utilizzando
gli elementi fondamentali del suo metodo. Ormai è matura la consapevolezza che la fisica
tradizionale con i suoi concetti di "materia", "forma" ed "atto" è completamente superata.
Il lavoro dei fisici rinascimentali fino a Galilei è servito in maniera egregia a scardinare
l'edificio scientifico costruito da Aristotele. Si tratta ora di costruire una nuova fisica, il cui
punto di partenza non può essere il mondo reale, il mondo dei fenomeni, il metodo non
può essere quello induttivo sperimentale. Anzi per marcare con maggiore forza il distacco
dal metodo che a-posteriori vuol dar conto del comportamento dei fenomeni reali, Cartesio
fa ricorso ad una specie di finzione: il mondo che vuol descrivere non è quello reale, ma
un mondo immaginario, uno dei tanti mondi che Dio avrebbe potuto creare nello spazio.
Non esercitandosi su nessuna realtà concreta il metodo è ormai puramente a-priori.
I principi elementari che la mente intuisce come principi primi costitutivi della realtà, sono
per Cartesio la materia e il movimento. Ma il concetto di materia nella fisica cartesiana
assume un significato completamente nuovo rispetto a quello di Galilei. Mentre per il
pisano la materia ha la pesantezza, è un corpo grave, per Cartesio la materia è
caratterizzata dalla sola estensione, è puro spazio geometrico. L'identificazione della
materia con l'estensione produce due conseguenze necessarie: che nel mondo ovunque
c'è spazio esteso c'è materia e, pertanto, non esiste il vuoto; che il mondo è una
estensione infinita. Gli oggetti particolari sono prodotti dal movimento che "rompe " la
continuità estesa facendo muovere parti di spazio rispetto ad altre, senza per questo
creare il vuoto tra una parte e l'altra.
Estensione e movimento creati da Dio si conservano per l'eternità. Lo spazio è sempre
infinito e la quantità di movimento esistente nel mondo permane identica, senza subire né
aumenti né diminuzioni. I corpi in movimento possono cedere una parte del loro
movimento ad altri corpi, ma mai il mondo può perdere in assoluto neppure una piccola
quantità del movimento che possiede:
Trovo, mediante i miei ragionamenti, che è impossibile che i loro
[dei corpi] movimenti vengano mai a cessare e che possano subire altri
cambiamenti che non siano di soggetto. Cioè le virtù e la capacità di muo-
vere se stesso proprie di un corpo, ha la possibilità di passare tutta o in
parte in un altro corpo... ma non può non trovarsi piú nel mondo.
(Il Mondo, 3)
Da questa convinzione si origina la concezione meccanicistica della natura: il movimento,
non avendo bisogno di alcun " motore ", di alcuna causa per conservarsi, una volta
introdotto nell'estensione produce una serie di oggetti particolari che si condizionano
reciprocamente come le parti di un organismo meccanico. Come negli orologi ad acqua,
cosí frequenti nel giardini seicenteschi, basta avviare le prime pale con un getto d'acqua
per consentire, poi, a tutti gli ingranaggi di funzionare " meccanicamente ", cosí nel
mondo è bastato l'avvio dato da Dio con l'immissione del movimento nella estensione per
mettere in moto tutta la struttura meccanica della natura. Il movimento per Cartesio, a
differenza che per Aristotele, è solo movimento locale, cioè spostamento di un oggetto da
un luogo all'altro, e mai mutamento rispetto alla forma, al colore o alla quantità:
Quanto a me - afferma - non conosco nessun altro movimento se
non quello ... per il quale i corpi passano da un luogo a un altro e occu-
pano successivamente tutti gli spazi intermedi.
(Il Mondo, 7)
In quanto stati della materia, il movimento e la quiete debbono sottostare alle leggi
generali della natura. La prima di queste leggi è che
ogni parte della materia, in particolare, conserva sempre lo stesso stato
fino a quando le altre, urtandola, non la costringono a cambiarlo.
(ivi)
E'la formulazione esplicita e precisa del principio di inerzia che Galiei aveva piú volte
sfiorato ma che non aveva potuto formulare con eguale chiarezza, in quanto i corpi
galileiani non erano pura estensione in movimento, ma erano dei gravi, possedevano,
cioè, una pesantezza che agiva come forza frenante del movimento, perché naturalmente
costringeva i corpi a tendere verso il basso. La seconda legge naturale afferma che
quando un corpo ne spinge un altro non può trasmettere o sottrarre
ad esso alcun movimento senza perderne o acquistarne nello stesso tempo
una quantità uguale. (ivi)
cioè la quantità dei moti dei due corpi sommata insieme rispetto alla quantità dei moti dei
due corpi considerati separatamente,
rimane invariata. Entrambe le leggi sono formulate senza alcun ricorso all'esperienza: solo
attraverso l'uso della pura ragione, ribadisce Cartesio, possiamo stabilire fondamenti certi
alla fisica:
Anche se tutto ciò che i nostri sensi hanno sperimentato nel vero
mondo sembrasse essere manifestamente contrario a ciò che è contenuto in
queste due regole, la ragione, che me le ha dettate, mi sembra così forte
e non mi riterrei meno in dovere di supporle in quel modo nuovo che
sto descrivendo. (ivi)
La terza legge afferma
che quando un corpo si muove, quantunque nella maggior parte dei
casi il suo movimento avvenga secondo una linea curva... tuttavia ciascuna
delle sue parti, presa separatamente, tende sempre a continuare il proprio
movimento in linea retta. (ivi)
Con la formulazione di queste tre leggi Cartesio ha messo in crisi la concezione finalistica
della natura. Non c'è, al di là di queste leggi nessuna causa finale che rende possibile il
divenire dei fenomeni. Tutto il vario dispiegarsi della realtà è possibile esclusivamente
grazie alle cause meccaniche che Cartesio ha individuato nella materia-estensione e nel
movimento. In tal modo, servendosi del solo postulato della perfezione e della
immutabilità di Dio, accettato per adesso fideisticamente perché non ancora
"razionalmente" dimostrato, Cartesio costruisce una fisica servendosi del semplice
procedimento analitico-deduttivo. Anzi il rigore di questo metodo, afferma Cartesio, fa sí
che i risultati conseguiti valgano per il mondo immaginario che sta descrivendo, ma anche
per qualsiasi mondo creato da Dio, il nostro mondo compreso:
All'infuori delle tre leggi da me esposte non voglio supporne altre, se
non quelle che seguono infallibilmente dalle verità eterne, su cui i mate-
matici basano le loro dimostrazioni piú certe e piú evidenti: intendo le
verità secondo le quali Dio stesso, come ci ha fatto conoscere, ha disposto
tutte le cose in base a numero, peso e misura e la cui conoscenza è cosí
naturale alle nostre anime, che non potremmo non giudicarle infallibili e
concepirle distintamente; nè potremmo dubitare che, se Dio avesse creato
più mondi, sarebbero in tutti vere come in questo. (ivi)
Con l'ausilio di queste tre leggi, Cartesio spiega l'origine dell'universo dal caos: la materia-
estensione infinita in forza del
movimento si suddivide in una moltitudine di particelle irregolari che, ruotando intorno a
se stesse e le une intorno alle altre, si sfregano e producono un'enorme quantità di
frammenti impalpabili, molto leggeri e mobili (il fuoco), che riempiono lo spazio tra un
corpo e l'altro. Noi li percepiamo sotto forma di luce, la quale ha la capacità di irradiarsi in
tutte le direzioni istantaneamente. La combinazione di queste particelle dà origine prima
all'aria e poi a colpi scanalati e irregolari (la terra) che muovendosi vorticosamente
formano dei vortici (tourbillons) in cui agisce la forza centrifuga. Cosí si spiega il formarsi
di centri intorno a cui girano i vari sistemi. Il centro intorno a cui ruota il nostro sistema è
il sole.
Lo stesso principio meccanico che agisce nell'universo opera anche nel mondo vegetale ed
in quello animale. I corpi, come l'universo, sono concepiti simili a macchine e non hanno,
pertanto, bisogno per funzionare di nessun principio vitale. Dal cuore, che Cartesio
immagina dotato di un grande calore, parte il sangue riscaldato che circola nel corpo.
Cartesio contesta la soluzione offerta da Harvey (1629), secondo cui la circolazione del
sangue dipende dalla contrazione e dalla distensione dei muscoli del cuore, in quanto ai
suoi occhi appare poco meccanicistica. La vita degli organismi doveva derivare, a detta di
Cartesio, da un principio materiale (il calore, il fuoco), in grado di giustificare la dilatazione
ed il movimento del sangue. Ma Cartesio è talmente preso dalla sua concezione
meccanicistica da cadere in concezioni metafisicizzanti. Le particelle piú sottili del sangue
formano gli " spiriti vitali " che attraverso l'aorta arrivano al cervello e poi dal cervello
passano ai nervi, concepiti come le corde di uno strumento meccanico. I nervi a loro volta
muovono i muscoli. Con lo stesso schema meccanicistico sono spiegate tutte le altre
funzioni biologiche: respirazione, digestione, e cosí via.
In tal modo gli animali che non posseggono l'anima (non potendosi considerare tale quelle
che tradizionalmente venivano considerate l'anima vegetativa e l'anima sensitiva) sono in
tutto e per tutto simili agli automi, cioè a macchine idrauliche:
Ed invero si possono benissimo paragonare i nervi della macchina che sto descrivendo ai
tubi delle macchine di quelle fontane; i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri congegni e
molle che servono a muoverle, i suoi spiriti animali all'acqua. che le muove, spiriti di cui il
cuore è la sorgente e la cavità del cervello la cabina centrale. Inoltre la respirazione e altre
simili azioni che sono naturali e ordinarie a questa macchina e dipendono dal corpo degli
spiriti sono come i movimenti di un orologio o di un mulino, che il corso ordinario
dell'acqua può rendere continui.
(L'uomo, II)
L'uomo è in tutto identico per la sua vita biologica a questi autoini. In piú possiede l'anima
che può volontariamente, e non solo automaticamente come negli animali, provocare i
movimenti:
E infine, quando l'anima razionale si troverà in questa macchina, avrà
sede principale nel cervello e vi sarà come il fontaniere, che deve essere
nella cabina centrale dove confluiscono tutti i tubi di queste macchine,
quando vuole provocare, impedire o modificare in qualche modo i loro
inenti. (ivi)
Cartesio, come sappiamo, non pubblica il suo scritto. La condanna di GaIilei, da parte delle
autorità religiose, rende ancora piú forte e piú pressante l'esìgenza di una giustificazione
razionale del fondamento metafisico del sapere, di quello scientifico compreso. Il ricorso a
Dio creatore della materia-estensione e del movimento effettuato fideisticamente, senza
alcuna " rigorosa " dimostrazione intellettuale, non è piú sufficiente a fondare il sapere.
Il filosofo si convince che non è piú possibile alcun discorso scientifico se non si risolve
criticamente e preventivamente il problema del fondamento del sapere. La causa della
mancata pubblicazione di Il Mondo, probabilmente, è da ricercare anche in questa
consapevolezza e non solo in un calcolo prudenziale inteso ad evitare condanne da parte
del potere ecclesiastico.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Il vecchio sapere, la ragione e il nuovo metodo
La rifondazione metafisica del sapere, la scoperta del punto fermo, inattaccabile da parte
di ogni critica scettica, su cui costruire l'edificio della nuova scienza, esige preliminarmente
la individuazione degli elementi di debolezza della vecchia cultura. Da qui la necessità di
ripercorrere la propria personale esperienza, conferendole una esemplarità storica. A
fondare l'esemplarità collettiva e storica della sua personale esperienza e quindi delle sue
eventuali scoperte, Cartesio sostiene che la bona mens o ragione, cioè
la facoltà di giudicare rettamente e di distinguere il vero dall'erroneo,
è per natura uguale in tutte le persone. E dunque la varietà delle opinioni
è causata da ciò: che alcuni sono piú ragionevoli degli altri, ma sol-
tanto da questo: che noi indirizziamo i nostri pensien per vane vie e non
riflettiamo sulle stesse cose. Perciò non basta avere buona intelligenza, ma
usarla bene. (Discorso sul metodo, I)
L'elaborazione di un metodo per usare bene l'intelligenza non interessa, infatti, il singolo
soggetto, ma tutta l'umanità. Nonostante fosse stato educato in "una delle scuole piú
celebri d'Europa" e nonostante avesse appreso piú di quanto prevedeva il corso di studi,
Cartesio confessa:
Ultimato il corso di studi, dopo il quale si è generalmente introdotti
nel numero dei dotti,... caddi in confusione tra molti dubbi ed errori, al
punto che credetti di non aver ricavato altro vantaggio, nel tentativo di
istruirmi, se non quello d'aver conosciuto assai meglio la mia ignoranza.
(ivi)
Con un giudizio cosí severo e drastico Cartesio condanna il sapere umanistico accusandolo
di essere vuoto e verboso; esso istruisce sul passato, ma non dice assolutamente niente
sul presente, non offre alcuna garanzia sui fondamenti del sapere. La stessa filosofia con
le sue continue dispute finisce con il generare piú dubbi che certezze. Cartesio sembra
apprezzare solo le matematiche per "la certezza e l'evidenza dei loro principi", ma si
stupisce che siano state utilizzate solo per far progredire le arti meccaniche. Il rifiuto di
questa cultura spinge Cartesio
a non cercare altro sapere al di là di quello che potessi scoprire in me
stesso o nel gran libro del mondo. (ivi)
Si dedica quindi ai viaggi, studia il comportamento dell'umanità,
ma passati vari anni nello studio del libro del mondo e nella ricerca
di esperienza, pensai un giorno di indagare entro me stesso e di porre in
atto ogni forza del mio pensiero al fine di scoprire le vie che dovevo per-
correre. (ivi)
L'operazione cartesiana consiste allora in una sorta di ripiegamento interiore per cercare
nell'io, nella interiorità della ragione, le regole del nuovo metodo. La ragione, nell'opera di
formazione del nuovo metodo, non può ricevere aiuti né dalla logica tradizionale, utile
a spiegare agli altri le cose già note, o anche, come l'arte di Lullo, a
discutere senza distinzione di cose che uno non conosce, invece che ad
apprenderle;
(Discorso sul metodo, II)
né dalla geometria, troppo "legata alla osservazione delle figure" astratte, né dall'algebra
cosí schiava di certe norme e di certe cifre da presentarsi come una
arte confusa e oscura, atta a confondere la ragione. (ivi)
Da sola deve trovare in se stessa
il metodo esatto da tener presente nello studio delle cose di cui la
mia mente era all'altezza. (ivi)
Dopo attento esame Cartesio si risolve ad accettare come regole metodiche valide soltanto
quattro norme:
La prima era di non accettare mai nulla come vero prima di convin-
cermi che fosse tale per evidenza: di evitare, cioè, attentamente la fretta e la
prevenzione, e di non includere nulla nei giudizi al di là di ciò che appa-
risse al mio intelletto tanto chiaramente e distintamente da allontanare
qualsiasi dubbio.
La seconda era di distinguere ogni problema da esaminare in tante
parti minori, quanto fosse possibile e indispensabile per risolverlo in modo
migliore.
La terza di indagare ordinatamente, cominciando dalle cose piú sem-
plici e piú facili da comprendere, per ascendere per gradi a poco a poco;
fino alla comprensione delle piú complicate!...
La quarta, di fare sempre delle enumerazioni tanto complete e delle
revisioni tanto generali da potere essere certo di non aver dimenticato
nulla.(ivi)
Con queste regole Cartesio non intende affatto organizzare la conoscenza di tutta la
realtà, ma vuole soltanto procedere ad una verifica delle possibilità conoscitive del
soggetto umano. Il "vero metodo " deve servire e garantire il migliore uso possibile della
ragione:
Ciò che piú mi soddisfaceva in questo metodo era la certezza di ser-
virmi in tutto della mia ragione, se non con perfezione, almeno nel modo
migliore consentitomi. (ivi)
Ma prima di procedere nel tentativo di condurre la ragione secondo il vero metodo per
giungere all'individuazione di una certezza metafisica da utilizzare come verità
fondamentale da cui ricavare tutto quanto il sapere, Cartesio deve darsi una norma di
comportamento pratico per continuare a vivere in attesa della conquista della verità:
Prima di iniziare la ricostruzione della casa da noi abitata... è necessa-
rio, anzitutto, procurarsi un altro alloggio... in tal modo, io per non star-
mene tentennante nelle mie azioni mentre la ragione mi costringeva ad
esserlo nel giudizio e per non rinunciare a vivere quanto potevo felice-
mente, mi creai una morale provvisoria. (Discorso sul metodo, III)
Tutte le regole della morale provvisoria sono improntate ad un prudente conservatorismo:
La prima regola era di ubbidire alle leggi e ai costumi dei mio paese,
conservandomi fedele alla religione nella quale Dio mi ha concesso la gra-
zia di essere educato dall'infanzia, e attenendomi in tutto il resto alle opi-
nioni piú moderate e seguite generalmente dagli uomini piú assennati…
La seconda regola consiste nell'essere fermo e deciso, per quanto pos-
sibile, nelle mie azioni, e di attenermi alle opinioni piú incerte, una volta
accettate, con la stessa fermezza che se fossero le piú certe...
La terza regola fu di vincere sempre piú me stesso anzi che la fortuna
e di voler mutare piú i miei desideri che l'ordine delle cose della realtà.
(ivi)
Assicuratosi una norma di comportamento pratico, Cartesio può procedere nel programma
di conquista di un fondamento certo del sapere, nel tentativo, cioè, di fornire alla nuova
scienza una metafisica, sicura, razionalmente fondata. Cosí nella quarta parte del Discorso
sul metodo, Cartesio, partendo dal dubbio, delinea i motivi centrali della sua metafisica,
espone cioè, "le ragioni con le quali si dimostra l'esistenza di Dio". Ma l'esposizione di
questa parte preferiamo rinviarla alla piú ampia trattazione offerta da Cartesio nelle
Meditazioni.
Nella quinta parte, tratta di questioni fisiche, esponendo, in sintesi, i temi affrontati
nell'opera Il Mondo. Come pure da questa ultima opera erano ricavati i tre saggi, La
Diottrica, Le Meteore, La Geometria, pubblicati con la fortunata introduzione che recava il
titolo Discorso sul metodo.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Il dubbio, la certezza e Dio
Cartesio, riprendendo quanto aveva scritto nel perduto trattato del 1629 e nella IV parte
dei Discorso sul metodo, pubblica nel 1641 le Meditazioni metafisiche. Nella nuova opera
ribadisce ed amplia le ragioni di dubbio. Per giungere a certezze indubitabili, bisogna
revocare in dubbio tutto ciò che non si presenta esente da qualsiasi pur minimo sospetto
di falsità. Non bisogna fidarsi dei sensi, i quali a volte ci ingannano, ma neppure delle
dimostrazioni matematiche dal momento che ci sono persone che cadono in errore anche
nell più semplici deduzioni della geometria. Ed inoltre, poiché anch nel sonno possiamo
avere le stesse idee di quando siamo svegli, è bene dubitare di tutto, anche di quelle
nozioni che ci sembra indubitabili. Non dobbiamo prestare fede ad alcuna verità. Per
rafforzare il nostro atteggiamento di dubbio, supponiamo l'esistenza "di un genio maligno,
potentissimo, astuto, ingannatore, che abbia posto ogni sua industria nell'ingannarmi".
L'ipotesi del genio maligno stende sulla possibilità stessa di conoscere una piú fitta coltre
di nebbia. L'atteggiamento scettico deve essere tenuto fermo finché non si sarà trovato
qualcosa di certo, o, comunque, non si sarà appurato in maniera definitiva ch l'uomo non
può raggiungere alcuna certezza:
Archimede per togliere il globo terrestre dal suo posto e trasportarlo
altrove non chiedeva che un punto saldo e immobile, partimenti, anche io
potrò concepire alte speranze, se avrò tanta fortuna da scoprire una cosa
sola che sia certa e indubitabile. (Meditazioni metafisiche, Il,I)
Approfondendo ed estendendo il dubbio si giunge alla fine ad un punto inattaccabile anche
da parte dell'ipotizzato potentissimo e astutissimo genio maligno tutto impegnato ad
ingannarni:
Se egli mi inganna, non v'è dubbio che io sono; e mi inganni finchè
vorrà, non potrà mai fare che io non sia nulla, finchè penserò di essere
qualcosa. (ivi)
Ma, pur essendo certo di essere, non so ancora chiaramente cosa sono. Debbo procedere,
allora, attraverso una serie di riduzioni per giungere all'irrudicibile e trovare, in tal modo,
ciò che mi appartiene in modo essenziale, per identificare ciò che non può essere negato
senza negare la mia stessa esistenza. Trovo, allora, che posso conti nuare a dubitare di
avere un corpo, di avere degli organi di senso, rna ciò di cui non posso dubitare è che io
penso:
E qui trovo che il pensiero è un attributo che mi appartiene: esso
solo non può essere disgiunto da me. Io sono, io esisto: questo è certo... io
non sono dunque, per parlare con precisione, che una cosa pensante (res
cogitans), cioè uno spirito, un intelletto, una ragione.
(Meditazioni metafisiche, Il,2)
L'uso del dubbio, anche di quello piú ostinato (iperbolico), ha permesso a Cartesio di
raggiungere un punto fermo ed indiscutibile:
posso dubitare quanto voglio, ma di una cosa non posso affatto dubitare, della mia
esistenza come pensiero. In tanto dubito, infatti, in quanto penso. Il dubbio nel discorso
cartesiano ha, dunque, un valore soltanto metodico, si rivela utile per fissare in modo
indiscutibiIe una verità incontrovertibile da cui partire per la ricostruzione di tutto il
sapere. Esso presenta, perciò, caratteri completamente differenti dal dubbio sistematico
degli antichi scettici, in quanto quest'ultimo non consentiva la conquista di alcuna
certezza, di alcuna verità, era un dubbio definitivo e non provvisorio e strumentale. Il
soggetto, come sostanza pensante, trova, grazie al dubbio, la sua fondazione e la sua
giustificazione in se stesso; non ha bisogno di nient'altro per legittimarsi come realtà. La
prima inattaccabile certezza è allora raggiunta prima ed indipendentemente dalla certezza
di Dio e del mondo, ed è raggiunta non attraverso un processo sillogistico di derivazione di
una verità da un'altra, ma per un fenomeno di autoevidenza. Il pensiero, cioè, si è rivelato
immediatamente a se stesso. Ma cosa s'intende per sostanza pensante? Si intende,
risponde Cartesio, una sostanza
che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non
vuole, che immagina e che sente.
(ivi)
L'autocoscienza, la consapevolezza cioè che il soggetto ha di se stesso non è, infatti, puro
pensiero matematico, ma l'insieme di tutti gli atti del pensiero, è la vita spirituale in tutte
le sue articolazioni interne ed in tutte le sue manifestazioni. Di chiaro e di evidente nella
vita dello spirito c'è solo la consapevolezza di essere una sostanza:
dacché mi è chiaro che percepisco i corpi non propriamente
mediante i sensi o l'immaginazione, ma soltanto mediante l'intelletto, e
che li conosco non in quanto li tocco o li vedo, ma soltanto in quanto li
penso, comprendo apertamente che nessun' altra conoscenza può essere per
me piú facile o piú evidente di quella del mio stesso spirito.
(Meditazioni metafisiche, 11, 5)
Ma Cartesio ha potuto affermare che Dio è una sostanza pensante (res cogitans) soltanto
grazie ad una operazione di trasformazione di un atto in una sostanza. Già un suo
contemporaneo, il filosofo inglese Tommaso Hobbes di cui ci occuperemo in seguito, gli
obietta:
Non mi sembra ben dedotto questo ragionamento di dire "io sono
pensante", dunque "io sono un pensiero", né "io sono intelligente", dun-
que " sono un intelletto". Poiché nella stessa guisa potrei dire " io sono pas-
seggiante", dunque " io sono una passeggiata ". Il signor Cartesio, dunque,
prende la cosa intelligente e l'intellezione, che ne è l'atto, per una mede-
sima cosa. (Terze obiezioni)
In questa fase della meditazione cartesiana l'io è un assoluto che non ha bisogno di
rapportarsi a niente per avere coscienza di sé. Sa di essere, perché immediatamente, con
la piú chiara delle evidenze, sente di essere. Nella sua stessa debolezza, nel suo dubitare,
nel suo sospendere ogni giudizio sulla realtà, nel suo revocare in dubbio anche le certezze
piú evidenti, come quelle matematiche, c'è la forza del suo manifestarsi come realtà.
Dall'affermazione "l'io è una sostanza pensante" risulta chiara la la natura sostanzialitistica
di tutta la filosofia cartesiana. Il pensiero viene inteso, infatti, come "attributo", cioè come
una proprietà essenziale che inerisce ad un essere permanente, presupposto a
fondamento di ogni attività intellettiva. Da quest'anima e dai contenuti presenti in essa il
soggetto deve, poi, procedere, attraverso l'uso del solo pensiero, alla ricostruzione di tutte
le "certezze" che il dubbio iniziale aveva messo tra parentesi privandole cosí di ogni
validità.
Ma in che modo la coscienza potrà arrivare a riconoscere fuori di sé la esistenza di altre
realtà? Come può il soggetto uscire fuori dal magico cerchio della sua egoità? Dalla
costatazione che la prima certezza è stata raggiunta dalla percezione chiara e distinta del
mio essere pensiero, posso
assumer come criterio generale che tutte le cose che percepiamo con
assoluta chiarezza e distinzione sono vere.
(Meditazioni metafisiche, 111, 1)
Ma la chiarezza e la distinzione che hanno reso evidente il mio autoriconoscimento come
sostanza pensante, non possono valere a giustificare da sole ogni altro riconoscimento di
verità, in quanto non ancora sono uscito completamente dallo stato di dubbio. Anzi:
per sradicarlo del tutto è necessario che, appena mi si presenti l'occa-
sione, io esamini se vi sia un Dio e, ove conosca che ce n'è uno, se egli
possa ingannare: giacché, senza la conoscenza di queste due verità, non so
come potrei mai essere certo di cosa alcuna.
(Meditazioni meta&cbe, 111,2)
Ma qual è il punto di partenza per cercare se vi sia un Dio? Ovviamente ancora la mia
coscienza, il mio spirito.
Tra i miei atti di coscienza, alcuni sono immagini delle cose, e solo a
questi si addice il nome di idee: tali, ad esempio, le mie rappesentazioni di
un uomo, o di una chimera, o del cielo, o di un angelo, o di Dio stesso.
Altri, invece, hanno caratteri diversi: cosí quando io voglio, temo, affermo
o nego, concepisco bensí qualcosa come oggetto dell'attività della mia
mente, ma con quest'attività, aggiungo qualche altra determinazione alla
mia idea di quella cosa. Di siffatti atti di coscienza, gli uni sono detti voli-
zioni o affezioni, gli altri giudizi.
(Meditazioni metafisiche, 111, 3)
Nelle idee, come nelle volizioni o nelle passioni (affezioni) non può esserci errore, perché,
indipendentemente dalla corrispondenza o meno delle prime agli oggetti e
indipendentemente dalla bontà o meno delle seconde, sono pur sempre atti di pensiero.
Solo nei giudizi può annidarsi l'errore. Io posso sbagliare, infatti, solo quando
erroneamente alle idee presenti in me faccio corrispondere cose esistenti fuori di me.
Ora, di queste idee, alcune mi sembrano innate; altre, estranee e
venute dal di fuori (avventizie), altre ancora, farmate e inventate da me
stesso (fattizie). (ivi)
Esse, come atti di coscienza, non si differenziano le une dalle altre, ma differiscono
moltissimo per le cose che rappresentano. Le idee, infatti, hanno un grado di
rappresentatività diverso le une dalle altre. Ma il grado maggiore o minore di
rappresentatività dipende dalla causa che le produce. L'idea, infatti, intanto possiede una
carica oggettiva di realtà, in quanto la ricava da una causa che non può possedere minore
realtà:
perché un'idea contenga in sé una realtà obiettiva, essa deve indub-
biamente ripeterla da una causa che possieda per lo meno altrettanta realtà
formale. (Meditazioni metafìsiche, 111, 6)
Cartesio sta facendo uso nell'analisi dei contenuti di coscienza del principio di causalità: ad
ogni effetto deve corrispondere una causa. Di conseguenza tutte le idee che non sono
prodotte da me presuppongono una causa esterna che possegga almeno tanta realtà
"formale" (cioè di fatto), quanta realtà "oggettiva" (cioè di rappresentatività) è contenuta
nell'idea. Di conseguenza quanto piú un'idea è perfetta tanto piú è reale l'oggetto che essa
rappresenta. Sulla base di questo schema, Cartesio analizza l'idea che l'uomo ha di Dio,
per verificare se essa sia un prodotto della stessa attività di pensiero dell'uomo, o se, al
contrario, non sia rappesentativa di un Dio reale, esistente in sé.
Con la parola Dio intendo una sostanza infinita, eterna, immutabile,
indipendente, onnisciente, onnipotente, e dalla quale io stesso come ogni
altra cosa, se altro esiste, è stata creata. Ora, questi attributi sono di tale spe-
cie che quanto maggiore è la cura con cui vi rifletto, tanto minore mi
sembra la possibilità che desivino soltanto dal mio pensiero.
(Meditazioni metafisiche, 111, 7)
Partendo da questa idea di Dio, in virtù del principio di causalità su esposto,
si deve necessariamente concludere che Dio esiste, giacché, sebbene, a
dir vero, io possieda l'idea di sostanza per il fatto stesso che io sono una
sostanza, non potrei tuttavia avere l'idea di una sostanza infinita -io che
sono un essere finito - se questa idea non fosse stata posta in me da una
sostanza veramente infinita. (ivi)
Risulta chiaro che questa prima "dimostrazione" dell'esistenza di Dio riposa su due
presupposti, il primo che nella vita spirituale agisce lo stesso principio di causalità
operante nella realtà, il secondo che lo spinto umano possiede già, come un dato, l'idea di
infinito. Contro questi postulati si appuntano le obiezioni dei critici di Cartesio, i quali
sostengono che la finitezza dello spirito umano non giustifica il possesso chiaro e distinto
dell'idea di infinito. Questa idea, piú che essere perciò un dato, è, al contrario, un prodotto
del nostro pensiero e si viene formando gradatamente per estensione o per negazione del
finito da parte della nostra mente. Nella seconda prova dell'esistenza di Dio, fermo
restando il principio di causalità da Cartesio definito "nozione prima", "cosa di per sé
evidente", il punto di partenza è l'esistenza del soggetto. Da che cosa derivo in quanto
soggetto? Non da me, perché
se fossi l'autore di me stesso, non avrei piú certamente né dubbi, né
desideri, né mi mancherebbe alcuna perfezione; ma avrei dato a me stesso
tutte le perfezioni di cui ho l'idea, e sarei io stesso Dio.
(Meditazioni metafìsicbe, 111, 9)
Né posso derivare dai miei genitori, in quanto anch'essi, pur avendo l'idea di perfezione,
sono come me imperfetti.
Da tutto ciò bisogna necessariamente concludere che, per ciò stesso
che io esisto e che ho l'idea di un essere perfettissimo, cioè di Dio, l'esi-
stenza di Dio è dimostrata con la massima evidenza... Né si deve trovar
strano che Dio, all'atto di crearmi, abbia posto in me questa idea, perché
fosse come il suggello impresso dall'artefice sulla propria opera.
(Meditazioni metafìskbe, 111,9-10)
Dimostrata Pesistenza di Dio,
deriva abbastanza chiaramente che Dio non può ingannarci, giacché è
manifesto per luce naturale che l'errore procede necessariamente da
qualche privazione.
(Meditazioni metafisiche, I11,10)
Se Dio non può ingannarci - infatti è lui che fornisce all'intelletto conoscenze evidenti
attraverso le idee chiare e distinte - da che cosa deriva l'errore- Cartesio ha già anticipato
che l'errore si può dare solo nel giudizio, quando cioè la volontà, che nell'uomo ha una
sfera illimitata di azione, afferma per vero ciò che l'intelletto non ha ancora percepito
come chiaro e distinto. L'errore ha, allora, una causa umana, deriva dal cattivo uso che
l'uomo fa della sua volontà infinita, ha sempre carattere pratico, non teoretico, dipende
dal fatto che, essendo la mia volontà molto piú ampia ed estesa
dell'intelletto, io non la contengo negli stessi limiti di questo, ma la
estendo anche alle cose che non intendo e poiché a tali cose essa è per sé
indifferente, è facile che essa si smarrisca e che scambi il falso per vero, il
male per il bene. E cosí avviene ch'io m'inganni o che io pecchi.
(Meditazioni inetafìsicbe, 1V,6)
La veracità divina fonda, dunque, le mie idee chiare e distinte. Ma, si chiedono i critici di
Cartesio, non si era partiti proprio dalle idee chiare e distinte per avere la certezza dell'io
come sostanza e poi dello stesso Dio? Non s'accorge Cartesio di cadere in una specie di
circolo vizioso in cui le conclusioni sono giustificate in virtù di premesse che, a loro volta,
hanno bisogno di essere giustificate dalle stesse conclusioni? Cartesio si difende
sostenendo che l'evidenza attuale, non derivata da alcun sillogismo, è certa di per sé.
Quando si afferma "io penso, dunque sono" (cogito ergo sum), infatti, si afferma una
verità che non ha bisogno della veracità divina per essere riconosciuta, essa è evidente
"per una semplice introspezione della mente". La veracità divina interviene, continua
Cartesio, quando occorre fare ricorso alla memoria; dopo una lunga serie di ragionamenti
matematici, infatti, per essere sicuri che nessun passaggio sia errato, che cioè ogni
evidenza attuale sia stata collegata in
modo preciso all'evidenza passata fornita dalla memoria, ho bisogno di essere rassicurato
circa le capacità della mia natura dalla veracità di Dio. Debbo cioè essere certo che Dio
non può ingannarmi facendomi vedere per vero ciò che tale non è. Da ciò si deve
concludere che tutte le idee concepite come chiare e distinte - le idee degli enti
matematici, i principi primi di ogni conoscenza (ad esempio il principio di non
contraddizione ed il principio di causalità), l'idea di Dio ecc. - sono innate nelle menti
umane e posseggono una forte carica di realtà, non sono riducibili, cioè, al nulla.
La matematica, in effetti, sebbene sia costruita con puri enti di pensiero, non è puro gioco
della mente, un puro nulla, anche se alle sue rappresentazioni non corrisponde nulla nella
sensazione. Gli enti matematici, come tutte le altre idee innate nella mente, proprio
perché veri, cioè concepiti in modo chiaro e distinto, sono reali. Da queste affennazioni
Cartesio ricava un ulteriore prova dell'esistenza di Dio (la terza). Infatti,
se dal solo fatto che posso trarre dal mio pensiero l'idea di una cosa,
deriva che tutto ciò che penso chiaramente e distintamente come perti-
nente a tale cosa appartiene effettivamente ad essa,
è facile ricavare, continua Cartesio, che, poiché posseggo di Dio l'idea di Ente
perfettissimo,
all'essenza di Dio appartiene una reale ed eterna esistenza.
(Meditazioni metq/isicke, V, 3)
Dio infatti, concepito come perfettissimo, non può mancare di nessun attributo e tanto
meno di quello dell'esistenza. Per questa terza prova dell'esistenza di Dio, Cartesio
riprende il famoso argomento ontologico, già offerto da S. Anselmo d'Aosta.
Ma se Cartesio ha potuto giustificare il passaggio dall'idea di Dio all'esistenza di Dio,
affermando che alla perfezione assoluta non può mancare l'esistenza, in che modo può
spiegare il passaggio dall'idea di estensione in lunghezza, larghezza e profondità e dai suoi
attributi, come le grandezze, le figure, le posizioni, i movimenti, all'esistenza di corpi
estesi realmente esistenti fuori di noi? Chi mi assicura che alla mia idea chiara e distinta di
corpo esteso corrisponda nella realtà un corpo esteso? C'è in me, risponde Cartesio, una
facoltà passiva di sentire, di ricevere delle rappresentazioni sensibili, la quale sarebbe
perfettamente inutile, se non ci fosse fuori di me qualcosa in grado di produrre tali
rappresentazioni. Questo qualcosa non può essere che un corpo. Infatti, poiché Dio mi ha
fornito
una fortissima inclinazione a credere che esse (rappresentazioni sensi-
bili) procedano da cose corporee, non vedo come non potrei accusarlo
d'ingannarmi se veramente tali idee non procedessero o non fossero pro-
dotte da cose materiali. Debbo ammettere, pertanto, l'esistenza di cose
materiali. (Meditazioni metafisiche, VI, 4)
La distinzione e la conseguente separazione tra pensiero (res cogitans) e corpo (res
extensa) pone, però, il problema del loro rapporto nell'uomo che partecipa dell'uno e
dell'altro. Cartesio, prima di offrire la soluzione, ribadisce la "grande differenza" tra spirito
e corpo:
il corpo, infatti, è per sua natura sempre divisibile, mentre lo spirito è
affatto indivisibile... E sebbene tutto lo spirito sembri essere unito a tutto il
corpo, pure quando un piede o un braccio o qualsiasi altra parte viene
separata da esso, conosco chiaramente che, con ciò, niente è stato tagliato
via dal mio spinto. (Meditazioni metafìsicbe, VI, 7)
Pensiero e corpo, realtà distinte e separate sono in rapporto grazie ad una piccola parte
del cervello, la ghiandola pineale, in cui ha sede l'anima. E' qua che gli spiriti vitali e
l'anima agiscono gli uni sull'altra e viceversa, secondo lo schema meccanico già espresso
ne Il Mondo.
Con le Meditazioni, Cartesio è convinto di aver fornito alla scienza quei fondamenti
metafisici indiscutibili su cui erigere tutto il castello del sapere e, soprattutto, crede di
averlo fatto seguendo un procedimento rigorosamente razionale che non concede il
benché minimo spazio a critiche fondate e convincenti. Ma, già i suoi contemporanei,
come abbiamo visto, notarono l'abuso logico con il quale il filosofo pretendeva di
dimostrare " la non illusorietà e non ingannevolezza delle idee, usando come argomento
decisivo proprio quella tesi della dipendenza causale del contenuto ideale dalla realtà
effettiva, che avrebbe essa per prima bisogno di essere dimostrata" (Masullo, Metafisica,
Milano 1980, p. 149).
Cartesio, come notò Leibniz, "ha doppiamente peccato, troppo dubitando e troppo
facilmente uscendo dal dubbio".
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
I principi della filosofia e le passioni dell'anima
Subito dopo la pubblicazione delle Meditazioni, Cartesio riprende un progetto, mai del
tutto abbandonato: pubblicare la sua visione del mondo. Si trattava, praticamente, di
riprendere la tematica del trattato Il Mondo e di presentarla alla luce della nuova
metafisica. L'opera fu stampata nel 1644 con il titolo Principia Philosophiae. Con questo
lavoro Cartesio ambiva a presentare in un sol corpo tanto la sua metafisica quanto la
filosofia naturale, con la speranza che essa potesse servire da libro di testo nelle
università. Tutta la materia, divisa in quattro parti, era articolata in brevi paragrafi ordinati
in modo che ogni affermazione si giustificasse alla luce delle affermazioni precedenti. Nella
prima parte, Sui principi della conoscenza umana, Cartesio riprende il tema delle prime
cinque meditazioni precisando e chiarendo alcune tesi importanti come i concetti di libertà,
di idea chiara e distinta, di sostanza. Nella seconda parte, Dei principi delle cose materiali,
è riesposto il contenuto della filosofia naturale. Cartesio, però, attenua alcune affermazioni
metodologiche troppo intellettualistiche, riserva infatti una maggiore considerazione
all'esperienza, ai probabili e all'ipotesi, conferendo in tal modo alla scienza la caratteristica
di sapere relativo ad una sostanza materiale concreta e non ad un mondo come "favola"
dedotto matematicamente da principi razionali. La terza parte, Del mondo visibile, è un
vero e proprio trattato di astronomia. Cartesio cerca di conciliare la sua opinione sul
movimento della terra con le posizioni definite dalla Chiesa nel secondo processo a Galilei:
la terra, anche se non è dotata di movimento proprio, si muove perché è trasportata dal
movimento del cielo nel quale giace in riposo.
Poiché vediamo che la terra non è sostenuta da colonne, né è sospesa
nell'aria per mezzo di cavi, ma è circondata da ogni lato da un cielo molto
fluido, pensiamo che è in quiete e senza alcuna propensione al movi-
mento, visto che non ne notiamo alcuna in essa; ma crediamo anche che
questo non possa impedire che essa sia trasportata dalla corrente del cielo e
segua il suo movimento, senza tuttavia muoversi.
(Principi, 111, 26)
La stessa cosa avviene per tutti gli altri pianeti. Nella quarta parte, Della terra, Cartesio
esamina la natura della materia terrestre e di quella celeste, analizza in modo dettagliato
il funzionamento dei nostri organi di senso e conclude affermando che le verità da lui
acquisite intomo a questi argomenti offrono soltanto una certezza morale; sono, cioè,
verità di cui si può apprezzare l'utilità pratica, capace di regolare i nostri costumi, ma non
sono ricavate con una rigorosa deduzione. Oltre alla certezza morale, però, si può avere
"di queste verità" anche un'altra certezza, quella metafisica, proveniente dalla convinzione
che
essendo Dio sovranamente buono e la fonte di ogni verità, poiché è
lui che ci ha creati, è certo che la potenza o facoltà che ci ha data per
distinguere il vero dal falso non sbaglia, quando ne usiamo bene e quando
ci mostra con evidenza che una cosa è vera.
(Principi, IV, 206)
Con I principi della filosofia, con il riconoscimento cioè del valore morale e pratico delle
verità scientifiche e con la riaffermazione che a fondamento di ogni nostra certezza c'è
soltanto la fiducia, tutta ottimistica e religiosa, nella "veracità" divina, Cartesio ha toccato
il punto piú profondo della sua crisi. La baldanzosa speranza di attingere il fondamento piú
certo della scienza sembra andata definitivamente delusa.
Come eluso sembra rimanga anche il progetto di erigere sulla nuova scienza la morale
definitiva. Il rimando che Cartesio faceva nel Discorso sul metodo ad un tempo diverso per
la costruzione di una morale non piú provvisoria e precaria, ma definitiva, perché ricavata.
dalle nuove certezze scientifiche, non trova riscontro. Pur occupandosi per una lunga serie
di anni, probabilmente dal 1642 al 1649, di problemi morali, pur scrivendo una serie di
lettere indirizzate alla principessa. Elisabetta, figlia di Federico V elettore del Palatinato, e
al diplomatico francese Hector-Pierre Chanut, pur pubblicando nel 1649 un trattato, Le
passioni dell'anima, Cartesio non elabora una morale che si stacchi da quelle regole che
nel 1637 aveva definite provvisorie e che dovevano servire a regolare la sua condotta in
attesa di una definitiva elaborazione su fondamenta scientifiche di nuove norme di
comportamento. Anzi, in una lettera del 4 agosto 1645 alla principessa Elisabetta, Cartesio
ribadisce la validità delle regole della morale provvisoria:
Ora mi sembra che ognuno possa raggiungere la felicità da se stesso
senza nulla attendersi dal di fuori, solo che osservi tre cose, alle quali si
riportano le tre regole della morale da me esposte nel Discorso sul metodo.
(Le passioni dell'anima, a cura di E. Garin, Bari 1966, p. 145)
Nelle Passioni dell'anima, partendo dalla soluzione che aveva offerto con la ghiandola
pineale al problema del rapporto tra res cogitans e res extensa, Cartesio vuole studiare in
che modo il corpo eserciti i suoi influssi sull'anima ed in che modo l'anima eserciti una
funzione moderatrice sulle passioni. Il modello metodologico per l'analisi delle passioni è
ancora quello meccanicistico della fisica.
Cosí da "fisico" Cartesio distingue le "azioni dell'anima", cioè gli atti volontari provenienti
dalla res cogitans, dalle "passioni", dalle
percezioni e sensazioni, o emozioni dell'anima, che si riferiscono par-
ticolarmente all'anima e sono causate, alimentate, e rafforzate da qualche
movimento degli spinti. (Le passioni dell'anima, 1, 27)
Infatti questi spiriti, agitandosi, muovono la piccola ghiandola che è in mezzo al cervello e
suscitano le passioni. Tutte le "percezioni", "sensazioni", "ernozioni", dell'anima risultano
dalla composizione e dalla specificazione di sei passioni semplici: la meraviglia, l'amore,
l'odio, il desiderio, la gioia e la tristezza. Ma per quanto l'anima subisca le passioni, deve
sempre sforzarsi di controllarle e dominarle:
Ma la saggezza è principalmente utile nell'insegnare a rendersi tal-
mente padroni delle passioni e a usarle con tanta accortenza, sí che i mali
che esse causano siano ben sopportabili, e perfino tali che si tragga qualche
gioia da tutti. (Le passioni dell'anima, 111, 212)
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Leggi razionali, leggi naturali
L'emergere di nuovi rapporti economici e l'affermarsi di nuovi ceti sociali imponeva, anche
se gradualmente, la revisione dei principi giustificativi del potere politico. Il diritto divino
dei re, infatti, riconoscendo Dio come fonte unica ed assoluta del potere ed i re come i
suoi legittimi rappresentanti in terra, rimetteva nelle mani dei sovrani ogni autorità: il
sovrano è la fonte delle leggi, ciò che piace al re è norma vincolante per i sudditi. Una tale
teoria politica, ovviamente, non tutelava affatto gli interessi dei nuovi ceti industriali e
mercantili che vedevano, in tal modo, dipendere dalla volontà, e qualche volta dal
semplice capriccio del sovrano, la tutela delle loro imprese ed il frutto dei loro traffici.
Tutta la sfera dei diritti individuali era completamente obliterata e sacrificata agli interessi
dinastici.
Nella grande battaglia, che dalla fine del XVI secolo e per tutto il XVII secolo, si viene
svolgendo in difesa della razionalità, si inserisce anche la rivendicazione della fondazione
razionale dell'organizzazione politica.
Il giusnaturalismo rappresenta il tentativo di ricondurre tutti gli atti della società e degli
individui a poche, ma semplici e chiare norme razionali direttamente fondate sulla natura
umana. La fonte del diritto e della legislazione, in tal modo, viene spostata da Dio e dal
sovrano alla legge naturale presente ed operante in tutti gli
Uomini. I teorici del giusnaturalismo per le loro analisi partono dall'esame dello stato di
guerra, in cui piú facilmente gli uomini sono portati a credere che ogni norma umanitaria e
morale sia sospesa e possa essere trasgredita. Proprio dalla considerazione della
situazione in cui maggiormente si manifesta l'aggressività e la brutalità degli uomini è
possibile distinguere le leggi convenzionali, nate cioè dall'accordo occasionale degli uomini,
da quelle naturali che si radicano profondamente nella razionalità, che è la vera natura
umana.
I teorici piú autorevoli del giusnaturalismo sono l'italiano Alberico Gentile (1552-1611), il
tedesco Giovanni Altusio (1557-1638) e l'olandese Ugo Grozio (1583-1645). Alberico
Gentile parte per le sue considerazio dal principio che l'uomo per natura è legato agli altri
uomini da un reciproco sentimento d'amore e insieme ad essi forma una società unitaria
che abbraccia gli uomini di tutto il mondo. Questo istinto naturale alla socievolezza è
immutabile., Se gli uomini vivessero secondo la loro natura non ci sarebbero guerre né
uccisioni; la guerra, dunque, non è conforme al diritto naturale; essa nasce come
infrazione a tale diritto. Una giustificazione dell'uso delle armi e quindi della guerra può
esserci solo per chi, costrettovi, difende se stesso, la propria famiglia e le proprie
sostanze. Nessuna giustificazione può esservi per le guerre di offesa o per le guerre
prodotte dalla volontà di alcuni di imporre la propria religione ad altri La religione, infatti,
ha i suoi principi primi, semplici ed evidenti inscritti nella natura stessa degli uomini e su
quei principi ogni singolo ha il diritto di elaborare un culto, una liturgia. Ma se proprio si
arriva alla guerra, neppure lo stato eccezionale in cui i rapporti umani versano in simile
circostanza può autorizzare alcuno a sospendere o ad ignorare le regole fondamentali del
diritto naturale: il rispetto delle donne, dei fanciulli, dei prigionieri, dei coltivatori dei
campi (di questi ultimi perché debbono produrre le derrate alimentari).
La speculazione di Giovanni Altusio si caratterizza come la rivendicazione piú coerente
della sovranità popolare. Se la fonte del diritto è la natura, cioè la razionalità umana,
allora la fonte del potere è rappresentata da tutti gli uomini, in quanto portatori di questa
razionalità. Lo stato nasce dal contratto che gli uomini stringono tra di loro affidando la
sovranità ad un principe, che è un semplice magistrato, un gestore di un potere non suo,
ma derivato dal popolo. Anzi, su questo principe devono esercitare una intensa opera di
controllo degli "efoni" per assicurarsi che non calpesti i diritti dei cittadini. Qualora, infatti,
il principe venisse meno ai suoi
doveri e rompesse in tal modo il contratto stabilito, il popolo potrebbe scegliere un altro
principe o addirittura modificare la forma di governo. Calvinista intransigente, Altusio
ritiene che la religione debba essere promossa dallo stato, il quale deve trattare con
durezza gli atei e gli eretici.
Il rappresentante piú noto di questo indirizzo è, però Ugo Grozio. Vissuto al tempo delle
grandi guerre di religione, Grozio punta a sdrammatizzare i contrasti religiosi tra le varie
confessioni e a ricondurre tutte le religioni a pochi ed essenziali principi naturali:
Il primo è che Dio esiste ed è uno. Il secondo è che Dio non è nes-
suna delle cose che si vedono ma è molto superiore ad esse. Il terzo è che
le cose umane sono curate da Dio e giudicate con perfetta equità. Il quarto
è che Dio stesso è l'artefice di tutte le cose esterne.
(De jure belli ac pacis, 11,20,45)
Queste norme fondamentali di ogni religione positiva si trovano inscritte nella razionalità
di tutti gli uomini. Su di esse ogni confessione ha elaborato una sua liturgia ed una sua
dommatica. Sicché i contrasti tra le diverse chiese non son fondati sui principi primi della
religione, ma soltanto sulle "aggiunte" che ciascuna di esse ha operato su quei principi.
Voler imporre con le armi queste "aggiunte" è cosa contraria alla ragione ed alla natura
umana. Il giusnaturalismo di Grozio si qualifica rispetto alle dottrine degli altri teorici del
movimento perché opera la rivendicazione dell'autonomia della ragione da Dio. La ragione,
che è la vera natura dell'uomo, possiede un patrimonio di norme le quali esplicano la loro
funzione indipendentemente da Dio: le norme della ragione naturale sarebbero valide
anche se Dio non ci fosse. Esse infatti sono volute da Dio perché sono giuste in sé. La
prima di queste norme è la comune ricerca della vita sociale, ossia di una vita in comune
con esseri della stessa specie. La realizzazione della società è possibile in quanto l'uomo,
oltre alla tendenza alla vita sociale, possiede anche i mezzi appropriati per rendere
operante questa tendenza: il linguaggio è la facoltà di conoscere e di agire secondo
principi generali. Da questi principi naturali deriva poi il diritto positivo le cui leggi
fondamentali prevedono: il rispetto delle cose altrui, la restituzione dei beni altrui e del
lucro da essi derivati, l'obbligo di mantenere le promesse, il risarcimento del danno
arrecato per colpa propria, l'accettazione delle pene per i propri delitti. Da queste leggi,
con ordine geometrico, è possibile dedurre tutto il complesso delle norme particolari che
costituiscono il diritto positivo dello stato.
Grozio non accetta però che la sovranità sia del popolo e che questi non la possa alienare.
Egli ammette sí la tesi convenzionalista in virtù della quale lo stato si fonda sul patto
originario stretto tra tutti i membri della comurnità, ma non esclude che questa comunità
possa spogliarsi della sua sovranità, e possa trasferirla integralmente ad un principe. Tale
trasferimento non è contrario al diritto naturale. Il popolo, però, può trasferire la sovranìtà
anche ponendo certe condizioni all'esercizio di essa. Solo quando il principe trasgredisce in
modo grave le leggi derivate dal diritto naturale o le condizioni poste dalla comunità
all'atto del trasferimento della sovranità, solo in questo caso può essere deposto.
Con il giusnaturalismo si opera il piú grande tentativo di ricondurre alla razionalità la
politica ed il diritto. Si rivendica alla ragione il diritto-dovere di regolare autonomamente
tutte le attività costituenti il cosiddetto mondo umano.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Un progetto unitario per spiegare natura e politica
La filosofia hobbesiana rappresenta la contrapposizione piú rigida e decisa alla
speculazione cartesiana. La polemica contro la sostanzializzazione dell'atto del pensare
operata dal filosofo francese, infatti, non era né occasionale, né peregrina, ma
rappresentava la manifestazione sintetica e puntuale di un orientamento filosofico che si
muoveva su linee direttrici diametralmente opposte. Al di là del ricorso di entrambi i
filosofi ad una metodologia di ispirazione matematica, e ad una concezione della realtà di
tipo meccanicistico, la distanza che separa Hobbes da Cartesio è enorme ed incolmabile.
Cartesio aveva costruito una metafisica spiritualistica, con la speranza di fornire un quadro
unitario di riferimento filosofico al nuovo sapere scientifico. Ma la scelta del punto di
partenza, il cogito, lo aveva condizionato a tal punto da rendere difficile la giustificazione
di una realtà oggettiva esterna all'io. Per sottrarsi a questo pericolo, Cartesio è costretto a
far ricorso alla fede nella veracità divina e alla distinzione rigida della realtà in due
sostanze opposte ed inconciliabili: la res extensa e la res cogitans. Contro questi esiti della
filosofia cartesiana, Hobbes prende posizione formulando un'immagine dell'universo
decisamente materialistica e meccanicistica, basata sulla certezza che la causa di ogni
realtà risiede nel movimento dei corpi e che ogni evento - naturale o politico che sia - è
disciplinato da un rigoroso determinismo. Rífiutando la distinzione cartesiana tra spirito e
materia, tra anima e corpo, Hobbes ripropone l'unità dell'uomo con la natura ed estende al
mondo umano, all'uomo come individuo e alla socìetà politica come insieme di individui, le
stesse leggi e le stesse procedure di analisi considerate valide per la comprensione della
natura fisica.
Il determinismo meccanicistico è elevato cosí a regola generale applicabile in ogni campo
del sapere, dalle operazioni logico linguistiche, alle passioni degli uomini, ai
comportamenti politici dei singoli e degli stati.
Tommaso Hobbes nacque a Malmesbury il 5 aprile 1588. Dopo i primi studi nella città
natale, frequenta una scuola universitaria, la Magdalen Hall di Oxford, dove studia la
logica sillogistica, il latino ed il greco. Appena ventenne, nel 1608, è costretto dalle sue
non floride condizioni economiche ad accettare di fare da precettore al conte William
Cavendish, di due anni piú giovane di lui. Dal 1610 al 1613 accompagna il suo discepolo in
un viaggio sul continente, visitando la Francia e l'Italia. A contatto con glì "uomini colti"
incontrati in Europa, s'accorge di quanto fosse antiquata e retorica la cultura che aveva
assorbita nei suoi primi anni di studi. Ritorna in patria con la ferma determinazione di
ristudiare i classici per trarne un piú profondo insegnamento. Lasciata alla morte del suo
allievo, nel 1628, la casa dei Cavendish, pubblica la traduzione della Storia della guerra
del Peloponneso di Tucidide. La scelta dell'opera dello storico greco, considerata un
manifesto dell'ideologia antidemocratica, viene considerata dai contemporanei del filosofo
come una scelta di campo nel conflitto tra la borghesia, vagheggiante un parlamento
democratico come strumento di governo, e la monarchia assoluta costretta proprio in
quell'anno a firmare la Petizione dei diritti. L'anno successivo, 1629, ritorna nel continente
accompagnando come precettore il giovane Clifton, figlio di un'a1tra cospicua famiglia
inglese. Subito dopo ritoma, come precettore del figlio del suo defunto discepolo, nella
casa dei Cavendish, frequenta i migliori scienziati inglesi del perìodo; inizia una lunga serie
di letture scientifiche riguardanti il metodo della scienza, l'astronomia, la matematica, la
geometria, l'ottica. Matura, in tal modo, la convinzione che una scienza rigorosa deve
procedere secondo uno schema dimostrativo di tipo geometrico e che i principi esplicativi
del reale si riducono soltanto a due: il corpo ed il movimento. E' databile, infatti, intorno al
1631 un Breve trattato sui principi primi, trovato manoscritto tra le carte del filosofo. Già
in questo breve scritto Hobbes utilizza la dimostrazione geometrica di tipo eudideo. Nel
1634 compie un altro viaggio nel continente durato tre anni, durante il quale incontra
Galilei ad Arcetri e Mersenne e Gassendi a Parigi, acquista e legge libri introvabili in
Inghilterra, assorbe molte idee della cultura continentale. Proprio nel corso di questo
viaggio prende corpo il suo progetto di scrivere un'opera complessiva capace di dar conto
di tutta la realtà sulla base dei principi già fissati al tempo del Breve trattato. Si tratta,
cioè, di elaborare una specie di enciclopedia del sapere nella quale trovino spiegazioni in
una prospettiva meccanicistico-materialistica, non soltanto i fenomeni naturali, ma anche
quelli morali e politici. Partendo, dunque, dal corpo e dal movimento, Hobbes ritiene di
poter ricavare, seguendo un procedimento matematico rigoroso, una fisica, una morale ed
una politica. L'articolazione dello scritto dovrebbe comprendere un De Corpore, un De
Homine e un De Cive. Ma ad Hobbes interessava soprattutto dare una sistemazione
rigorosa alla teoria politica. Sotto la spinta delle agitate vicende del tempo, contrassegnate
dal conflitto tra monarchia e parlamento, Hobbes, mettendo da parte il suo disegno di una
enciclopedia sistematica, compone e fa circolare manoscritta già dal 1640 un'opera in cui
svolge un discorso che, unitariamente, dalla fisiologia della sensazione, attraverso la
spiegazione dei vari sentimenti umani, conduce alla formulazione di una scienza politica:
Gli elementi di legge naturale e politica. L'evolversi del conflitto fra monarchia e
parlamento suggerisce ad Hobbes di trasferirsi a Parigi. Nel 1641 scrive le Obiezioni alle
Meditazioni Cartesiane che Mersenne raccoglie e passa a Cartesio. Nel 1642 nitorna sulla
stessa materia trattata negli Elementi, pubblicando il De Cive in cui ribadisce le sue tesi
politiche. A Parigi, intanto, riceve l'incarico di insegnare matematica al futuro re Carlo Il
d'Inghilterra, anch`egli esule in Francia. Ma quando nel 1651 fece pubblicare a Londra il
suo capolavoro, il Leviathan, fu accusato di volersi procacciare con quella opera la
protezione del nuovo padrone d'Inghilterra, Cromwell. Nello stesso anno, poiché la nuova
dittatura aveva posto fine ai conflitti interni e imponeva ordine e stabilità politica, Hobbes
ritorna in patria. Si impegna a fondo in una polemica contro il vescovo Bramhall
difendendo le sue tesi a favore delle necessità e del determinismo operanti in ogni
situazione, naturale o umana che sia, contro il principio del libero arbitrio. Nel 1655
pubblica il De Corpore che doveva essere la prima parte del sistema e nel 1658 il De
homine, la seconda parte. Gli ultimi anni della sua vita sono carattenizzati da una serie di
polemiche contro quanti lo accusavano di ateismo, di eresia e soprattutto di essere
negatore della libertà umana. Si lascia trascinare anche in polemiche di natura scientifica,
nonostante sia cosciente della sua minore competenza ed abilità in questo campo. Scrive
ancora una serie di opere tra cui Behemot, che lascia inedito, e le traduzioni dal greco
all'inglese dell'Iliade e dell'Odissea. Muore il 4 dicembre del 1679.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
I nomi, i discorsi e i corpi
La situazione politica inglese, con l'aspro conflitto tra una monarchia che accentuava il suo
assolutismo e una nuova classe di imprenditori e di esportatori che rivendicava più ampi
margini di autonomia e di libertà alle proprie imprese economiche, poneva alla cultura
inglese un importante compito: l'analisi della genesi e della natura del potere politico.
L'irrigidimento del parlamento nei confronti della monarchia e delle sue pretese
assolutistiche aveva provocato una serie di disordini e di scontri tra i fautori delle due
fazioni che sarebbe sfociata nella guerra civile. Anarchia e demagogia sembravano
caratterizzare la vita pubblica inglese e minacciavano di minare alla base la convivenza
civile e la sicurezza dei singoli. Di qui l'urgenza di un esame rigorosamente razionale, e
niente affatto emotivo, della necessità dello stato e del funzionamento dei suoi
meccanismi. E' questo il compito che Hobbes si assume e porta a compimento in una serie
di scritti. Ma l'analisi delle leggi che regolano i rapporti tra gli uomini (la politica) rinvia
all'esame del comportamento umano e della genesi delle diverse passioni (l'antropologia)
che, a sua volta, rimanda allo studio del linguaggio e del ragionamento (la logica) e
all'indagine sui corpi (la fisica). La chiara coscienza degli stretti legami fra atteggiamenti
politici e natura biopsichica dell'uomo suggerisce a Hobbes l'idea di un sistema che,
partendo dallo studio dei corpi, giunga alla elaborazione di una teoria politica. La
convinzione profonda che sta alla base del sistema è che nei corpi fisici, negli individui e
negli stati opera lo stesso meccanicismo. Tra natura e uomo non esiste la distanza e la
differenza rigidamente segnata da Cartesio, ma una perfetta omogeneità. La stessa
concezione materialistica e meccanicistica vale, infatti, per la comprensione dell'una e
dell'altro. Matura, allora, la convinzione della necessità di estendere allo studio delle
passioni dell'uomo e dei suoi comportamenti sociali e politici lo stesso metodo scientifico
che Copernico aveva usato per lo studio dell'astronomia e Galilei per lo studio della fisica:
il metodo matematico di tipo eudideo. Solo utilizzando
un metodo rigorosamente deduttivo, solo, cioè, ricavando tutto il sapere con procedimento
matematico da poche proposizioni vere è possibile eliminare tutte le dispute e le
controversie che da sempre hanno pesato soprattutto sulla morale e sulla politica. Come i
matematici con pochi testi fondamentali hanno eliminato dalla scienza da essi studiata
ogni motivo di incomprensione e di polemica avendo sostituito alle opinioni soggettive la
oggettiva deduzione scientifica,cosí gli studiosi di morale e di politica, se vogliono evitare
di scrivere intere biblioteche senza mai trovare un punto in comune che metta fine alle
continue polemiche e soprattutto che sia capace di esorcizzare il pericolo delle guerre
civili, debbono sostituire al " sapere verbifico " un sapere deduttivo. Hobbes è convinto
che non c'è vero sapere finché non si realizza uno scire per causas, un sapere che è
conoscenza delle cause generatrici di una determinata realtà. Nonostante nella
pubblicazione dei suoi scritti Hobbes non abbia seguito lo schema del sistema,
pubblicando, ad esempio, il De Corpore dopo gli Elementi e il De Cive, noi per comodità
espositiva seguiremo l'ordine sistematico. Consapevole della varietà di significati che nel
corso della storia ha acquistato il termine filosofia, Hobbes apre il suo De Corpore
precisando che cosa egli intende per filosofia ed in che cosa si risolve il filosofare:
La filosofia è la conoscenza acquisita attraverso il retto ragionamento
degli effetti o fenomeni sulla base della concezione delle loro cause o
generazioni, e ancora delle generazioni che possono esserci sulla base della
conoscenza degli effetti. (De Corpore, I, Il, 2)
Ci sono dunque, due modi di filosofare, uno che va dalle cause o generazioni agli effetti
possibili, l'altro che va dagli effetti che appaiono (i fenomeni) alle possibili cause o
generazioni. Nell'uno e nell'altro modo il filosofare si risolve in operazioni razionali
consistenti nel passaggio da un momento all'altro di un processo di tipo matematico.
Hobbes nella stessa pagina precisa:
Per ragionamento, poi, intendo il calcolo. Calcolare è cogliere la
somma di piú cose l'una aggiunta all'altra, o conoscere il resto sottratta una
cosa all'altra... Ragionare dunque è la stessa cosa che addizionare e sot-
trarre... ogni ragionamento si risolve, quindi, in queste due operazioni della
mente, addizione e sottrazione. (ivi)
La filosofia si riduce dunque esclusivamente ad operazioni aritmetiche ed, implcitamente,
presuppone una considerazione quantitativa della realtà. Ovunque non si possa procedere
mediante il calcolo alla conoscenza dei fenomeni attraverso le cause ed il processo
generativo; o, viceversa, non si possa giungere alla conoscenza delle cause e del processo
generativo attraverso i fenomerim, là non vi è filosofia. Non rientra, infatti, nell'ambito
della filosofia, pur essendone il punto di partenza, l'esperienza, e neppure rientrano la
storia, intesa come memoria degli avvenimenti, o la teologia. Quest'ultima tratta infatti
anch'essa di oggetti di cui non si possono indagare né le cause né la generazione. Oggetto
della filosofia sono allora soltanto i corpi, perché solo di questi si possono conoscere le
cause ed i processi generativi. E poiché esistono due generi di corpi, quelli naturali e quelli
politici, esistono due tipi di filosofia, quella naturale e quella politica.
Nel De Corpore, prima di trattare della filosofia naturale, Hobbes espone la sua logica, cioè
lo schema dimostrativo di tipo geometrico grazie al quale è possibile frenare le dispute
verbali e costruire un sapere valido per tutti.
Tutte le nostre operazioni logiche si eseguono mediante il linguaggio che è la trascrizione
verbale dei nostri pensieri. I nomi che compongono i nostri discorsi sono, infatti dei segni
convenzionali con i quali indichiamo le nostre esperienze, per evitare che esse ci sfuggano
dalla memoria e per comumicarle ad altri:
Il nome è una voce umana usata ad arbitrio dall'uomo, perché sia
una nota con la quale si possa suscitare nella mente un pensiero simile ad
un pensiero passato e che, disposta nel discorso, e profferita ad altri, sia per
essi segno di quale pensiero si sia prima avuto o non avuto in colui stesso
che parla. (De Corpore, 1, 11, 4)
I nomi, allora, non sono segni delle cose, ma dei pensieri. Con un nome possiamo
indicare, infatti, non solo cose reali, come pietra, uomo e cosí via, ma anche immagini di
cose irreali, come ippogrifo. Anche il nome futuro, o il nome nulla non indicano alcunché di
esistente realmente, ma indicano soltanto dei nostri pensieri. Altrettanto convenzionali
sono i nomi universali. Al nome umanità non corrisponde, infatti, nessuna cosa esistente
nella realtà o nella mente umana, ma soltanto una serie di cose (gli uomini particolari) per
le quali si può usare lo stesso nome:
Questo nome universale non è il nome di qualcosa che esiste in
natura, né di un'idea o un fantasma formato nella mente, ma sempre nome
di una voce o di un nome. (De Corpore, I, Il, 9)
In tal modo la disputa medioevale sugli universali è risolta da Hobbes con la negazione
della realtà degli universali stessi. Un nome universale è soltanto un nome comune a piú
cose particolari. Quando rapportiamo un nome ad un altro abbiamo una proposizione,
quando rapportiamo una proposizione all'altra abbiamo un sillogismo, un ragionamento.
La logica hobbesiana, lo abbiamo già detto, è modellata su quella eudidea, è cioè
deduttiva. Ora in una logica deduttiva il soggetto ed il predicato della proposizione
debbono indicare necessariamente la stessa cosa. Il predicato cioè non deve aggiungere
nessuna qualità, nessuna nota caratteristica che non sia già contenuta nel soggetto.
Ad esempio questo discorso: l'uomo è un animale, in cui due nomi
sono uniti con il verbo è, è una proposizione, per il fatto che chi dice cosí
significa che pensa che il nome che viene dopo, animale, è nome della
stessa cosa di cui è nome uomo, o che il nome che viene prima, uomo, è
contenuto nel nome che viene dopo, animale. (De Corpore, I, 111, 2)
Hobbes è consapevole che un sapere puramente deduttivo, formato cioè da proposizioni in
cui il predicato non aggiunge alcunché di nuovo a quanto contenuto nel soggetto, è un
sapere improduttivo, che si riduce ad analizzare soltanto quanto è già presente per
definizione nel soggetto, ma insiste su questo modello di scienza perché ha di mira il suo
obiettivo ultimo, quello di ridurre la morale e la politica a scienze obbliganti. Solo in
quanto ho stabilito con gli altri una convenzione politica e ho dato vita insieme agli altri ad
uno stato, mi sento vincolato ad accettare tutto quanto deriva dal patto sottoscritto, e cioè
mi sento impegnato al rigido rispetto delle leggi, solo allora la normativa convenuta e
presupposta risulta definitiva, determinante e quindi obbligante. Il deduttivismo logico-
scientifico è soprattutto in funzione di una morale e di una politica in cui non ci sia posto
per l'arbitrio soggettivo, in cui l'ordine razionale-deduttivo elimini ogni possibilità di
polemica e di contestazione individuale.
La verità di una affermazione non consiste, allora, nella corrispondenza tra discorso e
realtà oggettiva, ma soltanto nel corretto collegamento dei nomi:
Vera è la proposizione il cui predicato contiene in sé il soggetto, il cui
predicato, cioè, è nome di ciascuna cosa di cui è nome il soggetto.
(De Corpore, I, 111, 7)
Ai nomi concreti vanno collegati nomi concreti, a quelli astratti gli astratti, ai nomi
indicanti qualità vanno collegati altri nomi indicanti qualità e cosí via. Il ragionare allora si
riduce, come dicevamo all'inizio del discorso, a puro calcolo tra cose omogenee. La
somma, ad esempio, di corpo piú animale piú razionale è uguale a uomo; come uomo
meno razionale è uguale a corpo animato, e quest'ultimo meno animale è uguale a corpo.
Sulla scorta di questo metodo, Hobbes, nella seconda parte del De Corpore, traccia le linee
della sua filosofia naturale ed elabora quella concezione meccanicistica e materialistica che
serve a spiegare non solo la realtà naturale, ma anche la fisiologia umana e il
funzionamento della comunità politica.
Partendo dal presupposto che il procedimento della scienza è deduttivo, Hobbes procede
alla individuazione ed alla definizione dei concetti generalissimi da cui dedurre tutto il
sapere. Ovviamente la individuazione dei principi semplici ed universali non può procedere
per via sperimentale, ma semplicemente per via intellettuale.
Le nozioni prime, da cui si può ricavare tutto, sono il corpo ed il movimento; spazio e
tempo, invece, non sono che pure trascrizioni mentali, cioè pure immagini di essi. Tutti i
mutamenti sia dei corpi naturali che dei concetti e delle passioni dell'uomo sono
determinati dal movimento. Tutta la realtà procede come un meccanismo in cui a cause
necessarie seguono effetti necessari. In questo modo sul materialismo si innesta un
meccanicismo deterministico. Niente avviene in natura, o nel comportamento degli uomini,
che non sia necessariamente riconducibile ad una causa necessaria:
se causa necessaria si definisce quella, supposta la quale, non può non
seguire un effetto, si ricaverà anche che qualunque effetto sia stato pro-
dotto, è stato prodotto da una causa necessaria. (De Corpore I,IX,5)
Sia.il materialismo che il meccanicismo deterministico, però, sono derivati per via
meramente razionale e di conseguenza sono oggetto di una supposizione mai interamente
verificabile empiricamente, in quanto
non coi sensi, bensí con la ragione soltanto si intende che c'è qual-
cosa supposto e soggetto. (De Corpore, I,VI11,1)
La terza parte del De Corpore contiene i principi di una geometria "dinamica", cioè di una
geometria che spiega i concetti fondamentali di linea, piano e solido come derivanti dal
movimento del punto. Quest'ultimo è inteso come una estensione minima, anche se di
esso non si può considerare la quantità. Dal movimento di
questo punto esteso, e perciò reale, deriva la linea, e dal movimento di questa deriva il
piano e da questo il solido. Come dal punto, inteso come la piú piccola parte
dell'estensione, deriva la geometria, cosí dal conato, inteso come la piú piccola parte del
movimento, deriva la meccanica.
La quarta ed ultima parte del De Corpore tratta di fisica. Paradossalmente Hobbes, che
dalla fisica del suo tempo aveva mutuato il concetto di scienza analitica a priori, cioè di
scienza che da principi generali acquisiti per via razionale, e quindi precedenti ad ogni
esperienza, deduce analiticamente tutte le conseguenze in essi implicite;
paradossalmente, dicevamo è costretto ad usare proprio per la fisica una metodologia
induttiva, cioè una metodologia che partendo dai fenomeni cerca di risalire ai principi
primi. Ad apertura della parte riguardante la fisica, Hobbes precisa che il metodo
deduttivo, analitico a priori, vale per quelle scienze come la geometria, le cui proposizioni
generali sono poste e costruite dagli uomini, o per la filosofia naturale, costruita soltanto
su concetti razionali indipendentemente da una loro corrispondenza o meno alla realtà
oggettiva, o nel campo dell'etica e della politica, i cui principi, norme e leggi sono una
creazione della mente umana; ma non si adatta allo studio della realtà fisica in quanto i
principi primi della realtà non sono posti dall'uomo e, pertanto, non sono conoscibili, né
consentono di procedere dalle "cause generatrici" agli effetti:
Do inizio ora, all'altra parte (della filosofia), cioè comincio a ricercare,
partendo dalla nostra conoscenza sensibile dei fenomeni o effetti di natura,
il modo in cui essi non dico sono stati generati, ma han potuto essere
generati. Dunque, i principi, dai quali dipende ciò che seguirà, non li fac-
ciamo e costituiamo noi né li pronunciamo in termini universali, come
definizioni, bensí li osserviamo posti nelle stesse cose dall'autore della
natura, e noi ne facciamo uso in proposizioni singole e particolari, non
universali.
(De Corpore, IV, XXV, 1)
In fisica Hobbes nega, come Cartesio, il vuoto, ed in cosmologia si dichiara copernicano
seguace di Keplero e di Galileo.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Il movimento e le passioni
Abbiamo già detto che lo stesso meccanicismo che regola i fenomemi naturali agisce
anche nella vita biologica e psichica dell'uorno. Hobbes riconduce tutto al movimento e da
Harvey accoglie l'idea che il principio della vita nell'uomo coincide con il movimento del
sangue. Le funzioni fisiche dell'organismo e quelle conoscitive della mente derivano,
infatti, dal movimento. Questa antropologia meccanicistica, Hobbes la delinea sia nella
prima parte degli Elementi di legge naturale e politica, sia nell'ultima parte del De Homine.
Per comodità espositiva ci serviamo soprattutto della prima opera per le nostre citazioni.
Tutti i concetti derivano dal movimento delle cose di cui sono concetto. Quando l'oggetto
producente il concetto è presente abbiamo il senso, quando, invece, è assente, ma ha
lasciato in noi la sua immagine, abbiamo l'immaginazione. Per spiegare in forma
esemplificatoriia il concetto di suono che il movimento del battaglio della campana
produce, Hobbes scrive:
Il battaglio ha movimento e produce movimento nelle parti interne
della campana... questa trasmette movimento all'aria... l'aria trasmette movi-
mento attraverso l'orecchio e i nervi al cervello,
(Elementi di kgge naturale e politica, 1, Il, 9)
e poiché tale moto non si ferma lì, ma prosegue fino al cuore, neces-
sariamente esso deve o assecondarvi o contrastarvi quel movimento che si
chiama vitale; quando asseconda è detto piacere, contentezza o diletto, che
non è nulla di reale se non moto intorno al cuore cosí come il concetto
non è altro che moto all'interno del capo... ma quando tale moto indebo-
lisce o contrasta il moto vitale, allora si chiama dolore, e in relazione a ciò
che lo causa, odio. (Elementi, I, VII, 1)
Questo moto, quando asseconda il movimento vitale, ci spinge ad avvicinarci all'oggetto
che lo produce e genera cosí l'appetito, quando invece lo ostacola produce avversione (se
l'oggetto che lo produce è presente) e timore (se si teme che possa presentarsi). Ora,
poiché gli uomini differiscono per la loro costituzione fisica, diffeniranno anche per il
concetto che ognuno di essi avrà del bene e del male. Infatti
ogni uomo dal canto suo chiama ciò che gli piace ed è per lui dilette-
vole bene, e male cioè che gli dispiace. (Elementi, I,VII,3)
Non esiste, allora, alcun bene assoluto, ma esistono soltanto dei beni relativi ai singoli
soggetti. Come pure non esiste un fine assoluto perseguibile da parte di tutti gli uomini,
ma soltanto dei fini relativi, non essendo il fine stesso nient'altro che il raggiungimento di
ciò che ognuno considera bene. Pur essendo corpo e mente una stessa realtà - per Hobbes
tutto ciò che non ha corpo non ha neppure esistenza, e pertanto non è reale - ci sono dei
pia-
ceri che interessano maggiormente gli organi corporei del senso, e sono i piaceri sensuali;
altri, invece, che per non interessare alcuna determinata parte del corpo si chiamano
piaceri della mente, o gioia.
Partendo da questa affermazione, Hobbes, spiega in maniera coerentemente
meccanicistica tutta la vita passionale dell'uomo. In tale chiave trovano spiegazione la
gloria, come sentimento di compiacenza per la consapevolezza che il nostro potere è
superiore a quello dei nostri avversari; l'aspirazione come desiderio di un potere sempre
maggiore; la vergogna come consapevolezza di una debolezza; il coraggio come assenza
di timore in presenza di qualsiasi male; la compassione come immaginazione di una futura
calamità per noi, derivante dalla calamità presente in un altro uomo. La carità trova la sua
giustificazione nella consapevolezza della nostra potenza e scaturisce, quindi, dall'amor
proprio:
Non vi può essere per un uomo prova maggiore del proprio potere,
che il fatto di trovarsi in grado, non solo di realizzare i propri desideri, ma
anche di assistere altri uomini nei loro; e questo è il concetto in cui con-
siste la carità. (Elementi, I, IX, 17)
Cosí:
la magnanimítá non è nulla piú che... gloria ben fondata su un'espe-
rienza certa dì un potere sufficiente a raggiungere il proprio fine aperta-
mente. E la pusillanimità è il dubbio a questo riguardo.
(Elementi, 1, IX, 20)
Anche la differenza di capacità nei diversi individui è spiegata da Hobbes in chiave
materialistica e meccanicistica:
Noi vediamo per esperienza che gioia e dolore non derivano in tutti
gli uomini dalle medesime cause, e che gli uomini differiscono molto nella
costituzione del corpo, per cui ciò che asseconda e favorisce la costituzione
vitale in uno, ed è quindi piacevole, la impedisce e contrasta in un altro e
causa dolore. Quindi la differenza degli ingegni trae la sua origine dalle
differenti passioni e dai fini ai quali il loro appetito li guida.
(Elementi, 1, X, 2)
La stupidità, l'indole fantastica, la leggerezza di carattere, vengono anch'esse spiegate alla
luce dei presupposti materialistici fin qui rigorosamente seguiti. Appare, pertanto, chiaro
che tale procedimento rende vana ogni possibilità di considerare il comportamento umano
come il risultato di una scelta "libera" e "responsabile"
della volontà, rendendo in tal modo priva di senso la vexata quaestio sul libero arbitrio.
Ogni atto dell'uomo è effetto di una causa, e tra quest'ultime vanno incluse anche la paura
delle pene o il desiderio dei premi. Perciò la "libera scelta" dell'uomo si riduce, in ultima
analisi, ad una risposta a dei desideri o a delle paure. L'unica libertà umana consiste nel
realizzare senza alcun impedimento i propri desideri.
Ma se questo è vero per l'uomo isolato, non è piú vero per l'uorno inserito in una società.
Per l'uomo, considerato singolarmente, svincolato, cioè, da ogni obbligo derivante dalla
sua appartenenza ad una comunità, la morale si riduce ad un calcolo dei propri piaceri, ad
una ben regolata previsione di ciò che gli è utile e di ciò che, invece, gli è dannoso. Ma
tutto ciò, osserva Hobbes, non è vera morale:
Non possono avere alcuna scienza morale quelli che considerano gli
uomini per sé e come al di fuori della società civile, per la mancanza di
una determinata misura con la quale si possono valutare e definire la virtù
e il vizio. (De bomine, XIII,8)
Perciò, solo nella vita civile si trova una misura comune della virtù e
dei vizi; e questa misura, per la stessa ragione, non può essere costituita da
altro che dalle leggi di ciascuna comunità. (De bomine, XIII,9)
Il superamento del naturale egoismo umano è possibile, allora, soltanto nella società
civile, o meglio nel patto d'unione da cui nasce lo stato.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Nascita e natura dello stato
I principi della moralità dunque non sono innati nella natura umana, ma trovano la loro
origine e la loro giustificazione nella società, e cioè nello stato. Hobbes, nella sua lunga
attività di scrittore, non ha mai nascosto che il suo interesse fondamentale era la
comprensione delle leggi che regolano la convivenza civile. Fin dal 1640, quando già aveva
formulato il piano degli Elementi di flosofia che prevedeva la stesura dei De Corpore e del
De bomine prima di quella di un'opera politica, aveva avvertito il bisogno di precisare e di
rendere di dominio pubblico le sue idee circa la nascita, la causa e la natura del potere. In
quell'anno, infatti, fa circolare manoscritti Gli elementi di legge naturale e politica. Nel
1642 pubblica il De Cive, in cui riprende la parte politica degli Elementi, ne approfondisce
l'analisi e ne sviluppa la tematica. Ma la trattazione piú puntuale e completa del suo
pensiero politico, la elabora nel 1651 nel Leviatano.
Hobbes aveva precisato che nella politica, piú che nella fisica, era possibile far uso del
metodo analitico-deduttivo di tipo eudideo. A differenza dei principi della fisica, i principi
fondamentali che servono da base per le deduzioni politiche sono, infatti, liberamente
assunti dagli uomini sulla scorta della propria esperienza.
Tutta la rete delle norme regolanti la comunità umana è ricavabile, infatti, da
due postulati sicurissimi della natura umana: 1) il desiderio naturale
(cupiditas naturalis), per cui ciascuno richiede per sé l'uso di cose che sono
in comune; 2) la ragione naturale (ratio naturalis), per cui ciascuno si
sforza di evitare una morte violenta come il piú grande dei mali naturali.
(De Cive, Lettera dedicatoria)
Col primo postulato Hobbes nega tutta una tradizione culturale esaltante la socievolezza
naturale dell'uomo. Per Hobbes l'uomo non è un animale politico incline, per natura, alla
socialità, come voleva Aristotele, ma è un animale che naturalmente inclina all'egoismo e
all'avversione verso gli altri. Il movente che lo spinge a stabilire rapporti sociali e di
amicizia con gli altri è, infatti, la paura di perdere il piú importante dei beni, la vita:
l'origìne delle grandi e durevoli società deve essere stata non la mutua
simpatia degli uomini, ma il reciproco timore. (De Cive, 1, 3)
In un ipotetico "stato di natura" in cui gli uomini non sono ancora associati fra di loro e
vincolati da leggi positive, ogni singolo individuo è spinto ad agire soltanto dal naturale
desiderio di affermare se stesso contro tutti quanti gli altri. Non essendo vincolato da
alcuna legge limitante la sua brama di dominio, l'ipotetico individuo allo stato di natura ha
diritto ad ogni cosa, anzi tutti hanno diritto a tutto (natura dedit omnia omnibus):
perciò se due uomini desiderano la stessa cosa, che non possono
entrambi ottenere, divengono nemici, e per conseguire il proprio fine, che
è principalmente la propria conservazione e spesso il proprio piacere, ten-
tano di distruggersi e di sottomettersi l'uno all'altro.
(Leviatano, 1, 13)
Allo stato di natura l'uomo è dunque lupo per l'altro uomo (bomo bomini lupus). In tale
situazione, essendo tutti gli uomini concorrenti fra di loro per l'accesso ai medesimi beni,
si scatena la guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes). Nei singoli
individui
domina un continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la
vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta.
(Leviatano. 1, 13)
Proprio per sottrarsi ad una condizione di vita cosí miserevole e precaria, gli uomini si
sforzano di uscire dallo stato di natura, di porre fine al bellum omnium contra omnes, di
realizzare la pace. Gli argomenti che la ragione suggerisce agli uomini per spingerli a
realizzare un accordo sono considerati da Hobbes le leggi di natura. La prima norma che la
ragione indica per il superamento dello stato di natura è
cercare la pace e conseguirla (pax quaerenda est).
(Leviatano, 1,14)
Ma se non è possibile ottenere la pace bisogna difendersi dagli altri con tutti i mezzi
possibilL Da questa, che è la legge di natura fondamentale, deriva una seconda legge di
natura:
un uomo volentieri, quando altri lo fanno e per quanto crederà
necessario alla pace e alla difesa sua, rinunzi al suo diritto sopra tutte le
cose, e sia contento di avere tanta libertà contro gli altri uomini, quanta è
concessa agli altri uomini contro di lui.
(ivi)
Da questa legge di natura l'uomo è spinto alla rinunzia del suo diritto su tutto e di fatto si
avvia alla formazione dello stato. Si rende necessaria, allora, ricavare una terza legge
capace di garantire la conservazione della società. Essa impone, infatti,
che gli uomini debbono mantenere i patti (pacta servanda sunt) che
hanno fatto, altrimenti i patti sarebbero vani e non altro se non vane
parole e, rimanendo il diritto di tutti gli altri uomini a tutte le cose,
saremmo ancora nello stato di guerra.
(Leviatano, 1, 15)
La violazione di questa terza legge per Hobbes non è un male nel senso moralistico della
parola, ma un assurdo logico le cui conseguenze nefaste si riversano sullo stesso
trasgressore, in quanto senza l'osservanza dei patti sottoscritti, si scioglie di fatto la
società appena costituita e si ripristina lo stato di natura da cui faticosamente si era usciti.
Da queste prime leggi di natura, e con lo stesso
rigoroso precedere logico-deduttivo, Hobbes ricava una lunga serie di norme atte a
garantire la convivenza sociale (l'altruismo, la giustizia, la moderazione, l'incolumità dei
messageri). Ma le leggi di natura, pur essendo leggi di ragione, pur avendo cosí la loro
origine nella prudenza e nel calcolo egoistico degli individui, sono contrarie alle nostre
passioni naturali che ci spingono alla parzialità, alla vendetta, alla sopraffazione dei diritti
altrui:
Perciò malgrado le leggi di natura... se non è stabilito un potere, o se
esso non è abbastanza forte per assicurarci, ogni uomo preferisce e può
lealmente affidarsi alla propria forza ed alla propria arte per difendersi
contro tutti gli altri uomini. (Leviatano, Il, 17)
Ne deriva quindi, con geometrica necessità, l'esigenza di organizzare uno stato:
Il solo modo per stabilire un potere comune che sia atto a difendere
gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli, e perciò
ad assicurarli in tal maniera che, con la propria industria e con i frutti delle
proprie terre, possano nutrirsi e vivere in pace, è di conferire tutto il pro-
prio potere e la propria forza ad un uomo o ad un'assemblea di uomini
che possa ridurre tutti i loro voleri, con la pluralità dei voti, ad un volere
solo; che è quanto dire a deputare un uomo o un'assemblea di uomini a
rappresentare la loro persona, ed a riconoscersi, ognuno per parte propria,
autore di qualunque cosa colui, che cosí li rappresenta, possa fare o cagio-
nare in quelle cose che concernano la pace e la salvezza comune, ed in ciò
sottomettere i propri voleri ciascuno al volere di lui, e i propri giudizi cia-
scuno al giudizio di lui. (Leviatano, Il, 17)
L'origine del potere politico risiede, allora, nel contratto che i singoli individui stabiliscono
fra di loro ed in virtù del quale si spogliano di tutti i loro diritti e li trasferiscono nello stato
in cambio dell'assicurazione di aver salva la vita e di godere i frutti dei propri averi. Con la
nascita dello stato, "grande Leviatano", "Dio mortale", gli uomini escono dallo stato di
natura e si sottraggono alle leggi di natura per vivere secondo leggi civili, cioè secondo
leggi stabilite dal sovrano. Il patto da cui ha origine lo stato intercorre, però, solo tra i
singoli individui, i quali rinunciano ai loro diritti su tutto e li trasferiscono nel sovrano.
Quest'ultirno, pertanto, non è legato a nessun patto, non deve osservare nessuna regola;
anzi egli è la fonte di tutte le leggi. Egli è, perciò, come il Leviatano, il famoso mostro
marino a cui - com'è detto nel libro di Giobbe - il popolo attribuiva il potere di eclissare il
sole e quindi di decidere la vita e la morte degli uomini. I singoli uomini, non avendo
stabilito nessun patto diretto con il sovrano, ma avendo trasferito in lui volontariamente
tutti i loro diritti ed i loro poteri, non possono sottrarsi al potere del sovrano. Il patto
d'unione (pactum unionis) è, infatti, irrevocabile ed impegna tutti gli uomini. Nello stato,
indipendentemente dal fatto che sia rappresentato da un re o da un'assemblea, debbono
essere concentrati tutti i poteri. Il sovrano deve godere della piú assoluta impunità ed,
avendo, fra gli altri, il potere di promulgare e di abrogare le leggi, non è tenuto
all'osservanza delle leggi stesse; può disporre anche della vita e degli averi degli individui
se lo richiede la salvezza dello stato. I cittadini possono, infatti, avere la proprietà, ma
questa loro proprietà non è assoluta, ma relativa agli interessi dello stato. Il sovrano può
in caso di necessità espropriare i cittadini della loro proprietà: questa, infatti, non può
essere annoverata tra i diritti naturali. Nello stato, inoltre, non vi possono essere piú
poteri sovrani, perché, se vi fossero piú poteri sovrani, inevitabilmente, essendo
altrettanto liberi e non soggetti a nessuna norma, entrerebbero in conflitto fra di loro e
distruggerebbero lo stato e, con esso, la convivenza civile.
Hobbes, seguendo in ciò la tradizione classica, individua solo tre forme di governo: la
monarchia, la democrazia e l'aristocrazia. La differenza tra queste tre forme di governo
non va ricercata, però, nel concetto di potere, che in tutte e tre resta sempre uno e
indivisibile, ma nel numero delle persone che rappresentano il potere stesso. Quando a
rappresentarlo è uno solo, abbiamo la monarchia, quando pochi l'aristocrazia, quando tutti
i cittadini la democrazia. Bisogna però guardarsi dal credere che in una di queste forme di
governo possa esserci maggiore o minore libertà per i sudditi:
La libertà, di cui è cosí frequente ed onorevole menzione nelle storie
e nella filosofia degli antichi greci e romani... non è la libertà dei privati,
ma la libertà dello stato, che è la stessa di quella che avrebbe ogni uomo,
se non vi fossero leggi civili, né lo stato... è scritto sulle torri della città di
Lucca a grandi caratteri la parola Libertas; tuttavia nessuno potrebbe infe-
rirne che un privato ha piú libertà o immunità nel servire lo stato in quel
paese, che in Costantinopoli. Sia monarchico o popolare lo stato, la libertà
è sempre la stessa. (Leviatano, 11,21)
Quando si vuole segnare la differenza tra le diverse forme di governo utilizzando "lo
specioso nome di libertà", chiaramente si tenta di ingannare gli uomini. Questa pratica
"ingannatrice" Hobbes la fa risalire ai classici:
In queste parti occidentali del globo noi siamo abituati a formarci le
nostre opinioni, riguardo all'istituzione ed ai diritti dello stato, secondo
Aristotele, Cicerone ed altri greci e romani, i quali vivendo sotto governi
popolari, non derivavano quei diritti dai principi di natura, ma li ricava-
vano dalla pratica dei loro governi, che erano popolari... E, poiché gli ate-
niesi - per essere trattenuti dal desiderare un cambiamento di governo -
erano stati ammaestrati che essi erano liberi, e che tutti coloro i quali vive-
vano sotto una monarchia erano schiavi, perciò Aristotele, nella sua Poli-
tica (1,V1,2) stabilisce che nella democrazia si suppone la libertà, perché si
ritiene comunemente che nessuno sia libero sotto altro governo.
(Leviatano, II,21)
La libertà dei sudditi, in ogni forma di govemo, non solo è la stessa, ma riguarda soltanto
quei casi e quei comportamenti per i quali lo stato non ha espressamente emanato una
legge:
In egual modo le altre libertà dipendono dal silenzio della legge: nei
casi nei quali il sovrano non ha prescritto un modo di condotta, il sudditto
ha libertà di fare o non fare come gli piace; e perciò tale libertà è in
qualche paese maggiore, in qualche altro minore, in qualche tempo di piú,
in qualche altro di meno, secondo che coloro i quali hanno la sovranità
pensano che sia piú opportuno. (Leviatano, 11, 21)
Ma, al di là di questa precisazione, Hobbes ritiene "specioso" il termine libertà, in quanto,
a vedere bene, essa coincide con la necessità:
Libertà e necessità si accordano, come nell'acqua, che ha non solo la
libertà ma la necessità di discendere per un canale. Similmente è per le
azioni, che gli uomini volontariamente fanno, le quali, poiché procedono
dal loro volere, procedono dalla libertà, eppure poiché ogni atto, ogni desi-
derio e ogni inclinazione umana procedono da qualche causa, e questa da
un'altra causa in una catena continua... a colui che potesse vedere la con-
nessione di quelle cause, la necessità di tutte le azioni degli uomini appari-
rebbe manifesta. (Leviatano, 11,21)
Il valore delle varie forme di governo, allora, va misurato indipendentemente dalla
"presunta" libertà dei sudditi. Monarchia, democrazia e oligarchia vanno valutate per la
loro intrinseca capacità di assicurare la salus populi, la salvaguardia cioè della giustizia in
virtù della quale bisogna dare a ciascuno ciò che gli è proprio. Ed Hobbes è convinto che il
governo di uno solo risponda di piú a questa esigenza, assicurando minore corruzione e
nepotismo, maggiore celerità di decisione, decisioni piú sagge e meditate. La democrazia,
infatti, sostiene Hobbes,
non è altro che una aristocrazia di oratori, interrotta talvolta dalla
temporanea monarchia di un solo oratore. (Ekmenti, 11, 11, 5)
Essa presenta, poi, oltre ai difetti connessi alla sua struttura istituzionale, gli stessi
inconvenienti di una struttura di potere fortemente centralizzata, ma li moltiplica su larga
scala. Monarchia e democrazia, inoltre, in quanto forme di gestione diverse dell'indivisibile
potere sovrano, sono soggette agli stessi pericoli provenienti dalla non accettazione
dell'autorità dello stato da parte dei cittadini. La indivisibilità del potere porta Hobbes a
non riconoscere, al di là del potere politico del sovrano, nessun altro potere, neppure
quello religioso. Anzi una organizzazione ecclesiale che non dipenda direttamente dallo
stato potrebbe spingere alla ribellione i sudditi e, quindi, essere fornite di guerra civile e,
al limite, di disgregazione dello stato stesso con la conseguente ricaduta di tutti nello stato
di natura. I sovrani, perciò, per garantire la pace debbono sottoporre le chiese alle stesse
leggi cui sono sottoposte tutte le altre associazioni di cittadini Con una lettura minuziosa
della Scrittura, Hobbes ritiene di poter dimostrare, infine, che la vita religiosa consiste
soltanto nella aspirazione ad una vita ultraterrena, mentre tutto il resto è stato aggiunto
dai vari gruppi dirigenti che nei secoli hanno utilizzato la religione per salvaguardare i
propri interessi ed il proprio potere.
Con la teoria dello stato frutto del contratto tra tutti gli uomini, Hobbes interrompe una
lunga tradizione storica che si era sviluppata lungo due direttrici parallele e qualche volta
convergenti: lo stato come manifestazione in terra della volontà di Dio e lo stato come
frutto di una naturale inclinazione dell'uomo alla socievolezza. Per Hobbes lo stato è, come
abbiamo detto, una scelta che gli uomini fanno autonomamente anche se per la necessità
che hanno di uscire dalla drammatica situazione in cui versavano nello stato di natura,
che, per Hobbes, va inteso in senso metaforico e non storico. Esso, infatti, rappresenta la
condizione dell'uomo quando non vi siano leggi e precetti a vincolarne il comportamento e
a frenare la naturale insaziabile bramosia. Pure dopo la nascita dello stato può continuare
ad esistere e a manifestare i suoi effetti, come ad esempio nelle guerre tra gli stati, nelle
guerre civili e nei rapporti commerciali.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
L'ambiguità del cartesianesimo
Il pensiero cartesiano, con il suo appello alla pura razionalità matematica, aveva inserito nella cultura europea un metodo di indagine che definitivamente frustrava ogni nostalgia invocante l'autorità della tradizione. L'appello alla
Scrittura o alle opere dei grandi filosofi del passato era ormai il segno distintivo di una cultura di retroguardia che pure era presente ed attiva in alcune roccaforti, come i collegi gesuitici o molte università cattoliche e protestanti dell'Europa. Ma ormai le università producono poca cultura; i filosofi piú originali ed arditi pensano ed operano al di fuori delle istituzioni culturali ufficiali, si scambiano le loro opere attraverso una rete privata di rapporti culturali. Il cartesianesimo, però, nel mentre introduceva quell'enorme motivo di novità che era il metodo razionalistico, giungeva in ultima istanza a giustificare la metafisica, la morale e la religione tradizionali. Si presentava cosí come un Giano bifronte che, da una parte, proponeva una tecnica filosofica nuova, incentrata su un pensiero procedente in modo autonomo, rigoroso e matematicamente articolato, dall'altra, sostanzializzando il pensiero, come bene aveva notato Hobbes, rimetteva in moto un meccanismo riproducente il tradizionale dualismo spirito-materia e la conseguente fiducia nelle piú consolidate conclusioni metafisiche. La presenza di questo doppio aspetto nella filosofia cartesiana, come tecnica razionale rivendicante l'autonomia della ragione da una parte, e come dottrina metafisica dall'altra, veniva segnalata già dai contemporanei di Cartesio. La fortuna di questa filosofia è assicurata dal fatto che "razionalisti" da una parte, e "metafisici misticheggianti" dall'altra, si richiamano, anche quando dicono di voler polemizzare, a qualche suo aspetto particolare. I primi riprendono il concetto di ragione autosufficiente, elaborano filosofie analitiche che, con metodo geometrico, deducono da pochi principi razionalmente garantiti tutte le conseguenze in essi implicite. 1 secondi, con il tentativo di saldare il dualismo cartesiano in un monismo metafisico, danno vita, anche se per poco, ad una specie di scolastica cartesiana.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
La "ragione finita" di Gassendi
Cartesio aveva celebrato l'onnipotenza della ragione: come sostanza pensante, la ragione
è la depositaria dei principi primi di tutte le scienze ed è l'unico strumento da utilizzare per
ogni ulteriore acquisizione del sapere. Ma contro la sostanzializzazione e l'infinità di questa
ragione si era, però, già scagliato Hobbes.
Anche Pierre Gassendi, canonico di Digione nato nel 1592 e morto nel 1655, rivolge la sua
critica contro il modello di ragione cartesiana. Utilizzando lo strumento dello scetticismo,
sulla scia di Montaigne e di Charron, Gassendi cerca di limitare le pretese della ragione
cartesiana per riconfermare i capisaldi della religione cristiana.Egli ritiene che l'unica
dottrina capace di resistere alla critica scettica sia il matenialismo epicureo. Ed è proprio
questa dottrina che Gassendi vuole riprendere per depurarla dalle sue connotazioni
ateistiche e per piegarla in direzione religiosa. Nel Syntagma philosophiae Epicuri (1649),
Gassendi riprende e corregge in senso religioso l'atomismo epicureo: gli atomi non sono
ingenerati ed incorruttibili, ma sono creati e possono essere annientati da Dio; il loro
movimento non è eterno, né connaturato ad essi, ma deriva da Dio; l'ordine del mondo
non è dovuto ad una causalità meccanica, ma ad un finalismo che ha in Dio il punto di
arrivo finale; l'anima intellettiva non è mortale e corruttibile, in quanto composto di atomi
materiali, ma è incorporea ed immortale. Lo stesso Dio è dimostrabile utilizzando la " via "
tomistica che, partendo dall'ordine delle cose, arriva a dirnostrare l'esistenza
dell'ordinatore. Quest'opera di totale travisamento delle tesi epicuree giustifica
l'affermazione di uno dei piú autorevoli storici della filosofia, l'Abbagnano, secondo il quale
" Gassendi fu un autentico fallimento come restauratore del materialismo epicureo". Sul
piano della conoscenza Gassendi, come abbiamo accennato, riduce il potere della ragione
e fa appello all'empirismo nominalistico utilizzando la filosofia di Ockham. La scienza non è
ricerca della " sostanza " delle cose e neppure dei nessi rigorosi che tra esse intercorrono,
ma è descrizione, è "storia" degli avvenimenti e dei fenomeni naturali. L'uomo, quando
tenta di capire la natura, può utilizzare solo premesse probabili, ma non principi certi.
Questi ultimi sono noti soltanto all'autore della natura stessa, a Dio. La tendenza di
Gassendi a coniugare insieme motivi epicurei e dottrine religiose lo porta a proporre una
morale in cui trovano contemporaneamente posto sia l¢esaltazione dei piacere, inteso
come atarassia, come equilibrio delle passioni, sia la difesa della vita morale come
preparazione ad una felicità ultraterrena. Nella polemica contro Cartesio, Gassendi, in
nome del Suo empirismo, contestava al filosofo il diritto di operare una distinzione tra
qualità primarie e qualità secondarie delle cose, in quanto, avendo dubitato di possedere
un corpo dotato di organi sensibili, Cartesio non poteva poi parlare di quelle qualità degli
oggetti che possono essere colte solo dagli organi di senso.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
La separazione tra privato e pubblico: i libertini
Il razionalismo cartesiano alimentava anche una forma di cultura che, attraverso la critica
intellettuale caustica e spregiudicata, attaccava e corrodeva le conclusioni metafisiche cui
era giunto lo stesso Cartesio e preparava gli strumenti polemici di cui si servirà
l'illuminismo nel suo attacco alla tradzone religiosa e politica: il libertinismo. Il trionfo
dell'assolutismo in Francia, che con Richelieu, Mazzarino e Luigi XIV aveva completamente
neutralizzato la nobiltà nella gestione del potere politico, aveva favorito l'ascesa dei nuovi
ceti produttivi. All'interno di questi nuovi ceti, ad'opera di un folto gruppo di letterati,
magistrati, di politici,di filosofi e di moralisti, maturò un movimento culturale interessante
e vivace.I libertini- così vennero chiamati i rappresentanti di questo movimento- furono,
secondo il significato del termine, dei "liberi pensatori" che sottoposero ad una critica
serrata soprattutto i principi basilari della religione. Proprio dalla loro irreligiosità gli
avversari, abituati a considerare religiosità e moralità come un binomio indissolubile,
ricavarono l'accezione negativa del termine che venne, perciò inteso come sinonimo di
"immorale" o di "dissoluto". Il libertinismo, più che un indirizzo filosofico omogeneo e
coerente, si presenta come un movimento culturale eclettico che utilizza strumenti ricavati
da dottrine diverse.
Essi riprendono l'antica dottrina, risalente ad Averroè, della doppia verità: una verità
teorica, intellettuale, attingibile soltanto dal dotto, ed una verità pratica, utile per tenere il
popolo sottomesso politicamente e frenato moralmente. Nella loro opera il divario tra
idealità e prassi quotidiana è giustificato come conseguenza della consapevolezza
dell'impossibilità di modificare la realtà. La cultura libertina infatti non mette capo ad alcun
progetto "sintetico", ad alcun tentativo di realizzare l'ideale, ma procede soltanto ad
un'analisi critica di ogni pregiudizio. Alla spregiudicatezza nelle analisi intellettuali
corrisponde così un conservatorismo sul piano pratico. Per i libertini non esistono certezze
assolute, verità sulle quali costruire una stabile visione del mondo; è possibile solo
teorizzare una prassi politica basandosi sull'"eterno ritorno" delle vicende umane. Le
stesse analisi sull'origine politica della religione non conducono questi pensatori ad una
critica radicale della società; essi, anzi, condividono l'assolutismo politico, e per esso
approntano le tecniche di potere più raffinate.
Alla cerchia dei libertini appartenne lo stesso Gassendi. Ma i più famosi rappresentanti del
movimento furono: FRANCOIS DE LA MOTHE LE VAYER (1588-1672), GABRIEL NAUDE'
(1600-1653), CYRANO DE BERGERAC (1619-1655).Ma la sintesi più ampia delle posizioni
libertine è affidata ad un'opera anonima, il Teophrastus redivivus, composta
probabilmente nel 1659.
Il più popolare dei libertini fu forse Cyrano de Bergerac, il quale in due romanzi filosofici
(Gli stati e gli imperi della luna e Gli stati e gli imperi del sole ) connette insieme il
materialismo epicureo e il pampsichismo campanelliano. Gli atomi sono animati e,
organizzati, danno vita all'universo che è un grande animale vivente. Ma l'epicureismo di
Bergerac non è condizionato da alìcun interesse religioso e si mantiene, pertanto, sul
piano del più rigido materialismo.
Figura molto rappresentativa per il movimento libertino fu Gabriel Naudè che, come tutti i
libertini, fu attento e acuto indagatore dei fenomeni politici. Con tono fatalistico e
scetcheggiante Naudè individua nella violenza l'origine di tutte le monarchie:
Esse hanno cominciato ad affermarsi per mezzo di qualcuno di
quegli espedienti e di quelle soperchierie, facendo marciare la religione e i
falsi miracoli alla testa di un lungo seguito di barbarie e crudeltà
(Considerazioni politiche sui colpi di stato, tr. it. A cura di Bertolucci, Torino
. 1958, p. 90 )
Ma, nonostante questo peccato di origine, le monarchie, e per esse gli stati, vanno
conservate. L'assolutismo, infatti, per Naudè offre più sicure garanzie di stabilità politica
rispetto a tutte le altre forme di governo. Al suo servizio vanno messe perciò la religione e
la retorica. L'eloquenza soprattutto è considerata uno strumento di potere estremamente
valido:
Se un principe avesse al proprio servizio una dozzina di uomini sin -
Golarmente dotati nellì'eloquenza, io lo riterrei più forte e più capace di
Mantenere l'ordine nel proprio stato che se avesse due potenti eserciti.
(ivi, p. 158)
Il Teophrastus redivivus si presenta come la somma di tutte le tematiche che i libertini
affrontavano nei loro incontri privati e a cui non davano alcuna pubblicità per il
convincimento profondo che solo in privato l'intellettuale avesse diritto ad esercitare
liberamente la sua mente in un lavoro di scavo critico alieno da ogni suggestione
metafisica e spiritualistica. La tesi più netta e decisa è che gli dei sono una creazione degli
uomini e dunque non esistono. Essi sono il frutto della paura, " la roccaforte inespugnabile
della debolezza e dell'ignoranza umana".
Il motivo centrale dell'opera consiste proprio nel tentativo di descrivere la "storia naturale"
della religione per scoprirne la genesi umana. L'"invenzione" della religione ha un signifato
meramente politico. Con essa il sovrano è capace di condizionare gli uomini anche nelle
loro azioni private e nei sentimenti piú intimi. Per il sapiente una religione vale l'altra, e se
proprio ne deve scegliere una si affiderà alla sorte nella scelta. Nessuna religione infatti è
piú vera delle altre: sono tutte degli strumenti, delle ipotesi valide per garantire un assetto
etico politico. Assetto che il libertino non vuole mettere in discussione, perché la vita
pubblica è dominata dalle passioni irrazionali ed è inutile tentare di diffondere la luce della
ragione dove dominano le tenebre. La separazione tra privato e pubblico e la preferenza
per il primo sul secondo spingono i libertini a tenere un atteggiamento pubblico di
aristocratico conservatorismo. La filosofia si riduce a discorso privato capace di garantire
una libertà intellettuale senza scontrarsi con le difficoltà di una realtà dura ed insensibile al
richiamo della ragione.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Dal razionalismo religioso alla scommessa su Dio
Anche se estraneo alla tradizione cartesiana, è utile ricordare un movimento filosofico che
contribuí alla elaborazione del concetto di "ragione" nel XVII secolo: il platonismo inglese.
L'impegno fondamentale dei pensatori di questo movimento tende a sfrondare il pensiero
religioso da tutte le incrostazioni superstiziose ed irrazionali che su di esso da secoli si
andavano depositando. Essi puntano all'elaborazione di una religione razionale i cui
capisaldi siano esclusivamente fondati sulla ragione e quindi sulla natura dell'uomo. Il
deismo, come in seguito fu chiamata questa religione, continuava il lavoro che già
l'umanesimo aveva iniziato, tanto per fare un esempio, con Erasmo. L'analisi delle
religioni, per isolarne il nucleo razionale, fu avviata in Inghilterra da HERBERT Di
CHERBURY (1583 1648) e rappresenta il motivo di fondo della speculazione di un gruppo
di filosofi appartenenti alla Scuola di Cambridge, i cui rappresentanti furono RALPH
CUDWORTH (1617 1688), HENRY MORE (1614 1687) e NATHANIEL CULVERWEL (morto
nel 1650 o 1651).
L'ansia di rinnovamento religioso, prodotta dal Concilio di Trento, riesplose con vigore in
una serie di sette non conformiste diffuse un po' in tutta l'Europa: i Puritani, Quaccheri, i
Battisti. Questi movimenti sollecitano un ritorno della Chiesa alla purezza evangelica, al
pauperismo, all'egualitarismo e soprattutto auspicano l'instaurazione di una società
pacifica e tollerante.
Il piú importante tra di essi è il movimento giansenista fondato dal vescovo di Ipres,
COMELio GIANSENIO (l585 l638). Nell'opera Augustinus, Giansenio ripropone una visione
pessimistica della natura umana molto simile a quella di Lutero. L'uomo con il peccato
originale ha voltato definitivamente le spalle a Dio e al bene, ed ogni sua opera non fa che
sprofondarlo sempre piú nel male. L'unica possibilità di salvezza viene da Dio attraverso la
Grazia. Giansenio, però, a differenza dei protestanti, non mette in discussione la validità
della liturgia e della prassi sacramentale, né si scaglia contro la gerarchia. Contro il
lassismo religioso e l'esteriorítà ostentata dell'osservanza liturgica, il giansenismo suona
come un invito ad una religiosità piú sincera e piú intima; contro la scolastica e le sue
sottigliezze intellettualistiche fa appello all'amore come unico merito che rende degni di
Dio.
In Francia i seguaci di Giansenio danno vita ad un circolo di spiriti eletti che si raccolsero
nell'abbazia di Port Royal in una solitudine quasi monastica. Il movimento però fu
perseguitato e condannato (1653) ed il convento di Port Royal distrutto (1710).
Frutto della collaborazione dei due piú illustri rappresentanti del gruppo, ANTOINE
ARNAULD (1612 1694) e PIERRE NICOLE (1625 1695), fu la pubblicazione della Logica o
l'arte del pensare, detta in seguito "logica di Port Royal".
Ma la posizione filosofica piú interessante e significativa prodotta dall'ambiente di Port
Royal è quella di Blaise Pascal (1623-1662). Di intelligenza vivacissima e precoce, molto
versato nelle matematiche (a sedici anni pubblicò il Trattato sulla pesantezza della massa
d'aria), Pascal occupa una posizione originale e solitaria nella cultura del '600. Infiammato
da una crisi di misticismo religioso, pur senza prendere gli ordini ecclesiastici, Pascal vive
tra i monaci di Port Royal una intensa vita religiosa, condividendo con essi il rigorismo
intellettuale e pratico. Si inserisce nella polemica sul giansenismo con una serie di Lettere
provinciali in cui con profondità di dottrina e con tono umoristico prende le difesa della
dottrina di Giansenio. Raccoglie appunti e pensieri vari da utilizzare per una Apologia del
Cristianesimo, che però non condurrà a termine. La pubblicazione postuma di quei
Pensieri, rivelano un'anima ardentemente religiosa e rappresentano, con la loro
immediatezza, l'ardore lirico di uno spinto inquieto insoddisfatto dalla scienza e proteso
alla ricerca di Dio.
Lo spirito scientifico e meccanicistico che anima la cultura filosofica dell'Europa non
soddisfa la sua ansia di una comprensione
profonda del significato e del destino dell'uomo. La scienza mostra solo l'involucro delle
cose, l'esteriorità del reale, ma non ce ne fa penetrare la natura intima. Come scienziato
Pascal è seguace del cartesianesimo. Nel saggio Intorno allo spirito geometrico abbozza un
metodo di indagine che nelle linee generali ricalca quello cartesiano del Discorso sul
metodo, anche se, per lo spazio concesso all'esperimento particolare, sembra avvicinarsi a
Galilei. Nel Frammento di un trattato sul vuoto si dichiara contrario all'uso dell'autorità
nelle scienze e proclama le esperienze "gli unici principi della fisica". Ma la natura religiosa
di Pascal eccedeva, e di molto, quella dello scienziato puro. Egli sente il puro
intellettualismo come troppo arido, insufficiente anche sul piano piú strettamente
scientifico. 1 principi primi del sapere, da Cartesio ritenuti innati nella mente dell'uomo e
percepibili in un atto di immediata intuizione intellettuale, sono da Pascal ritenuti
indimostrabili: sono indeducibili e inattingibili per mezzo della ragione. Lo spazio, il tempo,
il movimento sono principi che ricevono, infatti, la loro certezza dal "cuore" e dall'"istinto":
Noi conosciamo la verità non soltanto con la ragione, ma altresí con
il cuore; ed è in questa seconda maniera che conosciamo i principi primi,
ed invano il ragionamento, che non vi ha affatto parte, si ingegna di com
batterli. (Pensieri, 282)
Nei ragionamenti umani non si attua quell'ordine razionale che gli scienziati pretendono di
realizzare:
nessuna scienza umana può mantenere un ordine rigoroso... Lo man-
tiene la matematica, ma essa è inutile con tutta la sua profondità.
(Pensieri, 61)
Di fronte all'impossibilità per la scienza di attuare una conoscenza puramente intellettuale
della natura, all'uomo non rimane che ripiegare, agostinianamente, in se stesso in un
colloquio intimo, in un approfondimento della comprensione della propria natura e del
proprio destino. Il primo compito dell'uomo è quello indicato dal motto delfico " conosci te
stesso ". Ma se da sola la ragione è risultata insufficiente sul piano della scienza, con
maggior evidenza si rivela debole, incerta ed inidonea anche a questo compito. La via
attraverso cui l'uomo "conosce se stesso" è quella del "cuore":
il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce affatto: lo si sa
per mille prove
(Pensieri, 277)
tutto il nostro ragionamento si riduce a cedere al sentimento.
(Pensieri, 274)
Tra ragione e cuore si stabilisce, cosí, un conflitto. Alla pnma appartiene il rigore logico
procedente attraverso una catena di ragionamenti, lo spirito di geometria (esprit de
géométrie), al secondo la capacità di intuire con un solo atto, lo spirito di finezza (esprit
de finesse). Se sul piano della conoscenza del mondo esterno lo spirito geometnco può
raggiungere un qualche risultato, sul piano della comprensione della morale e della
psicologia umana è inadeguato e sterile. La filosofia razionalistica è, pertanto, insufficiente
a dar ragione del mondo spirituale dell'uomo. La vera filosofia è quella che si appella
all'intuito e al sentimento:
Prendersi gioco della filosofia, questo è filosofare veramente.
(Pensieri, 4)
Attraverso questa via bisogna procedere alla comprensione della situazione dell'uomo nel
mondo. Ma che cos'è l'uomo?
E' qualcosa, e non già tutto; è incapace di sapere in modo certo e
d'ignorare in modo assoluto.
(Pensieri, 72)
Limitato, finito, debole, l'uomo è sempre in una situazione di incertezza e di ambiguità: è
spirito e materia; è libertà ed automatismo meccanico;
non è né angelo né bestia; (Pensieri, 358)
possiede grandezze e miserie talmente manifeste che soltanto
la vera religione deve renderci ragione di tali stupefacenti contrasti.
(Pensieri, 430)
Ma la vera grandezza dell'uomo è costituita pur sempre dal pensiero:
L'uomo non è che un giunco, il piú debole della natura; ma è un
giunco pensante. Non occorre che l'universo intero si armi per schiacciarlo;
un vapore, una goccia d'acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand'anche
l'universo intero lo schiacciasse, l'uomo sarebbe pur sempre piú nobile di
ciò che l'uccide, perché egli sa di morire e conosce la superiorità che l'uni
verso ha su di lui; l'universo invece non ne sa nulla. Tutta la nostra dignità
consiste dunque nel pensiero. (Pensieri, 347)
Ma il pensiero fa grande l'uomo soltanto quando lo mette in grado di riconoscere la sua
debolezza:
La grandezza dell'uomo è grande in questo, che egli si riconosce
miserabile. Un albero non si riconosce miserabile.
(Pensien, 397)
Ma non facilmente l'uomo accetta la sua condizione, anzi si dimena e recalcitra, fa di tutto
per non pensarci. Crede di sottrarsi alla debolezza, alla morte, alla malattia, all'ignoranza
evitando di pensarci. Tutto l'attivismo dell'uomo, il suo impegno mondano e politico
contribuiscono a distrarlo, ad allontanarlo dalla considerazione della sua debolezza, lo
distolgono dai cupi pensieri che lo afferrano non appena si ferma a riflettere sulla sua
condizione. L'uomo cerca le cariche pubbliche, il potere, il danaro, i pericoli della guerra, le
fatiche della caccia, non perché vuole godere poi del piacere e dell'ozio che deriverebbero
da questi suoi impegni, ma soltanto perché in tal modo si sente occupato e distratto. E
questo atteggiamento che Pascal chiama il divertimento (divertissement). Gli uomini
hanno un segreto istinto, che li porta a cercare il divertimento e l'oc-
cupazione al di fuori " dell'anima ", istinto che deriva dal nisentimento per
le loro continue miserie. (Pensieri, 139)
Ma la distrazione ed il divertimento non risolvono il problema dell'uomo, non eliminano la
sua debolezza e la sua miseria. Anzi al contrario l'aggravano e l'acuiscono. Solo dalla
presa di coscienza della sua miseria rispetto alla grandezza di Dio, all'uomo può venire un
qualche beneficio. Solo la grazia, infatti, lo può salvare:
dalla grazia l'uomo è reso simile a Dio e partecipa della sua dignità,
senza grazia è simile alle bestie brute. (Pensieri, 434)
Senza Dio l'uomo versa in una inevitabile infelicità. Ma la ricerca di Dio non è impresa
facile, né lieve, né può essere condotta con la ragione. Cartesio con le sue dimostrazioni
algebricamente articolate non ha raggiunto il vero Dio, perché
il Dio dei cristiani non è un Dio autore semplicemente delle verità
geometriche e dell'ordine degli elementi, ma il Dio di Abramo, il Dio di
Isacco, il Dio di Giacobbe; il Dio dei cristiani è un Dio d'amore e di con-
solazione, un Dio che riempie l'anima e il cuore di quelli che possiede, un
Dio che fa loro sentire interiormente la loro miseria e la sua infinita miseri-
cordia, che si unisce al fondo della loro anima, che la riempie di umiltà, di
gioia, di fiducia, d'amore, che li rende incapaci d'aver altro fine che lui
stesso. (Pensieri, 556)
Ma come si raggiunge Dio se la natura umana è debole, incerta, misera ed incapace?
Attraverso quali strumenti investigativi possiamo dimostrare la sua esistenza? Dio non si
dimostra, riponde Pascal, si sente:
E' il cuore che sente Dio e non la ragione. Ed ecco che cos'è la fede:
Dio sensibile al cuore, non alla ragione. (Pensieri, 228).
L'uomo allora non può fingere di distrarsi, non può rinviare il problema, deve decidere. E
la sua decisione è sentimentale ed emotiva; deve scegliere di vivere come se Dio esistesse
o, al contrario, come se Dio non esistesse. Non c'è altra via che scommettere. Non
potendo la ragione affermare o negare l'esistenza di Dio, aIl'uomo non rimane che la
scommessa. E la posta in gioco è tutta a vantaggio degli uomini:
Se guadagnate, guadagnerete tutto, se perderete, non perderete niente.
Scommettete dunque che egli esiste, senza esitare. (Pmsieri, 233)
Solo come in un gioco d'azzardo l'uomo può avviarsi a Dio. Cosí prima di credere bisogna
comportarsi come se si credesse, tenere l'atteggiamento esteriore del credente,
frequentare i sacramenti, pregare, far dir messe:
Nello stesso modo naturale ciò vi farà credere e vi meccanizzerà (ça
vous abêtira). (Pensieri, 233)
Eliminata la ragione come forza conoscitiva, Puomo non possiede come mezzo di salvezza
e, quindi, di realizzazione delle proprie finalità, che la scommessa, e, per giunta, deve
passare attraverso atteggiamenti esteriori non corrispondenti ad intimi convincimenti,
deve affidarsi alla tradizione, aIrabitudine e alla "meccanizzazione" del proprio
comportamento.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Le "occasioni" di Dio
Un'utìIizzazione del cartesianesimo a fini teologici fu tentata da un gruppo di pensatori i
quali, partendo dalla distinzione operata da Cartesio tra res cogitans e res extensa,
negarono ogni possibile rapporto diretto tra le due sostanze e sostennero che ogni azione
di una delle due si rivela come un'occasione perché Dio
possa far corrispondere nell'altra una passione. In tal modo anche la debole mediazione
tra le due sostanze affidata da Cartesio alla ghiandola pineale viene negata. Le due
sostanze sono rigorosamente separate ed assolutamente incomunicabili. I rappresentanti
piú in vista di questo movimento furono Arnold Geulinx e Nicola Malebranche.
Amold Geulinx, (1624 1669) partendo dalla considerazione che l'uomo non conosce in che
modo il suo corpo produce il movimento negli altri corpi o lo subisce da parte della
volontà, conclude che l'uomo non è egli stesso l'autore di quei movimenti, ma ne è
soltanto lo spettatore. Quei movimenti, infatti, sono prodotti da Dio. In occasione del
movimento di un corpo, Dio provvede a produrre movimento in un altro corpo o una
sensazione in uno spirito. La vera causa dei movimenti e delle sensazioni è Dio, le altre
non sono altro che cause occasionali. Geulinx, esasperando la dottrina della distinzione
delle qualità primarie dalle qualità secondarie, ritiene che le primarie (estensione,
grandezza ecc.) possono essere considerate al pari delle secondarie (sapore, odore ecc.)
come frutto deIl'attività pensante del soggetto. La realtà in tal modo non sarebbe altro che
una fitta rete relazionale tra concetti, e la cosiddetta "realtà esterna" sarebbe il frutto della
credenza che al di fuori del soggetto esiste una realtà corrispondente ai suoi concetti.
Molto vicina a questa dottrina è la speculazione filosofica di Nicola Malebranche, (1638-
1715), autore di una Ricerca della verità. L'assoluta eterogeneità tra le due sostanze posta
da Cartesio spinge Malebranche ad affermare, sulla scia di Geulinx, l'impossibilità del
rapporto causale tra di esse e a sostenere che la conoscenza non è apprensione di oggetti
realmente esistenti fuori di noi, ma soltanto percezione di rapporti tra fenomeni, cioè tra
mere apparenze prive di qualsiasi realtà ontologica. La stessa estensione, che Cartesio
faceva coincidere con la sostanza estesa e quindi con la materia, per Malebranche non è
altro che una idea cui non corrisponde nessuna realtà fuori di noi. Questa idea, inoltre, noi
la cogliamo in Dio, che possiede tutte le idee. Se proprio vogliamo credere nell'esistenza
della realtà materiale fuori di noi, possiamo farlo solo prestando fede al dogma della
creazione divina: noi sappiamo che esiste una realtà fisica perché la Scrittura tramanda la
notizia della sua creazione da parte di Dio. Lo stesso vale per ridea di causalità. Nei corpi
non c'è alcuna causalità fisica operante in modo reale, la causalità come principio
producente un determinato effetto è nient'altro che una manifestazione della potenza
divina. Due oggetti che incontrandosi sembrano scambiarsi il movimento, in effetti non
posseggono alcunché che possono scambiarsi. Il loro incontro è l'occasione che permette a
Dio di agire in un certo modo e in una determinata situazione.
Con l'occasionalismo si mette in discussione la concezione rneccanicistica della natura che
si era affermata lungo tutto il XVII secolo, ma nonostante l'accentuazione di motivi
religiosi a tinte fin troppo misticheggianti, si affinano anche certi strumenti polemici che
saranno utilizzati dai filosofi successivi per esercitare una critica serrata ad ogni facile
dommatismo e ad ogni realisino ingenuo.
FISICA, METAFISICA E FILOSOFIA NEL SECOLO XVII
Gli scienziati dell'età cartesiana
Il periodo storico che andiamo considerando fu ricco, oltre che di filosofi scienziati della statura di Galilei e di Cartesio, anche di una serie di scienziati
che, utilizzando le metodologie dei grandi, segnarono notevoli progressi in campi significativi, anche se specifici, del sapere umano. Uno dei piú grandi matematici del tempo, sicuramente l'unico in grado di rivaleggiare con Cartesio, fu PIETR FERMAT (1601-1655). Tentò la "ricostruzìone" di famose opere matematiche dell'antichità sulla scorta delle testimonìanze tramandateci da opere a noi pervenute. Ricostruí in tal modo I luoghi piani di Apollonio. Nel 1636 scoprí il principio fondamentale della geometna analitica e in una breve opera, Introduzione ai luoghi piani e solidi, espose tutti i luoghi semplici della geometna analitica. Fissò inoltre i principi fondamentali del calcolo infinitesimale, utilizzati poi da Newton e da Leibniz; nella scoperta delle regole per l'esecuzione e la semplificazione. Se Fermat fu nel campo della matematica "il principe dei dilettanti", l'unico vero matematico di professione fu GILLES PERSONE DE ROBERVAL (1602-1675), professore al College Royal. Poiché la cattedra che egli occupava veniva conferita ogni tre anni a chi avesse saputo risolvere le questioni poste dal titolare, Roberval decise di non pubblicare le sue scoperte matematiche per sottoporle sotto forma di problemi agli aspiranti alla sua cattedra. Questa situazione lo mise ìn condizione di non poter far valere i suoi meriti scientifici e lo costrinse ad ingaggiare una serie di polemiche con altri scienziati per rivendicare a sé la priorità di certe scoperte. La piú aspra di queste polemiche a proposito della cicloide della curva gli attirò l'appellativo di "Elena dei matematici". Roberval forní molti contributi brillanti alla soluzione di problemi matema tici, il piú significativo dei quali è il tentativo, operato nel 1635, di tracciare un semiarco di una sinusoide. Questo tentativo indicava che la trigonometria si andava staccando dalla classica impostazione calcolistica per avvicinarsi al metodo funzionale. Ma lo scienziato che meglio sembra rappresentare lo spirito scientifico del tempo e che piú degli altri forní contributi significativi ed importanti in due campi fondamentali della scienza fu l'olandese CRISTIANO HUYGENS (1629- 1695). Ammiratore di Cartesio e della sua metodologia razionalistica, pensò, tuttavia, di integrare quest'ultima con l'esigenza sperimentalistica galileiana. Libero da ogni preoccupazione di natura religiosa, Huygens operò, con questo metodo integrato, nei campi della fisica, della geometria e della astronomia. Scrisse trattati sulla diottrica, sulle tangenti, sul movimento provocato dalla percussione e sull'applicazione dei movimenti pendolari all'orologio (aveva infatti applicato all'orologio una molla a spirale che regolasse l'oscillazione del bilanciere). Ma la sua fama fu assicurata dalla celebre teoria ondulatoria della luce. Contro Cartesio che aveva sostenuto la propagazione immediata della luce, Huygens sostiene che la luce impiega del tempo per propagarsi e che ciò comporta che il movimento impresso alla materia interposta negli spazi attraversati dalla luce sia progressivo e si propaghi, perciò, come quello del suono per onde. La luce, dunque, è un'onda, un trasferimento di energia e non
di sostanza, come sostiene, invece, la teoria corpuscolare. Dalla osservazione fatta da Richter sull'accorciamento del pendolo all'equatore, Huygens dedusse che la terra è schiacciata ai poli. Come astronomo scoprí un satellite di Saturno e osservò l'anello luminoso di questo pianeta.
SPINOZA E LEIBNIZ
Una vita dedita alla ricerca
La filosofia spinoziana si afferma in una parte dell'Europa, l'Olanda, che, pur, essendosi da
poco affrancata dal predominio economico e religioso della Spagna cattolica, aveva saputo
creare un clima di tolleranza civile e religiosa favorevole ad una speculazione filosofica
incentrata sulla comprensione razionale della realtà. La borghesia mercantile olandese,
con la sua intraprendenza commerciale, aveva prodotto un diffuso benessere economico
ed aveva favorito l'affermarsi di una cultura laica fondata sull'ideale cartesiano della
chiarezza intellettuale. Ed è proprio questa norma della chiarezza intellettuale
rigorosamente applicata in ogni momento della speculazione filosofica che rappresenta lo
spirito piú autentico dello spinozismo. E' grazie ad essa che Spinoza può superare i
pregiudizi religiosi e può conquistare la visione unitaria di una realtà articolata in una
concatenazione causale capace di dar conto di ogni fenomeno particolare. L'arditezza
speculativa del pensiero di Spinoza, paragonabile probabilmente soltanto a quella di
Bruno, consente alla filosofia occidentale di rivendicare la piú ampia autonomia razionale
in ogni campo della sua attività, dalla metafisica all'etica, alla politica. Lo stesso metodo
geometrico utilizzato da Spinoza nell'esposizione della sua filosofia, piú che una
concessione alla moda matematizzante dell'epoca, risponde ad una profonda esigenza non
soltanto formale espositiva, ma sostanziale. La comprensione di una realtà considerata
articolata secondo nessi rigorosi ed immutabili non poteva realizzarsi se non seguendo la
struttura stessa di questa realtà. Soltanto un procedimento rigorosamente deduttivo
poteva consentire, partendo dal tutto, una intelligenza completa e precisa di tutte le
articolazioni interne a questo tutto.
Benedetto Spinoza nacque ad Amsterdam il 24 novembre del 1632 da una famiglia di
ebrei portoghesi trasferitasi in Olanda per sfuggire alle persecuzioni religiose. La sua prima
educazione, secondo il costume tradizionale, fu basata sulla cultura ebraica: il Vecchio
Testamento, il Talmud, la Cabala. Ma alla scuola di un dotto umanista, Francesco Van den
Enden, imparò il latino ed ebbe i primi contatti con il cartesianesimo. Ben presto allargò i
suoi interessi alla lettura dei classici latini e greci, dei classici dell'ebraismo e degli autori
moderni, tra cui Cartesio, Bacone e Hobbes. Studiò, inoltre, le opere dei rinascimentali e,
forse, le opere di Giordano Bruno in traduzione inglese. Ben presto maturano la sua
insoddisfazione per la cultura ebraica e le idee del suo nuovo, originale sistema. Il distacco
culturale dai dottori della sinagoga è ormai consumato. Prima di arrivare alla
ufficializzazione di questo distacco i rabbini tentano un compromesso che Spinoza rifiuta
pur prevedendone le conseguenze. Nel luglio del 1656 viene espulso dalla comunità
ebraica e contro di lui viene pronunciata la formula dell'anatema con la quale Spinoza
veniva "espulso", "maledetto" "esecrato" ed "anatemizzato" e si faceva divieto ai credenti
ebraici di rivolgergli la parola a voce o per iscritto, di manifestargli favore, di dimorare con
lui sotto lo stesso tetto, di avvicinarsi a piú di quattro braccia da lui, di leggere anche una
pagina scritta da lui. Costretto per prudenza a lasciare Amsterdam, Spinoza si trasferisce
a Riynsburg, un villaggio nei pressi di Leida. Per sopperire ai suoi pochi bisogni esercita il
mestiere di tagliatore e pulitore di lenti per strumenti ottici. Vive una vita modesta e
sobria, ma piena di dignità e dedita alla ricerca filosofica.
Nel 1661 compone il Trattato intorno a Dio, all'uomo, alla sua felicità, (comunemente noto
con il titolo Breve trattato) e, dal 1661, il Trattato sull'emendazione dell'intelletto,
entrambi pubblicati postumi. Al 1663 risale anche la composizione di un'opera in cui
Spinoza espone, criticandola, la filosofia cartesiana.
Nel 1663 si trasferisce a Voosburg, nei pressi dell'Aia e vi rimane fino al 1669. Qui conosce
il fisico Huygens e Giovanni de Witt, capo del partito repubblicano a programma liberale e
democratico. L'amicizia con de Witt durò fino al 1672, quando, accusato di tradimento dal
partito avversario, de Witt fu arrestato e poi ferocemente assassinato insieme al fratello
Comelio. Spinoza, venuto a conoscenza del delitto, pur sapendo di andare incontro a
morte sicura, vuole recarsi sul luogo dell'eccidio per depositarvi un cartello con la scritta
"Ultimi barbarorum". E' trattenuto a forza dai suoi padroni di casa, il pittore Van der Spyck
e sua moglie. Dal 1661 al 1665 Spinoza attende alla stesura della sua opera piú
importante, l'Ethica ordine geometrico demonstrata. Nel 1670 pubbica, anonimo, il
Trattato teologico politico, in cui erano sostenuti i principi della
libertà di pensiero e di tolleranza religiosa che contrassegnavano i programmi politici dei
de Witt. L'opera suscitò molte critiche contro il suo autore, accusato di ateismo e di
immoralità. Quando il 16 febbraio 1673 Ludovico Fabritius, professore all'Università di
Heidelberg e consigliere dell'Elettore del Palatino gli offrí la nomina a professore ordinario
di Filosofia, promettendogli la piú ampia libertà di filosofare, con l'unica clausola di non
perturbare "la religione pubblicamente professata", Spinoza declina l'invito precisando:
io non so entro quali limiti debba intendersi compresa quella libertà
di filosofare, perché io non sembri voler perturbare la religione pubblica-
mente costituita. (Epistolario, a cura di A. Droetto, Torino 1974, p. 223)
L'amore per una vita tranquilla, al riparo dalle polemiche e dai linciaggi morali, spingeva
Spinoza a rinunciare ad una carriera che oltre all'agiatezza economica gli avrebbe dato
anche prestigio e notorietà. Nel 1676 compone il Trattato politico. In questo stesso anno
riceve la visita di un altro filosofo, Leibniz. Ma ormai le sue condizioni di salute, già
precarie da tempo per una seria malattia polmonare, si aggravano. A soli 45 anni si
spegneva il 21 febbraio del 1677. Nel novembre dello stesso anno gli amici pubblicano
tutte le opere rimaste inedite, eccettuato il Breve trattato che viene stampato soltanto nel
1862.
SPINOZA E LEIBNIZ
L'«emendazione» dell'intelletto
Nella sua prima opera, il Breve Trattato, Spinoza aveva impostato i principali problemi
della sua filosofia ed aveva abbozzato le soluzioni che, sviluppate, saranno riproposte
nell'Etica. L'unica differenza degna di nota tra le due opere non riguarda la sostanza del
pensiero, ma il linguaggio e la forma espositiva. In entrambi i casi, infatti, Spinoza parte
dalla definizione di Dio per poi dedurre, secondo un ordine necessario, rigoroso tutto ciò
che implicitamente in quella definizione è contenuto. Già Leibniz aveva notato che la prima
differenza tra la filosofia cartesiana e quella spinoziana consisteva nel punto di partenza:
mentre quella faceva della mente il punto di partenza del filosofare, questa, invece,
partiva da Dio inteso come unica sostanza infinita.
Il processo attraverso cui l'uomo passa dalla considerazione dei beni finiti al bene infinito è
descritto da Spinoza nel Trattato
sull'emendazione dell'intelletto (De intellectus emendatione). Il principale obiettivo che il
saggio deve porsi è, infatti, la comprensione della natura infinita, l'amore per ciò che è
eterno. Ma la conoscenza dell'infinito non è fine a se stessa, essa comporta
immediatamente una finalità etica e sociale insieme. Questa comprensione dell'infinito è
raggiungibile attraverso un graduale processo di elevazione dalle forme conoscitive piú
basse ed incerte alla forma piú alta, al sapere intuitivo che coglie con un solo atto della
mente la struttura completa della realtà. In questa graduale ascesa intellettuale consiste
l'"emendazione dell'intelletto", la sua purificazione.
Ma a cosa tende questa graduale "emendazione" dell'intelletto? A quale fine punta la
filosofia? Il fine, afferma Spinoza,
è la conoscenza dell'unione che la mente ha con tutta la natura,
(Emend. intel, 11, 9)
la comprensione, cioè, dell'unitaria struttura che necessariamente unisce la mente alla
realtà. Alla finalità meramente intellettuale si affianca una finalità pratica che vede il
filosofo attivo nel tracciare le linee di un suo impegno etico e sociale nella formazione di
una società di uomini liberi e consapevoli:
Questo è il fine a cui tendo: acquistare cioè una tal natura [di uomo
libero e consapevole] e sforzarmi di farla acquistare ad altri insieme a me;
ossia fa parte della mia felicità adoperarmi perché anche molti altri pensino
come me e la loro intelligenza e i loro desideri convengano con la mia
intelligenza e i miei desideri. E perché ciò avvenga è necessario compren-
dere tanto della natura quanto basta ad acquistare una tale natura; poi for-
mare una società tale quale è da desiderare perché quanti piú uomini è
possibile vi pervengano con la massima facilità e con sicurezza.
(ivi)
Il metodo per conseguire la comprensione del rapporto che lega la mente umana al tutto,
non consiste cartesianamente in
alcune regole capaci di farci comprendere con chiarezza ogni idea che entra a far parte del
nostro sapere. Il metodo per Spinoza è coscienza che accompagna il nostro processo
intellettivo, la nostra graduale conquista della verità:
Il metodo è il comprendere cosa sia un'idea vera, distinguendola da
tutte le altre percezioni e indagando la sua natura per comprendere da essa
la nostra potenza intellettiva e costringere la mente ad intendere secondo
quella norma tutto ciò che si deve intendere ... Da qui si ricava che il
metodo non è nient'altro che la riflessione sulla conoscenza o idea
dell'idea; ... inoltre la riflessione sulla conoscenza dell'dea dell'Ente perfet
tissimo sarà superiore a quella di tutte le altre idee; cioè sarà perfettissimo
quel metodo che mostri in che modo deve essere diretta la mente secondo
la norma dell'idea data dell'Ente perfettissimo.
(Emend. intel, II 15 16)
Il punto di partenza per la comprensione della verità non può essere, allora, l'esperienza
particolare, le molteplici ed irrelate sensazioni, ma deve essere l'intuizione del Dio Natura.
Da questa intuizione deduciamo, con ordine geometrico, tutta la fitta rete dei concetti che
rappresentano la trama che connette in una unitaria articolazione tutta la nostra
conoscenza della realtà. Il De intellectus emendatione presuppone l'Etica e ad essa rinvia.
SPINOZA E LEIBNIZ
Deus sive Natura
Il processo conoscitivo del reale deve partire, allora, "dall'idea data dell'Ente
perfettissimo". Ma che cos'è quest'Ente perfettissimo, questo Dio Natura? Spinoza,
partendo dalla definizione cartesiana di sostanza:
Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, vale a dire
ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa da cui debba essere
formato,
(Etica, I. def .3)
conclude, contro Cartesio, che soltanto Dio, e non anche il pensiero e l'estensione, può
essere definito come sostanza. Solo Dio, infatti è causa sui, solo Dio è "ciò la cui essenza
implica l'esistenza " (Etica, I, def 1).
La res extensa e la res cogitans cartesiane esigevano entrambe, per esistere, Dio da cui
erano create. Per Spinoza intuitivamente, cioè con un atto di immediata apprensione
intellettuale, possediamo, allora, la certezza dell'esistenza di Dio. Il problema, dunque,
non è piú l'esistenza, ma il corretto intendimento dell'idea di Dio e l'adeguata deduzione
da essa di tutte le dovute conseguenze. Il Dio-sostanza è, per Spinoza, infinito,
indivisibile, unico:
La sostanza assolutamente infinita è indivisibile.
Oltre Dio non si può dare né concepire alcuna sostanza.
Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio.
(Etica, I, prop. 13,14,15)
Spinoza rivendica in tal modo un assoluto monismo. All'interno della sostanza non si
possono operare divisioni di alcun genere e al di fuori di essa non può esistere alcunché
che la possa limitare e condizionare. Dio, allora, come unica sostanza coincide con il tutto
e comprende tutte le cose. All'interno di questa unica, infinita, indivisibile realtà non c'è
alcuna possibilità di separazione, non si insinua alcun dualismo né di tipo religioso (il Dio
separato dal mondo) né di tipo cartesiano (la materia estesa separata dal pensiero). In
che modo allora questo Dio sostanza si rapporta al mondo, alla natura? La risposta
spinoziana a questo interrogativo, abbiamo visto, è in apparenza semplice, ma originale, e
rivoluzionaria: Dio coincide con la Natura. Tra Natura e Dio non c'è alcuna differenza, non
c'è alcuna distanza, anzi indifferentemente possiamo chiamare la sostanza Dio oppure
Natura (Deus sive Natura). La coincidenza di Dio con la Natura ci fa escludere che Dio
possa essere la causa esterna della realtà naturale. Rispetto alla Natura, Dio non è, infatti,
causa transitiva, una causa cioè che rimane esterna e separata daIl'effetto, ma è causa
immanente, è una causa che coincide con l'effetto:
Dio è causa immanente e non transitiva di tutte le cose.
(Etica, I, prop. 18)
Possiamo, per chiarire meglio questa assoluta coincidenza di Dio con la Natura, usare
anche i termini della cultura scolastica ed indicare Dio come Natura naturante e come
Natura naturata, intendendo, però, con la prima, "Dio in quanto considerato causa libera"
e con la seconda "tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio" e che non può
esistere né essere concepito senza Dio.
Dio allora è la causa immanente e libera di ogni realtà esistente. Ma che cosa si deve
intendere per causa libera? Spinoza esclude che la libertà di Dio possa essere il libero
arbitrio d'indifferenza:
La vera libertà consiste unicamente nel fatto che la causa prima, senza
essere costretta né necessitata da alcuna altra cosa, per la sua sola perfe-
zione, produce tutte le perfezioni. (Breve trattato, 1, 4).
Ed ancora:
Dio agisce per le sole leggi della sua natura e non costretto da nes-
suno. Ne segue: 1) che non si dà nessuna causa che estrinsecamente od
intrinsecamente, oltre alla perfezione della sua natura, spinge Dio ad agire.
Segue: 2) che solo Dio è causa libera, perche solo Dio esiste per la sola
necessità della sua natura.
(Etica, 1, prop.17)
Dio, allora, è libero perché agisce senza alcun condizionamento esterno, ma è necessitato
perché agisce necessariamente in virtú della sua perfezione, anzi:
se non fosse la sua perfezione a farlo agire, le cose non esisterebbero
proprio. (Breve trattato, 1,1V)
In Dio, ma possiamo anche dire nella Natura, libertà e necessità coincidono. Nel Dio
Natura, nel tutto, ogni cosa, infatti, si inquadra in un ordine preciso, ogni cosa occupa un
posto determinato ed è in un rapporto necessario con il tutto. La realtà, il DioNatura, si
presenta, in tal modo, come una serie di cause rigidamente concatenate capaci di
costituire un ordine rigorosamente articolato, da cui è esclusa ogni accidentalità:
Nella natura delle cose non c'è niente di contingente, ma tutte le cose
sono determinate dalla necessità della divina natura ad esistere e ad operare
in qualche modo. (Etica, I, p p. 29)
Se ammettessimo per ipotesi che l'ordine naturale sarebbe potuto essere diverso da come
è, o potrebbe nel corso dei secoli essere mutato da Dio, saremmo costretti ad ammettere
che anche la natura del Dio sostanza potrebbe essere diversa da com'è. Ma questa
affermazione ci costringerebbe a non considerare piú Dio come unico ed immutabile:
Tutte le cose, infatti, sono necessariamente dalla data natura di Dio e
sono state dalla necessità della natura di Dio determinate ad esistere ed
operare in un certo modo. Se dunque le cose potessero essere di un'altra
natura, o essere in un altro modo determinate ad operare, cosí che l'ordine
della natura fosse diverso, allora anche la natura di Dio potrebbe essere
diversa da quella che già è; e perciò anch'essa dovrebbe esistere, e di conse-
guenza ci potrebbero essere due o piú dei, il che è assurdo.
(Etica, 1, prop. 33)
Con il concetto di Dio, Spinoza indica, come appare evidente, una realtà completamente
diversa da quella indicata con lo stesso termine da tutta la tradizione. Dio non è piú inteso
come persona, come causa libera del mondo, come altro dalla natura di cui è creatore,
come Provvidenza capace di intervenire nel mondo e di modificarne miracolosamente il
corso degli eventi, come fine ultimo a cui tendono l'uomo e la natura stessa. Il Dio
spinoziano è sostanza infinita coincidente, come abbiamo visto, con la Natura; è la
razionalità e la corporeità della natura stessa.
SPINOZA E LEIBNIZ
Gli attributi e i modi
Il Dio Natura si manifesta, in virtù della sua infinità, in una serie infinita di attributi. Ma
l'uomo, finito e limitato, percepisce soltanto due di questi attributi e precisamente quelli
cui egli stesso partecipa, il pensiero e l'estensione:
Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza in
quanto costituisce la sua essenza.
(Etica, I, def. IV)
Gli attributi, costituendo l'essenza della sostanza, non sono qualcosa d'altro da essa, ma
sono la stessa sostanza. Tra sostanza ed attributi c'è perfetta coincidenza, anzi, meglio,
perfetta identità. Gli attributi, infatti, come la Sostanza, sono causa sui:
Comincerò dunque a dire brevemente di Dio, che definisco l'Ente
che consta di infiniti attributi, dei quali ciascuno è infinito, ossia somma-
mente perfetto nel suo genere. Dove è da notare cbe concepisco per attributo
tutto ciò che si concepisce per sé ed in sé, in modo che il suo concetto non
implichi il concetto di un'altra cosa. Cosí per esempio la estensione si conce-
pisce in sé e per sé, ma non cosí il moto che, infatti, si concepisce in altro e
il suo concetto implica la estensione.
(Epistolario, cit, pp. 39 40)
Ma che significa, inoltre, che ciascun attributo è infinito, cioè sommamente perfetto nel
suo genere? Ogni attributo, rappresentando un aspetto diverso dell'infinita sostanza, non
può essere infinito in assoluto, ma soltanto nel suo genere. Pensiero ed estensione sono sì
la stessa sostanza, ma rappresentano anche i due aspetti che l'intelletto umano percepisce
della sostanza. Nel mentre la percepisce quale estensione non la percepisce quale
pensiero, pur essendo, ripetiamo, l'estensione ed il pensiero la stessa, identica sostanza.
La concatenazione delle cause nell'ambito dell'attributo pensiero o di quello
dell'estensione, allora, è infinita nel suo genere e non in assoluto. Ma, trattandosi della
stessa sostanza, ovviamente, i due ordini causali coincidono:
L'ordine e la connessione delle idee è identico all'ordine e alla connessione
delle cose... Ne segue che la potenza di pensare di Dio è uguale alla sua
potenza attuale di agire. Ciò significa che tutto ciò che segue formalmente
dall'infinita natura di Dio segue obiettvamente in Dio dall'idea di Dio
nello stesso ordine e nella stessa connessione. (Etica, li, prop. 7)
La distinzione corrispondenza tra i due attributi e l'ordine e la connessione delle realtà
interne ad essi, hanno spinto molti interpreti dello spinozísmo a parlare di parallelismo.
Ma, quasi a fugare il fraintendimento che tale termine può generare presupponendo un
duplice ordine di realtà svolgentesi parallelamente, Spinoza nello scolio della stessa
proposizione precisa:
Tutto quel che può essere percepito da un intelletto infinito come
costituente l'essenza della sostanza, appartiene a un'unica sostanza, e di
conseguenza la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima
sostanza, che è compresa ora sotto questo, ora sotto quell'attributo ... e per-
ciò sia che concepiamo la natura sotto l'attributo dell'estensione, sia sotto
l'attributo del pensiero, sia sotto qualsiasi altro, troveremo un solo e mede-
simo ordine, ossia una sola e medesima connessione di cause.
(ivi)
Di Dio, allora, gli uomini possono predicare, tra i tanti suoi attributi, soltanto che è
pensante e che è esteso.
Il Dio sostanza, cui competono infiniti attributi, si manifesta all'uomo concretamente
attraverso determinazioni particolari o dell'attributo estensione o dell'attributo pensiero, si
manifesta cioè attraverso i modi, che sono le innumerevoli e varie forme di oggetti o le
idee particolati e finite. I modi, pertanto, sono delimitazioni e determinazioni della
sostanza ed in quanto singoli e delimitati non si identificano immediatamente con la
sostanza, ma sono in essa:
Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro,
per cui anche viene percepito. (Etica, 1, def. 5)
L'uomo stesso è un modo della sostanza, ma è un modo che partecipa sia dell'estensione
che del pensiero. Il fatto di essere contemporaneamente "affezione" di entrambi gli
attributi percepibili dalla mente non comporta per Spinoza che nell'uomo corpo e mente,
estensione e pensiero, siano due realtà, cosí come voleva Cartesio. Come modi finiti di
attributi infiniti dell'unica sostanza, corpo e mente sono una sola ed identica realtà.
L'uomo è un solo ed identico individuo concepito una volta quale modo dell'attributo
estensione ed un'altra quale modo dell'attributo pensiero:
l'idea del corpo ed il corpo, cioè la mente ed il corpo, sono un solo
ed identico individuo, che è concepito ora sotto l'attributo del pensiero,
ora sotto quello dell'estensione (Etica, Il, prop. 21)
La mente umana, infatti, è nient'altro che l'dea del corpo, e quest'ultimo, a sua volta, è
nient'altro che l'aspetto esteriore, esteso ed apparente della mente:
L'oggetto dell'idea costituente la mente umana è il corpo, ossia un
certo modo, esistente in atto, dell'estensione e nient'altro.
(Etica, 11, prop. 13)
La maggiore o minore capacità dì comprendere della mente umana deriva, infatti, dalla
diversa costituzione del corpo di cui è mente:
La mente umana è atta a percepire moltissime cose, ed è tanto piú
atta, quanto piú numerose sono le maniere in cui il suo corpo puo essere
disposto. (Etica, 11, prop. 14)
SPINOZA E LEIBNIZ
L'uomo, le passioni e la libertà
L'uomo, dunque, è soltanto un modo, una manifestazione particolare dell'unica sostanza
infinita. E, essendo un modo particolare tra i tanti, non è affatto autonomo ed
indipendente dall'ordine causale che regola il tutto. E', come ogni altro modo, inserito in
una serie di rapporti di reciproca causalità con tutte le realtà particolari circostanti. Di
conseguenza ogni suo atto ed ogni sua idea sono il frutto di una catena causale. Le azioni
ed il pensiero degli uomini non sono, allora, degli atti "liberi", cioè non determinati da
alcunché di esterno all'uomo, ma sono momenti necessari di una processione causale:
Cosicché la stessa esperienza non meno chiaramente della ragione
insegna che gli uomini credono di essere liberi per questa sola causa, che
sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determi-
nati, e che inoltre le decisioni della mente non sono nient'altro che gli
stessi appetiti, e perciò variano secondo il variare della disposizione del
corpo. Infatti, ognuno regola tutto secondo il suo proprio affetto; quelli
poi, che sono combattuti da affetti contrari non sanno quel che vogliono,
e quelli che non ne hanno nessuno, con facilità sono mossi di qua e di là.
Tutto ciò mostra certo chiaramente che tanto la decisione della mente
quanto l'ap petito e la determinazione dei corpo sono per natura simulta
nei, o piuttosto una sola e medesima cosa, che, considerata e spiegata
mediante l'attributo del pensiero, diciamo decisione, e, quando invece è
considerata sotto l'attributo dell'estensione e dedotta dalle leggi del moto e
della quiete, diciamo determinazione. (Etica, III, prop. 2)
Le decisioni della mente, cioè le idee dell'intelletto e l'appetito, e le volizioni particolari e le
determinazioni del corpo, cioè gli atteggiamenti concreti che il corpo assume, sono, non
soltanto contestuali, ma una sola medesima cosa. Se ne ricava chiaramente che nell'uomo
intelletto, volontà ed azione del corpo coincidono. Alla unità mente corpo segue
necessariamente l'unità intelletto volorità:
Nella mente non si dà nessuna volizione, ossia affermazione e nega-
zione, oltre quella che l'idea, in quanto è idea, implica ... La volontà e l'in-
telletto sono una sola e medesima cosa. La volontà e l'intelletto non sono
nulla oltre le stesse volizioni ed idee singole. Ma la volizione singola e
l'idea singola sono una sola e medesima cosa; dunque la volontà e l'intel-
letto sono una sola e medesima cosa. (Etica, 11, prop. 49)
La rivendicazione del monismo contro il dualismo è, come si vede, continua e coerente. Da
Dio fino ai singoli atti dell'uomo, in ogni passaggio di questa deduzione, Spinoza si
preoccupa di eliminare ogni poss ibilità di separazione, di dualismo. Gli stessi atti
dell'intelletto e della volontà , cioè le singole idee e le singole volizioni, sono viste, anti
metafisicamente, come uniche realtà concrete, al di là delle quali non esistono né un
intelletto separato dalle singole idee, né una volontà separata dalle singole volizioni. Al di
là del mondo reale, al di là della realtà concreta non esiste un mondo di noumeni, di puri
universali pensabilì La volontà come ente universale producente atti volitivi particolari
non è una cosa esistente in Natura, ma solo una finzione, e, pertanto,
non c'è bisogno di chiederci se essa è libera o no.
(Breve trattato, 11, 16)
Ed ancora:
Nella mente non c'è nessuna volontà assoluta, cioè libera, ma la
mente è determinata a volere questo o quello da una causa, che del pari è
stata determinata da un'altra, e questa ancora da un'altra, e cosí all'infinito.
La mente è un modo certo e determinato del pensare, perciò non
può essere causa libera delle sue azioni, cioè non può avere l'assoluta
facoltà di volere questo o quello da una causa, che del pari è stata determi-
nata da un'altra, e questa ancora da un'altra. In questa maniera si dimostra
che nella mente non si dà nessuna facoltà assoluta di intendere, desiderare,
amare, eccetera. Onde segue che queste e simili facoltà o sono assoluta-
mente fittizie, o non sono se non enti metafisici, ossia universali, che
siamo soliti formare da quelli particolari. (Etica, Il, prop. 48)
La sostanziale unità di intelletto e volontà e la loro coincidenza con le singole idee e le
singole volizioni ripropone il problema di come si spiegano verità e falsità. Cartesio aveva
affermato che l'errore derivava dalla maggiore estensione della volontà rispetto
all'intelletto. Per Spinoza, invece, il vero ed il falso dipendono daIl'adeguamento o meno
dell'idea con la cosa di cui essa è idea:
La verità è un'affermazione (o una negazione) che si fa rispetto ad
una cosa e che conviene con la cosa stessa; la falsità è un'affermazione (o
una negazione) relativa ad una cosa e che non conviene con la cosa stessa.
(Breve trattato, II, 15)
E' vero, cioè, quel giudizio chie esprime le caratteristiche complete di una cosa ed i
rapporti di causa effetto che la legano alle altre; è falso, invece, quello che esprime una
visione confusa, monca ed irrelata della cosa in questione.
Verità e falsità sono legate, allora, al tipo di conoscenza che della realtà l'uomo acquisisce.
Al primo modo conoscitivo, l'opinione, corrispondono idee inadeguate e quindi false. Esse
infatti derivano o dal racconto di altri, "per sentire dire", o dall'esperienza dei singoli
particolari. Al secondo modo, frutto della vera ragione "che non ha mai ingannato coloro
che ne hanno fatto buon uso", corrispondono idee adeguate, relazionate ad altre in una
serie causale e, quindi, vere. Al terzo modo, frutto di una comprensione intuitiva e
concreta della realtà, corrisponde la visione unitaria del tutto, la perfetta comprensione
dell'ordine razionale che tutto regola.
La consapevolezza di appartenere ad una realtà organizzata causalisticamente offre anche
dei vantaggi pratici: rasserena l'uomo e lo convince che le sue azioni sono buone o cattive
solo in rapporto alla conoscenza che egli possiede della realtà. Inoltre insegna anche a
sopportare
con animo uguale l'una e l'altra faccia della fortuna, perché tutto con
segue per eterno decreto di Dio con la stessa necessità con cui dall'essenza
del triangolo consegue che i suoi tre angoli sono uguali a due retti. In terzo
luogo, questa dottrina giova alla vita sociale, dato che insegna a non por
tare odio a nessuno, non disprezzare né irridere nessuno, a non adirarsi
con nessuno, non invidiare nessuno. (Etica, II, prop. 49)
Anche gli affetti dell'uomo sono il frutto dell'ordine, della regolarità, e della necessità delle
leggi naturali:
nella natura non c'è niente che si possa attribuire a suo vizio; la
natura è infatti sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è una e
medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le
quali tutte le cose divengono e da certe forme si tramutano in altre, sono
dovunque e sempre le stesse e perciò uno e medesimo deve anche essere il
modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante
le universali leggi e regole della natura. Dunque gli affetti di odio, ira, invi-
dia eccetera, in sé considerati, conseguono dalla stessa virtù e necessità della
natura, come in altre cose singole. (Etica, III, pref.)
Bisogna procedere, dunque, alla comprensione degli affetti umani con lo stesso rigore
logico e con la stessa procedura attenta, precisa, razionale con cui si studiano linee,
superfici e corpi. Questo atteggiamento scientifico, distaccato, squisitamente razionale,
evita di far cadere negli errori di valutazione di molti filosofi che considerano gli affetti
come vizi in cui gli uomini cadono per colpa loro:
perciò essi sono soliti deriderli, compiangerli, biasimarli, oppure
(quelli che vogliono sembrare piú santi) detestarli. Cosí dunque credono di
far cosa divina e di attingere il colmo della sapienza, quando hanno
appreso a lodare in mille modi una natura umana che non esiste e a perse-
guitare con i propri detti quella che realmente esiste. E, infatti, concepi-
scono gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero.
(Tratt. polit., 1, 1)
Prima di tentare un qualsiasi controllo ed un saggio regolamento degli affetti, bisogna
procedere alla comprensione della loro natura, del loro ordine e del meccanismo che li
regola. Il punto di partenza per comprendere la natura degli affetti è la convinzione che
qualunque cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo
essere. (Etica, III, prop.,6)
Quando questo sforzo è riportato alla sola mente si chiama volontà,
se invece lo si riferisce insieme alla mente ed al corpo, si chiama
appetito, che dunque non è altro che la stessa essenza dell'uomo, dalla
natura della quale seguono necessariamente le cose che servono alla sua
conservazione. (Etica, III, prop. 9)
Quando all'appetito si accompagna la consapevolezza di esso abbiamo la cupidità. Le cose
dunque sono buone o cattive a seconda se noi le desideriamo o meno. Il bene ed il male
non sono valori universali riferibili alla divinità o alla natura, ma concetti umani con cui
designamo ciò che favorisce e ciò che ostacola la nostra autoconservazione. Cosí
chiameremo letizia ciò che aumenta la nostra perfezione e ciò che la ostacola tristezza.
Quando poi individuiamo una causa esterna per l'aumento o il decremento della nostra
perfezione allora proviamo amore o odio per quella causa. Gli effetti fondamentali,
dunque, si riducono alla cupidità, alla letizia e alla tristezza. Tutti gli altri si riportano ad
essi.
Rispetto ad una determinata situazione la mente umana può avere un doppio
atteggiamento affettivo, di azione o di passione,
vale a dire, fintantoché ha delle idee adeguate, essa necessariamente
agisce, e fintantoché ha delle idee inadeguate essa patisce.
(Etica, III, prop. 1)
Passione ed azione sono allora momenti concreti di un rapporto tra l'uomo, inteso
unitariamente come identità di mente e corpo, e le cose. Vita morale e attività conoscitiva
corrispondono perfettamente. Ad una conoscenza oscura, confusa, mutila, inadeguata
corrisponde sul piano morale un atteggiamento di passività dell'uomo rispetto alla realtà.
In questa situazione l'uomo è tiranneggiato dalle passioni e dagli appetiti, è condizionato
dalle sue passioni, è vittima di situazioni che non può padroneggiare perché non le sa
comprendere. E' in uno stato di schiavitù, segue solo il suo istinto naturale a conservarsi e
a cercare tutto ciò che favorisce questa conservazione, vive in una situazione che precede
ogni norma morale ed ogni aggregazione civile:
Chiamo schiavitù l'impotenza umana nel moderare e contenere gli
affetti; infatti, l'uomo soggetto agli affetti non è padrone di se stesso, ma in
balia della fortuna, in modo che spesso è costretto a seguire il peggio, pur
scorgendo quel che per sé è meglio. (Etica, IV, pref.)
Ma quando, grazie alla ragione, l'uomo acquista una conoscenza chiara della generale
concatenazione di tutta la realtà e comprende la sua naturale posizione all'interno della
serie di cause, allora razionalizza i suoi impulsi, li spiega come momenti necessari
di una vicenda cosmica articolata necessariamente. Non è piú dominato dalle passioni, ma
le comprende e le domina. Acquisita in tal modo la libertà, agisce sui suoi impulsi, sui suoi
affetti e non li subisce più ciecamente:
Un affetto che si presenta come passione cessa di essere tale appena
ci formiamo di esso un'idea chiara e distinta. (Etica, V, prop. 3)
Ma la libertà dalle passioni non è ancora il grado piú elevato di vita morale. Il momento
piú alto della conoscenza, quello intuitivo, consente una apprensione unitaria e globale
dell'ordine geometrico operante in tutto l'universo e sul piano etico produce una adesione
intellettuale e morale all'ordine eterno e necessario dell'universo.
La conoscenza della necessaria concatenazione che lega ogni singola cosa alla realtà del
tutto produce nell'uorno un amore per il Dio Natura, l'amore intellettuale di Dio (amor Dei
intellectualis). Quando l'uomo ha compreso che egli stesso con la sua vita intellettiva ed
etica è inserito nell'ordine razionale del tutto aderisce al tutto e lo ama. Ed in questa
perfetta identificazione realizza la sua piú alta e piena libertà. Solo in questo modo l'uomo
si solleva dal particolarismo conoscitivo e dall'invidualismo etico. Ma questa adesione al
tutto non è la mistica comunione neoplatonica in cui l'individuo si perde nel tutto, ma è
una adesione che è comprensione della realtà, realizzata però senza perdere la
consapevolezza di sé; è un atto di perfetta intellezione intuitiva del tutto simile all'atto con
il quale il matematico, dopo aver scorso ripetutamente tutti i passaggi di un problema, li
abbraccia con un solo colpo d'occhio. Solo a questo punto l'uomo conquista la vera libertà:
Per tutto ciò che è stato detto si può dunque concepire facilmente
cosa è la libertà umana. Io la definiscono una salda realtà ottenuta dal
nostro intelletto per la sua unione immediata con Dio, per produrre in sé
idee e trarre da se stesso degli atti in accordo alla sua natura, senza che
questi atti siano sottomessi ad alcuna causa esterna che possa alterarli o tra
sformarli. (Breve trattato, 11, 26)
La vera libertà consiste allora nel capire l'ordine necessario dell'universo e nell'aderire ad
esso con la perfetta consapevolezza della sua immutabilità.
SPINOZA E LEIBNIZ
La società umana e le sue istituzioni
La visione realistica che ha informato Spinoza nelle analisi sulla vita morale dell'uomo
anima anche la sua teoria politica. La reale condizione umana va compresa, razionalizzata,
ma giammai vituperata e trascurata per inseguire un astratto dover essere, una idealità
irreale ed irrealizzabile. Nella politica, come nella morale, il filosofo vuole evitare sia di
rincorrere le chimere speculative dei puri teorici, sia di plaudire al pragmatismo piatto dei
politici di mestiere. Ma se proprio si deve fare una scelta è preferibile ascoltare,
nonostante tutto, i politici piú che i filosofi:
Riguardo agli uomini politici sembra che essi siano piú portati a ten-
dere insidie all'umanità che non a prenderne cura, che siano insomma piú
astuti che saggi... Tuttavia è chiaro che questi politici hanno scritto molto
piú felicemente di politica di quanto non abbiano fatto i filosofi. Dal
momento che ebbero come maestra l'esperienza, niente potevano inse-
gnarci che fosse lontano dalla concreta applicazione.
(Tratt. polit. I, 2)
Nel momento in cui si vuole comprendere quali siano le condizioni necessarie per
assicurare agli uomini la fuoriuscita dallo stato di schiavitù alle passioni e dalla
dissociazione politica per la conquista di una libertà razionale, fondamento e garanzia di
una sana vita sociale, bisogna preliminarmente definire le rispettive sfere d'azione della
religione e della politica e puntualizzare i limiti e la natura del rapporto tra di esse.
Nel Trattato teologico politico Spinoza procede con il solito rigore analitico in questo lavoro
di chiarimento e di precisazione. L'aver impedito ai singoli uomini di leggere e di
interpretare liberamente la Scrittura ha fatto scadere la religione a pregiudizio, a culto
meramente esteriore:
Non c'è da meravigliarsi dunque che nulla è rimasto dell'antica reli-
gione, se non il culto esterno, e che la fede si è ridotta ad un insieme di
crudeltà e di pregiudizi: e quali pregiudizi!, che trasformano gli uomini da
esseri razionali in bruti, che impediscono completamente a ciascuno di
usare il proprio libero giudizio, e di riconoscere il vero ed il falso, pregiu-
dizi che sembrano escogitati con l'unico scopo di spegnere completamente
la luce dell'intelletto. (Tratt. Teol. polit., Pref.)
La Scrittura, invece, va esaminata con animo sgombro da ogni pregiudizio e con l'intento
di non affermare niente di essa e non ammettere come sua dottrina
nessuna proposizione che non risultasse con assoluta chiarezza dal suo
contesto. (ivi)
La regola universale per l'interpretazione della Scrittura consiste, infatti, nella
determinazione
di non attribuirle nessun insegnamento che non risulti massimamente
chiaro dalla sua stessa storia. (Tratt. teol polit., VII)
La Bibbia, cioè, deve essere analizzata come documento storico e deve essere interpretata
come il prodotto storico della cultura di un popolo. Da una analisi di tal genere si ricava
che l'insegnamento proposto dalla Scrittura è morale e pratico, non scientifico. Da questa
affermazione derivano due conseguenze. La prima è che
in materia religiosa, il supremo diritto di pensare liberamente è prero-
gativa di qualsiasi uomo ... e sarà anche sommo ed indiscusso diritto di cia-
scuno il giudicare con libertà le cose religiose e quindi spiegarle ed inter-
pretarle. (ivi)
La seconda è che
tra fede, o teologia, e filosofia non v'è alcun rapporto e nessuna affi-
nità ... Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità, quello della
fede non è altro che l'obbedienza e la pietà ... La fede, però, concede a cia-
scuno la piú piena libertà di filosofare. (Tratt. teol polit., XIV)
Il fondamento dello stato, allora, non può essere la religione, ma soltanto la natura e la
ragione degli uomini. La comunità umana è il frutto della naturale tendenza degli uomini a
conservare il proprio essere. Ma questo impulso naturale non può essere appagato finché
gli uomini non si lasciano condurre dalla ragione. Solo la ragione porta al necessario
temperamento degli egoismi, delle passioni e rende l'uomo disponibile alla convivenza
sociale:
Non si può dire che gli uomini, in quanto sono soggetti alle passioni,
convengono per natura.
(Etica, IV, prop. 32)
Solo in quanto vivono sotto la guida della ragione, gli uomini
sempre convengono necessariamente per natura. (Etica, IV, prop. 35)
La società, dunque è l'unica naturale, concreta possibilità che l'uomo ha per esplicare la
sua libertà:
Niente è piú utile aIl'uomo che l'altro uomo; dico che gli uomini
non possono desiderare niente di meglio per conservare il proprio essere,
che tutti convengano in tutte le cose in modo che le menti e i corpi di
tutti vengano quasi a comporre una sola mente ed un solo corpo, e che
tutti insieme, per quanto possono, si sforzino di conservare il proprio
essere, e che tutti insieme desiderino l'utile comune.
(Etica, IV, prop. 18)
Gli uomini devono dunque affratellarsi e sentirsi naturalmente destinati alla vita sociale. Il
fine dello Stato, infatti, non è di dominare gli uomini, né di assoggettarli con il terrore e
neppure di trasformarli in esseri obbedienti come automi privi di razionalità,
ma, al contrario di far sí che il loro corpo e la loro mente abbiano
una libera esplicazione in tutte le loro funzioni, ed essi stessi facciano uso
della ragione libera e non si combattano con odio, ira o inganno, né si
comportino tra di loro con animo insincero. Il fine, dunque, dello Stato è
realmente la libertà. (Tratt. teol. polit., XX)
Nell'ultimo libro, il Trattato politico, lasciato incompiuto per il sopraggiungere della morte,
Spinoza si propone di analizzare con lo stesso metodo scientifico realistico le tradizionali
forme di governo: monarchia, aristocrazia e democrazia. Spinoza, come Hobbes, ritiene
che l'uomo in quell'accordo con gli altri attraverso cui nasce Stato, cerca di uscire dallo
"stato di natura" in cui ognuno può aspirare a tutto per soddisfare il suo istinto alla
conservazione.
Ma, contro Hobbes, ritiene che il cosiddetto "stato di natura" non esprima la vera natura
dell'uomo. La potenza e la libertà umana non si manifestano pienamente in una
situazione, come quella ipotizzabile prima della convivenza sociale, in cui l'uomo è schiavo
delle sue passioni, ma soltanto nella società in cui gli uomini si accordano ed operano
insieme (homo homini deus), in modo che la conquista materiale e spirituale di ognuno si
trasformi in conquista di tutti:
gli uomini, senza aiuto reciproco, possono a stento vivere la loro vita
e coltivare il loro spirito; ... il diritto di natura, in quanto è proprio del
genere umano, si puo immaginare soltanto se si ammette che gli uomini
abbiano dei diritti comuni, rivendichino insieme terre da abitare e da colti-
vare ed insieme siano capaci di premunirsi, di respingere qualsiasi assalto e
vivere secondo un comune accordo.
(Tratt. polit., Il, 15)
Ancora contro Hobbes che riteneva irrevocabile il contratto da cui nasceva il potere,
Spinoza, invece, ritiene che il potere rimane sempre nelle mani dei popolo:
il diritto del potere, ossia dei reggitori dello stato, non è nient'altro
che quello stesso diritto di natura di cui dicemmo, in quanto però non è
determinato dalla potenza di ogni singolo, ma di tutto il popolo, quasi
fosse guidato da un'unica volontà.
(Tratt. polit., III, 2)
Spinoza interpreta, perciò, il patto d'unione con cui nasce lo Stato in senso liberale e
democratico, accentuando la naturale spinta collaborativa esistente nell'uomo ed
attenuando la necessità di un potere coercitivo inteso a limitare l'egoismo dei singoli. Tra
le diverse forme di governo, esaminate con lo stesso rigore e senza pregiudizi, Spinoza
mostra chiaramente di privilegiare la democrazia. Questa forma di governo, infatti,
assicura con maggiore stabilità la sovranità popolare. Sovranità che può spingersi, quando
la situazione lo richiede, anche alla rottura del contratto sociale:
Quanto poi al contratto, e cioè alle leggi per mezzo delle quali il
popolo trasferisce il suo diritto nelle mani di un'unica assemblea o di un
uomo, non c'è dubbio che esso debba romperlo qualora giovi all'interesse
comune.
(Tratt. Polit., IV, 6)
Tra tutti i governi, infatti,
il migliore è quello in cui gli uomini trascorrono concordemente la
loro vita; per vita umana intendo, però, non quella che si limita alla sola
circolazione del sangue e alle altre funzioni che sono comuni a tutti gli
animali, ma quella determinata principalmente dalla ragione che è vita e
vera virtù della mente.
(Tratt. polit., V, 5)
SPINOZA E LEIBNIZ
Non quietismo, ma impegno etico e intellettuale
Non pochi critici hanno creduto di vedere nel monismo spinoziano, necessaristico e
deterministico, un sistema strutturato in modo da vanificare ogni libertà umana e tale da
spingere l'uomo ad una rassegnata accettazione degli eventi. In una visione del mondo in
cui ogni cosa è determinata da una ferrea necessità causale, all'uomo e alla sua capacità
di agire in vista di una modificazione del reale, affermano questi critici, non è lasciata
alcuna possibilità di intervento. La vita intellettuale e morale dell'umanità sembra
soggiacere alle stessi leggi ed alla stessa necessità cui sono sottoposti tutti gli eventi
naturali. A noi sembra di scorgere, invece, nella filosofia spinoziana, una altissima
tensione morale. A certe ubbie rinascimentali che divinizzavano l'uomo e lo credevano
capace di modificare con la sua potenza magica il corso della natura stessa, la dottrina
spinoziana sostituisce una visione della vita umana come nobile sforzo di crescita
intellettuale e morale, come tensione razionale protesa alla comprensione della realtà.
L'uomo non deve ritenersi soddisfatto dalla condizione in cui immediatamente viene a
trovarsi, ma neppure deve compiangersi e biasimarsi con l'occhio rivolto ad una astratta
ed utopica idealità. Valutando realisticamente la situazione di fatto, deve attivare tutte le
sue possibilità conoscitive e pratiche; deve realizzare tutte le sue possibilità mentali.
Esaltazione della vita etica, dunque, in cui conoscenza ed azione non sono mai
scompagnate, ma realizzano un'inscindibile unità in continuo sviluppo per la liberazione
dell'uomo dalle tenebre dell'ignoranza e dalla schiavitù delle passioni. L'ideale spinoziano
si qualifica, allora, come celebrazione delle capacità mentali dell'uomo e come esaltazione
della sua possibilità di comprensione delle leggi e delle strutture causali esplicative e
giustificative di ogni evento, anche di quello a prima vista negativo ed assurdo. Non
quietismo, dunque, non accettazione passiva e compiaciuta di una realtà creduta
dommaticamente perfettissima, non affidamento passivo e rassegnato ad una presunta
bontà ed armonicità del tutto, non giustificazione acritica di ogni evento, ma una vita
come lotta, pacata sì, ma ferma e decisa, contro l'ignoranza, contro ogni accomodamento
compromissorio, con il fine dichiarato di esaltare la naturale vocazione dell'uomo ad una
lucida comprensione della realtà e ad una consapevole azione nella realtà.
SPINOZA E LEIBNIZ
La cultura tedesca e Leibniz
L'affermazione del luteranesimo in Germania aveva steso sulla cultura di questo paese una
patina di misticismo religioso e l'aveva sottratta a quel processo di rinnovamento che
ormai da tempo si andava sviluppando in Francia, in Inghilterra, in Olanda. Le antiquate
strutture feudali ancora vive nell'economia e nella politica e polemiche religiose
frequentemente sfocianti in conflitti armati avevano impedito ogni significativa
emancipazione della cultura tedesca dalle vecchie tematiche metafisiche.
La nuova scienza e le nuove filosofie che da Galilei a Cartesio, a Spinoza, a Hobbes,
avevano rinnovato il sapere in molti paesi dell'Europa, erano quasi sconosciute in
Germania o comunque non erano state assimilate e neppure adeguatamente discusse e
criticate.
La cultura filosofica era ancora tutta intonata al misticismo di
Böhme e alle dottrine scolastiche. La prima voce nuova che si fece sentire in questa
situazione e che valse a rompere l'isolamento in cui si veniva a trovare la cultura tedesca
del tempo fu quella di Guglielmo Leibniz.
Filosofo non professionista, Leibniz, grazie anche alla sua attività di consigliere politico, a
Parigi venne a contatto con le problematiche filosofiche e scientifiche che in quella città,
aperta agli influssi culturali provenienti da ogni parte del mondo, si affermavano o
trovavano eco. Nonostante ci fosse in lui una forte tensione innovativa, la cultura
scolastica assorbita nella sua formazione culturale gli impedí di aderire completamente alle
nuove tematiche, ma non gli vietò di conoscerle e di apprezzarle. Da questo incontro
scaturí il progetto fondamentale del suo impegno filosofico: conciliare il meccanicismo
scientifico con le verità fondamentali del Cristianesimo. Il conseguimento di questa finalità,
ovviamente, passava attraverso un'apertura della cultura tedesca a quella europea e
proponeva, a sua volta, un altro obiettivo: attuare una collaborazione armonica tra gli
stati, tra gli uomini di cultura, tra i credenti. Il desiderio di realizzare il progetto di una
politica unitaria, soprattutto nei campi scientifico filosofico e religioso, assorbí tutte le
energie del filosofo e lo condusse a stabilire contatti diretti con l'imperatore di Russia e
indiretti con quello di Cina per suggerire loro l'istituzione di accademie filosofiche e
scientifiche. L'ansia di conciliare scienza moderna e fede lo spinse all'approfondimento di
non poche tematiche scientifiche e psicologiche e gli consentì di raggiungere in questi
studi risultati apprezzabili, come ad esempio la riduzione dello spazio e del tempo a
concetti della mente contro la tradizione che li considerava realtà assolute, o
l'individuazione nella psiche umana di percezioni che, per la scarsa intensità, non
raggiungono la soglia coscienziale e, pur presenti, non sono avvertite. Ma il merito
maggiore di Leibniz consiste nell'aver aperto la cultura tedesca agli influssi della cultura
moderna, sottraendola all'isolamento e preparando le basi su cui, a partire dalla fine del
XVIII secolo, si sarebbe sviluppata rigogliosa la filosofia critica (Kant) prima e quella
idealistica (Fichte, Schelling, Hegel) dopo.
Goffredo Guglielmo Leibniz nasce a Lipsia il 24 giugno del 1646. Suo padre era professore
di morale nella locale università e sua madre era figlia di un notissimo professore di
diritto. Rimasto orfano ad appena 6 anni, spinto da un forte interesse per lo studio, cura
da autodidatta la sua formazione. Senza alcun aiuto impara il latino, i primi rudimenti
della matematica, la filosofia scolastica. Legge i classici latini e greci e nel liceo della sua
città studia logica e teologia. Successivamente segue aIl'Università di Lipsia i corsi di
diritto e di filosofia. Nel 1663 passa un semestre all'Università di Jena dove affina la sua
conoscenza della matematica e viene a contatto con la nuova cultura europea. Matura in
questo periodo un avvicinamento alla concezione meccanicistica della realtà. Il primo
scritto significativo per la sua futura attività filosofica fu il De arte combinatoria, in cui
traccia le linee di una logica matematica. Nello stesso anno 1666 si laurea in diritto presso
l'università di Altdorf con la tesi De casis perplexis in jure. Rifiutata una cattedra di diritto
offertagli dall'univerisità, si trasferice a Norimberga e cerca collegamenti con l'ambiente
intellettuale della città. Ha contatti con una misteriosa setta di maghi e di alchimisti, i
"Rosacroce", dai quali è iniziato ai "misteri" della ricerca naturalistica. In questa città
conosce il barone di Boineburg, uomo politico assai influente ed aperto ai problemi della
cultura, grazie al quale ottiene la carica di consigliere dell'Elettore di Magonza. Per
rendersi meglio accetto a questo nuovo ambiente scrive nel 1667 la Nova methodus
discendae docendaeque jurisprudentiae, un saggio mirante a fornire al diritto basi nuove,
non più derivate dalla filosofia scolastica. Nel 1671 scrive un' importante opera di filosofia
fisica, la Hypothesis physica nova, nella quale vengono esposti importanti principi circa la
natura dei corpi, il movimento, la continuità della natura e la divisibilità della materia. In
questi anni incomincia a tessere le fila della corrispondenza che lo porterà ad avere
contatti e scambi culturali con tutti i dotti del suo tempo. Nel 1772 viene inviato, nella sua
qualità di consigliere, a Parigi con l'incarico di distogliere il re Luigi XIV dal proposito di
invadere l'Olanda e di convincerlo della utilità di un attacco alle colonie olandesi nelle
Indie, passando attraverso l'Egitto.
Fallita la missione, Leibniz ottiene di rimanere a Parigi senza perdere la carica ed i
vantaggi economici ad essa connessi. Nella capitale della cultura europea stringe rapporti
con gli ingegni più brillanti del tempo, Arnauld, Malebranche, Huygens. Grazie a
quest'ultimo affina la sua preparazione in matematica e in fisica. In questo periodo
approfondisce la conoscenza del cartesianesimo, entra in contatto con i ristretti circoli
spinozisti che diffondevano con estrema riservatezza e prudenza in Francia il pensiero del
filosofo olandese. Attratto dal rigore e dalla forza del sistema spinoziano, scrive
direttamente al filosofo in occasione della pubblicazione del Trattato teologico politico. Il
suo entusiasmo per gli studi e la sua fervida intelligenza colpiscono Tschirnhaus, filosofo e
matematico spinoziano, il quale in una lettera al maestro chiede l'auto
rizzazione a mostrare al giovane studioso una copia manoscritta dell'Etica. Ma Spinoza, già
vittima dell'incomprensione e dell'intolleranza, non ritiene opportuno di sottoporre ad un
giovane sconosciuto la sua opera ed infatti cosí risponde:
Io credo di conoscere questo Leibniz dalle sue lettere. Ma io non so
perché egli si sia trasferito in Francia. Per quanto ho potuto vedere dalle
sue lettere egli è uno spirito liberale e versato in tutte le scienze. Tuttavia io
credo che non sarebbe ragionevole il confidargli cosí presto i miei scritti. Io
vorrei prima sapere che cosa egli faccia in Francia e che cosa penserà di lui il
nostro amico Tschirnhaus, quando dopo un piú lungo rapporto con lui lo
avrà meglio conosciuto.
(Citato da HöFFDING, Storia della filosofia moderna,
I vol., Torino 1913, p. 325)
La diffidenza di Spinoza non è, come si vede, diretta contro le capacità intellettive del
giovane studioso, ma contro la sua ambigua posizione di consigliere politico; aveva già
troppo sofferto per fidarsi di un giovane a lui ancora poco noto. Leibniz decide di andare in
Olanda e di visitare Spinoza, stabilendo con lui un rapporto personale. Solo dopo questa
visita poté leggere l'Etica, stampata postuma, ed annotare a margine le sue perplessità e i
suoi dissensi. Il deteminismo naturalistico di Spinoza, che aboliva la concezione
personalistica di Dio e cancellava completamente ogni finalismo, mal si accordava con la
sua formazione luterana e scolastica. Ma il rigore causalistico e la ferrea razionalità del
sistema lo impressionarono fortemente.
In un breve soggiorno inglese, nel 1673, Leibniz entrò in contatto con membri della
famosa Royal Society dai quali ebbe notizia delle ricerche di Newton. Nel 1676 consegue i
primi brillanti risultati negli studi matematici. Seguendo una via autonoma e piú semplice
rispetto a quella seguita da Newton giunge quasi contemporaneamente al grande
scienziato inglese alla scoperta del calcolo infinitesimale. Questa scoperta, nel mentre lo
rende celebre in tutto il mondo, lo costringe a sostenere una lunga polemica contro
Newton per difendersi dall'accusa di plagio. Il lavoro di Leibniz venne pubblicato negli Acta
eruditorum solo nel 1684 con il titolo Nova methodus pro maximis et minimis itemque
tangentibus.
Nello stesso 1676 il filosofo accetta l'incarico di consigliere e di bibliotecario del duca di
Hannover, Giovanni Federico Braunshweig Luneburg. Leibniz mette al servizio dei duchi di
Hannover tutta la sua immensa cultura e le sue capacità di consigliere e di diplomatico.
Per ricostruire la storia del casato si sottopone ad un lungo viaggio che lo porta attraverso
la Baviera, l'Austria e l'Italia, consulta archivi, biblioteche, studia le tradizioni culturali e
linguistiche della Germania, sperimenta nuove metodologie di studio, aprendo nuove vie
alla glottologia e alla storia. Ma il disegno fondamentale cui dedica molte energie è quello
della riunificazione delle chiese protestanti e cattoliche in funzione di una grande
coalizione dei principi tedeschi con Papato, Spagna ed Impero contro la spregiudicata
politica di egemonia praticata dal re Sole. Contro quest'ultimo, nel 1684 aveva scritto il
Mars christianissimus e poi una serie di altri opuscoli. Nonostante il fallimento di questo
progetto è importante notare che lo spirito con cui Leibniz l'aveva condotto non era
solamente politico militare, ma rivelava la tendenza di fondo di un programma di
unificazione ben piú vasta e significativa. Leibniz è convinto, infatti, che l'umanità possa
trarre immensi benefici dalla realizzazione di una fitta rete collaborativa in tutti i campi
dell'attività, dalla politica, alla religione, alla scienza.
Fallito il tentativo di collaborazione politica e di unificazione religiosa, tenta la realizzazione
di una specie di repubblica dei sapienti. Attraverso le accademie già esistenti egli pensava
di realizzare un fruttuoso scambio culturale tra i vari scienziati e filosofi europei.
Al fine di allargare la rete collaborativa si prodiga per la fondazione di nuove accademie e
di società scientifiche. Nel 700 fonda a Berlino quella società scientifica che diverrà nota
come Accademia Prussiana. Sollecita Pietro il Grande, imperatore di Russia, a fondare
istituzioni scientifiche e ad aprire la cultura russa a quella europea; per tramite di
missionari cerca di stabilire rapporti con l'Imperatore e gli scienziati cinesi. Ma tutta
questa frenetica attività di organizzatore, nel mentre gli consentiva di stabilire contatti con
moltissimi uomini di cultura sparsi in tutto il mondo, nuoceva alla stesura delle sue opere.
Non riuscí mai a comporre l'opera che avrebbe dovuto trattare sistematicamente il suo
pensiero. Questo, infatti, resta affidato alle numerosissime lettere, a frammenti inediti, a
pochi e brevi saggi.
Agli scritti giovanili di logica e di fisica, seguono nel 1686 il Discorso di metafisica, in cui è
esposta la sua dottrina metafisica; nel 1695 Il sistema nuovo della natura e della
comunicazione delle sostanze, in cui è enunciata la famosa dottrina dell'armonia
prestabilita; nel 1705 i Nuovi saggi sull'intelletto umano, in cui Leibniz confermava la sua
teoria dell'innatismo e delle piccole percezioni e confutava in maniera puntuale la dottrina
lockiana dell'anima tabula rasa e la teoria empiristica affermante che tutte le conoscenze
derivano dall'esperienza. Nel 1710 compone la Teodicea,
l'unico libro pubblicato dal Nostro, in cui riesponeva la sua dottrina metafisica e
confermava la visione cristiana di Dio e delle cause finali; nel 1714 elabora una sintesi del
suo sistema, la Monadologia che, pubblicata dopo la sua morte, divenne subito assai
famosa.
Alla corte di Hannover Leibniz aveva trovato due grandi ammiratrici nella elettrice Sofia e
nella figlia Sofia Carlotta, che favorí la fondazione dell'Accademia di Berlino ed il piano
leibniziano di collaborazione internazionale tra gli scienziati. Nel 1705, con la morte della
regina, peggiorano i suoi rapporti con i duchi e con la stessa Accademia. Lo si accusa di
non attendere adeguatamente agli obblighi derivantigli dalla sua carica di bibliotecario e
storiografo di corte e gli viene vietato di allontanarsi da Hannover. In questi anni si
accentua la polemica con gli scienziati inglesi (Newton e i newtoniani) a proposito del
calcolo infinitesimale e dei concetti di spazio e di tempo ritenuti dagli inglesi realtà
assolute. Stanco e sfiduciato si trascina, dimenticato da tutti, fino alla morte avvenuta il
14 novembre 1716. Lo ignorano anche le accademie di cui era stato socio. Unica eccezione
fu rappresentata dall'Accademia delle Scienze di Parigi che lo commemora con un discorso
di un suo prestigioso membro, il filosofo cartesiano Bernard Le Bovier de Fontenelle
(1657-1757).
SPINOZA E LEIBNIZ
Ragionare come calcolare
Ancora giovanissimo Leibniz si preoccupa di ricercare un modello di logica che, mettendo
fine alle lunghe discussioni fosse capace di fornire per ogni problema una soluzione
univoca e precisa. Con questo proposito si muoveva sulla stessa linea che da Raimondo
Lullo arrivava ad Hobbes, passando attraverso Bacone, Galilei e Cartesio. Come Bacone,
Leibniz ritiene che il linguaggio ordinario nasconda insidie e sia la causa di una serie di
equivoci che impediscono agli uomini di intendersi perfettamente. La combinazione delle
parole nelle proposizioni è priva del rigore e della necessità che, invece, sono propri della
combinazione dei numeri fra di loro:
Le lingue ordinarie, sebbene servano al ragionamento, tuttavia sono
soggette ad innumerevoli equivoci, né possono essere impiegate per il cal-
colo, in maniera cioè che si possano scoprire gli errori di ragionamento
risalendo alla formazione ed alla costruzione delle parole ....
(Scritti di logica, pag. 241)
Nasce da qui la necessità di sostituire alle parole dei "segni", i quali debbono indicare non
solo le cose ma anche le idee delle cose. Se infatti riducendo concetti complessi ad altri
piú semplici, giungeremo alla individuazione di un numero abbastanza limitato di nozioni
elementari indicabili con un segno particolare, ragionare significherà procedere, come in
matematica, a semplici calcoli. Una volta realizzata, attraverso la scomposizione, la
riduzione del complesso nel semplice ed una volta contraddistinto ogni elemento primitivo
e semplice con un segno o carattere,
chiunque si servisse dei caratteri cosí descritti nel ragionare e nello
scrivere, o non commetterebbe mai errori, oppure li riconoscerebbe sempre
da sé, siano suoi o degli altri, mediante esami facilissimi; inoltre scopri
rebbe la verità nella misura in cui i dati lo permettono; e se talora i dati
non fossero sufficienti a risolvere il problema, egli potrebbe vedere di quali
esperienze o di quali conoscenze vi fosse bisogno per potersi almeno avvi
cinare alla verità ... I sofismi e i paralogismi risulterebbero, in questo caso,
niente di diverso da quelli che sono gli errori di calcolo in aritmetica, ed i
solecisimi o barbarismi nelle lingue. (ivi, pag. 241)
Leibniz, come molti filosofi di questa età, avverte l'esigenza di eliminare dal novero dei
metodi di ricerca ogni procedimento approssimativo basato su un linguaggio i cui termini
vaghi ed ambigui consentono alla retorica di alimentare discussioni lunghe e complesse.
Per ritornare all'espressione dei pensieri per mezzo di caratteri, sento
che le controversie non finirebbero mai e che non si potrebbe mai imporre
il silenzio alle sette, se non ci riportassimo dai ragionamenti complicati ai
calcoli semplici, dai vocaboli di significato vago ed incerto ai caratteri
determinati ... Una volta fatto ciò, quando sorgeranno controversie, non ci
sarà maggior bisogno di discussione tra due filosofi di quanto ce ne sia tra
due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti, che essi prendano la penna in
mano, si siedano a tavolino, e si dicano reciprocamente (chiamato, se loro
piace, un amico): calculemus. (ivi, pag. 237)
Leibniz, in tal modo, crede di risolvere, con questo tipo di logica matematica, l'antico
problema del controllo dei vari passaggi di qualsiasi discorso che voglia essere scientifico.
Ma se "l'arte caratteristica ", come egli la chiama, risolve il problema della verifica e del
controllo dei vari momenti del discorso e della loro articolazione, non è però sufficiente da
sola a risolvere il problema della veridicità delle proposizioni prime con le quali si operano
le combinazioni. Leibniz non accetta la proposta cartesiana della individua
zione dei principi primi del sapere attraverso la evidenza, la chiarezza e la distinzione. Di
Hobbes, nel mentre accetta l'idea del ragionamento come calcolo, respinge la tesi che
ragionare sia comporre e scomporre nomi attribuiti arbitrariamente, cioè
convenzionalmente, alle esperienze e alle idee degli uomini.
La preoccupazione di elaborare una logica generalissima, applicabile in ogni campo del
sapere, "un vero organo della scienza" in generale, gli impone una precisazione e una
distinzione tra verità puramente razionali e verità sperimentali, che né Cartesio né Hobbes
avevano operato. Non sempre e non in tutti i casi, infatti, è possibile ottenere verità che si
impongono con la stessa rigorosa necessità logica delle verità geometriche. La certezza
assoluta del risultato è possibile soltanto nei casi in cui la conclusione è necessanamente
ricavabile dai dati in nostro possesso. Ma ciò non significa
che tale arte sia di scarso impiego in tutti quei casi dove c'è bisogno
di congetture come... nella vita comune, nella medicina, nel diritto, nelle
cose militari, nella direzione dello Stato. (ivi, pag. 237).
Anzi, se in questi casi vale la ragione, a maggior dinitto vale l'arte combinatoria che altro
non è se non "la suprema elevazione e l'uso piú compendioso della ragione umana
mediante simboli o segni".
Pertanto, quando il problema non è determinato, non è esprimibile
in base ai dati, proveremo allora, con questa analisi, l'una o l'altra di queste
due possibilità: o ci approssimeremo all'infinito a ciò che è cercato,
oppure, quando occorra far uso di congetture, determineremo almeno con
la ragione dimostrativa quelgrado diprobabilità che si può ottenere dai dati
e sapremo in qual modo le circostanze date debbano venir calcolate e pos-
sono, per cosí dire, essere ridotte in un bilancio, pari per le entrate e per le
uscite, in modo da scegliere ciò che sia maggiormente conforme alla
ragione.
(ivi, pag. 237-238)
In tal modo, se non si arriva proprio al vero, si arriva al verosimile o al probabile. Leibniz è
consapevole ed è orgoglioso di questa sua scoperta che consente di utilizzare anche al di
fuoni dei campo dei puri enti di ragione un procedimento di tipo matematico:
io costruisco una parte della logica fino ad ora quasi non toccata,
concemente la valutazione dei gradi di probabilità e la bilancia delle prove,
delle previsioni, delle congetture e degli indizi. (ivi, pag. 238)
Ed è convinto che il nuovo strumento logico possa arrecare alla n'cerca la stessa utilità dei
telescopio e del microscopio.
SPINOZA E LEIBNIZ
Verità di ragione e verità di fatto
La logica come "arte caratteristica", pur essendo allora applicabile in ogni campo del
sapere, consegue certezze rigorose e necessarie soltanto nell'ambito delle verità razionali.
Mentre nello studio della natura e delle attività pratiche, cioè nel campo della realtà di
fatto, ottiene risultati approssimativi e probabili.
Questi differenti risultati dipendono dalla diversità dei dati di partenza sui quali la logica
opera. Premesso che per Leibniz non è assolutamente in discussione la realtà oggettiva
del mondo esterno, il quale esiste ed è reale, bisogna precisare che il compito
fondamentale che egli affida alla filosofia è proprio la conoscenza di questa " perfettissima
" natura. Ora, nella comprensione della realtà talvolta si parte da dati necessari e a priori,
i quali contengono nella loro stessa essenza tutto ciò che con il ragionamento deduttivo si
può ricavare, tal'altra, invece, si parte da dati non necessari, ma contingenti ed
occasionali, che si giustificano soltanto se rapportati ad una situazione esistente di fatto.
Nel primo caso la conoscenza conseguirà verità di ragione, nel secondo verità di fatto.
Le verità di ragione inerenti alla metafisica, alla logica ed alla geometria sono verità
necessarie il cui contrario è necessariamente falso perché contraddittorio con la verità
espressa nella premessa, e sono apriori perché non derivano dall'esperienza, ma tutto ciò
che di esse è predicabile è contenuto nella loro stessa definizione: il predicato, cioè,
inerisce al soggetto. Nella nozione di triangolo, ad esempio, è contenuto tutto ciò che del
triangolo si può affermare, che ha tre lati, che la somma degli angoli interni è di 180 gradi
e cosí via. Queste verità sono da Leibniz chiamate identiche in quanto, per il principio di
inerenza, il predicato ripete ed esplicita ciò che è già espresso dal soggetto. In questo
caso il discorso è basato su un ragionamento deduttivo che si limita a rendere palese ciò
che è già implicito nella nozione di partenza. Le verità di ragione poggiano su due principi
fondamentali: quando sono affermative, sul principio di identità (l'uomo è uomo), quando
sono negative, sul principio di non contraddizione (l'uomo non può essere e
contemporaneamente non essere razionale). Il giudizio di cui ci si serve nell'esposizione
delle verità di ragione è il giudizio analitico, il giudizio cioè che si limita ad analizzare e
rendere evidente attraverso il predicato ciò che è contenuto nelle "viscere" di ciascun
concetto:
Le verità primitive di ragione sono quelle che io chiamo con nome
generale identiche, poiché sembra che esse non facciano che ripetere la
medesima cosa senza insegnarci nulla. (Nuovi saggi, IV, Il, I)
Invece esse sono utilissime nella logica e nella geometria.
Le verità di fatto, a loro volta, ineriscono, alla realtà concreta degli eventi naturali e
storici. Esse non sono assolutamente necessa rie in quanto anche il loro contrario è
logicamente possibile.L'uomo può acquisirle soltanto con l'esperienza e attraverso un
processo conoscitivo empirico che sintetizza, una dopo l'altra, le diverse esperienze fatte.
Al contenuto del concetto che funge da soggetto si aggiungono in tal modo note
caratteristiche sempre nuove, che, insieme, valgono a giustificare l'esistenza di fatto di
quella realtà. Le verità di fatto hanno bisogno, per passare dalla possibilità di esistenza
all'esistenza in atto, di un complesso di
eventi che rappresentano, appunto, la "ragione sufficiente" perché una realtà di fatto
esista anziché no. Al principi di identità e di non contraddizione validi per definire le verità
di ragione, corrisponde nel campo delle verità di fatto il principio della "ragione
sufficiente ",
in virtù del quale consideriamo che nessun fatto può essere vero o
esistente e nessuna proposizione vera, senza che vi sia una ragione suffi-
ciente perché sia cosí e non altrimenti, per quanto queste ragioni il piú
delle volte non possono esserci conosciute.
(Monadologia, 32)
Ad esempio: che Cesare varcò il Rubicone per marciare contro i suoi nemici a Roma non è
una verità di ragione, ma una verità di fatto. Il passaggio del Rubicone, infatti, non è una
nozione necessariamente ricavabile dal soggetto Cesare. Cesare sarebbe stato pur sempre
Cesare anche senza passare il Rubicone. Per capire allora questo evento contingente
bisogna cercare le ragioni capaci di spiegare come, tra le tante cose possibili che Cesare
poteva realizzare in quel momento, solo questa azione si sia realizzata. Con questa
distinzione tra verità logiche, necessarie ed apriori, e verità storiche, contingenti ed a
posteriori, Leibniz crede di poter superare il necessitarismo implicito nella filosofia
hobbesiana ed esplicito in quella spinoziana. Crede cioè di poter sottrarre alla logica della
necessità deterministica gli eventi storici e di poter sostituire alla categoria della necessità
causalistica, fondata sulla deduzione di ogni avvenimento da una causa precedente, la
categoria
della possibilità e di conseguenza della libertà.
Ma questo progetto non conosce nella filosofia leibniziana uno sviluppo lineare e coerente.
Mentre alcune volte, infatti, l'accento è posto sulla contingenza e sulla libertà delle azioni
umane e degli eventi storici, altre volte invece insiste sulla catena delle cause necessitanti.
Questa duplicità di posizione risponde, in effetti al disegno fondamentale di tutta la
speculazione filosofica e scientifica di Leibniz. Il suo impegno di fondo,infatti, da una
parte, è proteso a fornire un' immagine del mondo come un tutto ordinato, come una
realtà costituita da una infinità di enti in ognuno dei quali è già presente fin dalla sua
creazione il principio esplicativo di tutto ciò che è avvenuto, avviene e avverrà nel mondo
stesso, e, dall'altra, è indirizzato alla rivendicazione della contingenza di questo stesso
mondo, il quale esiste, ma poteva anche non esistere. Un ordine generale esistente nel
mondo è, infatti, uno dei tanti possibili ordini che potevano essere realizzati:
si può dire che, in qualunque maniera Dio avesse creato il mondo,
esso sarebbe stato sempre regolare e conforme a un ordine generale. Ma
Dio ha scelto l'ordine più perfetto, cioè quello che nel medesimo tempo è
piú semplice di ipotesi e piú ricco di fenomeni, come potrebbe essere una
linea geometrica la cui costruzione sarebbe agevole ed avesse proprietà ed
effetti ed una grande estensione, degni della piú grande ammirazione.
(Discorso di Metaf, VI)
La libertà di realizzare un ordine anziché un altro, in tal modo, è rivendicata soltanto a
Dio. Contro Spinoza, Leibniz riprende infatti, il concetto cristiano del Dio persona, fornito
di intelletto e volontà e libero di agire nel modo che ritiene migliore.
SPINOZA E LEIBNIZ
La materia, la forza e la metafisica
Il perfezionamento della logica, allora, non è fine a se stesso, punta, invece, alla sua
applicazione a tutti i campi del sapere. Soprattutto la matematizzazione del discorso logico
deve consentire la giustificazione razionale delle verità morali e metafisiche e piú
specificamente deve confermare in maniera irrefutabile l'esistenza di Dio e l'immortalità
dell'anima. Ma ben presto Leibniz si accorge che la ricerca delle verità metafisiche è
collegata alla ricerca delle verità della fisica. E' a partire dallo studio della realtà naturale
che bisogna rintracciare un elemento spirituale da considerare come principio del
movimento, per poi giustificare " scientificamente " una filosofia dello spirito. Dal 1666 al
1686 Leibniz concentra per ciò i suoi sforzi negli studi di fisica. Non lo soddisfano le
soluzioni offerte dalla scienza del tempo: la concezione cartesiana della materia come pura
estensione gli appare troppo riduttiva, il materialismo meccanicistico di Hobbes è privo di
finalismo, il necessitarismo spino
ziano privo di libertà e di una meta finale, la soluzione occasionalistica debole perché fa
ricorso, per spiegare l'attività dei corpi, ad un Deus ex machina, principio tutt'altro che
filosofico.
I moderni, nello studio dei problemi di fisica, nella loro ansia di rinnovamento, hanno
trascurato quanto di buono era stato affermato dagli antichi, da Aristotele in particolare.
Bisogna allora combinare le conquiste scientifiche dei primi con alcuni principi propugnati
dal secondi. Soprattutto bisogna reintegrare nella loro dignità scientifica il principio
dell'azione della materia in vista di un fine (il finalismo) e quello della presenza nella
materia stessa di una tensione spirituale giustificativa del movimento. Bisogna conciliare
in definitiva, il meccanicismo dei moderni con la fisica aristotelica.
Dopo una breve simpatia per l'atomismo di Gassendi, Leibniz si accorge della
incompatibilità di una dottrina propugnante l'esistenza del vuoto intervallante gli atomi
con il principio della continuità operante in tutti i fenomeni naturali:
Una delle mie grandi massime e delle piú ricche di applicazioni, è
che la natura non fa mai salti (natura non facit saltus): l'ho chiamata legge
della continuità; ... l'uso di questa legge è molto importante nella fisica:
essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e viceversa, attra-
verso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai un movimento nasce
immediatamente dal riposo, né vi giunga se non attraverso un movimento
piú piccolo ... Giudicare altrimenti significa non conoscere a sufficienza
l'immensa sottigliezza delle cose che implica sempre e ovunque un infi-
nito attuale. (Nuovi saggi, Prefaz.)
L'applicazione di questo principio alla realtà materiale ci porta alla conclusione che la
materia è divisibile all'infinito e che, quindi, è impossibile l'esistenza di una realtà ultima
indivisibile e semplice.
Questa materia continua, omogenea, scomponibile all'infinito non può coincidere con la
pura estensione, come voleva Cartesio. La semplice estensione, infatti, non basta a dar
conto di una serie di "qualità" della materia:
certamente non derivano dall'estensione né il movimento o azione,
né la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura che regolano
il movimento e l'urto dei corpi.
(Animadversiones in partem generalem Principiorum cartesianorum
in La Monadologia, a cura di E. Colorni, Firenze 1963, p. 70)
Solo il movimento può giustificare queste "qualità":
se la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme sor-
gano dal movimento .... perché dal movimento deriva la divisione, dalla
divisione il limite delle parti, dai limiti delle parti le loro figure, le forme,
quindi dal movimento derivano le forme. L chiaro da ciò che ogni ten-
denza alla forma è movimento.
(Lettera a Thomasius, ivi, p. 55)
Una volta esclusa l'estensione come essenza della materia, su che cosa agisce il
movimento per avviare il processo generativo delle varie forme? Che cosa segna l'inizio
della materia e dello stesso movimento? Leibniz individua nel punto inesteso l'inizio del
processo da cui si originano il corpo e lo spazio, nell'istante quello da cui si origina il
tempo e nel conatus quello da cui si origina il movimento. Leibniz parte dalla
considerazione che non si può ritenere come inizio l'esteso. Infatti da un segmento esteso
io posso togliere sempre una parte senza mai toccare il suo inizio. E ciò sarà vero finché
rimane segmento, cioè fintanto che avrà un'estensione:
Non si potrà mai, dunque, considerare come inizio ciò a cui si può
togliere qualcosa. Ciò a cui non si può togliere alcuna estensione è ine-
steso; dunque, l'inizio del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del
tempo, (cioè il punto, il conatus, l'istante) o è nullo, il che è assurdo,
oppure è inesteso il che era da dimostrarsi. Il punto non è cio che non ha
parti, e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui esten-
sione è nulla, cioè le cui parti non hanno distanza fra di loro, la cui gran-
dezza non è da considerarsi, è inassegnabile.
(Hyphothesis physica nova, ivi p. 58)
Questo punto inesteso, questo conatus, quando si estende nello spazio dà luogo alla
materia, quando si estende nel tempo dà luogo alla memoria, cioè allo spirito. Corpo e
spirito hanno, allora, la stessa origine, derivano dallo stesso punto privo di estensione.
Ma, pur avendo lo stesso punto di partenza, materia e spirito non sono la stessa realtà:
Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento nel campo
fisico, da me scoperta, che il movimento non può esistere nei corpi presi
per sé, se non vi si aggiunga lo spirito; ... che lo spirito è incorporeo; che lo
spirito agisce su se stesso, che nessuna azione su se stesso può essere movi-
mento, che l'azione del corpo non è se non il movimento, e che quindi lo
spirito non è corpo.
(Lettera al duca di Hannover, ivi, p. 62)
Leibniz in tal modo, pur avendo individuato con un rigoroso discorso di tipo matematico lo
stesso inizio per lo spirito e la mate
ria, ripristina poi il dualismo spirito materia, affidando al primo un ruolo attivo, alla
seconda un ruolo passivo:
Infatti la materia. è di per sé priva di movimento. Principio di ogni
movimento è lo spirito ".
(Lettera a Thomasius, ivi, p. 60)
Negli scritti successivi all'Hypothesys phisica nova, Leibniz identifica lo spirito con la "
forza viva ", con la " forza motrice " capace di produrre movimento e ne calcola l'intensità
moltiplicando la massa per il quadrato della velocità. E' questa forza viva, oggi chiamata
energia cinetica, che rimane costante e non già, come voleva Cartesio, la quantità di
movimento. Nella materia, allora, c'è una forza attiva (vis activa) che ha carattere di
spiritualità:
negli esseri corporei vi è qualche cosa al dì là dell'estensione, anzi
prima dell'estensione: la forza della natura riposta ovunque dall'autore
supremo, la quale non consiste soltanto in una semplice facoltà, come si
contentavano di dire gli scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il
quale avrà il suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario.
Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri sensi, e, a mio avviso, può
essere dimostrato ovunque nella materia, anche là dove non è evidente ai
sensi. Che se questa forza non si deve attribuire a Dio come un miracolo,
bisogna certamente che sia immessa da lui nei corpi, in modo da costi-
tuirne l'intima natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze.
(Specimen dinamicum, ivi, p. 66)
La forza, capace di spiegare tutto il divenire della realtà naturale è posta allora da Dio nei
corpi. Leibniz che aveva criticato gli occisionalisti perché facevano ricorso al Deus ex
machina per spiegare il rapporto spirito materia non fa che spostare all'indietro
l'intervento divino. La metafisica, in tal modo, fonda e spiega la fisica. La cultura tedesca,
cosí carica di teologia, esercita ancora un forte influsso anche su una mente come quella
di Leibniz fortemente disponibile al rigore della scienza. Alle spalle del pensatore scientifico
rigoroso e conseguente, rispunta, infatti, il metafisico:
Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto avviene mecca-
nicamente nella natura e che, per rendere una ragione esatta e compiuta di
qualsiasi fenomeno particolare, bastano le nozioni di figura e di movi-
mento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento sor-
gono a mio parere da alcunché di superiore che dipende piuttosto dalla
metafisica che dalla geometria ... Ritengo pure che il concetto del bene o
della causa finale, per quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa
anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni naturali ... La
vera scienza fisica deve essere tratta dalle sorgenti delle perfezioni divine.
Dio, infatti, è l'ultima ragione delle cose, e la conoscenza di Dio è il princi
pio delle scienze, cosí come la sua essenza e la sua volontà sono i principi
delle cose.
(Principium quoddam generale, ivi, p. 70 72)
SPINOZA E LEIBNIZ
La sostanza individuale, il certo e il necessario
L'analisi fisica ha condotto Leibniz ad individuare, aristotelicamente, la sostanza esistente
di fatto in un "sinolo" di materia e forma, di corpo e spirito. E' questa la sostanza
individuale che, riconsiderata teoreticamente, a partire dal 1695, Leibniz chiamerà
monade. A questa sostanza si possono attribuire parecchi predicati senza che essa possa
fungere mai da predicato per un altro soggetto. Della sostanza individuale Socrate, ad
esempio, si può predicare che fu un gran filosofo. che fu ateniese, che non scrisse nulla,
ed altro ancora, ma mai si potrà dire di un'altra sostanza individuale che sia Socrate.
Socrate, cioè, può essere soggetto di piú predicati, ma non può essere predicato di nessun
altro soggetto all'infuori di se stesso. Tutti i vari predicati attribuibili ad un soggetto
hanno, però, il loro fondamento nella natura stessa del soggetto. Il soggetto, cioè, è la
ragion sufficiente atta a giustificare ogni predicato ad esso attribuibile. Quando il soggetto
non sembra contenere "espressamente" il predicato, vuol dire che lo contiene "
virtualmente ". Ad esempio, di Alessandro Magno i suoi contemporanei potevano predicare
"espressamente" una serie di attributi, ma non potevano sapere, prima di averne fatto
esperienza, quante e quali battaglie avrebbe vinto e di quale morte sarebbe finito. Ma il
fatto che l'uomo non possa immediatamente dalla nozione di Alessandro ricavare tutti i
possibili predicati non significa che questi non ineriscano a quel soggetto:
Bisogna, quindi, che il termine del soggetto racchiuda sempre quello
del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la
nozione del soggetto dovrebbe giudicare che il predicato gli appartiene.
(Discorso di Metaf, VIII)
Se consideriamo il soggetto non piú dal punto di vista umano ma da quello divino
dobbiamo convenire che
Dio, mentre vede la nozione individuale o ecciltà di Alessandro, vi
vede, al tempo stesso, il fondamento e la ragione di tutti i predicati che ad
essa si possono con verità attribuire, come, per esempio, che egli vincerà
Dario e Poro, fino a riconoscervi a priori (e non per esperienza) se egli sia
morto di morte naturale o di veleno, cose che noi non possiamo sapere se
non dalla storia. Cosí quando si considera bene la connessione delle cose,
si può dire che in ogni momento si trovano nell'anima di Alessandro
Magno le tracce di tutto ciò che gli è accaduto ed i segni di tutto ciò che
gli accadrà, nonché le tracce di tutto ciò che accade nell'universo, sebbene
appartenga solo a Dio riconoscerle tutte.
(Discorso di Metaf, VIII)
Si ripresenta in tal modo l'antico problema affrontato da Sant'Agostino tra prescienza
divina e libertà umana. Problema che in Leibniz appare appesantito da una carica
metafisica maggiore, in quanto la sostanza individuale già possiede in se stessa "tracce" e
" segni " di ciò che le è capitato, di ciò che le capiterà, ma anche di ciò che si verificherà
nell'universo. Il necessitarismo ed il determinismo causale degli eventi sembrano ancorati
direttamente alla nozione stessa del soggetto, laddove nei termini in cui poneva il
problema il vescovo di Ippona, il determinismo sembrava evocato soltanto dal fatto che
Dio già in precedenza sapeva ciò che sarebbe accaduto. Leibniz, per salvaguardare
l'immagine di un mondo reale strutturato secondo un ordine che è quello che è, ma che
poteva anche essere diverso, secondo cioè un ordine libero, non necessitato in maniera
assoluta, accentua l'aspetto logico dei concetti di necessità e libertà sostenendo che
necessario è solo ciò il cui contrario implica contraddizione. Poiché il contrario di tutti gli
eventi che hanno caratterizzato la vita di Alessandro non implica alcuna contraddizione
logica, Leibniz conclude che tali eventi non sono necessari ma contingenti, e che la loro
realizzazione è giustificata soltanto dal principio di ragion sufficiente e cioè dal fatto che
quel soggetto, Alessandro, è stato creato da Dio in quel modo pur potendo essere creato
in tanti altri modi. Liberi allora non sembrano essere Alessandro, e neppure gli atti che egli
compie o subisce, ma libero sembra essere soltanto Dio che poteva creare Alessandro
diverso da come l'ha creato. Leibniz si rende conto della difficoltà:
Potrebbe sembrare in tal modo che vada distrutta la differenza tra
verità contingenti e verità necessarie, che la libertà umana non abbia piú
luogo e che una fatalità assoluta regni su tutte le nostre azioni, come su
tutti gli eventi del mondo. A ciò rispondo che bisogna distinguere tra il
certo ed il necessario.
(Discorso di Metaf, XIII)
Certo è ciò il cui contrario è possibile e la cui esistenza è giustificata da una serie di eventi,
ciò che poteva realizzarsi o meno in rapporto alla libera scelta di Dio. Il certo, cioè, ha una
necessità soltanto ipotetica (ex hypothesi), diventa cioè necessario soltanto quando Dio
tra le tante serie di eventi tra cui può scegliere decide di dare esistenza soltanto a quella
serie in cui è contenuto quell'evento. Il necessario, invece, è tale perché il suo contrario è
impossibile e logicamente contraddittono. Ma questa giustificazione sembra valere a
rafforzare la tesi della libertà dell'uomo.
Quest'ultimo, infatti, crede di essere libero soltanto perché non conosce la totalità dei
predicati che ineriscono alla sua "sostanza individuale". Pertanto ogni volta che agisce
crede di aver agito secondo libertà, seguendo una sua libera scelta. Ma se possedesse,
come possiede Dio, la visione completa di tutto ciò che in maniera esplicita, o in maniera
potenziale, è già presente nella sua sostanza, si accorgerebbe che, per quanto
logicamente sia possibile il contrario di quell'evento che sta realizzando, storicamente non
potrebbe diversamente da come agisce. La libertà umana, allora, cosí tenacemente difesa
da Leibniz contro Spinoza, è frutto di una illusione psicologica; è un inganno dovuto al
limiti conoscitivi della mente umana. Tutto il discorso sulla sostanza individuale è condotto
da Leibniz col dichiarato proposito di "distinguere le azioni di Dio e delle creature". E,
riferendosi alle creature, il filosofo aveva fatto riferimento prevalentemente all'individualità
umana. Ma se tutti gli esempi addotti per illustrare il concetto di sostanza individuale
facevano riferimento agli uomini (Alessandro, Cesare), non necessariamente quel concetto
coincideva con quello di uomo.
Nello stesso Discorso di Metafisica, infatti, Leibniz estendeva anche ai corpi fisici il
possesso di una forma sostanziale:
la natura dei corpi non consiste tutta e soltanto nell'estensione, cioè
nella grandezza, nella figura e nel movimento, ma bisogna necessariamente
riconoscervi qualcosa che abbia rapporto con le anime e che comunemente
si chiama forza sostanziale. (Discorso di Metaf, XII)
Anzi, in un passaggio molto chiaro anche se rapido, fugava anche l'impressione che dalla
trattazione della fisica si ricavava circa
i rapporti fra materia e spirito. Mentre in quella sede il discorso sembrava mantenere una
distinzione di piani e sembrava offrire l'immagine di una materia vivificata dallo spirito,
esplicitamente in questa sede viene cancellata questa impressione e la realtà dei corpi e
fatta coincidere esclusivamente con la forza sostanziale:
Si può anche dimostrare che la nozione della grandezza, della figura,
del movimento, non è poi cosí distinta come s'immagina e che racchiude
qualcosa di immaginario e di relativo alle nostre percezioni, come accade
(sebbene in grado maggiore) per il colore, il calore ed altre qualità simili,
delle quali si può dubitare se si trovino realmente nella natura delle cose
fuori di noi. Ed è perciò che le qualità di questo genere non possono costi-
tuire alcuna sostanza. (Discorso di Metaf, XII)
La tradizionale distinzione delle qualità della realtà in primarie (oggettive) e secondarie
(soggettive) è in tal modo completamente superata. La natura vera delle cose non
consiste nel colore, nel sapore, nel calore, ma neppure nella grandezza, nella figura o nel
movimento. Essa risiede soltanto in quel punto inesteso, il conatus, da cui si origina la
doppia serie dei fenomeni materiali e spirituali.
Il principio della divisibilità all'infinito della materia estesa ha condotto a postulare, al di là
dei fenomeni, tanti punti di forza, tante sostanze spirituali. Il mondo fisico risulta cosí
dall'aggregazione di atomi spirituali privi di estensione, dei veri e propri concentrati di
energia.
SPINOZA E LEIBNIZ
La monade, l'anima e lo spirito
Per fornire immediatamente l'immagine dell'unitarietà priva di parti di questi atomi o punti
metafisici, Leibniz li indica con il termine monade, che significa, appunto, unità:
La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza sem-
plice, che entra nei composti; semplice, cioè senza parti.
(Monadologia, 1)
Queste sostanze semplici sono la vera essenza della realtà; ad esse si riconducono, infatti,
i composti che altro non sono che un ammasso, un aggregatum di sostanze semplici.
Ora, laddove non ci sono parti, non c'è estensione, né figura, né divi-
sibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una
parola, gli elementi delle cose.
(Monado1ogia, 3)
Essendo realtà semplici le monadi non sono soggette a dissoluzione, ma neppure possono
avere un'origine naturale. Infatti
è manifesto che le sostanze create dipendono da Dio che le conserva
e che le produce continuamente, per una specie di emanazione, come noi
produciamo i nostri pensieri.
(Discorso di Metaf., XIV)
Cosí Dio soltanto è l'unità primitiva o la sostanza semplice originaria,
della quale tutte le monadi create o derivate sono produzioni e nascono,
per cosí dire, in virtù di fulgurazioni continue della divinità di momento in
momento. (Monado1ogia, 47)
Per la sua semplicità, la monade non può subire alcun processo di modificazione o di
alterazione da parte di realtà ad essa esterne. Il suo contenuto interno non può essere né
accresciuto, né diminuito. Essa è quella che è per tutta la sua esistenza:
Non c'è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alte-
rata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essen-
dovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun
movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o
diminuito, come accade nei composti, nei quali c'è mutamento tra le parti.
Le monadi non hanno finestre attraverso le quali qualcosa possa entrare
od uscire. (Monadologia, 7)
Le monadi non hanno alcuna possibilità di comunicare fra di loro. Ognuna è un mondo a
sé, è una realtà in sé compiuta e definita, con un proprio contenuto interiore diverso da
quello posseduto da ogni altra monade. Ogni monade è uguale, infatti, soltanto a se
stessa e differisce da tutte le altre per le sue qualità:
se le sostanze semplici non differissero per le loro qualità, non vi
sarebbe mezzo per scorgere alcun mutamento nei corpi, perché ciò che è
nel composto non può derivare che dagli elementi semplici, e le monadi,
supposte senza qualità, sarebbero indistinguibili l'una dall'altra, visto che
non differirebbero neppure per quantità ... uno stato di cose sarebbe indi-
scernibile dall'altro. (Monadologia, 8)
Due sostanze semplici, inestese, che non differissero fra di loro neppure per qualità non
sarebbero piú due, ma una, in quanto per il principio degli indiscernibili, non potrebbero
essere distinte l'una dall'altra. Ogni monade nella sua autonomia rappresenta, infatti, tutto
quanto l'universo, ma come in scorcio:
Inoltre, ogni sostanza è come un mondo intero, è come uno specchio
di Dio o di tutto l'universo che essa esprime a suo modo, pressappoco
come una medesima città è rappresentata diversamente a seconda delle dif-
ferenti posizioni in cui si trova colui che la guarda. Cosí l'universo è in
qualche modo moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria
di Dio è similmente moltiplicata dalle tante rappresentazioni, tutte diffe-
renti, della sua opera.
(Discorso di Metaf, IX)
La monade, però, quantunque sia unità semplice, senza parti, ha una sua vita, ha un suo
dinamismo spirituale. Il principio di questo divenire è interno alla monade stessa ed è il
solo a giustificare ogni mutamento, ogni passaggio da uno stato all'altro. La monade,
infatti, a differenza dell'atomo fisico, "è un essere capace di azione". E poiché ogni
mutamento avviene per gradi, cioè qualcosa muta e qualcosa permane,
di conseguenza bisogna che nella sostanza semplice vi sia una plura-
lità di affezioni e di rapporti, benché non vi siano parti.
(Monadologia, 13)
Quando la pluralità di affezioni è in uno stato di equilibrio che, benché passeggero, implica
e rappresenta una molteplicità nell'unità, si realizza quella che Leibniz chiama percezione.
La quale, comportando solo un equilibrio nel rapporto tra le affezioni della monade, non
sempre si accompagna alla coscienza. Essa, infatti, va distinta dalla appercezione, che
rappresenta la coscienza che la monade possiede del proprio contenuto interno. La
mancata distinzione della percezione dalla appercezione e la convinzione che non si
possano dare percezioni senza coscienza ha indotto i cartesiani a credere che ci sia
spiritualità solo dove c'è coscienza. Mentre la distinzione serve a Leibniz per confermare il
suo convincimento che tutta la realtà è un composto di atomi spirituali, di monadi. Ma
nessuna monade conserva sempre lo stesso grado di percezione. Al suo interno vige,
infatti, un principio di azione
che opera il mutamento o il passaggio da una percezione all'altra
e che può essere chiamato appetizione.
(Monadologia, 15)
La monade, essendo una forza viva, non può essere statica; essa esplica la sua vitalità e
la sua spiritualità attraverso una tensione interiore che la porta a realizzare nella propria
intimità una rappresentazione sempre piú alta del proprio contenuto interno. Ed è proprio
il diverso grado di chiarezza interiore che distingue una monade dall'altra e segna una
gerarchia tra di esse. Alcune monadi, infatti, percepiscono senza aver coscienza, vivono in
uno stato di inconsapevolezza simile al sonno o allo stato comatoso; da Leibniz sono
chiamate entelechie. Al di sopra di esse ci sono monadi anime "che hanno percezioni piú
distinte ed accompagnate da memoria". Esse sono proprie degli animali. La memoria
consente a queste monadi di realizzare
una sorta di connessione che imita la ragione, ma che deve esserne
distinta ... Cosí, per esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si
rammentano del dolore che ha causato loro, abbaiano e fuggono.
(Monadologia, 26)
Quando le anime posseggono la coscienza di percepire (l'appercezione) e manifestano la
loro spiritualità come vita intellettiva, allora abbiamo gli spiriti, cioè le anime umane che,
oltre ad essere
specchi viventi od immagini dell'universo delle creature, sono anche
immagini della stessa divinità o dello stesso autore della natura, capaci di
conoscere il sistema dell'universo e di imitarne qualche cosa, per mezzo di
saggi architettonici, ciascuno spirito essendo come una piccola divinità nel
suo dipartimento. (Monadologia, 83)
Il passaggio da uno stato psichico all'altro non è mai improvviso (natura non facit saltus),
di modo che lo stato successivo non è mai staccato da quello precedente:
E come ogni stato presente di una sostanza semplice è naturalmente
la conseguenza del suo stato precedente, cosí il presente è gravido dell'av-
venire. (Monadologia, 22)
Come un movimento non può derivare che da un altro movimento, cosí una percezione
non può derivare che da un'altra percezione. Leibniz in tal modo ha elaborato quella
importantissirna teoria delle piccole percezioni che ancora oggi gli consente di occupare un
posto di rilievo nella storia della psicologia. Contro Cartesio che riteneva che l'anima pensa
soltanto quando ha percezioni chiare, in quanto non c'è percezione senza coscienza del
percepire, Leibniz sostiene, invece, che l'anima pensa sempre, anche quando non si
accorge di pensare. L'anima, infatti, è sempre attiva, ma vi sono in essa delle percezioni
che, per essere o "troppo piccole" o "troppo numerose" o "troppo uniformi", non sono
conosciute. Si tratta cioè di quelle percezioni che la psicologia contemporanea qualifica
come percezioni inconscie, come percezioni che per la debolezza dell'intensità dello
stimolo non raggiungono la "soglia della
coscienza " e pertanto non sono avvertite. Alla luce di questa scoperta Leibniz nei Nuovi
saggi sull'intelletto umano polemizza contro il filosofo inglese John Locke, autore di un
Saggio sull'intelletto umano in cui si sosteneva che nella mente non c'è alcuna nozione
innata, ma ogni conoscenza deriva dall'esterno per mezzo dell'esperienza. L'innatismo
leibniziano, al contrario, come abbiamo già detto, sostiene che in ogni monade già esiste a
priori l'immagine di tutto l'universo, anche se la monade non ne ha coscienza chiara e
distinta.
Alla gerarchia delle monadi corrisponde una gerarchia dei gradi di coscienza: alle piccole
percezioni corrisponde una conoscenza oscura; alla percezione sensoriale una conoscenza
confusa, entrambe qualificabili come conoscenze sensibili ed appartenenti al corpo. Ad
esse seguono nella scala gerarchica una conoscenza chiara e distinta propria
dell'appercezione ed una conoscenza adeguata raggiungibile con la riflessione. Queste
ultime rappresentano la conoscenza razionale.
Ma che cosa conoscono le monadi? Ognuna il proprio contenuto. Ogni monade, lo abbiamo
già detto, possiede fin dalla nascita una particolare rappresentazione di tutto l'universo. Lo
sforzo conoscitivo non è, dunque, proteso all'esterno, alla conoscenza di una realtà
estranea alla monade, ma all'intemo. Esso consiste, infatti, nel rendere chiaro quel
contenuto interiore presente in ognuna di esse.
Il cosiddetto mondo materiale, il mondo esterno, a che cosa si riduce, allora? Che cosa è
la materia? La materia, risponde Leibniz, è un "aggregato" di sostanze semplici, è "un
insieme, come un gregge ":
I corpi non possono essere sostanze propriamente dette, poiché sono
sempre solamente delle unioni, risultati di sostanze semplici o vere
monadi, le quali non sono estese e perciò non sono veri corpi. Onde i
corpi presuppongono sostanze immateriali.
(Lettera a Lady Mesham, in La Monadologia, cit pag. 111)
La materia in quanto tale non esiste, è una rappresentazione soggettiva, è fenomeno, cioè
pura apparenza. Ciò che è reale in essa sono le sostanze semplici, immateriali che la
costituiscono:
Non vi sono se non atomi di sostanza, cioè le unità reali assoluta-
mente prive di parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi
assoluti della composizione delle cose, e come gli ultimi elementi dell'ana
lisi delle cose sostanziali.
(Nuovo sistema della natura, 11)
Se, infatti, in forza del principio di divisibilità all'infinito della materia estesa, procediamo
ad una continua scomposizione di una realtà complessa nei suoi componenti semplici,
arriveremo alla fine a punti metafisici, alle monadi, la cui realtà consiste, appunto nella
forza e non nella estensione. In ogni monade, infatti, c'è un fondo più o meno oscuro ed
indistinto. Nelle monadi che mancano di appercezioni, cioè di coscienza, questo contenuto
indistinto ed oscuro si manifesta come resistenza e forza d'inerzia, come pura passività,
ed è questo contenuto ciò che Leibniz chiama materia prima e distingue dalla materia
seconda che
è un aggregato o composto di varie sostanze, come un gregge è com posto di vari animali.
(Lettera a Burnett, in La monadologia, cit pag. 114).
Una roccia, un pezzo di legno sono il prodotto dell'aggregazione di monadi mancanti di
appercezioni. Anche il corpo degli esseri viventi, compreso quello degli uomini, è materia
seconda, è cioè un composto di monadi che ha però come principio unificante un'altra
monade. Quando questo principio unificante è un'entelechia l'aggregato sarà un essere
vivente, un albero ad esempio, quando invece è un'anima sarà un animale, quando è uno
spirito sarà un uomo. La distinzione tra monade dominante agente (quale principio
unificante di un composto) ed il composto in quanto tale ripropone l'antico problema dei
rapporti tra anima e corpo. Leibniz, rifiutata la dottrina cartesiana dell'influsso reciproco
tra anima e corpo definendola "ipotesi volgare" e "inintellegibile", rifiutata altresí la
soluzione occasionalistica perché "poco filosofica", avanza la sua ipotesi:
Fin dal principio Dio formò l'anima ed il corpo con tale sapienza e
con tale accorgimento che in virtú della stessa costituzione o nozione origi-
naria di ciascuno, tutti gli eventi che si formano nell'una corrispondono in
modo perfetto a tutti gli eventi che accadono nell'altro, proprio come se
passassero dall'una all'altro: il che è quello che io chiamo ipotesi della con-
comitanza. Ipotesi che è vera per tutte le sostanze come nell'anima e nel
corpo. (Verità prime)
Ogni contenuto dell'anima scaturisce dunque:
dal suo proprio fondo, con una perfetta spontaneità rispetto a se stessa,
e nondimeno in conformità perfetta con tutte le cose esterne.
(Nuovo sistema della natura, 14).
Anima,e corpo sono come due orologi regolati all'atto della loro costruzione in modo da
segnare le stesse ore contemporaneamente senza che l'uno influisca sull'altro. La stessa
corrispondenza si verifica tra tutte le monadi grazie all'armonia prestabilita da Dio
nell'universo all'atto della creazione.
SPINOZA E LEIBNIZ
Dio, l'ordine e l'armonia del mondo
All'apice della gerarchia delle monadi si trova la monade la cui perfezione è assoluta, e la
cui consapevolezza è totale: Dio, ovvero la causa prima ed il fine ultimo di tutta la realtà:
L'Uno che domina l'universo, non solo regge il mondo, ma lo fab-
brica e fa; è al di sopra del mondo e, per cosí dire, extramondano ed è
inoltre la ragione ultima delle cose.
(Sull'origine radicale delle cose)
A piú riprese Leibniz tenta una dimostrazione razionale dell'esistenza di Dio, utilizzando
con qualche lieve modifica le prove tradizionali della teologia scolastica. La prima prova
parte dalla considerazione che il mondo contingente esige una realtà necessaria da cui
prendere origine: questa realtà è Dio. La volontà di Dio, infatti, tra i tanti mondi possibili
che l'intelletto divino concepisce, trae all'esistenza uno solo:
Dalla necessità fisica o ipotetica, che determina le cose del mondo in
modo che le successive derivino dalle precedenti, bisogna arrivare a qual-
cosa che sia di necessità assoluta e metafisica, di cui non si possa render
ragione... Pertanto, poiché la radice ultima dev'essere in alcunché che sia di
necessità metafisica, è necessario che esista un Ente unico, di necessità
metafisica, la cui essenza implichi l'esistenza.
(Sull'origine radicale delle cose)
La seconda prova è quella del processo di causazione: se risaliamo di causa in causa, per
spiegare la realtà delle cose dobbiamo fermarci poi ad una causa prima incausata, cioè a
Dio. La terza prova è una rielaborazione della prova ontologica cosí com'era stata
presentata da Cartesio. Il filosofo francese aveva sostenuto che una volta pensato l'essere
perfettissimo, a questo non si poteva negare l'esistenza senza negarne la perfezione
stessa: un essere perfettissimo non può mancare di nessun attributo, tanto meno di quello
dell'esistenza. Leibniz ritiene che la derivazione dell'esistenza dal concetto di essere
perfettissimo è "logicamente" corretta soltanto dopo aver provato che quel concetto è
"logicamente prìvo di contraddizioni"; poiché niente contraddice alla possibile esistenza di
Dio, Dio esiste.
La quarta prova si avvale del concetto dell'armonia prestabilita: l'armonia fra le infinite
monadi dell'universo rimanda a Dio come all'autore di quell'armonia e lo presuppone.
Leibniz, come si vede nella dimostrazione dell'esistenza di Dio non si stacca, se non
marginalmente, dal filone aristotelico tomistico.
Píú originale sembra la motivazione fornita per giustificare l'esistenza di fatto di questo
mondo con tutti i suoi limiti e le sue imperfezioni. Dio, tra i tanti infiniti mondi che poteva
realizzare, ha portato all'esistenza questo mondo perché esso è il " migliore dei mondi
possibili ":
Poiché nelle idee di Dio c'è un'infinità di universi possibili mentre
non può esisterne che uno solo, bisogna che ci sia una ragione sufficiente
della scelta di Dio, la quale lo determini all'uno piuttosto che all'altro. E
questa ragione non può trovarsi che nella convenienza o nei gradi di perfe-
zione che questi mondi contengono... Ciò è la causa dell'esistenza del
meglio che la Saggezza fa conoscere a Dio, che la sua Bontà gli fa scegliere,
e la sua Potenza gli fa produrre. (Monadologia, 53, 54, 55)
In questo mondo tutto è inserito in un ordine che non conosce deroghe, né salti:
E' bene riflettere che Dio non fa nulla fuori dell'ordine. Cosí, ciò che
sembra straordinario lo è solo in relazione a qualche ordine particolare sta-
bilito per le creature. Poiché, quanto all'ordine universale, tutto vi è con-
forme... Ora, poiché nulla può accadere che non rientri nell'ordine, si può
dire che anche i miracoli rientrano nell'ordine, come tutte le operazioni
naturali. (Discorso di Metaf., VI, VII)
Anche il male, che si presenta a prima vista come un difetto, trova la sua giustificazione
nell'ordine generale dell'universo. Premesso che la radice del male è nel nulla, cioè nella
privazione o limitazione
delle creature.
(Discorso di Metaf, XXX)
Leibniz conclude:
bisogna che questo male si ricompensi ad usura nell'universo, che
Dio ne tirerà un bene piú grande e che insomma si troverà che questa
sequenza di cose, nella quale è compresa l'esistenza del peccatore, è la piú
perfetta fra tutte le altre possibili.
(Discorso di Metaf, XXX)
L'accettazione della concezione del Dio persona, la postulazione di un mondo costituito
esclusivamente da sostanze spirituali, l'ottimismo metafisico, non bastano però a provare,
contro il determinismo, l'esistenza della libertà nell'universo e nell'uomo. L'universo non
può essere che questo, essendo il migliore possibile, e l'uomo, ogni singolo uomo, porta in
sé fin dalla sua creazione la ragione sufficiente che lo fa essere qual' è e gli impedisce di
essere diverso. La libertà, in definitiva, giustificata su un astratto piano logico e
metafisico, sembra confutata e negata sul piano esistenziale.
La fisica spiritualistica di Leibniz è, in ultima analisi, soggetta alle stesse regole della fisica
materialistica:
Da tutto ciò si comprende in modo meraviglioso come nella stessa
origine delle cose, si eserciti una certa matematica divina o meccanismo
metafisico e si verifichi la determinazione del massimo... Con ciò una neces-
sità fisica si ha da una necessità metafisica: infatti, sebbene il mondo non
sia metafisicamente necessario, in modo che il contrario implichi contrad-
dizione o assurdità logica, esso è tuttavia necessario o determinato, in modo
che il contrario implica imperfezione o assurdità morale.
(Sull'origine radicale delle cose)
Fisica e filosofia in Inghilterra alla fine del XVII secolo
Chimica, biologia e fisiologia
Dal Rinascimento in poi cultura filosofica e cultura scientifica procedono appaiate
scambiandosi idee, intuizioni, conferme e soprattutto principi metodologici. Il filosofo e lo
scienziato, pur operando su piani diversi, si trovano ad affrontare difficoltà analoghe.
Questa stretta compresenza di scienza e filosofia si realizza in non pochi casi, nella stessa
persona, come ad esempio in Galilei, Keplero, Cartesio. Ma a partire dalla seconda metà
del `600 la connessione tra filosofia e scienze esatte pare vada allentandosi. Scienziati
come Boyle o Newton puntano a sottrarre il metodo sperimentale dagli influssi dei
procedimenti filosofici generali e da ogni suggestione di tipo metafisico. Contro
l'astrattezza di certe ipotesi poco fondate scientificamente, essi rivalutano l'esperienza. Ma
per esperienza non intendono piú la vaga osservazione sensibile, o la semplice
sistemazione dei fatti osservati, ma la misurazione matematica di fenomeni attraverso
l'utilizzo di principi generali atti ad inserire i fenomeni particolari in un quadro unitario
significativo.
Emblematica sembra a tale proposito la polemica condotta da uno scienziato inglese
membro della prestigiosa Royal Society, JOSEPH GLANVILL (1636-1680), il quale nel
1665, nella sua opera Scepsi scientifica prende posizione contro un certo tipo di filosofia:
Un corso di filosofia non è a mio avviso che una pazzia in folio, e il
suo studio è un semplice perditempo faticoso. Su questo terreno le cose
vengono sminuzzate in atomi concettuali e la loro sostanza si volatilizza in
etere della fantasia. L'intelletto che può vivere in questa atmosfera è un
camaleonte, un pallone gonfiato.
(Scepsi scientifica)
Alla filosofia Glanvill contrappone il metodo sperimentale, capace di produrre un progresso
senza limiti:
Se tale metodo procederà allo stesso ritmo con cui ha iniziato la sua
strada, riempirà il mondo di meraviglia. Non ho alcun dubbio che per la
posterità molte cose, le quali si risolvono ora in semplici dicerie, si trasfor-
meranno in realtà pratiche, come non dubito che tra poche generazioni un
viaggio sulla Luna non sarà piú straordinario che non oggi un viaggio in
Amenca.
(ivi).
Tra la folta schiera di scienziati impegnati nell'utilizzo di procedimenti empiristici e
matematici vanno ricordati alcuni nomi famosi prima di puntare l'attenzione su Isacco
Newton, il piú illustre scienziato di questo periodo.
JOHN WALLIS fu il primo divulgatore della geometria cartesiana in Inghilterra. Esercitò
una forte influenza su Newton soprattutto per il procedimento del calcolo infinitesimale.
Particolarmente significativi sono i suoi contributi allo sviluppo dell'analisi matematica.
La chimica moderna deve non poco all'opera di ROBERTO BOYLE (1627-1691), celebre
soprattutto per la legge relativa al rapporto tra la densità e la pressione di un gas: " Il
volume di un gas è inversamente proporzionale alla pressione cui è sottoposto". Nel
Chimico scettico, Boyle si impegnò ad eliminare ogni forma di dogmatismo dai
procedimenti scientifici attraverso un prudente scettismo nelle conclusioni,
particolarmente in quelle affrettate, e attraverso uno sperimentalismo utilizzante "ipotesi
ragionevoli". Con un siffatto metodo riscattò la chimica da tutte le ipotesi fantastiche
dell'alchimia e dell'occultismo. Respingendo la teoria empedoclea ed aristotelica dei
quattro elementi e quella dei "principi" paracelsiani (zolfo, mercurio e sale), precisò i
concetti di elemento, miscuglio e composto. Accettò da Gassendi l'ipotesi della struttura
corpuscolare della materia. Come la maggior parte degli scienziati della sua epoca, Boyle è
però fermamente convinto che ogni certezza scientifica trovi la sua giustificazione, oltre
che nei procedimenti osservativi e matematizzanti, nella fede. La precisione
dell'universomacchina, infatti, richiede l'intervento divino per la sua creazione e per la sua
conservazione.
La biologia e la fisiologia, grazie alla scoperta del microscopio, conoscono uno sviluppo
rilevante. I fisiologi si divisero in due schiere: i sostenitori dell'epigenesi e quelli della
preformazione. I primi, con Harvey, sostenevano che la generazione di un nuovo essere
vivente fosse opera di un essere che, pur avendo la possibilità di produrre la "forma" della
nuova esistenza, non la possiede tuttavia in atto. I secondi, invece, sostenevano che già
nei germi da cui si sviluppano gli esseri viventi esistono le "forme" in atto. Tra questi
ultimi vanno segnalati MARCELLO MALPIGHI (1628-1694) e ANTONIO
VAN LEEUWENHOEK (1632-1723), celebre per la scoperta degli spermatozoi. Un diretto
predecessore di Newton nella intuizione della legge di attrazione tra le particelle
dell'universo fu ROBERTO HOOKE, professore di geometria e segretario della Royal
Society. Hooke polemizzò con Newton a proposito della teoria del calore, il cui formarsi
egli spiegava unificando i concetti di materia e di movimento in quello di "vibrazione dei
corpuscoli". Ma il genio scientifico che lasciò una forte orma nella storia della fisica e della
astronomia fu Isacco Newton.
FISICA E FILOSOFIA IN INGHILTERRA ALLA FINE DEL XVII SECOLO
Isacco Newton: le quattro regole del metodo
Nato a Woolsthorpe nel 1642 da una famiglia di non floride condizioni economiche, Isacco
Newton riuscí a completare gli studi grazie soltanto alla sua passione. Si impose ben
presto all'attenzione degli scienziati e delle autorità politiche in virtú delle sue ricerche. A
23 anni scrive il suo primo articolo sul calcolo infinitesimale; a 26 anni ha la prima
intuizione della gravitazione universale. Ma l'opera che lo fece conoscere ed apprezzare fu
i Principi matematici della filosofia naturale apparsa nel 1687. Due anni dopo rappresentò
l'Università nel parlamento inglese, nel 1699 fu nominato direttore della Zecca di Londra e
dal 1703 fino alla morte occupò la prestigiosa carica di presidente della Royal Society. Nel
1704 pubblicò l'Ottica e nel 1722 l'Aritmetica Universale. Morì nel 1727 e fu sepolto
nell'Abbazia di Westminster accanto ai sovrani inglesi.
Il nostro interesse per Newton, dal punto di vista filosofico, si appunta soprattutto sul
metodo elaborato dal grande scienziato. La scienza moderna da Galilei in poi viveva il
grande dramma della faticosa emancipazione dalle "verità" religiose e del disimpegno dei
procedimenti della ricerca da ogni ipotesi metafisica. Newton imbocca senza alcuna
esitazione la via tracciata dal grande pisano e, benché avesse una forte fede religiosa, con
il suo metodo e con la sua opera segna chiaramente la linea di demarcazione tra ricerca
scientifica e meditazione metafisica. La sua polemica si appunta non solo contro Aristotele
e gli aristotelici che facevano ricorso a concetti metafisici come le forme, l'atto puro, il
motore immobile dell'universo e cosí via, o contro le intuizioni "animistiche" dei
rinascimentali, ma anche contro ogni filosofia della natura aspirante a costruire un sapere
compiuto e sistematizzato partendo da intuizioni a-priori. L'obiettivo polemico contro cui si
scaglia particolarmente Newton è la fisica teorica aprioristica di Cartesio.
Contro il deduzionismo analitico lo scienziato elabora un metodo induttivo poggiato su
poche e semplici regole presentate come strumenti che il fisico deve tener presente in
ogni momento della sua ricerca:
Regola I: Delle cose naturali non devono essere ammesse cause piú
numerose di quelle che sono vere e che bastino a spiegare le loro appa-
renze... La natura, infatti, è semplice e non abbonda di cause superflue
delle cose. Regola II: Quindi, finché può essere fatto, effetti analoghi
vanno riferiti alla stessa causa. Regola III: Le qualità dei corpi che non
sono suscettibili né di aumento né di diminuzione, e quelle che apparten-
gono a tutti i corpi sui quali si possono fare esperimenti, devono essere
tenute qualità di tutti i corpi... Regola IV: Nella filosofia sperimentale, le
proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni, nonostante le ipotesi
contrarie, devono essere ritenute vere, o rigorosamente o con un alto grado
di approssimazione, finché non compariranno altri fenomeni mediante i
quali o sono rese piú rigorose o vengono sottoposte ad eccezione.
(Principi matematici, III)
La prima regola è l'applicazione del principio conosciuto come il "rasoio di Ockham", in
virtú del quale bisogna cercare le sole cause indispensabili per la spiegazione dei
fenomeni. La seconda è la ripresa di una norma generale seguita anche da Bacone, ma
con una sostanziale differenza; mentre in quest'ultimo la "causa" è una qualità, in Newton
la "causa", come gli effetti deve essere ricondotta a quantità misurabili matematicamente.
La terza regola è quella che consente di formulare la legge generale della gravitazione
universale. Infatti:
Se si costatasse universalmente, mediante esperimenti ed osservazioni
astronomiche, che tutti i corpi che girano intorno alla terra gravitano verso
la terra, e ciò in relazione alla propria quantità di materia, che la luna gra-
vita verso la terra e a sua volta il nostro mare gravita verso la luna, e che
tutti i pianeti gravitano vicendevolmente l'uno verso l'altro, e che simile è
la gravità delle comete verso il sole, allora, per questa regola (la III) si dovrà
dire che tutti i corpi gravitano vicendevolmente l'uno verso l'altro.
La quarta regola è formulata per salvaguardare il principio di induzione da ogni possibile
incursione da parte delle ipotesi metafisiche o puramente razionali. La scienza, infatti, non
deve esorbitare dal compito che le è proprio. Essa deve tentare la descrizione dei
fenomeni naturali e non la spiegazione della natura, come voleva la fisica speculativa di
tipo aristotelico-scolastica. Newton si rifiuta di cercare l'ipotesi esplicativa anche della
gravitazione universale che
pure aveva teorizzato e spiegato. La teoria della gravità, lungi dall'essere un'ipotesi
metafisica esaustiva di ogni ricerca, è nient'altro che una formula che mette in grado di
descrivere matematicamente una serie di fenomeni osservati. Andare al di là della
descrizione dei fenomeni per cercarne la causa o per formulare un'ipotesi sulla loro natura
metafisica, significa travalicare i limiti propri della scienza fisica. E' questo il senso della
famosissima frase assunta quasi come manifesto della metodologia newtoniana,
Hypotheses non fingo. Giunto, infatti, alla fine del terzo libro dei Principi matematici senza
poter dare la spiegazione della causa della gravità, Newton afferma:
In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione
di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi . Qualunque cosa,
infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia
sperimentale non trovano posto sia le ipotesi metafisiche, sia fisiche, sia
delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proporzioni ven-
gono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal
modo divennero note l'impenetrabilità, la mobilità e l'impulso dei corpi, le
leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità non esista di fatto
e agisca secondo le leggi da noi esposte, e basti a spiegare tutti i movimenti
dei corpi celesti e dei nostro mare.
(Principi matematici, III, Scolio )
Una cosí rigorosa formulazione del metodo sperimentale induttivo non elimina però dalla
fisica newtoniana qualsiasi principio assoluto. Proprio all'inizio dei Principi matematici, alle
otto definizioni nelle quali sono enunciati concetti importanti come quello di massa, di
forza o di moto, Newton fa seguire il celebre scolio sullo spazio e sul tempo, in cui, in
aggiunta ad uno spazio e ad un tempo relativi, intesi come misure sensibili, della posizione
dei corpi il primo, della durata il secondo, vengono introdotti i concetti di spazio e di
tempo assoluti:
Il tempo assoluto, vero, matematico, in sé e per sua natura senza rela-
zione ad alcunché di esterno, scorre uniformemente e con altro nome è
chiamato durata; quello relativo, apparente e volgare, è una misura sensi-
bile ed esterna della durata per mezzo del moto... Lo spazio assoluto, per
sua natura senza relazione ad alcunché d'esterno, rimane sempre uguale ed
immobile; lo spazio relativo è una dimensione mobile o misura dello spa-
zio assoluto, che i nostri sensi definiscono in relazione alla sua posizione
rispetto ai corpi.
(Principi matematici, Definizioni, scolio)
Un altro motivo di ambiguità è riscontrabile nel concetto di "forza" Se è vero infatti che a
Newton può essere ascritto il merito di aver risolto i problemi fisici dell'astronomia
copernicano-kepleriana, estendendo a tutto l'universo la legge di gravitazione, è vero
anche che il concetto di "forza" con tutte le sue specifiche (d'inerzia, di gravità, centripeta,
centrifuga), non è adeguatamente spiegato e dà l'impressione che con esso nel sistema
fisico s'insinui un elemento di origine non matematico. Lo stesso Newton sente il bisogno,
infatti di precisare che le "forze" di cui parla non sono altro che "finzioni" matematiche utili
nella spiegazione di fenomeni e non " virtú qualitative " intrinseche ai corpi. Cosí, ancora,
mentre nella meccanica razionale e nell'ottica Newton respinge la concezione cartesiano-
huygensiana dell'etere, nella cosmologia sembra accettarla; di piú, l'ipotesi dell'etere,
quale elemento reale avente la capacità di rallentare il moto dei pianeti fino a farlo
arrestare, impone il ricorso a Dio come all'"orologiaio" capace di ridare impulso ai pianeti.
Contro il rigoroso divieto metodologico espresso dall'Hypothesis non fingo, Newton
introduce i concetti di spazio " puro " e di tempo "puro". Concetti che mai si conciliano con
l'esplicita norma di non oltrepassare la semplice descrizione dei fatti, e l'esperienza non ci
fornisce mai una visione di spazio o di tempo " puro ". Contro di lui Leibniz poteva
sostenere che spazio e tempo si risolvono in semplici rapporti di coesistenza e successione
tra i fenomeni.
Le ambiguità che abbiamo segnalato nella posizione di Newton in fondo, sono la
conseguenza di una convinzione profondamente radicata nello scienziato. Il suo scopo,
infatti, non è quello di abolire la metafisica in nome della scienza, ma soltanto quello di
segnare dei confini tra l'una e l'altra. Scienza e metafisica hanno due procedimenti
metodologici distinti, ciascuno con la propria autonomia. Ma la distinzione e l'autonomia
non vanno lette come differenza ed estraneità tra le due sfere, perché anzi scienza e
religione si presentano intrecciate fino al punto che l'una è di ausilio all'altra. Di piú: egli
crede che l'assolutezza di Dio sia l'assolutezza stessa della natura, che i disegni divini
coincidano con le leggi della natura.
In tal modo lo scienziato recupera una religiosità che sembra avvicinarsi alla
rinascimentale religio naturalis, ad una forma di religione naturale e razionalizzata da cui
si svilupperà il fenomeno del deismo, cioè di una religione senza misteri.
Uno spirito liberaleggiante
Un fortunato schema storiografico, rispondente a comode classificazioni didattiche ed
avente nel modello hegeliano della storia della filosofia moderna il principio ispiratore,
solitamente classifica come "empiristi" i filosofi inglesi che elaborano le loro teorie a
cavallo tra il '600 e il '700? Anzi, fa di piú. Cerca le matrici culturali di queste dottrine nella
cosiddetta "tradizione empiristica" che, come un'etichetta, segnerebbe la caratteristica
peculiare di tutti i pensatori inglesi. Le teorie di Locke, di Berkeley e di Hume, di cui ci
occupiamo in questo e nel prossimo capitolo, si presenterebbero, allora, come la ripresa,
anche se in chiave di maggiore consapevolezza critica, della antica tradizione empiristica
che, dai francescani di Oxford arriva a Francesco Bacone e ad Hobbes. L'obbiettivo
polemico piú immediato e diretto, contro il quale l'"empirismo" eserciterebbe la sua critica,
è rappresentato dalla carica metafisica che appesantisce ancora le analisi dei filosofi
"razionalisti" dell'Europa continentale. "Empirismo" e "razionalismo" vengono cosí
presentati come contrapposte categorie interpretative della storia delle idee.
Da una parte filosofi fortemente decisi a rivendicare il primato dei sensi nell'acquisizione
degli elementi primi del processo conoscitivo, dall'altra filosofi sostenitori tenaci e convinti
della dottrina secondo cui il sapere è già implicitamente presente (è innato) nella mente
dell'uomo. Alla ragione, per mezzo di procedimenti matematici, spetta il compito di
analizzare e rendere esplicito quanto è già contenuto a priori nella mente. Dunque, due
indirizzi di pensiero contrapposti ed antitetici che da Kant alla fine del XVIII secolo,
"purgati" ognuno dei suoi aspetti negativi, sarebbero stati utilizzati per la elaborazione di
una nuova filosofia, quella kantiana appunto, capace di risolvere le difficoltà che,
isolatamente, le due correnti di pensiero non riuscivano a superare.
Un tale schema interpretativo, per quanto ancora utilizzato da alcuni storici, non sembra
piú adeguato a rendere ragione dei fatti: non pochi filosofi etichettati come razionalisti,
infatti, hanno utilizzato principi e procedure propri degli empiristi e viceversa. Ogni
incasellamento in questa o in quella categoria storiografica si rivela, ad una analisi piú
attenta, una forzatura o addirittura una violenza esercitata sul pensiero complessivo di un
autore. Classificare Hobbes tra gli empiristi, per fare un solo esempio, è possibile solo a
condizione di valorizzare enormemente il suo richiamo, che pure c'è e deve essere
riconosciuto, al mondo esterno e all'esperienza come fonte di conoscenza, a scapito,
invece, di tutti gli altri aspetti del suo pensiero, come la riduzione della logica ad
operazioni su tomi arbitrariamente imposti dagli uomini alle idee o, ancora, la verità come
concordanza interna al discorso e non come adeguatio rei et intellectus; o, infine, tutto il
rigoroso procedimento deduttivo utilizzato dal filosofo inglese nel campo della morale e
della politica, con il fine dichiarato di battere il " sapere verbifico ", quel sapere, cioè, non
costruito con rigoroso metodo matematico.
Lo schema degli indirizzi filosofici antitetici, inoltre, insistendo sul motivo della
contrapposizione rischia di operare una riduzione della oggettiva ricchezza tematica
presente nei diversi autori. Cartesio e Leibniz, come abbiamo visto, non sono soltanto i
teorici dell'innatismo e Locke, come vedremo, non è soltanto il teorico empirica delle
nostre conoscenze.
Come pure l'impegno a liberare la ragione da ogni pregiudizio e da ogni residuo dogmatico
per utilizzarla quale strumento critico per l'analisi dei valori sociali, morali e politici
avvicina gli empiristi agli illuministi, loro contemporanei, sostenitori della "razionalità" ed
esaltatori della "dea ragione". Locke, Berkeley e Hume inoltre, non scrivono le loro opere
con l'esclusivo proposito di risolvere i problemi sorti intorno alle metodologie conoscitive.
Possiamo anzi affermare che il problema della conoscenza si presenta loro come il motivo
strumentale capace di contribuire alla soluzione di altri problemi. Locke non fa mistero che
l'analisi intorno alla certezza e all'estensione della conoscenza si è resa necessaria per
poter procedere con spigliatezza e rigore maggiori nell'esame di problemi di tutt'altra
natura, inerenti alla religione e alla politica. Il vescovo Berkeley giunge alla critica della
sostanza materiale avendo di mira una finalità squisitamente religiosa: la polemica contro
l'ateismo che si andava diffondendo tra gli intellettuali inglesi del tempo.
Hume, a sua volta, accentuando le premesse empiristiche della conoscenza, consuma fin
in fondo la fiducia nella ragione scientifica ed evidenzia la matrice istintiva e sentimentale
della nostra vita morale e delle nostre "certezze" intellettuali.
L'etichetta "empirista" usata per questi pensatori, si rivela, forse, utile per distinguerli dai
pensatori "razionalisti" (Cartesio, Spinoza, Leibniz) operanti nell'Europa continentale, ma
non denota precisamente né esaurisce la pregnanza e l'ampiezza del loro orizzonte di
ricerca.
John Locke nacque a Wrigton, una cittadina nei pressi di Bristol, nel 1632. Dal padre
avvocato di cultura liberale, che aveva partecipato alla prima rivoluzione inglese
difendendo i diritti del Parlamento contro il re, Locke ereditò lo spirito illuministico e la
tendenza politica borghese e moderatamente progressista. Dopo i primi studi alla scuola di
Westminster può iscriversi ad Oxford, dove regnava uno spirito liberaleggiante. La
restaurazione monarchica ed il ripristino della supremazia della chiesa episcopale
allontanano definitivamente Locke dall'idea di seguire la camera ecclesiastica. Si dedica
agli studi umanistici e scientifici, in particolare di chimica e di medicina. Conseguito il
dottorato, lavora presso la stessa Università e pubblica le sue prime opere: Trattati sul
magistrato (1662), Saggi sulla legge naturale (1664). Continua i suoi studi di medicina e,
sebbene non consegua il titolo di dottore in medicina, acquista grande esperienza come
medico. In tale qualità conobbe Lord Ashley, divenuto poi conte di Shaftesbury. Pare,
infatti, che gli abbia salvato la vita con un ardito intervento chirurgico. Lord Ashley lo
invitò a vivere presso di sé come medico e precettore dei figli e quando divenne Lord
Cancelliere come segretario e consigliere. Da questa amicizia Locke trasse non solo
vantaggi politici, ma anche una conferma del proprio orientamento ideologico. Nel 1667
scrive il Saggio sulla tolleranza e due anni dopo La costituzione fondamentale del governo
della Carolina. Caduto lo Shaftesbury in disgrazia presso il re Carlo Il, Locke è costretto ad
abbandonare le cariche politiche e nel 1675 si trasferisce in Francia dove soggiorna dal
1675 al 1679. Ritorna a Londra richiamato dal suo protettore, ritornato nelle grazie del re.
Si lega sempre piú agli ambienti liberali dei Whigs e pubblica una Difesa del non
conformismo. Quando lo Shaftesbury, ricaduto in disgrazia e accusato di aver ordito una
congiura contro il sovrano, scappò in Olanda, Locke rimase ad Oxford in un clima di
grande ostilità. Nel 1683, subito dopo la morte dello Shaftesbury, lascia l'Inghilterra e si
stabilisce ad Amsterdam. Giacomo Il, succeduto al fratello Carlo sul trono, gli concede il
perdono. Ma Locke lo rifiuta perché accettare il perdono significa riconoscersi
implicitamente colpevole. Nel 1687 entra in rapporto con Guglielmo d'Orange e con sua
moglie Maria e diventa sostenitore della rivendicazione di questi principi al trono
d'Inghilterra. Dopo la seconda rivoluzione inglese (1688) che acclamò Guglielmo re
d'Inghilterra, Locke ritornò in patria circondato da grande stima e salutato come il teorico
piú acuto e coerente della rivoluzione vittoriosa. Rifiutò tutti gli incarichi politici per
dedicarsi agli studi. Nello stesso anno 1689 traduce in francese ed in olandese la Lettera
sulla tolleranza, già pubblicata in Olanda. L'anno successivo pubblica i Due trattati sul
governo civile e la sua opera piú famosa, il Saggio sull'intelligenza umana alla cui stesura
lavorava già da anni. Risponde ai critici delle sue idee sulla tolleranza con una Seconda
lettera sulla tolleranza. Nonostante la malferma salute, pubblica una Terza lettera sulla
tolleranza (1692), i pensieri sull'educazione (1693), La ragionevolezza del Cristianesimo
(1695), ripubblica piú volte il Saggio sull'intelligenza umana. Negli ultimi anni nutre
prevalentemente interesse per i problemi religiosi, scrive la Parafrasi e note sulle epistole
di S. Paolo e un Discorso sui miracoli con l'intento di restaurare la purezza del
cristianesimo delle origini evangeliche, libero dai dogmi, dalle sottigliezze della scolastica,
dalle divisioni delle sette. Muore il 18 ottobre del 1704.
Finitezza, strumentalità e praticità della ragione
problemi che si erano affacciati alla mente di Locke fin dai primi anni della sua attività di
studioso erano problemi di natura etico-politica. La redazione dei Trattati sul magistrato e
i Saggi sulla naturale sono datati, infatti, negli anni tra il 1660 e il 1664. Come pure le sue
esperienze di questo periodo sono tutte di natura politica. Anche l'esigenza da cui prende
l'avvio l'analisi dei pro blemi conoscitivi, sfociata poi nel Saggio sull'intelligenza umana, è
un'esigenza di tipo politico-religioso. Locke ben presto si convince della impossibilità di
procedere nella ricerca intorno a tematiche relative al potere politico, ai diritti e ai doveri
dei cittadini, ai rapporti tra questi ultimi e le istituzioni civili e religiose, se prima non si sia
proceduto ad una accurata verifica intorno alle origini, alla certezza ed alla estensione
della conoscenza umana. Le analisi intorno al processo conoscitivo, dunque, sebbene
abbiano reso celebre il loro autore, avevano nell'intenzione di Locke un valore strumentale
rispetto al fine etico-politico. Ed inoltre il Saggio non rappresenta affatto l'acquisizione di
principi teorici nuovi capaci di imprimere una svolta significativa nel modo di pensare e nei
contenuti da trattare. Il Saggio, infatti, riprende, approfondisce ed amplia le analisi sulla
natura della ragione umana che Locke aveva già bozzato in opere precedenti, in modo
particolare nei Saggi sulla natura umana del 1664. Già a partire da questa opera giovanile
Locke aveva avvertito l'utilità, anzi la necessità di fornire un concetto di ragione diverso da
quello maggiormente accreditato in quel periodo tra i dotti di tutta Europa. In Inghilterra,
ad opera dei platonici di Cambridge, in Francia, ad opera di Cartesio, in Germania, ad
opera di tutta la tradizione luterana, circolava un concetto di ragione direttamente
rapportato all'anima intesa come entità metafisica, di una ragione posseduta da tutti gli
uomini allo stesso modo, fornita di principi innati ed infallibile nelle sue analisi se
esercitata con metodo corretto. Nei Saggi sulla natura umana Locke già negava che i
principi ed i contenuti in base ai quali la ragione produce le sue conoscenze fossero
"innati" nella ragione stessa. La ragione non può procedere in alcuna operazione senza
che ci sia fuori di essa qualcosa su cui esercitare la sua attività:
La ragione fa uso dei principi del sapere per costruire qualcosa di
grande e di alto, ma non pone essa stessa questi principi. Essa non pone il
fondamento, anche se spesso costruisce un edificio maestoso ed eleva al
cielo le vette del sapere.
(Essays on the law of nature, edit. von Leyden, Oxford 1954, 11, pag. 125)
Questa ragione deve guidare l'uomo in ogni sua attività, tanto conoscitiva quanto pratica;
anche la scelta della fede, la individuazione dei principi utili per la convivenza civile e
politica, sono operazioni cui presiede la ragione. Ad una ragione puramente teorica, Locke
vuole sostituire, in effetti, una ragione che contemporaneamente soddisfi le esigenze
conoscitive e quelle pratico-operative dell'uomo:
per ragione intendo non una facoltà dell'intelletto che forma il
discorso e deduce gli argomenti, ma alcuni principi pratici dai quali deri-
vano tutte le virtù e tutto ciò che concorre alla retta formazione dei
costumi, giacché tutto ciò che correttamente si ricava da questi principi, a
buon diritto, è considerato conforme alla ragione.
(Essays, cit, I, pag.111)
Si ricava da questi pochi cenni un'immagine finita e pratica della ragione, ma soprattutto
si deduce il valore strumentale della ragione stessa. La comprensione del modo di
funzionare della intelligenza umana non è, infatti, fine a se stessa, ma è utile alla
continuazione della ricerca, ha, cioè, valore strumentale in vista di una finalità da
realizzare. Questo valore strumentale è chiaramente espresso dallo stesso Locke:
se fosse il caso di annoiarti con la storia di questo Saggio, potrei dirti
che cinque o sei amici miei, essendosi riuniti in casa mia, ed essendo
venuti a discorrere intorno ad un punto ben diverso da quello che io tratto
in quest'opera, ben presto si trovarono ad un punto morto per le difficoltà
che sorsero da ogni parte. Dopo esserci affaticati per qualche tempo senza
aver fatto un passo avanti nella soluzione dei dubbi che ci imbarazzavano,
mi venne fatto di pensare che eravamo sulla strada sbagliata, e che prima
di impegnarci in ricerche di tal genere, era necessario esaminare la nostra
stessa capacità, e vedere quali soggetti siano alla nostra portata, e quali
invece siano superiori alla nostra comprensione.
(Saggio sull'intelligenza umana. Epistola al lettore)
La ricerca sulle "capacità" dell'intelligenza umana diventa così necessaria per poter
procedere all'esame di questioni riguardanti, come ci informa uno dei " cinque o sei amici "
riuniti in casa del filosofo, i principi della morale e della religione rivelata.
Il Saggio: la polemica contro l'innatismo
Il compito che Locke vuole assolvere nel Saggio è come abbiamo accennato, quello
di esaminare l'origine, la certezza e l'estensione della conoscenza
umana, nonché i fondamenti e i gradi della credenza, dell'opinione e
dell'assenso.
(Saggio, Introd, 2)
Ma è possibile alla ragione umana studiare se stessa? 0, invece, essa,
come l'occhio, ci fa vedere e comprendere tutte le altre cose, ma non
si accorge di se stessa? (Saggio, Introd., 1)
Nonostante "la molta arte e le molte cure" richieste per rendere la ragione oggetto di
indagine, nonostante sia difficile "trovare il modo di avviarsi a questa ricerca" e
nonostante costi una certa fatica superare "lo schermo che tanto fortemente nasconde noi
a noi stessi", Locke ritiene legittima e praticabile una simile ricerca.
La ragione, infatti, mentre conosce ciò che le è esterno, ha la possibilità di ritornare su se
stessa per indagare sul suo funzionamento.
Contro gli spiritualisti alla Cartesio, Locke dichiara di non voler procedere ad una ricerca
metafisica volta a conoscere l'"essenza" dell'anima, e, contro i meccanicisti alla Hobbes,
sostiene di non puntare alla individuazione dei movimenti fisico-naturali determinanti i
cambiamenti dello stato del corpo da cui sono prodotte le sensazioni e le idee. La sua sarà
una ricerca puramente gnoseologica e si avvarrà di un metodo " storico e semplice ", di un
metodo, che, partendo dai dati più semplici della conoscenza, spieghi come, per
successive composizioni, si vada formando tutto quanto il sapere. I dati semplici fungenti
da punto di partenza dei processo conoscitivo non sono altro che le idee. Il tennine idea
indica infatti
tutto ciò che è oggetto della nostra intelligenza quando pensiamo.
(Saggio, Introd., 8)
Idea, dunque, è qualunque contenuto di coscienza: un colore, un uomo, un triangolo, un
sasso, la virtù, un fiore, Dio, una montagna e così via. Ma da dove derivano le idee? Da
dove la conoscenza ricava i suoi contenuti? Per sgombrare preventivamente il terreno da
ogni polemica che potesse condizionare l'indagine successiva con la quale vuole provare le
genesi empirica, sperimentale, della conoscenza, Locke nel primo libro del Saggio attacca
frontalmente la concezione cartesiana del sapere, ed avanza una serie di obiezioni contro
quanti
ritengono, come verità incontestabili, che nell'intelligenza vi siano
certi principi innati, certe nozioni primarie, altrimenti dette nozioni comuni,
caratteri, per dire così, impressi nell'anima nostra, la quale li riceverebbe fin
dal primo momento della sua esistenza portandoli con sé nel mondo.
(Saggio, 1, 1, 1)
A chi sostiene la tesi che nell'anima siano innati tanto i principi speculativi quanto quelli
pratici giustificandola con il "consenso universale" che su di essa si registra, Locke obietta
che questo argomento, lungi dal dimostrare la tesi dell'innatismo, finisce con il dimostrare
la tesi opposta:
non vi è, infatti, alcun principio sul quale tutti gli uomini concordino
universalmente. (Saggio, 1, 1, 4)
Neppure sui principi logici piú astratti, come il principio di identità o di non contraddizione,
c'è consenso universale; anzi "vi è una gran parte del genere umano dalla quale essi non
sono nemmeno conosciuti". Basti considerare che essi sono completamente ignorati dai
bambini e dagli idioti. Né è possibile credere che nell'anima ci siano delle "verità" senza
che se ne abbia coscienza; infatti
dire che una nozione è impressa nell'anima, e sostenere al tempo
stesso che l'anima non la conosce affatto, e che fino ad ora non se n'è mai
accorta, significa fare di questa impressione un semplice nulla.
(Saggio, 1, 1, 5)
Se, invece, per nozione innata si intende la capacità della ragione di conoscere i contenuti
ad essa esterni, allora ciò che credono i difensori dell'innatismo "è identico a ciò che
credono coloro che negano l'esistenza dei principi innati ".
Confutata la tesi rivendicante la presenza apriori nell'anima di tutti gli uomini di principi
speculativi, a Locke resta da confutare l'altra con la quale si ritiene che nell'anima umana
ci siano principi pratici innati sui quali gli uomini modellano il loro comportamento. Per
avere la conferma che non esistono norme morali accolte da tutti gli uomini, e tali da
essere ritenute innate, basta fare appello, afferma Locke,
a chiunque abbia qualche modesta conoscenza della storia del genere
umano e che, per cosí dire, abbia guardato oltre il fumo del camino di casa
sua. (Saggio, I, 11, 2)
Ai difensori della tesi innatistica che gli obiettano che anche "nelle caverne dei briganti e
nelle società dei peggiori scellerati" si osserva una sorta di giustizia e si rispettano i patti,
Locke ribatte che l'osservanza di queste norme nasce soltanto dalla convenzione e
risponde esclusivamente ad un calcolo egoistico, ma non testimonia in alcun modo
l'esistenza di principi pratici innati. Tutt'al piú si può convenire nell'ammettere l'esistenza
nella natura umana di inclinazione al piacere e di avversione al dolore ed, ancora, si può
accedere a considerare tali inclinazioni come principi pratici capaci di influenzare
continuamente tutte le nostre azioni. Ma, proprio perché inclinazioni del nostro animo, essi
non valgono a
dimostrare che vi siano nell'anima dei caratteri innati, che debbano
essere i principi di conoscenza regolanti la nostra condotta.
(Saggio, I, II 3)
Sono cioè delle tendenze quasi fisiologiche e non leggi esistenti nell'animo al cui dettato si
debba uniformare la condotta dell'uomo, e tanto meno sono norme capaci esse stesse,
con la loro sola presenza, di determinare il comportamento e le scelte pratiche.
Inoltre gli uomini, quand'anche credano agli stessi principi pratici, li giustificano in maniera
diversa, a seconda dei loro convincimenti filosofico?religiosi. Ma per lo piú rispetto alle
regole della morale si formano opinioni contrastanti in rapporto "alle diverse forme di
felicità che essi hanno in vista e che si propongono di raggiungere": contrasto che non
potrebbe esistere se i principi della morale fossero impressi direttamente da Dio nella loro
anima.
Locke, utilizzando le relazioni di esploratori che proprio in quegli anni si spingevano verso
paesi sconosciuti, può concludere che in fondo neppure l'idea di Dio è innata nell'anima
umana: intere popolazioni nella baia di Soldania, nel Brasile, nelle isole dei Caraibi non
hanno alcuna nozione del concetto di Dio, di anima, di cosa sacra o di idoli. Tutto ciò prova
a maggior ragione che questi non hanno alcuna nozione delle leggi pratiche e dei principi
speculativi che Dio, quale legislatore supremo, avrebbe dovuto imprimere nelle loro
anime.
Il Saggio: origine empirica delle idee
L'anima umana, priva di idee innate, è raffigurabile allora, come una pagina bianca, una
tabula rasa su cui non è impresso alcun carattere. Ma se non possiede alcuna idea, da
dove ricaverà tutto il "materiale" che utilizza per la conoscenza? A questa domanda Locke
risponde con una sola parola: dall'esperienza.
L'esperienza può essere di due tipi: esterna ed interna. Quella esterna si realizza quando
i nostri sensi, venendo in rapporto con particolari oggetti sensibili, ci
fanno entrare nell'anima molte percezioni distinte delle cose, secondo le
maniere diverse in cui tali oggetti agiscono sui nostri sensi.
(Saggio, 1, II, 3)
In tal modo si formano tutte le idee indicanti qualità sensibili come il dolce, il duro, il
freddo, il bianco e cosí via. Con queste idee, ricevute attraverso i sensi, l'intelligenza
umana esegue una serie di operazioni su cui l'intelligenza stessa può riflettere (esperienza
interna). Da questa riflessione sull'attività della mente nasce un'altra specie di idee che la
sensazione non avrebbe potuto fornire: le idee del percepire, del pensare, del dubitare,
del credere, del ragionare, del conoscere, del volere. Le uniche "sorgenti" da cui pro
vengono le nostre idee sono, allora, la sensazione e la riflessione. Ora il contenuto della
nostra mente, ossia le idee, può essere distinto e classificato secondo un ordine preciso. Si
possono distinguere, infatti idee semplici e idee complesse. Attraverso i nostri sensi, alla
mente giungono idee semplici, distinte cioè l'una dall'altra, anche quando uno stesso
senso avverte piú di una sensazione contemporaneamente:
quando la mano sente la morbidezza ed il calore di un medesimo
pezzo di cera, tutte le idee semplici che si trovano in tal modo riunite nel
medesimo oggetto, sono altrettanto nettamente distinte come quelle che
entrano nello spirito ad opera di sensi diversi.
(Saggio, II, II, I)
Una volta ricevute queste idee semplici, l'intelligenza può confrontarle ed unirle insieme in
una varietà infinita di accoppiamenti dando luogo, in tal modo, ad una serie di nuove idee:
le idee complesse. Ma prima di procedere all'esame di queste ultime bisogna operare
ulteriori precisazioni a proposito delle idee semplici. Alcune di queste, infatti, giungono alla
mente attraverso un solo senso, altre attraverso piú sensi, altre ancora attraverso le
operazioni del pensiero, altre ancora attraverso le operazioni della volontà, e, infine, altre
attraverso la sensazione e la riflessione combinate insieme, come ad esempio il piacere, il
dolore, la capacità, l'unità.
Le idee semplici, come abbiamo già detto, sono prodotte da un oggetto esterno che
impressiona i nostri organi di senso. Ora Locke, riprendendo una tradizione che da
Democrito ed Epicuro arriva a Galilei e a Boyle, distingue nei corpi le qualità primarie,
come solidità, estensione, movimento, numero e figura, che ineriscono direttamente ai
corpi, dalle qualità secondarie, colore, sapore, suono, che non ineriscono all'oggetto, ma si
formano dall'incontro delle qualità primarie dei corpi con la sensibilità del soggetto
senziente. Ad esempio il colore non è altro che un complesso di movimenti che, osservati
da un occhio, diventano colore, ma che in assenza dell'osservatore rimangono movimenti.
Per spiegare il rapporto tra gli oggetti e le idee, Locke, nonostante la dichiarazione fatta
nell'Introduzione di voler esaminare "quali movimenti debbono venire eccitati nei nostri
spiriti animali, o quali cambiamenti debbono aver luogo nel nostro corpo per produrre
delle sensazioni o delle idee", riprende, per spiegare ad esempio il fenomeno della vista,
l'antica dottrina atomistica degli effluvi.
Poiché l'estensione, la figura, il numero ed il movimento dei corpi
grandi abbastanza per essere osservati possono essere percepiti dalla vista
ad una certa distanza, è evidente che debbono venire fino agli occhi,
dall'oggetto che noi guardiamo, certi corpi singolarmente impercettibili,
comunicando in tal modo al cervello certi movimenti che producono in
noi le idee che abbiamo di queste diverse qualità.
(Saggio, II, VIII, 12)
Con la ripresa di questa teoria, Locke vuole ribadire la corrispondenza tra le idee e le
qualità primarie degli oggetti; vuol cioè esorcizzare ogni pericolo di idealismo e
confermare l'origine empirica delle idee.
La mente, allora, tabula rasa, accoglie passivamente le impressioni provenienti dagli
oggetti esterni, colleziona, cioè, una serie di idee semplici che poi combina attivamente in
vari modi formando le "idee complesse". Per quanto infinite di numero e di varietà, tutte le
idee complesse possono essere ricondotte a tre tipi fondamentali: le idee di modo, di
sostanza, di relazione.
Per le idee di modo si intendono
quelle idee complesse che, per quanto composte, non contengono
in sé la supposizione di sussistere di per se stesse, ma si considera che siano
dipendenze o affezioni delle sostanze.
(Saggio, II, XII, 4)
Nell'ambito stesso dei modi è possibile un'ulteriore specificazione. Ci sono, infatti, " modi
semplici " che sono variazioni o combinazioni della stessa idea semplice, senza
mescolanza con nessun'altra idea, e " modi misti " che nascono dalla combinazione di idee
semplici appartenenti a specie diverse. Sono modi semplici, ad esempio, i numeri superiori
all'unità, in quanto non sono altro che la combinazione di unità distinte; mentre
appartiene ai modi misti l'idea di bellezza, in quanto, in una persona ad esempio, si
compone dell'idea del colore e dell'idea dei tratti somatici. Anche le idee semplici di spazio
e tempo danno luogo ad idee complesse di modi semplici. Locke ha dello spazio una
concezione newtoniana, lo considera, cioè, come qualcosa di oggettivo capace di
modificazione e quindi suscettibile di fornire idee complesse di modi semplici.
Idee complesse derivate dalla combinazione ripetuta della sola idea di spazio sono, infatti,
la lunghezza, la larghezza, la distanza.
L'idea di durata, invece, la ricaviamo dalla riflessione sul fluire degli stati interni della
coscienza. I modi semplici derivanti dall'idea di durata sono le ore, i giorni, gli anni, il
tempo e l'eternità. Una considerazione a parte merita l'idea di infinito. Essa può essere
riferita, infatti, tanto allo spazio che alla durata e al tempo, e si ottiene per addizione o
moltiplicazione, cioè per estensione quantitativa, di parti finite dello spazio o del tempo. La
mente, infatti, può aggiungere all'infinito spazio a spazio, tempo a tempo. Con la
spiegazione dell'idea complessa dell'infinito, facendo ricorso alla possibilità di addizionare
all'infinito parti finite dello spazio e del tempo, Locke polemizza indirettamente con la
convinzione cartesiana che l'idea dell'infinito non poteva essere una costruzione della
mente umana e che la sua presenza nell'anima testimoniava l'esistenza reale di un essere
infinito.
A questi modi semplici bisogna aggiungere quelli provenienti dalla combinazione di idee
semplici ricavate dall'attività del pensiero, come ad esempio il sentire, il contemplare, il
prestare attenzione.
Una delle parti piú vive ed importanti del Saggio è rappresentata dalla critica che Locke
muove al tradizionale concetto di sostanza come realtà esistente in sé e per sé, come
realtà che è causa sui. Per Locke la nostra mente percepisce soltanto idee semplici,
distinte l'una dall'altra, poi le associa insieme e denomina il prodotto di questa
associazione con un solo nome: ad esempio, associando l'idea del colore, della estensione,
della durezza e cosí via, si ha un complesso di idee che indichiamo con il nome di tavolo,
come se si trattasse di una sola idea. Non sapendo
immaginare in qual modo queste idee semplici possano sussistere da
sole, ci abituiamo a supporre l'esistenza di un qualche sub-stratum nel
quale esse effettivamente sussistano e di cui siano il risultato: e quello chia-
miamo, perciò, sostanza.
(Saggio, II, XXIII, 1)
Della sostanza, allora, la mente umana non possiede nessuna idea chiara e precisa. Essa
nasce nella mente solo dalla supposizione che le vane qualità degli oggetti da cui derivano
le idee semplici,
hanno bisogno, per tenersi insieme, di un sostegno, di un sub-strato su cui appoggiarsi.
L'idea complessa di sostanza nasce, allora, soltanto dall'abitudine della mente a supporre
che sotto le qualità dei corpi debba esserci qualcosa che non può essere espresso
altrimenti se non con il nome vago di sostanza:
Dunque, l'idea che noi abbiamo, e cui diamo il nome generale di
sostanza, non essendo altro che il presunto, ma ignoto, sostegno di quelle
qualità che scopriamo esistenti, e che non immaginiamo possano sussistere
sine re substante, senza qualcosa che le sorregga, quel sostegno lo chia-
miamo substantia; che secondo il valore effettivo della parola, in semplice
latino significa star sotto o sostenere. (Saggio, II, XXIII, 2)
Questa stessa abitudine a supporre una qualche sostanza come substrato cui ineriscono le
qualità dei corpi, si estende anche alle
operazioni della mente. Riflettendo infatti sull'attività spirituale ci formiamo l'idea del
pensare, del ragionare e cosí via e, credendo che esse non possano sussistere per se
stesse,
né intendendo come possano appartenere al corpo o essere prodotte
da esso, siamo portati a pensare che siano le azioni di qualche altra
sostanza, che chiamiamo spirito... Supponendo una sostanza nella quale di
fatto sussistano il pensare, il conoscere, il dubitare ecc., otteniamo una
nozione di sostanza dello spirito altrettanto chiara quanto quella che
abbiamo del corpo: l'una supponiamo che sia il sostrato di quelle idee
semplici che riceviamo dall'esterno (senza poi sapere che cosa questo
sostrato veramente sia); e l'altra supponiamo che sia il sostrato di quelle
operazioni che sperimentiamo interiormente in noi stessi (ancor qui, con
eguale ignoranza di ciò che esso sia).
(Saggio, II, XXIII, 5)
La critica lockiana al tradizionale concetto di sostanza non elimina, però, la certezza,
comune a tutte le metafisiche prespinoziane, della distinzione tra una sostanza materiale
ed una sostanza spirituale. Se proprio volessimo concludere, afferma Locke, che non
esiste lo spirito perché non abbiamo alcuna idea chiara e distinta della sostanza spirito,
dobbiamo di necessità concludere che nep pure il corpo esiste perché non possediamo
alcuna idea chiara e distinta della sostanza materia. La scelta che rimane, allora, è optare
per la esistenza o per la non esistenza di entrambe le sostanze.
Locke non prende in considerazione, neanche per criticarla, la tesi spinoziana dell'unica
sostanza di cui estensione e pensiero siano attributi. Tra le idee complesse di sostanza va
inclusa anche l'idea di Dio. La mente umana "costruisce" l'idea complessa di Dio con lo
stesso procedimento con cui costruisce tutte le altre idee complesse e, cioè, componendo
insieme idee semplici. Dalla riflessione, infatti, otteniamo l'idea di esistenza, di durata, di
conoscenza, di potere, di piacere, di felicità:
quando cerchiamo di foggiarci l'idea piú adatta che ci sia possibile
dell'Essere supremo estendiamo ciascuna di queste idee con la nostra idea
di infinità: e cosí ponendola assieme, formiamo la nostra idea complessa di
Dio.
(Saggio, II, XXIII, 33)
Il terzo gruppo di idee complesse è costituito dalle idee di relazione, la cui genesi è
reperibile nella capacità che la mente ha di avvicinare e, quindi, confrontare due o piú
idee, semplici o complesse che siano, senza con questo unificarle in una sintesi unitaria.
Ad esempio se dico che Giovanni e marito, con questo ultimo termine ho stabilito una
relazione tra Giovanni ed un'altra persona,
cioè la moglie. Ogni idea, semplice o complessa, può ovviamente stabilire con altre idee
una serie pressoché di relazioni. Ogni relazione, inoltre, pur non inerendo ad alcuna realtà,
è piú chiara e comprensibile dell'idea di sostanza. Ad esempio, l'idea di padre è piú
facilmente comprensibile di quella di uomo, per la cui comprensione dovremmo far ricorso
ad un gran numero di idee semplici, non sempre individuabili in modo chiaro e distinto.
Tra le idee di relazione esaminate da Locke, assumono un rilevo particolare quella di causa
ed effetto e quella di identità. Dall'osservazione che
certe cose particolari, tanto qualità che sostanze, cominciano ad esi-
stere e che ricevono questa loro esistenza dalla debita applicazione e opera-
zione di qualche altra cosa, otteniamo le nostre idee di causa ed effetto.
(Saggio, II, XXVI, 1)
Causa ed effetto sono allora delle idee che nascono nella nostra mente quando stabiliamo
un rapporto tra una sostanza producente ed una sostanza prodotta.
L'idea di identità nasce invece dal rapporto che stabiliamo, non tra due sostanze, ma tra
una sostanza e se stessa. Il principium individuationis, cioè il principio che assicura
l'identità di una cosa con se stessa, varia a seconda se consideriamo corpi inorganici,
organici o realtà spirituali. Nei primi, l'identità è data dal permanere insieme di tutte le
parti costitutive del corpo; nei secondi dalla vita intesa come forza interna che amministra
il ricambio delle parti; nelle terze l'identità è assicurata dalla "identità personale" di cui
ogni essere spirituale è consapevole. Gli esseri intelligenti e pensanti, infatti, oltre a
pensare, possiedono la consapevolezza di pensare:
la consapevolezza sempre accompagna il pensiero, ed è quella che fa
sí che ciascuno sia ciò che egli chiama se stesso ed in tal modo distingua se
stesso da tutte le altre cose pensanti; in ciò solo consiste l'identità perso-
nale.
(Saggio, II, XXVII, 11)
Dopo l'analisi della genesi e dei diversi tipi di idee, Locke analizza il linguaggio che serve a
comunicare le idee di un individuo ad un altro. Riprendendo il convenzionalismo
nominalistico di Hobbes, ritiene che certe parole sono imposte a certe idee
per un'imposizione volontaria, mediante la quale una data parola
viene assunta arbitrariamente a contrassegno di una tale idea. Perciò lo
scopo delle parole è di essere segni sensibili delle idee
(Saggio, III, II, 1)
Le parole, allora, non rappresentano altro che le idee che sono nella mente di chi le usa.
Ma poiché le parole servono anche per comunicare con gli altri e non solo per ricordare le
proprie idee, bisogna "supporre" che esse siano il segno di idee che si trovano anche nella
mente degli altri con cui comunichiamo. Se mancasse questa corrispondenza non ci
sarebbe affatto comunicazione. Nonostante esistano soltanto cose particolari, le parole per
lo piú sono termini generali, indicanti, cioè, non singoli oggetti, ma classi di oggetti; la
parola uomo, ad esempio, non indica questo o quell'uomo, ma l'uomo in generale. Questi
termini comuni formulati attraverso un processo di "astrazione" indicano soltanto ciò che
appartiene a piú oggetti della stessa classe, mentre trascurano le determinazioni
particolari dei singoli individui. Pur non designando alcuna realtà esistente, i nomi
generali, prodotti dall'intelletto per sua comodità, rispondono ad una precisa necessità.
Solo grazie ad essi, infatti, si può costruire un discorso capace di andare al di là delle
singole ed individuali esperienze.
Estensione e validità della conoscenza
Una volta precisati l'origine delle idee ed il valore del linguaggio come mezzo di
comunicazione, a Locke restano da risolvere i problemi relativi alla validità, alla estensione
ed alla certezza della conoscenza. Partendo dalla considerazione che la mente non ha altro
oggetto che le idee e che la conoscenza, pertanto, non può riferirsi se non alle idee,
identifica la conoscenza con
la percezione del legame e concordanza, o della discordanza e con-
trasto, tra idee nostre quali che siano.
(Saggio, IV, 1, 2)
Laddove manca questa percezione manca anche la conoscenza. Ora la percezione di
accordo o di disaccordo tra due idee può essere immediata, ottenibile, cioè, senza il
ricorso ad altre idee che facciano da intermediarie, e allora la conoscenza sarà intuitiva;
oppure può essere mediata, tale cioè, da richiedere per la comprensione del rapporto tra
due idee l'intervento mediatore di altre idee, e allora sarà dimostrativa. Nel primo caso
non c'è bisogno di alcuna prova, in quanto la mente percepisce la verità come fa l'occhio
quando, aprendosi, vede la luce. L'evidenza della verità intuitiva è irresistibile, ci costringe
a percepirla non appena volgiamo lo sguardo verso di essa. La conoscenza intuitiva non
coincide, però, con la sensazione stessa, in quanto il suo contenuto è intellettuale e non
sensibile, come non coincide neppure con la riflessione perché è immediata e, quindi,
irriflessa. Per capire che il cerchio non è un triangolo o che il tre è piú grande del due non
c'è bisogno di alcuna riflessione. Nessun'altra conoscenza, cui l'uomo potesse pervenire,
avrebbe caratteri di maggiore chiarezza e certezza. Oltre l'intuizione c'è il ragionamento,
la dimostrazione cui si ricorre quando il rapporto di concordanza o discordanza tra due
idee non è immediatamente percepibile. Allora tra le due idee se ne inseriscono altre che,
fungendo da termini medi, rendono manifesto il rapporto tra le idee in esame. Ovviamente
piú è lunga la serie di prove che bisogna inserire tra i due termini del rapporto, piú
facilmente nel ragionamento può insinuarsi l'errore. Ma, si potrebbe obiettare, quale
certezza abbiamo che tutta questa costruzione non poggi sul vuoto, nel senso che alle idee
non corrisponde alcunché fuori della mente umana? Quale è il criterio che ci testimonia la
"conformità" tra le nostre idee e la realtà? Ci sono secondo Locke due specie di idee della
cui conformità alla realtà non possiamo dubitare:
La prima è rappresentata dalle idee semplici, le quali, poiché lo spi-
rito, come si è dimostrato, non può in alcun modo farsele da sé, debbono
necessariamente essere il prodotto di cose operanti sulla mente, in una
maniera naturale.
(Saggio, IV, IV, 4)
La seconda è rappresentata da tutte le idee complesse, fatta eccezione per quelle di
sostanza, le quali hanno il loro modello nella mente stessa e quindi la loro realtà consiste
nell'essere pensate. Ad esempio l'idea di causalità, che è un'idea complessa di relazione,
non è un arbitrio della mente, anche se il rapporto di causalità, in quanto rapporto, è
stabilito dalla mente; esso corrisponde sempre ad una "potenza reale". Il problema
maggiore si pone, invece, per le idee complesse di sostanza, in quanto l'uomo per
costituirle deve far ricorso a quel misterioso "sostegno", che è appunto la sostanza, per
tenere insieme le idee semplici indicanti le qualità dei corpi.
La conoscenza intuitiva, la piú certa delle conoscenze, oltre a fornirci la certezza di alcuni
principi matematici, garantisce all'uomo la certezza della propria esistenza. Locke,
riprendendo Cartesio, afferma:
Se dubito di tutte le altre cose, quello stesso dubbio mi fa percepire
la mia propria esistenza e non mi permetterà di dubitarne... E' dunque
l'esperienza a convincerci che abbiamo una conoscenza intuitiva della
nostra stessa esistenza, e una percezione interiore infallibile del fatto che
esistiamo. In ogni atto di sensazione, di ragionamento o di pensiero, siamo
consapevoli di fronte a noi stessi del nostro essere e su questo punto non
manchiamo di attingere il piú alto grado di certezza.
(Saggio, IV, IX, 3)
La conoscenza dimostrativa, invece, serve a renderci certi della esistenza di Dio. Partendo
dalla certezza della nostra esistenza in atto ed applicando il principio logico che una realtà
esistente non può derivare dal nulla, bisogna concludere che "fin dalla eternità c'è stato
qualcosa". Questo "qualcosa" non posso essere io come soggetto individuale finito, quindi
deve essere una realtà eterna:
Cosí dalla considerazione di noi stessi, e da ciò che infallibilmente
troviamo nella nostra costituzione, la nostra ragione ci porta alla cono-
scenza di questa verità certa ed evidente: che c'è un essere eterno, potentissimo
e sapientissimo; non importa se altri voglia chiamarlo Dio, o diversamente.
(Saggio, IV, X, 6)
Al di fuori della conoscenza della mia attuale esistenza e di quella di Dio, tutte le
conoscenze sono possibili soltanto mediante la sensazione. Solo quando, operando su una
determinata realtà esterna, la percepisco attraverso i sensi, solo allora sono sicuro della
sua esistenza:
Perciò solo la effettiva ricezione delle idee dall'esterno ci informa
dell'esistenza di altre cose e ci fa sapere che qualcosa esiste in quel
momento fuori di noi, che è causa di quell'idea in noi, anche se non sap-
piamo, né consideriamo come questo avvenga.
(Saggio, IV, XI, 2)
La sensazione attuale non inganna mai, anzi offre un'evidenza sufficiente perché ci si
possa orientare nella vita pratica. Un'uIteriore conferma che i sensi non ci ingannano
viene dalla considerazione che essi si confermano l'uno con l'altro. Chi vede un fuoco, ad
esempio, e dubiti della consistenza di esso, temendo che si possa trattare di
un'allucinazione, non ha da far altro che mettervi sopra la mano per sentire se brucia. Al
di là della sensazione attuale, però, non vi è piú alcuna certezza. Non posso essere sicuro
che tutti gli uomini che ho osservato un minuto fa, affacciato alla mia finestra, esistono
ancora ora che sono chiuso nel mio studio,
perciò, sebbene sia altamente probabile che ora esistano milioni di
uomini, tuttavia, finché mi trovo qui solo a scrivere questo, io non ho,
della cosa, quella certezza che a stretto rigore chiamiamo conoscenza.
(Saggio, IV, XI, 9)
Le certezze della ragione si restringono, allora, alla conoscenza che il soggetto ha di se
stesso, alla dimostrazione di Dio e alla sensazione attuale delle cose. Ma al di là di queste
certezze, quale campo di azione resta alla ragione? Quello del giudizio, risponde Locke. Il
giudizio, come la conoscenza, si basa sul rapporto di concordanza o di discordanza fra le
idee; ma, a differenza della conoscenza, questo rapporto è presunto ma non chiaramente
percepito. Il frutto del giudizio, allora, è soltanto una probabilità, non una certezza.
Probabilità che può essere maggiore o minore a seconda della larghezza dei consensi che
riscuote o della coincidenza della nostra esperienza con quella di altre persone degne di
fede.
Le analisi lockiane, nel distinguere il certo dal probabile, sono servite a segnare i confini
della conoscenza umana e a liberare la mente da una serie di problemi irresolubili. Ma
sono servite anche a riproporre un problema, quello della corrispondenza tra idee e cose,
che sarà ripreso criticamente da altri due autori inglesi di questo periodo, Berkeley e
Hume.
La politica e la religione
Tutta la vasta trattazione dei problemi conoscitivi era finalizzata, lo abbiamo già detto, a
determinare la validità della conoscenza nella trattazione dei problemi politici e religiosi.
Locke, come abbiamo avuto modo di mostrare anche nel pochi cenni biografici, è un
intellettuale impegnato nella soluzione dei problemi politici non soltanto da un astratto
punto di vista teorico, ma anche e soprattutto da un punto di vista pratico. Le sue prese di
posizione, le sue teorizzazioni sono sempre in rapporto alla situazione politica reale; sono
contributi concreti alla lotta contro l'assolutismo politico e religioso degli Stuarts. Quando
questa lotta si conclude con quella rivoluzione che portò sul trono d'Inghilterra Guglielmo
d'Orange e instaurò la monarchia costituzionale (16881689), Locke quasi a celebrare e a
giustificare teoricamente gli eventi pubblicò, nel 1690, Due trattati sul governo civile. Nel
primo trattato, Locke confutava le tesi assolutistiche esposte da Robert Filmer (morto nel
1653) nel suo Patriarca o il potere naturale dei re. Nel secondo, invece, esponeva in
positivo le sue tesi politiche. Il fine ultimo cui è indirizzata tutta l'analisi lockiana va
individuato nel tentativo di disegnare un potere politico la cui giustificazione risieda nella
capacità di assicurare ai singoli individui la possibilità di salvaguardare la propria vita ed i
propri beni. Locke sostiene infatti:
Definisco il potere politico come diritto di formulare leggi che con-
templino la pena di morte e, di conseguenza, tutte le pene minori, in vista
di una regolamentazione e conservazione della proprietà; di usare la forza
della comunità per rendere esecutive tali leggi e per difendere lo stato da
attacchi esterni: tutto questo soltanto al fini del pubblico bene.
(Trattato sul governo, 1, 3)
La distinzione tra stato naturale e stato politico consiste proprio nella capacità del secondo
a difendere la vita e i beni delle persone servendosi della forza della comunità. Nello stato
di natura gli uomini hanno tutti gli stessi diritti e gli stessi doveri, ma tanto i diritti quanto
i doveri hanno un limite invalicabile nella ragione, coincidente con la legge naturale, che
vieta a chiunque di "ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi" se
non quando "lo imponga un motivo piú nobile della semplice sopravvivenza". Nello stato di
natura il rispetto della legge di ragione, rivendicante la pace e la sopravvivenza di tutto il
genere umano,
è affidato a ciascuno, onde ciascuno ha il diritto di punire chi trasgre-
disce quella legge nella misura bastante a scoraggiarne la violazione.
(Trattato sul governo, II, 7)
Ma quando, come nello stato di natura, manca un potere comune capace di svolgere il
ruolo di giudice cui possono appellarsi tutti gli uomini, allora si instaura lo stato di guerra;
quando la individuazione del torto e l'esecuzione della pena sono affidati a ciascuno, allora
facilmente si determina il bellum omnium contra omnes già individuato da Hobbes.
L'intento di evitare questo stato di guerra è il grande motivo per cui
gli uomini si associano fra di loro e abbandonano lo stato di natura.
(Trattato sul governo, III, 21)
Il fondamento dello stato risiede nel mandato consensuale che affidano ad un sovrano
perché questi, in loro vece, servendosi della forza comune, conservi la loro vita, la loro
libertà, i loro beni. Solo dove si esercita la difesa dell'individuo e della sua proprietà si può
dire che c'è la società.
A differenza di quello hobbesiano, per il quale il sovrano non sottoscrive alcun contratto
con i suoi sudditi, il contrattualismo lockiano prevede la stipula del contratto, oltre che tra
i sudditi, anche tra questi ed il sovrano. Quest'ultimo, allora, non è piú la fonte di ogni
legge e di ogni diritto, ma è soggetto egli stesso alla legge e al diritto derivanti dal
contratto sottoscritto.
Tutto il nucleo del liberalismo lockiano consiste in ciò: nell'affidare allo stato, attraverso un
consenso revocabile, la difesa e la protezione della "proprietà" del cittadino intesa come
vita, libertà e beni. Ma la sottomissione del cittadino allo stato non significa rinuncia alla
propria autonomia decisionale, alla propria libera iniziativa. L'uomo che entra a far parte
della società e riconosce l'autorità dello stato, non aliena tutti i suoi diritti e le sue libertà
ad un Ente superindividuale, anzi allo stato chiede di conservare ed aumentare la sfera
della sua autonomia. Il rapporto stato-cittadino deve essere tale che non sia il cittadino al
servizio dello stato, ma viceversa lo stato al servizio del cittadino, anche se quando parla
del cittadino o del "popolo" Locke pensa agli appartenenti alla nuova classe di imprenditori
o di commercianti, cioè a quei cittadini che, con una categoria storico-economica
posteriore, saranno classificati come "borghesi". E' a questi "cittadini" che lo stato e le sue
leggi devono assicurare il libero svolgimento delle loro iniziative:
La legge, infatti, nella sua propria definizione, non è tanto la limita-
zione, quanto la guida di un agente libero e intelligente al suo proprio
interesse e non prescrive nulla che non sia inteso al bene generale di
coloro che vi sono sottomessi... Dunque, per quanto lo si possa frainten-
dere, il fine della legge non è di precludere o reprimere la libertà ma di
conservarla e ampliarla, perché in tutti gli stati di creature capaci di leggi,
dove non c'è legge non c'è libertà. Libertà significa infatti essere esenti
dall'altrui oppressione e violenza;... ma non libertà per ciascuno di fare ciò
che vuole, bensí libertà di disporre e usare della sua persona, delle sue
azioni, dei suoi beni e di tutte le sue proprietà entro i confini delle leggi
cui è soggetto e in cui non sottostà all'altrui arbitrio, ma è libero di seguire
la volontà propria. (Trattato sul governo, VI, 57)
Ovviamente in uno stato che ha come fine la salvaguardia della libera iniziativa dei "
cittadini ", i poteri dello stato non debbono essere accentrati nelle mani di una sola
persona. La concentrazione dei poteri, infatti, reca in sé il pericolo del ripristino
dell'assolutismo. Nello stato i diversi poteri debbono essere separati, debbono dar luogo a
magistrature civili differenti, ma sempre in un rapporto equilibrato. Ci deve essere, allora,
un potere legislativo "scelto e designato dal popolo" che, proprio perché depositario del
"consenso della società" elabora le leggi, formula, cioè, quelle norme che debbono
garantire la conservazione e lo sviluppo della comunità. Accanto ad esso ci deve essere un
potere esecutivo che presiede, appunto, "all'esecuzione delle leggi che sono state fatte e
che continuano ad essere in vigore". Distinto da questi due, ci deve essere un potere
federativo con le prerogative specifiche di stringere alleanze, condurre negoziati,
dichiarare guerra o proclamare la pace. Ma Locke, attento lettore di Hobbes, non tarda ad
accorgersi che questa distinzione tra i poteri non può sfociare in una separazione reale:
Benché, come ho detto, il potere esecutivo ed il potere federativo di
ogni comunità siano realmente distinti, è difficile separarli affidandoli alle
mani di persone diverse ... ; in questo caso la forza della comunità sarebbe
sottoposta a comandi diversi, il che sarebbe presto o tardi causa di disor-
dine e rovina.
(Trattato sul governo, XII, 148)
Separato da questi, resta, però, il potere legislativo, che è il vero e proprio depositario
della volontà popolare. Ed è questo potere che deve garantire il rispetto degli interessi
della comunità. Se, infatti, l'esecutivo con la forza vuole arrogarsi anche il potere
legislativo, "quest'ultimo ha il diritto di stroncare quella forza con la sua ".
Il richiamo alla forza per contrastare le mire assolutistiche dell'esecutivo, nel mentre
voleva essere la teorizzazione di un rapporto equilibrato tra i diversi poteri, nei fatti
suonava come un avvertimento alla nuova monarchia costituzionale nata per sanare il
sanguinoso conflitto tra parlamento e monarchia assoluta.
Locke, sollecitato dal conflitti religiosi che per tutto il secolo si erano intrecciati con quelli
politici, nella Lettera sulla tolleranza sostiene quella che oggi potremmo chiamare la "
laicità dello stato ". In tema di religione, ogni singolo deve essere libero di fare la propria
scelta e non deve essere sottoposto a nessuna pressione o persecuzione. Neppure la
chiesa deve richiedere con la propria forza o con quella dello stato un'adesione forzata ai
suoi principi o alle sue pratiche. Unica eccezione a questa vera e propria rivendicazione di
libertà religiosa per tutti i cittadini è rappresentata dal divieto di aderire a religioni i cui
capi siano principi stranieri. In questa limitazione, ovviamente, è chiaramente leggibile
una polemica contro il cattolicesimo romano. Libertà religiosa non significa, però, per
Locke anche libertà di non aderire a nessuna religione. Gli atei, infatti, sono nocivi alla
società, in quanto potrebbero facilmente giurare senza mantener fede, privi come sono di
sacralità e di inviolabilità i loro giuramenti.
Ne La ragionevolezza del cristianesimo, Locke si sforza di accreditare una religione
depurata di tutti gli elementi fantastici e, perciò, contrari all'esperienza ed al buon senso. I
principi basilari del Cristianesimo devono essere semplici e compatibili con la ragione
comune. Al di là dei dogmi e di tutte le sedimentazioni accumulate nella lunga storia delle
controversie teologiche, la religione deve avere un suo nucleo di verità rispondente ad un
criterio di "ragionevolezza ".
La polemica sul pensiero lockiano: il deismo
La filosofia lockiana alimentò una serie di vivaci discussioni che si protrassero per un lungo
periodo di tempo e si intrecciarono, talora condizionandole, con le nuove idee emergenti in
Francia dalla disputa sul cartesianesimo. Il dibattito sorto sui punti nodali della filosofia
lockiana, quali ad esempio il rapporto idee-cose o il senso da dare alla religione, affronta
già molti dei problemi che l'illuminismo inglese e francese dibatteranno di lí a poco, anche
se con atteggiamento piú spregiudicato e con spirito piú battagliero.
L'aspetto del pensiero lockiano che ha maggiore eco e suscita più accanite polemiche è
rappresentato dalla concezione della religione. Locke, riprendendo una lunga tradizione,
aveva tentato un accordo tra religione e ragione, sviluppando il concetto della
"ragionevolezza del cristianesimo". Ma quello che nel sistema lockiano sembrava
secondario, se non marginale, assunse negli ultimi anni del secolo un'importanza
eccezionale. Lo sbocco istituzionale offerto alla seconda rivoluzione (1688), la "Gloriosa
Rivoluzione", come amarono chiamarla gli storici inglesi, risentiva di un compromesso tra
la vecchia cultura assolutistica e quella nuova, democratico-borghese. La monarchia
costituzionale, pur segnando definitivamente la fine della guerra civile tra i difensori della
monarchia e i sostenitori del parlamento, non era riuscita ad eliminare la lotta sul piano
civile e su quello religioso. La lotta politica nell'Inghilterra dell'ultimo decennio del secolo
XVII, mentre perde la caratteristica di lotta per l'instaurazione di nuove strutture
istituzionali e per il correlativo mutamento dei rapporti sociali, si qualifica sempre piú
come lotta di potere tra gli stessi ceti che avevano realizzato la rivoluzione del 1688.
In questo clima il discorso filosofico intorno alla religione e alla libertà di pensiero, finisce
per caratterizzarsi come discorso politico. Anche la difesa della libertà di pensiero, che in
Locke aveva un sapore di pacificazione, assume ora un significato polemico nei confronti
delle religioni positive e delle chiese organizzate. Politica e religione nell'opera dei "liberi
pensatori" inglesi di questo periodo si intrecciano inestricabilmente. La difesa di una
religione razionale, semplice, "senza misteri", sfrondata dai dogmi e dalla tradizione
teologica, designata col nome di deismo, fa tutt'uno con la difesa della libertà politica ed
imprenditoriale della nuova classe. Gli esponenti piú significativi del deismo furono John
Toland, Matteo Tiridal e Antonio Collins.
John Toland (1670-1722), nel Cristianesimo senza misteri, attraverso la critica ai dogmi e
la denuncia dell'uso politico della religione, ritiene di poter recuperare la religione genuina,
senza artificiosi e irrazionali "misteri" e compatibile con la ragione umana. In questa
concezione della religione la Scrittura perde ogni autorità rivelativa della verità ed è
ridotta a "semplice mezzo di informazione". Per provare la sua tesi della religione
misterica come arma di cui si serve il potere politico per reprimere la libertà ed oscurare le
menti, Toland analizza il fenomeno religioso come una componente delle ideologie culturali
e politiche delle diverse epoche. Dalla critica razionale al culto e alla superstizione religiosa
emerge l'ideale dell'uomo nuovo che Toland intende delineare: un uomo consapevole della
forza critica della sua ragione, alieno da ogni superstizione e da ogni fideismo acritico ed
alogico.
La naturalis religio tolandiana, nel vivo della polemica antireligiosa, va assumendo
gradatamente i caratteri del materialismo. Nelle Lettere a Serena, Toland sostiene la tesi
di una realtà costituita da una materia viva, dotata essenzialmente di movimento e,
pertanto, non bisognosa dell'azione di un dio trascendente dal quale dipendere.
Matteo Tindal (1656-1733), a sua volta, nell'opera Il cristianesimo vecchio come la
creazione, vuole provare che il cristianesimo non è nato in un momento preciso della
storia, ma è coevo alla cultura umana. Le sue verità essenziali, infatti, sono state da
sempre possesso degli esseri razionali in ogni luogo ed in ogni tempo. La Scrittura non ha
fatto altro che raccogliere e "ripubblicare" questo patrimonio universale di verità.
Antonio Collins (1676-1729) nel Discorso sul libero pensiero racccoglie tutti i temi deisti e
ribadisce la funzione critica della ragione nelle scelte religiose e morali degli uomini.
La cultura ufficiale inglese reagí con grande veemenza alle idee professate dai deisti.
Questi vennero accusati di ateismo, di libertismo e contro di loro fu organizzata una vera e
propria persecuzione. Non pochi di essi, tra cui Toland e Collins, dovettero riparare
all'estero per sfuggire ad atti di vera e propria repressione.
Quasi come antidoto alle conclusioni deistiche si sviluppano movimenti religiosi a sfondo
misticheggiante, attivissimi nella loro battaglia antirazionalistica. Su questo versante si
segnala, ad esempio, il "metodismo" il cui maggiore esponente fu JOHN WESLEY (1703-
1791). Dal versante filosofico, invece, c'è la ripresa di alcune posizioni lockiane e
newtoniane, intese a recuperare e ad esaltare il valore della ragione e della scienza le cui
verità vengono però, considerate tomisticamente preambula fidei, cioè introduzione e
premessa alla fede e alle verità rivelate. La lockiana "ragionevolezza del cristianesimo" è
utilizzata con un'inversione di prospettive: non il cristianesimo ridotto entro i limiti della
ragione, ma la ragione come introduzione e giustificazione del cnistianesimo. In questo
modo, nel mentre si salvaguardava il valore e la veridicità della ragione, si eliminava dalla
religione positiva ogni elemento di superstizione e di fanatismo. Attivi nella difesa della
utilità dell'uso della ragione nei problemi della morale e della fede furono soprattutto
SAMUEL CLARKE (1675-1725) e JOSEPH BUTLER (1692-1752). Ma chi condusse con
vigore una puntuale e penetrante critica ai fondamenti metafisici su cui poggiavano le
enunciazioni deistiche fu Giorgio Berkeley.
Le sensazioni come segni dei linguaggio divino
La speculazione filosofica di Giorgio Berkeley va situata nell'ambito delle polemiche sulla
natura e sul valore della religione e del dibattito sul materialismo e l' immaterialismo. A
Berkeley, più che la continua ricerca della verità, interessava la conquista di una certezza
fondamentale capace di illuminare la realtà e di vincere dubbi ed obiezioni. Egli ambisce
ad inserirsi nel dibattito filosofico in corso in Inghilterra più come riformatore, come
maestro di verità religiose, che non come ricercatore o scienziato. E se riprende la critica
lockiana al concetto di sostanza tradizionale e la sviluppa ulteriormente in direzione
immaterialistica, è perché quella critica e soprattutto la conclusione cui essa mette capo si
inscrivono nel suo disegno di restauratore della verità teologica. Nel mentre, infatti,
accoglie da Locke il suggerimento di sottoporre a severa analisi l'esperienza sensibile e
l'intero processo conoscitivo, nelle conclusioni poi sembra avvicinarsi maggiormente a
Leibniz e soprattutto a Malebranche.
Giorgio Berkeley nacque a Killerin, in Irlanda, nel 1685. Studiò nel Trinity College di
Dublino dove nel 1707 si laureò ed iniziò la carriera universitaria. Subito dopo scelse lo
stato ecclesiastico nel 1709 divenne diacono. La sua formazione intellettuale era ormai
compiuta. Da questo momento in poi il suo impegno fondamentale non sarà la
continuazione della ricerca o l'approfondimento della verità raggiunta, ma la sua
entusiastica diffusione. Da studioso si trasforma in predicatore della "verità". I capisaldi
del suo sistema sono già tutti presenti in un libro di appunti, pubblicato soltanto nel 1871,
che egli redasse intorno al 1709. Dopo la pubblicazione di una serie di opuscoli sulla
matematica, nel 1710 pubblica le sue opere più importanti: Saggio di una nuova teoria
della visione e Trattato sui principi della conoscenza umana. Ma la freddezza con cui fu
accolto il Trattato, la sua opera maggiore, lo
convinse che l'insuccesso fosse dovuto alla poca chiarezza del testo, non dubitando affatto
della bontà elle sue idee.
Redasse allora una nuova edizione dell'opera in forma discorsiva e letterariamente più
piacevole: nacquero così i tre Dialoghi fra Hylas e Filonous. Si recò a Londra per
provvedere personalmente alla stampa della nuova opera, ma neppure questa volta le sue
idee ottennero consenso o critiche vivaci. Il nuovo libro fu accolto con indifferenza quasi
totale. Decise allora di partire per un viaggio in Italia che dura dal 1713 al 1721. In Italia,
però, egli non cerca gente da ascoltare, dottrine con cui confrontare le sue idee. E' ormai
fermamente convinto della giustezza della sua teoria ed il suo desiderio è soltanto quello
di diffonderla, di parteciparla agli altri con uno zelo missionario. Tiene in questo periodo un
interessante diario, che poi pubblica, il Viaggio in Italia. Al suo ritorno a Londra pubblicò il
De motu per confutare la dottrina newtoniana del movimento. Ma il suo apostolato non
aveva dato i frutti sperati né in Inghilterra e neppure nei paesi toccati durante il suo
viaggio nel continente. Tanto valeva abbandonare quel campo. Progetta così una missione
nelle isole Bermude dove, spera, la semplicità intellettuale degli abitanti possa fare
migliore accoglienza alle sue idee. Ma non raggiungerà la meta fissata. Si fermò a Rhode
Island, a nord-est di Nuova York, e vi rimase circa tre anni rimeditando le sue polemiche
contro la cultura libertina e deistica dell'Inghilterra e redigendo i dialoghi dal titolo
Alcifrone. Nel 1731 torna a Londra per pubblicare il suo ultimo libro. A Rhode Island, però,
era riuscito in parte nel suo intento di fare proseliti. Era riuscito a convertire allo
spiritualismo i due pionieri della filosofia americana: SAMUEL JOHNSON (1709-1784) e
GIONATA EDWARD (1703-1758). A testimoniare il legame che univa il filosofo irlandese
alla nascita del pensiero filosofico nelle colonie inglesi d'America fu dato il nome di
Berkeley ad una città dello stato di San Francisco fondata nel 1868 e sede di una
prestigiosa e vivace università.
Al suo ritorno a Londra era ormai stanco e sfiduciato; nel 1734 accettò l'investitura
vescovile e ritornò in Irlanda dove scrisse ancora qualche opuscolo contro i matematici, e
un'opera, Siris, in cui ribadisce la visione spiritualistica del mondo. Nel 1752 si recò ad
Oxford per ripubblicare alcuni suoi scritti e in questa città morì nel gennaio dell'anno
successivo.
La prima formulazione delle sue idee, Berkeley la fornisce con il Saggio di una nuova
teoria della visione. Con quest'opera il filosofo si inserisce nel dibattito, assai vivo al suo
tempo, sull'ottica, fornendo però una soluzione ai problemi della sensazione visiva assai
lontana da quella offerta nelle loro opere da Cartesio, da Newton, da Locke e da tutta la
trattatistica scientifica del tempo. Partendo dalla distinzione, ormai pacificamente acquisita
dalla scienza seicentesca, tra qualità primarie e qualità secondarie, Berkeley fa notare la
contraddizione esistente tra l'affermazione che il colore non esiste fuori dello spirito in
quanto costituisce "l'oggetto proprio ed immediato della vista", e quella contrapposta,
rivendicante, invece, un'esistenza oggettiva, e perciò extramentale, alla estensione, a
figura e al moto degli oggetti:
Per rispondere a ciò io mi appello all'esperienza di chiunque per sta-
bilire se l'estensione visibile di un oggetto qualsiasi non appaia alla stessa
distanza del suo colore; o anzi se entrambi non sembrino trovarsi per l'ap-
punto nel medesimo luogo. Non è forse l'estensione che noi vediamo
colorata? E ci è forse possibile, anche soltanto col pensiero, separare e
astrarre il colore dall'estensione? Ora dov'è l'estensione là sono certamente
la figura ed il movimento, intendo quelli percepiti con la vista.
(Saggio di una nuova teoria della visione, 42)
L'aver considerata soggettiva la sensazione di colore deve far concludere, allora, che
anche le presunte qualità oggettive nient'altro sono che sensazioni, cioè modificazioni del
soggetto senziente. La distanza e, quindi, l'estensione a rigore non sono neppure
percezioni della vista, ma del tatto.
Tanto le sensazioni visive quanto quelle tattili per Berkeley non sono altro che dei segni
inviati da Dio ai sensi e all'intelligenza dell'uomo per il fine, tutto pratico, di consentire a
quest'ultimo di regolare i suoi atteggiamenti in vista della conservazione della propria vita.
Il Saggio, però, non voleva risolvere problemi squisitamente scientifici; aveva, invece,
come tutte le opere di Berkeley, un intento apologetico e morale. La critica alla filosofia ed
alle scienze del tempo è condotta, infatti, sempre in rapporto alla loro conciliabilità o meno
con la religione. In una lettera del marzo 1710 a Percival, parlando del Saggio di una
nuova teoria della visione, Berkeley diceva:
Rimane ancora una obiezione circa l'inutilità di questo libro: ma
fra poco spero di mostrare che ciò che lì è esposto è giovevole ai fini
della morale e della religione in un Trattato che ho ora in corso di
stampa, il cui scopo è dimostrare l'esistenza e gli attributi di Dio, l'im-
mortalità dell'anima e la conciliabilità della prescienza di Dio con la
libertà degli uomini e, mostrando la vacuità e falsità di diverse parti
delle scienze speculative, ricondurre gli uomini allo studio della religione e
delle cose utili. (The works of G. Berkeley, a cura di A. A. Luce,
T. E. Jessop, 9 voll., London 1948-57, vol. VIII, pag. 31)
Con queste affermazioni Berkeley non solo esplicitava il nesso che lega il Saggio al
Trattato sul principi, ma dichiarava anche il fine che si prefiggeva nello scrivere
quest'ultima opera.
LE CONCLUSIONI DELL'"EMPIRISMO" INGLESE
L'immaterialismo
Al primo apparire il Trattato fu considerato opera stravagante, frutto di un ingegno
amante delle novità ad ogni costo, più che un'opera scientifica. L'amico Percival, cui
Berkeley l'aveva inviato pregandolo di farlo leggere a competenti e di raccogliere obiezioni
e considerazioni, così rispondeva:
Accennai solo al contenuto del vostro libro sui Principi con alcuni
miei amici, persone d'ingegno, ed essi lo misero subito in burla, rifiutando
di leggerlo; e non ancora ho ottenuto che alcuno voglia prenderlo in let-
tura. Un fisico di mia conoscenza si mise a parlare della vostra persona,
concludendo che siete matto e che dovete curarvi. Un vescovo ebbe com-
passione perché vi siete impegnato in una tale impresa, mosso dalla vanità
e dal desiderio di pubblicare qualcosa di nuovo.
(A. CAMPBELL FRASER, in The works of G. Berkeley, Oxford 1901, vol. I, pag. XXXIV)
Ciò che aveva impressionato tanto negativamente gli amici di Percival era la stessa tesi di
fondo del libro: la realtà esterna alla mente umana non possiede alcuna consistenza reale,
l'esistenza delle cose si riduce al loro essere percepite.
La fiducia nell'esistenza di una sostanza materiale è, infatti, per Berkeley, un errore della
conoscenza umana. Questa, dominata da "falsi principi", ha generato negli uomini una
serie di "perplessità, incertezze, assurdità e contraddizioni" che soltanto un'indagine
rigorosa può scoprire e correggere. Berkeley individua nella "opinione che la mente possa
costruire idee astratte" la ragione prima di ogni errore.
Gli uomini, convinti che ad ogni nome debba corrispondere un'idea, hanno creduto che ad
un nome particolare corrispondesse un'idea particolare, ad un nome comune un'idea
astratta. Mentre, invece, il nome comune rappresenta sempre un'idea particolare, anche
quando è usato come simbolo di una serie di oggetti fra di loro simili. Se vogliamo evitare
gli errori derivanti dall'uso improprio del linguaggio, dobbiamo concentrare allora la nostra
attenzione sulle idee e non sulle parole. Le idee, infatti, sono gli unici oggetti della
conoscenza umana e sono fornite alla mente dai sensi. Dalla costatazione che parecchie
idee sono congiunte insieme e "sembrano costituire una cosa" nasce l'abitudine a
designarle con un solo nome:
così, per esempio, si nota che un certo colore, gusto, odore, una certa
figura e consistenza stanno aggregati, e allora tutte queste idee si contano
come una cosa sola, distinta e determinata con il nome di mela.
(Trattato sui principi della conoscenza umana, 1)
Ma se le idee sono gli oggetti della conoscenza, ci deve anche essere un soggetto che le
conosce, le percepisce ed opera su di esse con la volontà, l'immaginazione o il ricordo.
Quest'essere attivo e percepiente è ciò che chiamiamo " mente ", " anima ", " spirito ", "
io ". Esso non coincide con nessuna delle nostre idee, anzi è da esse rigorosamente
distinto. In questo spirito le idee esistono in quanto sono percepite,
perché l'esistenza di un'idea consiste nell'essere percepita.
(Trattato, 2)
Berkeley, in tal modo, identifica percezione ed esistenza. Dire che "esiste" una cosa
equivale a dire che essa è percepita. Le espressioni " c'è un odore ", " c'è un suono ", " c'è
un colore o una figura ", hanno lo stesso significato delle espressioni " un odore è sentito
", un " suono è udito ", " un colore o una figura sono percepiti dalla vista e dal tatto ".
Pensare di andare al di là della percezione per cogliere la cosa in sé, è impresa tanto vana
quanto assurda. L'essere delle cose, infatti, coincide con il loro essere percepite (esse est
percipi). Quelle che noi chiamiamo cose - un tavolo, una casa, un sasso, un uomo - altro
non sono che oggetti percepiti dai sensi; e i sensi percepiscono soltanto idee e sensazioni.
Non è assolutamente pensabile che le idee intese come qualità ineriscano ad una sostanza
materiale non percipiente, esistente in sé, fuori dalla mente; in quanto avere delle idee e
percepirle è tutt'uno:
E' chiaro, dunque, che non può esservi alcuna sostanza o substratum
non pensante di quelle idee.
(Trattato, 7)
E neppure si può credere che fuori dalla mente esistano delle sostanze con alcune qualità
di cui le idee siano "copie o rassomiglianze", perché le idee rassomigliano alle idee e a
nient'altro.
Frutto di un'artificiosa astrazione si rivela anche la distinzione che molti filosofi, Cartesio e
Locke compresi, hanno fatto tra qualità primarie e qualità secondarie, ritenendo le prime
qualità oggettive esistenti nei corpi, le seconde qualità sensibili coincidenti con la
percezione soggettiva. Ma i due tipi di qualità sono inscindibili tra di loro. Non ci si può
formare l'idea di un corpo esteso, se non gli si attribuisce un colore o qualche altra qualità
di quelle che si dicono secondarie e soggettive:
Estensione, figura e moto, insomma, sono inconcepibili senza le altre
qualità; e dove sono le une sono anche le altre, cioè nella mente e in nes-
sun altro luogo. (Trattato, 10)
Concedendo pure che possano esistere fuori dalla mente delle sostanze materiali,
corrispondenti alle nostre idee dei corpi, si deve convenire che esse non sono conoscibili
da parte dell'uomo, né attraverso i sensi, né attraverso la ragione. I primi, infatti, non
percepiscono le sostanze materiali, ma soltanto sensazioni o idee, la seconda non può
inferire necessariamente dalle nostre idee l'esistenza dei corpi esterni, in quanto tra idee e
corpi non c'è alcuna connessione necessaria. Tutti i possibili argomenti intesi a giustificare
resistenza di corpi extramentali si spuntano contro questa riflessione: per parlare di corpi
esterni bisogna comunque pensarli, ma una volta pensati essi sono idee e quindi non sono
esterni alla
mente.
Per Berkeley è assurda ed impensabile l'esistenza di una sostanza materiale: l'unica
sostanza esistente è lo spirito che percepisce le idee. Ma se le idee non sono prodotte da
una sostanza materiale extrapsichica, da chi vengono prodotte? Il nostro spirito, per
quanto attivo ed incorporeo, è capace soltanto di una limitata attività. Non è in suo potere
infatti scegliere di avere una percezione o un'altra:
Quando nella piena luce del giorno io apro gli occhi, non è in mio
potere di scegliere se vedrò o no, o di determinare quali particolari oggetti
si presenteranno alla mia vista; e così per l'udito e per gli altri sensi, le idee
impresse su di essi non sono creature della mia volontà. Vi è perciò
qualche altra Volontà o Spirito che le produce. (Trattato, 29)
Lo spirito umano può produrre, infatti, soltanto le idee dell'immaginazione, quelle idee cioè
nate dalla libera combinazione operata dalla nostra volontà. Ma le idee del senso, con la
loro forza, con la loro vivezza e la loro distinzione si presentano secondo un ordine stabile
e coerente e sono avvertite secondo un regolare procedimento:
queste regole definite, questi procedimenti stabili, con cui la Mente,
da cui dipendiamo suscita in noi le idee del senso, si chiamano leggi di
natura. (Trattato, 30)
Le leggi di natura, però, lungi dall'inerire ad una presunta realtà materiale esistente fuori
dalla mente umana, rappresentano l'ordine immutabile e coerente con cui Dio nel pensare
le idee le crea e le imprime nei nostri sensi. La credenza nell'esistenza di una sostanza
materiale nasce proprio dalla consapevolezza che non sono i nostri sensi a produrre le
sensazioni. Gli uomini, infatti, dovendo individuare la fonte da cui provengono le
sensazioni, invece di ricorrere allo Spirito creatore, cioè a Dio, preferiscono supporre
l'esistenza di una natura materiale regolata da leggi necessarie ed immutabili. Ma, obietta
Berkeley, la regolarità e la costanza su cui si fonda il sistema del sapere scientifico e delle
previsioni sperimentali, rimangono immutate anche quando sono riferite ad un ordine fisso
di idee e non ad un mondo esterno di cose materiali.
Contro chi ritiene che l'immaterialismo, facendo coincidere esistenza e percezione possa
portare all'assurdo della creazione e della distruzione continua degli oggetti a seconda che
ci sia o meno una mente che li percepisca, precisa che se è vero che gli "oggetti del
senso" sono esistenti in quanto percepiti, è vero anche che da ciò non si deve concludere
che essi non esistono al di fuori dell'atto della percezione individuale; vi è infatti un altro
spirito che li pensa indipendentemente da me e nel pensarli li fa essere: questo spirito è
Dio.
Rispetto alla regolarità, all'ordine ed alla continuità del comportamento della "natura"
l'immaterialismo soddisfa quanto il materialismo, anzi offre qualche vantaggio in più. I
presunti corpi materiali, essendo passivi, non collaborano alla formazione delle idee; il
concetto di corpo, invece, assume un significato positivo quando al posto di sostanze
esterne indica un complesso costante di idee, quando è usato come "segno" indicante la
regolarità con cui Dio produce le idee, come termine di un linguaggio divino. Sul piano
pratico l'immaterialismo offre una serie di vantaggi considerevoli. Permette di sconfiggere
lo scetticismo, che, puntando sul dualismo tra realtà esterna ed idee della mente, nega
che la mente possa conoscere la realtà per come essa è "veramente".
Consente, inoltre, di distruggere le fondamenta su cui poggiano tutti gli errori religiosi, in
primo luogo l'ateismo. Gli atei, infatti, per negare Dio, devono ammettere l'esistenza di
una materia increata ed eterna e devono ridurre ogni cosa a corpo, anche l'anima. Ma
quando credono che l'anima sia corruttibile come il corpo dell'uomo, negano
conseguentemente ogni libertà,
ogni disegno intelligente nella formazione delle cose e pongono
invece come radice di ogni essere una stupida sostanza non pensante, esi-
stente di per sé; ed è anche naturale che siano tutt'orecchio verso coloro
che negano una Provvidenza o una vigilanza d'una Mente superiore nelle
faccende del mondo, attribuendo tutta la serie degli eventi al caso cieco o
ad una fatale necessità nascente dall'impulso d'un corpo sull'altro.
(Trattato, 93)
Ed è proprio contro i materialisti del suo tempo, indicati come "Epicurei, Hobbesiani e
simili", che Berkeley elabora la sua teoria.
Una volta negata l'esistenza della materia. gli atei "saranno privati del loro grande
sostegno e cacciati dall'unico fortilizio" in cui ancora trovano rifugio. Eliminata la fiducia
nella materia come supporto delle cose sensibili, si è obbligati a far ricorso a Dio per
spiegare la regolarità, la bellezza e l'armonia dell'organizzazione delle nostre idee sensibili.
Il ricorso alla fede in Dio ci consente di andare oltre la scienza, di mirare a "più nobili fini".
La scienza, infatti, opera come se fosse una grammatica del linguaggio di Dio, si interessa
dei " segni " che indicano le cose e non delle loro cause. E, come è possibile scrivere
impropriamente anche quando siano rispettate le regole della grammatica, cosi quando si
ragiona sulle leggi generali della natura, estendendo troppo le analogie, si può cadere in
errore. Con la fede, invece, andiamo oltre i segni delle cose per capirne le cause, al fine di
ottenere adeguate nozioni intorno alla grandezza, alla saggezza ed alla bontà del
Creatore.
Confutata l'esistenza di un mondo materiale esistente fuori della mente, le uniche
sostanze certe sono gli spinti percipienti finiti e lo spinto creatore infinito: le anime e Dio.
Di queste realtà spirituali la mente non possiede l'idea, in quanto di esse non si hanno
sensazioni, ma possiede la " nozione ", cioè una intuizione immediata e certissima. Le
anime, essendo realtà spirituali semplici, sono immortali.
Esaurita la sua battaglia polemica contro il materialismo e l'ateismo, Berkeley cerca di
dare un contenuto positivo alla sua apologetica. Così nell'Alcifrone tesse la difesa della
religione rivelata: non è la religione positiva che deve essere ridotta, come vogliono i
deisti, a religione naturale, ma, viceversa, è quest'ultima che deve essere compresa e
ricondotta in quella. Nel De Motu combatte la concezione meccanica del movimento per
dimostrare che la materia, se pure esistesse, sarebbe completamente passiva. Il moto ha
come unica causa la mente divina ed i corpi mossi non sono altro che complessi di idee. In
Syris, infine, Berkeley costruisce una metafisica neoplatonica che si allontana dalle
premesse empiristiche delle giovanili, accentuando i motivi religiosi e misticheggianti sua
speculazione.
Sul piano politico Berkeley si fa assertore dell'obbligo dei sudditi di obbedire passivamente
alle leggi positive e al potere costituito: l'obbedienza alle leggi equivale all'obbedienza a
Dio. La società, infatti, non nasce da un libero contratto tra gli individui, ma dalla stessa
volontà di Dio che inscrive nell'animo umano le leggi. Solo nei casi di instabilità del potere
statale, l'uomo può riprendere una sua autonomia per seguire le leggi naturali impresse da
Dio nel suo spirito. Ma una volta cessata l'incertezza e l'instabilità politica, bisogna
ritornare alla sottomissione alle leggi e niente può giustificare la disubbidienza e la
ribellione.
moralisti inglesi: vizi privati e pubbliche virtù
Se nei deisti si riscontrano gli aspetti più radicaleggianti dell'illuminismo certamente motivi
illuministici sono presenti anche nei moralisti come Antonio Shaftesbury o Francesco
Hutchinson o in un "immoralista" come Bemardo Mandeville.
Antonio Shaftesbury, nipote dello Shaftesbury amico e protettore di Locke, nacque a
Londra nel 1671 e morí a Napoli nel 1713. Autore di una serie di saggi tra cui la Ricerca
sulla virtù e la Lettera sull'entusiasmo, il moralista Shaftesbury si fece propugnatore di un
illuminismo garbato, ironico, capace di smontare le tesi degli avversari con finezza ed
eleganza. Nella seconda delle opere citate, all'entusiasmo identificato con il fanatismo di
quanti si credono direttamente ispirati da Dio e ritengono, pertanto, le loro credenze le
uniche vere, egli contrappone l'ironia. Insieme al sarcasmo e alla satira l'ironia è lo
strumento di cui si deve servire la ragione per condurre le sue indagini e le sue verifiche al
fine di evitare di ricadere nell'atteggiamento di arroganza e di sicurezza propria dei
dogmatici. Senza ironia prende corpo lo spirito intollerante della superstizione e del
fanatismo:
Sono convinto che l'unico metodo per salvaguardare il buon senso
degli uomini e tener desto lo spirito nel mondo, sia lasciarlo libero. Ma lo
spirito non è mai libero dove è soppressa la libera ironia; contro le strava-
ganze corrucciate e contro gli umori malinconici non esiste infatti rimedio
migliore di questo. (Lettera sull'entusiasmo, II)
Ma l'ironia e l'entusiasmo, pur così diversi fra di essi, hanno in comune la stessa origine
emotiva. Nella vita dell'uomo, come in quella degli stati, l'emozione svolge un ruolo
fondamentale di orientamento e di scelta. Ma l'emozione non va confusa con il puro
istinto, con tutto ciò che è irrazionale o arazionale. Anzi l'emozione può tranquillamente
essere guidata ed indirizzata dalla ragione. Emozione e ragione, entrambe intese come
forze umane limitate, guidano l'uomo nelle sue costruzioni intellettualistiche e nelle sue
scelte pratiche. L'ironia stessa di cui Shaftesbury tesse le lodi, non è altro che una
emozione corretta e sostenuta dalla ragione. Dalla collaborazione di queste due forze
fondamentali nella vita psichica dell'uomo deriva, allora, uno spirito tollerante, vigile,
analitico, disponibile alla verifica continua, alla libera indagine e alla critica di ogni verità.
Il sopravvento della emozione porta al fanatismo, al dogmatismo, alla schiavitù
intellettuale, religiosa e politica; mentre il sopravvento del razionalismo arido conduce
all'orgoglio intellettualistico, a costruzioni mentali aride e lontane dalla vera natura
dell'uomo. La ragione deve fungere da forza moderatrice degli impulsi e delle passioni
dell'uomo anche nelle scelte morali. Tra le diverse tendenze della nostra psiche la ragione
deve guidare la nostra scelta su quelle che maggiormente si presentano utili all'individuo e
alla comunità. La riflessione, come capacità di analisi sulle emozioni rese oggettive nella
coscienza, mette in grado l'uomo di scegliere e di rafforzare con la capacità della sua
ragione quelle emozioni che maggiormente esaltano l'individuo come parte integrante
della comunità, come "animale sociale".
L'aver calcato la mano sulle funzioni della ragione nella determinazione del concetto di
bene e male, conduce Shaftesbury a separare la morale dalla religione. L'uomo è capace,
indipendentemente dalla sua fede e dalle sue credenze religiose, di stabilire i principi
morali:
Una creatura, prima di avere una chiara e precisa nozione di Dio, può
possedere una concezione o un senso del giusto e dell'ingiusto e vari gradi
di vizi o virtù.
(Ricerca sulla virtù, I, III, 3)
Anche l'ateo può agire virtuosamente, possedendo una chiara consapevolezza delle norme
morali. D'altro canto chi si comporta virtuosamente in vista di un premio o per paura di un
castigo nell'aldilà, è chiaramente meno virtuoso di chi considera la virtù come premio a se
stessa.
L'unica forma di religione accettabile è, allora, quella che dalla considerazione della
perfetta armonia e razionalità dell'universo ci fa risalire a un ente creatore perfetto e
benevolo:
Dio non poteva testimoniare se stesso, o dimostrare agli uomini la
propria esistenza in altro modo che rivelandosi alla loro ragione, facendo
appello al loro giudizio, e sottoponendo le proprie opere al loro esame e
alla loro fredda deliberazione. La contemplazione dell'universo, le sue leggi
il suo assetto sono le sole basi sulle quali è possibile fondare una solida
fede nella divinità. (I moralisti, II, 5)
Il richiamo alle emozioni e alle passioni dell'uomo ha fatto molto spesso considerare
Shaftesbury come un anticipatore di una certa sensibilità romantica. Nonostante qualche
affinità tra alcune affermazioni del filosofo inglese e certe intonazioni della cultura
romantica, (cfr. vol. III, Cap. I), non crediamo sia corretto considerare estraneo alla
cultura illuministica tutto quanto si richiama al sentimento o comunque non rientra nelle
strettoie del razionalismo puro.
Discepolo e continuatore di Shaftesbury, Francis Hutchinson (1694-1747) fu autore di una
Ricerca sulle idee di bellezza e di virtù, di un Trattato sulle passioni, di un Sistema di
filosofia morale. Riprendendo l'ottimismo leibniziano e accentuando quello shaftesburiano,
Hutchinson vede la bontà e l'intelligenza del Creatore testimoniata dalla perfezione e
dall'armonia di tutto il creato. E sebbene nel mondo non manchino miserie e dolori, la
felicità è presente in misura sicuramente maggiore. Anzi anche il dolore ha una funzione
positiva; serve infatti a Dio per esortare ed ammonire gli uomini. L'armonia e la bellezza
dell'universo trova un'immediata corrispondenza nell'anima umana grazie al senso morale.
Indipendentemente dai sensi che ci testimoniano il mondo esterno, il senso morale come
percezione pìú sottile ed immediatamente presente nell'anima ci testimonia la spiritualità
dell'uomo. Accanto al senso morale c'è il senso della simpatia, il senso sociale, il senso
religioso.
Tutti ci indirizzano alla felicità e ad un delicato godimento dei piaceri mondani. La stessa
socievolezza dell'uomo è legata al senso morale; moralità e socialità si confondono fino a
coincidere. La moralità, infatti, ispira comportamenti capaci di produrre la massima felicità
per il maggior numero di uomini possibile.
All'ottimismo e alla socievolezza di Hutchinson fa quasi da contraltare il pessimismo e
l'utilitarismo particolaristico di Bernard de Mandeville (1670-1733). Nella sua opera La
favola delle api, Mandeville capovolge completamente la visione della natura umana
propostaci dai moralisti della sua epoca. Nell'uomo non esiste alcun "senso morale" e
nessuna "simpatia" per i suoi simili. Gli uomini non costruiscono la società grazie alle loro
tendenze alla socievolezza o alle loro virtù, ma solamente grazie al loro egoismo e ai loro
vizi. Ciò che i moralisti chiamano male è il vero fondamento della vita associata.
Raccontando una gustosa favola, nella quale si mostra come un alveare prospero e
vizioso, in seguito ad una "riforma morale" fosse diventato virtuoso ma povero, Mandeville
vuole dimostrare che senza il naturale istinto alla felicità dei singoli non ci sarebbe
neanche la società. La tendenza a soddisfare questo istinto egoistico porta gli uomini a
consumare sempre di più, contribuendo in tal modo ad incrementare tutte le attività
produttive su cui si basa la ricchezza delle nazioni. I "vizi privati" si trasformano in tal
modo in "pubblici benefici". Se veramente trionfassero i moralizzatori, gli uomini
perderebbero ogni interesse per la vita associata, per il lavoro e per tutto ciò che produce
felicità. Quella che comunemente è chiamata virtù, ad una più attenta analisi, si rivela un
egoismo camuffato, o il cedimento ad una moda effimera e transeunte. Soltanto nel
soddisfacimento della sua tendenza al "lusso" e alla vita piacevole, l'uomo può realizzare
se stesso. La vita contemplativa, infatti, come tendenza alla pura speculazione e alla
conoscenza disinteressata della natura, è destinata allo scacco. La natura rimane una
forza oscura, impenetrabile all'occhio e alla ragione dell'uomo; essa si manifesta soltanto
come fonte di dolore e di sofferenza.
Mandeville, con il suo accentuato pessimismo e l'esaltazione della tendenza consumistica,
assecondava lo spirito imprenditoriale dell'Inghilterra settecentesca, abituato orinai a
misurare la validità delle sue norme di comportamento dal successo economico che esse
assicuravano. Ad una scala di valori etici puramente razionali, Mandeville sostituisce in tal
modo un criterio pratico ed utilitaristico per la verifica della "bontà" di un atteggiamento.
Il moralismo di Shaftesbury o di Hutchinson e l'immoralismo di Mandeville hanno in
comune l'abbandono della concezione che tutta la vita intellettiva e morale dell'uomo
dipenda dalla ragione. Rispetto a Locke, che, pur avendola considerata finita e limitata nei
suoi poteri, continuava a considerare la ragione l'unica ispiratrice di ogni attività umana, i
moralisti hanno segnato un'inversione di tendenza: senza negare la presenza e l'utilità
della ragione nelle scelte morali e nell'attività conoscitiva, non le riconoscono né il ruolo di
guida esclusiva, né di guida privilegiata nella vita intellettuale e morale dell'uomo. Essi
hanno riconosciuto anche ad un'altra "facoltà" dello spirito il potere di ispirare la condotta
dell'uomo. Il sentimento, moderato e guidato dalla ragione, rappresenta infatti la vera
natura dell'uomo. E' a questa cultura esaltatrice della sfera emotiva, considerata non
contrapposta né subaltema a quella razionale, che si richiama David Hume.
Hume: la ricerca sulla "natura umana"
Sulla scorta dell'insegnamento dei moralisti, Hume ritiene di poter allargare l'indagine
lockiana a tutta la natura umana. Se Locke aveva voluto indagare "origine, certezza, ed
estensione della ragione", Hume, con la stessa metodologia critica di Newton, ritiene di
poter andare oltre quest'ambito, da lui ritenuto ristretto, per evidenziare il ruolo e
l'importanza dei sentimento non solo nella sfera dell'etica e dell'estetica, ma anche in
quella squisitamente conoscitiva.
David Hume nacque ad Edimburgo nel 1711 da una famiglia di piccola nobiltà scozzese. La
sua passione per la cultura spinse la fimiglia ad avviarlo allo studio della giurisprudenza.
Finiti gli studi si reca a Bristol per inserirsi negli affari, ma dopo pochi mesi trova che quel
genere di lavoro non è per niente adatto alla sua natura. Dal 1734 si trasferisce in Francia,
prima a Reims, poi a La Flèche. In questi anni scrive il Trattato sulla natura umana. Nel
1737 ritorna a Londra e l'anno successivo pubblica il trattato scritto in Francia. L'opera,
contrariamente alle aspettative dell'autore, passa completamente sotto silenzio.
Convintosi che l'insuccesso dipendeva dallo stile ancora acerbo, ne ricava un Estratto che
fa pubblicare nel 1740. Nell'anno successivo pubblica anonima la raccolta di quindici Saggi
morali e politici che raccoglie consensi ed elogi. Nel 1745, per l'opposizione dei professori
moderati, non ottiene una cattedra di Etica e di Psicologia nell'Universìtà di Edimburgo.
Decide allora di cercare un altro lavoro per migliorare le sue condizioni economiche.
Segue, in qualità di segretario, il generale di Saint Clair presso le
ambasciate militari di Vienna e di Torino. Nel frattempo rielabora la prima parte del suo
Trattato riesponendola in forma più piana e semplice. La pubblica nel 1748 con il titolo
Ricerche sull'intelletto umano. Dal 1749 al 1751 ritorna nella casa paterna dove compone
le Ricerche sui principi della morale che vengono pubblicate a Londra nel 1751. Subito
dopo, superate le accanite opposizioni da parte dei religiosi ortodossi, ottiene il posto di
conservatore della biblioteca della Facoltà degli Avvocati. Disponendo di una biblioteca così
vasta, progetta di scrivere una Storia d'Inghilterra. L'opera, composta dal 1754 al 1761, si
presenta nuova rispetto ad altre trattazioni simili perché non limita le analisi ai fatti
militari e politici, ma le estende alle condizioni sociali, all'arte, alla letteratura, ai costumi.
In più riprese Hume era stato attaccato per le sue idee religiose e morali e, quasi per
difendersi e precisare il proprio pensiero in merito, aveva scritto fin dal 1751 i Dialoghi
sulla religione naturale, ma non li pubblicò su consiglio di un amico, per non peggiorare la
sua fama con uno scritto così ostile tanto al deismo che alla ortodossia religiosa. Nel 1757
pubblica la Storia naturale della religione. Dal 1763 al 1766 ritorna a Parigi in qualità di
segretario dell'ambasciatore inglese in Francia. Frequenta i salotti illuministici e stringe
amicizia con i maggiori esponenti di questo movimento: D'Alembert; Diderot, Buffon,
Helvétius, D'Holbach e Rousseau.
Negli anni 1767-1769 occupa l'ufficio di Sottosegretario di Stato. Si ritira poi ad
Edimburgo per godere degli agi e della fama ormai conquistati. Nel 1776 viene colpito da
un tumore intestinale che lo conduce alla morte nell'agosto dello stesso anno.
Il compito fondamentale che Hume affida alla ricerca filosofica è quello di indagare sulla
"natura umana" allo stesso modo in cui gli scienziati hanno indagato sulla "natura fisica".
Mentre da Bacone in poi si è proceduto allo studio della realtà fisica applicando il metodo
sperimentale, nello studio della natura umana si procede ancora per via di ipotesi. Hume
concepisce, fin dall'inizio della sua attività filosofica, il disegno di estendere allo studio
dell'uomo la stessa metodologia delle scienze fisiche.
Hume, come Newton, dichiara di non voler far ricorso alle ipotesi e di non voler trarre
alcuna conclusione se non "è autorizzato dall'esperienza". All'obiezione che l'uomo e la
natura, non essendo la stessa cosa, non possono essere studiati con la stessa
metodologia, Hume risponde:
Ma vale quanto meno tentare se la scienza dell'uomo non comporti
lo stesso rigore di cui si son mostrate suscettibili molte parti della filosofia
naturale. Pare che ci siano tutte le ragioni del mondo per immaginare che
la si possa portare al massimo grado di esattezza. Se esaminando distinti
fenomeni troviamo che si risolvono in un principio comune e possiamo
ricondurre questo principio ad un altro, arriveremo infine a quei pochi
principi semplici dai quali dipende tutto il resto. E, benché non si possa
mal giungere ai principi ultimi, è una soddisfazione spingerci avanti fin
dove ce lo consentono le nostre facoltà.
(Estratto dal trattato sulla natura umana)
D'altronde lo studio della natura umana è propedeutico ad ogni altra ricerca. Tutte le
scienze sono comprese, infatti, nella scienza che studia l'uomo e da essa dipendono. Una
volta conseguita la perfetta comprensione dei principi della natura umana possiamo
agevolmente procedere nello studio di tutte le altre branche del sapere ed aspirare a
costruire in tal modo un "sistema delle scienze ". Non c'è alcun sapere infatti che non
promani dall'uomo e ad esso non si riferisca: la logica cerca di spiegare i principi e le
operazioni della nostra facoltà di ragionare e di mostrare la natura delle nostre idee; la
morale e l'estetica riguardano i nostri comportamenti, i nostri gusti ed i nostri sentimenti;
la politica studia gli uomini nei loro rapporti sociali; la stessa religione che, come la
teologia, sembra scienza divina, in fondo è un prodotto dell'attività dello spirito umano e
trova la sua spiegazione nelle istanze irrazionali della psiche.
Lo studio della natura umana non si deve limitare, allora, alla sola indagine sull'intelletto,
ma deve investire tutta la sfera psichica per scoprire la radice profonda che è alla base di
tutte le attività, da quelle intellettuali a quelle morali, a quelle religiose. Hume, nel
concepire la vita psichica dell'uomo non immediatamente coincidente con l'intelletto né
direttamente da esso dipendente nelle manifestazioni emotive e passionali, si distacca
vistosamente dalla tradizione intellettualistica. Infatti ritiene, come vedremo, che la vita
psichica, sfera razionale compresa, sia tutta dominata da un'emozione; è convinto che
ogni certezza sia soltanto frutto di un'abitudine a credere nella regolarità e nella ripetitività
dei fenomeni. L'intelletto può conseguire la certezza soltanto nello studio della geometria,
dell'algebra e dell'aritmetica. Ma appena varca i confini di questo mondo di pure idee e
punta la sua attenzione sulle "materie di fatto ", cioè sulla natura, sugli eventi storici e
così via, perde ogni certezza, in quanto in materia di fatto, finché l'esperienza non ha
provato il verificarsi di un fenomeno, il contrario è sempre possibile.
Affermata la certezza delle dimostrazioni matematiche, Hume vuole, però, concentrare la
sua attenzione, facendo uso del metodo "sperimentale", proprio sulle forme di
"probabilità" inerenti alle "materie di fatto". Ed avverte che oltre a queste due forme di
conoscenza, quella certa della matematica e quella probabile della natura e della storia,
all'uomo non è concessa nessun'altra possibilità conoscitiva. A conclusione della Ricerca
sull'intelletto umano, per circoscrivere con chiarezza e precisione i limiti ed i poteri della
psiche, così scrive:
quando scorriamo i libri di una biblioteca persuasi di questi principi,
che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per
esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene
qualche ragionamento astratto sulla quantità o sui numeri? No. Contiene
qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatto o di esistenza? No. E
allora gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie ed inganni.
(Ricerca sull'intelletto umano, XII, 3)
La logica: le impressioni, le idee e l'associazionismo
La prima parte dell'ideale "sistema delle scienze", incentrato sulla natura umana, è la
logica. Nell'analisi del funzionamento del nostro pensiero dobbiamo, ovviamente, partire
dagli elementi semplici di conoscenza. Hume, come Locke, nega che nella nostra mente
possa esserci un qualsiasi contenuto di pensiero che non abbia la sua origine nella
sensibilità, che non sia una percezione; nega, cioè, che ci siano idee innate, non
provenienti dalla nostra esperienza. Con il termine percezione si deve intendere
" tutto ciò che può essere presente alla mente, sia che esercitiamo i
nostri sensi, sia che siamo mossi dalla passione o che esercitiamo il pen-
siero e la riflessione.
(Estratto)
Ma all'interno della percezione bisogna operare una distinzione a seconda della attualità o
meno delle percezioni stesse e, di conseguenza, dei loro differenti gradi di forza e di
vivacità. C'è, infatti, un'enorme differenza tra il bruciore provato mettendo la mano sul
fuoco e il bruciore che ricordiamo di aver provato quando ripensiamo a quella esperienza.
Le percezioni avvertite nell'attualità che stiamo vivendo, Hume le chiama impressioni,
quelle avvertite in assenza della passione o dell'oggetto che ha provocato l'impressione, le
chiama idee. Le prime, pertanto, sono "vivaci e forti", le seconde "scialbe e deboli". Le
idee, inoltre, derivano sempre dalle impressioni e mai viceversa:
per dare ad un bambino l'idea dei colore scarlatto o arancione,
gli presento degli oggetti, cioè gli procuro le relative impressioni; e non
ammetto l'assurdità di cercare di produrre in lui le impressioni suscitando
nel suo animo le idee. Dunque il fatto che le impressioni precedono le
idee è la prova che le impressioni sono le cause delle idee e non viceversa.
(Trattato sulla natura umana, I, I, 1)
Ogni qualvolta allora un'idea si presenta oscura o ambigua non ci rimane altro che
domandarci da quale impressione proviene per renderla chiara e precisa. Questo legame
tra impressione ed idea ci consente anche di risolvere alcuni problemi derivanti dal cattivo
uso del linguaggio. Quando, infatti, sospettiamo che un termine non sia connesso ad
alcuna idea, ci dobbiamo domandare da quale impressione è ricavata quella presunta idea
suggerita da quella parola. Se non si può con certezza indicare alcuna impressione si può
concludere che quel termine è privo dì significato. La riproduzione nello spirito di
un'impressione sotto forma di idea può avvenire in due forme diverse:
o, essa, nel riapparire conserva in grado rilevante la vivacità primitiva
e allora è qualcosa di intermedio fra un'impressione ed un'idea; oppure
perde del tutto quella vivacità ed allora è un'idea perfetta. La facoltà per
cui le idee appaiono nella prima forma è chiamata memoria; l'altra è l'im-
maginazione.
(Trattato, I, I, 3)
Ma per quanto con la memoria possiamo avvicinarci alla vividezza e alla forza delle
impressioni vissute, non possiamo mai riprodurle con la stessa intensità. Nessuna idea,
infatti, è autonoma dalla corrispondente impressione. In questo senso possiamo, con
Locke, affermare che non esistono idee innate. Ma se intendiamo
per innato quello che è originale o non copiato da una precedente
percezione, possiamo affermare che tutte le impressioni sono innate e che
le idee non sono innate.
(Ricerca sull'intelletto umano, II)
Ma oltre alle impressioni sono "innati", nel senso dì non derivati da altre percezioni, anche
una serie di "istinti naturali" come l'amor proprio, il risentimento per le ingiurie, o la
passione sessuale. In quanto "istinti", infatti, essi non dipendono se non dalla
"costituzione originaria della mente umana".
Il primum da cui deriva tutta la nostra conoscenza è rappresentato, dunque, dalle
impressioni e dalle idee da esse derivate. Ora,
se le idee fossero del tutto slegate e sconnesse, solo il caso le potrebbe
unire; ma è impossibile che le idee semplici si uniscano regolarmente in
idee complesse (come avviene) senza un legame che le unisca tra loro,
senza una proprietà associativa, in modo che un'idea ne introduca un'altra
naturalmente. Questo principio di unione fra le idee non deve intendersi
come una connessione indissolubile; ... noi dobbiamo considerare tale prin-
cipio come una dolce forza che comunemente s'impone, facendo che la
mente venga trasportata da un'idea a un'altra. Al posto della connessione
indissolubile con cui le idee sono unite nella memoria, si ha nell'immagi-
nazione l'unione per associazione. Essa è una specie di attrazione che ha
grande importanza nel mondo del pensiero, non meno che in quello fisico.
(Trattato, I, I, 4)
Le idee nello spirito non sono naturalmente ordinate e connesse fra di loro; nella mente
umana non c'è il rispecchiamento di un ordine oggettivo, esistente nelle cose; non c'è la
riproduzione ideale di rapporti reali. Ma è la mente umana stessa che ordina e connette le
idee e le impressioni. Mentre la memoria richiama alla mente un ordine già stabilito nel
passato con una regolarità che fa pensare ad una connessione indissolubile,
l'immaginazione unisce le nostre idee attraverso un meccanismo associativo che non deve
far pensare ad una connessione indissolubile. Questa tendenza all'associazione è una forza
istintiva che s'impone alla mente e che può essere paragonata alla newtoniana forza di
attrazione. Al di là della mente è perfettamente inutile cercare un fondamento oggettivo di
tali legami e di tali relazioni. Questa "dolce forza" di "attrazione", ovviamente, non opera,
però, al di fuori di ogni norma e indipendentemente da ogni principio. Essa, invece, opera
in circostanze precise e seguendo tre principi fondamentali: la somiglianza, la contiguità e
la causalità.
La somiglianza, ad esempio, ci fa stabilire subito la relazione di un ritratto con la persona
che vi è raffigurata; la contiguità ci consente, osservando una cosa, di correre con la
mente ad un'altra ad essa vicina, per esempio un fiume ci fa pensare alla città da esso
attraversata; la causalità ci autorizza ad andare con la mente al padre mentre pensiamo al
figlio. L'applicazione di questi principi dà forma, struttura ed articolazione a tutto il nostro
sapere e produce effetti eccezionali nella conoscenza della natura umana.
L'effetto più importante di questa pratica associativa è la produzione delle idee complesse,
cioè di quelle idee che già Locke classificava come idee di relazione, di modo e di
sostanza. Le idee di relazione nascono dai rapporti di paragone che la mente stabilisce tra
più idee indipendentemente dal principio di cui ci serviamo per instaurare un tale
rapporto. Quelle di modo e di sostanza, a loro volta, vengono formate attraverso la
associazione di più idee semplici. Se ogni idea, infatti, deriva da un'impressione, possiamo
domandare: da quale tipo di impressione deriva l'idea di sostanza?
Se ci viene data dai sensi, ci dicano da quali e in quali modi; se viene
percepita dagli occhi, deve essere un colore; se dagli orecchi, sarà un suono;
se dal palato un sapore; lo stesso si dica per gli altri sensi. Nessuno sosterrà
credo, che la sostanza è un colore, un suono o un sapore. L'idea di
sostanza deve, pertanto, se veramente esiste, derivare da una impressione di
riflessione. Ma le impressioni di riflessione si riducono a nostre passioni od
emozioni; e nessuna di queste può rappresentare una sostanza. Non
abbiamo, perciò, nessuna idea di sostanza che sia distinta da quella di una
collezione di qualità particolari. L'idea di sostanza, come pure quella di
modo, non è che una collezione di idee semplici unite dall'immaginazione.
(Trattato, I, I, 6)
Il termine sostanza non indica, allora, nessuna realtà né materiale, né spirituale, esistente
in sé, fuori dalla mente; indica soltanto un'idea complessa ottenuta grazie alla capacità
associativa dell'immaginazione. All'idea di sostanza sono collegate le idee di spazio e di
tempo. Contro la metafisica realistica, per esempio di un Newton, che riteneva lo spazio
ed il tempo realtà oggettive e assolute, Hume sostiene che spazio e tempo non sono
impressioni originarie. Attraverso i nostri sensi non avvertiamo mai l'impressione della
estensione spaziale o della durata temporale. Osservando per esempio una tavola che mi
sta davanti mi faccio l'idea di estensione. A prima vista sembrerebbe che la estensione
spaziale sia una impressione originaria derivata da una sensazione visiva.
Ma la vista mi trasmette soltanto le impressioni di punti colorati
disposti in un certo modo. Se l'occhio percepisce qualcosa di più, vorrei
che qualcuno me l'indicasse. Se questo non è possibile, possiamo conclu-
dere con certezza che l'idea dell'estensione non è altro che la copia di
questi punti colorati e del modo loro di apparire.
(Trattato, I, II, 2)
Bisogna concludere allora che l'idea di spazio non nasce da una sensazione, ma da un
modo di sentire; è prodotta, infatti, dal presentarsi dei diversi punti ordinati secondo un
principio di "coesistenza". Lo stesso ragionamento vale anche per l'idea del tempo.
Essa, infatti
non deriva da un'impressione particolare mescolata ad altre, ma nasce
dalla maniera complessiva con la quale le impressioni si affacciano alla mente
senza essere nessuna di esse. Cinque note suonate nel flauto ci danno l'im-
pressione e l'idea del tempo, ma il tempo non è una sesta impressione che
si presenti all'udito o ad un altro senso. (ivi)
Le impressioni uditive, nel caso delle note, o visive, nel caso di immagini in movimento,
ordinate secondo il principio della "successione", generano in noi l'idea del tempo che,
come quella di spazio, è derivata e non originaria. Tempo e spazio, in conclusione, non
sono più le realtà oggettive ed assolute ritenute indispensabili dalla vecchia fisica, ma
sono il frutto della attività associativa della mente umana.
La logica: la critica al principio di causalità
La serrata e coerente critica ai tradizionali concetti di sostanza, di spazio e di tempo ci
pone di fronte ad un altro problema. Quando ad esempio si afferma che la pioggia è causa
del bagnato, o che la rotazione della terra sul proprio asse produce l'avvicendamento del
giorno e della notte o che una spinta impressa da un corpo è causa del movimento di un
altro corpo, o che, comunque, un fenomeno A produce un fenomeno B, il rapporto di
causalità tra il primo ed il secondo fenomeno rispecchia un vincolo oggettivo esistente
realmente nei due fenomeni considerati; o, invece, è un rapporto che la nostra mente
istituisce soggettivamente dopo aver osservato che al primo fenomeno segue con regolare
continuità il secondo? Il nesso causa-effetto è una proprietà oggettiva delle cose e quindi è
conoscibile a-priori attraverso un'analisi della realtà, o, invece, è frutto dell'attività
relazionante della mente ed è conoscibile soltanto attraverso l'esperienza? Nella causa, c'è
già una proprietà, un "qualcosa" che, analizzato dalla mente può farci dedurre l'effetto che
produrrà in seguito, prima che noi lo abbiamo sperimentato, oppure a posteriori la mente
stabilisce un rapporto tra causa ed effetto? La risposta di Hume a questi interrogativi non
si presta ad equivoci:
Non esiste nella causa nulla che la ragione vede e che ci faccia infe-
rire l'effetto. Tale inferenza, se fosse possibile, equivarrebbe ad una dimo-
strazione, in quanto sarebbe fondata soltanto sulla comparazione delle
idee. Ma nessuna inferenza dalla causa all'effetto equivale ad una dimostra-
zione.
(Estratto)
Mentre nelle dimostrazioni geometriche, nell'analisi della nozione di triangolo ad esempio,
possiamo dimostrare, indipendentemente dall'esperienza e quindi a priori, con certezza,
tutto ciò che può essere derivato dalla nozione analizzata, in quanto il contrario è
logicamente impossibile perché contraddittorio, nelle "questioni di fatto", invece, possiamo
raggiungere la certezza di una affermazione soltanto attraverso l'esperienza. Prima di
averne fatta esperienza, non saprò mai con sicurezza assoluta se un dato fenomeno
produrrà come effetto un altro.
Una palla che, correndo su un piano, tocca un'altra palla ferma sullo stesso piano le
comunica il movimento. Se analizzo il fenomeno riesco a costatare soltanto quali
circostanze sono richieste perché si verifichi il rapporto causa-effetto. Scopro, infatti, che
ci deve essere contiguità nel tempo e nello spazio, cioè che non ci deve essere intervallo
temporale e spaziale fra l'urto ed il movimento della seconda palla; rilevo che ci deve
essere priorità nel tempo, cioè che il movimento che è causa deve precedere il movimento
che è effetto; e, ripetendo l'esperimento, mi accorgo che cause della stessa specie
producono, in circostanze uguali, gli stessi effetti, cioè costato l'esistenza di una
congiunzione costante tra causa ed effetto. Ma tutto questo, se mi mette in grado di
conoscere e capire le circostanze richieste perché si verifichi il legame che ho già
sperimentato, non mi fornisce assolutamente la certezza che al legame logico sussistente
nella mia mente corrisponde un legame oggettivo nella realtà dei due fatti, ed inoltre non
mi fornisce alcuna certezza che anche in futuro l'esperimento avrà lo stesso andamento.
Con un'analisi scientifica severa non si potrà mai trovare nel fenomeno che funge da causa
la presenza di una proprietà che ci autorizzi a pensare che sempre a quella determinata
causa seguirà quel determinato effetto: non c'è nessuna ragione che ci possa far escludere
il contrario.
A questo punto dovremmo concludere che nelle "questioni di fatto" si dà "scienza" soltanto
di ciò che si è già sperimentato; che solo la testimonianza attuale dei sensi o quella della
memoria degli eventi passati ci forniscono una "verità", e che questa riguarda sempre e
solamente il passato, è sempre e soltanto una verità frutto di esperienza. Niente,
assolutamente niente, ci mette in grado di dimostrare con la ragione che il corso futuro
degli eventi sarà uguale a quello passato, già sperimentato. Che cosa allora spinge gli
uomini ad affermare la regolarità e l'uniformità del corso della natura? Se non è la ragione
a dimostrare che gli eventi futuri, nelle stesse condizioni di quelli passati, si
comporteranno allo stesso modo, quale altra "forza" del nostro spirito ci spinge a
formulare questa supposizione e ad accreditarla come verità scientifica?
Noi siamo determinati soltanto dall'abitudine a supporre che il
futuro sia conforme al passato... Non è dunque la ragione la guida della
vita, ma l'abitudine. Essa soltanto muove la mente, in tutti i casi, a sup-
porre il futuro conforme al passato. Per quanto facile possa sembrare
questo passo, la ragione non sarebbe mai in grado di compierlo per tutta l'eternità.
(Estratto)
L'abitudine, come effetto di una lunga esperienza, ci spinge a credere nell'uniformità della
natura e ci autorizza ad anticipare gli eventi futuri. Ma che cos'è questa credenza che
nasce dall'abitudine?
E' un'operazione dell'anima che, quando ci troviamo in certe circo-
stanze, è inevitabile come il sentire la passione dell'amore, quando rice-
viamo dei benefici, o la passione dell'odio quando veniamo ingiuriati.
Tutte queste operazioni sono specie di istinti naturali, che nessun ragiona-
mento o processo di pensiero e di intelletto sono in grado né di produrre,
né di impedire.
(Ricerca, V, 1)
La credenza. allora, è una specie di istinto che ci spinge, al di fuori di ogni processo
intellettivo, a dare il nostro assenso all'immagine di un fenomeno che, pur non essendo
ancora presente ai nostri sensi, è evocato dalla nostra immaginazione alla vista di un altro
fenomeno. Il processo di anticipazione di un determinato evento in circostanze particolari
consta, dunque, di tre momenti: l'abitudine che crea una predisposizione ad attenderci per
il futuro quanto abbiamo sperimentato per il passato; l' immaginazione che in presenza di
un fenomeno ci fornisce l'immagine di un altro ad esso solitamente congiunto; la credenza
che istintivamente fornisce il suo assenso a quella immagine.
Come le idee di sostanza, di spazio e di tempo, anche l'idea di causalità, prodotta dal
processo culminante nella credenza, risponde ad un nostro soggettivo modo di concepire
certi rapporti tra le impressioni o le idee, è un modo di sentire della nostra mente. Anche
l'idea di necessità deriva da questo nostro modo di sentire la realtà. Essa è legittimata,
infatti, dalla nostra credenza nell'uniformità della natura.
A sua volta il nostro io, cioè la natura umana, lungi dall'essere semplice e continuo,
sempre identico a se stesso, è nient'altro
che un fascio o una collezione di differenti percezioni che si succe-
dono l'una all'altra con una inconcepibile rapidità e sono in un perpetuo
flusso e movimento
(Trattato, I, IV, 6)
Le impressioni e le idee sono organizzate dalla nostra mente in modo da apparire come
sostanze, occupanti uno spazio e situate lungo una linea temporale, in un rapporto di
causalità secondo un ordine necessario ed immutabile. Parlare di libertà in
contrapposizione alla necessità intesa come ordine regolare delle nostre impressioni o
idee, significherebbe allora parlare di caso e significherebbe rovinare la nostra visione
ordinata della realtà con conseguenze disastrose sul piano pratico. Ognuno vivrebbe,
infatti, in una specie di mondo privato senza norme valide e senza possibilità di previsione
per il futuro. In una tale situazione
non saremmo mai in grado di adattare i mezzi ai fini, o di usare i
nostri poteri naturali nella produzione di qualche effetto. Si avrebbe la
fine, nello stesso tempo, di ogni azione, come anche della parte principale
della speculazione. (Ricerche, VIII, 1)
L'unico significato positivo della libertà non è quello che la definisce in opposizione alla
necessità, ma quello che la definisce in opposizione alla costrizione: libero è colui che non
sia "prigioniero e incatenato": nessun'altra libertà è concepibile.
La filosofia humiana è stata etichettata come "filosofia scettica". Una simile definizione è
certamente corretta se con il termine scetticismo si vuole indicare un pensiero filosofico
che rifiuta la visione di una realtà oggettiva, assoluta, compiuta in sé, perfetta nella sua
organizzazione interna, pronta per essere colta con un'operazione di passivo
rispecchiamento da parte della mente umana, e che accentua, invece, il ruolo del
soggetto, dei suoi "modi di sentire" e quindi di organizzare i dati fenomenici forniti
dall'esperienza. Ma non è più tale se con il termine scetticismo si intende qualificare un
pensiero filosofico che, pur credendo in una realtà oggettivamente strutturata, ritiene la
mente umana insufficiente a cogliere i dati reali esistenti nel mondo. Ciò di cui si dubita,
infatti, non è la capacità conoscitiva della mente, cioè la possibilità di cogliere una
supposta realtà esistente in sé, già bella e strutturata secondo leggi ad essa immanenti,
ma è proprio l'esistenza di questa presunta realtà perfettamente articolata e pronta per
essere conosciuta da una mente che, come una pellicola fotografica, la riproduca così
come essa "realmente" è. Ciò di cui non siamo certi, ciò di cui legittimamente possiamo
dubitare è che alle nostre impressioni corrispondano fuori di noi dei dati oggettivi. Noi non
sappiamo se al di là delle nostre percezioni ci sia un mondo di oggetti indipendenti da noi.
Non lo possiamo sapere né se identifichiamo le percezioni con gli oggetti, né se le
distinguiamo da essi:
Chi considerasse la percezione e gli oggetti come la stessa cosa, non
potrebbe ricavare l'esistenza degli oggetti dalla esistenza delle percezioni.
Se poi distinguiamo la percezione dal suo oggetto, sarà egualmente impos-
sibile passare dalla esistenza della percezione a quella dell'oggetto. In con-
clusione la nostra ragione non può, né è possibile che possa in alcun
modo, darci la certezza dell'esistenza continuata e distinta dei corpi.
(Trattato, 1, IV, 2)
La fiducia nell'esistenza di un mondo naturale esterno a noi non può essere giustificata
con alcun argomento filosofico, con nessun procedimento razionale:
quando noi crediamo che qualche cosa abbia un'esistenza esterna, o
quando supponiamo che un oggetto esiste un istante dopo che esso cessa
di essere percepito, questa credenza non è che un legittimo prodotto dall'a-
bitudine. (Estratto)
La distinzione di Hume di un'attività razionale della mente da un'attività non razionale, ma
istintiva e psicologica (il cui campo d'azione è allargato a tutte le "questioni di fatto", quali
"la politica, la filosofia della natura, la fisica e la chimica"), ha completamente messo in
crisi il tradizionale schema conoscitivo.
La filosofia humiana, oltre ad operare uno spostamento del centro di elaborazione delle
leggi della natura e della morale dalla ragione all'istinto, ha accentuato il ruolo attivo del
soggetto nella conoscenza. Ha considerato, infatti, i rapporti causali, la sostanza, il tempo
e lo spazio, non più " forme " o " idee " presenti ed operanti nel mondo esterno, o innate
nell'anima umana, ma " modi di sentire " della mente, un portato della attività associativa
della psiche. L'esperienza, perciò, lungi dall'essere la riproduzione passiva di una realtà già
ordinata e strutturata, è il frutto dell'attività della mente che associa, secondo modi di
sentire propri del soggetto, le impressioni fornite dai sensi e le impressioni interne
prodotte dalle sensazioni.
7. Sentimento, intelletto e senso morale
Nell'esame dei problemi morali, Hume si riallaccia direttamente ai moralisti inglesi ed in
particolare all'"elegante lord Shaftesbury". Come questi filosofi, egli si ripropone di
indagare sui fondamenti generali della morale per accertare
se essi siano derivati dalla ragione o dal sentimento, se noi conse-
guiamo la loro conoscenza per mezzo di un seguito di argomenti e di
induzioni, oppure per mezzo di un sentimento immediato e di un fine
senso intemo; se, al pari di ogni ben fondato giudizio di verità e falsità,
tale conoscenza sia la stessa per tutti gli esseri forniti di ragione e di intelli-
genza, o se, al pari della percezione del bello e del brutto, essa risulti fon-
data interamente sulla struttura e sulla costituzione particolare degli
uomini. (Ricerca sui principi della morale, I)
La scelta delle norme di comportamento, la sentenza con cui giudichiamo degni di
approvazione o di riprovazione alcuni comportamenti, dipendono certamente da un
sentimento interno "posto universalmente dalla natura in tutti gli uomini". Ma, a preparare
la via a questo sentimento operante la scelta finale, è necessario un lungo lavoro di
preparazione fatto di "molti ragionamenti", di "accurate distinzioni", di puntuali esami di
"relazioni molto complesse"; è necessario cioè un intenso lavoro di preparazione e di
precisazione che solo la ragione può compiere.
Ragione e sentimento, intelletto e senso morale non sono, allora, antitetici ed
incompatibili, ma si situano lungo una linea di continuità che vede la ragione attiva nella
fase preparatoria ed il sentimento, comune a tutti gli uomini, operante nella fase finale
della scelta e della determinazione del contenuto della moralità.
Ma in che cosa consiste questo sentimento universale, presente in tutti gli uomini, e
capace di distinguere il bene dal male, di suggerire le norme morali ed il comportamento
da tenere? Questo sentimento si identifica con lo spirito di benevolenza e di umanità, di
amicizia e di gratitudine, con l' "affezione naturale" e con il desiderio del pubblico bene; si
identifica insomma con tutti gli atteggiamenti umani derivanti da una "tenera simpatia"
per gli altri e da un "generoso interesse" per il genere umano. Il principio distintivo del
bene dal male, trova il suo fondamento nella pubblica utilità, in ciò che si rivela favorevole
alla conservazione e allo sviluppo della società:
In tutte le determinazioni della moralità, questa circostanza della
pubblica utilità è sempre quella che si considera come principale; e dovun-
que sorga una controversia, sia in filosofia che nella vita di ogni giorno,
riguardo ai confini dei dovere, non si può in alcun modo risolvere la que-
stione con sicurezza maggiore che accertandosi da quale parte stiano i veri
interessi dell'umanità. (ivi, II, 2)
La giustizia, ad esempio, riconosciuta da tutti come una delle principali virtù etiche, ha il
suo fondamento esclusivamente nella "qualità pubblica". Il suo scopo, infatti, è quello di
procurare felicità e sicurezza agli individui, conservando l'ordine nella società. Essa fiorisce
quando le condizioni economiche dell'uomo sono in una situazione di medietà tra la mitica
età dell'oro, in cui l'abbondanza estrema renderebbe inutile ogni regolamentazione dei
possessi e dell'uso della ricchezza, e l'indigenza assoluta, in cui ogni uomo verrebbe
costretto
a provvedere a se stesso con tutti i mezzi che [in quella circostanza]
gli può suggerire la prudenza o gli può consentire l'umanità.
(ivi, III, 1)
In una situazione mediana tra un'estrema abbondanza ed un'estrema penuria sorge la
virtù della giustizia e si qualifica come la più importante norma di comportamento. E'
grazie ad essa, infatti, che si regolano i rapporti tra gli uomini e si creano le condizioni per
la fioritura di ogni altra virtù. Direttamente collegata alla giustizia e, quindi, alla "utilità
pubblica", è l'obbedienza. Senza l'obbedienza non ci sarebbe "pace e ordine fra gli
uomini", e non si creerebbe la società, senza la quale "la natura umana non può in alcun
modo sussistere".
Ma quando affermiamo che giustizia ed obbedienza sono virtù operanti in vista dell'utilità
pubblica, non trascuriamo troppo un altro movente fondamentale della condotta umana,
cioè l'amor proprio? In che rapporto si pongono, allora, "utilità individuale" ed "utilità
pubblica"? Hume è convinto che l'amor proprio, che è principio di egoismo, e la simpatia e
la benevolenza per gli altri, che sono principi di altruismo, non sono tanto opposti da non
trovare modo di armonizzarsi e di operare in vista di un fine comune.
Infatti
l'amor proprio è un principio della natura umana capace di tanta
estensione, e l'interesse di ciascun individuo è, in generale, così astratta-
mente connesso con quello della comunità, che si possono ben scusare
quei filosofi che hanno immaginato che tutto il nostro attaccamento per la
cosa pubblica si risolva in un interesse per la nostra felicità e conserva
zione. (ìvi, V, 2)
L'interesse particolare di un soggetto deve talmente essere legato a quello generale della
società da consentire indifferentemente di affermare che il principio direttivo della
condotta umana è l'amor proprio o la pubblica utilità. In questa situazione porre l'accento
sul bene individuale o su quello sociale non cambia il risultato finale, in quanto l'uno è
necessariamente legato all'altro. Il benessere individuale va condannato soltanto quando è
principio di disgregazione sociale e si rivela nocivo alla comunità.
Se, dunque, l'utilità è fonte di sentimento morale, e se questa utilità
non si considera sempre con riferimento a noi stessi, ne segue che tutto ciò
che contribuisce alla felicità della società si raccomanda direttamente alla
nostra approvazione e alla nostra buona volontà. (ivi, V, 2)
La morale della simpatia e della benevolenza verso gli altri spoglia la virtù
dell'abito malinconico del quale l'hanno rivestita molti teologi ed
alcuni filosofi; e non viene alla luce se non gentilezza, umanità, benefi-
cenza ed affabilità; anzi, perfino, a dati intervalli, gioco, allegria e gaiezza.
Essa non parla di austerità e di rigori inutili, di sofferenze e di abnegazioni.
Essa dichiara che il suo unico scopo è di rendere i suoi seguaci e tutti gli
uomini, in ciascun istante della loro esistenza, per quanto è possibile, felici
e contenti; né sacrifica di buon grado mai qualche piacere se non con la
speranza di un ampio compenso in qualche altro periodo della vita. La
sola fatica che richiede è quella di un giusto calcolo e d'una costante prefe-
renza da accordarsi alla felicità più grande.
(ivi, IX, 2)
In tal modo si dimostrano false ed ingannevoli sia la morale ascetica, mortificatrice di ogni
piacere e di ogni gioia, sia la morale egoistica che pone gli individui in lotta permanente
fra di loro. L'apertura alla società, la generosità, la benevolenza sono virtù desiderabili
perché, nel mentre producono la felicità e l'utile della collettività, producono altresì la
felicità e l'interesse dei singoli individui.
Un posto di rilievo occupa nell'etica humiana la trattazione del problema del libero arbitrio.
Nell'esame dei rapporti tra i fenomeni naturali, abbiamo affermato che esiste un rapporto
di necessità tra un fenomeno che funge da causa ed un altro che funge da effetto soltanto
quando, per abitudine, sappiamo che il primo è unito al secondo in modo costante tanto
che la mente dalla presenza dell'uno inferisce la presenza dell'altro. Ora, sul piano etico,
questa costanza di rapporti capace di autorizzare la mente ad aspettarsi un determinato
comportamento partendo da una certa situazione si stabilisce tra movente ed azione: ad
un particolare movente corrisponde una particolare azione; nessuna azione può essere
considerata talmente libera da non essere condizionata o determinata da un preciso
movente. Dall'esame dei moventi possiamo inferire i comportamenti futuri, come
dall'esame delle azioni connesse possiamo ricavare i moventi che le hanno determinate.
Sul piano etico, come su quello dei fenomeni naturali, è possibile, allora, una conoscenza
"scientifica" capace di autorizzare previsioni future. La congiunzione costante tra le azioni
della volontà con i rispettivi moventi ci autorizza a pensare che sul piano del
comportamento l'uomo non è fornito di un libero arbitrio di indifferenza; non può
scegliere, cioè, indifferentemente di agire in un modo o in un altro, ma è necessitato dai
moventi in una direzione o nell'altra. La necessità, derivata dalla costatazione della
regolarità dei rapporti, può essere applicata tanto ai fenomeni naturali quanto alle azioni
degli uomini.
Sentimento, intelletto e senso morale
Nell'esame dei problemi morali, Hume si riallaccia direttamente ai moralisti inglesi ed in
particolare all'"elegante lord Shaftesbury". Come questi filosofi, egli si ripropone di
indagare sui fondamenti generali della morale per accertare
se essi siano derivati dalla ragione o dal sentimento, se noi conse-
guiamo la loro conoscenza per mezzo di un seguito di argomenti e di
induzioni, oppure per mezzo di un sentimento immediato e di un fine
senso intemo; se, al pari di ogni ben fondato giudizio di verità e falsità,
tale conoscenza sia la stessa per tutti gli esseri forniti di ragione e di intelli-
genza, o se, al pari della percezione del bello e del brutto, essa risulti fon-
data interamente sulla struttura e sulla costituzione particolare degli
uomini. (Ricerca sui principi della morale, I)
La scelta delle norme di comportamento, la sentenza con cui giudichiamo degni di
approvazione o di riprovazione alcuni comportamenti, dipendono certamente da un
sentimento interno "posto universalmente dalla natura in tutti gli uomini". Ma, a preparare
la via a questo sentimento operante la scelta finale, è necessario un lungo lavoro di
preparazione fatto di "molti ragionamenti", di "accurate distinzioni", di puntuali esami di
"relazioni molto complesse"; è necessario cioè un intenso lavoro di preparazione e di
precisazione che solo la ragione può compiere.
Ragione e sentimento, intelletto e senso morale non sono, allora, antitetici ed
incompatibili, ma si situano lungo una linea di continuità che vede la ragione attiva nella
fase preparatoria ed il sentimento, comune a tutti gli uomini, operante nella fase finale
della scelta e della determinazione del contenuto della moralità.
Ma in che cosa consiste questo sentimento universale, presente in tutti gli uomini, e
capace di distinguere il bene dal male, di suggerire le norme morali ed il comportamento
da tenere? Questo sentimento si identifica con lo spirito di benevolenza e di umanità, di
amicizia e di gratitudine, con l' "affezione naturale" e con il desiderio del pubblico bene; si
identifica insomma con tutti gli atteggiamenti umani derivanti da una "tenera simpatia"
per gli altri e da un "generoso interesse" per il genere umano. Il principio distintivo del
bene dal male, trova il suo fondamento nella pubblica utilità, in ciò che si rivela favorevole
alla conservazione e allo sviluppo della società:
In tutte le determinazioni della moralità, questa circostanza della
pubblica utilità è sempre quella che si considera come principale; e dovun-
que sorga una controversia, sia in filosofia che nella vita di ogni giorno,
riguardo ai confini dei dovere, non si può in alcun modo risolvere la que-
stione con sicurezza maggiore che accertandosi da quale parte stiano i veri
interessi dell'umanità. (ivi, II, 2)
La giustizia, ad esempio, riconosciuta da tutti come una delle principali virtù etiche, ha il
suo fondamento esclusivamente nella "qualità pubblica". Il suo scopo, infatti, è quello di
procurare felicità e sicurezza agli individui, conservando l'ordine nella società. Essa fiorisce
quando le condizioni economiche dell'uomo sono in una situazione di medietà tra la mitica
età dell'oro, in cui l'abbondanza estrema renderebbe inutile ogni regolamentazione dei
possessi e dell'uso della ricchezza, e l'indigenza assoluta, in cui ogni uomo verrebbe
costretto
a provvedere a se stesso con tutti i mezzi che [in quella circostanza]
gli può suggerire la prudenza o gli può consentire l'umanità.
(ivi, III, 1)
In una situazione mediana tra un'estrema abbondanza ed un'estrema penuria sorge la
virtù della giustizia e si qualifica come la più importante norma di comportamento. E'
grazie ad essa, infatti, che si regolano i rapporti tra gli uomini e si creano le condizioni per
la fioritura di ogni altra virtù. Direttamente collegata alla giustizia e, quindi, alla "utilità
pubblica", è l'obbedienza. Senza l'obbedienza non ci sarebbe "pace e ordine fra gli
uomini", e non si creerebbe la società, senza la quale "la natura umana non può in alcun
modo sussistere".
Ma quando affermiamo che giustizia ed obbedienza sono virtù operanti in vista dell'utilità
pubblica, non trascuriamo troppo un altro movente fondamentale della condotta umana,
cioè l'amor proprio? In che rapporto si pongono, allora, "utilità individuale" ed "utilità
pubblica"? Hume è convinto che l'amor proprio, che è principio di egoismo, e la simpatia e
la benevolenza per gli altri, che sono principi di altruismo, non sono tanto opposti da non
trovare modo di armonizzarsi e di operare in vista di un fine comune.
Infatti
l'amor proprio è un principio della natura umana capace di tanta
estensione, e l'interesse di ciascun individuo è, in generale, così astratta-
mente connesso con quello della comunità, che si possono ben scusare
quei filosofi che hanno immaginato che tutto il nostro attaccamento per la
cosa pubblica si risolva in un interesse per la nostra felicità e conserva
zione. (ìvi, V, 2)
L'interesse particolare di un soggetto deve talmente essere legato a quello generale della
società da consentire indifferentemente di affermare che il principio direttivo della
condotta umana è l'amor proprio o la pubblica utilità. In questa situazione porre l'accento
sul bene individuale o su quello sociale non cambia il risultato finale, in quanto l'uno è
necessariamente legato all'altro. Il benessere individuale va condannato soltanto quando è
principio di disgregazione sociale e si rivela nocivo alla comunità.
Se, dunque, l'utilità è fonte di sentimento morale, e se questa utilità
non si considera sempre con riferimento a noi stessi, ne segue che tutto ciò
che contribuisce alla felicità della società si raccomanda direttamente alla
nostra approvazione e alla nostra buona volontà. (ivi, V, 2)
La morale della simpatia e della benevolenza verso gli altri spoglia la virtù
dell'abito malinconico del quale l'hanno rivestita molti teologi ed
alcuni filosofi; e non viene alla luce se non gentilezza, umanità, benefi-
cenza ed affabilità; anzi, perfino, a dati intervalli, gioco, allegria e gaiezza.
Essa non parla di austerità e di rigori inutili, di sofferenze e di abnegazioni.
Essa dichiara che il suo unico scopo è di rendere i suoi seguaci e tutti gli
uomini, in ciascun istante della loro esistenza, per quanto è possibile, felici
e contenti; né sacrifica di buon grado mai qualche piacere se non con la
speranza di un ampio compenso in qualche altro periodo della vita. La
sola fatica che richiede è quella di un giusto calcolo e d'una costante prefe-
renza da accordarsi alla felicità più grande.
(ivi, IX, 2)
In tal modo si dimostrano false ed ingannevoli sia la morale ascetica, mortificatrice di ogni
piacere e di ogni gioia, sia la morale egoistica che pone gli individui in lotta permanente
fra di loro. L'apertura alla società, la generosità, la benevolenza sono virtù desiderabili
perché, nel mentre producono la felicità e l'utile della collettività, producono altresì la
felicità e l'interesse dei singoli individui.
Un posto di rilievo occupa nell'etica humiana la trattazione del problema del libero arbitrio.
Nell'esame dei rapporti tra i fenomeni naturali, abbiamo affermato che esiste un rapporto
di necessità tra un fenomeno che funge da causa ed un altro che funge da effetto soltanto
quando, per abitudine, sappiamo che il primo è unito al secondo in modo costante tanto
che la mente dalla presenza dell'uno inferisce la presenza dell'altro. Ora, sul piano etico,
questa costanza di rapporti capace di autorizzare la mente ad aspettarsi un determinato
comportamento partendo da una certa situazione si stabilisce tra movente ed azione: ad
un particolare movente corrisponde una particolare azione; nessuna azione può essere
considerata talmente libera da non essere condizionata o determinata da un preciso
movente. Dall'esame dei moventi possiamo inferire i comportamenti futuri, come
dall'esame delle azioni connesse possiamo ricavare i moventi che le hanno determinate.
Sul piano etico, come su quello dei fenomeni naturali, è possibile, allora, una conoscenza
"scientifica" capace di autorizzare previsioni future. La congiunzione costante tra le azioni
della volontà con i rispettivi moventi ci autorizza a pensare che sul piano del
comportamento l'uomo non è fornito di un libero arbitrio di indifferenza; non può
scegliere, cioè, indifferentemente di agire in un modo o in un altro, ma è necessitato dai
moventi in una direzione o nell'altra. La necessità, derivata dalla costatazione della
regolarità dei rapporti, può essere applicata tanto ai fenomeni naturali quanto alle azioni
degli uomini.
La storia naturale della religione
Nelle dispute tra teisti, seguaci delle religioni positive, credenti nella trascendenza di Dio,
nei dogmi e nei misteri della tradizione teologica, e deisti, svolgono un ruolo
importantissimo le analisi humiane sulla religione. A questo problema Hume dedica due
opere: i Dialoghi sulla religione naturale, pubblicati postumi, e la Storia naturale della
religione. Nella prima opera, sotto forma di dialoghi fra tre personaggi, Filone lo scettico,
Demea l'ortodosso e Cleante il deista, si discutono le prove tradizionali sull'esistenza di
Dio. Contro l'argomento ontologico, che pretende di dimostrare l'esistenza di Dio partendo
dal concetto della perfezione assoluta di dio, Hume oppone la considerazione che ogni
esistenza, quella di Dio compresa, è sempre una "questione di fatto" e come tale non può
essere ricavata da un ragionamento apriori, ma deve essere dimostrata dall'esperienza.
Infatti solo ciò il cui contrario implica contraddizione può essere ammesso per via
puramente razionale. Ma in materia di esistenza nessuna affermazione esclude a priori il
suo contrario:
Tutto ciò che concepiamo come esistente, lo possiamo concepire
anche come non esistente. Non c'è dunque un essere la cui non esistenza
implichi contraddizione. Per conseguenza, non c'è essere la cui esistenza sia
dimostrabile... Si pretende che la divinità sia un essere necessariamente esi-
stente; e questa necessità della sua esistenza si cerca di spiegarla affermando
che, se noi conoscessimo la sua essenza o la sua natura interamente, perce-
piremmo che ad essa è così impossibile di non esistere come a due per due
di non fare quattro. Ma è evidente che questo non potrà mai accadere
finché le nostre facoltà saranno quelle che sono al presente. Ci sarà sempre
possibile, in un momento qualunque, concepire la non esistenza di ciò che
abbiamo precedentemente concepito come esistente... Dunque, le parole
esistenza necessaria, non hanno senso, o, ciò che è lo stesso, non ne hanno
uno coerente.
(Dialoghi sulla religione naturale, IX)
La prova cosmologica, a sua volta, sembra avere maggiori possibilità di successo nella
dimostrazione della esistenza di Dio per il suo appello all'esperienza. Poiché tutti gli
oggetti del cosmo sono legati da un rapporto di causalità che fa si che ognuno sia causato
da un altro precedente, si può chiedere, infine, quale sia la causa del tutto per rispondere
che essa è Dio e che pertanto, Dio esiste. Ma, obietta Hume, quando in una successione di
oggetti sono mostrate le cause particolari da cui derivano i singoli oggetti, è
"irragionevole" chiedersi poi la causa del tutto. Questa è sufficientemente spiegata quando
si è mostrata la causa dei singoli oggetti. E' inutile, perciò, retrocedere nella ricerca della
causa ultima del mondo, perché in tal modo saremmo costretti a seguire un processo
infinito senza mai arrivare a dimostrare la necessità di una causa prima. Neppure la prova
a posteriori, che dalla comparazione dell'universo ad una macchina cerca di dimostrare
l'esistenza dell'autore di questa macchina, soddisfa pienamente. Infatti, essa si basa su
un'analogia: come la vista di una casa mi rimanda con il pensiero al costruttore che l' ha
edificata, così la visione dell'universo dovrebbe farmi concludere con la massima certezza
che deve esistere un Dio che l' ha costruito. Ma l'analogia non è possibile. Mentre il
rapporto di causalità tra la casa e il costruttore è basato sull'esperienza e quindi
sull'abitudine, unico principio fondante della causalità, il rapporto fra l'universo e Dio non
riposa su alcuna esperienza perché noi non abbiamo mai assistito all'"origine dei mondi".
In quest'ultimo senso, allora, non è possibile parlare di causalità. Ma se proprio volessimo
stabilire questo rapporto di causalità tra Dio e mondo, dovremmo concludere, in virtù del
principio che l'effetto cornisponde alla causa, che Dio è imperfetto e finito come il mondo
di cui sarebbe la causa. Ma se Dio è imperfetto e finito non c'è nessuna ragione per
crederlo unico. Si potrebbe ammettere una molteplicità di dei.
Neppure il cosiddetto argomento morale è sufficiente a dimostrare l'esistenza di Dio. In
virtù di questo argomento si afferma che l'esistenza di Dio è necessaria perché senza Dio
non ci sarebbe giustizia, benevolenza, misericordia e tutte quelle altre virtù che con un
solo termine chiamiamo bene. Ma la costatazione che la vita degli uomini è infelice e che
nel mondo predomina il male ripropone le domande di Epicuro alle quali ancora non sono
state fornite risposte soddisfacenti:
Ha la divinità per impedire il male, ma non il potere? Allora è
impotente. Ne ha il potere ma non la volontà? Allora è malvagia. Ne ha
ad un tempo il potere e la volontà? E come va allora che esiste il male?
(Dialoghi sulla religione naturale, X)
Tutte queste considerazioni ci mostrano che non è possibile alcuna dimostrazione teoretica
dell'esistenza di Dio e che la religione non trova la sua origine nella ragione. La religione e
l'annessa idea di Dio trovano, invece, la loro origine nel sentimento umano e, pertanto, è
possibile tracciare una "storia naturale" della religione. Ma a quale sentimento bisogna far
ricorso per spiegare l'origine della credenza religiosa? Non certamente alla pura e
disinteressata curiosità speculativa. Senza alcun dubbio la fede in Dio nasce dal
sentimento della paura e della speranza. A produrre la fede, infatti, è
la preoccupazione ansiosa per la felicità, il timore di un'infelicità
futura, il terrore della morte, la sete di vendetta, il desiderio del cibo e di
ogni altra cosa necessaria. Turbati da speranze e paure di tal genere, ma
specialmente dalle paure, gli uomini scrutano con curiosità timorosa come
agiranno le cause nel futuro ed esaminano gli eventi vani e contrastanti della
vita umana. In questo spettacolo disordinato, con occhi ancor più incerti ed
attoniti, gli uomini scorgono le prime confuse tracce di una divinità.
(Storia naturale della religione, II)
E poiché negli uomini c'è una forte tendenza antropomorfica, una tendenza cioè a
concepire tutti gli esseri simili a sé, ecco che a queste divinità essi danno forma e caratteri
umani.
Nasce così il politeismo; ed una folla di dei popola la fantasia degli uomini. Il monoteismo
nasce dal politeismo come variante più evoluta e raffinata; ma non si differenzia granché
da questo per la sua abitudine a colmare la distanza tra l'unico dio e l'uomo con una
schiera di santi, vere e proprie divinità intermedie.
La preghiera ed i vari sacrifici, cruenti e non, nascono dal desiderio di accaparrarsi i favori
di queste divinità per averle accanto nelle difficoltà della vita. Anzi più i timori e le angosce
diventano assillanti più gli uomini si prostrano di fronte agli dei ed escogitano forme
sempre nuove di esaltazione e di adulazione di essi. La magnificazione sempre più
raffinata e magniloquente degli attributi divini, unita a terrori superstiziosi,
è capace di sprofondare la mente umana nell'infinita sottomissione e
degradazione e di rappresentare come sole qualità gradite a Dio le virtù dei
frati , cioè la mortificazione, la penitenza, l'umiltà e la rassegnazione pas-
siva.
(ivi, X)
Tutte le religioni, quelle politeiste e quelle monoteiste, quelle che fanno appello alla
rivelazione, ai dogmi e ai misteri e quelle che, invece, si richiamano alla ragione, hanno
una origine psicologica. Nascono sempre dal timore degli eventi futuri. Sul piano della
teoreticità non è possibile affermare alcunché di certo. Per evitare, prendendo partito per
una religione o per un'altra, di sopravvalutare una superstizione contro le altre, all'uomo
saggio conviene non impigliarsi in dispute teologiche:
tutto è un punto. interrogativo, un enigma, un mistero inesplicabile.
Dubbio, incertezza, sospensione di giudizio sembrano l'unico punto di
approdo della nostra più accurata ricerca in proposito. Ma la ragione
umana è tanto debole, la suggestione delle opinioni tanto irresistibile, che è
molto difficile perfino mantenere questo cauto dubbio. Noi, per conto
nostro, non vogliamo ampliare il nostro orizzonte e, opponendo una spe-
cie di superstizione all'altra, le lasceremo a contendere; intanto mentre dura
la loro furiosa contesa, noi troveremo felicemente rifugio nelle serene,
anche se poco note, regioni della filosofia. (ivi, XV)
La bellezza e il governo
Il sentimento che ha giustificato il sorgere della conoscenza della morale e della religione,
a maggior ragione è invocato da Hume per la spiegazione dei fenomeni estetici. La
bellezza, infatti, non può essere definita intellettualmente, ma si può discernere soltanto
mediante un gusto o una sensazione:
essa è soltanto l'effetto prodotto da una figura sulla mente, che ha, a
sua volta, una struttura tale da essere suscettibile di un tale sentimento.
(Ricerca sui principi della morale, Appendice, I)
Il gusto, infatti, è un modo di sentire della mente umana in presenza di un complesso
armonioso ed equilibrato fra le parti. Se cerchiamo qual è la proprietà intrinseca ad un
oggetto per la quale questo oggetto è definito bello, noi non la troveremo mai, per quanti
sforzi possiamo fare. Non sarà il materiale, vile o nobile, di cui esso è composto a farcelo
definire bello, e neppure l'ordine e l'equilibrio delle parti. Nell'oggetto separato da una
mente che lo osserva e lo gusta non c'è alcuna proprietà che può, da sola, giustificare la
definizione di bello. La bellezza non è in alcuna parte e neppure nell'insieme delle parti di
quell'oggetto, ma è il risultato dell'insieme quando quella figura complicata viene
presentata ad una mente intelligente, suscettibile di quelle sensazioni raffinate.
(ivi)
Il gusto estetico, pur essendo soggettivo, non è individuale. Nelle varietà dei gusti, ci
sono, infatti, dei principi generali di approvazione o di biasimo, una specie di senso
comune, operanti in tutti gli uomini. In condizioni di normale funzionamento degli organi
di senso, tra gli uomini c'è una notevole, anche se non assoluta, uniformità di giudizio. Ma
ciò che mette in grado di apprezzare la bellezza è la delicatezza del sentimento. La
differenza di delicatezza di gusto esistente negli uomini giustifica anche la differenza dei
giudizi e dei gradi di percezione estetica. Il gusto delicato, però, non è una qualità
connaturata ad alcuni uomini, che quindi o è presente o è assente. Tale dote può essere
sviluppata con l'osservazione frequente di una forma particolare di bellezza. Con
l'esperienza continua, il gusto si affina e la capacità di discernere il bello e di goderne
diventa sempre più pronta ed esatta:
Sensi fini, sentimento delicato, esercizio della pratica, perfeziona-
mento dei paragoni rendono critico il giudizio estetico.
(La regola dei gusto)
Nella trattazione dei problemi politici Hume cerca di evidenziare le motivazioni psicologiche
che fungono da fondamenti della vita associata. L'uomo è tra tutti gli altri animali il più
ricco di bisogni ed il più povero di risorse naturali. Preso isolatamente ogni singolo uomo
non è provvisto delle capacità necessarie per soddisfare le sue molte necessità. Solo
unendosi agli altri uomini in una società può sopperire alle sue deficienze e soddisfare i
suoi bisogni naturali:
Mediante l'unione delle forze viene aumentato il nostro potere,
mediante la divisione del lavoro viene accresciuta la nostra abilità;
mediante i reciproci aiuti ci troviamo meno esposti ai colpi della fortuna.
La società diventa vantaggiosa perché aggiunge all'individuo potenza, abilità e sicurezza.
(Trattato, III, II, 3)
Nella società a tal fine costituita deve regnare il sentimento della giustizia, quel
sentimento, cioè, che riconosce ad ogni uomo il possesso dei beni acquistati con il proprio
lavoro o con la fortuna. Il sentimento della giustizia ed il diritto di proprietà non sono,
però, connaturati all'uomo, non sono iscritti nella natura umana, ma nascono per
convenzione e derivano da un sentimento generale inteso a realizzare l'interesse comune.
Quando ognuno sa di poter conservare le proprie ricchezze senza essere insidiato da
nessuno, si astiene, a sua volta, dall'insidiare i possessi altrui, e su questo reciproco
rispetto si fonda e prospera la società. Ma gli uomini non sempre sono lungimiranti, non
sempre riescono a capire che la rinuncia a soddisfare un desiderio presente comporta
vantaggi più grandi per l'avvenire. Per questo spesso rompono le norme della giustizia,
tentando di impossessarsi dei beni altrui, e mettono in tal modo in pericolo la stessa
società. Per frenare questi impulsi contrari agli interessi collettivi e a quelli individuali
nasce il governo civile:
I governi, oltre a proteggere gli uomini nelle convenzioni che fanno
per il loro reciproco interesse, li obbligano spesso a stringere altri accordi
ed a riporre il loro interesse nel concorrere a qualche fine comune.
(Trattato, III, II, 7)
La nascita e l'esistenza del governo sono collegate, dunque, ad un interesse che è, ad un
tempo, individuale e collettivo. Tale interesse consiste nella protezione di cui ogni uomo
gode nella società e che non potrebbe conservare se vivesse in uno stato di isolamento.
Finché il governo tutela questo interesse, legittima anche la sua esistenza. Ma quando
diventa talmente oppressivo da rendere intollerabile la sua autorità, allora i componenti la
società non sono più obbligati a restargli sottomessi. Solo in questo caso si può rifiutare
obbedienza al governo e si può resistere al potere sovrano senza commettere ingiustizia.
Hume, da conservatore illuminato, rifiuta la dottrina della passiva sottomissione al potere
teorizzata da Berkeley, ma mitiga anche le conseguenze " rivoluzionarie " implicite nella
teoria contrattualistica di Locke.
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
Scienza, filosofia dell'arte e storia
Dopo la rigogliosa fioritura di studi filosofici in un arco di tempo che va dal Quattrocento
alla prima metà del Seicento, la cultura italiana cede il passo a quella europea. Mentre in
Francia, in Germania, in Olanda, in Inghilterra riprendeva vigore la ricerca scientifica e
filosofica e nascevano i grandi sistemi metafisici che abbiamo esaminato nei capitoli
precedenti, in Italia si assisteva ad una forte attenuazione dell'interesse speculativo e ad
uno scadimento di originalità. Se appare eccessivamente negativa la tesi storiografica di
chi ritiene la cultura seicentesca italiana completamente distaccata da quella europea a
causa della "decadenza morale e civile" degli italiani, non certamente può essere ritenuta
accettabile la tesi contrapposta di chi ritiene che non ci sia stato in questo periodo un calo
di tono, una caduta del vigore speculativo ed una certa provincializzazione della nostra
cultura. Certamente, se non proprio di distacco dal circuito culturale europeo e se non
proprio di ristagno e di ripetizione delle vecchie idee, si può e si deve parlare, a proposito
della cultura filosofica della seconda metà del Seicento, di perdita di autonomia e di caduta
di originalità. Il rogo di Bruno, la condanna di Galilei, il trionfo della cultura
controriformista avevano avuto come effetto immediato "la sterilizzazione intellettuale",
per citare una icastica espressione di un famoso studioso italiano, Guido De Ruggiero.
Sugli intellettuali italiani pesa il clima di intolleranza instaurato dalla chiesa e soprattutto
la completa scomparsa di quelle condizioni sociali e politiche che avevano favorito la
nascita e lo sviluppo della cultura filosofica e letteraria nel corso del Rinascimento. In
condizioni cosí sfavorevoli, però, non si riscontrano soltanto atteggiamenti rinunciatari e
adesioni acritiche e supine alla mentalità controriformista. Se riprendono vigore e potere
le voci della cultura cattolica piú tradizionalista ed ossequiente al principio di auto-
rità, non mancano tentativi di mantenere in vita ed in un certo senso di sviluppare la
tradizione scientifica e filosofica di stampo galileiano. Continuano, ad esempio, ad avere
una significativa importanza gli studi di matematica, di geometria, di astronomia, di
biologia, di anatomia. Una particolare rilevanza rivestono, ad esempio, le ricerche
geometriche di GEROLAMO SACCHERI (1667-1733) un gesuita studioso della logica
aristotelica e professore di matematica nell'Università di Pavia. In una famosa opera
(Euclide liberato da ogni macchia) Saccheri, nel tentativo di risolvere i problemi connessi
alle difficoltà del quinto postulato di Euclide, pur senza averne chiara coscienza, costruí
una geometria non euclidea pienamente coerente. Oltre al risultato ottenuto, va
sottolineata anche la procedura di cui il Saccheri si serve. Egli, partendo dalla negazione
del V postulato di Euclide, continua a sviluppare il ragionamento geometrico per verificare
se senza l'utilizzo del V postulato si arriva all'assurdo o meno. Se non si arriva all'assurdo
è dimostrata la falsità del postulato da verificare, se, invece, si cade in contraddizione
rispetto alle premesse accettate, allora è dimostrata la sua validità. Saccheri, convinto
assertore della validità del V postulato, credette di vedere l'assurdo là dove, invece, non
c'era, e quindi non raggiunse la piena consapevolezza dell'originalità della sua ricerca, ma
questo nulla toglie all'importanza del suo tentativo.
La stessa tradizione galileiana continua nell'Accademia del Cimento (1657-67) e, quando
l'Accademia sarà chiusa, nei discepoli dei discepoli di Galilei. Attivo continuatore dello
spirito galileiano fu LORENZO MAGALOTTI (1637-1712), discepolo di Viviani e, in qualità di
segretario dell'Accademia, fedele testimone dell'attività scientifica che in essa si svolse. Ma
la chiusura dell'Accademia e la conseguente perdita di un punto di riferimento e di un
laboratorio adatto ad indagini scientifiche determinarono un indebolimento nello stesso
Magalotti dello spirito scientifico piú genuino. Al suo originario interesse per la ricerca
scientifica pura, si va sostituendo un interesse per la cultura enciclopedica e religiosa,
interesse testimoniato dalle Lettere scientifiche ed erudite e dalle Lettere familiari contro
gli atei.
Sulla falsariga dell'Accademia del Cimento si sviluppò a Napoli l'Accademia degli
investiganti (1663-1670), che acquistò non poche benemerenze promuovendo una serie di
indagini fisiche e medico-sanitarie. Accademie pubbliche o private sorsero a Bari, a Siena,
a Bologna, a Venezia, costituendo, in tal modo, un circolo culturale parallelo e
contrapposto alle Università. Mentre nelle Università si trasmetteva ancora una cultura
scolastica, che non faceva molto per mascherare il proprio fastidio o la propria avversione
per la nuova scienza, nelle Accademie, grazie al metodo sperimentale, si continuava a
portare un contributo per costruire una nuova immagine del mondo. Ma questo
parallelismo e questa contrapposizione ai centri di cultura istituzionalizzati, mentre dal
punto di vista culturale rappresentavano la forza delle Accademie, dal punto di vista
dell'efficacia nella formazione di una nuova mentalità ne rappresentavano anche la
debolezza. Esse, infatti, rimasero, come centri di cultura elitaria, esclusi dalla piú vasta
circolazione delle idee che incidevano sulle scelte, culturali e non, della società. Una
particolare sollecitazione nell'impegno di ricerca gli accademici italiani la ricevevano dai
primi contatti che stabilivano con le dottrine di Cartesio, di Gassendi, di Locke, di Leibniz.
Ma purtroppo di tutta questa fioritura di studi non ci rimane alcun documento preciso. Non
poche volte, per sottrarsi a sospetti e ad accuse, essi non affidano allo scritto le loro
convinzioni ed il frutto delle loro ricerche. Ci rimangono, pertanto, soltanto testimonianze
sulla importanza della loro attività, sulla validità della loro lezione, ma niente o quasi sulla
natura dei problemi dibattuti e sulle risposte fornite a tali problemi. Dell'importanza
dell'Accademia napoletana degli Investiganti abbiamo testimonianza, ad esempio, dalle
autobiografie di Pietro Giannone e di Giambattista Vico. Sappiamo che in essa furono attivi
protagonisti TOMMASO CORNELIO (1614-1686), che per primo fece conoscere le opere di
Cartesio in Italia, LEONARDO DA CAPUA (1617-1695) e FRANCESCO D'ANDREA (1625-
1698). Da questi autori le idee di Telesio e di Galilei vengono combinate con la visione
scientifica di Cartesio. Ma la loro metodologia rimane fedele allo sperimentalismo
galileiano. Il loro programma, infatti, cosí come è esposto da Leonardo da Capua, punta a
mantener ferma l'unione di esperienza e ragione:
posposta ogni qualunque autorità d'uomo mortale, alla scorta della
sperienzia solamente, e del ragionevole discorso andar dietro per ispiar le
cagioni dei naturali avvenimenti.
(cit da E. GARIN, Storia della
filosofia italiana, Torino 1966, vol. Il, pag. 869)
Ma questo fervore di studi scientifici e la polemica metodologica corrosiva di ogni autorità
che lo accompagnava,ovviamente suscitavano sospetti ed avversione nell'autorità,
religiosa, soprattutto a Napoli, dove la presenza degli spagnoli rendeva piú attiva e vigile
l'Inquisizione. Così negli anni 1683-1696 si accese una forte disputa filosofica. La filosofia
moderna fu difesa con grande energia contro
il principio di autorità e contro la tradizione aristotelica, oltre che da Francesco d'Andrea,
da GIUSEPPE VALLETTA (1636-1714), che in una Historia filosofica difendeva
cartesianesimo e gassendismo come continuatori della filosofia pitagorico-platonica. Un
primo accenno ad una polemica anticartesiana in Italia si trova nell'opera dì PAOLO
MATTIA DORIA (1662-1746), studioso di fisica e matematica. Il Doria, dopo un primo
entusiasmo per Cartesio, ripiega su posizioni platoniche. Il metodo geometrico che aveva
sollecitato il gusto razionalistico di procedere con rigore e precisione in ogni analisi, si
rivela agli occhi del Doria troppo ipotetico, incapace di giustificare i principi primi da cui
prende le mosse. Come pure il Criterio della chiarezza e della distinzione sembra troppo
generico e tale da ingenerare nelle menti una sorta di facilismo ottimistico, in virtù del
quale molti credono che il sapere sia una conquista facile e conseguibile da parte di tutti.
In un'altra opera contro Locke, Doria ripete, grosso modo, accuse analoghe a quelle rivolte
a Cartesio, ma accentua i toni nella polemica che conduce in difesa delle idee innate.
Posizioni piú chiaramente platoniche espresse il beneventano TOMMASO ROSSI (1673-
1743), che da Vico fu esaltato come "il piú grande e puro metafisico". Rossi,
riagganciandosi a Ficino e a Pico, esalta la centralità dell'uomo, nel mondo e rappresenta
l'universo come una realtà unitaria che, attraverso una serie di progressive unificazioni, va
dalla materia fino a Dio.
Uno stemperamento del razionalismo cartesiano nell'empirismo galileiano fu tentato dal
padovano ANTONIO CONTI (1677-1749). Venuto per caso a contatto con la filosofia
cartesiana, si entusiasmò per essa e cominciò a studiarla con grande impegno. Ma,
entusiasta anche della filosofia lockiana, tentò di conciliare i due filoni in una metodologia
contemperante razionalismo ed empirismo.
Lo spirito conciliante del Conti svolge un ruolo di una certa importanza anche sul piano
della filosofia dell'arte. Il razionalismo cartesiano aveva permeato di sé le discussioni
sull'estetica ed aveva prodotto teorie che proclamavano la coincidenza del vero e del
bello: la caratteristica prima di un'opera che voglia aspirare ad essere opera d'arte è che
essa risponda al canone razionalista della verità . Nelle estetiche francesi, soprattutto, il
sentimento e l'intuizione cedono rispetto all'intelletto. I rigidi canoni intellettualistici in
Italia sono fortemente attenuati, o comunque non disgiunti da motivi fantastici ed
emozionali. Il Conti, per quanto come autore di poemi e sonetti indulga ad atteggiamenti
didascalici e faccia della poesia uno strumento per la diffusione delle teorie filosofiche,
come teorico dell'arte tenta la conciliazione tra intelletto e sentimento, tra ragione ed
emozione. La poesia deve avere come vero contenuto la filosofia e la scienza, ma deve
servirsi come mezzo espressivo delle immagini fantastiche capaci di "rapire l'intelletto" e
"muovere la volontà".
Lo stesso atteggiamento pedagogico e didascalico caratterizza le considerazioni estetiche
del maggiore teorico della filosofia dell'arte di questo periodo: GIAN VINCENZO GRAVINA
(1664-1718). Poesia e cultura filosofica non possono essere disgiunte se non si vuole
ridurre la poesia ad un puro passatempo privo di ogni funzione civilizzatrice. Attraverso la
poesia, invece, bisogna operare la "correzione del costume e della favella dei popoli".
A tal fine egli recupera un concetto di poesia ricavato da Omero e da Dante. Ma il suo
classicismo ed il suo razionalismo di ispirazione cartesiana sono filtrati attraverso il
sentimento. La poesia deve sorgere da una forte tensione morale e critica, deve puntare a
svolgere un ruolo di civilizzazione e di purificazione, ma deve anche servirsi di potenti
immagini fantastiche ed armoniose per parlare al sentimento e al gusto del lettore-
ascoltatore. La poesia suscita grandi emozioni, è come una maga buona che incanta per
fini nobili, è un "delirio che sgombra le pazzie". Anzi nell'opera di ingentilimento dei
costumi ed in quella di socializzazione e di civilizzazione degli uomini, la poesia ha
preceduto la filosofia e la legislazione. Fu proprio la poesia, con 1'incanto della sua
dolcezza, a " piegare il rozzo genio degli uomini e ridurli alla vita civile ". Se la poesia è
sogno, "è un sogno fatto in presenza della ragione".
Intellettualismo in questo clima culturale non è più sinonimo di astratto e freddo rigore
matematico, ma è razionalità mirante alla persuasione attraverso l'armonia e la bellezza
delle immagini fantastiche. Una schiera di teorici di questo periodo ripete che "il buon
gusto " è l'attitudine a ben ragionare. Il buon gusto, come un bel vestito, deve ornare i
contenuti di tutte le scienze e di ogni sorta di letteratura.
A questa estetica aderisce anche uno spirito erudito amante della ricerca storica e della
collazione documentaria: LUDOVICO ANTONIO MURATORI (1672-1750). Con Muratori si fa
più stretto il rapporto poesia-ragione. La poesia e le arti debbono propendere "all'ordine,
all'esattezza, al sistema"; il buon gusto deve collegarsi al linguaggio chiaro e preciso di
Bacone e Cartesio. Ma il contributo maggiore alla cultura del suo tempo è fornito
dall'impegno storico-erudito del Muratori. La ricerca delle fonti, l'esame critico e
comparato delle testimonianze, l'acribia filologica, lo sforzo di datare con
precisione gli eventi (il tutto al fine di operare una sicura ricostruzione documentaria della
storia italiana) rappresentano e qualificano l'impegno di Muratori nelle sue ricerche
erudite. La valutazione critica, quasi illuministica del passato, testimonia il maturare
dell'esigenza di un rinnovamento civile e culturale. L'edizione dei Rerum italicorum
scriptores è la piú chiara prova di una filologia protesa alla ricostruzione del certo in
funzione del vero, con la prospettiva, cioè, di costruire su un passato conosciuto nella
maniera piú rigorosa possibile un futuro ispirato alle nuove verità filosofiche e alle nuove
certezze scientifiche.
Nel panorama della cultura italiana di questo periodo un posto di maggior rilievo occupa il
napoletano PIETRO GIANNONE (1676-1748). Storico e giurista impegnato nell'ideale di
difesa dell'autonomia dello stato da ogni ingerenza della chiesa, Giannone contribuisce ad
arricchire l'ambiente culturale napoletano già cosi vivace ed impegnato. Contrariamente
alla storiografia erudita, l'opera di Giannone non punta alla ricostruzione rigorosa dei fatti,
ma risponde ad una precisa volontà polemica, sorretta però da una forte tensione civile e
da una profonda serietà intellettuale. Nella Istoria civile del regno di Napoli, Giannone
vuole ripercorrere la storia delle istituzioni giuridiche e politiche per evidenziare gli arbitri
e le usurpazioni della chiesa ai danni dello stato napoletano. Il desiderio di liberare lo
Stato dalle interessate intromissioni della chiesa, spinge Giannone a recuperare
l'immagine della chiesa primitiva fedele ai principi evangelici ed a contrapporla a quella
della chiesa della sua epoca caratterizzata da interessi mondani e da intrighi politici. Il
decadimento morale e religioso della chiesa è incominciato con la rivendicazione della
natura divina del potere temporale del papa. L'unico potere legittimo è, per Giannone,
quello delegato dal popolo ad un principe. Queste dottrine, unitamente alla ferma ostilità
contro l'ignoranza e la mondanità degli ecclesiastici, soprattutto contro i gesuiti, costò allo
storico la scomunica, feroci persecuzioni ed il carcere. L'ostilità della chiesa e dei governi
ad essa collegati stese una cortina di silenzio su un'altra opera del Giannone, Il Triregno,
che poté essere pubblicata soltanto nel 1895. In quest'opera la polemica contro la potenza
politica del papato è condotta non piú con le armi della ricerca storiografica intesa ad
evidenziare i misfatti politici della chiesa, ma con armi piú filosofiche e teoriche. Il papato
ha volutamente confuso il "regno terreno" della Bibbia e degli Ebrei con il "regno celeste"
predicato da Cristo. La rivendicazione del primo serve, infatti, a giustificare il potere
temporale, quella del secondo, con la promessa della felicità o della sofferenza
ultraterrena, serve a distogliere gli uomini dagli impegni civili e di conseguenza, col
conferire al papato l'aureola del potere spirituale, a rafforzarne il dominio sugli stati e sulle
coscienze.
L ispirazione gassendista e naturalista dell'opera spinge Giannone su posizioni fortemente
polemiche contro la pretesa teologica dell'immortalità dell'anima e della vita ultraterrena.
In questo ambiente culturale, cosí ricco e variegato, matura la vocazione filosofica di
Giambattista Vico.
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
Gíambattista Vico: il problema e l'uomo
Tutte le sollecitazioni provenienti dal clima culturale italiano, e piú specificamente da
quello napoletano, sono da Vico accolte e sviluppate in una direzione completamente
nuova. Il filosofo accoglie, ad esempio, la valorizzazione del sentimento operata, come
abbiamo visto nel paragrafo precedente, in sede estetica, ma la utilizza per fini
assolutamente nuovi. La fantasia ed il sentimento non devono servire per un
ammorbidimento dell'ideale di razionalità e neppure per fornire immagini gradevoli con cui
rivestire un contenuto di verità intellettualmente accertato. Fantasia e sentimento sono
elevati a dignità di momenti dello spirito. Nella prima fase dell'evoluzione spirituale
dell'uomo, infatti, la funzione civilizzatrice è affidata proprio alla fantasia produttrice di
poesia. Come pure l'amore per la filologia, che spinge Vico a frugare "fra i rottami
dell'antichità ", non è lo stesso di quello che ispira, ad esempio, gli eruditi secenteschi. Egli
vuole accertare il fatto, ma per scoprire il "nocciolo di verità" che esso contiene. Una volta
ricostruiti i fatti, bisogna capire le leggi che li regolano e li determinano. La storia, allora,
non è piú la raccolta e la catalogazione dei documenti fatte con competenza ed onestà, ma
è una scienza, perché punta a capire il senso, profondo dei fatti, le leggi operanti in essi.
Anzi contro le scienze naturali in pieno sviluppo nella sua epoca, Vico individua nella
storia, intesa come filosofia della storia, la "nuova scienza" capace di appagare l'ansia
conoscitiva dell'uomo. Solo la storia, infatti, è vera scienza; essa soltanto conduce l'uomo
ad un sapere certo, non problematico, né approssimativo. Essa, infatti, è lo studio
dell'attività umana, è comprensione del mondo della cultura, l'unico costruito dall'uomo.
Tutto ciò porta Vico lontano dalle problematiche delle scienze positive e naturalistiche del
suo tempo. La natura, fatta da Dio, non è conoscibile dalla mente dell'uomo; solo la storia
è il regno in cui la mente umana può cimentarsi con
destrezza e con successo. L'ideale scientifico è deviato, in tal modo, dalla conoscenza della
natura, a quello della storia, "la nuova scienza " dell'uomo.
Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da un modesto libraio proveniente dalla
provincia. Bambino " spiritosissimo ed impaziente di riposo ", a sette anni, per una
tremenda caduta, dovette subire una serie di tagli alla testa,
talché il cerusico, osservato rotto il cranio e considerando il lungo
sfinimento ne fe' tal presagio: che egli o ne morrebbe o sarebbe sopravvis-
suto stolido.
(Autobiografia, p. 3)
Ma non si verificò nessuno dei due casi previsti dal medico. Dopo tre anni di convalescenza
poté riprendere "la scuola di grammatica ", ma per la sua vivacità intellettuale fu
impaziente della lentezza con cui il maestro procedeva nello svolgimento del programma
e, chiesto ed ottenuto il passaggio alla classe successiva, studiò praticamente da
autodidatta. Iscritto alla scuola dei gesuiti, studiò intensamente le opere logiche di Pietro
Ispano e di Paolo Veneto. Ma non resse "a quella specie di logica crisippea " e dovette
allontanarsi dagli studi per oltre un anno. Ritornato agli studi presso i gesuiti, ben presto
se ne distaccò e "si chiuse un anno in casa a studiare sul Suarez". Da autodidatta, ancora
una volta, Vico tentava di trarre profitto dalle grosse opere di filosofia. Ma, nonostante gli
studi di logica e di metafisica, egli si sentiva piú poeta che filosofo. Mentre il padre lo
avviava agli studi di giurisprudenza, Vico non si sentiva affatto attratto dalla pratica
forense; la considerava troppo interessata ai casi particolari e troppo lontani dalla filosofia.
Accolse, perciò, l'invito a fare da precettore ai figli del Marchese Rocca. Dal 1687 al 1695
assolse a questo compito dimorando con la famiglia Rocca a Napoli, a Portici e, per buona
parte dell'anno, nel castello di Vatolla, nel Cilento. Nella solitudine di Vatolla, Vico poté
dedicarsi all'«auto-perfezionamento» servendosi della biblioteca del castello. Legge
Aristotele, Platone, Tacito, Agostino, Virgilio, Orazio, Cicerone, Dante, Petrarca e
Boccaccio. Studia anche Euclide, Cartesio e, attraverso Gassendi, anche Epicuro e
Lucrezio. Nel 1695 torna a Napoli, dove, stendendo versi e discorsi d'occasione, si fa fama
di letterato e poeta. Nel '99 vince il concorso per la cattedra di Eloquenza presso
l'Università ed inizia la sua lunga carriera di insegnante. Fra le mille angustie economiche
derivate da uno stipendio modesto e completamente insufficiente a far fronte alle esigenze
di una famiglia numerosa (ebbe ben otto figli), Vico continua i suoi studi, porta a
maturazione il suo pensiero. Agli autori preferiti, Platone e Tacito, aggiunge Bacone. Dal
1699 al 1705 scrive le sei Orazioni inaugurali dei rispettivi anni accademici. Nel 1708
scrive la settima e piú importante orazione, il De nostri temporis studiorum ratione. Con
questa opera era ormai iniziata la polemica anticartesiana. Nel 1710 scrive il De
antiquissima italorum sapientia ex latinae finguae originibus eruenda. Al primo volume,
che trattava di metafisica, sarebbero dovuti seguire un volume di fisica ed uno di morale.
Dal 1714 al 1716 Vico scrive in latino la Vita del Maresciallo Antonio Carafa. La stesura di
quest'opera gli impose la lettura delle opere di Ugo Grozio. Fu per lui una vera scoperta. Ai
suoi tre autori, Platone Tacito e Bacone, aggiunge cosí il quarto che gli suggerisce di
congiungere la filosofia e la filologia per cercare nei fatti storici la legge immanente che li
governa. Interessatissimo a questo nuovo modello di studio, Vico allarga le sue letture ad
altri giusnaturalisti. Frutto di queste nuove esperienze intellettuali è il programma di una
grande opera dedicata al Diritto Universale di cui pubblica, però, solo due parti: il De
universi iuris uno principio et fìne uno e il De constantia iurisprudentis, in cui sono già
abbozzate tutte le tesi che saranno sviluppate nel suo capolavoro. Nel 1723 ha l'amarezza
di non vincere la cattedra di diritto civile all'Università di Napoli che, fornita di un piú lauto
stipendio, gli avrebbe consentito di attendere con maggiore tranquillità al suo lavoro di
studioso. Nel 1725 stese i Principi di una Scienza nuova d'intorno alla natura delle nazioni
(La Scienza nuova prima), e la stampò a sue spese vendendo un suo anello "ov'era un
diamante di cinque grani di purissima acqua ".
Per circa vent'anni Vico si dedicherà alla rielaborazione, al perfezionamento stilistico e
all'arricchimento contenutistico di quest'opera. Nel 1730 appare la Scienza nuova seconda,
un rifacimento quasi completo della prima. Vico continua, però, a limare la sua opera fino
alla morte, avvenuta nel gennaio del 1744, pochi mesi prima della stampa della terza
edizione.
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
Dignità di poesia e retorica
La prima produzione filosofica di Vico è rappresentata dalle prolusioni ai corsi universitari
tenuti a Napoli dal 1699 al 1707. Nonostante si tratti di opere di occasione, le orazioni
testimoniano non soltanto la cultura giovanile del Vico, la sua attenzione a voci
culturali anche disparate ed opposte fra di loro, ma testimoniano anche che il primo e vero
interesse del filosofo fu l'uomo, il suo mondo interiore, la sua elevazione morale. Per la
prima orazione (Si coltivi sempre la divina forza della mente), Vico sceglie un tema
classico della tradizione platonico-agostiniana, la conoscenza di sé, della propria interiorità
come fondamento del sapere. Rivolto soprattutto ai giovani, Vico li esorta a sfruttare al
massimo in nobili imprese la capacità del loro ingegno divino.
Nella seconda orazione (Si informi l'animo a virtú e sapienza) Vico contrappone alla
serenità e all'equilibrio interiore del saggio la lacerazione interna e la perenne
insoddisfazione dello stolto, il quale, deviando dalla sua natura che lo spinge alla sapienza,
insegue beni futuri, provvisori inappaganti.
La terza orazione (Si fugga l'erudizione falsa e inutile) mira a correggere l'immagine della
cultura come strumento oratorio da utilizzare per fini negativi. Capovolgendo la tesi
vichiana che l'uomo è tale perché è fornito di libero arbitrio, Vico sostiene che l'uomo,
stravolgendo il fine per cui Dio gli ha fornito la libertà, ha commesso un peccato d'orgoglio
quando ha pensato di poter disporre di tutto, di poter affrontare imprese per lui
impossibili. Così dal piú prezioso dei doni di Dio, l'uomo ha ricavato i piú grandi mali,
l'orgoglio e la superbia. Ma il male peggiore è quello di distrarre la cultura dalla sua
autentica finalità consistente nella correzione degli errori umani. Bisogna rifuggire perciò
da ogni metodo che non sappia far uso del dubbio e dell'esperimento, come pure bisogna
diffidare delle pretese di chi troppo facilmente dimentica che all'uomo non è data la
possibilità di una perfetta e compiuta conoscenza delle cose. Nella conclusione, Vico,
cedendo ancora all'eclettismo proprio della cultura napoletana del tempo, raccomanda ai
suoi allievi di dare ascolto ai veri pensatori, citando insieme Platone, Galilei, Democrito,
Lucrezio, Gassendi e Cartesio. La quarta e la quinta orazione mostrano l'utilità sociale
degli studi, i " fini politici " della cultura. Nella quarta (Ognuno sia istruito per il comune
bene dei cittadini) Vico sostiene che il dotto ha il dovere morale, oltre che la convenienza
pratica, di mettere il suo sapere al servizio della comunità, soprattutto là dove è la
comunità stessa a sopportare il peso economico della formazione spirituale dei suoi
giovani migliori. Nella quinta (Si accresca con le lettere la gloria delle armi e la grandezza
dell'impero) Vico discute un tema di grande attualità ai suoi tempi, il rapporto tra le armi e
le lettere. La soluzione del problema è ispirata a Platone. Lettere e armi non sono in
contrasto, ma le prime sono superiori alle seconde in quanto favoriscono nella comunità lo
sviluppo delle doti morali ed intellettuali senza le quali non si forma né si conserva uno
stato stabile. Ed, inoltre, sono proprio le lettere che mettono in grado di fornire alle armi
indicazioni corrette sulle guerre giuste da combattere e su quelle ingiuste da scongiurare.
Uno stato senza lettere è come un organismo privo di capacità di orientamento. La sesta
orazione (Si emendi la natura corrotta e si giovi quanto piú possibile alla umana società)
accentua il tema della finalità sociale della cultura. La natura umana, per quanto
compromessa nei suoi potenì dal peccato originale, può essere emendata e può essere
fortificata nelle sue doti positive, come Peloquenza, la conoscenza e la virtú che insieme
concorrono a formare la sapienza. Con queste armi bisogna combattere contro la ferocia e
contro i vizi. In questa orazione è indicata da Vico anche una ratio studiorum, una regola
per stabilire gli studi adatti alle diverse età dell'uorno. Ai fanciulli dotati di pronta memona
e di accesa fantasia conviene lo studio delle lingue, della matematica e della fisica, poi
della metafisica e della teologia. Gradualmente al giovane bisogna far comprendere poi la
finalità sociale della cultura attraverso lo studio della morale, della politica, del diritto e
dell'eloquenza.
Nel De nostri temporis studiorum ratione vengono emergendo quegli spunti che nelle
opere successive saranno trasformati in momenti categoriali della speculazione vichiana.
L'orazione, nata come un invito al giovane da parte del titolare di una cattedra
universitaria di eloquenza a non trascurare la cultura umanistica, finisce per assumere i
toni di un manifesto culturale e pedagogico in difesa del metodo antico, rispettoso della
fantasia e dell'eloquenza e delle arti di persuasione, contro il metodo matematico dei
moderni ritenuto troppo arido ed astratto e teso alla conoscenza della natura invece che
alla formazione della prudenza su cui si basa la vita comunitaria.
Il discorso si inserisce in una famosa querelle tra i difensori degli antichi e quelli dei
moderni che aveva agitato tutto il Seicento. Ma Vico affronta la polemica da un punto di
vista del tutto originale. A lui non interessano i contenuti del sapere antico contrapposto a
quello dei moderni, bensí la differenza ed il valore dei rispettivi metodi:
non è mio intendimento istituir qui paragoni tra le nostre scienze e
quelle degli antichi, tra le loro arti e le nostre: ma invece ragionare in che il
nostro metodo vinca l'antico, e in che da questo sia vinto, e qual via si
debba tenere affinché non sia vinto. (De ratione, 1)
Il metodo moderno è individuato nel metodo cartesiano. Cartesio con il suo dubbio
metodico è riuscito ad eliminare lo scetticismo e a fondare il metodo matematico basato
sull'evidenza razionale e sulla deduzione geometrica necessitante. Ma se questo metodo
critico ha acquisito molti meriti in quasi tutte le scienze positive, ha, altresí, comportato
una serie di inconvenienti. Mentre nelle scienze positive la critica ha permesso che fossero
bandite una serie di ingenuità e fossero scoperte altrettante verità, sul piano della
formazione dell'uomo e delle regole atte a favorire la convivenza civile ha provocato
soltanto danni. Essa, infatti, ha bandito completamente le verità problematiche, basate sul
verosimile anziché sul vero assoluto; ha negato diritto di cittadinanza a certe
manifestazioni umane come la retorica, la poesia e soprattutto la prudenza che è a
fondamento della vita pratica. L'ansia del rigore e della verità geometricamente dedotta ha
distrutto completamente la fiducia in una serie di valori collocabili a metà strada tra il vero
ed il falso ed etichettabili come verisimili; valori fondamentali per la formazione del "senso
comune" e che, evitando la ricerca ad ogni costo di "stranezze e singolarità", fondano e
salvaguardano la socievolezza e la vita comunitaria. Il metodo moderno, inoltre, quando è
applicato all'educazione dei fanciulli diventa ancora più dannoso, perché, con l'illusione di
risvegliare lo spirito critico, mortifica le capacità spirituali proprie di quella età, soprattutto
spegne la fantasia:
Come, la vecchiaia eccelle nell'uso della ragione, cosí la gioventú è
ricca di fantasia, la quale è sempre stata ritenuta felicissimo indizio della
futura indole, e non deve quindi a nessun costo venir nei fanciulli acce-
cata. Anzi è necessario coltivare assiduamente nei fanciulli anche la memo-
ria, la quale, se non è proprio fantasia, certo è quasi una cosa sola con essa,
dato che i fanciulli in nessun'altra facoltà eccellono; e non bisogna in
alcun modo rendere gli impegni ottusi a quelle arti che si nutrono di fanta-
sia e di memoria, o tutt'e due, come la pittura, la poesia, l'oratoria, la giuri-
sprudenza. Né la critica, che è comune strumento di tutte le arti e scienze
per i nostri dotti, deve mai essere di impedimento ad alcuna.
(De ratione, 3)
Le accuse all'ideale scientifico del sapere, al metodo geometrico, come si vede, sono di
due ordini: esso è troppo astratto e quindi è incapace di giustificare, oltre che di
comprendere, quella serie di manifestazioni spirituali su cui si fonda l'umana società ed,
inoltre, è di impedimento allo sviluppo di tutte quelle arti che si nutrono di fantasia e di
memoria, facoltà spirituali equivalenti per dignità all'intelligenza. Vico ritiene che l'utilizzo
del metodo scientifico sul piano delle "scienze umane", delle scienze cioè che riguardano la
vita politica e la vita spirituale dell'uomo, sia un'impresa vana ed anche dannosa. Il mondo
umano non può essere assoggettato al rigore del metodo geometrico, esso sfugge alle
regole necessitanti del ragionamento deduttivo ed eccede i suoi schemi. Bisogna prestare
attenzione all'uso del metodo geometrico di tipo cartesiano anche nello studio della
natura. Il pericolo piú grave che comporta la applicazione di un simile metodo è che si
scambino le verità della fisica con le verità della natura stessa:
Oppongono per altro i dotti, che questa medesima fisica, da loro
insegnata secondo il metodo, è poi la natura stessa: e che questa fisica tu
vedi dovunque ti volgi a contemplare l'universo... Ma se una sola delle
leggi del movimento è falsa, stiamo attenti, stiamo bene attenti, che non
sia piú tanto sicuro per loro l'essere cosí tranquilli sul conto della natura, e
che, mentre curano le cornici dei palazzi non trascurino con grave pericolo
le fondamenta... codesti metodi come sono in geometria veracissimi pro-
cessi e forme dimostrative, cosí diventano una maniera di argomentare
quasi viziosa e capziosa quando la materia non ammette dimostrazione...
Perciò codeste dottrine fisiche, che in virtú del metodo geometrico ten-
dono a sovrapporsi alle vere, non sono nulla piú che verisimili, e ricevono
dalla geometria il metodo bensí, ma non la dimostrazione: dimostriamo
invero le verità geornetriche perché sono fattura nostra; se cosí potessimo
dimostrare anche le fisiche, saremmo creatori anche di quelle.
(De ratione, 4)
Ma il danno maggiore dell'applicazione indiscriminata del metodo geometrico è che,
mentre si polarizza l'attenzione sulle scienze naturali, si trascura enormemente la morale
e tutte quelle tendenze spirituali che attengono alla vita civile e all'eloquenza e che sono
utili nella distinzione dei vizi dalla virtú e nella determinazione
dei caratteri dei costumi secondo l'età di ciascuno, il senso, la condi?
zione, la fortuna, la famiglia, la nazione, lo stato a cui appartiene, e infine
di quell'arte sopra le altre difficilissima, del decoro: e quindi per noi si
giace derelitta quasi ed incolta l'amplissima ed eccellentissima dottrina del
pubblico governo.
(De ratione, 7)
La rigidezza del metodo cartesiano non permette, dunque, una elastica considerazione di
ciò che conviene a ciascuno secondo la particolare "situazione" in cui si trova. Le norme di
comportamento fissate per via deduttiva, per essere troppo lontane dai casi
concreti, finiscono per non interessare nessuno e per essere ideali inapplicabili nelle varie
circostanze della vita.
Dannosa risulta ancora la mortificazione della poesia da parte del metodo geometrico.
Anche il poeta svolge una sua precisa funzione educativa e sociale e non è vero affatto che
il poeta, facendo uso di immagini inventate, ha come fine il semplice diletto
dell'ascoltatore e non anche la verità. Il poeta va paragonato, invece, al filosofo:
il poeta infatti col dilettare insegna le medesime verità che severa-
mente detta il filosofo, dato che tanto l'uno che l'altro non fanno che
inculcare il dovere, rappresentare i costumi degli uomini, eccitare il lettore
alla virtú e rimuoverlo dai vizi: ma il filosofo, poiché ha da trattare la cosa
con persone erudite, ne discute in generale, laddove il poeta, poiché ha da
fare col volgo, per via di sublimi fatti e detti appropriati ai personaggi
immaginati, viene a persuadere con esempi in un certo modo escogitati.
(De ratione, 8)
Rispetto al metodo modemo, quello antico è di gran lunga superiore m quanto combinava
insieme la fantasia e la riflessione, era rispettoso delle esigenze del sentimento e di quelle
dell'intelletto. L'auspicio di Vico è che si ritorni a questo metodo antico soprattutto nella
formazione dei giovani. L'educazione, infatti, deve essere rispettosa della natura
dell'educando seguendolo nella sua evoluzione psichica. Bisogna, perciò, curare nei
giovani lo sviluppo della fantasia e della memoria con la poesia e l'eloquenza, formare la
loro disponibilità sociale con l'irrobustimento del "senso comune". Soltanto quando
saranno cresciuti, bisognerà esercitarli nella critica e nella deduzione logica. Lo sviluppo
della fantasia controllato dall'esercizio intellettuale, inoltre, riveste una grande importanza
nella formazione di giovani che vogliono essere tanto creativi da non ridursi a puri
ripetitori di verità altrui e tanto misurati da non discutere anche di ciò che non hanno
ancora appreso.
Con la polemica anticartesiana e più in generale antintellettualistica, il professore di
eloquenza non solo ha giustificato il suo lavoro rivendicando alla poesia e alla retorica
piena cittadinanza nel novero delle discipline atte a formare un uomo dotato di mente
aperta, di fantasia creativa e spinto critico sufficiente ad un controllo delle sue
affermazioni, ma soprattutto ha enunciato il principio dell'identità del vero e del fatto su
cui costruirà tutta la sua speculazíone piú matura.
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
Il vero, il fatto e la matematica
Il De antiquissima nella prima parte, gnoseologico-psicologica, riprende il motivo dell'unità
del vero e del fatto, già balenato nel De ratione e sviluppato poi nella Scienza nuova; nella
seconda parte, invece, propone un abbozzo di metafisica che non conoscerà alcuno
sviluppo nelle opere posteriori.
Partendo dal presupposto che "le parole sono simboli e note delle idee, cosi come le idee
sono simboli e note delle cose", Vico le sostiene che dall'esame del linguaggio degli antichi
popoli italici si possa ricavare il contenuto dei loro pensiero. Le parole, infatti, continuano
a rappresentare le idee da cui sono state prodotte anche quando quelle idee non sono piú
vive ed operanti nelle menti degli uomini. La prima verità che si può ricavare da questa
indagine filologica è che per gli antichi
latini il vero ed ilfatto sono termini reciproci o, come si esprime il
volgo delle scuole, sono convertibili l'uno nell'altro (verum et factum con-
vertuntur).
(De Antiquissima, 1, 1)
Ma se il vero è la stessa cosa delfatto (verum ipsumfactum), Punico possessore della
verità, della verità prima ed infinita, non può essere che Dio, creatore di tutte le cose.
Solo Dio, avendo "fatto" tutta la realtà, conosce la verità nella sua pienezza. Conoscere,
infatti, significa comprendere le cause generative delle cose, penetrare dentro i processi
causali che determinano la nascita dei diversi fenomem*. L'intelligenza completa della
realtà è consentita, allora, solo a DIO. All'uoino, invece, è possibile soltanto pensare le
cose esistenti fuori di sé, ma non conoscerle nella loro struttura profonda. li termine
pensare deriva, infatti, dal latino cogitare, da coagere, mettere insieme, "andare
raccogliendo" gli aspetti estenioni e superficiali delle cose:
cosicché Puomo può solo pensare (cogitare) ma non può avere intelli
genza (intelligere) delle cose, perché quantunque sia partecipe della ragione,
non ne è sicuro possessore (compos). (De antiquissima, 1, 1)
L'unico campo in cui l'uomo può realizzare l'unità, di vero e fatto e, quindi, può
raggiungere l'intelligenza dei processi generativi di tutti gli enti di questo sapere è il
campo della matematica. Gli elementi primi del sapere matematico, i numeri, il punto, la
linea, sono prodotti dalla inventiva dell'uomo che proprio perché li "fa",
li "conosce" con assoluta chiarezza e precisione. Ma le "verità" della matematica non
hanno nessuna consistenza reale, sono semplici finzioni della nostra mente. L'uomo,
allora, pur avendo individuato un campo del sapere del quale, come Dio, può avere
conoscenza certa in quanto è egli stesso creatore, deve convenire che il suo sapere è
perfetto soltanto nel mondo della pura astrazione, della pura e semplice finzione.
Con queste affermazioni, Vico rompe il legame che la scienza moderna aveva istituito tra
matematica e fisica, tra leggi del pensiero e leggi della natura. Il linguaggio matematico
non è piú la chiave di lettura dei fenomeni fisici, ma una semplice costruzione della mente
umana e tutte le articolazioni ed i passaggi dei suoi ragionamenti sono nient'altro che un
semplice gioco, rigoroso, severamente deduttivo quanto si vuole, ma pur sempre un gioco
fantastico a cui non corrisponde alcunché nella realtà e del quale non si può fare alcun uso
per fini conoscitivi. Lo spirito galileiano, che sembrava conservato nella equiparazione
della mente umana a quella divina nella conoscenza delle verità matematiche, è
completamente vanificato nel momento in cui viene negato ogni valore conoscitivo alla
matematica.
Vico, insomma, utilizzando il concetto baconiano di scienza (scire per causas), ne limita la
portata restringendo in effetti il campo del sapere scientifico dell'uomo, alla sola
matematica. Lo stesso esperimento fisico, infatti, pur consentendoci di ri-produrre il
processo generativo delle cose in maniera simile alla natura, non ci permette di andare al
di là del probabile e del verisimile, non ci mette mai in grado di cogliere il vero. In questo
modo Vico ribadisce la sua condanna del razionalismo deduttivistico che pensava di
ricavare da pochi elementi basilari la giustificazione di tutta la realtà ed accentua la sua
polemica contro quell'intellettualismo che aveva distrutto l'unità del pensare e dell'agire,
del vero e del fatto che, a suo dire, era fin dall'antichità patrimonio dell'umanità.
Nella costruzione dell'abbozzo di metafisica cui abbiamo accennato, Vico rimaneggia e
fonde i principi delle metafisiche piú accreditate nell'ambiente culturale napoletano. 1
principi elementari delle realtà sono chiamati atomi, alla maniera dei gassendisti, ma sono
considerati spirituali ed inestesi come voleva Leibniz, intesi come sforzo e tensione
(conatus) come aveva detto Hobbes, e attivi in un universo senza vuoto, cioè in un
universo considerato alla maniera cartesiana. Tutta la realtà deriva dalle interazioni
reciproche di questi punti all'interno di una cornice metafisica di stampo neoplatonico.
Nella psicologia del De antiquissima vanno segnalate le distinzioni e le definizioni dei
concetti di anima, animus e mens. Il primo inteso come principio fisiologico, il secondo
come principio senziente, il terzo come pensiero.
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
La storia tra filologia, filosofia e provvidenza
Le analisi filologiche sul linguaggio degli antichi italici condotte nel De antiquissima italorum sapientia hanno consentito a Vico di indagare a fondo sull'origine della civiltà e sulla evoluzione delle istituzioni e della cultura dell'umanità. In tal modo matura in Vico un nuovo interesse per la storia umana e alla sua mente si aprono nuovi campi entro cui applicare il criterio conoscitivo dell'unità del vero e del fatto. La lettura del De iure belli ac pacis di Ugo Grozio orienta definitivamente Vico verso lo studio della storia e lo stimola a progettare una grande opera di "diritto universale", della quale pubblica soltanto le prime due parti, De universo iuris uno principio et fine uno e De constantia iurisprudentis. In queste due opere sono presenti, oltre a quelli già espressi precedentemente, tutti i temi di fondo della sua futura speculazione filosofica: la socievolezza umana come principio della società; la consapevolezza del graduale passaggio dell'umanítà dallo stato ferino allo stato civile e dello sviluppo di queseultimo attraverso tre tappe fondamentali, quella degli dei, degli eroi e degli uomini; la poesia come "prima lingua delle genti". Tutti questi motivi saranno ripresi e sviluppati in forma piú organica ed articolata nel capolavoro vichiano: Principi di scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni. Ma l'intuizione piú importante che permette a Vico di operare una svolta significativa nel suo pensiero si esprime nella considerazione che il mondo delle istituzioni civili e politiche, il mondo dell'arte, della letteratura, della conoscenza scientifica, del diritto, in una parola il "mondo della storia" è tutto quanto "creato" dalla mente umana. Gli istituti del matrimonio, delle leggi positive, della religione, come tutte le altre norme regolanti i rapporti degli uomini tra loro e degli uomini con la natura, nonché tutte le manifestazioni di quella che noi chiamiamo la "civiltà umana" sono opera dello spirito
dell'uomo, allo stesso modo delle verità della matematica. E proprio come queste ultime, il "mondo della storia", per essere prodotto dall'uomo, è aperto alla conoscenza umana. In tal modo, il campo del sapere che nelle opere precedenti sembrava ristretto alle sole astrazioni dell'aritmetica e della geometria si allarga enormemente, per comprendere tutte le operazioni storiche operate dall'uomo. Questa verità è, come il cogito cartesiano, al di là di ogni dubbio, è la verità fondamentale su cui si può costruire tutta la "nuova scienza", la scienza della storia.
Ma in tale densa notte di tenebre ond'è coverta la prima da noi lon- tanissima antichità, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamare in dubbio: che questo mondo civile è certamente stato fatto dagli uomini onde se ne pos- sono, perché se ne debbono, ritrovare i principi dentro le modificazioni della nostra mente. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar meraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece esso solo ne ha scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l'avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini. (Scienza nuova, I, 331)
Questa nuova scienza non può essere campo di studio né dei soli filologi, né dei soli filosofi. I primi, infatti, raccogliendo testimonianze storiche lontanissime dalla cultura moderna riescono soltanto ad accertare aspetti particolari delle antiche civiltà, ma non riescono affatto ad organizzarli in una unità significativa. Si fermano a provare il "certo" di eventi o fatti storici particolari, ma non si elevano ad una articolazione complessiva e significativa di essi, non giungono a stabilire il "vero" nel suo complesso, si fermano al particolare senza elevarsi all'universale. Viceversa i filosofi, meditando sull'umanità ormai incivilita, perdono completamente di vista la natura umana delle origini ed ignorano i faticosi sforzi attraverso cui essa si è gradualmente evoluta producendo un "mondo storico" sempre piú ricco e civile. Fermi all'universale ed astratta concezione della natura umana, i filosofi sono incapaci di cogliere i momenti particolari dell'evoluzione della mente e di conseguenza quelli dello sviluppo della civiltà. Bisogna, allora, unificare le due competenze, puntare alla collaborazione tra filologia e filosofia, cercare di realizzare l'unità di certo e vero. Ma per tentare questa unificazione c'è bisogno preventivamente di sradicare dalle menti una convinzione antistorica radicata in molti filosofi anche recenti, come alcuni rinascimentali ed i giusnaturalisti. Questi, infatti, credono in una mitica età dell'oro (in cui gli uomini possedevano una natura perfetta, incarnavano l'universale), rispetto alla quale la storia attuale rappresenterebbe un'età di decadenza. Non a caso Marsilio o Pico cercavano la sapienza con gli occhi rivolti all'indietro, alla ricerca della "prisca philosophia" nelle opere degli orientali, nei libri di Ermete Trismegisto, ritenuto piú antico di Mosè, nella Cabbaia, o nelle parole di Zoroastro. Questo capovolgimento storico e spiegabile psicologicamente con due specie di "borie". La prima boria è quella delle nazioni; ognuna di esse vuole accreditarsi, infatti, come quella che ha "prima di tutte le altre, ritrovati i comodi della vita umana"
e che conserva la memoria della sua cultura "fin dal principio del mondo". A questa si aggiunge
la boria dei dotti, i quali, ciò che essi sanno, vogliono che sia antico quanto il mondo. (Scienza nuova, 1, 127)
Contro questa tradizione culturale, che carica di significati sapienziali l'antica cultura egiziana ed interpreta le "favole greche" come allegorie di verità filosofiche, bisogna recuperare gli elementi originari e naturali della mente umana e seguirli nella loro graduale evoluzione. La convinzione fondamentale di Vico, infatti, è che lo sviluppo della civiltà umana dipende dalla evoluzione della mente umana. La mente, infatti, non è cartesianamente compiuta e perfetta da sempre, ma soggiace ad una graduale evoluzione, passa attraverso stadi diversi e "crea" il mondo della storia nel tempo in corrispondenza al suo grado di sviluppo. In questo modo Vico ha elaborato uno degli schemi fondamentali della concezione "idealistica" della storia: gli eventi stonci dipendono dalle idee che maturano nella testa degli uomini; queste ultime sono, quindi, la forza motrice della storia e solo un loro cambiamento determina un mutamento nelle istituzioni civili e nel rapporti tra gli uomini. In nome di questa "metafisica della mente", Vico polemizza con Epicuro, Hobbes e Machiavelli che, a suo dire, spiegano con la "causalità" il processo storico, e con Zenone stoico e Spinoza che fanno ricorso alla necessità. Contro l'estrema libertà del "caso", che esclude l'ordine e l'estremo determinismo del "fato", che esclude la libertà, Vico rivendica alla mente umana in continuo sviluppo il compito di "creare" le istituzioni civili e le norme giuridiche, i concetti morali, le religioni positive, le arti, le tecniche e cosí via. Tra le idee e i fatti storici in tal modo c'è sempre una corrispondenza: questi sono sempre modellati su quelle. Ma in che modo si può spiegare l'evoluzione della mente umana? Quale norma la mente deve seguire nel suo sviluppo? E ancora: i vari momenti di questo sviluppo, scartati il "caso" e la "necessità", da quale "forza" o "potenza" sono prodotti? Da una semplice ricognizione storica sulle piú antiche nazioni, osserviamo che tutte,
cosí barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodiscono questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni, tutte seppelliscono i loro morti... Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi principi di questa Scienza.
(Scienza nuova, 11, 333)
Ora, poiché
idee uniformi nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, (Scienza nuova, 1, 144)
dobbiamo pensare che in tutti gli uomini operi un principio superiore alla natura, cioè Dio, il quale "ha sparso sopra tutti gli uomini" il "lume della grazia". E' questo "lume" operante nella ragione umana che spinge gli uomini verso la civiltà, li avvia sulla strada del progresso. I primi uomini sparsi sulla terra erano agitati da violentissime passioni. Soltanto il pensiero di una divinità spinse questi uomini a disciplinare queste passioni trasformandole da "bestiali" in umane:
Da cotal pensiero dovette nascere il conato, il quale è proprio dell'umana volontà, di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo.
(Scienza nuova, I, 340)
Il passaggio dallo stato ferino a quell'umano è possibile, allora, perché nella mente dei "bestioni primitivi" ha agito un principio divino producendo la trasformazione degli impulsi passionali in virtú e portando ordine e misura dove regnava disordine e sregolatezza: onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvidenza per conservare l'umana società. (Scienza nuova, I, 341)
Ma la provvidenza divina non interviene soltanto per innescare il meccanismo iniziale del progresso, non opera soltanto all'inizio della civiltà per avviare il processo storico della civilizzazione umana. Essa, infatti, imprime nella mente dell'uomo valori eterni ed universali che, pur manifestandosi gradualmente nella storia, sono ín sé perfetti ed implicano la perfezione assoluta di Dio. La storia, in tal modo, però, invece di essere una faticosa costruzione di valori da parte dell'uomo, risulta la manifestazione nel tempo di valori divini e, perciò, eterni, ad opera della divina provvidenza:
La onde cotale scienza [la storia] dée essere una dimostrazione, per cosí dire, di fatto storico della provvedenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del genere umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini c'hella vi ha posto sono universali ed eterni. (Scienza nuova, I, 342)
Al di là della consapevolezza umana e talvolta contro gli stessi proponimenti degli uomini, opera attivamente la provvidenza divina, autrice di una "storia ideale eterna, sulla quale corrono nel tempo le storie di tutte le nazioni". L'evoluzione della mente e con essa il progressivo sviluppo della storia umana hanno, allora, un'ispiratrice occulta: la divina provvidenza. Questa, quale "lume" interno alla mente, agisce per mezzo dell'uomo e realizza il suo divino disegno attraverso le modificazioni della mente umana che, a loro volta, determinano, di conseguenza, l'evoluzione dei processi storici.
Ma quali sono le tappe attraverso cui si sviluppa la mente umana e quali le tappe della storia? Vico, riprendendo un'antichissima concezione della storia umana articolata secondo una successione di età, ne scandisce il ritmo in tre grandi età: quella degli dei, degli eroi e degli uomini. Ma contro le sue fonti (Esiodo e Platone), Vico modifica il senso della storia. Mentre per gli antichi il divenire storico rappresentava un continuo decadimento dalla sapienza divina e quindi un graduale passaggio dalla perfezione all'imperfezione, Vico ritiene che lo sviluppo storico costituisca un continuo incremento di sapere e quindi segni una graduale conquista di perfezione. Il mutamento di significato del processo storico è possibile in quanto Vico concentra la sua attenzione sulle facoltà della mente, facoltà che si susseguono in una linea di sviluppo crescente, in modo che la successiva rappresenta sempre un potenziamento rispetto alla precedente. Mentre gli antichi ponevano come fondamento della storia una sapienza mitico-religiosa e rappresentavano il processo temporale come un processo di decadenza (per cui dagli dei sapienti derivavano eroi e semidei partecipi in parte della sapienza degli dei, e dagli eroi derivavano a loro volta gli uomini che erano i piú lontani dal vero sapere) Vico, al contrario, voleva seguire lo sviluppo della mente:
Gli uomini prima sentono senz'avvertire, dappoi, avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura.
(Scienza nuova, 1, 218)
LA CULTURA ITALIANA TRA SEICENTO E SETTECENTO
La mente, gli dei, gli eroi e gli uomini
La storia, allora, è sempre storia degli uomini, i quali costituiscono una comunità e la
perfezionano grazie alla loro capacità di stabilire un rapporto con quei valori che, abbiamo
già detto, sostanziano la"storia ideale eterna". Ed ogni età deriva la sua caratterizzazione
dal tipo di facoltà della mente che stabilisce il rapporto con
quei valori. Nella "metafisica della mente" si succedono senso,fantasia e ragione secondo
uno sviluppo articolato coerente che li rende l'uno necessario all'altro, il precedente
superato ed assorbito dal successivo. Sulla linea evolutiva delle facoltà della mente si
modellano le tappe della storia. Cosí al senso corrisponde l'età degli
dei, alla fantasia l'età degli eroi, alla ragione l'età degli uomini. Attraverso questi momenti,
l'uomo si solleva dalla primitiva, originaria ferinità per conquistare un modello di vita
associata e dei valori culturali corrispondenti alla "ragione tutta dispiegata".
I fondatori della società umana furono uomini sopravvissuti al diluvio universale, vegetanti
sulle alture boscose delle montagne, "uomini stupidi, insensati, orribili bestioni" i quali, al
pari degli animali, erano forniti di potentissimi sensi. Questi "orribili bestioni", spaventati
dalla folgore saettante nel cielo, immaginarono la natura come una divinità vivente che
attraverso gli eventi meteorologici parlasse agli uomini. Nacque cosí
la prima favola divina, la piú grande di quante mai se ne finsero
appresso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dei, ed in atto fulmi-
nante; sí popolare, perturbante ed insegnativa, ch'essi stessi che sel finsero,
sel credettero e con ispaventose religioni... il temettero, il riverirono e l'os-
servarono.
(Scienza nuova, II, 379)
Dalla religione si originò il pudore che spinse questi "giganti tutto senso" a trascinare una
donna nelle caverne e là ad accoppiarsi e vivere con la prole: si realizza cosí la nascita
della famiglia. I padri per sopperire ai bisogni materiali dei figli incominciano a seminare la
terra, ad associare, quali servi, nel loro lavoro i piú deboli offrendo loro protezione. Per
proteggersi, poi, dal cattivo odore e dal pericolo di infezioni provenienti dalla putrefazione
dei cadaveri, incominciarono ad inumare i morti, conferendo a questo rito un alone di
sacralità. L'incremento di popolazione in alcuni luoghi piú fecondi fece nascere l'esigenza
di una prima regolamentazione dei possessi e con essa una legge agraria. Si realizzano in
tal modo piccole società fondate sul timore degli dei e rette dalla potestà patriarcale.
La vita associata, richiedendo all'uomo impegni sempre piú gravosi ed esigendo risposte
adeguate a problemi sempre piú complessi, facilita un maggiore sviluppo della fantasia sui
sensi. Ha cosí inizio la seconda età, quella degli eroi, che credono di essere di natura
divina
perché, credendo che tutto facessero i dei, si tenevano figlioli di
Giove... nel quale eroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural
nobiltà... per la quale essi furono i principi dell'umana generazione.
(Scienza nuova, III, 917)
"Collerici e puntigliosi" come Achille, gli eroi fondano tutti i loro diritti sulla forza e sul
coraggio, temono soltanto gli dei, sognano grandi imprese ed amano ascoltare i poeti che
magnificano il loro eroismo, la loro magnanimità, la loro fortezza. In questa età dominata
dalla fantasia fiorisce la poesia e con essa una sapienza non prodotta dalla ragione, ma dal
sentimento e dall'immaginazione:
Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapienza della gentilità,
dovette incominciare da un metafisica, non ragionata ed astratta, qual'è
questa or degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett'essere
di tai primi uomini, siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti
robusti sensi e vigorosissime fantasie.
(Scienza nuova, II, 375)
La poesia di questa età è produttiva di sapere, è conoscenza esprimentesi attraverso il
linguaggio poetico e le immagini fantastiche. Contro l'intellettualismo del suo tempo, che
considerava la fantasia e la poesia espressione imperfetta della mente umana, una specie
di ragione indebolita, Vico esalta la fantasia e la poesia come espressione di un momento
autonomo della conoscenza. I poeti dell'età eroica proprio grazie alla fantasia " creano "
valori universali e li esprimono in poesia con "favole sublimi " capaci di parlare al
sentimento degli uomini in modo da turbarli ed educarli:
In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del
nascente genere umano... dalla loro idea criavan essi le cose, ma con infi-
nita differenza però dal cniar che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo puris-
simo intendimento, conosce e conoscendole cria le cose; essi per la loro
robusta ignoranza, il facevano in forza di una corpulentissima fantasia, e
perché era corpulentissima, il facevano con una meravigliosa sublimità; tal
e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi, che fingendo le creavano,
onde furon detti "poeti", che lo stesso in greco suona che "criatori".
(Scienza nuova, II, 376)
Con la loro arte i poeti diventano in tal modo creatori di civiltà, educatori di popoli. Le loro
veritá hanno lo stesso carattere universale delle verità razionali, anche se sono espresse
attraverso "universali fantastici", cioè attraverso immagini e figure poetiche, contenenti in
sé un valore universale, paradigmatico,come la figura di Achille che rappresenta un "
valore comune a tutti i forti " o quella di Ulisse che incarna " un'idea di prudenza comune
a tutti i saggi ".
La valorizzazione della fantasia, come facoltà conoscitiva autonoma dalla ragione e ad
essa precedente, spinge Vico ad affrontare la " questione omerica ".
Contro le estetiche razionaliste di stampo cartesiano che evidenziavano le incongruenze e
la rozzezza presenti nei poemi omerici e contro chi indicava in Omero giovane l'autore
dell'Iliade e in Omero vecchio l'autore dell'Odissea, Vico esalta i due poemi come forma
altissima di poesia e Omero come "il massimo dei poeti".
Ma Omero, di cui non sappiamo né dove né quando sia nato, né quando abbia composto i
suoi poemi, per Vico, non è una persona singola. Con " pruove " filologiche e filosofiche
Víco ritiene di poter dimostrare
che quest'Omero sia egli stato un'idea ovvero un carattere eroico
d'uomini greci in quanto essi narravano, cantando, le loro storie.
(Scienza nuova, III, 873)
Anzi piú che "un'idea", Omero è un nome dietro cui si celano tutti i rapsodi vissuti in un
arco di tempo che va dalla guerra di Troia (XII sec. a.C.) fino al regno di Numa Pompilio
(VIII sec a.C.). Essi, tutti insieme, rappresentano la Grecia nella sua giovinezza, nel pieno
fervore della propria creatività fantastica:
che per ciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria e il
vollero quasi tutti lor cittadino, perché essi popoli greci furono
quest'Omero.
(Scienza nuova, III, 875)
La " discoverta del vero Omero " ha gettato un fascio di luce sullo sviluppo della storia
della civiltà dell'antica Grecia, mostrando come quei poemi, considerati dalla tradizione
opera di un uomo particolare, rappresentano e racchiudono la civiltà di una fase
particolare della storia dell'umanità.
Il terzo momento dello sviluppo del "corso delle nazioni" è rappresentato dall'età degli
uomini, fondata sulla
natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole,
la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere.
(Scienza nuova, III, 918)
In questa età, al, diritto divino dell'età degli dei e a quello eroico basato sulla forza
temperata dalla religione, succede "il diritto umano dettato dalla ragione umana tutta
dispiegata".
Su questo diritto si modellano anche le forme di governo proprie di questa età. Il potere
non si fonda piú sulla volontà degli dei o, sulla nobiltà della nascita, ma soltanto
sull'uguaglianza della natura intelligente degli uomini. In virtú del possesso della stessa
intelligenza
tutti si eguagliano con le leggi, perocché tutti sien nati liberi nelle
loro città, cosí libere popolari, ove tutti o la maggior parte sono esse forze
giuste della città, per le quali forze giuste son essi i signori della libertà
popolare; o nelle monarchie, nelle quali i monarchi uguagliano tutti i sog-
getti con le proprie leggi, e avendo essi soli in lor mano tutta la forza delle
armi, essi vi sono solamente distinti in civil natura.
(Scienza nuova, III, 927)
Vico, in tal modo, pone sullo stesso piano le democrazie popolari e le monarchie, perché è
convinto che a caratterizzare il diritto di quest'età non sia tanto la forma istituzionale con
cui si organizza e si gestisce il potere, quanto l'eguaglianza degli uomini di fronte alla
legge.
Ma la descrizione del " corso storico " delle nazioni, che ha permesso di capire l'evolversi
della natura della mente umana ed il conseguente passaggio da un'età all'altra della storia
dell'umanità, non esclude la possibilità di una degenerazione dello spirito umano e di una
sua ricaduta in una "nuova età barbara". Ai "corsi storici" possono seguire dei "ricorsi".
A testimonianza di questa dottrina "l'umanista" Vico porta quale esempio la "barbarie
ritornata" del Medioevo. Il regresso spirituale, la caduta della tensione civile è sempre
possibile. In questi momenti di decadenza ritornano le primitive condizioni di vita
dell'umanità e si ripercorrono le stesse esperienze che l'umanità ha percorso nel passaggio
dalla mentalità mitica a quella razionale. La teoria del "ricorso storico", escludendo ogni
concezione di un progesso rettilineo e continuato della storia umana, nel mentre
conferisce alla storia un carattere problematico, non ne esclude però quello
provvidenzialistico:
Ora con tal ricorso di cose umane e civili, che particolarmente in
questo libro si è ragionato, si rifletta sui confronti che per tutta quest'opera
in un gran numero di materie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi
delle nazioni antiche e moderne e si avrà tutta spiegata la storia, non già
particolare ed in tempo delle leggi e dei fatti dei romani o dei greci, ma si
avrà la storia ideale delle leggi eterne, sopra le quali corrono i fatti di tutte
le nazioni, nei loro sorgimenti, progressi, stati, decadenza e fini, se ben
fosse (lo che è certamente falso) che dall'eternità in tempo in tempo
nascessero mondi infiniti.
(Scienza nuova, III, 1096)
E se Vico ha polemizzato, oltre che con il " caso " come norma dello svolgimento dei fatti
storici, attribuito agli epicurei, anche con " il fato ", attribuito agli stoici e a Spinoza,
certamente non l'ha fatto perché sentiva ripugnanza per il necessitarismo ed il
determinismo che tali dottrine introducono nella considerazione dello sviluppo storico, ma
soltanto perché questa causalitá necessitante non è stata fatta derivare negli autori
criticati da un Dio trascendente. Riflettendo, infatti, sulle capacità della mente umana di
capire la serie dei possibili e delle vere cause che producono effetti determinati,
il leggitore proverà un divin piacere, in questo corpo mortale di con-
templare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa dei
loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei
che il loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l'uscita,
e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la quale vogliono
avvinto il mondo, ella pende dall'onnipotente, saggia e bengna volontà
deIl'Ottimo, Massimo Dio.
(Scienza nuova, 1, 345)
Quindi regna in questa Scienza questa spezie di pruove: che tali
dovettero, debbono e dovranno andare le cose delle nazioni quali da questa
Scienza sono ragionate, posti tali ordini dalla provvidenza divina.
(Scienza nuova, 1, 348)
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
La "sfinge" illuministica e il concetto di ragione
Già a partire dalla fine del '600 per tutta l'Europa serpeggiava una forte vena di simpatia
per la cultura inglese. I dotti europei vedevano nelle idee degli scienziati e dei filosofi di
quel paese un'arma importante da utilizzare non solo sul piano polemico contro la
tradizione metafisica, ma anche su quello del rinnovamento complessivo del modo di
pensare degli uomini e delle istituzioni civili e politiche.
Alimentava particolarmente questo entusiasmo la conclusione positiva del movimento
politico che il pensiero di quei filosofi aveva ispirato e sorretto: Locke si presentava non
solo come il grande filosofo che aveva combattuto contro il razionalismo metafisicizzante
invocante l'innatismo per spiegare i processi conoscitivi, ma soprattutto come il polemista
brillante che aveva saputo condurre alla vittoria il moto di ribellione contro l'assolutismo
monarchico.
L'instaurazione della monarchia costituzionale atteggiantesi a monarchia liberale e
progressista; la circolazione delle idee, anche le più contrastanti; le pungenti polemiche
dei deisti contro le religioni positive; la vivace battaglia per la tolleranza religiosa: tutto ciò
appariva agli occhi degli Europei il contrassegno di una cultura viva, operante non soltanto
nell'ambito dei ristretti circoli degli intellettuali, ma all'interno di tutta quanta la società.
Dall'entusiasmo e per il nucleo teoretico di quella cultura e per gli effetti civili e politici cui
essa diede luogo, derivò quel vasto movimento di idee cui si dà solitamente il nome di
Illuminismo. Ma se è piuttosto agevole indicare nella cultura inglese del Seicento la
maggiore ispiratrice del movimento illuministico, non è affatto semplice darne una
definizione univoca comprensiva di tutti i suoi aspetti e di tutte le sue sfaccettature.
Individuata, per una convenzione largamente approssimativa, la durata del movimento nel
periodo che va dalla fine del secolo XVII alla fine del XVIII, volendo procedere ad una
determinazione concettuale del nucleo teorico dell'Illuminismo ci si trova di fronte ad una
varietà talmente ricca di convinzioni religiose e morali, di concezioni metafisiche, di
ideologie politiche, da sentirsi scoraggiati nel tentativo di proseguire nell'impresa. Non a
caso, infatti, la storiografia piú moderna piú che porsi l'interrogativo "che cos'è
l'illuminismo? " preferisce porsene un altro: " chi sono gli illuministi? "
Ma quest'accorgimento sposta il problema senza risolverlo. Per sapere, infatti, chi sono gli
illuministi bisogna preventivamente accertare cosa sia l'Illuminismo. Soltanto quando si
sarà determinato uno schema concettuale e un nucleo dottrinario qualificabile come
Illuminismo si potrà procedere alla verifica di chi vi appartiene e chi no. Se, ad esempio,
adotteremo una definizione intesa a sottolineare l'uso della ragione per la conquista della
felicità dovremo vedere nella espressione di Leibniz, "Nulla serve meglio alla felicità che il
lume dell'intelletto e l'esercizio della volontà nell'agire sempre secondo l'intelletto " (Sulla
felicità), il manifesto programmatico dell'Illuminismo. Se, invece, privilegeremo come
motivo caratterizzante del movimento la sua capacità critica, la polemica corrosiva contro
l'autorità religiosa e contro i dogmi della rivelazione, non troveremo alcuna ragione
plausibile per non qualificare come illuministico tanto l'atteggiamento di Spinoza
rivendicante la libertà di giudizio e di culto in materia religiosa, quanto il suo suggerimento
di analizzare ed interpretare la Bibbia come un documento storico utile per comprendere
la mentalità del popolo che l'ha prodotto. Ma sia che adottiamo il primo schema, sia che
adottiamo il secondo o un altro qualsiasi schema concettuale, rimarranno in ogni caso
fuori di esso autori significativi o tematiche importanti dell'epoca in questione.
La categoria storiografica espressa con il termine Illuminismo, come tutte le altre
categorie storiografiche, utili dal punto di vista della esemplificazione didattica, si
presenta, dunque, complessa, convenzionale ed elastica nel momento in cui si cerca di
applicarla a fenomeni culturali, storici e politici non omogenei fra di loro. La cultura di
un'epoca, ma anche quella di un singolo autore, è troppo ricca ed articolata perché possa
essere costretta in una definizione rigida e schematica. Non poche volte, infatti,
insoddisfatti degli schemi accreditati, gli studiosi sono ritornati a studiare la "sfinge
illuministica" rivolgendo la loro attenzione alle voci minori, agli scritti di propaganda
clandestina, alla ricostruzione del "clima culturale" dell'epoca, con la speranza di gettare
nuova luce su quel periodo di storia europea. Tuttavia, a mano a mano che si procede
nello studio degli aspetti meno appariscenti e delle personalità meno note, si rischia di
trovarsi di fronte frammenti di cultura difficilmente componibili in un quadro generale
unitario. Per evitare il rischio di mantenersi troppo sul generico e sul convenzionale, pur di
fornire uno schema unitario di lettura di tutto il secolo dei "lumi", e per non correre il
rischio di frantumare in una serie di tematiche non amalgamabili fra di loro tutta la cultura
di questo periodo, riteniamo utile dal punto di vista didattico fornire soltanto alcuni
connotati caratteristici di questo vasto movimento, non senza ribadire, però, che si tratta
soltanto di caratteristiche generiche e convenzionali, ben lontane dall'avere la pretesa di
rappresentare "l'essenza teorica", o il "nucleo dottrinario" dell'Illuminismo nell'accezione
piú vasta, del termine. Nell'interno della cultura francese di questo secolo, infatti,
troveremo autori che, pur respirando lo stesso clima culturale, si distaccano dalle
tematiche dei "philosophes" illuministi e con esse polemizzano. Mentre negli altri paesi
europei, come la Germania e l'Italia, i movimenti illuministici si presenteranno con
caratteristiche particolari, frutto dell'incontro della nuova mentalità emergente con la
tradizione culturale specifica dei singoli paesi.
Una prima nota caratterizzante questa mentalità è rappresentata dall'"entusiasmo per la
ragione" che i nuovi filosofi nutrono e professano. In questo atteggiamento essi ereditano
lo spirito razionalistico della filosofia seicentesca, ma lo stemperano quanto a rigore
scientifico nel mentre ne allargano i campi di applicazione.
La "ragione" illuministica, infatti, non è lo strumento rigoroso di indagine scientifica
utilizzato, con le dovute differenze, da Cartesio, da Hobbes, da Spinoza, o da Leibniz; non
è la ragione matematizzante che, individuato un primum logico-ontologico, ricavi da esso
"more geometrico" tutta la verità implicitamente contenuta. La ragione diventa
essenzialmente strumento di critica delle credenze morali e religiose, della tradizione
culturale, degli istituti politici, in breve di ogni autorità costituita. L'illuminista vuole
rischiarare con il "lume" della propria razionalità tutte le tradizioni, evidenziandone le
incongruenze, le assurdità, la dommaticità. Solo dopo questo lavoro di critica, condotto
alcune volte con garbata e raffinata polemica, altre volte con spirito sprezzante e beffardo,
utilizza la ragione in positivo per sostituire, con l'aiuto di un determinato metodo, alle
antiche certezze le nuove "verità". Non a caso, infatti, i filosofi francesi individuano nella
cultura inglese dei XVII secolo la matrice culturale del loro movimento e sostengono, per
bocca di Voltaire, che
non vi fu forse mai uno spirito piú saggio, piú metodico, un logico
più rigoroso di Locke.
(Lettere inglesi, a cura di Paolo Alatri, Roma 1971, p. 72)
La ragione che essi onorano come una " dea " non è infatti una ragione assoluta,
indipendente dal mondo dell'esperienza, una ragione di stampo cartesiano, ma proprio la
ragione lockiana, finita, limitata, e per giunta radicata nella sensibilità:
Tutta l'antichità ha ritenuto che non c'è nulla nel nostro intelletto
che non provenga dai nostri sensi. Cartesio, nelle sue romanzesche costru-
zioni, pretese che si possedessero idee metafisiche prima di conoscere il
seno della nutrice; questo dogma fu proscritto da una facoltà di teologia
non già perché fosse un errore, ma perché era una novità, ma in seguito
essa adottò tale errore, dal momento che era stato confutato da Locke, filo-
sofo inglese, ed era ben necessario che un inglese avesse torto. Alla fine,
dopo aver cambiato cosí spesso parere, essa è cosí pervenuta a prescrivere
l'antica verità, secondo la quale i sensi costituiscono la porta dell'Intelletto.
Essa ha fatto un po' come i governi carichi di debiti, che prima danno
corso a certi biglietti e poi li screditano. Ma da parecchio tempo ormai nes-
suno vuole biglietti di questa facoltà. Tutte le facoltà teologiche del
mondo non impediranno però mai ai filosofi di accertare che noi comin-
ciamo col sentire, e che la nostra memoria è una sensazione continuata.
Un uomo che nascesse privo dei cinque sensi, qualora potesse vivere,
sarebbe privo di qualsiasi idea.
(VOLTAIRE, Dizionario filosofico, voce sensazione)
E D'Alembert, nel Discorso preliminare all'EncicIopedia o Dizionario ragionato delle scienze
delle arti e dei mestieri, con l'asciuttezza del proprio stile, conferma che
tutte le nostre conoscenze dirette si riducono a quelle che riceviamo
attraverso i sensi: ne consegue che tutte le nostre idee provengono dalle
sensazioni.
(La filosofia dell'Encyc1opédie, a cura di Paolo Casini, Bari 1966, p. 45)
Ripetutamente gli illuministi sottolineano la limitatezza della ragione. Diderot parla di
"debole lume della nostra ragione"; Voltaire sostiene che "la nostra intelligenza è assai
limitata, com'è limitata la forza del nostro corpo".
Questa ragione limitata deve servirsi, per procedere nella sua opera di corrosione e di
critica, come nel suo lavoro di comprensione della "verità", di un metodo. Gli illuministi
individuano, quasi tutti, nel procedimento analitico di Newton il metodo ideale. La piú
chiara esposizione di tale metodo è fornita dal Condillac nella sua logica:
L'analisi dello spirito non avviene in modo diverso da quella degli
oggetti esterni. Si parte dalla scomposizione, si dispongono le parti del pro-
prio pensiero in un ordine successivo, per ristabilirle in un ordine simulta-
neo; si esegue questa composizione e questa scomposizione conformandosi
ai rapporti sussistenti tra le cose in quanto principali e in quanto subordinati.
(Logica, 1, 2)
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
Il metodo, la filosofia, la religione e le leggi
Con l'ausilio di questo metodo la filosofia non punta alla costruzione di un sistema
onnicomprensivo, capace cioè di spiegare ogni parte della realtà alla luce dei principi
assunti come punti di partenza, ma soltanto all'organizzazione dei risultati particolari della
ricerca. La filosofia illuministica è animata da uno spirito fortemente polemico nei confronti
dei sistemi, consapevole che, nonostante l'interdipendenza e il reciproco aiuto tra le
diverse scienze e le diverse arti,
molto spesso è arduo ridurre una singola scienza, o arte, a poche
regole o nozioni generali; non meno arduo è saldare in un solo sistema i
rami infinitamente molteplici della scienza umana.
(D'ALEMBERT, Discorso preliminare, in op. cit. p. 44)
L'ostilità nei confronti della sistematicità derivava anche dalla funzione pratica che gli
illuministi attribuivano alla filosofia. Questa deve servire a risolvere problemi "utili" a tutto
il popolo e non soltanto a cercare la soluzione di astratte questioni metafisiche. Diderot
sostiene:
C'è un solo mezzo per rendere popolare la filosofia, ed é quello di
mostrarla accompagnata dall'utilità. La gente chiede sempre: a che cosa
serve? e non ci si deve mai trovare in condizioni da dover rispondere.. a
nulla.
(L'interpretazione della natura, 18)
Proprio in vista di questa utilità la filosofia illuministica affronta i problemi sociali e politici,
si fa banditrice di una nuova " mentalità ", polemizza fortemente con la tradizione, si
impegna sul terreno storico concreto in un poderoso sforzo di trasformazione e di
rinnovamento.
Contro la pretesa fortemente radicata nelle coscienze che una convinzione trasmessa di
generazione in generazione non possa essere completamente falsa, Bayle esalta, invece,
l'esame razionale indipendente da ogni prevenzione e condotto con cura meticolosa e con
un grande spirito di "comprensione delle cose".
La credenza nella tradizione è, infatti, frutto di pigrizia mentale, di scarso senso di
curiosità intellettuale e di mancata emancipazione dalla credulità che è propria
dell'infanzia:
ad eccezione di qualche spirito filosofico, nessuno si sforza di stabi-
lire se ciò che tutti dicono sia vero. Ognuno ritiene che sia già stato preso
in esame altre volte, e che gli antichi abbiano già preso le precauzioni di
fronte all'errore, e quindi procede a sua volta a insegnarlo ai posteri, come
se si trattasse di una cosa infallibile.
(Pensieri diversi sulla cometa, 100)
La critica alla tradizione non si arresta ovviamente di fronte alla tradizione religiosa.
Riprendendo la polemica contro le religioni positive aperta dal deismo inglese, gli
illuministi ritengono che l'unica religione degna di essere professata deve essere una
religione priva di dogmi particolari, una religione naturale, radicata nell'anima umana.
Voltaire scrive, infatti:
E' necessario avere una religione; ma essa deve essere pura, ragione-
vole, universale; deve essere come il sole che esiste per tutti gli uomini e
comune a tutto l'universo; e quindi c'è una sola religione: e qual è? Voi lo
sapete: essa consiste nell'adorare Dio e nell'essere giusto.
(Catechismo dell'uomo onesto)
La battaglia contro l'intolleranza ed il fanatismo è comune a tutti i pensatori di questo
periodo. Una mentalità intollerante è una mentalità barbara, incivile, suscitatrice di odio e
di persecuzioni, nemica della pacifica convivenza tra gli uomini e rovinosa per gli Stati.
Essa, infatti, non produce altro che ipocriti o ribelli. Voltaire stigmatizza:
Il diritto all'intolleranza è dunque assurdo e barbaro: è il diritto delle
tigri, ed anzi piú orribile di questo, poiché le tigri divorano per mangiare,
mentre noi ci sterminiamo a causa di semplici paragrafi di libri.
(Trattato sulla tolleranza, VI)
La difesa della tolleranza religiosa è ferma e decisa. Agli occhi degli illuministi una
religione positiva vale l'altra: sono tutte costruzioni arbitrarie, sorte sulla base della
naturale disposizione dell'animo umano a credere in Dio. Ancora una volta l'Inghilterra
della monarchia costituzionale diventa l'ideale da imitare.
All'interno di questo paese la classe mercantile si presenta come la prima ad aver capito
che la vita sociale deve essere sottratta all'influsso intollerante della religione. Negli affari
tutti i contraenti sono uguali e rispettabili, ognuno possiede gli stessi diritti e gli stessi
doveri degli altri. Voltaire ammonisce che la religione deve occupare soltanto la sfera
privata della vita degli uomini, non deve minimamente condizionare la loro vita pubblica:
Entrate nella borsa di Londra, questo luogo ben piú rispettabile di
tante corti, vi troverete riuniti i rappresentanti di tutte le nazioni, in vista
dell'utilità degli uomini. L'ebreo, il maomettano e il cristiano trattano tra
loro come se appartenessero alla medesima religione e qualificano come
infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta, il Presbiteriano si fida
dell'Anabattista, e l'Anglicano accoglie la promessa del Quacchero.
Usciti da queste pacifiche e libere assemblee, alcuni vanno alla sinagoga
ed altri se ne vanno a bere ... Se in Inghilterra esistesse una sola reli-
gione si dovrebbe aver paura dei dispotismo, se ve ne fossero due si
azzannerebbero alla gola; ma ce ne sono trenta, e tutte vivono in pace
e felici.
(Lettere filosofiche, VI)
La difesa della tolleranza religiosa non significa, però, che tutti gli illuministi credono in
Dio, anche se nel Dio della religione naturale. Al contrario, anche quelli che affermano
l'esistenza di un essere supremo lo fanno in vista di un fine pratico. Quando Voltaire
afferma che l'intera natura testimonia dell'esistenza di Dio, in quanto la sua perfezione
esige una mente perfettissima come autore, cosí come una costruzione perfetta esige un
abilissimo architetto, non carica questa sua affermazione di nessuna tensione religiosa.
Bisogna ammettere Dio per un fine pratico: esso ci aiuta a spiegare l'ordine del mondo.
Basterà cercare la giustificazione della regolarità dei fenomeni fisici in un altro ordine di
cause, perché l'indifferenza per l'Essere Supremo diventi più scoperta ed ostentata.
Diderot suggerisce:
Se la natura ci presenta un nodo difficile da sciogliere, lasciamolo
com'è; e non ricorriamo, per tagliarlo, alla mano di un essere che in seguito
diventa un nuovo nodo, piú indissolubile ancora del precedente.
(Lettere sui ciechi)
La critica alle religioni positive e al ruolo sociale e politico da esse svolto reca impliciti in sé
la Critica alle istituzioni della società contemporanea ed il progetto di un loro superamento
in vista di un rinnovamento politico radicale.
Le forme di governo e con esse l'insieme delle leggi civili e penali non sono garantite come
buone e giuste dalla tradizione e neppure dal fatto che hanno nel passato assicurato la
pace e la convivenza civile tra gli uomini. Una forma di governo ed un determinato codice
sono buoni soltanto se assicurano in una situazione storica determinata la felicità del
popolo. Ad ogni situazione si addice una particolare istituzione politica ed una particolare
legislazione:
Le leggi sono in strettissimo rapporto con il modo in cui i diversi
popoli si procurano i mezzi di sostentamento. Occorre un codice di leggi
piú esteso per un popolo dedito al commercio e alla navigazione, anziché
per un popolo che si limiti a coltivare le sue terre. Occorre un codice di
leggi piú esteso per quest'ultimo anziché per un popolo che viva sulle pro-
prie greggi, ed ancor piú che un popolo che viva di caccia.
(Lo spirito delle leggi, XVIII, 8)
In nome di questo principio e, soprattutto, in nome del principio secondo cui un
ordinamento politico si giustifica soltanto se è in grado di garantire la sicurezza personale
ed il godimento dei beni ad ogni cittadino, gli illuministi conducono una vivace polemica
contro l'assolutismo e contro certi retaggi feudali ancora presenti nello stato francese. Lo
stato assoluto e quello feudale, per la loro natura autoritaria e vessatoria, non si prestano
a realizzare il vero fine della vita civile rappresentato dalla ricerca della felicità per ogni
uomo e, perciò, vanno combattuti ed aboliti:
Se ogni uomo tende alla felicità - scrive D'Holbach - ogni società si
propone lo stesso fine; l'uomo vive in società per essere felice. Perciò la
società è un insieme di uomini riuniti dai loro bisogni per lavorare di
comune accordo alla propria conservazione e alla propria comune felicità.
(Sistema sociale, II, 1)
Al regime assoluto vanno sostituite istituzioni piú rispondenti alle esigenze dell'umanità,
piú idonee a garantire l'individuo contro l'arbitrio dei potenti e piú adatte a favorire il
progresso futuro del genere umano. La polemica contro l'assolutismo era condotta, in tal
modo, non soltanto per adeguare le strutture politiche e giuridiche alla realtà sociale ed
economica, ma anche con la prospettiva di realizzare futuri sviluppi del grado di civiltà dei
popoli. Condorcet, nel Quadro storico dei progressi dello spirito umano, annotava:
Le nostre speranze sullo stato futuro del genere umano possono venir
riassunte in tre punti importanti: la distruzione della diseguaglianza tra le
nazioni, i progressi dell'eguaglianza all'interno di uno stesso popolo, ed
infine il perfezionamento reale dell'uomo.
(Quadro storico, X)
Ma la critica della tradizione e la speranza in un progresso futuro dell'umanità, se rendono
la cultura illuministica antitradizionale, non sono espressione di atteggiamenti antistorici.
Anzi, al contrario, gli illuministi si sentono impegnati a recuperare la storia del passato
come storia svincolata dai presupposti teologici e provvidenzialistici, come storia fatta
dalla ragione umana, come storia sofferta di progresso e di decadenza, di sviluppo e di
temporaneo arresto della civiltà. Ripetutament e si rifanno alla lezione degli antichi per
ricavarne esempi ed insegnamenti. Basterà, a testimoniare questo interesse per l'antico,
un solo esempio tratto dal Discorso preliminare all'Enciclopedia redatto da D'Alembert:
E' segno di ignoranza e di presunzione credere che tutto sia chiaro in
qualunque campo, e che non si possa trarre alcun vantaggio dallo studio e
dalla lettura degli antichi.
(in op. cit., p. 124)
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
Pierre Bayle e i manoscritti clandestini
Nella seconda metà del secolo XVIII il razionalismo cartesiano che aveva dominato la
cultura del primo '600 si avvia lentamente sulla strada del declino. Le certezze metafisiche
incominciano a dare segni di cedimento sotto i colpi della critica antidommatica e si profila
all'orizzonte quel periodo di incertezza e di trapasso dal cartesianesimo all'Illuminismo
che, con una felice espressione, è stato definito della "crisi della coscienza europea".
Una delle prime voci polemiche contro l'ottimismo razionalistico e contro la tradizione
filosofica e religiosa è quella di Pierre Bayle (1647-1706). Piú che autore di un originale
sistema dottrinario, Bayle può essere considerato uno spirito inquieto desideroso di
sottrarsi alla paralizzante egemonia esercitata sulle menti da un sapere ancora
appesantito da residui irrazionalistici di matrice magico-religiosa.
Pur avendo ricevuto una rigorosa educazione calvinista e pur essendo rimasto fedele per
tutta la vita, eccettuata una parentesi piuttosto breve di conversione al cattolicesimo, alla
sua religione, Bayle attacca frontalmente sia la pretesa della religione di fondare le sue
verità sulla tradizione, sia quella di ritenere che solo un'anima credente è capace di azioni
morali.
una pura e semplice illusione pretendere che una convinzione tra-
smessa di secolo in secolo, e di generazione in generazione, non possa
essere interamente falsa. Per poco che si prendano in esame le cause per cui
certe opinioni si stabiliscono e si tramandano di padre in figlio, si vedrà
che nulla è meno ragionevole di tale pretesa.
(Pensieri diversi sulla cometa, 100)
Il metodo per riconoscere la verità non deve fare riferimento né alla tradizione, né al
numero delle persone che la professa, ma soltanto all'esame razionale rigoroso e pacato.
Il dommatismo ed il tradizionalismo generano una religione intollerante, "sanguinaria e
massacratrice" com'è stata la religione cinquecentesca:
I roghi, i carnefici, lo spaventoso tribunale d'inquisizione, le Crociate,
le bolle che incitavano i sudditi a ribellarsi, i predicatori sediziosi, le cospi-
razioni, gli assassini dei principi, erano i mezzi ordinari che essa impiegava
contro coloro che non si sottomettevano ai suoi ordini.
(Dizionario storico-critico, art. Giappone, E)
Per evitare il ritorno di una simile "barbarie" bisogna, invece, instaurare uno spirito di
tolleranza per qualsiasi religione. Piú religioni pubblicamente ammesse al culto
contribuiscono notevolmente al bene della società perché, emulandosi reciprocamente,
incrementeranno "buoni costumi". La tolleranza deve essere estesa anche agli atei, i quali
possono comportarsi moralmente né piú né meno dei credenti. A determinare le scelte
pratiche degli uomini non sono, infatti, le idee generali, ma una serie di atteggiamenti
psicologici che variano da individuo ad individuo. Il giudizio particolare
si conforma quasi sempre alle passioni dominanti del cuore, all'incli-
nazione del temperamento, alla forza delle abitudini acquisite, al gusto e
alla sensibilità, nei riguardi di certi oggetti.
(Pensieri diversi sulla cometa, 135)
La critica alla superstizione condotta nei Pensieri diversi sulla cometa, la difesa della
tolleranza religiosa e soprattutto la rivendicazione della legittimità morale della " coscienza
errante", cioè della coscienza che può sbagliare nella ricerca del vero, determinarono la
cacciata di Bayle dalla cattedra. Libero dagli impegni accademici si dedicò alla
compilazione della sua opera piú famosa Il Dizionario storico-critico. In quest'opera,
adoperando il dubbio scettico come strumento d'indagine, Bayle va alla ricerca di tutti gli
errori presenti nella tradizione, specificamente in quella religiosa, per concludere alla
dichiarazione di irrazionalità della fede e della sua inconciliabilità con la ragione umana.
Tutte queste tematiche fanno assumere all'opera di Bayle il ruolo di cerniera tra la cultura
religiosa, quella calvinista in modo specifico, e la cultura illuministica emergente.
Quest'ultima, infatti, nel Dizionario troverà molti spunti per la sua polemica
antitradizionale ed antireligiosa.
Dalla morte di Bayle (1706), fino alla pubblicazione dello Spirito delle leggi di Montesquieu
(1748), sembra esserci un lungo silenzio culturale. Invece è proprio in questo periodo che
le tematiche illuministiche vanno diffondendosi per tutta la Francia. L'apparente silenzio è
dovuto, infatti, alla mancata pubblicazione di opere polemiche nei confronti della religione
e delle istituzioni politiche. L'occhiuto controllo della polizia reale ed il pericolo di
persecuzione da parte della chiesa consigliavano agli autori di far circolare
clandestinamente le loro opere manoscritte ed anonime. Soltanto nella seconda metà del
secolo questi testi verranno recuperati e dati alle stampe. L'importanza di questo
fenomeno di diffusione clandestina della cultura illuministica è testimoniata dalla quantità
degli scritti e dall'ampiezza del territorio in cui essi circolavano. Si tratta, infatti, di piú di
un centinaio di opere di argomenti diversi, sparse per tutte le regioni della Francia. La
polemica antireligiosa condotta in questi scritti rappresenta l'humus da cui deriveranno le
loro idee i piú illustri e noti rappresentanti dell'illuminismo; volendo procedere
schematicamente alla classificazione di queste opere possiamo distinguere in esse due
indirizzi ideologici: il deismo e l'ateismo.
Rappresenta il primo indirizzo Il cielo aperto a tutti gli uomini scritto prima del 1716 dal
curato di Bois, PIERRE CUPPE'. Ma lo scritto che piú degli altri mette a fuoco la polemica
deistica contro la religione è Il soldato filosofo, steso intorno al 1710. In quest'opera un
soldato narra, in forma autobiografica, la propria "odissea spirituale" e le considerazioni
che le hanno spinto alla critica delle religioni positive. Pur non arrivando a conclusioni
ateistiche, il "soldato filosofo " sottopone a severa critica razionale i dogmi della religione e
conclude dichiarando la falsità della rivelazione e di tutte le religioni positive. L'obiettivo
cui mira il manoscritto è la rivendicazione della tolleranza religiosa e l'affermazione di una
religione semplice, conforme alla ragione e basata soltanto sulla fede in Dio e
sull'immortalità dell'anima:
Occorre pertanto prendere in esame la religione in base alle regole di
una sana logica, mediante il buon senso, mediante il ragionamento e
mediante tutte le precauzioni ispirate dalla saggezza e dalla prudenza e
confermate dall'esperienza. ... L'incredulità non concerne quindi l'esten-
sione del potere di Dio e la giustizia della sua volontà, bensí le pretese
degli uomini che vengono a parlarci in nome suo; ciò che si nega è che i
libri sacri che questi ci mostrano contengono le leggi divine.
(Il soldato filosofo, VI)
L'indirizzo ateistico trova la sua maggiore espressione nel Testamento di Jean Meslier,
composto tra il 1720 ed il 1730 dal curato JEAN MESLIER In quest'opera la polemica
antireligiosa giunge alle conseguenze piú estreme. Non solo si nega valore alla rivelazione
e ai dogmi, ma si considera la religione come puro e semplice strumento di potere nelle
mani dei governanti:
Tutte le leggi e le ordinanze emanate sotto il nome e l'autorità di Dio
o degli dei non sono altro, in verità, che invenzioni umane. Esse sono state
escogitate per fini e per motivi di astuzia politica; in seguito sono state col-
tivate e moltiplicate da falsi profeti, da seduttori e da impostori, infine
sono state mantenute e autorizzate dalle leggi dei principi e dei grandi
della terra, i quali se ne sono serviti per tenere piú facilmente in sogge-
zione la massa degli uomini e per fare tutto ciò che vogliono.
(Il testamento di Jean Meslier, III)
Eliminata ogni residua fede in Dio, anche nel Dio della religione naturale, Meslier giustifica
"spinozianamente" la formazione delle cose naturali facendo coincidere l'essere generale
con la materia che trae da se stessa la propria esistenza ed il proprio movimento:
basta supporre per esempio, che la materia è eterna, che essa è di per
sé ciò che è, e che trae da se stessa il proprio inizio: questa supposizione è
semplice e naturale, ed è chiaramente verificabile che essa non è affatto
impossibile.
(Il testamento, LXVII)
Non sorprenda lo "spinozismo" di Meslier. La critica biblica sviluppata da Spinosa nel
Trattato teologico-politico esercita, infatti, su alcuni di questi autori un forte fascino,
testimoniato anche dall'opera La vita e lo spirito di Spinosa, attribuita da Henri de
Boulainvilliers e composta, forse, nel 1712.
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
Montesquieu: un rivoluzionario molto moderato
La critica alle istituzioni politiche francesi del tempo e la teorizzazione di un modello
politico-istituzionale nuovo corrispondente alle esigenze della parte piú ricca ed
intellettualmente evoluta della società trova in Charles Louis de Secondat barone di
Montesquieu, il suo sostenitore piú lucido e penetrante. Nato nel 1689 da una famiglia di
nobili magistrati, fu egli stesso consigliere e poi presidente del Tribunale di Bordeaux fino
al 1727. Liberatosi dagli impegni derivanti dalla politica attiva, si dedicò ad una serie di
viaggi durante i quali visitò la Germania, l'Austria, l'Ungheria, la Svizzera, l'Italia, l'Olanda
e l'Inghilterra. Il suo interesse per i costumi e le istituzioni dei popoli lo spinse anche a
viaggiare in alcuni paesi dell'Asia, dell'Africa e dell'America. Ma già prima di questi viaggi,
Montesquieu aveva pubblicato Le lettere persiane, oltre ad una serie di articoli scientifici
su questioni mediche, biologiche e geologiche e ad una serie di saggi in cui, da una
posizione rigidamente deterministica, cercava di chiarire il rapporto tra il contesto
biologico-ambientale e i costumi e le istituzioni dei diversi popoli. In queste Lettere, scritte
sotto forma di romanzo epistolare, si immagina che un giovane persiano, dopo un
soggiorno in Francia, racconti le sue impressioni sulle istituzioni politiche e religiose, sugli
usi e i costumi degli occidentali. Polemica politica e satira dei costumi si intrecciano in uno
stile garbato e piacevole in cui non manca però l'ironia, né la satira e il sarcasmo.
Vengono passati in rassegna e posti sotto accusa il dispotismo politico e la vita di corte,
sono ridicolizzati il clero e le dispute teologiche, sono derisi i costumi sociali. Di contro alla
denuncia della situazione esistente, Montesquieu non pone però l'esaltazione utopica di un
ideale astratto, ma una serie di analisi realistiche sulle diverse forme di governo
comparate fra di esse, sulla legislazione penale, sulla condizione delle donne, sui costumi
sessuali, sul diritto, sulla libertà e sulla virtù politica proprie di ogni costituzione e su tanti
altri temi. Alla denuncia e all'irrisione in tal modo, corrisponde, in positivo, l'esame
approfondito di molte problematiche e affiora anche qualche suggerimento per la soluzione
di alcune di esse.
Al ritorno dal soggiorno in Inghilterra, dove aveva studiato attentamente la costituzione di
quel paese, Montesquieu pubblica Le considerazioni sulle cause della grandezza dei
Romani e della loro decadenza (1734). In quest'opera viene affinato il metodo dell'esame
realistico delle "cause" umane e naturali della grandezza e della decadenza di un regime
politico e di una civiltà. I romani realizzarono la loro fortuna non in virtù di un disegno
provvidenzialistico, ma grazie alle loro istituzioni, al loro coraggio, al loro genio militare,
alla severità e frugalità dei loro costumi, alle condizioni climatiche e geografiche della loro
patria. A determinare la virtù di un popolo non è la sorte o il caso ma un disegno politico
adeguato e le condizioni naturali adatte.
Il metodo dell'analisi realistica della vita politica e sociale, già utilizzato nelle opere
precedenti, trova, però, ne Lo spirito delle leggi (1748) il suo impiego piú rigoroso.
Partito dalla affermazione che "le leggi, nel loro significato piú vasto, sono i rapporti
necessari che derivano dalla natura delle cose", Montesquieu sostiene che tutta la realtà è
permeata da una razionalità. Mentre però le leggi che regolano il mondo fisico sono
ineludibili, invariabili e necessarie, le leggi primitive o naturali che regolano il mondo
umano, dovendo essere applicate dall'uomo, "essere limitato, soggetto all'ignoranza e
all'errore come ogni intelligenza finita", possono restare inapplicate o peggio infrante. E'
proprio per questo che deve nascere la società umana, la quale ha come proprio
fondamento la legge positiva. Ma l'ingresso nella società e la sottomissione alle leggi
positive non segnano una perdita di potere per l'uomo, anzi producono senz'altro un
arricchimento ed un miglioramento delle sue condizioni.
Lo scopo dell'opera è quello di analizzare le leggi positive, le diverse forme di istituzioni
politiche cui esse danno luogo, per criticarne gli aspetti negativi e per suggerire le
opportune correzioni. Lo "spirito delle leggi", infatti, è l'insieme delle norme giuridiche nel
loro rapporto con la natura umana e con la natura dell'ambiente fisico in cui vivono i
singoli popoli. Non si può procedere, pertanto, ad un esame delle leggi e delle istituzioni
secondo uno schema assoluto, ideale e paradigmatico. Si deve, invece, procedere ad un
esame concreto delle norme vigenti in ogni paese:
La legge, in generale è la ragione umana in quanto questa governa
tutti i popoli della terra; e le leggi politiche e civili di ogni nazione deb-
bono essere i casi particolari a cui si applica questa ragione umana. Esse
debbono essere talmente specifiche del popolo per il quale sono state sta-
bilite che è puramente fortuito che le leggi di una nazione possano andar
bene anche per un'altra ... Esse devono essere relative alla struttura del
paese, al clima rigido o caldo o temperato, alla qualità del terreno, alla sua
posizione ed estensione, al genere di vita dei popoli (coltivatori, cacciatori
o pastori), esse devono riferirsi al grado di libertà compatibile con la costi-
tuzione ed inoltre alla religione degli abitanti, alle loro inclinazioni, alle
loro ricchezze, al loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, alle
loro maniere ... Questi rapporti formano, presi insieme, ciò che si chiama
lo spirito delle leggi.
(La spirito delle leggi, I, 3)
Con questo metodo "empirico e relativista" Montesquieu inizia la sua "requisitoria" contro
l'assolutismo della monarchia francese e l'esaltazione della forma di governo monarchico-
costituzionale di tipo inglese.
Tutte le forme possibili di governo possono essere raggruppate in tre tipi particolari: il
governo repubblicano, quello monarchico e quello dispotico, ognuno dei quali è
caratterizzato da un preciso principio: il primo dalla virtù, il secondo dall'onore, il terzo dal
timore.
Delle due forme di governo repubblicano, la democrazia e l'aristocrazia, Montesquieu
considera soprattutto la prima. Essa si qualifica come amore per " l'uguaglianza " e per "
la frugalità ". Ma la democrazia, nonostante presenti molti vantaggi, può facilmente
corrompersi:
il principio della democrazia si corrompe non solamente quando si
smarrisce lo spirito di eguaglianza, ma anche quando questo viene spinto
all'estremo, ed ogni individuo vuol essere uguale a coloro che sceglie per
comandare.
(Lo spirito delle leggi, VIII, 2)
Lo spirito "moderato" della politica lockiana pesa fortemente sulle analisi del filosofo
francese e gradualmente lo indirizza all'esaltazione del sistema politico istituzionale
realizzato con la seconda rivoluzione inglese. Montesquieu, infatti, descrive con toni
allarmati le conseguenze derivanti dall'applicazione completa dei principio di uguaglianza,
giungendo a conclusioni piuttosto "arretrate" rispetto anche alla trattatistica "democratica"
del tempo. Con linguaggio fortemente condizionato dalla tradizione, sostiene infatti che:
Non ci sarà piú rispetto per gli anziani, non ce ne sarà per i padri; i
mariti non otterranno piú deferenza ed i padroni non otterranno piú sot-
tomissione. Tutti giungeranno ad amare questo libertinaggio ... Le donne i
bambini e gli schiavi non saranno piú sottoposti a nessuno. Non esiste-
anno piú buoni costumi né amore dell'ordine, né virtù.
(ivi)
Vale la pena di sottolineare, anche se solo di sfuggita, come si parli ancora di schiavi e
come li si consideri ancora, insieme alle donne e ai bambini, "naturalmente" inferiori e
sottoposti ad altri. Laddove si determina questo eccesso di spirito di uguaglianza, la
repubblica si corrompe e al suo posto, presto o tardi, si instaurerà una aristocrazia o la
dittatura di un solo, cioè il dispotismo.
L'aristocrazia può anch'essa assicurare la felicità del popolo, a patto, però, che governi con
"spirito di moderazione", senza che i nobili, gestori del potere in questa forma di governo,
eccedano nell'ostentazione delle loro ricchezze o brighino per aumentare la diseguaglianza
esistente tra le loro condizioni e quelle del popolo. Quando il potere dei nobili diventa
arbitrario, l'aristocrazia si trasforma inun governo "dispotico con parecchi despoti".
La monarchia, a sua volta, se vuole garantire la felicità dei cittadini non deve concentrare
tutto il potere nelle mani del sovrano, deve invece concedere una serie di prerogative alla
nobiltà:
La monarchia si perde allorché il principe, richiamando ogni cosa
unicamente a se stesso, concentra lo stato nella capitale, la capitale nella
corte, e la corte nella sua persona.
(Lo spirito delle leggi, VIII, 6)
Il governo dispotico, infine, ha per suo principio il timore. E la sua conservazione coincide
con la conservazione del principe o piuttosto del palazzo in cui egli è rinchiuso. Lo scopo di
questo stato è la tranquillità:
essa non significa la pace, ma assomiglia invece al silenzio della città
che il nemico sta per occupare.
(Lo spirito delle leggi, V, 16)
Questo tipo di governo perisce per vizio interno, perché è per sua stessa natura corrotto.
Esso dura finché circostanze particolari costringono i cittadini a sopportarlo. Fatta
eccezione per i regimi dispotici, non si può dire che nelle repubbliche (democrazie ed
aristocrazie) ci sia piú libertà che nelle monarchie: libero non è un popolo che vive in
questa o in quella forma di governo, libero è quel popolo che gode della forma di governo
stabilita per legge. La libertà, infatti, consiste nel diritto di fare ciò che le leggi
consentono. Un uomo si sente libero soltanto quando ha la certezza che né il furore di una
sola persona, né quello di piú persone insieme potranno togliergli la vita o il possesso dei
suoi beni. La libertà, dunque, al di là delle forme di governo, prospera negli stati moderati
e, tra questi, soprattutto là dove non si abusa del potere. Ma se vogliamo che un potere
non ecceda i suoi limiti, non abusi della propria forza, dobbiamo limitarlo con un altro
potere. Solo quando a limitare un potere ci saranno altre forme di potere sarà garantita ne
la libertà e la sicurezza dei cittadini. Montesquieu elabora, allora, la famosissima teoria
della divisione dei poteri:
In ogni stato esistono tre specie di poteri: il potere legislativo, il
potere esecutivo ed il potere ... di giudicare.
(Lo spirito delle leggi, XI, 6)
Se questi tre "poteri", o soltanto due di essi, sono nelle mani della stessa persona, non c'è
piú libertà. Soprattutto quando il potere legislativo e quello esecutivo sono esercitati dalla
stessa persona o dalla stessa assemblea si può sempre temere che essa faccia leggi
tiranniche per esercitarle in modo tirannico.
Il "moderatismo" politico di Montesquieu lo fa essere molto severo nei confronti della
"maggiore parte delle antiche repubbliche". Esse avevano, infatti, il grave difetto di
affidare al popolo direttamente l'autorità di fare le leggi e quella di farle eseguire. Il popolo
deve, invece, limitare la sua partecipazione al governo "scegliendo i propri
rappresentanti": questo è il suo compito. A sua volta il "corpo rappresentativo", cioè
l'assemblea eletta, non deve avere nessun potere esecutivo. Esso deve limitarsi a
formulare leggi e deliberazioni senza avere il potere di farle eseguire ed inoltre deve
essere composto da due corpi separati ed indipendenti, uno rappresentato dai nobili e
l'altro eletto dal popolo. L'influsso della costituzione inglese, come si vede, si fa sentire in
ogni passaggio di questa dottrina politica.
La monarchia costituzionale inglese, uscita dalla "gloriosa rivoluzione" dell'1688 esercita
un forte fascino sullo studioso francese. La "imitazione" del sistema politico d'oltremanica
è perfetta laddove Montesquieu ipotizza l'esercizio del potere esecutivo da parte di un
monarca:
Il potere esecutivo deve essere, invece, nelle mani di un monarca,
perché questa parte del governo, che ha quasi sempre bisogno di un'azione
immediata, risulta amministrata meglio da uno solo che non da molti ... Se
non vi fosse un monarca, e se il potere esecutivo fosse affidato ad un certo
numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe piú libertà,
poiché i due poteri sarebbero uniti: le medesime persone avrebbero tal-
volta, e potrebbero sempre aver parte dell'uno e dell'altro.
(Lo spirito delle 1eggi, XI, 6)
Pur non rappresentando in assoluto una novità la dottrina di Montesquieu nella Francia del
primo Settecento venne considerata rivoluzionaria sia da parte del potere costituito, che
perseguitò come potè il filosofo, sia da parte della curia romana che, attraverso la
Congregazione dell'Indice, condannò Lo spirito delle leggi, sia da parte dei filosofi
"illuministi" che ritennero il filosofo uno di loro e utilizzarono i suoi scritti per la loro
propaganda.
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
Voltaire: la filosofia contro il vecchio regime
Per capire ed apprezzare adeguatamente il significato e la portata storica dell'Illuminismo
in generale, e di Voltaire in particolare, bisogna considerare le condizioni sociali e politiche
in cui versavano molti paesi europei e soprattutto bisogna tener presente la cappa
moralistica, fatta di pregiudizi, di credenze tradizionali e di irrazionalità, che gravava sulla
vita quotidiana degli uomini.
I grandi sistemi metafisici e le ardite speculazioni teoretiche dei filosofi dell'Europa
continentale sembravano non aver scalfito affatto il corso degli eventi storici e non aver
modificato in alcun modo la vita morale e sociale degli uomini.
Le teorizzazioni filosofiche, anche le piú moderne ed originali, sembravano lontanissime
dai problemi quotidiani degli uomini. Alle conquiste intellettuali non corrispondevano
apprezzabili modifiche nei costumi, nella vita politica, nei rapporti sociali. Le stesse
considerazioni sulla politica sembravano fatte apposta per risolvere problemi puramente
teorici che niente o quasi avevano a che fare con i regimi esistenti e con la concreta prassi
politica quotidiana.Le stesse condanne che i sovrani, attraverso gli organi dello stato o
della chiesa, scagliavano contro alcuni scritti, sembravano pronunciate piú per la paura
degli effetti futuri che da quegli scritti potevano derivare, che non per il loro effetto
immediato.
Agli occhi di molti filosofi francesi del Settecento sembrava sottrarsi a questa situazione di
astrattezza soltanto la filosofia inglese da Bacone in poi. Critici severi e pungenti
dell'assolutismo della monarchia francese, fustigatori sarcastici dei costumi improntati
all'ipocrisia e al fanatismo irrazionale, desiderosi di rinnovare il modo di pensare degli
uomini ed in tal modo di migliorare i modelli di comportamento sociale e politico, molti
illuministi credettero di trovare in Newton, in Locke e nei deisti inglesi il metodo ed i
contenuti dottrinari da utilizzare subito, in vista di un immediato rinnovamento della vita
civile e politica degli uomini. Convinti che a mutare la "cultura" di un'epoca, a mutare cioè
i regimi politici e le idee generali condizionanti e determinanti gli atteggiamenti umani,
bastasse soltanto l'opera di corrosione critica dei vecchi modelli e la presentazione dei
nuovi, gli illuministi, appropriatisi dei concetti piú "moderni" della pubblicistica filosofica
inglese, iniziarono la loro faticosa, ma esaltante battaglia contro tutti gli aspetti piú
retrogradi, piú irrazionali ed inumani della società francese contemporanea da essi
sinteticamente definita "ancien regime", il vecchio regime.
In questo clima storico ed in questa prospettiva si può agevolmente comprendere ed
apprezzare l'opera del piú accanito e creativo polemista francese del tempo: FranÇois
Marie Arouet, detto Voltaire. Nato a Parigi nel 1694, educato dai gesuiti, Voltaire entrò ben
presto a far parte di quella società raffinata e gaudente, comprendente la parte piú colta
della nobiltà e della borghesia della capitale. Si fece subito apprezzare per le sue doti
poetiche. In seguito ad un incidente mondano, dovette allontanarsi dalla Francia ed
approdò in Inghilterra, dove rimase dal 1725 al 1729. Furono gli anni della sua vera
formazione. La cultura inglese esercitò su di lui un fascino irresistibile ed assunse al suoi
occhi il valore di un paradigma da imitare, di un verbo da propagandare e, soprattutto, di
un ideale da realizzare praticamente. Nel 1734 pubblica infatti Le lettere filosofiche, in cui
esalta e magnifica tutte le conquiste politiche e culturali realizzate dagli inglesi: la libertà
politica, la monarchia costituzionale, la tolleranza religiosa, la scienza newtoniana,
l'empirismo lockiano.
A cospetto di questa cultura l'opera di Cartesio viene considerata
soltanto un romanzo ingegnoso, e nel migliore dei casi un romanzo
verosimile per gli ignoranti. (Lettere filosofichee, XIV)
Nessun aspetto della filosofia cartesiana si sottrae alla critica volteriana: la psicologia, la
metafisica, la fisica, l'antropologia sono tutte frutto della fantasia inventiva di Cartesio;
Locke, invece, è "lo spirito piú saggio e metodico, il logico piú esatto " che sia mai esistito.
Con Locke, infatti, Voltaire nega che l'anima pensi sempre, come volevano Cartesio e
Leibniz, e che possegga idee innate:
in quanto a me, mi vanto di essere a questo proposito altrettanto stu-
pido di Locke. Nessuno riuscirà mai a farmi credere che penso sempre; e
non sono disposto piú di lui ad immaginare di essere stato, alcune setti-
mane dopo il mio concepimento, un'anima molto sapiente che conosceva
allora mille cose poi dimenticate nascendo, e che possedeva inutilmente
nel grembo materno delle conoscenze le quali mi sono sfuggite allorché ne
avrei avuto bisogno, senza che abbia mai potuto riacquistarle per bene in
seguito. (Lettere filosofiche, XIII)
Con Locke ripete che la fonte prima di ogni conoscenza risiede nella sensazione e che la
nostra intelligenza, lungi dal possedere le capacità per spiegare tutto, ha un potere
limitato come è limitata la forza del nostro corpo.
Ma ciò che entusiasma ancora di piú Voltaire è il regime costituzionale inglese:
la nazione inglese è l'unica al mondo che sia riuscita a regolamentare
il potere dei re opponendo loro resistenza, e che faticosamente abbia alfine
instaurato quel saggio governo in cui il principe, onnipotente per fare il
bene, ha le mani legate per fare il male, in cui i signori sono grandi senza
insolenza e senza vassalli, e il popolo prende parte al governo senza confu-
sione. (Lettere filosofiche, VIII)
A dimostrazione della tolleranza religiosa praticata in Inghilterra, dedica le prime lettere
alle sette religiose piú popolari in quel paese.
Dal 1735 al 1749 Voltaire approfondisce lo studio della scienza newtoniana e mette a
fuoco i principi della religione naturale da contrapporre a tutte le religioni positive. In
questo periodo scrive Il trattato di metafisica (1734), Gli elementi della filosofia di Newton
(1738), ed inizia una serie di ricerche storiche che, pubblicate piú tardi, costituiranno Il
secolo di Luigi XIV e il Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni. Nel 1750 si reca in
Prussia, ospite del re Federico II, del quale diventa amico e consigliere. Lasciata la corte
prussiana dopo tre anni, riprende i suoi viaggi all'estero, da dove continua ad essere, con
la sua opera, l'ispiratore di tutte le battaglie che i philosophes conducono contro il
fanatismo e l'intolleranza religiosa, contro l'assolutismo politico e contro l'ottimismo ed il
pessimismo eccessivi, con il fine di far trionfare la ragione, la consapevolezza critica ed il
buon senso. La sua attività di scrittore e di polemista è frenetica. Scrive un Poema sul
disastro di Lisbona (1756) e Candido o dell'ottimismo (1759), con cui critica l'ottimismo
leibniziano inneggiante a questo mondo come al "migliore dei mondi possibili". Compone,
oltre a vari romanzi, opere filosofiche come il Trattato sulla tolleranza (1763), il Dizionario
filosofico portatile (1764), la vera bibbia dell'antifanatismo e dell'antitradizionalismo
volteriani, ed una lunga serie di brevi saggi letterari e filosofici che inaugurano un nuovo
tipo di letteratura polemica: il pamphlet. Ritorna a Parigi all'età di 84 anni per assistere
alla rappresentazione di una sua tragedia, Irene, ed è accolto in modo trionfale. Muore nel
1778.
Voltaire combatte le sue numerose battaglie utilizzando tutte le risorse della sua
intelligenza e del suo spirito arguto e mordace. Si serve di armi quali l'ironia, la satira, il
sarcasmo, l'umorismo, per mostrare quanto di ridicolo, di assurdo, di irrazionale e di
inumano permane nei costumi e nella legislazione di molti popoli. Contro il concetto
cartesiano dell'anima come sostanza pensante afferma:
non capisco come sia possibile rappresentare una sostanza immate-
riale. Rappresentare qualcosa vuol dire farsene un'immagine, e finora nes-
suno ha potuto rappresentarsi lo spirito. Ma anche se con rappresentare si
intende in realtà concepire, debbo confessare che non riesco a concepirlo.
Ancora meno concepisco che un'anima spirituale possa venire annientata
poiché non concepisco né la creazione né il nulla, poiché non ho mai assi-
stito alla decisione divina e poiché non so niente del principio delle cose ...
Confesso quindi la mia ignoranza e riconosco che quattromila volumi di
metafisica non ci insegneranno che cosa sia la nostra anima.
(Questioni sull'Encic1opedia, art. Anima, III)
Il pensiero, infatti, potrebbe essere un attributo concesso da Dio alla materia, come per
esempio il movimento o la gravità che, come il pensiero, non sono soggetti all'estensione
e alla divisibilità. Dio potrebbe aver organizzato i corpi per pensare cosí come li ha
organizzati per mangiare e digerire. Dobbiamo, però, convenire che se non sappiamo cosa
sia l'anima neppure possiamo dire cosa sia il corpo. Di esso sappiamo soltanto che è
esteso, solido, divisibile, dotato di figura, ma non conosciamo affatto la sostanza che lo
costituisce. La materia esiste, la pesiamo, la misuriamo, la scomponiamo, ma se vogliamo
andare al di là di ciò che di essa cogliamo con le sensazioni "ci ritroviamo nell'impotenza e
dinanzi ad un abisso". L'ignoranza dell'essenza della materia non può farci negare, però,
che l'universo sia composto di materia ordinata secondo un principio razionale, secondo
leggi meccaniche e geometriche perfette che rimandano ad una intelligenza suprema, ad
un Dio creatore ed ordinatore dell'Universo. La stessa intelligenza umana ci rimanda ad
un'altra intelligenza, non potendo provenire da un essere non intelligente. Voltaire
riutilizza, in tal modo, una vecchissima prova per dimostrare resistenza di Dio e, benché
sia perfettamente consapevole della non originalità del suo argomento, lo difende:
"Questo argomento è vecchio, ma non perciò cattivo".
Ma che cosa sappiamo di questo Dio artefice e conservatore dell'ordine universale? Niente,
assolutamente niente; sappiamo soltanto che bisogna adorarlo ed esseri giusti. In tal
modo Voltaire si qualifica chiaramente come un teista, credente cioè in un Dio
trascendente. Ma il suo teismo non alimenta nessuna religione positiva. Al contrario, lo
porta a polemizzare fortemente contro tutte le costruzioni intellettualistiche e metafisiche
delle sette religiose. Il credo del teista è estremamente semplice e consiste nell'adesione
alla piú semplice e alla piú nota legge morale: "fa ciò che vorresti fosse fatto a te". La
religione migliore, infatti, è quella che insegna il massimo di morale con il minimo di
dogmi, che cerca di rendere gli uomini giusti, senza renderli assurdi. Questa religione e la
morale ad essa relativa sono comprensibili da parte di tutti gli uomini, in quanto,
possedendo tutti la stessa ragione, presto o tardi tutti capiranno che la virtù è ciò che si
ritiene utile alla società. In nome di questa religione "pura, ragionevole ed universale", che
non crede nei dogmi e neppure nei miracoli, considerati come una infrazione - impossibile
da parte di Dio - delle leggi immutabili che egli stesso ha stabilito nella natura, Voltaire
conduce la sua battaglia contro il cristianesimo e contro tutte le religioni intolleranti.
Contro il fanatismo religioso che induce la chiesa ad essere spietata contro i non credenti,
Voltaire si fa paladino della tolleranza religiosa: tutti gli uomini sono pieni di debolezze e di
errori, la tolleranza è il coraggio di perdonarsi a vicenda le proprie "sciocchezze".
Contro l'eccessivo ottimismo leibniziano, Voltaire scrive pagine cariche di ironia nel
romanzo Candido e nel Poema sul disastro di Lisbona. Ma la critica all'ottimismo ad
oltranza non si ribalta nel pessimismo ad oltranza. Voltaire è convinto che l'uomo nasce
buono: può diventare cattivo cosí come può diventare malato. Esclusi dal numero dei
possibili malvagi tutti gli uomini che in un campo e in un altro lavorano, Voltaire è
convinto che
di veramente cattivi rimarranno soltanto alcuni politici, sia secolari che
regolari, che vogliono sempre mettere in agitazione il mondo, e
qualche migliaio di vagabondi che offrono i loro servizi a questi politici.
Orbene non c'è mai un milione di queste bestie feroci che siano impiegate
contemporaneamente, e nel numero comprendo anche i briganti da strada.
Avete perciò al massimo, sulla terra, e nel tempi piú turbinosi, un uomo su
mille che si possa definire cattivo, ed, ancora, non lo è sempre.
(Dizionario filosofico, art Malvagio)
L'uomo come tutti gli esseri occupa un posto preciso nella natura, alla cui legge è
sottoposto. Anche la volontà dell'uomo segue le leggi causalistiche della natura. La libertà
umana non coincide affatto con il principio del libero arbitrio di indifferenza, in virtù del
quale potremmo "liberamente" in ogni situazione scegliere indifferentemente un
comportamento o un altro:
ogni volta che voglio, voglio in virtù del mio giudizio buono o cat-
tivo, questo giudizio è necessario, e perciò lo è pure la mia volontà. Infatti
sarebbe ben singolare che tutta la natura e tutti gli altri esseri obbedissero a
leggi eterne, e che esistesse invece un piccolo animale, alto cinque piedi,
che - a disprezzo di queste leggi - potesse agire sempre come gli piace, in
base al suo solo capriccio ... Debbo dunque ritenere che, essendo le leggi
della natura sempre identiche, la mia volontà non è piú libera nelle cose
che mi appaiono indifferenti di quanto lo sia nelle cose in cui mi sento
sottoposto ad una forza invincibile.
(Il filosofo ignorante, 13)
La libertà, infatti, consiste nel fare ciò che possiamo fare, come ad esempio "camminare
quando non abbiamo la gotta".
Per Voltaire anche la morale è indipendente dalla rivelazione e dalla religione positiva.
Essa è universale perché è indicata dalla ragione che è uguale in tutti gli uomini:
Basta servirci della nostra ragione per distinguere le sfumature
dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono sovente vicini e le nostre
passioni li scambiano tra loro: chi ci illuminerà? Noi stessi quando siamo
tranquilli.
(Dizionario filosofico, art Del giusto e dell'ingiusto)
La moralità deriva dunque dalla nostra ragione; esiste una sola morale per tutti gli uomini
indipendentemente dalla loro cultura e dalla loro fede:
Gli agricoltori, i lavoratori manuali, gli artigiani non hanno seguito
alcun corso di morale, non hanno letto né il Cicerone, ne le due Etiche di
Aristotele, ma non appena riflettono, diventano senza saperlo discepoli di
Cicerone; l'artigiano indiano, il pastore tartaro e il marinaio inglese cono-
scono il giusto e l'ingiusto.
(Dizionario filosofico, art Morale)
Voltaire, assolutizzando la ragione, assolutizza anche la morale, sganciandola non solo
dalle confessioni religiose, ma anche dalle situazioni storiche concrete in cui l'uomo si
trova a vivere. C'è in tal modo una sola ragione operante in tutti gli uomini,
indipendentemente dai tempi e dalle condizioni in cui essi vivono, come c'è una sola
morale razionale ed universale, valida in ogni tempo, in ogni luogo e per qualsiasi
soggetto umano.
La polemica contro la superstizione ed il fanatismo, contro l'autoritarismo del potere
religioso e di quello politico, contro la tradizione oscurantista si estende in Voltaire anche
alla storiografia retorica e nozionistica. Lo scopo della storia non è quello di conoscere la
cronologia delle varie dinastie e le date degli eventi militari. Tutto ciò non ha alcun senso e
non serve ad altro che a riempire la testa di vuote nozioni. Lo storico deve puntare alla
conoscenza "dello spirito, dei costumi e delle usanze delle principali nazioni" e di tutti quel
dati che sono utili a meglio farceli comprendere. Dal "vasto magazzino" della storia
bisogna saper trarre fuori e consegnare alla memoria storica dei popoli
soltanto ciò che merita l'attenzione di tutti i tempi, ciò che può illu-
strare il genio e i costumi degli uomini, ciò che può servire di istruzione e
consigliare l'amore della virtù, delle arti e della patria.
(Il secolo di Luigi XIV, 1)
Leggendo la storia con gli occhi rivolti all'essenziale, a ciò che, pur permanendo, si
sviluppa continuamente, ma soprattutto leggendo la storia con intelligenza e buon gusto
troviamo che l'umanità ha realizzato i suoi maggiori progressi in quattro epoche
fondamentali della sua storia. Il secolo di Pericle, il secolo di Cesare e di Augusto, il secolo
del Rinascimento italiano ed il secolo di Luigi XIV. In quest'ultimo secolo soprattutto si è
perfezionata la ragione umana ed esso ha conosciuto la vera filosofia. Davanti all'umanità
si presenta, in virtù di questo nuovo modo di pensare, un futuro di pace e di progresso
civile:
Questa filosofia umana, che comincia a penetrare in diversi stati, eli-
minerà probabilmente almeno le guerre di religione, anche se non potrà
impedire quelle provocate da un'infelice politica. Essa ha moltiplicato le
accademie in molti regni e in molte repubbliche, ed ha esteso lo spirito
umano estendendo le sue conoscenze; in virtù di questo stesso spirito, che
sempre piú si trasmette di passo in passo, ci si è dedicati maggiormente
all'agricoltura, e le persone sagge hanno provveduto a rendere la terra piú
fertile mentre gli ambiziosi la irroravano di sangue.
(Nuove osservazioni sulla storia, pref)
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
La filosofia dell'Ericiclopedia: Diderot e D'Alembert
Lo spirito di rinnovamento della mentalità e dei costumi ed il desiderio di diffondere la
cultura al di là della limitata cerchia degli intellettuali di professione, che rappresentano il
motivo di fondo di tutte le battaglie polemiche degli illuministi, trova la sua massima
espressione nei 34 volumi dell'Enciclopedia o dizionario delle scienze delle arti e dei
mestieri. L'idea di redigere una "summa" di tutta la cultura passata da offrire
all'attenzione dei lettori e alla riflessione degli uomini di cultura parte da un gruppo di
librai associati, i quali offrirono a Diderot l'incarico della redazione. A Diderot si affiancò
D'Alembert per la redazione della parte matematica. Ma quando il disegno iniziale si
trasformò in un programma piú ambizioso, i due redattori invitarono a collaborare i piú
noti intellettuali del tempo. Filosofi, scienziati, medici, teologi liberali, magistrati, artisti,
tecnici, artigiani, musicisti, economisti, politici furono invitati ad esporre i principi delle
loro scienze e delle loro arti nelle voci dell'Enciclopedia. Ma l'iniziale entusiasmo generale
intorno all'opera si venne raffreddando soprattutto per l'aperta ostilità dei gesuiti, dei
giansenisti e dei reazionari della corte. Già a partire dalla pubblicazione dei primi due
volumi (1751-52), l'opposizione degli ambienti piú tradizionalisti e conservatori si fece
sentire e gradualmente salí di tono, finché nel 1759 il procuratore generale della suprema
Corte di Francia bollò l'Enciclopedia come "opera empia".
Subito dopo anche il papa Clemente VII emetteva una propria condanna. Di fronte a
questi attacchi D'Alembert ed altri si ritiravano dall'impresa, mentre Diderot ed un
manipolo di collaboratori continuarono a scrivere in attesa di stampare i rimanenti volumi
in tempi piú propizi. Approfittando di un periodo di relativo allentamento dell'opera di
censura questi verranno pubblicati tra il 1765 ed il 1772.
L'Enciclopedia è ispirata tutta ai principi della filosofia inglese da Bacone a Locke. Essa
riprende, infatti, la classificazione baconiana del sapere: dalla distinzione dell'attività, dello
spirito umano in memoria, ragione ed immaginazione deriva la partizione del sapere in
storia, filosofia ed arte. Un'opera cosí vasta, scritta da autori per tanti versi differenti fra di
loro, non poteva mantenere una linea di sviluppo unitaria. Se, infatti, lo spirito che regge
l'opera è sicuramente illuministico, non mancano voci moderate o addirittura tradizionali
inserite anche per servire da copertura contro gli attacchi della censura.
Complessivamente l'Enciclopedia offre l'immagine di un sapere unitario ed in continua
evoluzione. Rientra, infatti, nell'ambito del sapere ogni attività umana, dalla speculazione
filosofica piú astratta fino alle tecniche industriali ed artigianali. I meriti fondamentali
dell'opera furono, fra gli altri, quello di aver rappresentato un punto di riferimento per la
cultura progressista e illuministica del tempo e quello di aver diffuso tra la media e la
piccola borghesia francese ed europea una larga informazione culturale, contribuendo in
tal modo ad elevare il livello di cultura di larghi strati sociali e favorendo il disegno
illuministico di liberazione delle menti dalle tenebre dell'ignoranza e della superstizione.
L'animatore infaticabile di questo grosso progetto fu, come abbiamo detto, Diderot. Nato
nel 1713 in una città di provincia, Denis Diderot entrò ben presto in contatto con i testi
clandestini di propaganda antireligiosa e, attraverso questi, ebbe modo di accostarsi ai
testi dei filosofi inglesi, particolarmente a Shaftesbury. Nel 1746 pubblica I pensieri
filosofici in cui si avverte fortemente l'influsso del moralista inglese. In quest'opera, infatti,
Diderot rivendica alla ragione il diritto di critica e di verifica di ogni forma di sapere, anche
della religione. Contro il dommatismo del cristianesimo, esalta il razionalismo pacato e
civile del deismo, e contro i dogmi ed i miracoli la forza dimostrativa dei ragionamento:
Pontefice di Maometto, fai pure levare gli storpi, fai parlare i muti,
rendi la vista ai ciechi, guarisci i paralitici, risuscita i morti ... con tuo
grande stupore vedrai che la mia fede non sarà per niente scossa. Vuoi che
io diventi tuo proselito? Lascia da parte questi giochi di prestigio e ragio-
niamo: sono più sicuro del mio giudizio che non dei miei occhi... Forse
che ti è piú facile rialzare uno storpio anziché illuminarmi?
(Pensieri filosofici, 50)
Ma ben presto Diderot si stacca dalla cultura deistica e mette in questione la sua fiducia in
una religione naturale e razionale. Nelle Lettere sui ciechi (1749) Diderot si richiama ad
una sorta di spinozismo e, rifiutando la visione finalistica della natura, rifiuta anche il
ragionamento, accettato ancora da Voltaire, che dall'ordine del mondo si ricava una
conferma dell'esistenza di Dio. Diderot si avvia in tal modo ad identificare Dio con la
natura e a nutrire una concezione materialistica del mondo. Nell'opera Dell'interpretazione
della natura sviluppa questo suo nuovo orientamento.
L'ipotesi di Diderot è che la natura è costituita di una materia organica viva, in perenne
movimento, in continuo sviluppo evolutivo. Tutti gli esseri sono viventi e tutti, uomo
compreso, appartengono a questa natura.
L'organizzazione e l'ordine in essa presenti non sono il frutto di un'intelligenza ordinatrice,
ma della tensione vitale di ogni cellula vivente della materia che è alla ricerca di
combinazioni sempre piú adeguate:
Cosí l'animale in generale potrebbe essere definito come un sistema
di molecole organiche differenti che - in virtù dell'impulso di una sensa-
zione simile ad un tatto ottuso e sordo, ad esse fornito dal creatore della
materia - si sono combinate finché ognuna non ha trovato la posizione
piú conveniente alla propria figura e al proprio riposo.
(Dell'interpretazione della natura, 51)
Non esistono differenze tra mondo inorganico e mondo organico ed, in quest'ultimo, tra
piante, animali ed uomini. La catena degli esseri è unica ed ininterrotta, nella natura non
ci sono salti tra una specie ed un'altra, ma soltanto continuità:
Gli esseri circolano gli uni negli altri, e cosí tutte le specie; ogni cosa è
inserita in un flusso perpetuo. Ogni animale è piú o meno uomo; ogni
minerale è piú o meno pianta, ogni pianta è piú o meno animale ...
nascere, vivere e trapassare è un puro cambiamento di forme.
(Il sogno di D'Alembert)
A queste sue teorie, però, Diderot preferisce lasciare il valore della pura ipotesi, giammai
trasformabile in verità positiva. Anzi polemizza contro la corrente "materialista"
dell'illuminismo, rappresentata come vedremo da Helvetius, Lamettrie e D'Holbach,
accusandola di essere dommatica e di aver trasformato le ipotesi in dottrine credute vere
senza alcuna prova.
Negli ultimi anni della sua vita Diderot è sempre piú interessato a problematiche di tipo
morale. Nella discussione aperta in Francia in quegli anni da Rousseau tra stato di natura
e vita civile, prende prima posizione a favore di Rousseau esaltando lo stato
naturale come privo di tutte le cattiverie, il fanatismo, le superstizioni e le paure che
rendono l'uomo ostile e timoroso nei confronti dei suoi simili, ma poi si distacca da questa
posizione ritenendo che, nonostante tutti i suoi difetti lo stato civile assicura agli uomini
una vita piú lunga perché meno faticosa e quindi piú felice.
Interviene anche nel dibattito sull'estetica nella definizione dei bello. Nell'articolo
dell'Enciclopedia sul "bello" propende per una estetica intellettualistica ed indica
nell'armonia e nella proporzione tra le parti il canone per distinguere il bello dal brutto.
L'altro redattore dell'Enciclopedia, per la quale stese il Discorso preliminare, oltre a singole
voci, fu Jean Le Rond D'Alembert (1717-1783). Dopo gli studi giuridici si dedicò allo studio
e all'approfondimento della scienza newtoniana e per oltre un decennio pubblicò studi
esclusivamente di tipo matematico e fisico tra i quali il Trattato di dinamica (1743) ed il
Saggio di una nuova teoria della resistenza dei fluidi (1752). Il suo incontro con la filosofia
data dall'inizio della collaborazione all'Enciclopedia. Ma anche come "filosofo" conserva il
suo spirito scientista. La filosofia viene, infatti, intesa come l'insieme delle scienze
positive, e la metafisica, rifiutata come "scienza" a se stante aspirante a spiegare presunte
realtà indipendenti dai fenomeni dell'esperienza, viene considerata come l'insieme dei
principi generali da cui prendono le mosse le singole scienze. Queste idee, espresse nel
Discorso preliminare, vengono poi riprese e sviluppate anche dopo il suo ritiro dalla
redazione dell'Enciclopedia. Questo ritiro, infatti, non segnò l'abbandono della battaglia
per il rinnovamento dei costumi e del modo di pensare. La sua fiducia nella filosofia
apportatrice di civiltà e di progresso rimane intatta. Negli Elementi di filosofia esalta il
secolo XVIII come "il secolo della filosofia":
L'invenzione e l'uso di un nuovo metodo di filosofare, l'entusiasmo
che accompagna le scoperte, un certo innalzamento di idee che produce in
noi lo spettacolo dell'universo hanno dovuto suscitare negli spiriti un vivo
fermento; e questo, agendo per sua propria natura in tutte le direzioni, ha
investito con la violenza tutto ciò che gli si offriva, al pari di un fiume che
ha spezzato le proprie dighe.
(Elementi di filosofia, 1)
Questo entusiasmo ha prodotto un notevole progresso nelle scienze, ed ha favorito la
comprensione del mondo dell'uomo. Una delle piú importanti conquiste in quest'ultimo
campo è l'autonomia della morale da ogni forma di religione:
I doveri a cui tutti siamo tenuti nei confronti dei nostri simili appar-
tengono essenzialmente ed unicamente al dominio della ragione ? e per-
tanto, sono uniformi presso tutti i popoli. La conoscenza di questi doveri
costituisce ciò che si chiama morale e rappresenta uno degli oggetti piú
importanti a cui la ragione possa riferirsi ... Le società debbono, pertanto, la
loro nascita a motivi puramente umani: la religione non contribuisce in
alcuna maniera alla loro formazione.
(Elementi di filosofia, VII)
La rivendicazione dell'autonomia della morale dalla religione non spinge D'Alembert verso
l'ateismo, ma verso un moderato deismo. Dio non si rivela attraverso un sentimento
religioso immanente nella natura umana, ma soltanto attraverso le leggi eterne ed
immutabili della natura di cui è autore. Tutto il mondo dell'uomo, dalla morale ai rapporti
sociali e politici, alle costruzioni intellettuali ed artistiche, è completamente autonomo
dalla religione e totalmente indipendente da Dio.
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
La gnoseologia sensistica di Condillac
Tutti i filosofi dell'Illuminismo si sono rifatti, sul piano conoscitivo, alla gnoseologia
lockiana. Ma lo sforzo piú coerente e sistematico per sviluppare una teoria conoscitiva
sulla base dell'empirismo di Locke è sostenuto da Etienne Bonnot, abate di Condillac. Nato
a Grenoble nel 1714, fu avviato alla carriera ecclesiastica prendendo gli ordini nel 1740. La
sua prima opera, il Saggio sulla origine della conoscenza umana, è pubblicata nel 1746.
Tre anni dopo stampa il Trattato dei sistemi e nel 1754 la sua opera piú importante, il
Trattato delle sensazioni, a cui seguiva l'anno dopo il Trattato degli animali. Dal 1758 al
1767 fu precettore a Parma di Ferdinando di Borbone e da questa esperienza pedagogica
nacque il Corso di studi, pubblicato nel 1775, in cui sono delineati i principi ispiratori del
suo insegnamento. Ritornato a Parigi fu ammesso nel 1768 all'Accademia francese e
partecipò alle frequenti discussioni
sui problemi dell'economia. A queste discussioni fornì un contributo convinto con l'opera
Del Commercio e del governo considerati relativamente l'uno all'altro (1776). Negli ultimi
anni scrisse una Logica ispirata anch'essa ai presupposti della gneseologia sensistica.
Morí nel 1780.
Condillac, pur richiamandosi esplicitamente a Locke, ne corregge la dottrina in due punti
fondamentali. Contro la distinzione lockiana di sensazione e riflessione e la conseguente
indicazione di una duplice "fonte" delle idee, il filosofo francese individua nella sola
sensazione l'atto da cui traggono origine tutte le nostre idee:
sia perché la riflessione non è altro, nel suo principio, che la sensa-
zione medesima, sia perché essa non è tanto la fonte delle idee quanto il
canale per il quale queste scaturiscono dal sensi.
(Estratto ragionato del Trattato delle sensazioni)
Una "inesattezza" di tal genere ha contribuito a rendere assai oscuro il sistema lockiano.
Locke, infatti, si accontenta di riconoscere che l'anima percepisce, dubita, ragiona,
conosce e cosí via, senza però sentire la necessità di scoprire il principio e la genesi di tutti
questi atti intellettivi fino al punto che "sembra averli considerati come qualcosa di
innato".
Contro il pericolo di una interpretazione innatistica degli atti della mente, Condillac
distingue il corpo dall'anima, ma considera quest'ultima soltanto come una disponibilità ad
accogliere e a perfezionare gli atteggiamenti operativi derivati dalla trasformazione della
stessa sensazione per via di abitudine. Per mostrare quasi "sperimentalmente" come dalla
semplice sensazione derivano tutte le altre attività conoscitive, Condillac fa ricorso ad una
esperienza astratta, ad un modello artificiale, da seguire in ogni passaggio come se si
trattasse di un esperimento di laboratorio:
Per realizzare il nostro scopo abbiamo immaginato una statua inte-
riormente organizzata nel nostro stesso modo e animata da uno spirito
privo di qualsiasi specie di idee. Noi abbiamo supposto ancora che la sua
parte esterna, costituita di marmo, non le permettesse l'uso di alcun senso,
e ci siamo riservati la libertà di aprirli, a nostra scelta, alle diverse impres-
sioni di cui sono suscettibili.
(Trattato delle sensazioni, Disegno)
Immaginiamo di "aprire" il senso dell'odorato. L'anima della statua, che era priva di
qualsiasi idea e di qualsiasi capacità di desiderare o di giudicare, gradualmente
incomincerà ad avvertire il desiderio o il rifiuto di quella determinata sensazione, a
seconda che l'avverta come gradevole o come sgradevole. In tal modo l'anima
incomincerà ad espletare un'attività di natura psichica come il desiderare, il giudicare e
cosi via. Se al primo "odore" facciamo seguire altri odori, l'anima sarà portata a
paragonarli fra loro, a riflettere su di essi, a sperare di sentirne alcuni e a temere di
subirne altri e, gradualmente, contrarrà l'abitudine a questa attività psichica. In tal modo,
da una semplice sensazione si è sviluppata tutta una serie di operazioni dell'intelletto e
della volontà. Queste operazioni si sarebbero sviluppate anche se fossimo partiti da un
altro senso. Se, infatti, aggiungiamo all'odorato gli altri quattro sensi udito, vista, tatto,
gusto non facciamo altro che sviluppare ulteriormente quelle "facoltà" dell'anima che già
avevano prodotto il primo senso. Nella storia di questo sviluppo ha un'importanza
particolare il tatto. Grazie a questo senso la statua acquista il "sentimento" dell'azione
reciproca delle varie parti del suo corpo, ed in virtù di questo "sentimento fondamentale"
cessa di essere una semplice macchina per cominciare la vita animale. Finché si limita a
toccare se stessa la statua può considerarsi come l'unica realtà sensibile,
ma se essa tocca un corpo estraneo, l'io che si sente modificato nella
mano non si sente modificato nel corpo estraneo. Se la mano dice io non
riceve però la stessa risposta ... Quando varie sensazioni distinte e coesi-
stenti sono circoscritte, per mezzo del tatto, entro i confini in cui l'io
risponde a se stesso, essa prende coscienza del proprio corpo; quando,
invece, varie sensazioni distinte e coesistenti sono circoscritte, per mezzo
del tatto, entro i confini in cui l'io non risponde píú a se stesso, essa
acquista l'idea di un corpo differente dal proprio. Nel primo caso le sue
sensazioni continuano ad essere sue qualità; nel secondo diventano invece
le qualità di un oggetto differente.
(Trattato delle sensazioni, II, 4-5)
In tal modo, nonostante la precisazione che "la statua non avverte i corpi in se stessi ma
avverte soltanto le proprie sensazioni", Condillac crede nella esistenza di un mondo
oggettivo, esterno cioè alla nostra psiche. Di questo mondo, però, ci facciamo soltanto
un'idea soggettiva, impossibilitati come siamo a cogliere le "cose in se stesse".
Sulla sensazione non si fonda, però, soltanto l'intelletto e le sue "operazioni", come
prestare attenzione, comparare, giudicare, riflettere, ma anche la volontà e le sue relative
capacità, come desiderare, odiare, temere, sperare.
Tutte le attività psichiche sono, dunque, radicate nella sensazione. La stessa libertà di
volere non può essere il frutto di una decisione svincolata dalle sensazioni di piacere e di
dolore che la presenza di un determinato oggetto provoca in noi:
La libertà non consiste perciò in determinazioni indipendenti
dall'azione degli oggetti e da ogni influenza esercitata dalle conoscenze che
abbiamo acquisito. E' inevitabile che noi dipendiamo dagli oggetti per l'in-
quietudine che causa la loro privazione, poiché abbiamo dei bisogni; ed è
pure inevitabile che ci regoliamo in base alla nostra esperienza nella scelta
di ciò che può esserci utile, poiché essa soltanto può istruirci a questo pro-
posito.
(Dissertazione sulla libertà, 17)
La conoscenza intellettiva e la deliberazione volontaria sono possibili grazie alla capacità
che l'uomo ha di riflettere contemporaneamente su una grande quantità di idee, come su
una sola idea. Questa unificazione di molte idee in una sola è possibile con l'aiuto dei
segni. Soltanto con l'aiuto dei segni, cioè di parole, o di altri simboli capaci di raggruppare
insieme piú idee semplici, gli uomini possono comunicare fra di loro, possono pensare e
conoscere. Bisogna però fare attenzione a che il "linguaggio perfetto" dell'uso dei segni sia
adeguato alla realtà da rappresentare: un "linguaggio perfetto" consente, infatti, un
"ragionamento perfetto". Ma la perfezione del linguaggio deriva, a sua volta, dal corretto
uso del metodo analitico. Attraverso la "scomposizione" e la "ricomposizione" degli
elementi semplici che compongono un fatto di esperienza, attraverso cioè i due momenti
del metodo analitico, possiamo procedere alla "astrazione" ed alla "generalizzazione" da
cui nascono i segni (parole e simboli) con i quali "diventiamo capaci di creare le arti e le
scienze".
Il sensismo radicale non impedisce a Condillac di ritenere la sua posizione perfettamente
conciliabile con la fede nell'esistenza di Dio e nell'immortalità dell'anima, anche se questa
fede non garantisce, da sola, alcun momento del processo conoscitivo ed alcuna scelta
morale.
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
La concezione materialistica della realtà
Il sensismo radicale ed un continuo riferimento al "mondo esterno" non avevano spinto
Condillac fino alla teorizzazione di una concezione materialistica della realtà, anzi lo
inclinano verso uno moderato spiritualismo. Il materialismo che, in modo palese o
adombrato, circolava in alcuni manoscritti clandestini dei primi anni del Settecento trova
uno sviluppo adeguato soltanto nell'opera di Lamettrie, di Helvétius e di D'Holbach.
Julien Offroy de Lamettrie nacque a Saint Malo nel 1709; dopo la prima formazione
umanistica studiò medicina ed esercitò la professione medica. A Leyda seguí corsi di
specializzazione che gli fecero conoscere le piú recenti scoperte della biologia e della
fisiologia. Con traduzioni di opere mediche e con contributi personali favorì l'ingresso in
Francia di queste nuove dottrine. L'opera di rinnovamento della cultura scientifica gli costò
amarezze e persecuzioni. In occasione della pubblicazione della Storia naturale dell'anima
(1745) fu costretto a rifugiarsi a Leyda, ma anche da qui dovette allontanarsi dopo la
pubblicazione de L'uomo macchina (1748) per trovare ospitalità presso Federico Il di
Prussia che in quegli anni si atteggiava a sovrano illuminato. Nella sua prima opera vuole
mostrare come tutte quelle attività che solitamente vengono definite "spirituali " e
vengono attribuite ad una sostanza pensante diversa dalla sostanza materiale, in definitiva
non sono che manifestazioni fisiologiche proprie della sostanza materiale. La materia,
infatti, non coincide, come voleva Cartesio, con la sola estensione che aspetta di essere
mossa da qualcosa ad essa esterna, ma è una realtà che, oltre all'attributo dell'estensione,
possiede quelli del movimento e della sensibilità. La materia ha essa stessa la vita, e la
manifesta in forme diverse a seconda della sua organizzazione nei corpi particolari. Da
scienziato Lamettrie aveva proceduto a serie indagini anatomiche sul cervello che gli
consentivano di concludere:
Nel cervello non vedo che materia, e nella sua parte sensitiva non
trovò che estensione: il suo interno - vivo, sano, ben organizzato - con-
tiene all'origine dei nervi un principio attivo diffuso nella sostanza midol-
lare. Questo principio, il quale sente e pensa, si affatica, si addormenta e si
spegne insieme al corpo.
(Storia naturale dell'anima, X, 9)
Inoltre, lo studio del rapporto tra gli stati fisiologici del corpo e i fenomeni psicologici della
mente mostrava chiaramente che i primi spiegavano in modo coerente e preciso i secondi
e che, quindi, non c'era alcun motivo plausibile per far ricorso a qualche altra sostanza per
spiegare e giustificare la vita spirituale:
Se tutto si spiega in base a ciò che l'anatomia e la fisiologia mi rive-
lano nel midollo, quale bisogno posso mai avere di formarmi un essere
ideale? Se identifico l'anima con gli organi corporei, ciò avviene perché
tutti i fenomeni mi costringono a pensare in questo senso.
(ivi)
Proclamata la identità di anima e corpo, il termine anima può essere conservato solo a
patto che con esso non si indichi una sostanza immateriale dotata di facoltà psichiche, ma
la parte di materia che in noi pensa:
L'anima non è dunque altro che un vano termine del quale non si ha
alcuna idea e di cui un buon intelletto non deve servirsi se non per nomi-
nare quella parte che in noi pensa. Posto il minimo principio di movi-
mento, i corpi animati avranno tutto ciò che occorre loro per muoversi,
sentire, pensare, pentirsi, per comportarsi, insomma, nel fisico e nel morale
che ne dipende.
(L'uomo macchina, 16 a cura di G. Preti Milano 1973)
L'uomo non è altro che una macchina autosufficiente che "carica essa stessa le proprie
energie" e pertanto non va studiata come vogliono i cartesiani partendo da un principio a
priori, ma come vogliono gli scienziati e i medici:
L'uomo è una macchina cosí complessa, che è impossibile farsene a
prima vista un'idea chiara, e quindi definirla. Per questo tutte le ricerche
che i piú grandi filosofi hanno condotto a priori, vale a dire volendo ser-
virsi in qualche modo delle ali dello spirito, sono state vane. Perciò è solo
a posteriori, ossia cercando di svolgere l'anima per cosí dire attraverso gli
organi del corpo che si può, non dico scoprire in modo evidente la natura
stessa dell'uomo, ma raggiungere il massimo grado di probabilità che sia
possibile su questo argomento.
(L'uomo macchina, 3)
E l'esperienza ci dice che l'uomo è una struttura meccanica cosí come gli animali e le
piante. E le differenze di sensibilità e di intelligenza tra il primo e i secondi dipendono
unicamente dalla diversa organizzazione della stessa materia. Un'organizzazione delle
parti materiali nel corpo umano rende quest'ultimo adatto ad acquisire alcune capacità,
come la struttura materiale dei corpi degli animali e delle piante li dispone ad acquisirne
altre:
Ed in effetti da che cosa provengono l'abilità, la scienza e la virtù, se
non da una disposizione che ci rende adatti a divenire abili, sapienti e vir-
tuosi? E, a sua volta, da dove ci viene tale disposizione se non dalla natura?
E' soltanto grazie alla natura che abbiamo qualità degne di stima: le dob-
biamo tutto quello che siamo.
(L'uomo macchina, 12)
Lamettrie confronta queste sue conclusioni con riferimenti ad esperienze mediche, a
precise constatazioni scientifiche, con continui richiami alla fisiologia e alla anatomia:
Concludiamo dunque coraggiosamente che l'uomo è una macchina,
e che in tutto l'universo c'è una sola sostanza diversamente modificata.
Questa non è una ipotesi costruita a forza di problemi e supposizioni: non
è l'opera del pregiudizio, né della mia sola ragione: avrei disdegnato una
guida che credo poco sicura, se i sensi, portando, per cosí dire, la fiaccola
non m'avessero, con l'illuminarla, costretto a seguirla. L'esperienza mi ha
dunque parlato a favore della ragione: e quindi io le ho congiunte insieme.
(L'uomo macchina, 18)
Sulla base di questo materialismo fisiologico Lamettrie costruisce un'etica naturalistica.
L'uomo, per la struttura materiale del proprio corpo, è portato a desiderare il piacere e a
fuggire il dolore cosí come tutti gli altri animali, anche se tende a godere di piaceri piú
raffinati e sottili. Una simile tendenza all'edonismo non distrugge, però, un naturale istinto
alla convivenza con i propri simili e non minaccia, quindi, la vita associata.
Lo scopo dichiarato dell'opera di Claudio Adriano Helvétius è quello di ricondurre alla
sensibilità tutte le operazioni spirituali: ciò che noi chiamiamo attività intellettuale e
morale trova il suo fondamento nelle condizioni fisiologiche e, quindi, materiali del nostro
corpo. Helvètius nacque a Parigi nel 1715 da una famiglia di alta borghesia; giovanissimo
occupò una carica importante nella amministrazione finanziaria dello stato. La
pubblicazione del suo libro pìú importante, Dello Spirito, attirò su di lui e su tutto il
movimento illuministico una condanna decisa che sfociò in una violenta persecuzione
contro gli ambienti dei philosophes. Il libro fu condannato dal Parlamento di Parigi, dai
dotti dell'Università della Sorbona e dall'autorità ecclesiastica in quanto, come scrisse
l'arcivescovo di Parigi nella bolla di condanna,
contiene una dottrina abominevole, atta a rovesciare la legge naturale,
a distruggere i fondamenti della religione cristiana; adotta come principio
la dottrina detestabile del materialismo; distrugge la libertà dell'uomo;
annienta le nozioni fondamentali di virtù e giustizia; sostiene massime
totalmente opposte alla morale evangelica; sostituisce alla sana dottrina dei
costumi l'interesse, le passioni, il piacere; mira a turbare la pace degli Stati,
a rivoltare i sudditi contro l'autorità e contro la persona stessa del sovrano;
favorisce gli atei, i deisti, ogni specie di increduli, e rinnova quasi tutti i loro mostruosi
sistemi.
(cit. in Dello Spirito, a cura di A. Postigliola, Roma 1976, p. IX)
Due anni dopo la morte di Helvétius, avvenuta nel 1772, fu data alle stampe un'altra sua
opera, Dell'Uomo.
Per Helvètius tutte le operazioni dello spirito consistono nella capacità di percepire i diversi
rapporti esistenti tra i vari oggetti, e poiché questa capacità non è altro che la stessa
"sensibilità fisica", se ne deve concludere che ogni attività spirituale, compreso il
conoscere ed il giudicare, si riduce al sentire e si radica nella struttura fisica del corpo
umano: razionalità e sensibilità sono tutt'uno. La materia, di cui sono formati tutti i corpi
ha in se stessa la sensibilità e da questa sensibilità scaturiscono tutte le manifestazioni di
vitalità degli individui ed in modo particolare degli uomini:
La sensibilità fisica è per conseguenza il principio dei suoi bisogni,
delle sue passioni, della sua socievolezza, delle sue idee, delle sue azioni ...
Un uomo è una macchina che, messa in moto dalla sensibilità fisica, deve
fare tutto ciò che segue.
(Dell'uomo, II)
Le manifestazioni fondamentali della sensibilità umana sono la passione e l'interesse. Esse
costituiscono "l'amor di sé" che condiziona tutti gli atteggiamenti umani e che si manifesta
come ricerca del piacere ed avversione per il dolore. Su questo principio fondamentale
sono costruite tutte le morali, anche le piú ascetiche e le piú spiritualistiche. Bene e male,
in ogni sistema etico, stanno sempre al posto di utile e dannoso. Rispetto al singolo uomo
bene è nient'altro che l'affermazione dell'"amor di sé" e male il suo contrario, rispetto alla
comunità organizzata, bene sarà l'utile della società e male il suo contrario.
In ogni tempo e in ogni luogo, sia in materia di morale che in mate-
ria di spinto, l'interesse personale determina il giudizio dei privati, e l'inte-
resse generale determina il giudizio delle nazioni: in questo modo, da parte
della collettività come da parte dei privati, è l'amore o la riconoscenza ad
essere fonte di lode, ed è l'odio o la vendetta ad essere fonte di disprezzo.
(Dello Spirito, II, I)
Ora, poiché ogni uomo vuole esageratamente realizzare il proprio bene (leggi: il proprio
utile) nel rapporto sociale, ognuno cerca di utilizzare gli altri per i suoi fini egoistici. In tal
modo nelle società si è venuto a creare una disparità di condizioni per la quale pochi
uomini utilizzano la rimanente massa per realizzare il loro utile personale. In che modo è
possibile correggere questo stato di cose? Helvétius è convinto che non servono a nulla i
discorsi e le prediche inneggianti all'eguaglianza e alla fratellanza tra gli uomini; bisogna
intervenire, invece, sui meccanismi che determinano questa diseguaglianza per
correggerli, bisogna cioè ricondurre "l'amor di sé " entro limiti piú ristretti in modo da far
coincidere la virtù con il desiderio della "felicità generale", con "il bene pubblico".
Poiché alla formazione di un individuo concorrono due fattori, uno naturale e costante,
rappresentato dalla materia sensibile uguale in tutti gli uomini, l'altro sociale e variabile,
identificabile nelle condizioni ambientali, sociali, economiche e culturali in cui gli individui
vivono; per indirizzare tutti gli uomini alla virtù bisognerà intervenire su queste condizioni
socio-politiche. Ma per procedere alla modificazione di tali condizioni bisognerà
preventivamente modificare le istituzioni e le leggi degli stati che con la forza hanno
determinato e conservato quelle condizioni.
In tal modo Helvétius nega che la personalità degli individui derivi dall'ereditarietà
naturale ed indica coraggiosamente nelle riforme delle leggi e delle istituzioni la via per la
realizzazione della collaborazione sociale in vista non dell'utile di pochi, ma di tutta la
società. Ma nonostante le sue opere scandalizzassero i rappresentanti dell'ancien règime,
Helvétius con la sua utopia della "legislazione perfetta" non infrange il principio
fondamentale della società borghese: il diritto alla proprietà privata.
La proprietà è il dio morale degli imperi, essa mantiene la pace dome-
stica, vi fa regnare la giustizia; gli uomini non si sono riuniti che per assicu-
rarsi delle loro proprietà; la giustizia, che racchiude in sé sola quasi tutte le
virtù, consiste nel rendere a ciascuno ciò che gli appartiene, si riduce
quindi alla conservazione di questo diritto di proprietà.
(Dell'uomo, VIII, I)
A determinare la condanna dell'opera furono soprattutto gli attacchi portati al dispotismo,
al fanatismo, all'intolleranza religiosa e particolarmente, la critica al colonialismo armato
espressa proprio mentre la Francia perdeva le sue colonie a vantaggio dell'Inghilterra
"liberale e tollerante".
Una teorizzazione ancora piú rigorosa e sistematica del materialismo come concezione
generale dei mondo fu fornita da Paolo Enrico Dietrich D'Holbach. Nato nel 1723, studiò
presso l'Università di Leyda geologia, chimica e mineralogia. A Parigi dove si era trasferito,
strinse amicizia con Diderot e con tutto il gruppo di illuministi che gravitava intorno
all'Enciclopedia. Nel 1761 si lanciò in una campagna antireligiosa, traducendo una serie di
scritti dei deisti inglesi e utilizzando molte tematiche della letteratura clandestina francese.
Nel 1770 pubblicò la sua opera piú importante, il Sistema della natura, alla cui stesura
avevano collaborato anche Diderot ed il matematico Lagrange; nel 1773 diede alle stampe
il Sistema sociale e la Politica naturale.
Tutta la realtà per l'Holbach è riducibile alla natura. Questa infatti
è l'insieme di tutti gli esseri e di tutti i movimenti a noi noti, e di
moltissimi altri che non possiamo conoscere in quanto sono inaccessibili ai
nostri sensi. Dall'azione e dalla reazione continua di tutti gli esseri che la
natura comprende risulta una successione di cause e di effetti, cioè di
movimenti governati da leggi costanti e invariabili proprie di ogni essere,
necessarie o inerenti alla sua natura, le quali fanno sí che esso agisca o si
muova in una maniera determinata. (Sistema di natura, Il, 2)
Tutti i fenomeni naturali sono collegati tra loro da una ferrea legge di necessità. Ognuno di
essi occupa nella serie degli esseri un posto determinato e non può agire diversamente da
come agisce.
Lo stesso uomo, essendo anch'egli un prodotto della natura, è sottoposto a queste rigide
leggi naturali; non può in nessun caso sottrarsi ad esse, neppure con il pensiero.
Il compito dell'uomo, "essere puramente fisico", non è quello di cercare, al di fuori del
mondo che abita, altri esseri capaci di procurargli una felicità che gli viene rifiutata dalla
natura, ma quello di studiare questa natura, per contemplare la sua energia e la
immutabilità delle sue leggi, per poi utilizzare tutte queste conoscenze per la propria
felicità. La natura stessa ci costringe incessantemente ad agire e a pensare in vista della
nostra felicità:
Le nostre istituzioni, le nostre riflessioni, le nostre conoscenze hanno
per scopo il raggiungimento di una felicità verso cui la nostra natura ci
costringe a tendere incessantemente. Tutto quanto facciamo o pensiamo,
tutto ciò che siamo e saremo, è una conseguenza della maniera in cui la
natura universale ci ha formato; le nostre idee, le nostre volontà, le nostre
azioni sono effetti necessari dell'essenza e delle qualità a noi assegnate
dalla natura, e delle circostanze per cui essa ci obbliga a passare, risultando
modificati da esse. (Sistema di natura, 1, 1)
La felicità cui per natura gli uomini tendono "non è altro che il piacere continuato". In vista
del fine di conservare questa felicità e di goderne, l'uomo vive in comunità con altri uomini
che nutrono i suoi stessi desideri e le sue stesse avversioni:
Se ogni uomo tende alla felicità, ogni società si propone lo stesso
fine: l'uomo vive in società per essere felice. Perciò la società è un insieme
di uomini riuniti dai loro bisogni per lavorare di comune accordo alla pro-
pria conservazione e alla propria felicità.
(Sistema sociale, Il, 1)
Il sovrano, il cui compito è limitato all'esecuzione della volontà dei cittadini, deve, per
legittimare il suo potere, garantire a tutti i membri della società "giustizia, protezione e
leggi capaci di proteggere le persone, la libertà e i beni". Quando però il sovrano infrange i
confini del suo potere ed emana leggi contrarie alla volontà e agli interessi dei cittadini,
questi ultimi hanno il diritto di rifiutarle, di revocare i poteri del sovrano e di opporsi alla
prevaricazione, anche facendo uso della forza. Da queste premesse scaturisce la violenta
polemica contro l'assolutismo e contro la religione, considerata sua naturale alleata.
CULTURA, FILOSOFIA E POLITICA NELL'"ETA DEI LUMI"
Il rapporto ragione-civiltà
La forte polemica condotta da tutti gli ambienti illuministici contro le ormai decrepite
istituzioni dello stato francese presupponeva una nuova concezione della storia, sganciata
definitivamente da ogni presupposto teologico. Voltaire nella sua opera storica piú
importante, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1754), aveva già tracciato le
linee fondamentali di questa nuova visione del processo storico, quando aveva individuato
nel progressivo potenziamento della ragione umana la condizione basilare per far
progredire l'umanità. Una capillare diffusione della cultura, determinando un generale
accrescimento dei poteri della ragione, non solo avrebbe contribuito fortemente allo
sviluppo della civiltà, ma avrebbe anche concorso a preservare l'umanità da eventuali,
sempre possibili, ritorni al passato cosí come si era verificato nel Medioevo.
La concezione volteriana venne ripresa e sviluppata fino a rappresentare un patrimonio
comune della cultura illuministica.
Ma prima di Voltaire, questa concezione della storia era stata formulata dall'economista
Roberto Turgot (1727-1782). Nel Quadro filosofico dei progressi successivi dello spirito
umano (1750), Turgot offre un'immagine dinamica ed articolata degli avvenimenti storici:
La ragione, le passioni, la libertà producono senza sosta nuovi avveni-
menti. Tutte le epoche sono incatenate le une alle altre da una successione
di cause e di effetti che congiungono lo stato presente del mondo a tutti
gli altri che l'hanno, preceduto;... ed il genere umano, considerato dalla sua
origine, appare agli occhi di un filosofo un tutto immenso che ha esso
stesso, al pari di ogni individuo, la sua infanzia e i suoi progressi.
(Quadro filosofico, I)
Questo progresso però, benché necessario, è interrotto da "decadenze" frequenti, perciò si
realizza in maniera difforme presso i vari popoli. Ma, nonostante il diverso grado di civiltà
dei popoli, tutti concorrono a realizzare la storia universale e la propria perfezione:
perfezione che Turgot individua nella pura realizzazione del passaggio dal dispotismo alla
libertà. A quest'ultima, infatti, il segno distintivo della civiltà. Ma perché si possa realizzare
la libertà politica, c'è bisogno di realizzare quella economica. Turgot in tal modo riafferma
l'idea della scuola fisiocratica, che vedeva nel libero gioco delle forze economiche e
nell'incremento, della ricchezza prodotta dall'agricoltura la condizione fondamentale dello
sviluppo della società.
La concezione della storia come continua evoluzione, come passaggio graduale dalla
barbarie alla civiltà, trova nell'opera di Jean Caritat, marchese di Condorcet (1743-1794),
l'espressione piú compiuta. Entusiasta ammiratore della Rivoluzione americana, Condorcet
non condivide la speranza nutrita dai primi illuministi in un intervento riformatore
proveniente dall'alto, dagli stessi sovrani illuminati. Egli è convinto sostenitore che il
rinnovamento politico dei popoli derivi dal continuo perfezionamento delle capacità della
mente umana. Nel Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, scrive:
Al perfezionamento delle facoltà umane non è stato posto alcun ter-
mine e la perfettibilità dell'uomo è realmente indefinita: i progressi di
questa perfettibilità , ormai svincolati da ogni potere che volesse arrestarli,
non hanno altro termine che la durata del pianeta su cui la natura ci ha
collocati. (Saggio di un quadro storico, introd.)
La diffusione dei nuovi principi filosofici, l'ideale della libertà, la consapevolezza dei veri
diritti e dei reali interessi degli uomini sono cosí ampiamente diffusi nel mondo da
garantire contro eventuali ritorni ad un passato incivile; questa garanzia deve spingere la
lotta, piú avanti e deve sollecitare a nutrire nuove speranze di eguaglianza fra i popoli e,
all'interno di ogni nazione, fra i cittadini.
Le nostre speranze sullo stato futuro del genere umano possono venir
riassunte in tre punti importanti: la distruzione della diseguaglianza tra le
nazioni, i progressi della eguaglianza all'interno di uno stesso popolo, ed
infine il perfezionamento reale dell'uomo.
(Saggio di un quadro storico, X)
Con questi ideali Condorcet, allo scoppio della rivoluzione in Francia, partecipò
attivamente alle vicende politiche ed occupò cariche importanti in seno all'Assemblea
legislativa. La sua fede nel progresso continuo ed inarrestabile della civiltà e della ragione
umana è sorretta dal clima di fiducia che circonda la rivoluzione in atto. Egli, come molti
altri rivoluzionari, è fermamente convinto che con gli eventi di quegli anni si chiude
definitivamente un'epoca storica e se ne apre un'altra, ricca di nuove prospettive di felicità
per tutta l'umanità.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
Una vita movimentata
La cultura illuministica francese, fin dalla pubblicazione delle Lettere filosofiche (1734) di
Voltaire, si era ispirata ai sistemi filosofici di Locke e Newton. Soprattutto dai due filosofi
inglesi aveva accolto il concetto di ragione finita, di una ragione, cioè, che, lungi dal
nutrire l'ambizione di risolvere i grandi problemi metafisici, aiutasse a risolvere problemi
particolari di ordine scientifico, ma soprattutto di ordine politico e morale. Nel privilegiare
questo tipo di "razionalismo" gli illuministi francesi avevano trascurato quasi
completamente l'altra componente della cultura illuministica inglese, più incline a
considerare positivamente nei processi conoscitivi i sentimenti e gli istinti dell'uomo. Tutta
la problematica filosofica dei "moralisti" inglesi come Shaftesbury, Hutchinson e più tardi
Hume, rimane fuori dal quadro mentale della cultura francese ufficialmente etichettata
come illuminista. Un posto particolare nell'ambito di questa cultura occupa Jean Jacques
Rousseau. In contrasto con la tendenza generale degli illuministi, Rousseau indirizza le sue
simpatie proprio verso quel filone della cultura inglese che maggiormente aveva esaltato il
sentimento, l'istinto naturale, la spontaneità. Questo spostamento di interesse dalla
ragione all'istinto spesso ha fatto considerare Rousseau estraneo alla cultura illuministica
ed anticipatore di una nuova sensibilità che la critica definirà poi romantica. Ma l'insistenza
sulla contrapposizione istinto - ragione non sempre ha consentito di valutare
adeguatamente che in fondo il "razionalismo" illuministico ed il "naturalismo" russoiano
perseguono gli stessi obiettivi e sono aspetti particolati dello stesso movimento di
polemica contro i pregiudizi della tradizione, contro la morale comune e soprattutto contro
l'organizzazione politica della società francese dell'epoca.
Nato a Ginevra nel 1712 da una famiglia di modesti artigiani, Rousseau ereditò dal padre,
orologiaio, la passione per lo studio.
Giovanissimo fu avviato al mestiere di incisore, ma ben presto decise di abbandonare
Ginevra non sopportando, fra l'altro, il clima di rigorismo morale instaurato dal calvinismo.
Attraverso il curato di Confignon conobbe Madame de Warens, una donna svizzera
convertita al cristianesimo dopo una vita abbastanza movimentata, che svolgeva
proselitismo religioso e qualche piccola attività spionistica per conto dei re di Sardegna.
Rousseau nel 1728 fu condotto a Torino, dove si convertì al cattolicesimo e trovò una
discreta sistemazione. Ma il suo spirito inquieto non resse al peso di una vita troppo
metodica e per lui insignificante.
Lasciato il posto di domestico che occupava presso la contessa di Vercelli, ritorna presso
Madame di Warens, ma dopo alcuni mesi inizia una serie di viaggi che lo portano dalla
Svizzera in Francia ed in Germania, dove esercita ogni sorta di mestiere tra cui quello di
maestro di musica e di attore. Ma, stanco anche di questa vita, ritorna ancora una volta
presso Madame de Warens di cui era diventato anche l'amante. Alle Charmettes, presso
Chambery, trascorre finalmente un periodo di tranquillità. Si dedica allo studio, leggendo
accanitamente Platone, Locke, Cartesio, Malebranche, Leibniz ed altri filosofi. Nel 1739 i
rapporti con la sua amante e protettrice si raffreddano. Si trasferisce a Lione come
precettore in casa di un magistrato. Ma l'esperimento pedagogico, portato avanti con
grande entusiasmo, alla fine fallisce per il carattere intemperante del filosofo. Si reca a
Parigi dove vive facendo il copista di musica. Un suo progetto di riforma del sistema della
scrittura musicale, oltre a dargli una certa notorietà, gli procura anche un posto di
Segretario presso l'ambasciata francese a Venezia. Ma non resiste neppure in quella città.
Dopo un periodo di tranquilla operosità rompe bruscamente con l'ambasciatore e torna a
Parigi, dove conosce Diderot, che lo introduce negli ambienti illuministici e lo invita a
collaborare all'Enciclopedia affidandogli l'incarico di redigere articoli di carattere musicale.
Nel frattempo si è legato sentimentalmente ad una popolana povera ed ignorante, Teresa
Lavasseurs, dalla quale avrà cinque figli, tutti regolarmente abbandonati all'orfanotrofio.
Nell'estate del 1749, mentre va a trovare Diderot che è stato incarcerato, legge sul
giornale l'annuncio che l'Accademia di Digione ha bandito un concorso dal tema "Se il
progresso delle scienze e delle arti abbia contribuito a migliorare i costumi". Partecipa al
concorso con il Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) e vince il primo premio.
In occasione di un nuovo concorso bandito dalla stessa Accademia compone il Discorso
sull'origine e i fondamenti dell'ineguaglianza fra gli uomini (1754). Un po' per le critiche
sostenute nel primo Discorso al progresso scientifico ed alle arti, un po' per il suo
carattere difficile, Rousseau rompe clamorosamente con gli illuministi che da allora in poi
lo considerano un "traditore".
Dal 1758 al 1762 è ospite del Maresciallo di Lussemburgo nel castello di Montmorency,
dove stende le sue opere principali, la Nuova Eloisa, il Contratto sociale, l'Emilio. In tutte e
tre le opere Rousseau polemizzava contro la tradizione, così fortemente radicata nella
mentalità della Francia ufficiale. Ma a destare più scalpore fu il romanzo pedagogico,
l'Emilio. Il Parlamento francese condannò l'opera ed ordinò l'arresto dell'autore; le autorità
ecclesiastiche, dopo aver condannato anch'esse l'opera, presentarono Rousseau come una
sorta di anticristo. Solo l'amicizia con il Maresciallo di Lussemburgo lo salva dalla prigione.
Fugge in Svizzera, ma anche le autorità di Ginevra e di Berna condannano l'Emilio ad
essere bruciato pubblicamente. Il terrore che nel frattempo si è impadronito di Rousseau
scuote in maniera irreparabile il suo già fragile sistema nervoso. Da allora soffrirà sempre
di mania di persecuzione. In un momento così difficile trova ospitalità a Mótiers, protetto
da Federico II di Prussia. Ma ben presto la popolazione, aizzata dai pastori calvinisti, si
scaglia contro di lui e lo costringe ad andar via. Ripara su un'isoletta sul lago di Bienne,
ma viene cacciato anche di lí. Si trasferisce, allora, in Inghilterra, ospite di David Hume,
dal quale, però, scappa via accusando in una lunga lettera il filosofo inglese di aver
tramato contro di lui. Ritorna in Francia e sotto falso nome passa di città in città. Si
stabilisce infine a Parigi, dove può godere di una certa tranquillità. Nel 1779, mentre è in
campagna dal marchese di Girardin, muore improvvisamente. Nel 1794 la Convenzione
Nazionale trasporta le sue ossa, insieme a quelle di Voltaire, al Pantheon di Parigi.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
Progresso scientifico e corruzione morale
La specificità del discorso russoiano nell'ambito della più vasta cultura illuministica emerge
in modo chiaro già nei due Discorsi presentati all'Accademia di Digione. In entrambi
Rousseau conduce una forte polemica contro l'ipocrisia caratterizzante i rapporti tra gli
uomini e contro il conformismo sociale che, snaturando la personalità dei singoli uomini, la
modella su schemi precostituiti. Al di là delle artificiose convenzioni morali, Rousseau
tenta di recuperare la semplicità e la spontaneità della natura umana. La polemica contro
la mortificazione e l'appiattimento delle naturali tendenze dei singoli individui è forte ed
esplicita. Nel Discorso sulle scienze e le arti scrive:
Oggi che ricerche più sottili ed un gusto più raffinato hanno ripor-
tato a principi ben definiti l'arte di compiacere, nei nostri costumi regna
una vile ed ingannevole uniformità, e tutti gli spiriti sembrano usciti dalla
stessa forma: la raffinatezza esige, e le buone maniere ordinano senza posa;
si seguono sempre le usanze e mai il proprio genio. Non si ha più il corag-
gio di apparire così come si è, ed in questo stato di perpetua costrizione gli
uomini che formano il gregge a cui viene dato il nome di società faranno
sempre, messi nelle medesime circostanze, le stesse cose, a meno che non
intervengano a distoglierli da ciò alcuni motivi più potenti.
(Discorso sulle scienze e le arti, I)
La causa della perdita della naturale varietà psicologica e comportamentale degli uomini
va individuata nel progresso delle scienze e delle arti; anzi il processo degenerativo si è
sviluppata parallelamente all'incremento delle conquiste scientifiche e artistiche. Il
decadimento morale degli uomini è iniziato con il loro processo di "incivilimento" e di
socializzazione. Le scienze stesse sono state prodotte dal peggiori sentimenti umani:
L'astronomia è nata dalla superstizione; l'eloquenza dall'ambizione,
dall'odio, dall'adulazione, dalla menzogna; la geometria dall'avarizia; la
fisica da una vana curiosità; tutte le scienze, ed anche la morale, traggono
origine dall'orgoglio umano.
(Discorso sulle scienze e le arti, II)
Esse continuano ad esistere e ad essere coltivate soltanto perché negli uomini i vizi hanno
il sopravvento sulle virtù. A che cosa servirebbero le arti, se gli uomini non amassero così
sfrenatamente il lusso? E a cosa la giurisprudenza se non esistessero le ingiustizie? E a
cosa si ridurrebbe la storia se non esistessero tiranni e cospiratori? Le scienze e le arti,
lungi dal migliorare la natura umana, alimentano e perpetuano i vizi da cui traggono la
loro origine. Esse, nate dall'ozio, a loro volta lo nutrono e rendono gli spiriti fiacchi.
Particolarmente dannosa per la formazione morale si rivela poi l'educazione che viene
impartita ai giovani. A questi infatti si insegna di tutto fuorché l'arte di rafforzare il proprio
"giudizio", di ottemperare al propri "doveri" e di coltivare virtù quali la magnanimità,
l'equità, la temperanza e l'umanità.
Rousseau, con queste analisi, chiaramente marciava nella direzione opposta a quella dei
suoi amici illuministi. Questi, infatti, erano convinti che la cultura rappresentasse il
progresso e la civilizzazione e che la più larga diffusione possibile di essa garantisse contro
ogni possibilità di ricaduta nella barbarie. Giudizi così contrastanti derivano da due visioni
opposte della natura umana. Mentre la maggior parte dei philosophes è convinta che la
vera natura dell'uomo sia la razionalità, Rousseau, dal canto suo, è convinto che la vera
natura dell'uomo sia rappresentata da sentimenti prerazionali che ci spingono
ad interessarci ardentemente al nostro benessere e alla conservazione
di noi stessi ... e (ad avere) una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire
qualsiasi essere sensibile, e principalmente i nostri simili.
(Discorso sull'origine della disuguaglianza; prefaz.)
Quando a questi elementi prelogici si sono aggiunti gradualmente, per cause varie,
"qualità nuove", non inerenti alla natura umana, allora è iniziato il processo di
diversificazione degli uomini fra di loro. Alcuni sono "progrediti" di più assorbendo più
elementi extranaturali, altri di meno mantenendosi più aderenti alla loro natura originaria.
Ma gli elementi naturali della nostra personalità e gli altri che Rousseau chiama "artificiali"
si sono, con il passare del tempo, talmente amalgamati tra loro che
non è certo una lieve impresa distinguere in tal modo ciò che c'è di
originario e ciò che c'è di artificiale nella natura attuale dell'uomo, e indivi-
duare in tal modo uno stato che non esiste più, che non è mai esistito, che pro-babilmente
non esisterà mai ? e di cui è tuttavia necessario possedere una
nozione esatta, per poter giudicare bene il nostro presente.
(ivi)
Il tentativo di recuperare la natura originaria dell'uomo non è operato, come risulta chiaro
dal testo russoiano, con l'intento di ricondurre l'uomo ad una mitica felicità presocietaria,
non è un tentativo indirizzato ad un assurdo antistorico ritorno all'indietro, ma è il
tentativo di possedere in modo esatto la nozione di natura umana per usarla come
"norma", come "criterio" di valutazione del presente. Il miglioramento delle condizioni
sociali e politiche dell'umanità può realizzarsi, infatti, soltanto se possediamo una regola di
condotta ideale come parametro di riferimento. Il mito dell'uomo naturale, del "buon
selvaggio" che vive felice in armonia con i suoi simili e con la natura stessa, si rivela,
dunque, un criterio utile per capire i procedimenti attraverso cui l'umanità gradualmente è
stata costretta a rinunciare alla sua spontaneità e a lasciarsi modellare artificialmente
dalle convenzioni sociali e dai ritrovati delle arti e delle tecniche. Solo dopo che questi
procedimenti sono stati capiti, si potrà sperare di intervenire per cercare di cambiare il
presente correggendolo alla luce dell'ideale, originaria natura umana. La causa principale
dei mali che hanno accompagnato in maniera sempre crescente l'uomo nella storia va
individuata nella diseguaglianza sociale generata dalla legittimazione del principio di
proprietà. E' questa legittimazione di un sopruso il vero peccato originale commesso
dall'umanità. Da questo atto derivarono, poi tutti i mali che hanno gradualmente snaturato
l'umanità fino a renderla ormai un organismo artificiale agente dietro sollecitazioni e spinte
estranee:
La prima persona che, avendo cinto un terreno, ha proclamato questo
è mio, ed ha trovato altri così ingenui da credergli, è stato il vero fondatore
della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassini, quante
miserie, quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano qualcuno che,
strappando i pali o colmando il fosso, avesse gridato ai suoi simili: guarda-
tevi dall'ascoltare questo impostore! se dimenticherete che i prodotti sono
di tutti, e che la terra è di nessuno, voi sarete perduti.
(Discorso sull'origine della disuguaglianza, II)
Il riconoscimento della proprietà ha automaticamente cancellato l''uguaglianza fra gli
uomini; da quel momento in poi sono esistiti i ricchi e i poveri; il lavoro è diventato
obbligatorio per questi ultimi e
le vaste foreste si sono mutate in campagne ridenti che furono
bagnate dal sudore degli uomini ed in cui si videro ben presto la schiavitù
e la miseria germogliare e crescere con le messi.
(ivi)
A sua volta la divisione delle terre fece nascere il diritto: i proprietari pretesero delle leggi
che difendessero e salvaguardassero il loro possesso. L'umanità, allora, si divise
ulteriormente in potenti, dalla cui parte era schierata la legge, e in deboli, sui quali questa
legge gravava. Con la nascita del principio giuridico che fissava per sempre la legge della
proprietà e della disuguaglianza, era ormai completamente distrutta ogni possibilità di
ritorno alla libertà naturale.
Trasformando un'abile usurpazione in un diritto irrevocabile, sotto-
mettendo ormai tutto il genere umano, per il profitto di qualche ambi-
zioso, al lavoro, alla servitù e alla miseria,
(ivi)
si era distrutta la naturale socialità degli uomini e si era data vita alla " società civile ".
Quando poi il potere non si sentì vincolato neppure dalle leggi e cominciò ad agire in modo
arbitrario, allora la disuguaglianza produsse "l'antitesi tra padrone e schiavo" che
costituisce il grado estremo della disuguaglianza.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
L'ordine naturale, la spontaneità e l'amore
Nei due Discorsi Rousseau ha operato una vera e propria requisitoria contro la società e
contro i "miti" del progresso e dell'incivilimento continuo; ha mostrato la genesi di certi
mali sociali; ma soprattutto ha fornito la norma di giudizio, il criterio cui ispirarsi in un
eventuale tentativo di riforma e di correzione delle storture della società.
La sua opera di riformatore non si limita, però, a queste indicazioni. Rousseau non aspetta
che altri usi gli strumenti da lui indicati per elaborare progetti più precisi e completi. Egli
stesso, in prima persona, vuole mostrare come si possa correggere l'artificiosità e
l'innaturalità che ormai, nell'uomo, nella famiglia e nello stato, hanno sostituito la "vera
natura ". A tal fine scrive quasi contemporaneamente tre opere: l'Emilio, La Nuova Eloisa,
il Contratto sociale. Nella prima delinea una nuova forma di educazione capace di
fortificare, e non di cancellare, la spontaneità dell'educando. Nella seconda vuol mostrare
su quali sentimenti naturali debba nascere la famiglia. Nella terza vuole chiarire in che
modo è possibile un " ritorno alla natura " sul piano politico e sociale.
L'Emilio è un romanzo pedagogico in cui si descrivono le varie tappe dell'educazione di un
allievo, Emilio appunto, dall'infanzia fino all'adolescenza. Convinto assertore degli effetti
diseducativi della società, Rousseau localizza in una villa in campagna il luogo in cui Emilio
deve essere educato. La società cittadina, infatti, con le sue convinzioni ormai consolidate,
distrugge ogni spontaneità nel giovane educando costringendolo ad assimilare precetti e
norme "artificiali" attraverso esercizi mnemonici e l'imitazione degli altri. Il precettore di
Emilio deve fare in modo, invece, che il ragazzo abbia l'impressione di trovare da sé
quanto apprende e di provare il gusto di apprenderlo per un fine pratico immediato e non
per compiacere a qualcuno. Più che il libro o il maestro, l'educatore deve essere l'ambiente
naturale circostante: Emilio, vivendo, incontra degli ostacoli e deve, con la discreta guida
dei precettore, imparare a risolverli per levarsi da un impaccio o per ovviare ad un
inconveniente.
Convinto assertore del principio secondo cui la spiritualità infantile si nutre più di immagini
che non di idee e si fonda più sul sensi che non sulla ragione, Rousseau ritiene utile
iniziare il processo educativo dall'educazione dei sensi:
Poiché tutto ciò che penetra nello intendimento umano vi penetra
per mezzo dei sensi, la prima ragione dell'uomo è una ragione sensitiva; ed
è quella che serve di base ad una ragione intellettiva; i nostri primi maestri
di filosofia sono le nostre mani, i nostri piedi e i nostri occhi. Sostituire i
libri a tutto questo non significa insegnarci a ragionare, ma solo abituarci a
ragionare con la testa degli altri: è solo insegnarci a credere molto e a non
sapere nulla.
(Emilio, II)
Arrivato all'adolescenza forte nel fisico per la vita all'aria aperta e per la semplicità dei cibi,
Emilio è pronto a soddisfare le nuove curiosità che sono nel frattempo sorte nella sua
mente. Anche in questa nuova situazione il maestro deve svolgere un ruolo " negativo ",
deve cioè mettere l'allievo in condizione di far da sé creando l'ambiente adatto, ma non
deve fornire egli le soluzioni ai problemi:
Mettete i problemi alla sua portata e lasciate che egli li risolva; che
egli non sappia nulla perché glielo avete detto voi, ma perché l'ha com-
preso egli stesso; che egli non apprenda la scienza ma la inventi. Se mai
voi sostituite nel suo spirito l'autorità alla ragione, egli non ragionerà più;
sarà soltanto il trastullo dell'opinione altrui.
(Emilio, III)
Tutta la prassi educativa descritta nell'Emilio punta alla libera esplicazione della natura di
quel fanciullo, eliminando completamente convenzioni sociali, norme e precetti derivanti
dalla morale e dall'ipocrisia della civiltà.
Solo dopo l'adolescenza, Emilio può affrontare il problema religioso, non prima. La fede in
Dio e nell'immortalità dell'anima, infatti, non sono percepibili né emotivamente, né
sensorialmente; non sono avvertibili, cioè, da nessuna delle capacità più sviluppate nei
ragazzi. Ma non si apprendono neppure dai ragionamenti dei filosofi. Nella Professione di
fede del Vicario Savoiardo inserita nella IV parte dell'Emilio, Rousseau esplicitamente
afferma di essersi riferito a Cartesio per la comprensione delle verità religiose. Decide,
infatti, di accettare per vero solo quanto gli venga confermato dal "lume interiore" e "dalla
sincerità del cuore".
Le prime verità conquistate con tale metodo sono la mia esistenza quale soggetto
senziente ed il mondo esterno che agisce sui miei sensi. Ma subito dopo mi accorgo di
poter agire, a mia volta, sui corpi esterni, mi accorgo cioè di essere intelligente ed attivo.
Tutto ciò mi attesta che nell'uomo e nelle cose c'è il movimento, le cui cause non vanno
cercate nella materia inerte.
Da questa costatazione si possono ricavare i due principi fondamentali della fede:
l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima.
Credo dunque che una volontà muove l'universo e anima la natura ...
Credo che il mondo è governato da una volontà possente e saggia ...
Questo essere che vede e che può tutto, questo essere attivo per se stesso,
questo essere infine, quale che sia, che muove l'universo e ordina tutte le
cose, lo chiamo Dio.
(Emilio, IV)
Con lo stesso procedimento Rousseau arriva, poi, alla conclusione che l'uomo, essendo
libero nelle sue azioni, non essendo cioè determinato meccanicisticamente, è animato da
una sostanza immateriale, l'anima, la cui vera vita comincia soltanto dopo la morte del
corpo.
La religiosità russoiana, con l'appello al "lume interiore", è lontana non solo dal teismo
razionalistico di Cartesio, ma anche dalle concezioni dei deisti inglesi. E' una religiosità
avvertita soltanto all'interno della coscienza dei singoli. Per questo Rousseau polemizza
contro le religioni positive, piene di dogmi e di riti, aspiranti a conquistare, magari anche
con la forza, schiere sempre più vaste di fedeli.
Nella Nuova Eloisa Rousseau, attraverso la storia di due giovani innamorati vittime dei
pregiudizi sociali e dell'orgoglio di casta, vuole ribadire la necessità di impostare i rapporti
tra gli uomini alla semplicità e alla spontaneità naturale. L'unione di due giovani non deve
dipendere dalla volontà dei parenti o dalla convenienza patrimoniale, ma solo ed
esclusivamente dai liberi sentimenti e dall'istinto naturale. I veri perturbatori dell'ordine
naturale sono quelli che, calpestando le volontà dei singoli, si appellano alla tradizione o
alla morale comune.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
Il contratto sociale e la volontà generale
L'esigenza di salvaguardare la spontaneità e l'autonomia dei singoli soggetti permea anche
il Contratto sociale, l'opera in cui Rousseau polemizza fortemente contro la struttura
politica dello stato autoritario. Gli uomini allo stato di natura, contrariamente a quanto
sostenuto da Hobbes, sono liberi e buoni, e se rinunciano a questa loro condizione e danno
vita ad un organismo politico qual è lo stato, non rinunciano automaticamente alla loro
libertà. Anzi la decisione di dar vita ad una società nasce quando gli uomini avvertono la
necessità che le forze di ognuno di loro nello stato di natura non sono piú sufficienti ad
abbattere tutti gli ostacoli che mettono in pericolo la loro sopravvivenza. Decidono allora
di stipulare tra loro un contratto sociale,
di trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta
la forza comune la persona e i beni di ogni associato, e per la quale cia-
scuno, unendosi a tutti li altri, non obbedisca che a se stesso e resti libero come prima.
(Contratto sociale, I, 6)
La nascita della società, come conseguenza del contratto sociale, deve salvaguardare e
potenziare l'autonomia e la libertà di ogni singolo. Lungi dall'essere l'esatto contrario dello
stato di natura, la società civile infatti sorge proprio per salvaguardare i diritti naturali
degli uomini. La clausola fondamentale di questo contratto non è la soggezione dei singoli
ad un'autorità, ma
l'alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la
comunità; poiché, in primo luogo, dandosi ognuno tutto intero, tale condi
zione è la stessa per tutti; e, essendo eguale per tutti, nessuno ha interesse
a renderla più grave agli altri.
(ivi)
In tal modo gli interessi dei singoli contraenti sono perfettamente identici a quelli del "
corpo morale e collettivo " prodotto dal patto di unione. Il singolo si riconosce
perfettamente in esso in quanto la sua costituzione non ha comportato per sé alcuna
perdita significativa. Nella nuova condizione di membro di una società egli, pur dovendo
rinunciare a qualche vantaggio ricevuto dalla natura,
ne guadagna altri ben grandi, le sue facoltà si acuiscono e si svilup-
pano, le sue idee si allargano, sentimenti si elevano, la sua anima s'innalza
al punto che, se gli abusi di questa nuova condizione non lo riportassero
spesso al di sotto di quella da cui è uscito, dovrebbe benedire sempre il
momento che ve lo ha strappato per sempre e che, da animale stupido e
deficiente, ne ha fatto un essere intelligente, un uomo.
(Contratto sociale, I, 8)
La nascita dello stato civile non segna allora una decadenza ed un impoverimento per
l'uomo, al contrario, segna un arricchimento ed un potenziamento dei suoi poteri, a patto,
però, che la società nel suo complesso agisca al fine di continuare a perfezionare lo stato
di natura.
Nella società prefigurata nel Contratto sociale la sovranità si identifica con la collettività; al
di sopra dell'assemblea degli individui che formano lo stato non c'è alcuna sovranità, alcun
potere. La sovranità, infatti, non è altro che l'esercizio della volontà generale. Questa
rappresenta la volontà del corpo sociale e tende sempre all'interesse generale e, pertanto,
non può cadere in errore. La volontà generale non coincide, però, ipso facto, con la
somma delle volontà dei singoli cittadini:
La volontà generale è sempre retta e tende sempre all'utilità pubblica;
non si può però dedurre che le deliberazioni del popolo abbiano sempre la
stessa rettitudine. Si vuole sempre il proprio bene ma non sempre lo si
vede; il popolo non si fa corrompere mai, ma spesso lo si inganna, e allora
soltanto pare che voglia ciò che è male. Spesso vi è molta differenza tra la
volontà di tutti e la volontà generale; quest'ultima mira solo all'interesse
comune; l'altra all'interesse privato, e non è che una somma dì volontà
particolari: ma togliete da queste stesse volontà il più e il meno che tra
loro si annullano e resta per la somma delle differenze la volontà generale.
(Contratto sociale, II, 3)
Il rapporto tra volontà generale e somma delle volontà particolari non è, come si vede, né
immediato né meccanico, ma dialettico. Dire che la volontà generale non coincide con la
somma delle singole volontà, non significa che essa è astratta e separata dal "corpo
morale e collettivo", o che è una sorta di volontà metafisica indipendente dalle volontà
degli uomini che costituiscono lo stato. Significa, invece, che essa è il frutto di una
mediazione dialettica tra le diverse, particolari, volontà singole.
La volontà generale, dunque, è l'espressione delle volontà particolari depurate da ogni
eccesso e da ogni residuo di interesse particolaristico. In quanto espressione della
sovranità, essa stabilisce tra tutti i cittadini una assoluta uguaglianza, li obbliga o li
favorisce ugualmente; non opera alcuna distinzione tra i vari membri della società. Questa
volontà generale si esprime attraverso leggi stabilite dall'assemblea popolare. Ma se
il potere legislativo appartiene al popolo e non può appartenere che ad esso,
l'esecuzione delle leggi deve essere affidata al governo, cioè ad
un corpo intermedio istituito fra i sudditi e il sovrano per la loro reci-
proca corrispondenza, incaricato della esecuzione delle leggi e del manteni-
mento della libertà sia civile che politica.
(Contratto sociale, III, 1)
Questo " corpo intermedio " non ha alcun potere decisionale, nessuna funzione
rappresentativa, esercita soltanto i poteri che il sovrano affida ad esso. I magistrati
componenti il governo, quali
depositari del potere esecutivo, non sono i padroni del popolo, ma i
suoi ufficiali; esso può nominarli e destituirli quando meglio gli piaccia;
essi non devono contrattare, ma obbedire; assumendo le funzioni che lo
stato impone loro, essi non fanno che adempiere al loro dovere di citta-
dini, senza avere in alcun modo il diritto di discuterne le condizioni.
(Contratto sociale, III, 18)
Se questi magistrati vogliono far passare la loro personale volontà come avente valore di
legge, il popolo non deve esitare a cambiarli, e, se necessario, a cambiare forma di
governo.
Rousseau, con il suggerimento della " democrazia diretta ", dava un forte, significativo
contributo alla critica che gli illuministi portavano alle istituzioni feudali ed oppressive della
Francia settecentesca e suggeriva un modo di governo in cui gli istinti naturali dell'uomo,
più che oppressi e mortificati, dovrebbero essere disciplinati e rafforzati dalla ragione.
Nella delineazione di questa società, Rousseau ha considerato lo stato di natura non
un'idilliaca e quasi paradisiaca condizione esistenziale cui bisogna ritornare, rifiutando
progresso e civiltà, bensì norma paradigmatica cui far riferimento per garantire all'uomo la
libertà e la completa realizzazione delle sue potenzialità. Il ritorno alla natura invocato da
Rousseau, suona allora come un invito a cancellare le ingiustizie ed i soprusi imperanti
nella società e a costituire un nuovo ordine sociale fondato sulla razionalità e sul n'spetto
dei principi dell'uguaglianza e della libertà.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
L'Illuminismo italiano
A partire dalla seconda metà del '600 la società italiana era rimasta sostanzialmente
estranea al processo di rinnovamento economico e culturale che si irradiava
dall'Inghilterra e toccava con diversa intensità alcuni paesi europei. La mancata
partecipazione a tale processo era anche espressione di una economia ancora
sostanzialmente legata a schemi feudali e di un assetto istituzionale degli stati fortemente
incentrato sulla classe nobiliare. Tale situazione impediva di fatto la nascita e lo sviluppo
di quella nuova classe sociale che in Inghilterra ed in Francia si era fatta banditrice delle
nuove idee di rinnovamento politico, morale e culturale. Anche se non era mancata
qualche voce isolata, come quella dei Vico a Napoli, la cultura italiana fino alla prima metà
del '700 non svolge alcun ruolo di rinnovamento; si limita ad imitare e ripetere le voci del
passato. Anche la semplice informazione sulle idee nuove provenienti dall'Europa si
realizza con enorme lentezza, fra mille difficoltà e in aree geografiche molto circoscritte.
Una svolta decisiva in situazione cosi stagnante si verifica soltanto dopo la scomparsa del
dominio spagnolo dalla penisola e con l'inserimento di nuove dinastie europee, più aperte
alle nuove idee illuministiche e più disposte ad una politica di riforma. Gli Asburgo in
Lombardia, i Borboni a Parma e a Napoli, i Lorena a Firenze, con la loro opera riformatrice
stabiliscono un nuovo rapporto tra l'Italia e l'Europa e contribuiscono a far uscire la cultura
italiana dalle secche della retorica e della mera imitazione in cui era precipitata. Non è un
caso, infatti, che circoli illuministi particolarmente attivi sorgono nelle due città in cui
l'opera riformatrice dei sovrani è più intensa e radicale: Napoli e Milano. Come pure è
stato sottolineato che la specificità dei temi approfonditi dagli illuministi italiani risente
fortemente dei programmi di riforma dei nuovi sovrani.
L'Illuminismo italiano, infatti, pur essendo fortemente influenzato da quello inglese e da
quello francese, è lontano dalla arditezza speculativa del primo e dal radicalismo politico
del secondo. Più che argomenti "filosofici" di carattere generale, l'illuminismo italiano ama
approfondire argomenti particolari, specifici, attinenti al problemi giuridici, economici e
politici. La sua polemica si appunta, più che contro una "mentalità generale" da
combattere, contro l'organizzazione economica particolarmente vessatoria (e tale da
impedire un reale sviluppo economico e commerciale ed il conseguente miglioramento
delle condizioni di vita delle persone) e contro una legislazione penale antiquata,
vessatoria, crudele, finalizzata esclusivamente alla sottomissione dei sudditi al potere e
non alla prevenzione dei crimini e alla salvaguardia della convivenza civile.
Tra i primi effetti di questa situazione nuova vanno segnalati il soggiorno di Condillac a
Parma dal 1758 al 1767 con la conseguente diffusione del suo pensiero tra una vasta
schiera di insegnanti e di allievi del famoso collegio Alberoni di Piacenza, le ristampe, a
Lucca e Livorno, dell'Enciclopedia, e la diffusione degli scritti di Voltaire, Montesquieu e
Rousseau. Particolarmente attivi nella battaglia di rinnovamento della cultura e della vita
economica e sociale sono appunto i circoli intellettuali di Napoli e Milano.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
L'Illuminismo napoletano
A Napoli l'opera riformatrice avviata da Carlo III e dal ministro Bernardo Tanucci aveva
dato in pochi anni apprezzabili risultati con l'abolizione del tribunale d'Inquisizione, il
restringimento dei privilegi ecclesiastici, la soppressione di vari ordini religiosi, tra cui
quello dei Gesuiti, e l'acquisizione dei loro beni al demanio statale, la limitazione delle
giurisdizioni feudali. In questo nuovo clima rifioriscono gli studi scientifici, rinasce
l'interesse per il diritto e la legislazione ed una rinnovata attenzione per i problemi di
natura economica si manifesta concretamente con la istituzione nel 1754 di una cattedra
universitaria di economia, la prima in Europa.
A ricoprire l'incarico di insegnamento della nuova cattedra fu chiamato l'abate Antonio
Genovesi (1713-1769), che nella stessa Università di Napoli aveva tenuto prima la
cattedra di metafisica e poi quella di morale. Il pensiero filosofico di Genovesi risente
fortemente delle idee illuministiche e particolarmente delle idee di Locke. Scrisse una
Logica, le Meditazioni filosofiche, gli Elementi di fisica sperimentale, Diceosina ossia della
filosofia del giusto e dell'onesto e le Lezioni di commercio ossia d'economia civile. In
quest'ultima opera sono raccolte le lezioni di economia politica con le quali il Genovesi si
proponeva di suggerire riforme immediatamente realizzabili e tali da sollevare le
condizioni economiche delle popolazioni meridionali. A tal fine consiglia un moderato
liberalismo nella politica agraria ed una forte incentivazione dei commerci e della industria
grazie ad una politica protezionistica. Un particolare contributo alla diffusione delle idee
illuministiche è fornito dalla Diceosina. In questa opera Genovesi si fa propugnatore
dell'uguaglianza naturale di tutti gli uomini:
L'uomo è sempre il medesimo in sostanza: ha sempre il medesimo
principio e il medesimo fine, e i medesimi rapporti e bisogni; dunque la
regola che il conduce a quel fine, regola nascente dalla sua essenza, ... è
sempre la medesima.
(Diceosina, I, 3, 16)
Questa "equalità naturale degli uomini" comporta un'uguaglianza di diritti e di doveri per
tutti senza alcuna eccezione. Tutti, infatti, con la loro adesione esplicita o tacita al patto
sociale originario su cui si regge la società, contribuiscono al benessere collettivo. Le
differenze che i sostenitori della disuguaglianza naturale fra gli uomini ostentano
continuamente non dipendono né dalla natura umana, né dal clima, ma solo dai "governi e
dalle scuole".
La vera gloria non consiste, allora, nella conquista di imperi sterminati e nella oppressione
dei popoli, ma nel rendere più felice la vita degli uomini, di tutti gli uomini:
Quei che inventano l'arti, o i loro istromenti; quei che diedero
le leggi e la sapienza ai popoli; quei che inventarono dei consigli da sollevare
le nazioni dei mali fisici, o politici, questi solo sono i degni di esseri esti-
mati gloriosi ... L'opprimere un uomo non oltrepassa la forza del più vile
insetto: a renderlo felice si richieggono delle grandi anime. Per me è
sempre un piccolo ed un vile chi opprime un altro uomo.
(Diceosina II, 8, 17)
Figura di non minore importanza nell'ambiente culturale napoletano fu l'abate Ferdinando
Galiani (1728-1787). Come segretario d'Ambasciata visse a Parigi dal 1759 al 1769, dove
si fece conoscere ed apprezzare per la sua vivacità intellettuale ed il suo carattere brioso.
Nutrì interesse soprattutto per i problemi economici. Nei Dialoghi sul commercio dei grani
giudicò le dottrine fisiocratiche superficiali, fantastiche ed incapaci di risolvere le difficoltà
economiche. A suo avviso, infatti, è una semplice ingenuità supporre l'esistenza nella
natura di un ordine razionale e credere che tutto funzionerà alla perfezione solo se si
elimineranno dazi e dogane e si faciliterà in tal modo la circolazione delle merci. Nel
trattato Della moneta attacca la tesi del mercantilismo secondo cui la ricchezza di una
nazione consiste nelle riserve di metallo prezioso e cerca di chiarire ì concetti chiave
dell'economia moderna come quelli di valore, di merce e danaro. La sua concezione
filosofica è affidata alle Lettere scritte in francese. In modo asistematico, in queste lettere
Galiani conduce una polemica contro gli atei e i difensori del principio della libertà del
volere dell'uomo. La difesa dell'esistenza di Dio e del principio di necessità operante nella
natura e nell'uomo sono direttamente collegati:
se esistesse un solo essere libero nell'Universo, non esisterebbe più
Dio, non ci sarebbero più legami fra gli esseri. L'uomo si spezzerebbe. E se
l'uomo non fosse intimamente, essenzialmente, convinto sempre d'essere
libero, la morale umana non andrebbe come va!
(Lettera a Madame d'Epinay, 23 novemb. 1771)
L'uomo, pure quando scopre di non essere libero, al pari di ogni altro essere dell'universo,
agisce però come se lo fosse, caricandosi in tal modo della responsabilità morale dei suoi
atti.
Un retaggio della cultura vichiana è presente nell'opera di Mario Pagano (1748-1799),
professore di diritto criminale nell'Università di Napoli e vittima della repressione politica
alla caduta della Repubblica Partenopea, il cui progetto di Costituzione aveva contribuito a
stendere. Nel Saggi politici Pagano, più che al significato dei fatti storico-politici particolari,
punta ad un loro inquadramento in una legge universale che si dispiega nel tempo al di
sopra degli eventi contingenti, integrando questa specie di "storia ideale eterna" con un
necessitarismo di tipo stoico:
Gli uomini, le società e le cose tutte sviluppansi sempre colle mede-
sime leggi e nel modo istesso ... Quindi gli uomini e le società, che son
soggette al medesimo sviluppo a cui è ciascun uomo, come negli stessi
punti di questo necessario e fatale corso s'incontrano, hanno l'istesse idee,
se non quando vi pone differenza il diverso clima e certi particolari acci-
denti che sono altresì compresi nella grande invariabile catena del tutto;
ma che noi, per le angustie di nostra ragione, non possiamo a certi principi
richiamare.
(Saggi Politici, I, 1)
Un rappresentante emblematico dell'illuminismo napoletano è Gaetano Filangieri (1752-
1788). Nella sua opera, Scienza della legislazione, sulle orme di Montesquieu, esalta la
capacità di rinnovamento implicita in una legislazione razionale e suggerisce riforme in
ogni campo, dalla politica al costume, dalla religione al diritto, all'educazione. Solo in
questo modo si può garantire ad ogni cittadino la conservazione della vita e la tranquillità:
Ma l'uomo non può conservarsi senza mezzi, né può essere tran-
quillo, se non è sicuro di non essere molestato. Possibilità, dunque, d'esi-
stere e d'esistere con agio; libertà d'accrescere, migliorare e conservare la sua
proprietà; facilità nell'acquisto dei generi necessari o utili per il comodo
della vita; confidenza nel governo; confidenza nel magistrati; confidenza
negli altri cittadini; sicurezza di non essere turbato, operando secondo il
dettame delle leggi, questi sono i risultati del principio universale della
conservazione e della tranquillità. Ogni parte della legislazione deve dun-
que corrispondere ad uno di questi risultati. Ogni legge che non reca alla
società uno di questi benefici è dunque inutile.
(Scienza della legislazione, Piano rag. libro I).
Soltanto una legislazione ispirata a questi principi sarà in grado di educare i cittadini ed
avviarli alla felicità. Filangieri annette all'educazione un'importanza fondamentale nel
piano del rinnovamento sociale e politico. I cittadini dovranno avere una educazione
uniforme, impartita dallo stato ed ispirata alle leggi. Legislazione razionale universale ed
istruzione pubblica sono i capisaldi di un grande progetto di rinnovamento della società
che, talvolta e per alcuni versi, sfiora i confini dell'utopia.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
L'Illuminismo a Milano
A Milano, in appoggio all'azione riformatrice dei governo asburgico, fiorisce l'altro
importante cenacolo illuminista italiano. L'animatore più attivo di questo movimento fu
Pietro Verri (1728-1797). Con il fratello Alessandro Verri (1741-1816), Cesare Beccaria ed
altri intellettuali milanesi dà vita all'Accademia dei Pugni e fonda il periodico Il Caffè che,
pubblicato tra il 1764 ed il 1766, diffonde le idee illuministiche e fornisce le prime
indicazioni politiche a favore dell'unità d'Italia. Tenace avversario della nobiltà indolente e
parassitaria, Verri nelle Meditazioni sull'economia politica si fa propugnatore di un
liberismo economico misurato ed equilibrato, capace di eliminare dall'economia ogni abuso
ed ogni eccesso. Egli vede nel lavoro, tanto in quello agricolo che in quello industriale, il
più grande impulso alla società e alla fratellanza tra gli uomini. Nel Discorso sull'indole del
piacere e del dolore, Verri individua fra le varie cause del dolore anche la speranza di un
bene che non si possiede. E proprio dal dolore provocato da questa mancanza sorge
nell'uomo l'impulso ad agire, a progredire, a scoprire le tecniche e le arti. Anche i piaceri
che derivano dalle "belle arti", infatti, hanno come impulso fondamentale il dolore, la
mancanza di piacere e, quindi, la speranza.
La musica, la pittura, la poesia, tutte le belle arti hanno per base i
dolori innominati; in guisa tale che, se io non erro, se gli uomini fossero
perfettamente sani ed allegri, non sarebbero nate mai le belle arti. Questi
mali sono la sorgente di tutti i piaceri più delicati della vita.
(Discorso…, VIII)
Le analisi economiche e quelle sul piacere e sul dolore, apparentemente così distanti fra
loro, contribuiscono ad illuminare l'ideale di vita serena, agiata, ma attiva ed operosa
propugnata da Verri.
Il più autorevole rappresentante dell'illuminismo italiano, l'unico, forse, di fama europea fu
Cesare Beccaria (1738-1794).
Nella sua opera più famosa, Dei delitti e delle pene, Beccaria conduce con lucida
determinazione una serrata polemica contro l'uso della tortura nel corso del procedimento
penale e contro la pena di morte.
Il volumetto ebbe una fortuna rapida e strepitosa, fu tradotto in più lingue e fu elogiato
dai più famosi philosophes francesi. Con esso Beccaria vuole rispondere ad una serie di
quesiti:
La morte è ella una pena veramente utile e necessaria per la sicurezza
e per il buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino
giusti e ottengono il fine che si propongono le leggi? Qual è la migliore
maniera per prevenire i delitti? Le medesime pene sono ugualmente utili
in tutti i tempi?
(Dei delitti e delle pene, I)
A queste domande risponde partendo dal presupposto che la società è nata da un
contratto sottoscritto dai singoli aderenti e che il fine ultimo cui essa deve mirare è la
felicità degli uomini. Nell'ambito delle leggi intese a salvaguardare la convivenza civile
debbono essere previste delle pene adeguate ai delitti commessi e finalizzate ad impedire
al colpevole di ripetere l'azione criminosa e a distogliere altri dal commetterla. La pena di
morte, però, non trova giustificazione in alcun diritto. Perché se è vero che il diritto deriva
dal contratto sociale, è assurdo pensare che gli uomini abbiano, per contratto, deciso di
attribuire ad altri uomini il diritto di "trucidarli". La pena di morte, più che come un diritto,
si configura come una guerra della nazione contro un cittadino. Inoltre essa non può
essere considerata neppure un freno capace di distogliere altri dal commettere delitti. Gli
uomini, infatti, sono colpiti maggiormente da una pena che estende nel tempo i suoi effetti
piuttosto che da una pena atroce si, ma immediata:
La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un
oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambedue i sentimenti
occupano più l'animo degli spettatori, che non il salutare terrore che la
legge pretende ispirare.
(Dei delitti e delle pene, XVI)
A sua volta la tortura del reo, mentre è in corso il processo, è soltanto una crudeltà
consacrata dall'uso. Un uomo, infatti,
non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice ... Qual è
dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la potestà ad un giu-
dice di dare una pena al cittadino mentre si dubita se sia reo o innocente?
Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo, o incerto: se certo, non
gli conviene altra pena che quella stabilita dalle leggi, ed inutile sono i tor-
menti, perché inutile è la confessione dei reo; se è incerto, non si deve tor-
mentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo, i cui delitti
non sono provati.
(Dei delitti e delle pene, XII)
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
L'Illuminismo in Germania
La filosofia tedesca dai tempi della riforma luterana in poi si presenta soprattutto come filosofia religiosa. Lo sforzo di Leibniz di aprire la cultura
germanica all'influenza di quella europea non sortì immediatamente effetti apprezzabili. La religione continua ad essere al centro della attenzione ed assurge nel "pietismo" a manifestazione unica di tutta la tensione spirituale dell'uomo. Il pietismo, fondato da Filippo Iacopo Spener (1635-1705), è un movimento religioso che, contro la teologia razionalistica, fa appello al sentimento, alla coscienza, e predica una morale rigorosissima ed un impegno sociale attivo. La diffusione rapida dei pietismo in molti paesi dell'Europa centro-settentrionale lo rese un movimento forte non soltanto dal punto di vista educativo, per l'influsso che esercitava sulla formazione di intere generazioni, ma anche dal punto di vista culturale e politico per il potere che si era conquistato nelle università e per la considerazione che si era guadagnato presso le corti. In questo quadro non mancarono ovviamente voci isolate come quelle di Samuele Pufendorf (1632-1694) e di Cristiano Thomasius (1655-1728), interessati ai problemi del diritto e della società. Soltanto all'inizio del '700 il pensiero tedesco si apre all'influsso della cultura francese soprattutto per la lungimiranza politica di alcuni sovrani. Federico II di Prussia, in modo particolare, ostenta la sua amicizia con i philosophes francesi ed assicura la sua protezione a quanti di essi sono perseguitati per le loro idee. Egli stesso si atteggia ad intellettuale spregiudicato e progressista. Lo spirito francese caratterizza gli atteggiamenti esteriori delle classi nobili tedesche. Ma ciò nonostante la cultura tedesca non acquista la varietà dei temi o lo stile elegante e brioso della cultura francese. Tende, invece, ad approfondire i problemi logico-formali e, quand'anche accetta il razionalismo illuministico, punta alla individuazione e alla verifica di legittimità dei fondamenti dei concetti espressi dalla ragione. Una sistemazione in senso accademico e metafisico delle idee illuministiche è operata da Cristiano Wolff (1679-1754). Seguace di Leibniz e sensibile al principio illuministico di passare tutto al vaglio della ragione, Wolff vuole elaborare una filosofia rigorosa che, sul modello della matematica, parta da una definizione chiara e precisa dei suoi concetti e da una verifica attenta dei suoi procedimenti, alla luce del principio logico di non contraddizione. Autore di una Logica, di un'Ontologia, di una Psicologia razionale, di una Cosmologia, di una Filosofia pratica universale e di tante altre opere, Wolff costruisce una vera e propria enciclopedia del sapere. Utilizzando alquanto liberamente i principi della filosofia leibniziana, intende cercare la necessaria razionalità operante in ogni realtà, di modo che le " verità di fatto " sono tutte ridotte a " verità dì ragione ", a verità, cioè, che non hanno bisogno della verifica sperimentale per essere considerate vere o false, ma che immediatamente rivelano la loro natura alla luce del principio logico di non contraddizione. Nella cosmologia, Wolff trasforma le monadi leibniziane in una sorta di atomi meccanicamente aggregantisi, ai quali non è necessario applicare il principio dell'armonia prestabilita. In questo "orologio automatico", qual è il mondo, tutto è meccanicamente organizzato e nessun mutamento è possibile, neppure con un ipotetico miracolo. Dio che è l'artefice della natura non può mutare il corso che egli stesso le ha impresso. Anzi l'immutabilità delle leggi naturali e la loro perfezione sono gli argomenti più convincenti per dimostrare dell'esistenza di Dio. L'unico campo in cui si può applicare il principio "dell'armonia prestabilita " è quello riguardante i rapporti tra anima e corpo. L'anima sente e al suo sentire corrisponde nel corpo un desiderio,
un'"appetizione ". In morale il sistema wolffiano propende per una forma molto rigorosa di intellettualismo. La volontà è rigidamente subordinata alla ragione. Ogni nostra azione è suggerita da un valore stabilito dalla razionalità, che sarebbe operante anche se si dovesse concedere la non esistenza di Dio. In linea con molti illuministi francesi, Wolff in politica nutre simpatia per un moderato "dispotismo illuminato" ed in economia è fautore di un cauto intervento statale. La filosofia wolffiana si affermò largamente nelle università tedesche ed esercitò un ruolo anche nella formazione filosofica di Kant Tra i discepoli di Wolff vanno ricordati MARTINO KNUTZEN (1713-1757),che fu diretto maestro di Kant, e Alessandro Goffredo Baumgarten (1714-1762), famoso per la sua Estetica in cui viene dato particolare rilievo alla conoscenza sensibile (estetica da aisthesis= sensazione) rispetto alla conoscenza razionale. La sensibilità, considerata fino ad allora "conoscenza inferiore" rispetto alla razionalità, viene da Baumgarten intesa come momento autonomo dello spirito umano, capace di darci una visione globale, unitaria degli oggetti, una visione armonica e complessiva delle parti che li costituiscono. L'estetica, pertanto, coglie la bellezza degli oggetti e sì basa su un pathos innato, su una tensione istintiva che l'educazione può disciplinare. Un'altra figura geniale del movimento illuministico tedesco fu Goffredo Efraimo Lessing (1729-1788), autore del Laocoonte e degli scritti su L'educazione del genere umano. A Lessing si deve il rinnovamento della critica letteraria ed artistica. L'opera in cui egli tratta questi problemi, il Laocoonte, reca emblematicamente come sottotitolo Sui limiti della poesia e della pittura. Lessing, infatti, nega l'equazione poesia = pittura e propende, invece, per la separazione dei generi letterari. Ogni forma di espressione artistica ha le sue specifiche tecniche espressive che la mettono in grado di cogliere ed esprimere aspetti della realtà che altre forme non possono cogliere né rendere con la stessa intensità. Ne L'educazione del genere umano Lessing applica il concetto di sviluppo alla storia, fornendo in tal modo l'immagine della storia umana come un continuo progresso stimolato dal desiderio di felicità. In questa visione " storicistica " viene relativizzata ogni forma di cultura, anche la religione che, con la pretesa di possedere la verità eterna, presume di essere estranea a questo continuo movimento in direzione del meglio. Le religioni hanno assolto, in un determinato momento storico, un compito fondamentale come quello di aver mostrato l'unicità di Dio e, ancor più, la moralità come espressione di una tensione interiore all'uomo. Ma il loro compito sarebbe finito, se non si aprissero alle nuove esigenze storiche e non dichiarassero la loro disponibilità a modificare i loro dogmi aprendosi ad un dinamismo spirituale sempre attivo, fruttuoso, ma mai concluso.
Filosofia, politica e scienza alla fine del Settecento
Il problema del metodo ed il progresso delle scienze nel '700
filosofi e gli scienziati del Seicento, con le loro accanite dispute intorno ai metodi della ricerca, avevano spianato la strada al grande progresso scientifico
che si realizzò nel secolo successivo. Soprattutto si rivela utile la lezione del grande Newton che, galileianamente, supera gli eccessi contrapposti di un rigido empirismo e di un razionalismo troppo superbo e troppo sprezzante nei confronti delle tecniche sperimentali. Esperienza e ragione, empiria e matematica, non possono essere considerate momenti antitetici della ricerca, ma complementari. La logica e la matematica debbono organizzare ed ordinare i dati dell'esperienza. Attraverso la rielaborazione newtoniana, questo metodo fu accolto in quasi tutte le branche del sapere scientifico. Anche se alcune di queste, per esigenze procedurali, accentuarono maggiormente ora l'aspetto empirico ora quello razional-matematico. Il momento dell'osservazione viene esaltato in modo particolare dalle scienze biologiche. I biologi, infatti, desiderosi di scoprire le caratteristiche delle specie attraverso l'esame minuzioso e attento delle caratteristiche dei singoli individui, affinano le loro capacità osservative e costruiscono tavole classificatorie seguendo il metodo baconiano dell'osservazione e delle classificazioni. La loro opera fu resa ancora più feconda dai nuovi strumenti ottici che consentivano di andare oltre il dato immediatamente percettibile dai sensi. Il gusto della osservazione empirica continuamente ripetuta, collegata alla convinzione che l'uomo ed il mondo si comportano come macchine, favorisce i primi studi sulla pressione sanguigna condotti dall'inglese STEFANO HALES (1677-1761) e lo studio di alcuni germi patogeni, come il vaiolo, studio che, a sua volta, sollecita studi di medicina terapeutica sfociati poi nella pratica della vaccinazione per la prima volta ideata da EDUARDO JENNER (1798). La più fruttuosa applicazione del metodo osservativo si deve a George Louis Leclerc De Buffon (1707-1788). Nella Storia naturale degli animali, Buffon annunciava una sorta di teoria dell'evoluzione: tutti gli animali, uomo compreso, avevano una comune origine; la differenziazione delle specie derivava per degenerazione del tipo primitivo. Anche la formazione delle razze seguiva questo stesso processo di variazione degenerativa sotto l'influsso di fattori ambientali e climatici, variazioni divenute poi costanti di quella razza. Strumenti ottici sempre più perfezionati permisero indagini assai minute sugli organi animali e sulle loro funzioni, come consentirono anche la scoperta dei microrganismi animali e vegetali. Questa scoperta fece cadere del tutto la teoria della riproduzione spontanea e consentì a Lazzaro Spallanzani (1729-1799) di sostenere che ogni generazione è frutto di un accoppiamento di organismi di sesso diverso. Le osservazioni al microscopio consentirono anche ai botanici di rifiutare la teoria della riproduzione spontanea a favore di quella per impollinazione. Il più acuto studioso di botanica fu Carlo Linneo (1707-1778), il quale, pur restando fermo al principio della fissità delle specie (Tot sunt species quot ab initio creavit Ens) è costretto, di fronte alla costatazione di vistose modificazioni, ad ammettere variazioni improvvise tendenti, però, ad assumere il carattere della stabilità. La matematica, per la natura stessa della disciplina, utilizza il metodo deduttivo. Nel Settecento si segnala particolarmente Leonardo Eulero (1707-1783). Eulero fornisce contributi geniali di nuova conoscenza in quasi tutte le branche della matematica; dalla matematica pura a quella applicata, da quella
elementare a quella di livello più elevato. Inoltre, usa un linguaggio ed una notazione che per molti aspetti corrispondono ancora a quelli usati dai matematici a noi contemporanei. E, cosa che non si era mai verificata in una misura così ampia, in questa opera di rinnovamento lavorò da solo, senza alcuna collaborazione. Rientrano nel campo dei suoi studi la teoria dei numeri primi, le curve algebriche, l'analisi infinitesimale, le funzioni trigonometriche, le funzioni esponenziali, le espressioni di seno e coseno come prodotti infiniti. Eulero sviluppò le dottrine del calcolo differenziale ed integrale dei predecessori e fornì un contributo notevole alla ripresa dei programma leibniziano di creare una logica simbolica. Oltre ad essere un grande matematico, Eulero ebbe anche il merito di saper sollecitare ed incoraggiare giovani matematici. Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813) aveva sottoposto ad Eulero la sua teoria del calcolo delle variazioni. Eulero, intuita la superiorità di quel procedimento, abbandona i suoi studi sull'argomento, presenta il lavoro del giovane scienziato all'Accademia di Berlino di cui è presidente e chiede la nomina di Lagrange a membro associato dall'Accademia. Fu l'inizio per il giovane scienziato di una prestigiosa carriera che lo porta a succedere ad Eulero alla presidenza della stessa Accademia. Nel 1787 Lagrange si trasferisce a Parigi, partecipa attivamente alla Rivoluzione e con l'avvento della Repubblica è nominato presidente della commissione pesi e misure. Nella sua opera, tuttavia, all'altezza dei risultati matematici, non corrisponde una rigorosa fondazione logica. Nella fisica, invece, l'applicazione del metodo galileiano-newtoniano conduce a risultati eccezionali in ogni campo. Nella astronomia, grazie anche al perfezionamento degli strumenti di osservazione, il gusto di scrutare il cielo si allarga anche a semplici dilettanti. E fu proprio un dilettante, l'inglese William Herschel (1738-1822), a scoprire il pianeta Urano; scoperta che contribuiva ad ampliare enormemente l'estensione del sistema solare. Il tentativo di fornire una soddisfacente soluzione al problema della combustione portò GIORGIO ERNESTO STAHL (1660-1743) a formulare la teoria del flogisto (dal greco flógosis = bruciamento) che ebbe una grande diffusione. Stahl credeva che il flogisto fosse una sostanza contenuta in tutti i corpi combustibili e che ogni combustione fosse dovuta allo sprigionamento di questa sostanza dal corpi. La teoria del flogisto viene gradualmente superata grazie agli esperimenti di ENRICO CAVENDISH (1731-1780) e di GIUSEPPE PRIESTLEY (1733-1804). Il primo scoprì l'idrogeno e fece conoscere la composizione chimica dell'acqua. Il secondo notò come riscaldando ossido di mercurio si favorivano i fenomeni della combustione e della respirazione. L'ossigeno gradualmente entrava nella spiegazione dei fenomeni della combustione e scalzava il flogisto. La nuova chimica muove ormai i primi passi. Una vera rivoluzione fu opera di Antonio Lavoisier (1743-1794). Lavoisier aveva notato che zolfo e fosforo, durante la combustione, ed i metalli, durante la calcinazione, aumentavano di peso. Questa esperienza cozzava contro la teoria del flogisto che prevedeva la perdita di peso del corpo bruciato per la fuga del flogisto, considerato come l'elemento producente la combustione. La soluzione al difficile problema venne dall'incontro di Lavoisier e di Priestley.
Da questo incontro lo scienziato francese intuì il ruolo dell'ossigeno presente nell'aria nei processi di combustione. I fenomeni di trasformazione dei metalli in ossidi e dei metalloidi in acidi venivano spiegati, in tal modo, con la combinazione dei corpi bruciati con l'ossigeno. Da qui Lavoisier ricavò la sua famosa legge della " conservazione delle masse " (nulla si crea e nulla si distrugge): la massa delle sostanze risultanti da reazioni chimiche è uguale alla somma delle masse delle sostanze che hanno concorso alla reazione. In tal modo alla vecchia alchimia si sostituiva la nuova chimica quantitativa. Nel campo dell'ottica, il perfezionamento dei cannocchiali allargava la possibilità della sperimentazione a nuovi campi dindagine come la fotometria e la spettroscopia. L'interesse degli scienziati si concentrò, però, sui fenomeni elettrici. Le risposte alla domanda "che cos'è l'elettricità?" furono varie e diverse fra di esse. C'era chi indicava l'elettricità come un fluido speciale tendente a saturare la materia da cui è attratto, chi operava una distinzione tra elettricità "vetrosa" prodotta, cioè, dallo strofinio del vetro, ed elettricità "resinosa" prodotta dallo strofinio della resina. Un primo rischiaramento in questo campo venne dalla scoperta di Carlo Coulomb (1736-1806). Coulomb dimostrò, infatti, che le forze elettriche di attrazione e repulsione seguono la legge di Newton e che, pertanto "l'attrazione o la repulsione di due cariche elettriche è direttamente proporzionale al prodotto dell'intensità delle cariche e inversamente proporzionale al quadrato delle loro loro distanze". Questa legge segnò l'avvio di una conoscenza veramente scientifica dei fenomeni elettrici. Lo scienziato Luigi Galvani (1737-1798), dopo aver scorticato una rana, osservò che i nervi ed i muscoli dall'animale si contraevano ogni qualvolta i metalli cui erano collegati si toccavano fra di loro. Da questa esperienza dedusse che nervi e muscoli possedevano una carica elettrica prodotta da un centro nervoso e che questa elettricità animale veniva eccitata dai metalli. La correzione di questa errata deduzione fu opera di un altro grande fisico italiano, Alessandro Volta (1745-1827), il quale, estendendo gli esperimenti di Galvani, capì che la sorgente dell'elettricità non era rappresentata dai muscoli o dai nervi dell'animale, ma dal contatto fra due differenti metalli. Sulla scorta di questa intuizione, nel 1799, Volta costruì la prima pila elettrica composta da dischi di rame e di zinco alternati. Riuscí, in tal modo, ad ottenere la generazione di corrente continua. L'elettricità passa da un disco all'altro per il fatto che il rame si carica negativamente e lo zinco positivamente. La scoperta della pila elettrica aprí nuovi orizzonti alla fisica e alla chimica.
La filosofia critica di Kant
La vita e le opere
Emanuele Kant rappresenta il momento di sintesi e di rielaborazione di molte delle tematiche trattate dai filosofi nell'arco di tempo che corre da Cartesio a Rousseau. Il valore, l'estensione ed i modi della conoscenza; l'importanza ed i limiti dell'esperienza; la fondazione dei valori morali; il significato del
sentimento: sono questi i temi che, ripresi da Kant, subiscono un profondo rinnovamento nella loro trattazione. La filosofia kantiana si pone quasi come uno spartiacque tra la filosofia moderna e quella contemporanea. Chiude un'epoca, riconducendo ad unità diversi fili intrecciati dai filosofi del '600 e del '700, e ne apre un'altra, fornendo spunti destinati ad essere ripresi e sviluppati in direzioni nuove. Con Kant viene operato il primo potente tentativo di sottrarre la cultura tedesca al suo tradizionale isolamento per farla diventare, alleggerita dalla troppo spessa patina di religiosità e di misticismo, il centro della cultura europea. Le battaglie kantiane contro le ingiustificate pretese della metafisica valgono ad abbattere il "vecchio e tarlato dommatismo" ed a fondare in maniera critica la portata ed il limite della conoscenza umana. Se da un lato questa operazione comporta il restringimento del campo del sapere, limitandolo entro i confini dell'esperienza, dall'altro ne garantisce un maggior rigore procedurale ed un più chiaro valore scientifico. Emanuele Kant nacque a Königsberg, nella Prussia orientale, il 22 aprile del 1724. Su di lui esercitarono un forte influsso la madre, una fervente religiosa legata al pietismo luterano, e, dopo l'entrata nel Collegium Fridericianum, il pastore tedesco Franz Albert Schultz, direttore del Collegio ed uno degli esponenti più in vista del movimento pietistico. Nel 1740 si iscrisse all'Università della sua città come studente di teologia, ma preferì seguire corsi di filosofia e matematica e approfondire lo studio della fisica di Newton. Nel 1747 pubblicò il suo primo scritto, Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive. Conclusi gli studi universitari fu costretto, date le modeste condizioni economiche della famiglia, a dedicarsi all'attività di precettore presso alcune famiglie nobili. Nel 1755 conseguì la libera docenza all'Università di Königsberg con lo scritto Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio. Nello stesso anno pubblicò lo scritto più importante di questo periodo, Storia universale della natura e teoria dei cieli. Iniziò la carriera accademica dedicando tutto il suo tempo all'insegnamento e allo studio. Nel 1762, con lo scritto La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogisticbe, inizia una nuova fase nello svolgimento dei pensiero kantiano. All'interesse, da scienziato, per i contenuti delle scienze naturali, succede un interesse metodologico, da filosofo. Nell'anno successivo pubblica L'unico argomento possibile per una dimostrazione dell'esistenza di Dio e Ricerca sul concetto delle grandezze negative. Nel 1764 pubblica altri due libri: Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e morale ed Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. Ma lo scritto più importante di questo periodo è rappresentato dai Sogni di un visionario chiarito coi sogni della metafisica del 1765. Segue tre anni dopo il breve saggio Sul primo fondamento della distinzione delle regioni nello spazio. Nel 1770 diventa professore ordinario di logica dell'Università di Königsberg e nell'inaugurare il corso pronuncia la famosa Dissertazione che ha per titolo De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis. Con questa opera incomincia a maturare una nuova fase nella speculazione filosofica di Kant: il criticismo. La messa a punto del nuovo sistema filosofico richiede un lungo periodo di intensa meditazione. Nel 1781 esce il primo dei
suoi capolavori, la Critica della ragion pura. Nel 1783 riespone i contenuti della Critica in una forma più semplice e popolare nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza. Si fa strada ormai la consapevolezza che la stessa prospettiva critica può essere applicata anche alla morale. Pubblica, infatti, nel 1785, i Fondamenti alla metafisica dei costumi e tre anni dopo la Critica della ragion pratica. Nel 1790 vede la luce la Critica del giudizio. Subito dopo la sua riflessione si appunta sui problemi religiosi e nel 1793 pubblica una serie di saggi in un volume dal titolo La religione nei limiti della semplice ragione. Questo scritto provoca un ammonimento da parte del re e l'invito a non insegnare più le dottrine ivi contenute perché in contrasto con i principi fondamentali del cristianesimo. Kant ubbidisce per dovere di suddito e non si occupa più di religione fino alla morte del re. Nel 1795 pubblica un breve saggio, Per la pace perpetua, in cui espone il suo ideale politico repubblicano e libertario. Pubblica poi una serie di altri scritti su argomenti che vanno dalla logica alla filosofia della storia, dall'antropologia alla pedagogia. Negli ultimi anni fu afflitto da un progressivo indebolimento delle capacità fisiche e mentali. Si spense il 12 febbraio 1804.
La filosofia critica di Kant
Fisica, cosmologia e metodologia
L'attività filosofica di Kant prima della pubblicazione della Critica della ragion pura può essere agevolmente distinta in due periodi. Nel primo Kant tratta, da scienziato, i problemi fisici e cosmologici, nel secondo, invece, incomincia ad avvertire l'esigenza metodologica e incomincia a maturare quelle idee che saranno poi riprese e sviluppate nelle opere critiche. Al primo periodo appartiene lo scritto Pensiero sulla vera valutazione delle forze vive, in cui Kant discute il concetto di " forza viva" utilizzando l'illuminismo wolffiano e la fisica newtoniana. Ma l'opera più importante di questo periodo è la Storia universale della natura e teoria dei cieli in cui illustra l'ipotesi della formazione dell'intero universo partendo da una nebulosa primitiva alla quale Dio ha impresso il movimento. Tutto l'universo deriverebbe meccanicamente dal moto vorticoso di questa nebulosa senza nessun altro intervento divino. Alla stessa fonte cui si era ispirato Kant (la Storia naturale di Buffon) si ispirò per proporre un'ipotesi analoga lo scienziato Laplace nella Esposizione del sistema del mondo (1796), per cui questa ipotesi va sotto il nome Kant e Laplace. A contatto con la filosofia inglese, particolarmente con quella di David Hume, maturano nuove esigenze speculative. L'interesse di Kant si sposta ai problemi metodologici e all'esame della validità del sapere scientifico. Incomincia in questo periodo quell'"attacco" alla metafisica tradizionale che troverà nelle Critiche la sua espressione più matura. Nello scritto La falsa sottigliezza delle quattro figure sillogistiche, Kant nega ogni valore alla logica tradizionale, ma soprattutto nega che questa possa valere da fondamento alla metafisica. La polemica antimetafisica assume toni violenti con la pubblicazione dell'Unico argomento possibile per una dimostrazione
dell'esistenza di Dio. In questo scritto Kant attacca frontalmente la posizione di quanti pensano di poter dimostrare l'esistenza di Dio utilizzando l'argomento ontologico e nega che dal puro concetto della perfezione di Dio si possa ricavare il concetto della sua esistenza. L'esistenza, infatti, si differenzia nettamente da tutti gli altri predicati in quanto non esprime un semplice modo di essere di una cosa, ma esprime la stessa realtà di essa. L'esistenza non è, allora, un predicato ricavabile per via logica, ma è un primum indicante la realtà concreta degli oggetti. Contro la metafisica tradizionale affermante che una cosa è reale quando il suo concetto non implica contraddizione logica, Kant sostiene che una cosa è reale solamente quando è esistente. Negata la possibilità di dimostrare l'esistenza di Dio partendo dal concetto di perfezione assoluta, negata cioè la possibilità di dedurre logicamente l'esistenza da un concetto, Kant sostiene che "l'unico argomento possibile per dimostrare l'esistenza di Dio" è quello che i medievali chiamavano a contingentia mundi. Il mondo, per la sua contingenza (poteva essere, ma poteva anche non essere), rinvia ad un essere necessario, ad un'esistenza assoluta. Se non ci fosse Dio non sarebbe neppure il mondo. In quest'opera Kant non solo denuncia come erroneo il metodo di cui si serve la metafisica quando deduce da un principio logico a priori la realtà, ma accusa apertamente la metafisica di essere un "abisso senza fondo", "un tenebroso oceano senza sponde e senza fari. La distinzione tra piano logico e piano della realtà è ribadita nello scritto Ricerca sul concetto delle grandezze negative. L'esame critico della fondatezza della metafisica continua nella Ricerca sulla chiarezza dei principi della teologia naturale e della morale. Kant dimostra come la filosofia tradizionale, sotto l'influsso negativo della metafisica, utilizza concetti confusi e non ben determinati. Tutti, ad esempio, usano il concetto di tempo come se fosse un concetto chiaro, mentre, invece, esso necessita di spiegazione. Se vuole liberarsi dalle "illusioni" della metafisica, la filosofia deve accogliere il metodo analitico utilizzato in fisica da Newton. In questi anni Kant medita sulle opere di Hume che valsero a svegliarlo dal "sonno dogmatico", cioè dalla fiducia nella possibilità di costruire una metafisica differente da quella tradizionale utilizzando il metodo newtoniano. Espressione di questa fase "scetticheggiante" è uno dei più brillanti scritti di Kant, i Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica. Prendendo lo spunto dalle affermazioni di un veggente svedese, Emanuele Swedenborg (1688-1772), che si attribuiva facoltà eccezionali come quella di entrare in comunicazione con gli spiriti, Kant assimila i metafisici agli occultisti dello stampo dello Swedenborg. Mentre questi ultimi sono "visionari dei sensi " e credono di entrare in contatto e parlare con spiriti inesistenti, quelli sono "visionari della ragione ". Ognuno di essi, infatti, si costruisce un illusorio mondo ideale che occupa tranquillamente e da cui esclude gli altri. I "sogni" dei metafisici sono perciò simili a quelli dei visionari. Se si vuole uscire dal "sogno", bisogna abbandonare la pretesa della metafisica di voler dedurre tutto da presunti concetti a priori e procedere alla verifica dei limiti della ragione umana. Solo in questo modo i filosofi, come già da tempo fanno i matematici, "abiteranno nello stesso tempo un mondo comune". In un breve saggio del 1768, Sul primo fondamento delle regioni dello spazio, Kant affronta il tema della origine non empirica del concetto di spazio. Le
determinazioni spaziali non sono ricavate per via sperimentale dalla osservazione empirica delle posizioni reciproche delle parti della materia, ma sono i presupposti che rendono possibile una tale osservazione. L'approfondimento dell'esame del concetto di spazio, unitariamente a quello del concetto di tempo, è alla base dello scritto in cui si annuncia con maggior forza il nuovo corso della filosofia kantiana, il De mundi sensibilis atque intellegibilis forma et principiis che Kant presenta come Dissertazione inaugurale al primo corso universitario tenuto in qualità di ordinario nel 1770. La Dissertazione consta di due parti: nella prima si esamina la conoscenza sensibile, nella seconda la conoscenza intelligibile. Nelle analisi sulla sensibilità Kant raggiunge delle conclusioni che terrà ferme anche nella redazione della Critica della ragion pura. Stabilisce, infatti, che la conoscenza sensibile è la sintesi di un contenuto materiale impressionante i nostri organi di senso e di una forma consistente nella capacità dei nostri sensi ad ordinare nello spazio e nel tempo quei contenuti materiali. Lo spazio ed il tempo, dunque, lungi dall'essere qualcosa che inerisce agli oggetti o una determinazione assoluta, esistente in sé, entro cui sono collocati gli oggetti stessi, rappresentano il modo di sentire del soggetto; sono le condizioni soggettive che rendono possibile l'esperienza. L'esperienza, infatti, è possibile solo in quanto un certo contenuto materiale è collocato dal soggetto senziente entro le forme spaziali e temporali della sua sensibilità. Il sentire indica l'attività con cui il soggetto ordina i dati materiali nello spazio e nel tempo, ed è l'unico modo per acquisire nuove conoscenze. La conoscenza intellettuale, infatti, non acquisisce alcun dato nuovo, ma si limita a ragionare sui dati forniti dall'esperienza. Con questo scritto ormai è avviata la terza fase del pensiero kantiano, che raggiunge nella pubblicazione delle tre Critiche la più completa espressione.
La filosofia critica di Kant
Critica della ragion pura
Dopo circa dieci anni di meditazione Kant pubblica nel 1781 la Critica della ragion pura, in
cui espone la sua teoria della conoscenza. Contro le oscurità e le contraddizioni dei vari
sistemi metafisici e contro lo scetticismo che da essi si genera, Kant ritiene che il compito
primario della ragione consiste nello
assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza
di sé, e di erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime,
ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma
secondo le sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può
essere se non la critica della ragione pura stessa.
(Critica della ragion pura, Prefaz., I)
Si tratta di procedere ad un esame (critica) che la ragione, intesa come facoltà del
conoscere in generale, deve esercitare su se stessa, indipendentemente cioè dai contenuti
di conoscenza, per giudicare quali sono i suoi poteri e quali i suoi limiti; fin dove si
giustificano le sue pretese, fin dove le sue conoscenze sono valide scientificamente e a
partire da dove le sue pretese sono ingiustificate e le sue operazioni non produttive di
scienza. La filosofia kantiana viene indicata con il termine criticismo proprio in virtù
dell'esame critico cui è sottoposta la ragione.
Lo spirito con cui Kant procede nelle sue analisi è di chiara derivazione illuministica. Nel
tentativo di mostrare il funzionamento della ragione, infatti, si sottrae completamente ad
ogni suggestione della tradizione filosofica ed etico-religiosa e punta ad evidenziare le
funzioni della mente attraverso una rigorosa critica razionale.
Locke aveva operato, nel Saggio sull'intelletto umano, lo stesso tentativo, ma era giunto
ad una conclusione che, pur denunciando la derivazione della metafisica " dalla plebaglia
dell'esperienza ", le consentiva di continuare a mantenere le sue pretese. Inoltre, avendo
considerato la mente umana passiva, una "tabula rasa" su cui si registrano le esperienze
sensibili, non aveva chiaramente compreso i meccanismi della conoscenza, né era riuscito
ad individuare in modo preciso i limiti e le possibilità della ragione.
Kant vuole procedere, invece, ad una sorta di anatomia della ragion pura, cioè della
ragione non impegnata in alcuna conoscenza particolare, per stabilire
che cosa, e fin dove, l'intelletto e la ragione, all'infuori di ogni espe-
rienza, possono conoscere. (Critica della ragion pura, Pref., I)
Questa analisi sulla ragione pura non significa affatto che Kant intenda trascurare il valore
ed il significato dell'esperienza nel processo conoscitivo. Al contrario, con chiarezza,
proclama l'esperienza il punto di partenza di ogni conoscenza. Ma precisa che,
sebbene ogni conoscenza cominci con l'esperienza, non perciò essa
deriva tutta dall'esperienza. Infatti potrebbe essere benissimo che la nostra
stessa conoscenza empirica fosse un composto di ciò che noi riceviamo
dalle impressioni e di ciò che la nostra facoltà di conoscere vi aggiunge da
sé (stimolata solamente dalle impressioni sensibili), aggiunta che noi pro-
priamente non distinguiamo bene da quella materia che ne è il fonda-
mento, se prima un lungo esercizio non ci abbia resi attenti ad essa, e non
ci abbia scaltriti alla distinzione.
(Critica della ragion pura, Introd., I)
Si tratta di verificare, allora, se alla costituzione dell'esperienza concorra, oltre alla realtà
esterna che fornisce la materia, anche la nostra attività conoscitiva. Ed in caso di risposta
affermativa, si tratta di capire che tipo di contributo quest'ultima fornisce al processo
costitutivo dell'esperienza e attraverso quali sue "capacità".
La "critica", allora, deve esercitarsi sulla ragione pura, indipendente cioè da ogni
esperienza, proprio perché deve puntare ad evidenziare le "capacità" attraverso cui la
ragione concorre alla costituzione del dato di esperienza.
D'altra parte, se noi riducessimo l'esperienza all'impressione esercitata dagli oggetti sul
nostri sensi, considerando questi ultimi puramente recettivi, passivi, così come fanno gli
empiristi, allora saremmo costretti a dare ragione a Hume quando afferma che non è
possibile alcuna conoscenza universale e, quindi, che nessun sapere scientifico è valido
sempre e per tutti. Dovremmo rassegnarci a rinunciare ad ogni forma di conoscenza "
universale e necessaria ", in quanto l'esperienza così intesa ci dice solo che una certa cosa
nel passato si è comportata in un certo modo, ma non ci dice niente sul suo
comportamento futuro. La caduta nello scetticismo sarebbe inevitabile.
D'altra parte lo scopo di conseguire un sapere scientificamente valido non sembra si possa
realizzare neppure affidandoci ai procedimenti dei metafisici. Questi, senza un esame
preliminare della capacità o incapacità della ragione, si lanciano in imprese conoscitive che
superano di gran lunga la nostra esperienza. Fidando nella convinzione che nell'animo
umano sono innati dei "principi" a priori non derivati affatto dall'esperienza, i razionalisti
deducono con procedimento matematico tutto quanto è implicito in quei principi.
Ora, pare, in verità, naturale che appena abbandonato il terreno
dell' esperienza, non si possa subito, con le conoscenze che si posseggono
non si sa donde, e sul credito di principi di cui non si conosce l'origine,
elevare un edifizio, senza prima esserci assicurati, con accurata ricerca della
fondazione di esso e senza che, dunque, sia stata scrutata piuttosto da un
pezzo la questione dei come possa l'intelletto giungere a tutte queste cono-
scenze a priori, e quale estensione, quale validità, quale valore esse possono
avere.
(Critica della ragion pura, Introduz, III)
Questa insufficienza delle due procedure (empiristica e razionalistica) emerge anche dalle
analisi dei giudizi utilizzati in ognuna di essa. Il giudizio è un'espressione composta da un
soggetto e da un predicato i quali possono rapportarsi tra loro in due modi: o il predicato
aggiunge al soggetto una nota caratteristica nuova, che pur non essendo incompatibile
con esso, non vi è inclusa, oppure il predicato non aggiunge alcunché di nuovo a quanto
già espresso dal soggetto, ma si limita soltanto a rendere esplicito ciò che in esso è
implicitamente contenuto. Il primo è un giudizio sintetico a posteriori ed è utilizzato dal
procedimento usato dagli empiristi. Per esempio, il giudizio "tutti i corpi sono gravi" è un
giudizio sintetico a posteriori, in quanto, afferma Kant, la pesantezza non è una
caratteristica essenziale dei corpi. Io posso benissimo pensare ad un corpo privo di peso.
Il predicato esprimente la pesantezza, allora, è aggiunto al soggetto a posteriori, dopo
cioè che, caso per caso, ho sperimentato la presenza nel corpo oggetto di esperienza del
peso. Questo tipo di giudizio, assicura, perciò, un continuo accrescimento del sapere, ma
non ne assicura l'universalità, cioè non garantisce che quanto ho appreso dall'esperienza
possa valere per gli altri casi della stessa specie. Il secondo, invece, è un giudizio analitico
a priori, come ad esempio "tutti i corpi sono estesi". Infatti, essendo impensabile un corpo
inesteso, il concetto di corpo comprende in sé quello di estensione ed in tal caso il
predicato non fa altro che rendere esplicito ciò che già a priori, cioè prima che io ne facessi
esperienza, era contenuto nel soggetto. Questo secondo tipo di giudizio,esplicitando
quanto è già contenuto nel soggetto, in tutti i soggetti, garantisce l'universalità e la
necessità del sapere, ma non garantisce il suo continuo arricchimento. Nessuno di questi
due tipi di giudizi
soddisfa perciò pienamente le esigenze della scienza. Questa, infatti, non solo deve
garantire la possibilità di aumentare sempre più i suoi contenuti, ma deve anche garantire
ad essi il carattere della universalità e della necessità. Ora, come abbiamo. detto,
l'universalità e la necessità sono caratteristiche proprie dei giudizi analitici a priori, mentre
la sinteticità, cioè la capacità di arricchire i propri contenuti, è caratteristica propria dei
giudizi sintetici a posteriori. Se queste sono le condizioni della scienza, dobbiamo
convenire che si otterrà vera scienza solamente se saranno possibili "giudizi sintetici a
priori". Giudizi, cioè, che garantiscano l'accrescimento del sapere, attingendo i loro
contenuti dall'esperienza, e che garantiscano anche universalità e necessità, ordinando i
contenuti empirici secondo forme a priori e quindi universali e necessarie.
Si tratta di vedere, allora, se siano possibili realmente tali giudizi sintetici a priori e in che
cosa consistono le forme a priori che li garantiscono. Riguardo all'esistenza di giudizi
sintetici a priori, Kant non ha alcun dubbio: tutti i giudizi matematici sono sintetici a priori:
Prima di tutto bisogna notare che le proposizioni propriamente mate-
matiche sono sempre giudizi a priori, e non empirici. perché portano seco
quella necessità che dalla esperienza non si può ricavare.
(Critica della ragion pura, Introd, V)
Come esempio di giudizio sintetico a priori Kant porta la somma 7 + 5 = 12. Tale giudizio
è sintetico in quanto nella semplice unificazione del sette e del cinque non è
implicitamente contenuto il dodici. Per conoscere il risultato della somma, debbo ricorrere
ad una sorta di intuizione, ad esempio, aggiungendo a sette oggetti, uno ad uno, altri
cinque oggetti. Per quanto riguarda le forme a priori che garantiscono i giudizi sintetici a
priori, Kant, abbiamo già accennato, è convinto che ogni esperienza sia il frutto di una
sintesi tra un elemento extrasoggettivo (la materia) e di un elemento soggettivo (la
forma). Sostenere che alla costituzione di un fenomeno d'esperienza concorrono delle
forme soggettive a priori, non ricavate cioè direttamente dall'esperienza, non deve far
pensare però che nel soggetto esista qualcosa di innato paragonabile alle idee di Cartesio.
Quando Kant parla di forme soggettive a priori indica solamente il modo di funzionare
della nostra attività conoscitiva, il nostro modo di dare ordine al materiale proveniente dal
mondo esterno. Per Kant, infatti, non si può parlare di mondo oggettivo, già bello ed
ordinato esistente in sé ed al quale il soggetto si adegua con l'atto conoscitivo, cosí come
volevano gli empirici ingenui; e neppure si può credere alla presenza nell'anima umana di
una serie di idee riproducenti l'ordine reale del mondo e dalle quali analiticamente si può
ricavare ogni verità come volevano i razionalisti metafisici. Kant, operando quella che egli
stesso definisce "la rivoluzione copernicana", sostiene che a dare forma ed ordine ai
contenuti materiali è il soggetto grazie appunto al suo stesso modo di funzionare.
Il paragone dei risultati della sua opera con quelli dell'opera di Copernico fornisce una
chiara indicazione della consapevolezza che Kant stesso possedeva del valore
"rivoluzionario" della sua teoria.
Come la dottrina eliocentrica aveva spostato il centro dell'universo dalla terra al sole, così
il criticismo ha spostato il centro del sapere dal mondo naturale al pensiero. Quest'ultimo
non può essere più considerato lo specchio in cui si riflette un mondo esterno già ordinato,
ma deve essere riconosciuto come attività che, operando sui dati oggettivi, costituisce il
mondo dell'esperienza, il mondo conosciuto dall'uomo.
Una volta accertata la possibilità di formare giudizi sintetici a priori, e quindi la possibilità,
al di là del dommatismo e dello scetticismo, di costruire una scienza universale, necessaria
ed accrescitiva del sapere, si tratta di verificare quando e dove è possibile applicarli.
Poiché i momenti conoscitivi dell'uomo sono la sensibilità,l'intelletto e la ragione (intesa
questa volta non più come conoscenza in generale, ma come momento della conoscenza
distinto dagli altri due), sui quali rispettivamente si fondano la matematica, la fisica e la
metafisica, l'analisi critica esercitata su di essi ci dirà se e come sono possibili una
matematica pura, una fisica pura ed una metafisica come scienza. Le parti in cui si articola
la Critica della ragion pura sono, infatti, l'Estetica trascendentale (l'analisi della
sensibilità), e la Logica trascendentale, quest'ultima divisa in una Analitica trascendentale
(l'analisi dell'intelletto) ed una Dialettica trascendentale (l'analisi della ragione).
La filosofia critica di Kant
Le sensazioni e la matematica
La percezione sensibile di un determinato oggetto è un'apprensione immediata, è cioè una
intuizione, nel senso che non è il risultato di un processo discorsivo dispiegantesi nel
tempo. Nell'aprire gli occhi al mattino io vedo immediatamente gli oggetti presenti nella
mia stanza senza alcun bisogno di pensare, di mettere in atto un processo "discorsivo".
L'intuizione immediata di un oggetto è quella che Kant chiama "intuizione empirica ".
L'oggetto indeterminato di questa intuizione empirica è il fenomeno, ciò che a noi appare
(dal greco phainomenon = apparenza). Nel fenomeno Kant distingue una materia o
contenuto proveniente dalla realtà esterna (il dato dell'esperienza) ed una forma che è il
modo con il quale il soggetto percepisce i contenuti materiali dell'esperienza e per mezzo
del quale li ordina.
Il compito che Kant si prefigge nell'Estetica trascendentale consiste in un'ana1isi
dell'esperienza sensibile (estetica da aisthesis = sensazione) che punti ad individuare gli
elementi formali soggettivi, capaci dì conferire ai contenuti materiali della nostra
esperienza una forma ed un ordine e che spieghi, inoltre, come sia possibile quest'attività
sintetica datrice di forma e di ordine. Questa analisi è detta trascendentale in quanto è
una
conoscenza che si occupa non di oggetti, ma del nostro modo di
conoscenza degli oggetti in quanto questa deve essere possibile a priori.
(Critica della ragion pura, Introd., VIII)
Trascendentale in tal modo è la scienza che studia le forme della conoscenza: queste,
essendo modi di funzionare dell'attività conoscitiva, non sono immanenti nelle cose
materiali e da esse ricavate per via induttiva, ma neppure sono trascendenti l'esperienza,
cioè indipendenti da essa. Sono, invece, la condizione formale perché l'oggetto
d'esperienza, il fenomeno, possa costituirsi.
Con l'Estetica trascendentale, Kant, isolando le "forme" dai contenuti con i quali sono unite
nelle esperienze, le vuole cogliere nella loro purezza e vuole dimostrare che esse, pur non
essendo innate come le idee platoniche o cartesiane, per il fatto che non sono ricavate
dagli oggetti esterni, ma al contrario li condizionano, sono appunto a priori.
Ma quali sono le forme pure a priori della sensibilità? Esaminando una serie di oggetti della
nostra esperienza ci accorgiamo che questi, mentre presentano caratteristiche diverse e
nuove relativamente al contenuto, presentano una caratteristica costante rispetto alla
forma: sono tutti gli uni in rapporto spaziale con gli altri e si susseguono tutti gli uni dopo
gli altri nella nostra percezione sensibile. Sono cioè tutti nello spazio e nel tempo. Ora, dal
fatto che non si può pensare ad alcun oggetto senza pensarlo nello "spazio" e nel "tempo",
mentre si può pensare benissimo ad uno spazio senza oggetti e ad un tempo senza
avvenimenti, si ricava che spazio e tempo non sono entità reali a sé stanti e neppure
qualità appartenenti alle cose in sé e presenti in esse anche quando queste non sono
intuite da un soggetto;
sono tali che appartengono soltanto alla forma dell'intuizione, e per-
ciò alla costituzione soggettiva del nostro spirito, senza la quale cotesti pre-
dicati non potrebbero essere riferiti ad alcuna cosa.
(C.R.P., Estetica trascendentale, I, 1)
Sono, cioè, le forme pure a priori dell'intuizione. Quando un contenuto esterno si presenta
alla mia sensibilità immediata, questa lo inquadra nel tempo e nello spazio, gli conferisce,
cioè, una forma spaziale ed una forma temporale.
Lo spazio, allora,
è una rappresentazione necessaria a priori la quale sta a fondamento
di tutte le intuizioni esterne. Non si può mai formare la rappresentazione
che non vi sia spazio, sebbene si possa benissimo pensare che in esso non
si trovi nessun oggetto. Lo spazio viene dunque considerato come la con-
dizione della possibilità dei fenomeni, non come una determinazione
dipendente da essi; ed è una rappresentazione a priori, la quale è necessa-
riamente a fondamento di fenomeni esterni.
(C.R..P., Estetica trascendentale, I, 2)
Mentre lo spazio è la condizione necessaria di qualsiasi rappresentazione di oggetti
esterni,
il tempo non è altro che la forma del senso interno ... Infatti il tempo
non può essere una determinazione di fenomeni esterni;... determina, al
contrario, il rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno.
(C.R..P., Estetica trascendentale, II, 6)
Ma, in un certo modo, poiché anche i fenomeni esterni producono rappresentazioni nel
nostro senso interno, il tempo può essere considerato la condizione formale a priori di tutti
i fenomeni in generale (esterni ed interni).
A questa dimostrazione, da Kant definita "esposizione metafisica", segue una "esposizione
trascendentale" in cui si mostra come la forma dello spazio sia la condizione a priori della
geometria, la quale, pertanto, si presenta come scienza sintetica a priori, come scienza,
cioè, che grazie ai sempre nuovi contenuti assunti dall'esperienza è accrescitiva del
sapere, e grazie alla intuizione pura a priori dello spazio, intesa come disposizione formale
di tutti i soggetti e quindi valida universalmente e necessariamente, ha valore universale e
necessario. Allo stesso modo si dimostra come la forma del tempo sia la condizione a
priori dell'aritmetica, che si presenta, perciò, anch'essa come scienza sintetica a priori,
accrescitiva dei sapere, in virtù dei contenuti provenienti dall'esperienza, ed universale e
necessaria, perché fondata sulla forma a priori del tempo valida sempre e
necessariamente.
Contro lo "scetticismo" humiano, che non considerava la matematica scienza
universalmente e necessariamente valida, e contro i razionalisti metafisici, che la
consideravano scienza analitica e, quindi, improduttiva, Kant ha dimostrato che la
matematica (geometria più aritmetica) è scienza sintetica a priori, è scienza cioè la cui
validità è universale e necessaria, ma la cui estensione non può superare i limiti
dell'esperienza fenomenica. Senza i contenuti forniti dall'esperienza, la sola disposizione
formale della sensibilità non produce assolutamente alcun sapere.
La filosofia critica di Kant
L'intelletto, i concetti e le categorie
Se l'Estetica trascendentale è riuscita a chiarire la natura ed il limite della conoscenza
sensibile, non per questo ha soddisfatto l'esigenza di comprendere tutto il processo
conoscitivo. La sensibilità come facoltà organizzatrice ed ordinatrice dei contenuti
materiali, nel mentre rende possibile l'intuizione dell'oggetto fenomenico, non ci dice nulla
sulla natura di questo oggetto e sui suoi rapporti con gli altri oggetti. Al di là della
sensibilità c'è, allora, una forma più alta di conoscenza, rappresentata dall'intelletto, cioè
dalla capacità di pronunciare giudizi sugli oggetti dati dall'intuizione sensibile. Per quanto
autonomi, questi due momenti dell'attività conoscitiva non sono separati, né possono
scambiarsi le funzioni; entrambi concorrono alla realizzazione della conoscenza:
Senza sensibilità nessun oggetto ci. sarebbe dato, e senza intelletto
nessun oggetto pensato. I pensieri senza contenuto sono vuoti, le intui-
zioni senza concetti sono cieche ... L'intelletto non può intuire nulla, né i
sensi nulla pensare. La conoscenza non, può scaturire se non dalla loro
unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti.
(C.R..P., Logica trascendentale, Intr., I).
La scienza riguardante le leggi dell'intelletto e della ragione in generale è quella appunto
che Kant chiama Logica trascendentale. Nell'ambito della logica, l'Analitica intende
scoprire le forme a priori con le quali l'intelletto unifica, pensandoli, molteplici dati forniti
dalla sensibilità; la Dialettica, invece, mostra come da parte della ragione ci sia la
tendenza ad abusare delle proprie capacità e ad estendere i concetti dell'intelletto, oltre il
campo dell'esperienza.
La sensibilità, con la sintesi a priori empirica, fornisce i dati fenomenici su cui l'intelletto
esercita il suo potere conoscitivo pensando quei dati ed esprimendo giudizi.
I giudizi sono possibili in quanto l'intelletto, nel pensare gli oggetti, utilizza le sue capacità,
quelle forme pure a priori che sono i concetti: "pensare, infatti, è la conoscenza per
concetti". I concetti sono allora le funzioni di cui si serve l'intelletto per ordinare
l'esperienza sensibile, per ridurre, cioè, una molteplicità di rappresentazioni sotto una
rappresentazione comune, come quando ad esempio affermo: tutti questi fenomeni
(colore, estensione, durezza, ecc) formano un tavolo. I concetti, quindi, sono i predicati di
ogni possibile giudizio. Essi sono puri a priori, in quanto, come modi di funzionare
dell'intelletto non hanno niente di empirico e non sono ricavati dall'esperienza. Questi
concetti sono da Kant chiamati aristotelicamente categorie, che significa, appunto,
predicati. Ma mentre per Aristotele le categorie, oltre ad essere modi del pensiero, erano
anche modi della realtà, per Kant esse sono soltanto le funzioni, cioè le forme a priori,
dell'intelletto. Nella logica aristotelica il pensiero e la realtà hanno la stessa struttura: ad
esempio al concetto di causalità nel pensiero corrisponde una causalità reale negli oggetti
esterni. Nella logica trascendentale, invece, le categorie sono soltanto funzioni logiche,
sono le forme pure a priori con cui l'intelletto dà ordine ai dati dell'esperienza.
Ma come si determinano le categorie? Poiché le categorie rappresentano i predicati di tutti
i possibili giudizi, per determinare le categorie dobbiamo procedere all'esame dei giudizi.
Ci saranno tante categorie quante sono le forme in cui i giudizi possono essere classificati.
Se noi facciamo astrazione da tutto il contenuto di un giudizio in
generale, e badiamo soltanto alla semplice forma dell'intelletto, troviamo
che in esso la funzione del pensiero può ridursi sotto quattro titoli, cia-
scuno dei quali comprende sotto di sé tre momenti. E si possono acconcia-
mente rappresentare nella seguente tavola:
1 Quantità dei giudizi. Universali Particolari Singolari
2. Qualità. Affermativi. Negativi. Infiniti
4. Relazione. Categorici. Ipotetici. Disgiuntivi.
4. Modalità. Problematici Assertori Apodittici
(C.R.P., Analitica trascendentale, I, I, 9)
1 Categorie della quantità. Unità Pluralità Totalità
2. Della qualità. Realtà Negazione. Limitazione.
3 Della Relazione. Sostanzialità Causalità Reciprocità
4 Della Modalità. Possibilità Esistenza Necessità
Le categorie sono, allora, i modi con cui l'intelletto pensa la realtà e formula i giudizi.
Quando in un giudizio, ad esempio, predichiamo di un oggetto l'unità e la sostanzialità e
diciamo che esso è la causa di un determinato evento, non esprimiamo con questi concetti
qualità appartenenti all'oggetto in sé, indipendentemente dal soggetto che lo pensa, ma,
grazie al modo di funzionare del nostro intelletto, sintetizziamo in un concetto unitario (la
categoria) la molteplicità dei fenomeni offerti dalla sensibilità. Kant, riducendo tra l'altro la
sostanza e la causa a categorie dell'intelletto, nega completamente la visione di una
natura avente in sé una serie di leggi assolute, tra cui la causalità, operanti
indipendentemente dal soggetto; e supera anche la soluzione humiana secondo la quale la
causalità non è una legge operante nella realtà, ma soltanto il frutto dell'abitudine mentale
derivante dalla ripetuta costatazione che due eventi per il passato si sono "sempre"
presentati l'uno conseguente all'altro. Per Kant la natura non è costituita da realtà
sostanziali regolate da leggi assolute, non è un mondo esistente ordinato
indipendentemente dal soggetto e su cui i nostri pensieri si modellano, ma è un mondo di
fenomeni, di realtà, cioè, il cui costituirsi nel campo della conoscenza esige la
partecipazione della sensibilità e dell'intelletto umani. E' la mente umana come facoltà
generale del sentire e del pensare che fornisce ai dati oggettivi le forme spaziali e
temporali e che ordina poi i fenomeni così costituiti secondo una serie di operazioni
mentali frutto del modo di funzionare dell'intelletto.
Ma che cosa ci assicura che tutti i fenomeni debbano necessariamente sottostare alle
categorie? Come facciamo a sapere a priori che i fenomeni sono soggetti alle leggi
espresse dai modi di funzionare dell'intelletto? E' chiaro che non possiamo fare appello
all'esperienza, perché in tal caso non sarebbe neutralizzata l'obiezione humiana negante
validità universale e necessaria a quanto sperimentato per il passato. C'è bisogno allora di
una giustificazione trascendentale, di una dimostrazione di principio, capace di mostrare
che necessariamente deve avvenire in questo modo e non altrimenti. Kant osserva che
intanto è possibile la sintesi di fenomeno e categoria in un giudizio, in quanto si
presuppone un'unità più profonda. Questa unità profonda condizionante tutta l'attività
conoscitiva è da Kant chiamata "Io penso": questo è il centro di ogni attività conoscitiva
dell'uomo, e grazie ad esso esiste un mondo dei fenomeni:
L'unità sintetica della ' coscienza [io penso] è dunque una condizione
oggettiva di ogni conoscenza, della quale non soltanto io stesso ho bisogno
per conoscere un oggetto, ma alla quale deve sottostare ogni intuizione per
divenire oggetto per me, poiché in ogni altro modo, e senza questa sintesi, il
molteplice non si unificherebbe in una coscienza.
(C.R.P., Analitica trascendentale, I, II, 18)
L'Io penso, chiamato anche appercezione trascendentale, non va confuso con la coscienza
particolare del singolo individuo, con la psiche umana: esso è la condizione universale,
normativa di ogni
esperienza possibile. E' l'Io penso, infatti, che, con i suoi modi universali, necessari ed a
priori, connette i fenomeni e fornisce leggi universali e necessarie alla natura: è il
legislatore della natura.
L'unificazione [dei fenomeni] non è dunque negli oggetti, e non può
essere considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione,
ma è soltanto una funzione dell'intelletto, il quale non è altro che la
facoltà di unificare a priori e di sottoporre all'unità della appercezione il
molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di
tutta la conoscenza umana.
(C.R.P., Analitica trascendentale, I, II, 16)
Con l'Analitica trascendentale si è completata la "rivoluzione copernicana" operata da Kant
in filosofia. Il mondo fenomenico non solo riceve dal soggettivo modo di funzionare della
sensibilità la forma spaziale e quella temporale, ma dal modo di funzionare dell'intelletto
riceve anche le leggi fisiche. Le categorie della relazione e della modalità che Kant chiama
"dinamiche", conferendo validità universale e necessaria ai rapporti tra i fenomeni,
garantiscono la scientificità della fisica. Questa, infatti, è frutto di una sintesi a priori tra il
fenomeno, garante dell'arricchimento continuo dei contenuti, e le categorie a priori
dell'intelletto, garanti dell'universalità e della necessità delle leggi. Universalità e
necessità, valide, però, soltanto sul piano dei fenomeni. In assenza dei fenomeni, cioè
della concreta esperienza, l'uso delle categorie è completamente gratuito e privo di
significato scientifico. Il che significa che la mente può conoscere soltanto il mondo
fenomenico, il mondo così come appare al soggetto, mentre invece non può in alcun modo
pensare di conoscere con rigore scientifico il mondo che si presume esista in sé, ossia al di
là di come appare a noi. La "cosa in sé" è puramente pensabile, ma non conoscibile. Il
noumeno (dal greco noumenon = pensato) non può essere conosciuto scientificamente. La
scienza ha come campo d'azione soltanto il mondo dell'esperienza, il mondo dei fenomeni.
Con l'estetica e l'analitica trascendentali Kant ha segnato una tappa importante sulla
strada della ricerca scientifica e filosofica. Ha mostrato chiaramente come ogni processo
conoscitivo ha bisogno di presupporre l'esistenza di un "mondo delle cose" da cui attingere
i contenuti del sapere. Ma contemporaneamente ha mostrato anche la struttura attiva e
produttiva della mente umana. Il sapere per Kant non è, infatti, il frutto di un
rispecchiamento passivo da parte della mente di principi e leggi operanti in un mondo già
tutto ordinato ed esistente in sé, indipendentemente dall'uomo. Questo mondo "reale in
sé" è inconoscibile. L'uomo, infatti, non conosce le cose per come esse sono, ma per come
appaiono ai suoi sensi ed al suo intelletto. Ma, pur negando la possibilità di conoscere il
"mondo reale" e pur sostenendo che i contenuti empirici sono organizzati dalle forme
soggettive della sensibilità e dell'intelletto, Kant non ha ceduto alle lusinghe di un
atteggiamento quale sarà dopo di lui, quello idealistico, che, considerando il mondo come
produzione dello spirito, lo riduce a pura " rappresentazione ideale " priva di ogni
consistenza fattuale. L'aver rivendicato l'esistenza di una "cosa in sé", lungi dal
rappresentare la conservazione di un "residuo dommatico" in una filosofia peraltro
"critica", come diranno gli idealisti a lui posteriori, rappresenta, invece, il riconoscimento
della concretezza del mondo, la fiducia nell'esistenza di un "mondo reale", di cui la ragione
umana coglie, attraverso la conoscenza, "l'immagine fisica". La scienza in tal modo, pur
essendo una costruzione della mente umana, non si riduce a schema puramente
soggettivo, a costruzione intellettuale puramente formale. Solo salvaguardando l'esistenza
di un "mondo reale" da cui attingere i contenuti del sapere, Kant ha potuto dimostrare la
possibilità di una scienza che, oltre a garantire l'universalità e la necessità delle sue leggi,
può garantire anche il continuo arricchimento dei suoi contenuti; di una scienza, cioè, non
condannata ad esibirsi in sterili tautologie, in cui ogni affermazione è una ripetizione della
precedente, ma costituita da un sistema di conoscenze in continuo sviluppo, proiettato
verso sempre nuove acquisizioni.
Kant inoltre, includendo tra le categorie dell'intelletto la causalità, ha contribuito
fortemente a stabilire le condizioni necessarie per poter considerare scientifico un discorso
sulla natura. Senza il postulato della causalità e, quindi, senza la fiducia nella inderogabile
necessità della successione dei fenomeni fisici, non è affatto possibile la costruzione di una
scienza. Questa, infatti, deve poter essere considerata una conoscenza in perenne
evoluzione di fenomeni concatenati secondo il principio della causalità e, quindi, della
necessità, se non vogliamo scivolare sulle posizioni "scetticheggianti" di chi sostiene che
all'uomo non è dato conoscere, ma soltanto "congetturare".
La filosofia critica di Kant
La ragione, l'anima, il mondo e Dio
Le forme pure dell'intelletto, le categorie, trovano un'applicazione legittima soltanto sul
piano fenomenico, hanno valore soltanto quando sintetizzano esperienze sensibili. Ma
nella stessa natura umana è radicata la tendenza ad usare queste forme anche al di fuori
dell'esperienza:
Poiché è molto seducente e pieno di attrattiva servirsi di queste cono-
scenze intellettuali e principi puri da soli, e anche oltre i limiti dell'espe-
rienza, la quale solamente, per altro, può fornire la materia (gli oggetti) a
cui quei concetti puri dell'intelletto possono essere applicati; così l'intel-
letto corre il rischio di fare, con vari sofismi, un uso materiale di quelli che
sono soltanto principi formali dell'intelletto puro, e di giudicare indifferen-
temente gli oggetti che non ci sono affatto dati, anzi probabilmente non
possono esserci dati in alcun modo.
(C.R.P., Logica trascendentale, Introd., IV)
Questo tentativo di cogliere, al di là dei fenomeni, la "cosa in sé" è analizzato da Kant
nella Dialettica trascendentale, laddove per dialettica si intende una falsa logica o una
"logica dell'apparenza". A compiere questo tentativo è la ragione, cioè la facoltà con la
quale si pretende di usare le categorie dell'intelletto fuori da ogni condizionamento
fenomenico per tentare di raggiungere l'incondizionato, l'assoluto, la totalità. Sorgono così
nella ragione tre idee: l'idea dell'anima considerata come sostanza spirituale semplice;
l'idea del mondo considerato come totalità in sé dalla quale emergono i contenuti
particolari delle nostre rappresentazioni; l'idea di Dio come totalità incondizionata. La
ragione pretende di giustificare queste sue pretese razionalmente e presume di costruire
tre scienze: la psicologia razionale, la cosmologia razionale e la teologia razionale.
Nel tentativo di costituire la prima scienza, la ragione dialettica si serve di un falso
ragionamento, di un paralogismo. Infatti, trasforma in una sostanza l'Io penso, una pura
attività sintetizzatrice che ha bisogno, per svolgere la sua funzione, dei contenuti
fenomenici. L'io penso, con le sue categorie, infatti, può pensare tutto, ma non può
pensare se stesso come sostanza, perché dovrebbe porsi contemporaneamente come
fenomeno e come attività sintetizzatrice:
Il pensiero, preso per sé, è puramente la funzione logica; quindi mera
spontaneità dell'unificazione dei molteplice di una intuizione puramente
possibile, e non ci mette innanzi, a nessun patto, il soggetto della coscienza
come fenomeno.
(C.R.P., Dialettica trascendentale, II, I)
La psicologia, pertanto, non è possibile come scienza.
La ragione si imbatte in analoghe difficoltà quando cerca di costituire una cosmologia
razionale:
Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente agli
oggetti dell'esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti
di questa, allora vengono fuori proposizioni sofistiche, che dall'esperienza
non possono né sperare conferma, né temere confutazioni; ciascuna delle
quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino
nella natura della ragione le condizioni della sua necessità, solo che, disgra-
ziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e neces-
sarie di affermazione.
(C.R.P., Dialettica trascendentale, II, II, sez. II)
La ragione allora si impania nelle seguenti antinomie, o contraddizioni di tesi e di antitesi,
senza avere la possibilità di accreditare l'una come vera, scartando l'altra come falsa: I
tesi: il mondo ha origine nel tempo ed è finito nello spazio; antitesi: il mondo non ha
origine nel tempo, né è finito nello spazio - II tesi:ogni sostanza composta consta di parti
semplici; antitesi : nessuna sostanza composta consta di parti semplici - III tesi: la
causalità secondo le leggi della natura non è la sola da cui possono essere derivati tutti i
fenomeni, esiste anche una causa libera; antitesi: non c'è nessuna libertà, ma tutto nel
mondo accade unicamente secondo leggi della natura - IV tesi: nel mondo o fuori di esso
c'è un essere assolutamente necessario - antitesi: in nessun luogo esiste un essere
assolutamente necessario, né nel mondo, né fuori del mondo, come sua causa.
La ragione non approda a nessuna conclusione credibile sul piano della scienza, neppure
quando cerca di formulare una teologia razionale. Kant passa in rassegna le prove
tradizionali dell'esistenza di Dio (ontologica, cosmologica e fisico-teologica) e ne mette in
luce gli errori e la mancanza di rigore scientifico.
La prova ontologica parte dal concetto dell'essere "realissimo", che per essere realissimo
non può mancare dell'esistenza; poiché un essere realissimo può essere pensato in quanto
il suo concetto non implica contraddizione, allora necessariamente deve essere
considerato esistente. Contro questa affermazione Kant precisa che, poiché un giudizio di
esistenza è sempre un giudizio sintetico, esso è possibile solo sul piano dell'esperienza. Il
passaggio dal pensiero all'essere rappresenta un salto ingiustificato. Si può, infatti,
benissimo pensare di arricchirsi, ma non per questo ci si arricchisce. Un'obiezione analoga
aveva mosso il monaco Gaunilone a S. Anselmo d'Aosta quando questi per la prima volta
aveva formulato la prova ontologica. Chi ritiene di poter dedurre dalla definizione di una
cosa la esistenza di essa - sosteneva il monaco medievale - ragiona come chi pensa di
poter dedurre dal concetto di isola perfettissima l'esistenza di questa isola. Oltre a
Gaunilone, avevano criticato la prova ontologica, prima di Kant, Alberto Magno e S.
Tommaso D'Aquino, mentre invece l'avevano accolta, rielaborandola, Cartesio, Leibniz,
Wolff poi, dopo Kant, l'accoglierà, integrandola ovviamente nel suo sistema, l'idealista
Hegel.
La prova cosmologica, a sua volta, sostiene che " se esiste qualcosa, deve anche esistere
un essere necessario"; ma Kant obietta che questo passaggio dal contingente all'assoluto
non è per niente necessario, ed, inoltre, l'argomento cosmologico in realtà si serve ancora
di quello ontologico già confutato. Allo stesso scacco va incontro la prova fisico-teologica,
che, dall'ordine del mondo, vuole risalire all'esistenza di un essere ordinatore e creatore;
anch'essa, infatti, fa un salto dal piano dell'essere a quello del pensiero.
La terza verifica, intesa ad accertare la possibilità della metafisica a costituirsi come
scienza, si chiude con esito negativo: la metafisica, nonostante tutti gli sforzi dei suoi
difensori, non è scienza. La naturale tensione dell'uomo a varcare i confini del mondo
fenomenico per tentare di cogliere il noumeno, la "cosa in sé", è destinata allo scacco sul
piano scientifico. Rimane così confermato
che tutti i nostri ragionamenti, i quali vogliono condurci al di là del
campo dell'esperienza possibile, sono fallaci e senza fondamento.
(C.R.P., Dialettica trascendentale, Appendice)
Ma se le idee della ragione sono inidonee a fornirci concetti della totalità spirituale
(anima), della totalità cosmica (il mondo) e della totalità incondizionata (Dio), cui
corrispondano effettivamente delle entità reali, non per questo esse non svolgono una
qualche funzione sul piano conoscitivo. Le idee infatti, indicando un ideale che varca il
confine di ogni esperienza possibile, spingono l'intelletto a non accontentarsi mai
dell'acquisito ed a puntare ad una conoscenza scientifica sempre più ampia. L'"illusione"
della dialettica, allora
è tuttavia inevitabilmente necessaria, se oltre agli oggetti che ci sono
innanzi agli occhi, vogliamo vedere insieme anche quelli che ci stanno lon-
tani, alle spalle, cioè se, nel nostro caso, vogliamo portare l'intelletto al di
là di ogni esperienza data (parte della totale esperienza possibile), quindi,
anche alla maggior estensione possibile ed estrema.
(C.R.P., Dialettica trascendentale, Appendice)
Le idee di anima, mondo e Dio svolgono soltanto una funzione regolativa, una sorta di
incitamento dell'intelletto perché estenda il suo sapere. Si delinea, in tal modo, una
validità "morale" della tensione metafisica.
La filosofia critica di Kant
La legge e i postulati della ragion pratica
L'esame della teoria della conoscenza, con la conseguente individuazione delle forme a priori del conoscere, risulta perfettamente compiuta nella Critica della ragion pura. I risultati più significativi conseguiti con questo esame consistevano nell'affermazione che a dare ordine e regolarità all'esperienza non erano affatto i contenuti empirici esistenti, in sé, fuori ed indipendentemente dal soggetto conoscente, ma le forme pure a priori che, prive di qualsiasi validità scientifica se usate indipendentemente dai contenuti empirici, erano dei modi di funzionare della sensibilità e dell'intelletto del soggetto. La conclusione ovvia di questa costatazione era il riconoscimento che l'attività conoscitiva non limitava la sua validità alle singole esperienze, ma la estendeva a tutte le esperienze possibili. Il variare dei contenuti empirici, infatti, non condiziona per niente il modo di conoscere della ragione. Il soggetto sente sempre un contenuto esperienziale inquadrandolo nello spazio e nel tempo e lo analizza sempre utilizzando le categorie dell'intelletto. Concluso l'esame dell'attività conoscitiva, Kant vuole verificare se è possibile trovare anche per l'attività pratica della ragione un fondamento assoluto, incondizionato, tale, cioè, da sottrarre il comportamento morale degli uomini alla incertezza e alla variabilità delle situazioni particolari e contingenti. Insoddisfatto dell'intellettualismo etico di Wolff che pretendeva di fondare la vita morale sul principi della pura razionalità, Kant si avvicina alle teorie dei "sentimentalisti" inglesi e di David Hume. Ma se ne allontana ben presto, deluso dal restringimento operato da questi delle analisi morali alla semplice sfera della psicologia, troppo legata, quest'ultima, ai sentimenti ed alle emozioni del singolo soggetto e quindi incapace di fondare una considerazione universale del problema morale. Si sente attratto, invece, dalle analisi di
Rousseau che, pur basando la morale sul sentimento, sgancia quest'ultimo dalla sfera della psicologia individuale e lo radica nella natura universale dell'uomo, in quella " dignità umana " propria di ogni soggetto ed indipendente dalla estensione della sua cultura e dalla raffinatezza della sua educazione. L'esame dei problema morale è condotto da Kant, una prima volta ed in una forma espositiva molto accessibile, nei Fondamenti della metafisica dei costumi (1785). In quest'opera la ricerca riguarda la "questione di fatto", si riferisce, cioè, al comportamento morale nella sua concretezza fattuale per individuare le condizioni che lo determinano. Nella Critica della ragion pratica (1788), invece, le analisi ineriscono alla "questione di diritto", partono cioè dai principi pratici per determinare in conformità con essi i concetti di "bene" e di "male". Un procedimento di tal genere è possibile soltanto in quanto Kant risponde positivamente alla domanda se è possibile trovare un fondamento assoluto della morale, un fondamento, cioè, non collegato né con la realtà in sé, che è inconoscibile, né con le inclinazioni psicologiche dei singoli soggetti, che sono particolari e mutevoli. I principi fondamentali della morale sono connessi direttamente con le strutture trascendentali della ragione e, pertanto, sono universalmente validi. Il compito della "critica" della ragion pratica consiste proprio nel
distogliere la ragione, condizionata empiricamente, dalla pretesa di dare essa sola, esclusivamente, il motivo determinante della volontà.
(Critica della ragion pratica, Introduzione)
Se l'uomo non possedesse già a priori principi della moralità non potrebbe mai qualificare come morale o immorale una determinata azione;
ogni esempio, infatti, che mi venga offerto, deve esso stesso essere preventivamente giudicato secondo i principi di moralità, per poter accer- tare se è degno di servire da esempio fondamentale, o, in altre parole, da modello: nessun esempio, da sé, può fornire il concetto di moralità.
(Fondamenti della metafisica dei costumi, II, 4)
La legge morale universale e necessaria, si fonda, dunque, sulla struttura stessa della ragione e non sui contenuti empirici dell'esperienza quotidiana. Proprio per questo motivo la legge morale è puramente formale, è priva di qualsiasi contenuto "positivo". Essa, infatti, non prescrive i contenuti delle azioni da fare, del comportamento da tenere, ma soltanto la "forma", il modo in cui bisogna agire. Un'azione conforme alla legge morale non è ispirata da nessun principio "materiale", quali possono essere i principi derivanti dall'educazione ricevuta (principi soggettivi esterni), o dal sentimento (soggettivi interni), o da un codice di leggi religiose o civili (oggettivi esterni), oppure da una vaga idea di perfezione (oggettivi interni). Essa è ispirata soltanto dal "principi pratici" della ragione che Kant così definisce:
I principi pratici sono proposizioni che contengono una determina- zione universale della volontà, la quale ha sotto di sé parecchie regole pra- tiche. Essi sono soggettivi, ossia massime, se la condizione viene considerata dal soggetto valida soltanto per la sua volontà; ma oggettivi, ossia leggi pra- tiche, se la condizione viene riconosciuta come oggettiva, cioè valida per la volontà di ogni essere razionale. (Critica della ragion pratica, I, I, 1)
Da questa definizione dei "principi pratici" risulta evidente il ruolo determinante svolto dal soggetto nella qualificazione dei principi stessi. Dalla sua considerazione dipende, infatti, se essi valgono soltanto come massime, cioè limitatamente alla sua volontà, o come leggi, cioè tali da valere per tutti gli esseri razionali. La possibilità che gli stessi principi possano essere considerati in modi differenti deriva dal fatto che la volontà dell'uomo non è determinata soltanto dalla ragione, ma anche dalla "facoltà del desiderio". Se il comportamento dell'uomo fosse determinato soltanto dalla ragione avremmo una sorta di moralità naturale, spontanea, che non esigerebbe, per affermarsi, nessuna scelta e nessuno sforzo da parte dell'uomo. Così pure se la volontà umana fosse determinata soltanto dalla "facoltà del desiderare", avremmo in effetti un comportamento istintivo. sordo ad ogni comando della ragione e quindi completamente estraneo alla morale:
Ma per un essere, per cui il motivo determinante della volontà non è unicamente la ragione, questa regola è un imperativo, cioè una regola che viene caratterizzata mediante un dovere esprimente la necessità oggettiva dell'azione. (ivi)
La regola pratica si caratterizza allora come comando, come imperativo che la volontà umana deve ascoltare perché è in condizione di poter ascoltare. L'uomo che voglia tenere un comportamento morale, pur potendo ascoltare indifferentemente la ragione o il desiderio, deve aderire all'imperativo che proviene direttamente dalla ragion pratica. Ma l'imperativo, quando determina la volontà in vista della realizzazione di un fine particolare da noi desiderato, si qualifica come imperativo ipotetico, come imperativo la cui validità è in rapporto al desiderio di conseguire un determinato effetto: ad esempio "se vuoi essere lodato, onora la parola data". Questi imperativi ipotetici, pur essendo dei "precetti pratici", non possono mai aspirare ad essere leggi. Essi sono validi soltanto nel caso particolare che si voglia realizzare l'ipotesi in questione; sono, pertanto, principi "empirici", non universali ed, in ultima analisi, rispondenti all'amor proprio del soggetto agente, ossia alla " propria felicità ". Al contrario l'imperativo categorico non prevede la realizzazione di alcun fine particolare esterno, esso
dev'essere indipendente da condizioni patologiche, quindi da condi- zioni che aderiscono accidentalmente alla sua volontà ... Affinché la ragione possa dare leggi, si richiede che essa abbia bisogno di presupporre sem- plicemente se stessa, perché la regola è oggettiva e universalmente valida solo
quando vale senza le condizioni accidentali e soggettive che distinguono un essere razionale da un altro ... Il semplice volere è ciò che dev'essere determi- nato interamente a priori mediante quella regola. (ivi)
L'imperativo categorico determina la volontà, dunque, non secondo i contenuti, ma semplicemente secondo la forma. Non si impone perché propone la realizzazione di questo o di quel fine particolare esterno all'imperativo stesso, ma per se stesso, per la sua validità di legge universale. Nell'adesione disinteressata alla legge espressa dall'imperativo categorico cioè nella semplice " volontà buona ", consiste la moralità. Morale, allora, non è quell'azione che punta a realizzare un fine particolare, frutto del desiderio del soggetto agente, ma soltanto quell'azione che si rivela conforme alla legge. Neppure il desiderio della felicità può determinare una azione morale. Esso, pur essendo universale, cioè proprio di ogni persona, produce effetti completamente opposti alla concordia universale; produce, infatti, disarmonia e guerra, in quanto i soggetti, desiderando realizzare lo stesso fine, entrano in contrasto. Ma quale deve essere la natura di una volontà che si lascia determinare soltanto dalla pura "forma" della legge, indipendentemente dai contenuti empirici e dai fini particolar che essa permette di realizzare?
Siccome la semplice forma della legge non può essere rappresentata se non dalla ragione, e quindi non è oggetto dei sensi. e per conseguenza non appartiene nemmeno ai fenomeni, ... una tale volontà dev'essere consi- derata come affatto indipendente dalla legge naturale dei fenomeni, cioè dalla legge di causalità degli uni rispetto agli altri. Ma una tale indipen- denza si chiama libertà nel senso più stretto, cioè trascendentale. Dunque una volontà a cui la semplice forma legislativa delle massime [cioè la legge nella sua formalità] può servire di legge, è una volontà libera. (Critica della ragion pratica, I, I, 5)
L'uomo, dunque, grazie alla formalità della legge morale, scopre in sé la libertà che altrimenti gli sarebbe rimasta sconosciuta. Egli, infatti, s'accorge di possedere una volontà libera soltanto quando comprende di poter essere determinato ad agire non da un fenomeno che, come tale, è comprensivo di contenuto ed è soggetto alla legge della causalità necessitante, ma dalla sola ragione, dalla pura "forma" della legge. L'imperativo categorico, infatti, prescrive soltanto il modo in cui bisogna agire, ma non cosa bisogna fare. La prima formula dell'imperativo categorico, o legge fondamentale della ragion pratica, suona, infatti:
Agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale. (Critica della ragion pratica, I, I, 7)
Il comando espresso dalla legge impone, perché l'azione sia morale, che la norma soggettiva, ossia la massima ispiratrice delle azioni dell'uomo possa sempre essere considerata da tutti gli altri come legge universale.
La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto della ragione, non perché si possa dedurre per ragionamento da dati prece- denti della ragione, ma perché essa ci s'impone per se stessa come proposi- zione sintetica a priori; ... essa non è empirica, ma è il fatto particolare della ragion pura, la quale per essa si manifesta come originariamente legislativa (sic volo, sic iubeo). (ivi)
Ciò che vale per me vale per tutti gli altri esseri ragionevoli, ognuno dei quali si pone come fine ultimo la realizzazione completa della sua natura razionale, cioè della sua umanità. Da qui deriva la seconda formula dell'imperativo, categorico:
Agisci in modo da trattare l'umanità tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro sempre come fine e mai come mezzo.
(Fondamenti della metafisica dei costumi, II, 15)
L'universalità del fine accomuna gli uomini in quanto soggetti morali, in una unione retta da comuni leggi oggettive, cioè in un "regno che può dirsi un regno dei fini" al quale ogni essere ragionevole appartiene come membro che vi detta leggi universali, ma anche come suddito che si assoggetta ad esse. Perché possa dettare una legislazione universale, ogni soggetto deve poterla produrre con la sua stessa volontà. La terza formula dell'imperativo categorico, suona, infatti:
Agisci in modo che la volontà, mediante la sua massima, possa consi- derare se stessa come universalmente legislatrice.
(Fondamenti della metafisica dei costumi, II, 17)
La volontà si rivela, perciò, autonoma, capace cioè di dettare a se stessa una legislazione, indipendentemente da ogni oggetto esterno e da ogni contenuto empirico. In tal modo si riconferma la natura libera della volontà, e si sconfessano tutte le morali eteronome (da nómos = legge e éteros = altro), di tutte le morali, cioè, il cui movente è fuori dalla ragione del soggetto agente. La morale autonoma, inoltre, è di più facile identificazione e i suoi precetti possono essere soddisfatti più facilmente dei precetti delle morali eteronome:
Ciò che sia da fare secondo il principio dell'autonomia del libero arbitrio, l'intelletto più volgare lo vede facilmente e senza alcun dubbio; ciò che sia da fare con la supposizione dell'eteronomia di esso, è difficile e
richiede la cognizione del mondo; cioè che cosa sia dovere si presenta da sé a ciascuno: ma che cosa apporti un vantaggio vero e duraturo è sempre, se questo vantaggio deve essere esteso all'intera esistenza, avvolto in un'oscurità impenetrabile ... Soddisfare il comando categorico della mora- lità è sempre in potere di ognuno; soddisfare al precetto empiricamente condizionato della felicità non è possibile neanche rispetto ad un unico scopo. (Critica della ragion pratica, I, I, 8)
Da dove nasce il senso del "dovere" che ci spinge a realizzare la pura legge formale e a considerare come non morale e non virtuoso qualunque altro comportamento motivato dalle inclinazioni al piacere, alla felicità? Qual è l'origine di questo " dovere " che, pur non contenendo niente di piacevole che implichi lusinga, chiede la sottomissione?
Non è altro che la personalità, cioè la libertà e l'indipendenza dal meccanismo di tutta la natura, considerata però nello stesso tempo come facoltà di un essere soggetto a leggi speciali, e cioè a leggi pure pratiche, date dalla sua propria ragione; e, quindi, la persona, come appartenente al mondo sensibile, è soggetta alla sua propria personalità, in quanto appar- tiene nello stesso tempo al mondo intellegibile.
(Critica della ragion pratica, I, III)
L'uomo, allora, necessitato in quanto soggetto conoscente, è libero in quanto soggetto agente. E' fenomeno, e quindi condizionato, nell'uso del suo intelletto; è invece, noumeno, e quindi libera attività, nell'uso della sua volontà. La presenza della legge morale nella ragione, indipendentemente da ogni esperienza empirica, permette di riconoscere nell'uomo, la libertà. Non avrebbe alcun senso, infatti, il riconoscimento della presenza della legge nella ragione, se poi l'uomo condizionato causalisticamente da motivazioni psicologiche o materiali non potesse ottemperarvi, se cioè non fosse libero di aderire ad essa e realizzarla. La virtù, espressione dell'atteggiamento morale, consiste, allora, nell'adesione completa alla pura legge, nell'agire avendo come unico movente l'imperativo categorico. Ma la virtù per se stessa, pur rappresentando il bene supremo, non realizza affatto il sommo bene. Non sarebbe, però, compatibile con la legge di perfezione negare la felicità ad un essere che, per essere virtuoso, se ne sia reso degno. Una cosa, infatti, è fare del desiderio della felicità il movente principale delle nostre azioni, un'altra cosa è invece aderire al dovere per il dovere, essere cioè virtuosi e meritare quindi anche la felicità. Virtù e felicità insieme costituiscono il sommo bene. La realizzazione di questo "sommo bene" esige la conformità completa delle intenzioni del soggetto agente con la legge morale:
Ma la conformità completa della volontà con la legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza; ... essa può essere trovata soltanto in un progresso che va all'infinito verso quella conformità
completa, ... ma questo progresso infinito è possibile solo supponendo una esistenza che continui all'infinito e una personalità dello stesso essere razionale (la quale si chiama l'immortalità dell'anima). Dunque, il sommo bene, praticamente, è possibile soltanto con la supposizione dell'immorta- lità dell'anima; quindi, questa, come legata inseparabilmente con la legge morale, è un postulato della ragion pura pratica.
(Critica della ragion pratica, II, II, 4)
Il postulato dell'immortalità. dell'anima garantisce, però, soltanto la possibilità di realizzare pienamente la moralità, non di raggiungere anche la felicità. La possibilità di conseguire il "sommo bene" esige resistenza di Dio inteso come
causa di tutta la natura, differente dalla natura, la quale causa con- tenga il principio di questa connessione, cioè dell'accordo esatto della feli- cità con la moralità. (Critica della ragion pratica, II, II, 5)
La libertà, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio sono i tre postulati che fondano la speranza di raggiungere il "sommo bene".
Questi postulati non sono dommi teoretici, ma supposizioni da un punto di vista necessariamente pratico, e quindi non estendono la cono- scenza speculativa, ma danno alle idee della ragione speculativa in genere (mediante la loro relazione con ciò che è pratico) realtà oggettiva, e le giu- stificano come concetti, la cui possibilità altrimenti essa non potrebbe neanche presumere di affermare.
(Critica della ragion pratica, II, II, 6)
I postulati, quindi, non dimostrano affatto la realtà della libertà, dell'anima immortale e di Dio, non estendono per niente la conoscenza che su questi problemi la ragione speculativa ha conseguito. Essi permettono soltanto alla più alta aspirazione umana, consistente nella fiducia di conseguire congiuntamente la virtù e la felicità, cioè il " sommo bene ", di trovare una giustificazione pratica, di credere nella possibilità di una sua completa realizzazione. Grazie ad essi si verifica quel primato della ragion pratica che giustifica il superamento pratico dei limiti imposti dalla ragione specu1ativa, la fondazione della moralità ed, in definitiva, la speranza dell'uomo di essere egli stesso libero artefice della propria felicità.
La filosofia critica di Kant
Il sentimento, il bello, il sublime e la finalità
Nelle due opere esaminate, la Critica della ragion pura e la Critica della ragion pratica,
Kant ha studiato " criticamente " due aspetti fondamentali dell'attività umana: quello
conoscitivo e quello morale. Nella prima ha evidenziato la struttura trascendentale della
mente umana ed è giunto alla conclusione che il soggetto conoscente con le forme a priori
della sensibilità e dell'intelletto fornisce alla natura un ordine necessario ed universale. La
conoscenza scientifica del mondo, come già dicemmo, è il prodotto dì una sintesi a priori
tra le forme soggettive ed i contenuti esterni. Il soggetto, però, in questa prospettiva, pur
essendo il "legislatore della natura", è necessariamente condizionato dalla realtà sensibile.
Il suo potere conoscitivo si esercita soltanto nell'ambito dei fenomeni. Ogni tentativo di
varcare i limiti del fenomenico, per cercare di afferrare la struttura noumenica degli
oggetti, cioè il loro essere in sé, al di là del modo in cui essi si presentano al soggetto, è
risultato vano e contraddittorio.
Nei limiti dell'attività conoscitiva, il soggetto risulta, dunque, vincolato alla regolarità
necessaria degli eventi fenomenici le cui rigorose leggi meccanicistiche, escludenti ogni
forma di "libertà", egli stesso fonda e garantisce.
Nella seconda opera, la Critica della ragion pratica, Kant ha analizzato, invece, l'attività
morale dell'uomo. In questa sede ha mostrato come l'io pratico, nella formazione delle sue
leggi, non è necessitato da alcuna realtà fenomenica e da alcuna tensione psicologica
indirizzata alla realizzazione di fini particolari estranei all'esercizio del dovere per il dovere.
La ragione nell'uso pratico formula in modo assoluto, cioè senza alcuna limitazione ad essa
estranea, una legge morale universale, l'imperativo categorico. Si rivela in tal modo una
ragione libera, svincolata da ogni condizionamento di natura oggettiva o psicologica. E pur
non potendo conoscere l'ordine morale da essa istituito, in quanto non è oggetto della
sfera teoretica, la ragion pratica mostra la possibilità di scoprire l'essenza noumenica dello
spirito, rende possibile cioè l'individuazione di una facoltà spirituale, incondizionata, libera,
fondatrice essa stessa di una legislazione morale autonoma, realizza, cioè, il primato della
ragion pratica.
Con le due Critiche si profilavano due mondi contrapposti: da una parte un mondo
conoscitivo regolato secondo leggi fisiche necessitanti e limitate al piano fenomenico,
dall'altra il mondo morale fondato sul postulato della libertà e capace di cogliere ressenza
noumenica dell'io.
L'uomo, in quanto attività teoretica, conosce il mondo materiale come l'insieme di una
serie di fenomeni particolari necessariamente concatenati secondo il rigido meccanismo
della legge di causalità; in esso non scorge alcun principio intelligente e spontaneo
operante finalisticamente. In quanto attività morale, invece, egli coglie in se stesso la
presenza di un'essenza metafisica, noumenica, di una libera attività razionale istituente
autonomamente la legge morale.
Di fronte a questa radicale contrapposizione tra teoria e prassi, tra attività conoscitiva ed
attività morale, Kant non vuole operare affatto una mediazione che sia un superamento ed
una sconfessione di quanto precedentemente affermato. Le tre critiche non si situano
lungo una linea dialettica in cui la prima funge da tesi, la seconda da antitesi e la terza da
sintesi conciliatrice di alcuni elementi tratti dalle prime due. Con la terza critica, la Critica
del giudizio, Kant, pur mantenendo ferma la validità delle conclusioni cui era pervenuto
nelle altre due opere, vuole verificare se c'è nella natura umana oltre all'intelletto ed alla
ragione, come facoltà su cui si fondano rispettivamente l'attività conoscitiva e l'attività
pratica, un'altra facoltà rispondente all'esigenza di stabilire un accordo fra libertà e
necessità, tra mondo fenomenico e mondo noumenico. L'uomo avverte questa esigenza
perché si accorge di non poter espletare completamente il compito morale secondo libertà
in un mondo che l'attività conoscitiva ci presenta come tutto racchiuso nei ferrei
meccanismi della necessità. Egli sente il "bisogno" di concepire la natura in accordo con la
sua libertà, organizzata cioè in modo da favorire e non ostacolare questa libertà.
La domanda cui risponde la terza critica potrebbe essere così formulata: restando
acquisito che la conoscenza scientifica della natura è possibile soltanto facendo ricorso ai
giudizi sintetici a priori dell'intelletto, è riscontrabile nella natura umana una "facoltà" che,
facendo leva sulla struttura soggettiva della mente e non sulla natura organizzata secondo
leggi fisiche, possa concepire la natura come realtà ordinata in vista di un fine, cioè come
realtà organizzata ad opera di un principio spirituale interno spontaneo e tendente ad una
finalità superiore al semplice meccanismo causalistico? E se c'è, qual è e come funziona?
In risposta al primo interrogativo Kant scrive:
Tutte le facoltà o capacità dell'anima possono essere ricondotte a
queste tre, che non si lasciano a loro volta derivare da un fondamento
comune: la facoltà di conoscere, il sentimento del piacere e del dispiacere, e la
facoltà di desiderare.
(Critica del giudizio, Introduzione, III)
Tra la "facoltà del conoscere" oggetto di analisi da parte della Critica della ragion pura e la
"facoltà del desiderio" esaminata dalla Critica della ragion pratica, Kant colloca il "
sentimento del piacere e del dispiacere" cui corrisponde la "facoltà del giudicare".
La Critica del giudizio intende procedere all'esame di questa "facoltà del giudicare", che
fonda il "sentimento del piacere e del dispiacere ".
In questa opera, per la prima volta, Kant riconosce l'esistenza di una terza "facoltà
spirituale", oltre a quella conoscitiva ed a quella morale, e la situa in posizione mediana
tra di esse. Il "sentimento" cui si erano appellati i filosofi inglesi da Shaftesbury a Hume
ed, in Francia, Rousseau, è dunque la facoltà che può operare l'accordo tra natura fisica e
libertà umana. Ma come funziona questa facoltà? Di quale giudizio può fare uso? Kant
precisa:
Il giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare come con-
tenuto nell'universale (la regola, il principio, la legge); il giudizio che opera
la sussunzione del particolare (anche se esso, in quanto giudizio trascen-
dentale, fornisce a priori le condizioni secondo le quali soltanto può avve-
nire la sussunzione a quell'universale), è determinante. Se è dato, invece, sol-
tanto il particolare ed il giudizio deve trovare l'universale, esso è semplice-
mente riflettente.
(Critica del giudizio, Introduzione, IV)
Nel primo caso, relativo al giudizio determinante, l'universale, rappresentato dalle
categorie dell'intelletto, è già dato; la "sussunzione" dei vari oggetti della esperienza
sensibile a quell'universale determina la realtà fisica, costituisce la serie degli eventi
naturali organizzati secondo le categorie intellettuali. Nel caso, invece, del giudizio
riflettente, l'universale non è dato, ma è da trovare. Il sentimento, cioè, si trova davanti
gli oggetti già organizzati secondo le forme dell'intelletto e riflette su di essi per cercare un
universale che li possa comprendere tutti; universale che nel caso specifico è
rappresentato dal fine. Grazie al sentimento, il soggetto guarda alla natura considerandola
come se fosse organizzata in vista di una finalità. Ovviamente il sentimento non impone il
principio della finalità alla natura, ma soltanto a se stesso. In virtù di questo principio
"soggettivo" l'uomo sente la natura come spontanea tensione verso una finalità e vive il
suo rapporto con essa secondo armonia, sente la sua libertà in accordo con la natura.
Questo principio trascendentale il giudizio riflettente può darselo sol-
tanto esso stesso come legge, non derivarlo da altro; né può prescriverlo
alla natura, poiché la riflessione sulle leggi di natura si accomoda alla
natura, ma questa non si accomoda alle condizioni con le quali noi aspi-
riamo a formarci di essa un concetto, che è del tutto contingente rispetto
alle condizioni stesse.
(Critica dei giudizio, Introduzione, IV)
Per meglio chiarire la differenza tra giudizio determinante e giudizio riflettente, serviamoci
di un esempio. Di fronte ad un fatto naturale, il cielo stellato, il mare, una cascata
d'acqua, l'uomo può tenere un duplice atteggiamento. Può, da scienziato, cercare di
conoscerne la struttura profonda, la serie di cause che lo determinano, la natura delle
singole parti che lo compongono, ma può, anche, da osservatore interessato soltanto al
fenomeno quale "spettacolo" naturale, guardarlo rapito con la spinta del sentimento, e
provare un intimo piacere derivante dalla riflessione che quel fenomeno naturale sembra
fatto apposta per piacergli, per accordarsi con i suoi sentimenti. Il giudizio dello scienziato
è determinante e punta alla conoscenza del fenomeno, quello dello spettatore
disinteressato è riflettente e punta a stabilire un accordo tra la nostra spiritualità e la
finalità secondo cui, soggettivamente, pensiamo sia ordinata la natura.
L'uomo può, però, stabilire il suo rapporto con la natura utilizzando il principio della finalità
in due modi, dando luogo, quindi, a due tipi di giudizio riflettente: il giudizio estetico ed il
giudizio teleologico. Si ha il giudizio estetico quando
si giudica la forma dell'oggetto (non l'elemento materiale della sua
rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa,
come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tale
oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappre-
sentazione in modo necessario, e quindi non solo per il soggetto che
apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L'og-
getto allora si chiama bello e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e
per conseguenza universalmente) si chiama gusto.
(Critica del giudizio, Introduzione, VII)
Il giudizio estetico è "soggettivo" perché trova nel gusto e, quindi, nel soggetto, l'ordine
della natura finalizzato all'accordo tra l'io ed il mondo. Il giudizio teleologico, invece, è
"oggettivo" in quanto vede l'ordine nella natura stessa, considera, cioè, la natura tesa a
realizzare essa stessa una finalità:
il giudizio teleologico determina le condizioni sotto le quali qualche
cosa (per esempio un corpo organizzato) sia da giudicarsi secondo l'idea di
uno scopo della natura.
(Critica del giudizio, Introduzione, VIII)
Il "bello", che è oggetto del giudizio estetico, non è una qualità inerente alle cose, ma
soltanto un modo soggettivo di considerarle:
quando si tratta di giudicare se una cosa è bella, non si vuole sapere
se a noi o a chiunque altro importi, o anche soltanto possa importare, della
sua esistenza; ma come la giudichiamo contemplandola semplicemente
(nell'intuizione o nella riflessione) ... ; si vuol sapere soltanto se questa sem-
plice rappresentazione dell'oggetto è accompagnata in me da piacere ... Si
vede facilmente che dal mio apprezzamento dì questa rappresentazione,
non dal mio rapporto con resistenza dell'oggetto dipende che si possa dire
che esso è bello e che io provi di aver gusto.
(Critica del giudizio, 2)
Il giudizio estetico è completamente indifferente sia alla conoscenza dell'oggetto, sia ad
una sua valutazione etica. Un quadro, ad esempio, è bello non perché è grande o piccolo,
raffigura un certo personaggio o un determinato panorama o perché risponde ad un nostro
particolare interesse o perché esplica una funzione educativa. E' bello soltanto perché
produce nell'osservatore una reazione di piacere disinteressato, una commozione
derivante dalla sua "forma", come se fosse costituito semplicemente per il fine del piacere.
Quando Kant afferma che il giudizio estetico è "soggettivo" non vuole affatto dire che esso
muta da uomo ad uomo. In tutti gli uomini si deve presupporre, infatti, una stessa
struttura emotiva, e quindi, una identica reazione estetica rispetto ad una stessa
rappresentazione. Pur non raggiungendo l'universalità dei giudizi determinanti, il giudizio
estetico deve essere condividibile da tutti gli altri uomini: bello, infatti, è ciò che piace
disinteressatamente ed universalmente, indipendentemente dai concetti che l'intelletto
formula su di esso:
In tutti i giudizi coi quali dichiariamo bella una cosa, noi non per-
mettiamo a nessuno di essere di altro parere, pur senza fondare il nostro
giudizio sopra concetti, ma soltanto sul nostro sentimento, di cui così fac-
ciamo un principio, non però in quanto sentimento individuale, ma in
quanto sentimento comune.
(Critica del giudizio, 22)
Attraverso il giudizio di gusto non si evidenzia, allora, una qualità derivante dalla
organizzazione meccanica delle parti costituenti l'oggetto e neppure qualche sua qualità
etica, ma si esprimerà la convinzione soggettiva, giammai comprovabile scientificamente,
dell'esistenza nell'oggetto di un qualcosa di spirituale, di spontaneo e libero che al
sentimento si rivela come la presenza in esso di un nucleo metafisico. Si stabilisce, in tal
modo, un accordo tra l'io e la natura attraverso la corrispondenza tra l'essenza noumenica
del soggetto, colta in sede morale al di là della struttura meccanica del corpo, e il nucleo
metafisico sentito presente nella natura per mezzo del sentimento del bello. Il giudizio
estetico, però, ci permette di esprimere una valutazione, oltre che sul bello, anche sul
sublime. Tra bello e sublime corre una precisa differenza:
Il bello della natura riguarda la forma dell'oggetto, la quale consiste
nella limitazione; il sublime, invece, si può trovare anche in un oggetto
privo di forma in quanto implichi o provochi la rappresentazione dell'illi-
mitatezza, pensata per di più nella sua totalità.
…Nel primo caso il piacere è quindi legato con la rappresentazione
della qualità, nel secondo, invece, con quella della quantità ... Inoltre,
mentre il primo implica direttamente un sentimento di agevolazione e
intensificazione della vita, e perciò si può conciliare con le attività e con il
gioco dell'immaginazione, il sentimento del sublime, invece, è prodotto dal
senso di un momentaneo impedimento, seguito da una più forte effusione
delle forze vitali, e perciò, in quanto emozione, non si presenta affatto
come un gioco, ma come qualcosa di serio nell'impiego dell'immagina?
zione.
(Critica del giudizio, 23)
Il sentimento del sublime comporta un "movimento dell'animo", al contrario del gusto del
bello che mantiene l'animo in una contemplazione statica. Ora questo movimento può
essere riferito o alla facoltà del conoscere o a quella del desiderare:
In entrambi i casi la finalità della rappresentazione data è giudicata
solo rispetto a questa facoltà (senza scopo o interesse); e allora la prima
facoltà è attribuita all'oggetto come una disposizione matematica dell'im-
maginazione, la seconda come una disposizione dinamica.
(Critica del giudizio, 24)
Perciò, all'analisi del sublime necessita una divisione di cui non aveva bisogno quella del
bello, cioè la divisione in sublime matematico e sublime dinamico. Il sublime matematico
indica il sentimento
suscitato in noi dalla " smisurata grandezza della superficie marina, ad esempio, o dalla
immensità della volta celeste ". Il sublime dinamico, invece, esprime il sentimento di
ammirazione e di turbamento che ci prende di fronte allo scatenarsi di una terrificante
tempesta d'acqua e di vento. In entrambi i casi avvertiamo l'inadeguatezza dei nostri
sensi e della nostra immaginazione a comprendere eventi di così imponente portata e
siamo presi da un sentimento di sconforto e di paura; ma per contrasto il sentimento di
impotenza si trasforma subito dopo in consapevolezza della propria superiorità
intellettuale: la furia degli elementi naturali mi può anche travolgere, ma ad essa posso
sempre opporre la mia natura razionale e la mia capacità di valutazione.
Di fronte a spettacoli di così " smisurata grandezza " o di cosi " smisurata potenza " il
soggetto avverte nella natura la presenza di qualcosa che supera le sue capacità di
comprensione intellettuale, sente la presenza in essa di una forza metafisica, così come ha
avvertito in sede morale la presenza in sé di una realtà noumenica liberamente
legiferante. Grazie al sentimento, coglie un'armonia nascosta tra mondo oggettivo e
mondo soggettivo; armonia che la scienza con i suoi giudizi non può assolutamente
cogliere. Dal " bello di natura " fin qui trattato bisogna distinguere il " bello artistico", che
non è dato ma è prodotto dal "genio". Quest'ultimo, grazie ad un felice rapporto tra
intelletto e fantasia riesce a produrre degli oggetti "belli", che come quelli di natura
appaiono "liberi da ogni costrizione di regole arbitrarie".
Mentre il giudizio estetico considera una finalità soggettiva, il giudizio teleologico ci induce
a credere che nella natura stessa operi un principio metafisico capace di organizzare il
tutto in vista di una finalità. Nella considerazione di un essere vivente, ad esempio, finché
ci fermiamo alle semplici cause meccaniche, non riusciremo mai a spiegarci il perché di
quella conformazione fisica e non di un'altra; quando, invece, tentiamo una spiegazione
finalistica e presupponiamo l'esistenza di un fine ultimo a cui ogni essere tende, allora ci
rendiamo conto che l'organizzazione di quell'ente non poteva essere diversa da com'è.
Così, per esempio, nel parlare della struttura di un uccello, delle
cavità che sono nelle sue ossa, della disposizione delle sue ali al movi-
mento, della sua coda destinata a far da timone, etc., si dice che tutto ciò è
contingente in supremo grado quando si guarda al semplice nexus effectivus
della natura, e non si ricorre ancora ad una specie particolare di causalità,
cioè a quella dei fini (nexus finalis); vale a dire che la natura, considerata
come semplice meccanismo, avrebbe potuto configurarsi in mille altri
modi, senza che le capitasse di giungere proprio all'unità secondo un tale
principio, e che quindi non si può sperare di trovarne neppure la minima
ragione nel concetto di natura, ma solo fuori di esso,
(Critica del giudizio, 61)
e cioè nel concetto di fine.
Va precisato, però, che il giudizio teleologico, essendo un giudizio riflettente e non
determinante, non fornisce una visione scientifica della realtà. Ma ciò nonostante esso non
va trascurato,
poiché se esso non ci fa meglio comprendere il modo di formarsi di
questi prodotti, è però un principio euristico per ricercare le leggi partico-
lari della natura.
(Critica del giudizio, 78)
Il giudizio teleologico, pur non essendo un giudizio conoscitivo, svolge, infatti, una
funzione utile alla ricerca, in quanto, al di là di ogni spiegazione meccanicistica, propone
una spiegazione finalistica come limite a cui la scienza deve tendere continuamente nelle
sue ricerche. Il fine cui sembra tendere tutta la natura è l'uomo:
Vi sono motivi sufficienti ... per considerare l'uomo non soltanto
come un fine della natura, come tutti gli esseri organizzati, ma come lo
scopo ultimo di essa sulla terra, in modo che rispetto a lui tutte le altre cose
naturali costituiscono un sistema di fini ... Il primo scopo della natura
sarebbe la felicità, il secondo la cultura dell'uomo ... Come l'unico essere
che sulla terra abbia l'intelligenza, e quindi una facoltà di porsi volontaria-
mente degli scopi, egli è, in verità, il ben titolato signore della natura; e se
questa si considera come un sistema teleologico, egli ne è per la sua desti-
nazione lo scopo ultimo.
(Critica del giudizio, 83)
Ma va precisato che lo scopo ultimo della natura finalisticamente organizzata non va
cercato nell'uomo considerato come corpo, come meccanismo biologico. Soltanto
nell'uomo in quanto soggetto della moralità si può trovare questa
ligislazione incondizionata relativamente ai fini, che rende lui solo capace
di essere uno scopo finale, cui la natura sia teleologicamente subordinata.
(Critica del giudizio, 84)
L'accordo tra natura ed uomo, in tal modo, sembra perfettamente realizzato: la natura si
presenta, nella considerazione finalistica, come la struttura capace dì favorire
l'esplicazione della moralità dell'uomo. Ma la costatazione di quest'accordo presuppone
l'ammissione, tutta sentimentale e nient'affatto razionale, dell'esistenza di un "Dio",
"causa morale" del mondo:
Dobbiamo, dunque, ammettere una causa morale del mondo, per
proporci uno scopo finale, conformemente alla legge morale; e per quanto
questo scopo è necessario, altrettanto è necessario ammettere quella causa:
cioè che vi è un Dio.
(Critica del giudizio, 87)
La filosofia critica di Kant
La religione, il diritto, la politica e la pedagogia
L'ultima grande opera in cui Kant precisa ulteriormente la sua concezione della natura umana è La religione nei limiti della semplice ragione (1793). Per natura umana si deve intendere "il principio soggettivo dell'uso della libertà". Questo principio garantisce agli uomini la possibilità di compiere atti liberi, di scegliere il bene o il male, senza essere necessitati da nessuna "forza" fisica, psichica o spirituale. Con questa affermazione Kant ribadisce la tesi dell'autonomia della morale e della responsabilità dell'uomo per gli atti da lui compiuti. Proprio nella natura libera dell'uomo si radica la stessa possibilità dei male. Il principio del male, quindi, non è la carne contrapposta allo spirito, non
è la struttura fisica dell'uomo o il peccato originale di Adamo, ma è la preferenza che l'uomo liberamente accorda al male, pur conoscendo il bene. Poiché per esperienza sappiamo che questa inclinazione al male è una caratteristica di tutti gli uomini, la possiamo considerare come un "male radicale". La radice del male risiede, allora, nella fragilità della psiche umana, che, pur conoscendo il bene e pur potendolo praticare, sceglie il male. Per quanto non sia trasmissibile da un uomo all'altro come il peccato originale, il male è incancellabile con le sole opere dell'uomo. Solo la grazia salvifica del Cristo può riscattare l'uomo da un male la cui spiegazione ultima si presenta incomprensibile. Questo pessimismo circa la natura umana e la sua possibilità di riscatto risente fortemente dei principi della teologia luterana e più specificamente pietistica, e riduce di molto il tentativo kantiano di rinnovare la cultura tedesca liberandola dalla forte cappa di religiosità protestante che da secoli l'opprimeva. E se quest'opera procurò al suo autore qualche fastidio da parte delle autorità, non era perché in essa veniva sostenuta una concezione dell'uomo e delle sue inclinazioni differente da quella della Chiesa luterana, ma per l'affermazione secondo cui non è la religione a fondare la morale, ma viceversa è la morale a fondare la religione. Con questa affermazione, pur sostenendo una visione pessimistica della natura umana, Kant rivendica ancora una volta alla "ragione" la responsabilità delle scelte morali dell'uomo. Nella ragione e quindi nella "libertà del volere" è fondata anche la capacità umana di uscire dallo stato di natura, di costruire la civiltà e di conseguire, per quanto è possibile sulla terra, la felicità. Ma per realizzare questi obiettivi l'uomo deve vincere l'antagonismo che nutre verso gli altri uomini ed associarsi ad essi in una fattiva collaborazione.
Intendo col nome di antagonismo la insocievole socievolezza degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una gene- rale avversione che minaccia continuamente di disunire questa società. E' questa evidentemente una tendenza insita nella natura umana. L'uomo ha una tendenza ad associarsi, perché nello stesso stato di società si sente mag- giormente uomo, cioè sente di poter meglio sviluppare le sue naturali disposizioni. Ma egli ha anche una forte tendenza a dissociarsi, perché egli ha del pari in sé la qualità antisociale di voler tutto rivolgere solo al pro- prio interesse, per cui si aspetta resistenza da ogni parte e sa che egli deve da parte sua tendere a resistere contro gli altri.
(Idea di una storia universale, tesi IV)
Proprio questa duplice tendenza dell'uomo, derivante dalla " insocievole socievolezza ", esige che ì rapporti tra gli individui e tra gli stati siano regolati con norme di diritto e non siano affidati semplicemente alla "buona volontà" dei singoli. Il diritto, infatti, non riguarda la disposizione interiore dell'uomo all'azione, ma solo gli effetti esteriori dell'azione stessa.
Il puro accordo o disaccordo di un'azione con la legge, senza riguardo alcuno all'impulso di essa, si chiama legalità (conformità alla
legge); quando invece l'idea del dovere derivata dalla legge è nello stesso tempo impulso all'azione, abbiamo la moralità.
(Fondamenti della metafisica dei costumi, Introd. III)
Alla base di questa legalità c'è, dunque, la legge, il diritto. Il principio del diritto, infatti, comanda di agire esteriormente in modo che il "libero uso dell'arbitrio" del singolo possa coesistere con la libertà di tutti gli altri uomini. Il diritto, a seconda che regoli i rapporti tra i singoli o la vita della comunità nel suo insieme, si qualifica come pubblico o privato. Sul diritto pubblico si fonda la vita degli stati. Nell'organizzazione politica degli stati, Kant fa propria la tripartizione illuministica del potere (legislativo, esecutivo e giudiziario) e propone una costituzione repubblicana per tutti gli stati.
La costituzione fondata: 1) sul principio della libertà dei membri di una società (come uomini); 2) sul principio della dipendenza di tutti da un'unica legislazione comune (come sudditi); 3) sulla legge della ugua- glianza (come cittadini), è l'unica costituzione che derivi dall'idea del con- tratto originario, su cui deve essere formata ogni legislazione di un popolo; ed è la costituzione repubblicana.
(Per la pace perpetua, II)
Tale costituzione, oltre ad essere la base di tutte le altre, è l'unica che possa condurre alla "pace perpetua". Infatti, dal momento che nella costituzione repubblicana
si richiede il consenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta, niente di più naturale del pensare che, dovendo far ricadere su di sé tutte le calamità della guerra, essi ci penseranno sopra a lungo prima di iniziare un gioco cosi malvagio. (ivi)
Per il conseguimento della "pace perpetua" Kant suggerisce una serie di norme particolari, "rivoluzionarie" per il tempo in cui furono formulate, come quella secondo cui "nessuno stato indipendente deve poter essere acquistato da un altro stato mediante eredità, scambio, compera o donazione", o come quelle che prevedono l'abolizione degli eserciti permanenti, la non ingerenza negli affari interni dì uno stato da parte di paesi stranieri, la creazione di una federazione di stati liberi capace di assicurare la libertà dei singoli stati membri e la pace internazionale. Ma ciò che assicura la possibilità del progresso dell'umanità è l'educazione dei giovani. L'uomo - afferma Kant - può diventare uomo solo attraverso l'educazione. Questa si articola in una parte negativa rappresentata dalla disciplina, anche dura all'occorrenza, e in una parte positiva svolta
dall'istruzione. Il fine a cui deve tendere l'educazione è rappresentato dall'aspirazione ad un continuo e lineare sviluppo della civiltà:
Coloro che fanno piani di educazione devono tener presente il prin- cipio educativo che segue: occorre educare i fanciulli non in vista dello stato presente, ma di un possibile migliore stato futuro del genere umano, ossia in base all'idea dell'umanità e del destino che le è proprio.
(Pedagogia, 15)
In tutto il lungo, ma lineare, sviluppo del suo pensiero Kant ha mantenuto ferma l'ispirazione all'ideale di razionalità proprio dell'Illuminismo. Tutta la vita spirituale dell'uomo è stata radicata nella ragione, non intesa più cartesianamente come il luogo in cui Dio ha posto delle idee innate, ma, nell'accezione più vasta del temine, come strumento di comprensione della realtà e come fonte da cui promana la legge morale. Una ragione, cioè, capace attraverso il suo uso teoretico di conseguire certezze scientifiche valide in modo necessario ed universale, ed attraverso il suo uso pratico di dettare l'imperativo categorico su cui è possibile costruire tutto l'edificio di una morale autonoma. La fiducia kantiana nella ragione ci sembra ben documentata in questo eloquente passo illustrativo del concetto di Illuminismo:
Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere gui- dato da un altro. Sapere aude! abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! Questo è il motto dell'illuminismo.
(Risposta alla domanda: Che cos'è l'Illuminismo?)
Questa fiducia illuministica nella "ragione" non impedisce, però, a Kant di dedicare molta attenzione all'esame di quella che egli ritiene l'altra componente essenziale della natura umana: il sentimento. I filosofi immediatamente successivi valorizzeranno proprio questo aspetto del kantismo ed in esso cercheranno le "radici" della nuova cultura idealistica e romantica.