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ACCADEMIA “MARIA LUISA DI BORBONE” VIAREGGIO ANNALE 2013 Grafiche Ancora

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ACCADEMIA

“MARIA LUISA DI BORBONE”

VIAREGGIO

ANNALE2013

Grafiche Ancora

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L’opera costituisce pubblicazione scientifica non commerciale ai sensi dell’art. 70 della legge 22aprile 1941 n. 633 “Protezione dei diritti d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio” esuccessive modifiche.

L’Accademia “Maria Luisa di Borbone” ringrazia il Prof. Marco Gemignani e Mons. prof. fra’Giovanni Scarabelli per la revisione critica dei testi e per la cura della presente pubblicazione.

Stampato dalle Grafiche Ancora – Viareggio 2014

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INDICE

Parte I

Atti dell’incontro di studio su Viani e i Borbone- Villa Borbone di Viareggio, sabato 23 marzo 2013 p. 5

Comitato scientifico p. 6

Comitato organizzatore p. 6

Introduzione del Preside dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone”Dott. marchese Antonio Mazzarosa Devincenzi Prini Aulla p. 7

Viani e i Borbone a Viareggio: una testimonianza letteraria Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli p. 9

Lorenzo Viani: il suo linguaggio e Il figlio del pastoreProf. Manrico Testi p. 13

Viani e i Borbone: sulle tracce dell’arteEnrico Dei p. 21

Parte II

Atti dell’incontro di studio su I Borbone nel Comune di Massarosa- Villa Gori di Stiava, sabato 5 ottobre 2013 p. 31

Comitato scientifico p. 32

Comitato organizzatore p. 32

Saluto del Sindaco di MassarosaDott. Franco Mungai p. 33

Alcuni tratti di Alice di BorboneMons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli p. 35

Niccolao Giorgini al servizio del Ducato di LuccaAvv. Giorgio Paolini p. 37

Giuseppe Bianchi detto “il Diavoletto” e la sua “Sala rustica” a Conca di SopraProf. Franco Anichini p. 41

I Borbone e la coltivazione del riso nella zona di MassarosaEnio Calissi p. 59

Notizie e curiosità borboniche a Stiava e dintorniDott. Otello Lenzi p. 63

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Parte IIIDocumenti dell'Accademia “Maria Luisa di Borbone”

Ruolo degli Accademici p. 69

Attività dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone” nell’anno 2013 p. 70

Cronache degli eventi più importanti p. 73

Elenco delle donazioni fatte nel 2013 dall’Accademia “Maria Luisa di Borbone” p. 81

Elenco delle donazioni ricevute nel 2013 dall’Accademia “Maria Luisa di Borbone” p. 81

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PARTE I

Atti dell’incontro di studio su Viani e i Borbone

Villa Borbone di Viareggio sabato 23 marzo 2013

raccolti a cura del Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli

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COMITATO SCIENTIFICO

Dott. Mauro Del Corso (Presidente della Federazione Italiana degli Amici dei Musei e membrodell’Accademia “Maria Luisa di Borbone”)Prof. Paolo Emilio Tomei (Università di Pisa e cerimoniere dell’Accademia “Maria Luisa diBorbone”)Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli (Università Cattolica di Leopoli e decano dell’Accademia“Maria Luisa di Borbone”)

COMITATO ORGANIZZATORE

Accademia “Maria Luisa di Borbone”Comune di Viareggio – Assessorato alla Cultura

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INTRODUZIONE DEL PRESIDE DELL’ACCADEMIA“MARIA LUISA DI BORBONE”

Dott. marchese Antonio Mazzarosa Devincenzi Prini Aulla

Autorità, Signore e Signoriil mio cordiale e grato saluto a tutti voi che onorate questa nostra iniziativa con la vostra

partecipazione ed i sensi della riconoscenza mia e dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone” alComitato Permanente di Villa Borbone che generosamente si è associato a noi ospitandoci in questasuggestiva e storica sede.

La Casa Borbone continua ad essere il filo conduttore principale delle nostre iniziativeconiugandosi alla storia del territorio di Viareggio quale componente di valore determinante edidentificante rispetto al resto regionale diversamente caratterizzato.

Per la verità, il tema che qui oggi affrontiamo era stato previsto in svolgimento nelnovembre dello scorso anno, il 2012, essendo nostra intenzione inserirlo nelle manifestazioni chepensavamo potessero essere promosse dall’Amministrazione Comunale in occasione deicentotrent’anni della nascita del concittadino, pittore di fama internazionale, Lorenzo Viani: lenostre attese sono andate del tutto deluse. Non possiamo che esprimere il nostro più vivo rammaricoper una occasione perduta di riflessione sui valori proposti dall’opera di uno dei maggiori figli diquesta splendida terra. Non volendo perderla noi come Accademia, la proponiamo adesso, anche seun po’ in ritardo rispetto alla scadenza del 1° novembre, anniversario natalizio di Viani, lieticomunque di realizzare il celebre detto latino: quod differtur non aufertur.

Mi sia consentito soffermare l’attenzione su due eventi che mi sembrano significativi. Ilprimo è costituito dal Lodo di Leone X del 29 settembre 1513 con il quale assegna il territorio delCapitanato di Pietrasanta a Firenze, sottraendolo definitivamente alla Repubblica di Lucca. I quattroComuni della Versilia definita “storica” si sono accordati e hanno varato una nutritissima serie diiniziative di vario carattere, tutte celebrative dell’evento e tutte dislocate sul loro intero territorio,sentendosi tutti parimenti coinvolti e responsabili: un concreto esempio di programmazione comunee di superamento di concorrenzialità alla fin fine mortificanti i valori comuni. Dovremmo trarnedavvero profitto anche noi.

Desidero aggiungere, sempre in ordine al Lodo del 1513, una osservazione consequenziale.Il costituirsi della Versilia Storica e la perdita del porto di Motrone costringe la Repubblica di Luccaa cercare entro il proprio territorio, divenuto assai più esiguo sulla costa tirrenica, un nuovo sboccosul mare. La soluzione più realistica è quella di valorizzare la foce del Burlamacca sulle cui spondesorgono i resti di una torre d’avvistamento, quasi in disuso, attorniata da poche capanne di falascoabitate da alcune decine di poveri contadini, al termine di una modesta strada di collegamento conLucca, leggermente elevata sul padule circostante, un po’ pomposamente chiamata Via Regia.Questa località diventa per lo Stato di Lucca l’unico luogo strategico per il controllo del trafficocostiero, tanto che pochi decenni dopo verrà decisa la costruzione dell’imponente Torre capitanapoi, e fino ad oggi, chiamata “Matilde”. Perché non considerare, allora, il 1513 anche l’annod’effettiva nascita di Viareggio? So bene di gettare un sasso nello stagno suscitando contestazionida parte degli storici locali, ma si tratta di una provocazione che mi auguro porti a beneficheriflessioni e, meglio ancora, ad adeguate iniziative di approfondimento e di valorizzazione.

La seconda osservazione è, assai più modesta ma nella stessa linea di pensiero, costituitadalla pianificazione delle attività della nostra Accademia in questo 2013. Abbiamo scelto una speciedi diaspora, o meglio, una presenza più incisiva sul territorio della Versilia meridionale - anche inquesto caso so bene che la definizione è contestabile, ma bisogna pur trovare il modo di intenderci -promuovendo altri due incontri di studio nei Comuni di Massarosa e di Camaiore: un respiro ampioallarga i polmoni e l’intero organismo ne trae beneficio. Questa la nostra strategia, questo il nostroservizio: ci auguriamo di trovare anche altrove totale comprensione ed ampia accoglienza come quia Viareggio oggi. Sentimenti di particolare riconoscenza ai relatori ed un grazie a tutti voi.

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VIANI E I BORBONE A VIAREGGIO: UNA TESTIMONIANZA LETTERARIAMons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli

“Recentemente a un concorso nazionale di pittura a Firenze lo scrivente aveva esposto undipinto di sapore goyesco, luttato di neri vellutati e balenante di bianchi mortuari, intitolato: IBorboni. I visitatori assuefatti alle figure scarne e lacere dagli occhi allupati consuete al pittore,rimasero assai perplessi al cospetto della gran casata, e perplessi leggevano il nome dello scrivente.

Pochi, i pochi lettori di un libro dello stesso autore, sapevano che egli trascorse l'infanzia inun gran parco solitario in cui apparivano e sparivano come fantasmi i Borboni e che questientrarono allora in forma ossessiva nella brucente fantasia del ragazzo. Moltissimi sanno che in quelgran parco solitario, sotto una quinta di lecci, v'è il palazzo dei Borboni e nella cappella del palazzoriposano per l'eternità i più ragguardevoli personaggi della gran casa borbonica, ultimo ivi depostoDon Jaime, Infante di Spagna.

I Borboni passarono con tutta la loro storia tragica – quali con lo scettro, quali con la spada ela croce – davanti la fantasia dello scrivente attraverso i racconti del padre, narrati nelle sere in cuinel gran parco solitario miaolava il vento come in gatto spettacoloso”.

Comincia così uno scritto di Lorenzo Viani intitolato I Borboni Padroni e Servi pubblicato aMilano su “Il Corriere della Sera” il 31 agosto 19321, autorevole dichiarazione, pertanto,dell'interessato stesso che l'esperienza dell'infanzia vissuta nella Tenuta di Viareggio ha segnatoindelebilmente la sua vita. Esperienza così tumultuante in lui da volersene quasi liberare, benchésempre risorgente, scrivendo anche quel romanzo autobiografico che s'intitola Il figlio del pastore,edito a Milano nel 1930, ristampato anastaticamente dal Comune di Viareggio e nuovamenteripubblicato dall'editore viareggino Mauro Baroni. Sul quadro non mi soffermo, rilevandone solo ilvalore documentario nell'ambito della linea di pensiero del presente intervento, mentre tento direcuperare quanto emerge proprio dal precitato articolo giornalistico demandando ai successiviinterventi in programma sia l'attenzione al romanzo che al quadro, arricchiti da opportuneproiezioni.

I rapporti della famiglia Viani con la Casa Borbone risalivano già all'epoca in cui si eracostituita la loro proprietà a Pieve S. Stefano (Lucca) e i Viani erano fra i contadini e pastori dellavasta tenuta adiacente al palazzo detto “delle cento finestre”. Il trasferimento a Viareggio eraavvenuto a seguito della morte della duchessa Maria Teresa Felicita di Savoia, moglie del ducaCarlo Lodovico, avvenuta il 16 luglio 18792. Rinaldo Viani, padre di Lorenzo suo secondogenito,era stato assunto nella Tenuta di Viareggio da don Carlos3 e da donna Margherita4, duchi di Madrid,ivi trasferitisi dopo la conclusione per loro negativa della seconda guerra carlista in Spagna (1872 -1876), che li aveva visti impegnati nella rivendicazione del trono, a parere loro e dei numerosiseguaci, indebitamente detenuto dalla cugina Isabella.

Rinaldo Viani viene definito ripetutamente da Lorenzo “servo” nella villa di Viareggio e conuna tono di rifiuto quasi astioso, ben comprensibile in lui che si proclamava anarchico militante. Inrealtà, nota la Cardellini5, egli era qualcosa di più nell'ambito degli addetti ai servizi, una specie diuomo di fiducia in quanto aveva il delicato ufficio di custodia della preziosa dotazione d'argenteria eil compito di distribuire quotidianamente pane e altri generi alimentari ai poveri che s'assiepavanoai cancelli della Villa. A questo proposito Lorenzo, nel suo già citato romanzo autobiografico, hauna pagina di rara efficacia espressiva: “Alla poveraglia del paese era interdetto l'ingresso nel parco

1 L. VIANI, Ancora personaggi ritrovati. “I Borboni” Padroni e Servi, II Appendice in L. VIANI, Il cipresso e la vite,Viareggio, Baroni, 2003, pp. 289-293.2 Maria Teresa Felicita di Savoia (1803 - 1879). Figlia di Vittorio Emanuele I, re di Piemonte e di Sardegna, fu sposanel 1820 a Carlo Lodovico di Borbone, prima re d'Etruria, poi duca di Lucca e infine duca di Parma. Era sorella diMaria Cristina, poi regina di Napoli e Sicilia, beatificata il 25 gennaio 2014.3 Carlos di Borbone Spagna (1848-1909), pretendente al trono di Spagna per la linea legittimista.4 Margherita di Borbone Parma (1847-1893). Figlia di Carlo III duca di Parma e di Maria Luisa di Borbone Berry, fusposa a don Carlos (Carlo VII) di Borbone Spagna, duca di Madrid.5 I. CARDELLINI SIGNORINI, Lorenzo Viani, Firenze, Centro Promozione e Stampa, 1978 a p. 27 cita G. NERINI, LorenzoViani nella vita e nell'arte, Milano, La Prora, 1938. Cfr. p. 21.

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e nella selva: però tutti i giorni le era profferto qualcosa al cancello: questo ufficio spettava a miopadre.

Tutta la poveraglia del paese si dava convegno al Palazzo, passando lungo la bàttima delmare. Sullo sfondo del cielo or chiaro or bigio staccavano bocche spaventate, occhi strabuzzati,granfie di rapina.

Quando la poveraglia giungeva alle spranghe del cancello, certi pani stralevati erano contesie venivano sbuzzati dalle granfiate. I ragazzi scarniti venivano gittati sotto le spranghe percompassionare gli offerenti. Quelli che nel pigia pigia rimanevano a mani vuote, supplicavano daiferri del cancello gemendo o maledicendo. Il cancello si tramutava in una gabbia armata di crucce ebastoni.

C'erano tutti gli sciagurati del paese: la Rosona, moglie di un magnano, tutta nera nel visocome una spazzacamina, idropica e nel rimanente del corpo strutta dal mal del logro; c'era Pinanni,divorato dall'etisia, con certe zanne che avrebbero scorzato un pino. E una donna a cui dicevano la'Giallona' che le era andato il sangue in acqua per uno spavento che ebbe, la quale scardazzava lalana, e sitava come una pecora rognosa. E c'era una 'Rossa' che aveva una gamba fatta con unbastone, e Maggino, un cieco vecchio con la carnagione gialla come la polenta e dagli occhi struttinell'orbite, condotto costì dalla 'Maggina' sua moglie, vecchia dilupata dalla fame. E Fifo e Barsello,due cavapozzi che parevano lessati a freddo, tanto avevano la ciccia polpa, sdiaccia e dolce. I due,sempre bagnati e stremati, si davano man forte per augnar dei pani. Poi, c'era la progenie deiviandanti, dei vagabondi, degli accattarotti, tutti quelli che scendevano dai paesi vicini per partirsi,brontolando e imprecando e mormorando, un tozzo di pane”.

Si può tranquillamente affermare che in Viani ci fu sempre un profondo rispetto, quasi unavenerazione per i Borbone di Viareggio, nonostante le sua posizione ideologica. Lui stesso loconfessa a conclusione del citato articolo su “Il Corriere della Sera” dove, riferendosi al selvaggioambiente del parco e della pineta, afferma: “In quella desolazione sono stati concepiti I Borboni6,che questa primavera erano esposti al concorso fiorentino; in quella desolazione sono nate le pagineIl figlio del pastore, nostalgia di selva e di brenti, nostalgia di scettri e corone”.

Un altro segnale possiamo coglierlo in una annotazione dello stesso Viani che, riferendosialla sua casa in Via del Fortino a Lido di Camaiore, scrive: “Sulle pareti della casa dello scrivente,non più squallide come quelle della casa su cui suo padre faceva passare delle visioni ossessive,sono rimaste, di quel tempo, due fotografie: una dei servi e una dei padroni. I servi sono rittiimpalati, umiliati, stirati, naturali secondo il comando del fotografo, son tutti fissi sull'obbiettivocome se dal foro dovesse scappar fuori una bestia feroce […]. La fotografia dei padroni è tutta nera,quasi a lutto, con baleni di bianco avorio: un Boldini7 della prima maniera, tutto soffuso di tenutirapporti. Don Carlos primeggia su tutti, il berretto basco calato su i grandi occhi, ravvolto neltabarro; della titanica figura non si scorge che un chiarore di viso lineato dalla barba nerissima;l'erede è vicino a lui, tutto grigio, con il cipiglio di un dipinto di Velasquez; le figlie tutte belle,mestissime o serene; il seguito tutto rigido e ammusato”.

Viani non riferisce soltanto ricordi d'infanzia, ma, dopo aver pensosamente annotato che “Ildestino, l'iroso aratore, ha disperso nel mondo tutti i personaggi di queste due fotografie”, aggiunge“che lo scrivente era destinato a ritrovare nel suo cammino”.

Entrando, quindi, ancor più nello specifico, si può far riferimento alla commosso descrizionech'egli riserva a don Carlos incontrato casualmente a Venezia, sia ne Il figlio del pastore chenell'articolo pubblicato su “Il Corriere della Sera” già dianzi citato ed il cui testo adesso qui riporto:“Un giorno lontano nel tempo e nella memoria me ne stavo seduto nei giardini della bella Venezia;uno di quei giorni in cui le lucertole sembrano serpi, le vespe api, i granchi anguille, le lucciolelanterne; e pensavo a cose da tempo sepolte nella memoria, quando dirimpetto a me si sedette unsignore tutto vestito di grigio, con sul cappello cenere un nastro bianco. Il signore aveva anche labarba grigia e posava le mani, che sembravano d'avorio, sopra il pomo d'oro di un bastone dimalacca. Un grande cane danese del colore di quelli di terra cotta che si mettono sopra i pilastri dei

6 Si riferisce alla Mostra tenuta nel 1930 nel Gabinetto delle Stampe della Galleria degli Uffizi a Firenze.7 Giovanni Boldini, Firenze 31 dicembre 1842 - Parigi 11 gennaio 1931.

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cancelli gli s'era accucciato vicino: un moretto sudanese col tarbusce rosso, tutto vestito di bianco,teneva il guinzaglio. Rimasi come di pietra: quel signore era Don Carlos di Borbone, il Sovranoche, ai tempi del palazzo, m'incuteva tanto timore e quando lo vedevo mi nascondevo tra le prunaiecome un cignalotto. Mi avvicinai per vederlo meglio: le palpebre rilassate dimezzavano gli occhivelati, la carnagione cerea, al tepore del sangue, sembrava cedesse. Anche la bocca, un temposigillata, s'era lievemente aperta e mostrava il fil dei denti bianchi; le linee aperte della fronteimperiale erano crollate per sempre.

Quando il sole si tuffò al di là della cupola della Salute e gli argenti serali stupirono tutta lalaguna, il Sovrano si levò e parve un colossale statua d'argento. Egli si mosse e il cane dinoccolatogli andava dietro; le ombre della sera avevano fatto diventar di piombo la carnagione del moro.Pedinai il Sovrano fino alla riva dove era attraccata una gondola sigillata da un giglio rosso sangue.

Il Sovrano entrò nella cuffia quasi funebre e io dissi nell'aria: - Buona sera”.Altrettanto dicasi per don Jaime (27 giugno 1870-2 ottobre 1931), l'unico figlio maschio di

don Carlos e di donna Margherita, rimasto celibe dopo un del tutto teorico progetto di matrimoniocon la cugina Zita (9 maggio 1892-14 maggio 1989) – che andrà sposa, invece all'arciduca Carlod'Austria (17 agosto 1887-1° aprile 1922), divenendo, così, l'ultima sovrana dell'impero asburgico.Viani incontrerà a Parigi l'ultimo erede dell'ideale carlista spagnolo e così lo ricorda: “A Parigi, certigiorni in cui i pioppi dei giardini sembravano cipressi, e le case, là in fondo, enormi cameremortuarie e i cani abbaianti diventano iene, sui quei bei viali che formavano una stella intornoall'Arco di Trionfo, scorgevo l'Erede con un discreto seguito di fedeli, senza mutamento: bianco dicapelli e baffi, leggermente obeso, misurato di termini e di portamento”.

Non tratto in questa sede il romanzo autobiografico Il figlio del pastore in quanto oggetto diintervento in altra relazione e pure parte assai consistente del testo del filmato Ombre a VillaBorbone. Su quest'ultimo “pezzo” mi soffermo ancora un momento in conclusione per una brevepresentazione. Si tratta della prima parte di un testo che per la verità avevo pensato quale piéce daleggere artisticamente, con accompagnamento musicale e proiezione di immagini varie, nell'ambitodelle iniziative culturali organizzate qui a Villa Borbone nell'estate dal Comitato Permanente. Iltesto fu dato in lettura all'ottimo documentarista e amico Luigi Martinelli che ritenne che fossepresentabile in filmato. Per la verità io pensavo a qualche interprete ben esperto, invece lui insistetteperché fossi io stesso l'interlocutore di Viani, come da copione da me scritto. Io ho resistito a lungo,ma alla fine Luigi ha prevalso, e dico: purtroppo. Il risultato lo valuterete voi stessi, pregandovi find'ora di evitare il clamore dei fischi.

Due avvertenze. Il testo completo si articola in tre parti e qui è stata realizzata solo la primaparte. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad un'opera parziale, sebbene abbia una sua unità tematica. Insecondo luogo è ben evidente il fatto che l'inserimento delle immagini tratte dalle opere di LorenzoViani non costituiscono diretto riferimento ai personaggi dei quali si parla. Si tratta, in sostanza, diun’illustrazione iconografica a mio parere assai realistica. Molto appropriata e suggestiva, il cuimerito va unicamente alla sensibilità del regista Martinelli. Insieme a lui sento il dovere diringraziare di cuore, davvero con viva riconoscenza anche il lettore interprete di Viani, cioè il signorVincenzo Cupisti: gli applausi – e io mi unisco a voi – sono esclusivamente per loro due.

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LORENZO VIANI: IL SUO LINGUAGGIO E IL FIGLIO DEL PASTOREProf. Manrico Testi

Per una comprensione seria e approfondita della narrativa vianesca bisogna subito fare alcuneprecisazioni critiche programmatiche, riassumibili in questi termini: Viani è pittore e anche scrittoreespressionista e l’espressionismo, sul versante narrativo, riguarda sia la sua accentuazione,deformazione di personaggi e situazioni, che la sua forma linguistica estrosa, colorita, interessante,particolare, ma poco capita e apprezzata. Mi riferisco a quella sovrabbondante e “gergale” che loconnota e che risulta perfettamente connaturata e adatta a scolpire a tutto tondo i tipici personaggivianeschi, a dare loro consistenza non solo raffigurativa ma addirittura etica. Infatti essi, oltre cheemblemi paradigmatici di uno “status” di svantaggio, emarginazione, abbrutimento (in parteriscattato dal loro dignitoso linguaggio, che si avvale di un lessico attinto dalla viva voce del popoloe, al tempo stesso, ricco di inaspettate tonalità auliche), sono oggetto, da parte di Viani, di unafraterna simpatia che nasce più che da una scelta ideologica, da una condivisione umana. Sarebbedunque errato esaminare l’espressione letteraria di Lorenzo, staccandola, estrapolandola dalcontesto, dai contenuti. E poi è necessario evidenziare i diversi registri linguistici impiegati daViani, infatti vi è una profonda differenza tra quello “gergale” ed “espressionistico” e quelloimpiegato nelle lettere, dove non vi è alcuna intenzione programmatica di caratterizzazionetipologica o ideologica, ma soltanto quella di essere compresi: spontaneo, nitido, familiare, pococurato sul piano ortografico e grammaticale. Emblematica, fra le tante, questa selezione della“Lettera autobiografica” inviata a Franco Ciarlantini nel 1913, che ci offre la possibilità diconoscere più a fondo, la vita e il mondo ispiratore di Lorenzo Viani: “Il primo tentativo di chi si accinge a parlare di un artista è quello di trovare relazione tra la vitae l’arte di questo. […] La mia vita, non è stata del tutto cattiva. Quando si suppone che l’animo, diremo così, siformi, io stavo bene economicamente, mio padre era cameriere di Don Carlos di Borbone, el’infanzia mia è passata in una continua festa, abitavamo in un parco che è una delle meravigliedella mia vita. Ricordo però fin da allora che io ho sempre avuto un gran terrore per la morte. […]Ma questa specie di chiodo non mi è stato possibile toglierlo dal cervello. Intorno alle mie figurenon aliterebbe sempre questa morte? A me sembra di sì. Credo che passino tutte le mie visionid’arte traverso questo antro buio del mio cervello e ne assumono il colore e l’intonazione. Verso l’età di 15 anni, mio padre fu come tutti gli altri servi licenziato, la mia vita cambiò dallebasi. Dall’agiatezza alla miseria. Come tutti quelli che sono poveri andai anch’io a imparare unmestiere, feci per molto tempo il barbiere, e divenni anarchico. Forse se la fatalità non mi avessegettato sul marciapiede a contatto con forme di vita per me fino allora sconosciute, e attraversoquesta conoscenza non fosse penetrato nel mio cervello un certo che di nikilismo, e un’altra fatalitàche qui è inutile accennare, io non sarei stato artista, no con certezza. Ero povero scannato e già avevo 20 anni quando risolutamente decisi, col consiglio dei miei diessere artista […] La fede cieca della mia famiglia mi ha sempre aiutato. Andai a Lucca alla R.Accademia di Belle Arti. La città monastica. Sei anni di vita mi avevano lavorato per bene […] Nonparlavo, ruggivo e bestemmiavo e urlavo, immaginate che successo feci […] Molti giorni lanostalgia del mare mi richiamava e allora prendevo una strada bianca di polvere di fango o di neve,e via verso casa. Sulla collina di Maggiano c’è un’altra casa di dolore, il manicomio di Fregionara, epoi ancora il piano acquitrinoso con le risaiole e più in là il mare, il bel mare della Versilia.Incertezza di vita allora, inquietudine di animo, l’arte che non ancora intuivo nella sua grandezza dimiseria e ribellione. Vita che io ora rimpiango perché era la giovinezza, ma allora io soffrivo tanto. Conobbi in quel tempo Plinio Novellini il quale mi fu prodigo di buoni e saggi consigli, e […]andai a Firenze, la visione delle passate grandezze mi allietò molto il soggiorno lassù. Ma era ilmare era la natura erano i vecchi navarchi spodestati che mi chiamavano ancora e senza alcunrimpianto lasciai Firenze deciso a non muovermi più da Viareggio. […] Forse lo avrei fatto se Parigi non mi avesse sempre attratto, un bel giorno lasciai Viareggio

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diretto a Parigi, senza conoscenze con poche lire e senza conoscere una parola di francese. Tiriamoun velo sul resto, patimenti fame umiliazioni freddo disperazione angoscia, la cronaca è inutile sonomille i casi miei, la vita borghese è grande nella città, più grande della misericordia di Dio. Soltanto chi come noi, parlo a nome anche di chi è finito male od è morto, soltanto noi possiamocapire […]. Poi sotto il cocente sole di luglio quando le strade di asfalto si sfaldano sotto l’orma deipassi vagabondi io ritornai al mare al mare. Non penso che la mia arte sia sociale nel senso gretto della parola, può essere, mi lusingo che sianel senso vasto della parola solamente. Evito sempre la composizione e la cronaca, da elementiframmentari voglio che l’osservatore ricostruisca in cuor suo il significato animatore dell’opera.Come da macchie di colore discordanti voglio creare un’armonia, considero le cose e i colorischematicamente come pure i sentimenti, seguo diremo così una prospettiva psicologica. Metto inevidenza quello che mi interessa e che interessando me di conseguenza conquista l’osservatore. Daqui mani lunghe piedi enormi petti squassati occhi naufraghi dilatati enormi […]”. Idealmente sono Bakunista. L’arte è una inutile mollezza della vita se alle moltitudini oppressenon è dato goderne. […] Lo spirito della mia arte?! Discesa la mia famiglia al piano, da una delle colline che circondanoLucca, credo che sia restato in me un senso di pellegrinare, concepite le cose traverso un traumapsichico forse in esse rimane sempre una impronta mortale. Poi la conoscenza di forme diletteratura, Dostoie(s)ki Gorki e Korolenko, e la predisposizione al feroce al bestiale al riottoso,tutto questo è la base”.

Lo stesso linguaggio, chiaro e lucido viene impiegato da Viani nella critica d’arte, come si puòdesumere da questa selezione di Cronache e studi di arte. Lherman: “[…] è belga: è sordo e muto -uno di quei tali uomini, o piccolo lettore, che non chiedono alcuna pietà – è un muto che parla unlinguaggio grande come la voce del mare, mentre ascolta tutte le armonie dell’universo. Se tuvedessi la “Tragedia umana” – che per l’atteggiamento dei gruppi ti ricorderebbe, certo, un’opera diqualche pittore primitivo, come ad esempio Andrea del Castagno o il Mantegna, una deposizione odun Cristo sepolto – udresti gli scoppi dei fucili. Sono due operai che trasportano un loro compagno, l’uno sorreggendolo alle ascelle, l’altro sottoi ginocchi, un loro compagno che in una insurrezione ha avuto il capo sfracellato da una fucilata: lafiglia traccia la strada ai pietosi soccorritori del padre e la madre segue il convoglio che va lungo unmuro bianco al di sopra del quale spuntano le baionette lucenti. Nel quadro “Il cieco” ti pare di udire gli strani gridi di un’anima in pena. La figura è rigida, conla faccia rivolta verso il cielo che più non si specchia nelle sue orbite disseccate: va, con passo resosicuro dalla guida di una bambina, verso un orizzonte luminoso, senza fine, verso interminabiliampie distese propiziatrici di pace al cuore dei vagabondi.” Ebbene, il registro linguistico impiegato nei due brani proposti, dimostra chiaramente comeLorenzo Viani fosse capace di scrivere, all’occorrenza, con estrema chiarezza, e anche comesapesse interpretare con grande sensibilità, competenza e lucidità la propria arte e quella altrui: altroche autore “naif”! Se ne deduce quindi che il linguaggio impiegato nei suoi scritti è strumentale adare espressionistico sapore di veridicità ai vari personaggi e, al tempo stesso, per rendere più viva,scolpita e leggendaria la loro figura. Questo bisogna capire bene, lo ripeto, prima di accingersi allalettura di Viani: la scelta linguistica ha un suo valore primario, intrinseco, nel caratterizzare le suecreature letterarie. Del resto lui stesso ce ne fornisce la chiave interpretativa, non recepita da tantifrettolosi e incompetenti critici. Viani, in appendice al suo “Bava” parla della sua lingua gergale in questi termini: “Linguaggiocon cui […] io snodai la lingua sulle calate della Darsena vecchia di Viareggio che amo perché èmio, anche se non è bello”. E sempre Viani stesso, in un suo articolo apparso su “Augustea” del 25dicembre 1925, ci svela che quando egli, dopo il suo “Ceccardo”, passò alle storie degli “Ubriachi”,per “scrivere le loro avventure”, dovette risolvere il problema dello stile. E in un articolo, apparsosu “Popolo Toscano” del 15 gennaio 1926, Viani è ancora più esplicito indicando la freschezzasorgiva del suo linguaggio ed evidenziandone la valenza, l’efficacia, la funzionalità connotativa:

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“[…] linguaggio casalingo, con quella schietta parlata della lucchesia che non imparai sulle panchedella scuola, ma che mi risuonò intorno per bocca di mia madre […]. Le figure nascono in noi conuna intelaiatura di parole sue e noi le vediamo balzare in rilievo quanto più rimaniamonell’atmosfera della loro espressione. Anche i soprannomi sono armature su cui si crea lapersonalità, perché la “stranomazione”, come dice la plebe, è la somma di un’acuta analisi delledeformazioni dell’anima e del corpo. […] Avviciniamoci a questa plebe […] che nel suo linguaggiofantasioso rimpolpa e rassoda la lingua scritta […] e che nella disperazione crea accenti danteschi[…]. Io provengo alla prosa dalla xilografia che non ammette soverchie sfumature […]. Il miolinguaggio è spinoso, aspro e intraducibile? Ma le figure che lampano nella nostra anima si ricreanocon un’intelaiatura di parole proprie; e noi, per questo, le vediamo in rilievo […]. Io mi propongosoltanto di rendere il tipo tal quale mi è apparso […]”. E infine, in un altro articolo pubblicatosempre sul “Popolo Toscano” del 10 maggio 1930, Viani ribadisce: “Ma Villon, ma Hugo, mal’intrepido amico del popolo Eugenio Sue, il più profondo conoscitore del cuore umano Balzac, nondisdegnarono elevare il gergo a dignità di lingua. La compiutezza e anche la classicità e la purezza di uno stile, non sta nel leccare e umettare iperiodi, ma fin dal tempo del Gran Padre Dante sta nell’aderenza illuminante dei vocaboli adeguatial soggetto […] ” Ecco indicata lucidamente la valenza della sua lingua, volta all’incisività espressiva e piegataalla caratterizzazione dei vari protagonisti: dal gergo del carcere, dell’anarchia e dei vari mestieri, aquello, via via dominante, dei marinai e dei pescatori viareggini che andrà facendosi sempre piùsentenzioso, fitto di proverbi e modi di dire. Linguaggio a forti tinte, frontale, talora allucinato,particolarissimo, espressionista, verghianamente attinto direttamente dalla viva voce della gente, masapientemente rimpolpato, elaborato, costruito da Viani con personali apporti, deformazioni,neologismi, echi anche della lingua antiquata dei “Maggi” (rappresentazioni fonti di culturapopolare, specie nel territorio montano e pedemontano lucchese), che contribuisce a dare vigore esostanza a tutta un’epopea, viareggina e no, di riscatto popolare e individuale al tempo stesso. Ne scaturisce un’espressione letteraria particolare, di forte impatto caratterizzante,personalissima, che rappresenta una delle peculiarità dell’indubbio fascino della scrittura vianesca,tale da meritare maggiori attenzioni, approfondimenti e apprezzamenti da parte dei critici, ancheperché essa costituisce un fenomeno peculiare, unico e inimitabile in tutta la nostra letteratura. E la genialità di tale linguaggio suggestivo ha il potere, come in pittura lo stravolgimentogrottesco e caricaturale fisico e psichico, di rendere più vivi e leggendari i tipici personaggivianeschi posti ai confini della società: poveri antieroi, emarginati, vagabondi, reietti, disagiatimentali, miseri pescatori e marinai, “vàgeri”, piegati dalle difficoltà esistenziali personali ecollettive, conferendo loro originalità, spessore, dignità anche. Così tali figure, grazie a questostrumento particolare, finiscono, nella loro espressionistica ieraticità, per stagliarsi profondamentenel nostro immaginario. Occorre pertanto, come ho già parzialmente anticipato, inquadrare anche il linguaggio vianesco,che si differenzia dall’esasperazione, quantunque fedele, della parlata popolare dialettale usata poida Pasolini e ancor più da Gadda, in una più ampia impalcatura. Viani è un pittore e uno scrittorefortemente ideologizzato, anarchico e coerente nella sua scelta, di ascendenza romantica, di darevisibilità a singoli individui schiacciati, vinti e spinti irrimediabilmente ai margini della società,orgogliosamente consapevole di attingere rigogliosamente dalla propria profonda, “partecipata”comprensione della loro vita e della loro desolazione. Un’arte pertanto viva, vibrante, sincera,vocazionale, a differenza di quella di tanti suoi coetanei pronti ad elaborare astruse, concettoseelucubrazioni programmatiche a cui piegare poi artificiosamente la loro pittura o scrittura o, peggio,a seguire pedissequamente intuizioni programmatiche di altri. Viani stesso, in un’altra lettera del1925 a Franco Ciarlantini, scriverà proprio in questi termini: “Ne ho visti, spostamenti: spiritualisti,futuristi, cubisti, scimmie di Cèzanne e di Picasso, ne ho sentite teorie asmatiche e pesanti, ma iofermo, tenace come un contadino quando scava la terra, di solo preoccupato che il solco venissediritto come una fissazione”. Certamente, da autodidatta istintivo, passionale, egli ha potuto

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avvertire meglio il suo richiamo vero, personale, di appartenenza ad una folla di individuisvantaggiati, emarginati, esclusi, con la missione di riscattarne la dolente umanità, e lo ha ascoltatoe seguito per tutta la sua vita senza mai piegarsi a compromessi, pur consapevole della minoregradevolezza estetica della sua opera: “[…] io disegnavo quelle scabre estreme figure di lavoratori edi plebe da cui trassi origine e che amai ed amo con devozione di figlio […] turba rincorsa dalletragedie umane […] mani anchilosate, piedi suppliziati, teste inebetite […]”. Un modello espressivopittorico che viene traslato nella sua opera di narratore. Questa viva appartenenza, per lo spiritoanarcoide che lo ha sempre contraddistinto, porta Viani, rifuggendo dagli ampi affreschidostoevskiani, o da concetti marxisti di classe oppressa per lui astrusi, a rappresentare singoliindividui, per sua ammissione amati “religiosamente”, titaneschi nella loro inevitabile sconfitta,fortemente connotati dal loro aspetto e dal loro linguaggio particolare, che contiene un quid disimbolistico, eroico, che li contraddistingue, e in un certo senso li eleva dalla loro contingentemiseria, abiezione. Basti per tutti questa breve selezione tratta da La tartanella di Occhioleto: “Occhioleto, nodosocome un ciocco di sorbo, era diventato del colore della salsedinosa tartanella; il pelame del viso delvecchio navigante era aspro ed arso, come l’erba che butta sul fasciame di una barca stagionata; gliocchi, uno smidollato e risegolato di rosso (e per questo lo chiamavano Occhioleto) e l’altrocerchiato di verde mare, parevano le cubie della barca rose dalla salsedine e dalla ruggine; il naso,scarno e tagliente, pareva il tagliamare. Lagrime amare e bollenti come lava avevano versato, nellavita, gli occhi del vecchio marinaio […]. La tartanella era diventata, con l’andar del tempo, unaspecie di albergo di marinai trasandati, i quali si son tirati alla vita randagia e avventizia della terra[…], dopo i malestri che avevano usato dovunque erano stati ricoverati.” Bene, alla luce di quanto premesso, esaminiamo ora, in particolare, il libro di Viani: Il figlio delpastore, pubblicato nel 1930 dall’Editrice Alpes di Milano. Si tratta di un’opera che oscilla tra registri linguistici assimilabili a quelli dei passi, trascrittiall’inizio, della lettera autobiografica e della critica d’arte (in cui, come abbiamo visto, Lorenzovuol rendere chiaro il suo pensiero), laddove la narrazione autobiografica si tinge dei colori dellatrepida rimembranza, con altri in cui egli vuole tratteggiare espressionisticamente, dal lato fisico emorale, personaggi particolari, per la cui caratterizzazione si serve allora del proprio linguaggio piùelaborato e gergale, dall’accentuata forma espressionistica calcata, talora un po’ caricaturale egrottesca. E di figure singolari, rimaste ferme, scolpite nella memoria di Viani e raffigurate con lastessa inarrivabile maestria ed efficacia tipica dei suoi quadri, è traboccante questo affascinantelibro autobiografico. Sfila così, magicamente evocata, nell’intero arco del volume, tutta unacomposita folla di nobili e poveracci, ciascuno con le proprie peculiarità fisionomicheefficacemente accentuate, specchio vivo delle loro diversità anche caratteriali e sociali. Così, fin dal I e dal II capitolo, ecco comparire tutta un’articolata serie di servitori, la cosiddetta“Canaglia” del “Palazzo”, cioè di Villa Borbone, di “tipi strani” come “Il “signor Francesco”, unospagnolo basso, apoplettico, fulvo di pelo, congestionato, misantropo, il quale grufolava semprecome un pentolo di castagne quando stanno per spiccare il bollore”, “il “Signor Squarza”, obeso,biondo-canario che vaniva nel bianco, asmatico […] che […] camminando, boccheggiava come unluccio”, “il “Signor Orticosa”: diritto come un cero, barba sagginata, viso maculato come unaraffica di cruschello, magro, rigido, inflessibile, assorto”, e di nobili personaggi come “il GeneraleDon Isidoro De Iparraguirre y Portillo, vecchio adusto e scarno, bianco di carne e di pelo, che avevafolto su tutto il viso, anche sugli zigomi, anche sulla fronte arida come il cuoio sugatto. Le ciglial’aveva così folte e spinose che gli occultavano del tutto i suoi occhi nero-minerale. Il colletto, alto,inamidato, era frangiato dai peli del petto che quelli erano nerissimi e criniti. Anche dai polsini, chesembravano di pietra, spuntavano dei lunghi peli neri, le mani mortuarie, gialle, scheletrite, erantutte pelose e secche. Dei catarri stizzosi fischiavano alla gola del generale, scorciandogli il fiato.Egli, da vecchissimo, cominciò a gemere bava allumachita dalla bocca, accenciato sopra unapoltrona imbottita; delle strane allucinazioni gli facevano sgusciare gli occhi fuori dalle spine equesti sembravano di piombo e di biacca.” Tuttavia il personaggio, tratteggiato con gli occhi

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dell’ammirazione fanciullesca, anche per il fascino derivato dalla sua regalità, indubbiamente è DonCarlos, descritto da Viani con uno stile insolitamente più limpido, lineare, come, del resto, la“reggia” che lo contorna. “Il “Palazzo” era in mezzo a una selva millenaria, la lucus Feroniae deiromani; dirimpetto all’edificio di stile granducale, c’era una quinta di lecci, tagliata da un vialeerbato che sfociava al mare imminente. […] Ricordo […] di essermi qualche volta imbattuto conDon Carlos il quale cavalcava sulle dune affissando il mare sterminato, palpitante. […] A volte, eglirimaneva immobile come una statua di basalto e guardava il mare da poeta. Allora ai miei occhi egliappariva gigantesco e smisurato. Rigoglioso e potente, audace e triste, il suo volto balenavad’orgoglio e d’ineffabile languore. Amavo il mio padrone. Don Carlos, maschia figura di gentiluomo, di guerriero e di re, era altodue metri e incuteva subito rispetto e timore: ben proporzionato di membra, chiuso nella divisanera, aderente sul corpo come la scorza su di un tronco, coi gambali e gli speroni, egli si sarebbeattagliato entro una sagoma del Bronzino; la testa eretta sul collo gagliardo, era intrepida con gliocchi velati di languore, occhi vivi, umani, penetranti, pieni di fatalità. La barba aveva nerissima,lucida come l’ebano, ravviata ma intonsa; la boina carlista portata lievemente inclinata, gli velava diceleste la carnagione d’avorio. Sotto il cappotto l’ampio petto s’arcuava vigorosamente, le manisolide e femminili serravano una i guanti e l’altra l’elsa della spada rilucente. Quando caracollavanel viale dei lecci, in arcione a un cavallo arabo, sembrava un dipinto di Van Dick. […] Di qua e di là, il “Palazzo” era fiancheggiatola due platani colossali, sicché parevano duegiganteschi candelabri di bronzo inverdito su cui si posavano gli uccelli che venivano di là dalmare. Delle liane abbarbicate al tronco dei lecci, mettevano nel parco delle fantastiche serpi chebrucavano il fogliame, ciuffaie d’oleandri, magnolie e fiori di profumo snervante si addossavano aun muro tutto coperto di edere; in terra c’era la borraccina alta che pareva di camminare sopra untappeto. Ogni tanto stupiva il biancore di una statua su cui si rampicavano delle lucertole e deiramarri […]. La chiesa era anche il Mausoleo dei Borboni e dei Duchi di Parma e di Lucca: letombe una sull’altra, spaziate da dei bei lastroni di marmo nel breve ambito di una cella, occultateda una tenda di broccato rosso erano rischiarate dai bagliori diacci da una vetrata di lastresmerigliate che filtrava su loro una luce argentata. Dalle pinete veniva l’odore della ragia di pino,acre come il fumo di una torcia a vento. Lì riposavano Enrico di Borbone Conte di Bardi, S. A. R. Maria Pia di Borbone Duchessa diParma, S. A. R. Roberto di Borbone Duca di Parma, Piacenza e Guastalla, e Anastasia, Augusto,Ferdinando Principi di Parma, S. A. R. Luisa di Borbone. Il sarcofago in cui riposava Carlo III diParma, Principe di Spagna, ucciso a Parma nel 1854, era addossato alla fiancata della chiesa edaveva dirimpetto quello di suo padre Carlo Lodovico di Borbone Duca di Vienna e di Lucca. Se qualche visitatore penetrava nella Cappella, sentiva sotto i suoi piedi risuonare il boatod’antiche tombe come campane d’argento e gli rispondevano quelle d’oro occultate dalla voltastellata. I nomi scolpitisi lastroni e le parole colmate d’oro di zecchino, lucevano come illuminatidall’interno dalle tombe. La figura di Carlo III, reclinata sull’omero, coperta dell’ermellino, partitoin pieghe di grande dignità, pareva sollevata da un vasto respiro. Andavo sovente ad alzare la tenda di broccato; i nomi delle città scolpiti sulle tombe: Cannes,Madrid, Bolzano, Warteggel, Biarritz, Vienna, Gaeta, Bilbao mi facevano sognare viaggi in terrelontane, nel torpore dell’incenso mortuario. Il profumo dinervante dei fiori avvizziti nel chiuso,l’aria densa di incensi, riducevano come di marmo e l’alito diacciava. Mio padre nella camera numero 18, tra il sito della canfora perdeva il profumo della terra.” Il romanzo autobiografico ci propone poi, filtrati e talora anche deformati dal lontano ricordo,nobili personaggi, monumenti, paesaggi, vivi accadimenti della permanenza libera e dorata di Vianifanciullo in un mondo assai diverso da quello che egli dovrà poi affrontare nella sua vita fuori dalparco e dalla villa. Il tutto non scevro da giudizi morali, ma attraversato da una sottile nostalgia perquel mondo favoloso che si accompagna al rimpianto per un’età perduta.Detto per inciso, Lorenzo riprende qui, però, anche quell’ossessione della morte (già espressa nellaprima lettera a Ciarlantini citata sopra), che occuperà, avvolgerà il suo animo fin dall’infanzia

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“passata in continua festa”, ma già in un certo senso “contesa alla morte”, come quando, a solicinque anni, di fronte al mare, al cielo e alla boscaglia sconvolti dalla tempesta, avverte, vivissimo,“il terrore di essere nato”, tanto da confessare la notte alla sua mamma: “Penso alla morte”. Del resto questo bel volume è dedicato al fratello Raffaellino, elettricista e tecnico navale, cheera morto, fulminato da una scarica elettrica, il 26 agosto del 1929, mentre Viani stava scrivendol’opera Il libro srotola tutta una sua articolata narrazione memoriale condita da intensa penetrazionepsicologica e da acute notazioni e considerazioni, dopo questo suo “incipit” lineare: “Mio padre sichiamò Rinaldo e mia madre si chiama Emilia, nati alla Pieve di Santo Stefano, paesello situato tra imonti della Lucchesia. I miei antenati e mio padre e mia madre, fino a che non discesero al mare, per motivi di cuiparlerò lungamente, furono contadini e pastori ed ebbero sacri la stalla e l’ovile. Io sono nato nella Darsena vecchia in Viareggio, la sera di Tutti i Santi del 1882. Sono statobattezzato il giorno seguente, che è quello dei Morti, al fonte battesimale della Chiesa di SanFrancesco. Furono miei compari i coniugi Chevalot, i quali erano servi di Don Carlos di Borbone, alcui soldo era pure mio padre. Mi chiamo Lorenzo perché così si chiamava il mio compare, michiamo Romolo perché Romola si chiamava la mia comare, e mi chiamo Santi perché mia madrevolle mettermi anche questo nome augurale.” Un linguaggio piano, limpido, usuale, come si può notare e tuttavia, nel V capitolo, neltratteggiare la figura morale del proprio padre, Lorenzo scrive: “Mio padre non vide altra salvezzanella vita che nel servitorame; digrumarsi della melma impastata di lordura feconda e mettere sullabocca il sorriso imbelle del mascherotto, lordarsi con gli abiti a strisce, galeottismo profumato dicanfora e radica saponaria”, concedendosi dunque qualche neologismo (“digrumarsi”,“galeottismo”, “mascherotto”) e alcuni vocaboli di chiaro impatto espressionistico. Il libro dunque puntualizza subito il mondo morale di Viani e il suo anelito di redenzione diindividui asserviti, sia quelli al sevizio di signori, di nobili e quindi solo apparentemente più evoluti,emancipati come suo padre (il cui mondo crolla drammaticamente al momento dell’improvvisolicenziamento: “[…] sembrava che tutto il bosco gli soffiasse addosso il gelo e l’ombra […] Pertutta la notte si vegliò come quando si vegliano i morti”, sia quelli, come i propri avi contadini, chevivevano in una povertà infinita (e anche in questo caso il linguaggio si accende sotto il fuoco della(com)passione, producendo vibranti immagini, efficacissimi paragoni: “[…] andavano al lavorovestiti come galeotti, in capo tenevano un chicco di cappello senza gronda, la camicia di ghineonetutta ripezzata e i pantaloni di mota e i piedi scalzi. Le loro mani erano pesanti come il macigno,ammaccate e callose; il viso schiappato dai tagli, gli occhi vinti. La sera quando ritornavano dal lavoro sembravano statue di schiavi plasmate in creta […]. Ad un certo momento tutti si inginocchiavano e, poggiando il capo sul pancone, dicevano ilBene. Si battevano il petto e urlavano: Mia colpa. Mia massima colpa!” Vi è un’intrigante analogia con il film “Gli alberi degli zoccoli” di Ermanno Olmi, ma qui imiseri contadini non sono visti con gli occhi amorevoli del bravo regista, né la profonda religiositàsublima e rasserena la loro povera vita, anzi essa viene intesa, secondo l’angolo di visuale di Viani,come una più nera schiavitù che impedirà loro ogni forma di riscatto, di emancipazione. Tratteggiata con minor severità morale e con più amore appare la figura della propria madre,ritratta coi colori del cuore, a cui si è rifatto certamente il Mario Tobino de La brace dei Biassoliper talune più intense epifanie liriche: “Quella voce sonora di pastora, intonata alle forre di Pieve diSanto Stefano, faceva cantare il bosco con la sua musicata disperazione di Niobe. Io, infoltato tra leprunaie, la udivo e, quella specie di canto mi consolava e la facevo sgolare senza mai rispondere.Mia madre allora era oceanica, esuberante, piena di vita. Anche nella disperazione era potente, lesue lacrime erano bollenti, il petto si sollevava come sospinto da un impeto di vento gagliardo; ma[…] una vela gialla che si fosse aperta nelle darsene, una ventata che la mettesse sotto una pioggiadi aguglioli di pino, la faceva sorridere come una bimba”. Poi Viani, dopo la rappresentazione delle vicende dei suoi antenati familiari materni e paterni e

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la descrizione dei suoi genitori, ci conduce a rivivere con lui la sua vita, fino alla sua partenza perParigi. E con toni resi vibranti da una sottile nostalgia per la sua infanzia e preadolescenza trascorsenell’ampio parco e nella Villa Borbone, ci introduce, meglio di un qualsiasi saggio storico o dicostume, nella vita di una nobiltà sulla via del declino e di una servitù cosmopolita. Il tuttoattingendo a piene mani, ora al suo registro espressionistico, ora al suo stile narrativoprevalentemente lineare. Il primo modulo espressivo Viani lo dispiega appieno, ad esempio,nell’articolata carrellata descrittiva dei vari servitori di corte, molti raffigurati anche nei suoi dipinticon uguale incidenza espressiva appropriatamente un po’ caricaturale; il secondo nella descrizionedella fuga d’amore della principessa Elvira, che fu all’origine della chiusura di Villa Borbone e delconseguente licenziamento, rovinoso, oltre che economicamente per l’intera famiglia, anche per lasalute del padre di Lorenzo: “La più bella delle principesse, dell’avvincente bellezza delle donnespagnole, slanciata e flessuosa come una figura regale di Goya, donna Elvira […] ascoltò le paroledel suo trepido cuore: amò, riamata, il pittore Folchi, coniugato. Commise il peccato ed accettòserena la penitenza spietata. Una notte, raccolti pochi indumenti ed alcune gioie, ravvolto il belcorpo in un mantello nero, traversò l’immenso bosco tenebrato dalle leccete e dai pini. La guardiadel cancello maggiore salutò umilmente la principessa che, a quell’ora insolita, andava verso lastazione, verso il suo sogno”. Un libro dunque Il figlio del pastore che ripercorre, sull’onda della memoria, la vita infantile diLorenzo prima della cacciata dal paradiso terrestre di Villa Borbone, descritta e fissata mirabilmentesulla pagina scritta nella sua vita quotidiana e, come abbiamo visto, nelle sue nobili presenze in ognisua sfaccettatura, e quella adolescenziale e giovanile sulla strada e sulle banchine della darsena onel suo duro lavoro di apprendista barbiere tra mille difficoltà economiche, su su fino ai suoi studidi pittura e ai suoi primi successi artistici, come quando, per il suo ritratto a Giovanni Pacini, potéottenere un sussidio comunale di 80 lire annue, annunciato da un articolo giornalistico dal titoloCittadini che si fanno onore. Ecco cosa scrive Viani in proposito, con malcelato, sincerocompiacimento: “Io che avevo ritagliato il pezzetto del giornale in cui era scritto il mio nome,quando ero lontano da tutti, sul mare, lo toglievo da un portafoglio che avevo e lo leggevo per delleore intere.” Ne esce un libro avvincente, caldo di memorie, di palpiti, di avventure e disavventure, di giudizimorali, opera di un artista che, anche qui appare fermo nella coerenza delle sua scelta di campodalla parte dei diseredati, dei quali si trova, a tratti, a condividere i patimenti e i rancori: “Il miomondo era quello degli infelici, verso di loro mi sentivo portato da un sentimento di fraternità e diribellione”. Personaggi vinti, deformati dalle sofferenze, dalle disgrazie della vita, ma fedeli fino infondo alloro destino sfortunato, che hanno sempre costituito la sua fonte primaria di ispirazione erappresentazione: “Credo che la fonte di ogni [i]spirazione sia la strada, chi non è stato vagabondonon può afferrare l’intimità delle cose mie”. Un’opera che conferma come Viani, all’occorrenza, dipingesse con le parole, tanto da renderenecessaria, finalmente, una visione critica globale della sua produzione narrativa e plastico-figurativa (frutto indubbiamente di un autore singolare, geniale e coerente in tutte le sue modalitàespressive, dalla bizzarra, straripante personalità e vitalità umana, capace di segnare un’epocaanticipandone anche modi e snodi successivi), per valutarne e riconoscerne appieno l’alto spessoreartistico e, come conclude Ida Cardellini Signorini nel suo articolato e approfondito Lorenzo Viani,anche “per recuperare obbiettivamente l’uomo nel suo complesso, e non solo il vàgero, l’artista enon solo il pittore e lo xilografo, o il letterato, con le sue idee ed esperienze umane e politiche, lesue relazioni storiche, la sua legge individuale; i legami cioè tra arte e cultura e tra arte e vita, inun’artista che ci credeva generosamente”.

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VIANI E I BORBONE: SULLE TRACCE DELL’ARTEEnrico Dei

La famiglia dei Borbone rappresenta un elemento di storia fondamentale per la cultura el’economia di Viareggio, nel nostro caso è una pagina importante dell’infanzia e prima gioventù delnostro artista più significativo: Lorenzo Viani, vissuto fra il 1882 e il 19368.

La Tenuta Borbone, chiamata impropriamente Arciducale, era la dimora di Don Carlos diBorbone di Spagna e della moglie Margherita di Borbone Parma.

Viani provava ammirazione per questa antica famiglia, probabilmente perché dava lavoro alpadre e perché, forse, affascinato da questi nobili e dalla loro corte per i fasti e i fatti vissuti che sisvolgevano all’ombra dei pini e dei lecci che ornavano il giardino della residenza gentilizia.

Lorenzo Viani quindicenne (foto d’epoca) - Archivio Opere Lorenzo Viani, Viareggio

“La vita era bella.La mia infanzia è trascorsa nell’agiatezza. mio padre era un servitore di Don Carlos di Borbone;non aveva però, lo ricordo bene, l’animo del servo: era stato contadino e pastore, cresciuto inlibertà fino a una età avanzata. La villa dove noi servivamo era meravigliosa: ci sono ai due latiimmensi platani, i più alti che io abbia veduto al mondo. In primavera c’erano almeno centomilauccelli. Il parco della villa era, ed è ancora oggi, superbo: certi viali densi di ombre violarischiarati da tarsi di marmo o dai riflessi di qualche laghetto. Oggi mi ricorda i paesaggi diWatteau9, allora mi faceva pensare ai giardini dei maghi”.

8 Si desidera ringraziare per la collaborazione Franco Anichini, Romano Billet, Claudio Lonigro, Giuliano Matteucci,Mirella Viani, Sandra Viani, Franco Vivaldi, la Farsettiarte di Prato, le Terre di Viareggio – Archivio Storico dellaParrocchia di Sant’Antonio.9 Antoine Watteau (1684 – 1721)

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Questa pagina, ritrovata tra le carte di Viani e poi pubblicata in Il romito di Aquileia10,rappresenta non tanto l’aspetto autobiografico, ma nostalgia infarcita di poesia.

Nella lunga galleria dei dipinti vianeschi, ad oggi conosciuti, solo tre sono ispirati aitrascorsi borbonici, “La veglia funebre” (1913 – 1915), “Sposalizio” (1913 – 1914) e “La famigliadei Borboni” (1920 – 1925), opere profondamente significative per il loro valore storico e pittorico,dove emerge la lezione dell’arte moderna percepita nel periodo trascorso a Parigi. Lavori uscitidalla memoria di un ragazzo di circa quindici anni e riportati sulla tela da un pittore nella pienaconsapevolezza dei suoi mezzi; un prisma di storie e di figure, una forma di un raccontoautobiografico facendo uso sia del pennello che dell’inchiostro dello scrittore.

Il titolo “La veglia funebre”, (1913 – 1914), lascia supporre che si tratti degli ultimi momentiterreni di S.A.R. Margherita di Borbone, duchessa di Madrid, scomparsa a soli quarantasei anni il29 gennaio 1893 e tumulata nella Cappella di San Carlo, mausoleo di Borbone e di Asburgo,edificata nel 1849, adiacente alla villa di Viareggio.

La veglia funebre, 1913 – 1914 olio su cartone, cm 67x90firmato in basso a destra: Viani. In basso a sinistra: glia funebre (collezione privata)

Il quadro è concepito senza ricorrere a schemi esplicativi ed è articolato dai toni chiari deivestiti delle donne in primo piano, in contrapposizione a quelli scuri indossati dagli altri astanti.Un’atmosfera in cui la tristezza è la vera protagonista dell’opera. Viani nel dipingere questo “salutoestremo”, un atto di umanità o, usando le parole dello scrittore tedesco Karl Ludwig Börne 11,“L’umanità è il lato immortale dell’uomo mortale”, trae il massimo effetto dal contrasto cromatico,stabilisce un contatto con un filo conduttore tra la realtà e la propria emotività artistica, una sorta dirapporto fra pittura e psicologia. La storia espositiva di questa “veglia” è nota e non è nostro intentoripercorrerla, esiste tuttavia una curiosità per cui si potrebbe aggiungere un eventuale tassello nel“mosaico” del Maestro viareggino.

Nell’esposizione allestita direttamente da Viani nelle sale della Villa Paolina a Viareggio, fra

10 L. VIANI, Il romito di Aquileia, a cura di A. Vivaldi, Sarzana, Zappa, 1964, p. 39.11 Karl Ludwig Börne (1786 - 1837).

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l’agosto e il settembre del 1925, si legge in catalogo opere, alla p. 43, n. 49, il titolo “Veglia diricchi”, ma esiste un ulteriore motivo di interesse, cioè al n. 48 è indicato con “Veglia di poveri”:una contrapposizione, a mio parere voluta, dato che mostra e catalogo sono stati concepitidall’artista stesso.

I Borboni (Famiglia dei Borboni), frammento, 1920 – 1925olio su tavola, cm 35,2x35, (collezione privata)

“I Borboni”: due stele femminili, forse delle principesse, un uomo e parte di un altro;purtroppo si tratta di un frammento dell’antico formato e rappresenta una ridotta teoria di figure incui è assente un atteggiamento di assolutismo, peculiarità tipica degli aristocratici o dei regnanti, inquesto caso decaduti.

Il pennello dell’artista, sicuro e libero, ferma l’espressione dei volti dei nobili con unacrittografia espressionistica dalla connotazione europea, dove però l’espressionismo di Viani èinnegabilmente più concreto di qualsiasi modello di realismo L’elaborato pittorico, dalla concezionesaldamente ancorata al passato, è fondato su un sentimento personale intimamente vissuto.

Nonostante siano state fatte ricerche negli archivi fotografici che raccolgono documentidella storia della famiglia borbonica, non è stato possibile individuare i nomi delle persone ritratte.Il titolo è ormai storicizzato come “Famiglia dei Borboni”, ma è da ritenere che nella sua genesi siacorretto denominarlo “I Borboni”. Il dipinto è un’eventuale rivisitazione di tempi più lontani, cioèdegli episodi della fanciullezza, ed è legato ad uno scritto di Viani pubblicato su “Il Corriere dellaSera” il 31 agosto 1932 con titolo I Borboni padroni e servi, a cui rimandiamo in altra parte diquesta pubblicazione.

Viani ricorda, nel sopra indicato articolo, che il quadro di “sapore goyesco” lo inviòpersonalmente ad un concorso nazionale di pittura alla Galleria d’Arte di Firenze12.Successivamente lo troviamo in rassegna anche in una mostra con il n. 20 dell’elenco opere delcatalogo Mostra Viani, tenutasi sempre nella città del giglio nel novembre del 1933 presso laGalleria di Palazzo Ferroni.

Per tecnica, impostazione e supporto (il dipinto è su tavola), a mia valutazione è databile1920–1925. Esiste un quadro la “Duchessa”, (1934), la cui intitolazione potrebbe essere

12 Concorso Nazionale di Pittura, Firenze, maggio – giugno 1932, Firenze, Vallecchi, 1932, p. 35, n. 92 “I Borboni”.

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riconducibile a una nobildonna del nucleo borbonico, ma dalle ultime indagini eseguite questapossibilità perde valenza.

La Duchessa, 1934olio su compensato, cm 93x127 firmato in basso a destra: Viani (collezione privata)

Sposalizio, 1913 – 1914olio su cartone, cm 69x95,5, firmato in basso a destra: L. Viani

(collezione privata, courtesy Istituto Matteucci, Viareggio)

Altra istanza significativa che nei ricordi giovanili occupa alcune pagine della memoria unospazio rilevante è “Sposalizio”. L’opera che qui viene proposta grazie alla cortese disponibilitàdell’Istituto Matteucci di Viareggio che, in questa sede ringraziamo nella figura della suavicepresidente Elisabetta Palminteri Matteucci, è stata presentata, dopo anni di oblio,nell’esposizione Lorenzo Viani. La collezione Bargellini e altre testimonianze13, questo grande

13 Lorenzo Viani. La collezione Bargellini e altre testimonianze, F. Palminteri a cura di, Sala delle Colonne Ente Cassadi Risparmio di Firenze, Firenze, 25 settembre – 3 novembre; Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea “LorenzoViani”, Viareggio, 12 novembre – 13 dicembre 2009, pp. 68 – 69.

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capolavoro, pressoché sconosciuto ai più, fu presente nella grande mostra che Viani allestì neisaloni del Palazzo delle Aste di Milano14.

Il quadro è una nota descrittiva e definita con coscienza storica: un reportage di unacerimonia nuziale, ma senza scendere nell’ovvietà del particolare insignificante, e con la capacità didare alla scena un significato interiore.

Quell’interiorità dettata dalle reminescenze dei tempi della spensieratezza vissuta nelledarsene, ma anche nella tenuta residenza della casata dei Borbone a Viareggio, dove il padreRinaldo (1845 – 1907) prestava servizio.

Lorenzo Viani, Ritratto del padre, circa 1902 china su carta, cm 17x12,5(collezione privata, courtesy Archivio Opere Lorenzo Viani, Viareggio)

Il “Palazzo”, voluto da Maria Luisa di Borbone15, nato come Casino di Caccia e progettatodall’architetto Lorenzo Nottolini (1787–1851) è posto a mezzogiorno di Viareggio e dista dal centrodella città circa 2,5 chilometri (i documenti ufficiali lo fanno risalire al 1822).

Questo matrimonio che riguarda un nobile è descritto nel libro autobiografico Il figlio delpastore redatto da Viani nel 1930: “Tra i personaggi, v’era anche il Conte De Lassuenne, il qualevestiva sempre di nero con la camicia bianca e il cravattino bianco – questi personaggiricordavano stranamente delle statue a bianco e nero. Non posso ripensare a loro senza dissociarli

14 Esposizione Personale delle opere del Pittore Lorenzo Viani, Palazzo delle Aste, Milano, 30 ottobre – 7 novembre,cat. p. 14, n. 28.15 Maria Luisa di Borbone (1782 – 1824).

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dal marmo e dalla pece. Il Conte pareva di pietra, rigido e specchiante com’era. Il Conte dovevaessere sulla sessantacinquina d’anni perché il suo cranio era lucido e mondo come una pallad’avorio; dai parietali, passando sotto il dente della nuca, lo incoronava una chioma di colortabacco – è d’uopo si sappia che io fui garzoncello del barbitonsore che serviva i personaggi del‹‹Palazzo››- .Quanta cura poneva il mio padrone a servire il Conte! La sua carne accapponatasgranava sotto il rasoio per nulla; guai ad essere andati contro pelo, i porri sanguinavano subito.Ma la cura maggiore il mio padrone, di cui parleremo a suo tempo, la metteva a salvare, quandocon le cesoie li scortava, un centinaio di capelli lunghi una spanna, che il Conte faceva crescere sulcrinale del parietale destro per farli poi rovesciare, impomatati, su quello sinistro. Dopo il servizio,la voltata del cranio del Conte era striata di filetti neri. Per contrasto, egli aveva dei baffifoltissimi, che il mio padrone sapientemente sfoltiva a punta di forbice, con molta maestrìa e liarricciolava in punta col ferro caldo.

Mi colpì il matrimonio di questo signore, celebrato nel ‹‹Palazzo››. Una signorina bionda,occhi cerulei, labbra color rosa, snella, ben partita, un palmo più alta di lui, gli andò sposa. Ella,quella mattina primaverile, tra canti, zirli e il vorticoso sciamare delle rondini, passò nel parcocome una fata tutta bianca e oro; lui tutto nero, lampante, col bianco della camicia e della carnemarmata incatenato al braccio esile di lei, dava il senso del calabrone che salisse sopra il ramo diun biancospino fiorito.

Il corteo era uno spettacolo; le quattro principesse giovinette (Blanca 1868 – 1949, Elvira1871 –1929, Maria Beatrice 1874 – 1961, Maria Alice 1876 – 1975), tutte vestite di bianco spumadi mare, screziato dai capricci del maestrale, principesse borboniche dal taglio maestoso,aggraziate dalle risvolte di grandi crespi bianchi: ‹‹La Sovrana›› Margherita di Parma (1847 –1893), moglie di Don Carlos di Borbone (Carlo VII 1848 – 1909), (fig. 20), madre di loro, incedevamaestosa: il profilo intrepido non risentiva della soavità del rito. Ella indossava un abito di trine disete crude, che era come un ricamo di travertino sopra un corpo bene architettato.”16

Le nozze immortalate da Viani nel dipinto “Sposalizio” e il ricordo letterario sopra riportato,è confermato dal seguente documento parrocchiale presente nell’Archivio Storico della Parrocchiadi Sant’Antonio di Viareggio: “Registro dei Matrimoni 1878–1905, p. 185 registrazione n. 29 delmaggio 1886. “Conte Giuseppe Maria de Lansen (corretto in Lasuen) del fu Giov. Giuseppe”contrae matrimonio con “Baronessa Emma de Reiscbach del fu Francesco”, testimoni “ConteIsidoro Iparraguirre 17 – Cav. Ramon Esparzeu”,(Esparza18) matrimonio contratto previa “dispensadelle tre Conciliari Denunzie ottenuta da S. E. Monsignor Nicolao [Nicola n.d.A.] GhilardiArcivescovo di Lucca” 19. Firmato Il Parroco P. Alessandro Pinelli”.

Ulteriori informazioni, relative agli sposi e altri componenti della corte borbonica aViareggio, sono state acquisite da un saggio a firma di Ana De Sagrera La Duquesa de Madrid(ultima reina de los carlistas), Palma de Mallorca, Ediciones Rustica, 1969, che riporta a p. 512 unalettera datata 5 agosto 1888, con cui Donna Margherita, la “Sovrana”, invita la marchesa CarolinaTacòn y Hewes e i figli alla Villa della Tenuta: “Sono miei ospiti Lausen (gentiluomo della corte diDonna Margherita) con la moglie Emma, che è tedesca; i suoi quattro figli sono stati educatiinsieme con me e appartengono a una delle primarie famiglie di Germania; è una ragazza moltobuona, mi fa da dama di compagnia, ora che lei, dopo il matrimonio, è divenuta spagnola […]. Poici sono Esparza che amministra molto bene la proprietà […]”, sempre nella pubblicazione a p. 566si estrae un’altra notizia su Esparza: “[…] Intendente e amministratore della duchessa Margheritain esilio […]”.

Ne Il figlio del pastore a pp. 10-11 troviamo il “signor Squarza”. Avvezzi alle distorsionitipiche di Viani, in particolar modo per i nomi stranieri, vedi il conte Lausen, si potrebbe ipotizzare

16 L. VIANI, Il figlio del pastore, Milano, Alpes, 1930, pp. 14-16.17 Generale Don Isidoro De Iparraguirre y Portillo 1816–1895, tumulato nel cimitero comunale di Viareggio, ufficialeCarlista è citato da Viani nel suo Il figlio del pastore a pp. 11-13.18 Esparza Ramon, intendente ed amministratore di donna Margherita in esilio.19 Nicola Ghirardi, 1875 – 1904, di origini garfagnine è stato canonico della Chiesa metropolitana di Lucca e vicariogenerale della Diocesi.

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che Squarza sia correlativo a Ramon Esparza: che così descrive nel suo libro: “[…] il signorSquarza, obeso, biondo – canario che vaniva nel bianco, asmatico; egli si recava sempreansimando a fumare delle sigarette medicate sotto un grande viale di platani secolari. Egli vestivasempre di nero, con la camicia e il cravattino tanto bianchi che sembravano di marmo statuario. Ilsignor Squarza, camminando, boccheggiava come un luccio […]”. Dalla descrizionedell’abbigliamento non dovrebbe trattarsi di un servitore dato che non corrisponde certamente alladivisa in uso della servitù.

Alcuni biografi di Viani riconducono l’interruzione del rapporto di lavoro del padre Rinaldo,da parte dei Borboni, forse per sanzioni disciplinari o riduzione del personale, non citando, però, ilvero motivo.Il licenziamento di tutti i servitori fu a causa di uno scandalo che vide protagonista la principessaElvira, secondogenita di Don Carlos.

Quanto è successo il 1° gennaio del 1897 è annotato nel diario di padre Pacifico Bigongiari,un frate e un attento cronista che viveva nel convento dei francescani di Viareggio, e che Bergaminimenziona nel suo libro a p. 241: “Un grande avvenimento è accaduto alla R. Tenuta. Si è chiusa lacasa e licenziata tutta la servitù [che comprende anche il padre di Viani, n. d. A.], eccetto alcunilasciati a custodire il Palazzo e a tenere l’amministrazione! La causa di questa dolorosadeterminazione è stata la fuga della Principessa Donna Elvira, seconda figlia di Don Carlos, con ilpittore Folchi di Roma, già ammogliato e con figli20.

Questo fatto, oltre essere stato di grande onta alla Famiglia dei Borboni, ha addolorato tutti esfregiato l’onore della nominata Principessa di una macchia indelebile.

Ecco dove si arriva quando, una brutta passione non è soffocata nel nascere, e quando legiovanette non sono tenute lontane, in quella età pericolosa, dai balli, dai teatri, dalle conversazionigeniali, da troppa dimestichezza con l’altro sesso.

Per Viareggio in generale è stato un gran danno l’allontanamento delle Principesse dalla R.Tenuta. Molte famiglie ci campavano, e i denari n’entravano tanti in Viareggio, che sollevavanoalquanto la miseria grande che, massime nell’inverno, e in quest’anno, spaventa. Speriamo diriveder presto un poco di vita alla Tenuta.”

Viani dà la sua versione sempre nel suo “diario” il già ricordato Il figlio del pastore alle pp.122-123: “Donna Elvira ascoltò le parole del suo trepido cuore; amò, riamata, il pittore Folchi,coniugato. Commise il peccato e accettò serena la penitenza spietata.

Una notte, raccolti pochi indumenti ed alcune gioie, ravvolto il bel corpo in un mantellonero, traversò l’immenso bosco tenebrato dalle leccete e dai pini.

La guardia del cancello maggiore salutò umilmente la principessa che, a quell’ora insolita,andava verso la stazione, verso il suo sogno.

Nel ‹‹Palazzo›› la sveglia fu drammatica.La principessa Elvira dorme? È morta?Aperta la porta del suo appartamento, questo fu trovato vuoto e come rovistato dai ladri.Il padre scrisse: Oggi è morta mia figlia Elvira.Ed ella, progenie di re, andò come un’ombra verso le peripezie della vita nomade ed oscura,

e corse, e forse corre ancora, dietro al suo sogno. Da quel giorno il ‹‹Palazzo›› fu chiuso, nel parco crebbero le malerbe, coprirono gli stemmi

gigliati e le vasche, i vialetti argentati di ghiaia che rilucevano sotto l’ombre fosche degli abeti.”Nella lettera autobiografica del 1913, edita nel “Giornale di bordo”, n. 10, luglio 1968, pp.

483–486., scritta a Franco Ciarlantini, (1885 – 1940), Viani dà un’ulteriore versione dellicenziamento del padre: “Verso l’età di 15 anni, mio padre fu come tutti gli altri servi licenziato, lamia vita cambiò dalle basi. Dall’agiatezza alla miseria.”

20 Folchi Filippo Carlo, Firenze 1861, la data di morte in base alle attuali ricerche non è stata ancora rilevata. Dallarelazione di Folchi con Elvira nacquero tre figli: Giorgio Marco León, 1900 – 1941, e i gemelli León Fulco, 1904 –1962 e Filiberto, 1904 – 1968; il padre non li ha mai riconosciuti, quindi presero il cognome della madre.

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Lorenzo Viani, Ritratto della madre, 1909 – 1910 carboncino su carta, cm 46x28firmato in basso a destra: Viani; L. Viani (collezione privata)

Nella lettera autobiografica del 1913, edita nel “Giornale di bordo”, n. 10, luglio 1968, pp.483–486., scritta a Franco Ciarlantini, (1885 – 1940), Viani dà un’ulteriore versione dellicenziamento del padre: “Verso l’età di 15 anni, mio padre fu come tutti gli altri servi licenziato, lamia vita cambiò dalle basi. Dall’agiatezza alla miseria.”

Ed ella, progenie di re, andò come un’ombra verso le peripezie della vita nomade ed oscura,e corse, e forse corre ancora, dietro al suo sogno.

Da quel giorno il ‹‹Palazzo›› fu chiuso, nel parco crebbero le malerbe, coprirono gli stemmigigliati e le vasche, i vialetti argentati di ghiaia che rilucevano sotto l’ombre fosche degli abeti.”

Nella lettera autobiografica del 1913, edita nel “Giornale di bordo”, n. 10, luglio 1968, pp.483–486., scritta a Franco Ciarlantini, (1885 – 1940), Viani dà un’ulteriore versione dellicenziamento del padre: “Verso l’età di 15 anni, mio padre fu come tutti gli altri servi licenziato, lamia vita cambiò dalle basi. Dall’agiatezza alla miseria.”

Essendo venuto a mancare il salario del capofamiglia, i Viani caddero nella miseria più nera,quindi, Emilia Fondora Ricci, madre di Lorenzo, donna forte e concreta, (“soda come un pero”

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come soleva definirla l’illustre suo figlio), si adoperò per riuscire a portare a casa un minimosostentamento, dato che il marito, preso da un senso di colpa per la situazione creatasi, si chiuse inun mutismo lasciandosi morire lentamente.

Citiamo nuovamente dal “memoriale” dalla p. 126 la parola di Viani: “[…] Mia madre nonsi mise mai lo scialle sulla testa come facevano quasi tutte le altre donne del vicinato né andòmendica di uscio in uscio. Si mise invece a lavare i bucati. La vedo ancora nei tristissimi inverniuscire di sulle pietre del fosso e tornare a casa come un’affogata a cui Dio avesse concesso dirivedere i figli per l’ultima volta. Non avendo panni di che mutarsi, si nudava nel canto del fuoco esi faceva asciuttare pelle e vestimenta dalle fiamme. Per tutto il giorno tremava come una bimba.Così intirizzita andava a far legna nel bosco e ritornava tutta sanguinante […]”.

Tuttavia l’artista ha sempre avuto un sentimento di gratitudine nei confronti dei vecchi datoridi lavoro del genitore.

La nostra vita, il nostro essere, il nostro sguardo, è tutto popolato di riflessioni proiettate alfuturo, senza però dimenticare il passato e, grazie al tempo che fu Viani ha lasciato all’arte europeauna significativa eredità fatta di capolavori, in questo caso l’ideale omaggio ai Borbone diViareggio.

Ringraziamenti:Franco AnichiniRomano BilletFarsettiarte, PratoClaudio LonigroGiuliano MatteucciTerre di Viareggio – Archivio Storico Sant'AntonioLorenzo VianiMirella VianiSandra VianiFranco Vivaldi

Crediti fotografici:Archivio Opere Lorenzo Viani, ViareggioFarsettiarte, PratoFotone, ViareggioSocietà di Belle Arti, Viareggio

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PARTE II

Atti dell’incontro di studio su I Borbone nel Comune di Massarosa

Villa Gori di Stiava sabato 5 ottobre 2013

raccolti a cura del Prof. Marco Gemignani

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COMITATO SCIENTIFICO

Prof. Franco AnichiniEnio Calissi

Dott. Otello Lenzi (conservatore dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone”)Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli (Università Cattolica di Leopoli e decano dell’Accademia

“Maria Luisa di Borbone”)

COMITATO ORGANIZZATORE

Accademia “Maria Luisa di Borbone”Istituto Storico Lucchese-Sezione di Massarosa

Enio CalissiDott. Otello Lenzi (conservatore dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone”)

Mariano Martinelli

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SALUTO DEL SINDACO DI MASSAROSADott. Franco Mungai

Ho accolto con molto piacere l’invito ad intervenire a questo incontro nel quale verrannoillustrati aspetti, certamente interessanti, della presenza dei Borbone nel territorio del Comune diMassarosa. Stiava era uno dei maggiori centri d’interesse della nobile dinastia, dove possedevano lastorica villa, circondata dall’immensa tenuta agricola, prima appartenuta a note famiglie lucchesi tracui i Buonvisi e i Sardi.

I possedimenti dei Borbone si estendevano poi sulla collina e comprendevano anche la Villadi Conca di Sopra, fino a sfiorare l’abitato di Bargecchia. Essendo la loro presenza durata circacento anni, è naturale che abbiano influenzato la popolazione locale dal punto di vista sociale edeconomico, soprattutto per le loro avanzate vedute nel mondo agricolo.

Il personaggio dei Borbone che più mi è noto, il duca di Lucca Carlo Lodovico, ricordo diaver letto che aveva frequentazioni anche nel capoluogo del Comune, dovute al suo amichevolerapporto con Niccolao Giorgini, personaggio di spicco del governo ducale lucchese.

Sono quindi certo che gli argomenti che verranno trattati saranno vari e di sicuro interessestorico.

Voglio perciò ringraziare l’Accademia “Maria Luisa di Borbone” di Viareggio e la nostraSezione dell’Istituto Storico Lucchese, organizzatrici di questo evento, anche per aver ideato difarlo qui nel ristrutturato ambiente di Villa Gori, che ben si adatta ad incontri di carattere culturale.

Un personale ringraziamento debbo rivolgerlo all’appassionato al dottor Otello Lenzi, seriostudioso della storia dei Borbone, che spesso mi presenta le sue pubblicazioni.

Vi ringrazio nuovamente per avermi invitato e vi auguro buon lavoro.

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ALCUNI TRATTI DI ALICE DI BORBONEMons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli

Si tratta di una figura che ha avuto una presenza assai prolungata nel territorio di Stiava,dove per altro risiedono ancora alcuni suoi discendenti.

Figlia di don Carlos di Borbone Spagna (Carlo VII, 30 marzo 1848 - 18 luglio 1909) duca diMadrid e di Margherita di Borbone Parma (1° gennaio 1847 - 29 gennaio 1893) era nata a Pau, sulconfine fra Francia e Spagna, il 29 giugno 1876. A seguito della conclusione disastrosa della Guerracarlista, Margherita era riuscita a raggiungere la proprietà ereditata dal padre a Viareggio, la vastatenuta agricola con villa, parco e pineta di levante: ivi si era insediata mentre il maritoavventurosamente era riparato in Brasile per raggiungerla poi tempo dopo con i resti del suo Statomaggiore.

Alice a quattordici anni, il 1° gennaio 1891, viene ammessa nella Confraternita dellaMisericordia di Viareggio. Rimasta orfana della madre nel 1893, non appena compiuti i ventunoanni, nel 1897, va sposa al principe Federico Schoenburg Waldenburg: la coppia si stabilisce aViareggio.

Nello stesso anno 1897 viene nominata ispettrice della Misericordia, allora presieduta daldottor Raimondo Del Prete. È probabilmente questa l’occasione che le consente di conoscere ilfiglio del dottor Del Prete, Lino, brillante ed affascinante ufficiale di Cavalleria.

Nel 1901 il principe Federico decide il rientro con la moglie incinta in Germania, a Dresda onei dintorni in qualche proprietà della sua famiglia. Ma il matrimonio è ormai in crisi e il rapportocon il principe Federico si incrina irrimediabilmente, nonostante la nascita dell’atteso figlio cheviene battezzato nel 1902 con il nome di Carlo Ludovico. Alice lascia la Germania e rientra aViareggio con il figlio neonato. Alla separazione di fatto, già il 23 dicembre 1903 succede unasentenza di divorzio civile fra i due coniugi. Ben immaginabile lo scandalo in quanto Alice va avivere insieme a Lino Del Prete con il quale evidentemente già esisteva una precedente relazione,coltivata anche dopo la partenza da Viareggio.

Nel frattempo, però, viene avviata la pratica presso la Sacra Rota Romana per ottenere lasentenza di nullità del matrimonio. È del 16 maggio 1906 la decisione positiva del Tribunalecanonico e già il 3 giugno successivo Alice di Borbone e Lino Del Prete si sposano religiosamenteregolarizzando così la loro posizione. Si presume che abitino nella proprietà della famiglia DelPrete al Colle di Bargecchia, un’antica e appartata struttura già conventuale, ben adatta allasituazione della coppia. Questa bella residenza diventerà quella abituale di donna Alice.

Intanto dal loro rapporto era già nata una figlia, Maria Margherita l’11 dicembre 1904 e il 21novembre 1905 l’unico maschio, Giorgio. Seguiranno le altre cinque figlie: il 18 febbraio 1907Maria Cristina, il 12 febbraio 1908 Maria Beatrice, il 4 agosto 1909 Maria Luisa, il 13 gennaio 1911Maria Francesca e il 16 settembre 1914 Maria Ernestina.

Alice rimane vedova, a seguito della morte di Lino sopravvenuta il 12 febbraio 1956. Lamorte la coglie, novantanovenne, al Colle di Bargecchia nel gennaio del 1975.

Credo opportuno evidenziare alcuni elementi della vicenda di Alice che ne completano inqualche modo la personalità. Certamente ella svolge anche un ruolo politico, nel senso più nobilegenerale del termine. Benché figlia di don Carlo di Madrid, protagonista della sanguinosa guerracivile per la successione al trono di Spagna e sorella del capo del carlismo, don Jaime, si puòarguire da alcuni frammentari documenti che con molto realismo andò oltre le divisioni dinastiche eriuscì ad instaurare ed intrattenere buoni rapporti con il re Alfonso XIII, sia nel periodo in cuisedeva sul trono, sia nel periodo dell’esilio, seguito alla proclamazione della Repubblica. Il re le sirivolge con il “Querida Alicia” e conclude con il riconoscersi come “cugino che ti ama molto” nellalettera del 24 agosto 1919. Ancor più nella lettera tutta autografa del 15 febbraio 1932.

Ma ancora quasi trent’anni dopo, apprestandosi ad effettuare un viaggio in Spagna, Alice inuna lunga intervista alla “Domenica del Corriere” pubblicata il 27 novembre 1960 apre allapossibilità di incontri diretti con don Juan di Borbone. In occasione di quel viaggio e in uno

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successivo nel 1967 incontrerà don Alfonso di Borbone, marchese di Pinopar, e sarà ricevuta dalpresidente delle Cortes spagnole con il quale intratterrà anche una certa corrispondenza in seguito.È probabilmente in queste occasioni che tenta inutilmente di convincere il Caudillo generaleFrancisco Franco a scegliere quale futuro re di Spagna il pretendente della linea carlista anzichéquello della linea alfonsista.

Devo, e direi anche doverosamente, evidenziare come ella abbia avuto un rapportoprofondo, pressoché costante, molto fattivo e generosissimo con la Misericordia di Viareggio. Non èqui la sede per un approfondimento, ritenendosi sufficiente questa semplice segnalazione, cuiaggiungo, per chi lo volesse, l’indicazione del lungo capitolo a lei dedicato nel mio studio su LaCasa Borbone e la Misericordia di Viareggio, Viareggio, Edizioni della Fontana, Viareggio 2011,pp. 70.

È onorevolmente sepolta a Viareggio insieme al marito nella Cappella della famiglia DelPrete nel Camposanto della Misericordia, invece che con la madre, le due sorelle e il fratello nellacappella-mausoleo di Villa Borbone.

Fotografia della principessa Alice di Borbone

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NICCOLAO GIORGINI AL SERVIZIO DEL DUCATO DI LUCCAAvv. Giorgio Paolini

Niccolao Giorgini nacque a Montignoso il 26 gennaio 1773 e dette lustro per oltre cinquantaanni alla vita pubblica di Lucca, che, all'epoca, comprendeva anche i territori di Massa e Carrara.

Pur non essendo nato all'interno dell'arborato cerchio, aveva entrambi i genitori lucchesi,Giorgio, capitano e patrizio lucchese, e Maria Domenica Barsanti, anch'essa lucchese. Compie studifilosofici, che all'epoca erano fondamentali e propedeutici a quelli tecnico-scientifici.

Niccolao seppe imporsi in maniera incisiva nel panorama politico e amministrativo delloStato lucchese; nel 1804 è a Parigi ad acclamare l'incoronazione dell'imperatore NapoleoneBonaparte, come rappresentante del Governo di Lucca e rappresentante degli Anziani, ossiadell'organo esecutivo della Repubblica. Chiese e ottenne la trasformazione della Repubblica inPrincipato, affidato a Felice Baciocchi, marito di Elisa Bonaparte. Nel 1806 fu nominato prefettodella Garfagnana e poi prefetto di Massa e nel 1809 consigliere di Stato, il massimo consessoamministrativo. Con l'avvento del regno dei Borbone, Giorgini fu incaricato di sfruttare le cave dimarmo di Montignoso, suo borgo natale; pur mantenendo una continuità di incarichi pubblici anchenell'interludio austriaco, è con l'avvento dei Borbone che fece il salto di qualità nella vita del Ducatodi Lucca. Il 15 giugno 1822 venne nominato gonfaloniere di Lucca, incarico che rivestì per ventidueanni, confermato dopo la morte della madre (18 marzo 1824) da Carlo Lodovico, il quale, peraltro,non passò molto tempo nello stato lucchese preferendo soggiornare nelle corti europee, delegando icompiti amministrativi al ministro Ascanio Mansi e agli altri membri del governo.

Forte dell'investitura dei Borbone, intellettualmente libero dai condizionamenti dellestoriche famiglie lucchesi, che avevano in Ascanio Mansi il loro referente politico, seppecaratterizzare la sua opera con notevole pragmatismo e respiro internazionale. Fece studiare il figlioGaetano a Parigi, il centro di cultura e di tecnologia più avanzato dell'Ottocento.

Maria Luisa di Borbone incaricò l'architetto Lorenzo Nottolini, in esecuzione del pianopropostole dal gonfaloniere di Lucca, di realizzare un progetto avveniristico per l'epoca, che dotò lacittà di risorse idriche cospicue e costanti (circa 20.000 barili al giorno), attraverso un sistema diben quattrocento arcate sostenute da pilastri di un'altezza di 22 braccia ( circa 13 metri), spiegate dasud a nord, che consentiva anche ai piani alti degli edifici cittadini di fruire di acqua corrente;l'acqua convogliata in una cisterna di pietra poi confluiva nel centro di Lucca fino alla piazza dellaCattedrale di San Martino, attraverso tubazioni sotterranee di ferro fuso che passavano sotto allemura urbane all'altezza del bastione di San Colombano e da qui si diramavano in tutta la città.

L'autorità di Carlo Lodovico, dopo quella iniziale della madre, consentì a Nottolini laprosecuzione dell'opera idraulica rispetto ai tentativi di ingerenza delle oligarchie lucchesi,preoccupate dal sensibile aumento dei costi di costruzione dell'acquedotto, che chiedevano unacommissione d'inchiesta.

Per il finanziamento dell'opera idraulica aumentò il carico fiscale che pesava sulle famiglielucchesi, già gravate dalle spese di corte, con il risultato, però, di dotare Lucca di un'infrastrutturache ancor oggi inorgoglisce la città e la provincia.

Le necessità finanziarie dello Stato portano Carlo Lodovico a costituire il 10 agosto 1837 laSocietà Cassa di Risparmio di Lucca di cui Niccolao fu il primo presidente, magnifica istituzionefinanziaria, emblema dell'importanza e dell'autonomia dello Stato lucchese, che solo negli ultimianni ha perduto le caratteristiche di banca legata al nostro territorio. Rinsalda i rapporti dellafamiglia e di Lucca con i Borbone e il granduca di Toscana, inviando il figlio Gaetano, fresco distudi dall'Ecole Polytechnique di Parigi, il M.I.T. dell'epoca, a collaborare con il granduca LeopoldoII nei progetti di bonifica della Maremma toscana.

Alla morte del lucchese Ascanio Mansi, Carlo Lodovico assume un potere sempre piùassoluto, promuovendo Giorgini ai vertici amministrativi dello Stato con la nomina a direttoredell'Interno, affiancandolo altresì al genero Antonio Raffaelli, nel Dipartimento di grazia e giustizia.I rapporti particolari di stima ed amicizia col duca (ospite abituale dei Giorgini a Montignoso e

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sovente lontano da Lucca), consentirono al nostro di salire di autorità nell'amministrazione dellostato bypassando le antiche oligarchie lucchesi.

Se questo fu causa di critiche da parte delle antiche famiglie patrizie, non può negarsi cheNiccolao Giorgini poté esprimere tutta la sua vocazione di statista di livello internazionale, senzacedere agli interessi contingenti dei propri amministrati e ciò fu possibile grazie alla totale stima cheil Borbone riponeva nella persona e nell'opera del gonfaloniere.

Analogamente furono il duca e il Giorgini a traghettare il Ducato lucchese verso la cessioneal Granducato di Toscana, indigesto boccone per le indisposte famiglie oligarchiche di Lucca, chenon volevano perdere la loro plurisecolare autonomia e vocazione all'isolamento.

In chiave con il respiro internazionale della corte lucchese e forte dell'autorità derivata dalsuo tenace e appassionato servizio, caratterizzato dalla continuità attraverso le diverse reggenzedello Stato, promuove il miglioramento del Palazzo reale, ripristina la Piazza Anfiteatro nella suaprimitiva consistenza urbanistica, ripulendola dagli abusi, provvede al recupero del decoro urbano edelle facciate dei palazzi storici, anche con provvedimenti in odio ai singoli proprietari come adesempio nei confronti di Federigo Bernardini e di Paolo Garzoni nel maggio 1831 allorché ilgonfaloniere minacciò di procedere amministrativamente al restauro coattivo della facciata della dilui casa in Via San Donato21.

Con singolare pragmatismo per una persona dalla formazione filosofica, opera larisistemazione del sistema stradale e fognario e procede alla costruzione della piazza davanti alTeatro del Giglio (a ben vedere anche l'abate Vandelli, nel secolo XVIII, che, aveva una formazioneumanistica e tecnica ossia multidisciplinare, pose il suo sigillo sulla via carrabile che congiungetuttora Massa con Parma attraverso le Alpi Apuane; ciò la dice lunga sulla deriva iperspecialisticache la nostra moderna cultura ha intrapreso a danno della formazione integrale ed interdisciplinareche, sola, consente le migliori realizzazioni dell'uomo).

Con l'ingresso in Lucca nel 1817 di Maria Luisa di Borbone Spagna, assieme al figlio CarloLodovico, ai quali era stato concesso il Ducato lucchese in sostituzione di quello parmense con iltrattato di Vienna, Niccolao afferma e caratterizza definitivamente la sua azione di governo. Nel1840 fu nominato ministro dell'Interno e dal 16 ottobre 1843 presidente del Consiglio dei ministri.

Con l'arrivo del granduca Leopoldo II venne nominato reggente il governo della Provincia e,annesso il territorio di Lucca al Granducato di Toscana, fu nominato prefetto della Provincia diLucca. Terminato il proprio incarico di prefetto granducale con le dimissioni del 29 marzo 1848, siritirò a vita privata con la sua famiglia nel borgo rurale di Massarosa, all'epoca frazione del Comunedi Viareggio, circondato dall'affetto dei propri cari e amici, sorretto da una sicura fede cristiana, chelo portò sempre a confortare più che a chiedere conforto ai suoi amati, costituendo sempre ilriferimento della famiglia e dei nipoti. Cessato l'impegno amministrativo cessò anche il rapportocon la città di Lucca della famiglia Giorgini con la vendita della casa.

Anche in questo Niccolao riflette il rapporto con Lucca dei Borbone che predilessero laVersilia, con le sue bellezze naturali e paesaggistiche, alla bellezza discreta e controllata di Lucca. Èsepolto nella chiesa parrocchiale dei Santi Iacopo e Andrea di Massarosa, non lontana dalla casa diVia Cenami nel centro storico, acquistata nel 1818.

Il periodo massarosese di Giorgini fu caratterizzato da un fermento politico e letterarioinusuale per il borgo; Carlo Lodovico di Borbone dalla Germania intrattenne stabili relazioniepistolari con Niccolao e anch'egli, alla sua morte, venne tumulato nella cappellina dei Borbonenella Villa di Viareggio sul Viale dei Tigli. Il nipote di Niccolao, Giovanbattista, marito di VittoriaManzoni, gravitava spesso nella casa di Massarosa, dal nonno, che lo protesse durante il brevegoverno Guerrazzi che lo destituì dalla cattedra universitaria di Pisa per la sua parentela conMassimo d'Azeglio; nella titolarità della cattedra venne ripristinato subito dopo la caduta delgoverno rivoluzionario. Giuseppe Giusti ed Antonio Rosmini fecero visita alla famiglia Giorgini aMassarosa.

21 Per tale vicenda vedi A. BRECCIA , Una famiglia di funzionari: Niccolao e Gaetano Giorgini, in “Rassegna degliArchivi di Stato”, LXII (2002), 1-3, pp. 335-347.

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Alessandro Manzoni fece visita a Niccolao e venne ospitato nella casa di Massarosa alla finedell'estate del 1852; il teatro comunale “Vittoria Manzoni” di Massarosa ci ricorda quanto fosserosolidi i legami familiari tra le eccellenze letterarie e politiche internazionali e il territorio dellaVersilia e di Massarosa.

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FRANCESCO BIANCHI DETTO “IL DIAVOLETTO” E LA SUA“SALA RUSTICA” A CONCA DI SOPRA

Prof. Franco Anichini

Il paese e il ducaLa cosiddetta “Sala rustica”, una sala molto particolare interamente dipinta come un

capanno con la tecnica del trompe-l’oeil, si trova al piano nobile di una villa destinata a casino dicaccia del duca Carlo Lodovico di Borbone, situata in località Conca di Sopra, nel Comune diMassarosa a 116 metri sul livello del mare.

La frequente presenza di Carlo Lodovico e della sua corte a Stiava e a Conca di Sopratestimonia la particolare predilezione che il duca aveva per questa località, tant’è che amavaappellarsi in tono ironico con il titolo di “Conte di Stiava”.

Anche Leone Bigongiari, scrittore locale, ci fornisce ulteriori elementi nel suo scritto del1907: “Distante poco più di cinque chilometri da Viareggio al Nord-Est è il paese di Stiava che sulfinire del secolo decimottavo contava poco più di 500 abitanti. Una strada sterrata alla meglio,partendo dalla via Sarzanese a Montramito e seguendo per lungo tratto il piede d’una collinachiamata Gulfa, conduceva nell’interno del paese fino al Palazzo, che così designavasi il luogo doverisiedevano i proprietari della villa già Buonvisi, poi Sardi, oggi Borbone.

Il Duca abitava in una sua palazzina a Stiava, vicino a Viareggio; ne possedeva altre duevicine, a Conca e a Montramito. Presso di lui stava Domenico Maria de Navasquez, segretariointimo di Gabinetto, il Ciambellano di compagnia e l’aiutante di campo; a Conca il grandeelemosiniere mons. Cherubini e gli elemosinieri della Cappella Greca, il servizio di cucina edell’office. A Montramito erano le dame, cioè la dama d’onore moglie del barone di Lowemberg ela marchesa d’Emengard. Le tre abitazioni erano distanti l’una dall’altra una o due miglia. Tutta lacorte si riuniva a colazione a Stiava a mezzogiorno, per il pranzo a Conca alle sei, per poi ritornarealla veglia a Stiava; quindi a mezzanotte, ognuno andava per conto suo. Dopo il pranzo, quando lastagione era buona, venivano fatte lunghe passeggiate nei paesi vicini.

La costruzione a quel tempo di una strada carrozzabile che congiunse i due latifondi diproprietà Borbone rappresentati dalle due ville di Stiava e di Conca. A quest’ultima si rendeva ognisera la corte per il pranzo che veniva servito in una sala dipinta dal Bianchi di Luccasoprannominato il Diavoletto, lavoro di qualche pregio, anc’oggi ben conservato, che rappresentauna stanza dedita all’agricoltura, alla caccia e alla pesca con tutti gli utensili del mestiere e lestoviglie di lor condizione. Questa stanza ebbe il nome di Sala Rustica.”

L’unico accesso carrozzabile era dunque la strada sterrata che da Montramito portava alpaese. La restante viabilità era caratterizzata da una trama di sentieri e mulattiere che collegavano isovrastanti paesi con i resedi rurali e le varie ville sparse nella valle.

Il duca acquistò nel 1827 la villa posta in località Conca di Sopra, distante circa unchilometro e mezzo da quella reale di Stiava. Le due proprietà vennero collegate attraverso lacostruzione di una nuova strada carrozzabile comoda e panoramica denominata poi “la strada delleville”, permettendo così al duca e alla sua corte un facile e comodo spostamento e un più agevoletrasporto dei prodotti agricoli da parte dei contadini dipendenti.

Il duca, appassionato cacciatore, poteva in questa valle e nelle zone circonvicine mettere inatto, senza restrizioni di sorta, la sua passione per la caccia, scorrazzando sulle colline, nei boschi,nei campi, nel vicino Lago di Massaciuccoli, per giungere fino al mare. Un ambiente vasto evariegato, ricco di selvaggina, che offriva molteplici occasioni e avventure per divertirsi e passarepiacevoli giornate in compagnia degli amici cacciando e vagando per il territorio. Il geloso “buenretiro” di Stiava, dovette stimolare le ambizioni del duca a fare del posto un luogo di un certointeresse valorizzandone alcuni aspetti e rendendo così il paese stesso più consono alla sua figura,importandovi elementi che esprimessero la moda culturale del tempo. Era egli un uomo colto,curioso di scoprire ogni nuova situazione e assai dedito agli studi liturgici e biblici, riguardo ai qualiaveva seguito con grande interesse le funzioni luterane durante i suoi viaggi all’estero, tanto da

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convertirsi alla religione anglicana. In un suo testamento si legge: “Dichiaro morire membro dellaChiesa Anglicana Episcopale (High Church) della quale faccio parte dal 6 agosto 1835.” È vero,però, che morì in piena comunione con la Chiesa Cattolica.

L’adesione alla Chiesa Anglicana stimolò il duca a lasciare a Stiava un segno che esprimessenel sacro la sua nuova fede: la ristrutturazione della chiesa di Santa Maria Assunta, dandoall’edificio una nuova immagine architettonica che si rifacesse ai modelli delle chiese protestantidella Germania, caratterizzate dallo stile gotico. Dà l’incarico al regio architetto Lorenzo Nottolinidi Lucca che si reca più volte a Stiava ed elabora un progetto di stile neogotico così dettagliato neiparticolari da sembrare già esecutivo, facendosi inviare modelli grafici di chiese gotiche di Berlinoa cui potersi ispirare. “Si gradisce di avere un disegno inciso della pianta, alzato e spaccatogeometrico di una delle principali chiese protestanti gotiche di Berlino. In caso però che ciò nonesistesse presso i mercanti di stampe, potrà incaricarsene uno studente di Architettura dellamedesima città, cui gli si farà disegnare una delle suddette chiese gotiche, ma la più semplice egraziosa nel tempo stesso, come per esempio quella costruita in mattoni che è destinata alla nazionein lingua Francese. In quanto al disegno basterà di avere un semplice schizzo in linea, ma riportatoin proporzione col piede Francese.”

Probabilmente la precaria e compromessa situazione economica del duca deve aver influitoin qualche modo nell’attuazione del progetto che, rivelatosi forse assai costoso, non è stato mairealizzato. Comunque testimonianze della mano di Nottolini per la villa di Stiava sono rimaste nelpozzale, nella nuova scala della parte orientale della villa e nel fonte battesimale, donato da CarloLodovico alla chiesa unitamente ad un’orchestra con organo.

Anche se non riuscì a soddisfare il suo desiderio a Stiava, Carlo Lodovico si consolò a Bagnidi Lucca dove permise alla comunità inglese, presente da tempo nel paese, la costruzione di unachiesa progettata in stile gotico dall’architetto Giuseppe Pardini di Lucca e, nel 1842, l’apertura delcimitero anglicano, a conferma di una sua precisa volontà (nonostante la forte opposizione delVescovo di Lucca) di esprimere la sua scelta di fede nella chiesa anglicana.

La villaVolendo raggiungere la ex Villa Borbone, si prenda la strada che parte dalla Via Sarzanese,

poco distante da Montramito, in direzione delle colline: ci si prospetta davanti il colle che dà originea due piccole valli, a mezzogiorno quella di Stiava e a tramontana quella di Conca, caratterizzato inbasso dalla Villa Cenami (Conca di Sotto) e più in alto dalla Villa Borbone (Conca di Sopra).

La strada sale per circa 2 chilometri con ampi tornanti in mezzo a rigogliosi oliveti. Percorsoquesto tratto, sulla destra si apre una piccola strada privata, asfaltata, che conduce sotto il robusto edalto muro che recinge la villa, seguendo il quale si giunge all’ingresso della proprietà, chiuso da ungrande cancello di ferro lavorato sullo stile del Settecento, che probabilmente ha sostituito quellooriginale. Attraverso il cancello si intravede, a destra, la cappella dedicata a Maria Assunta fattacostruire dalla famiglia Dal Portico nel 1776.La villa è circondata e nascosta ad occhi indiscreti dapiante di alto fusto, pini, lecci, magnolie, e dagli oliveti, sì che non è visibile dalla strada principale.

Il nucleo originario della casa di campagna di proprietà della famiglia Dal Portico di Lucca,sembra risalire al secolo XV. Con il matrimonio fra Maria Dal Portico e Alessandro Castracani,celebrato nel 1738, e le mutate condizioni storico-sociali la vecchia casa padronale, non rispondevapiù ai gusti di una borghesia mercantile, divenuta consapevole del proprio prestigio e, quindi, piùraffinata ed esigente.

Nel 1812 la villa venne acquistata da Ferrante Cittadella Castrucci; quindici anni dopo, nel1827, ne diviene proprietario Carlo Lodovico di Borbone. Nel 1880 la villa passò agli eredi di CarloIII duca di Parma (Ferdinando, figlio di Carlo Lodovico).

Nel 1923 cambia nuovamente il proprietario della villa: l’ingegner Adolfo Iacomelli e poi ilfiglio dottor Emilio, che la tiene fino al 1980 provvedendo a rialzare il piano secondo per renderloabitabile, e in seguito la vende ai signori Fantozzi che, a loro volta, in seguito la cedono all’attualeproprietario l’ingegner Luciano Gobbi Benelli.

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Della “Sala rustica” si interessò negli anni Sessanta del XX secolo anche il critico e storicodell’arte Roberto Longhi che rimase colpito dalla singolarità dell’ambiente e dalla qualità deidipinti. Interpellò un noto restauratore di cui non è stato possibile identificare il nome che,gratuitamente, intervenne su alcune parti della sala che si erano alterate.

In seguito alcune pubblicazioni e articoli di stampa hanno trattato dell’opera pittorica, masono state tramandate notizie inesatte riguardo alla motivazione e alla data di realizzazione. Infatti,fino ad ora, nei documenti d’archivio non è stata rintracciata alcuna fonte che confermi la notiziache la sala sia stata dipinta in occasione del matrimonio fra Carlo III Ferdinando e Maria Luisa diBerry, come il professor Guglielmo Lera aveva pubblicato a suo tempo. Lo stesso Lera dice diaverla raccolta dalla tradizione orale della gente del luogo. Può darsi che nell’occasione dellosposalizio, celebrato il 10 novembre 1845, il duca abbia voluto donare al figlio, appassionatocacciatore come il padre, la “Sala rustica”; da lì potrebbe essere nato l’abbinamento fra la pittura e ilmatrimonio.

Dai documenti ritrovati risulta invece che nel settembre 1839 Francesco Bianchi avevaormai realizzato l’opera. “[…] a Conca, ove mi fu dato commissione di dipingere una sala rusticaallo stile dei Fiamminghi, dovendo servire al carattere di caccia e di pesca; e riuscitomi contentarenon solo i Sovrani ma eziandio molti altri che vi furono quando ne fu fatta l’apertura, fui invitato afare due righe onde essere ammesso pittore dell’II. e RR. Fabbriche.”

Infatti, seguendo il consiglio dei presenti, Bianchi fa domanda al duca di essere ammessocome pittore di corte in appoggio al già incaricato pittore Antonio Marsili, ormai anziano.“Osa ilBianchi implorare la grazia di poter continuare nel servizio Vostro, come pittore dei Reali Palazzi,in tuttociò che personalmente più non potesse il pittore Marsili, del quale rispetta i diritti dianzianità. (17 settembre 1839).”

Carlo Lodovico accetta la richiesta e, nel giro di un mese, gliene dà conferma. “PrevengoV.E. che da S.A.R. è stata nel giorno di ieri approvata la proposizione col di Lei rapporto di n° 371,per cui Francesco Bianchi d’ora innanzi sarà chiamato sempre ad eseguire nei Reali Palazzi tuttiquei lavori ai quali non potrà prestarsi personalmente Antonio Marsili attual Pittore delle RealiFabbriche. (26 ottobre 1839)”

Il VestiboloL’ambiente appare interamente costruito da strutture murarie, con aperture che lasciano

intravedere il cielo come se al di là del vano ci fosse uno spazio libero. In alto si scorge il tetto acapanna fatta da pali di orniello, una sorta di legno palustre, legati con fibre vegetali, forse il salcio(il salice usato per legare viti e altre piante), su cui poggiano sovrapposti dei mannelli di falasco tipoquelli che si trovano ai bordi dei chiari in padule. Questa qualità di falasco, più corta e di foglia piùstretta, risulta più impermeabile e permette un migliore “ammannellamento” delle coperture deicapanni. L’inserimento di due finestrelle a sesto acuto sembra voler testimoniare, pur nell’ambito diun capanno rurale, l’attenzione da parte del pittore per il gusto gotico, forse stimolato dallo stessoduca che, come già riportato, in questo periodo si interessava a questo stile.

Anche il pavimento in origine doveva essere dipinto come quello della sala; attualmente ècostituito da piastrelle sagomate in laterizio.

Tutto ciò che il pittore ha rappresentato in questo vestibolo ci riporta alla memoria certe casedi campagna; ad esempio: un forno a legna con relativa mensola per appoggiare le vivande dainfornare, il bricco dell’olio, la pala, un gallo nostrano appollaiato, una botticella di legno destinataa contenere acqua, vino o liquore; un paio di scarpe di vacchetta con suole di cuoio (del tipo in usoal ceto nobile); una brocca da mescita rivestita di ingubbiatura bianca e vetrina verde (in uso dalXVII fino al XIX secolo) (fig. 1).

Sulla parete sud troviamo una pennatina, un mazzo di sei grosse chiavi di ferro; un segugioitaliano di color marrone, adatto per la caccia alla lepre e, sopra la porta un quadretto appeso ad unchiodo, raffigurante una Pietà. C’è anche un martin pescatore appeso ad un filo: questo volatile,detto anche “uccel di S. Maria” per il colore azzurro del suo piumaggio, secondo la tradizione

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popolare veniva abbattuto durante la luna calante perché non marcisse e conservasse il colore dellepiume; veniva poi fatto essiccare ed appeso con un filo di refe passato attraverso le narici, nellecucine delle case contadine, lontano dal fuoco. Quando il petto dell’uccellino si girava ad orienteindicava l’arrivo del cattivo tempo (fig. 2).

Sulla parete ovest è dipinta una civetta, libera, appollaiata su due legni incrociati.L’immagine della civetta si ritrova anche all’interno della sala, legata ad un trespolo. Probabilmentei Borbone avevano una certa predilezione per gli uccelli notturni, infatti sulla maniglia di una portanella villa di Viareggio è incisa la figura di un gufo con la scritta: “FACTUS SUM SICUTNYCTICORAX IN DOMICILIO” (fig. 3) .

Dal vestibolo attraverso una piccola porta, alta m. 2,14 e con la parte superiore a vetro, citroviamo finalmente nella “Sala rustica” che nel 1880, quarantuno anni dopo la sua realizzazione eanno di morte di Bianchi, veniva così descritta dall’estimatore della proprietà dei Borbone: “La salarustica pavimento di mezzane stuccate e dipinte a olio, soffitto incannicciato, caminetto di stucco,due finestre con telari di castagno e invetriate. Questa sala è dipinta alla rustica dal fu prof.Francesco Bianchi ed è un capolavoro del valente artista. Rappresenta una capanna con pareti ditavole, e con pavimento parte di mattoni parte di lastroni. Alle pareti figurano appesi utensili, dicaccia, di pesca, di uso domestico. Ai quattro angoli del soffitto stanno appesi altrettanti trofei dicaccia e di pesca. Alcuni animali sono figurati alle pareti e nel pavimento ed il tutto eseguito conmirabile verità ed esattezza e fa bella testimonianza della volontà dell’artista.”

La SalaDi forma rettangolare, prende luce da due finestre che guardano verso il mare; il caminetto

sulla parete opposta e le tre porte che immettono in locali adiacenti, sono gli unici elementi “veri”dell’ambiente; il resto è dipinto (fig. 4).

Tutte le pareti sono rivestite da una trama di fitte tavole di legno, di pino o di castagno dicolor marrone, sulle quali sono collocati svariati oggetti.

Bianchi, pensando da architetto, ha fatto proprie le esperienze dell’architettura primitiva evernacolare contadina rendendo, con l’effetto tromp-l’oeil, l’idea di un ambiente rustico.

“Costruisce” un capanno con tanto di soffitto, soppalco, mobiletti, scaffali ricavati nellepareti, ripiani in muratura, oggetti e animali, giocando sull’ambiguità della finzione, dell’ingannoottico, amalgamando il vero con il falso pittorico creando, di fatto, una continua illusione visiva inmodo che il fruitore si trovi coinvolto in un ambiente dove realtà e finzione si integranoperfettamente, lasciando spazio alla fantasia. Di fatto, con il pennello ha inchiodato le tavole conchiodi di Gombitelli, legato con nodi i pali del tetto, ha chiuso con chiavistelli, ha murato là doveintendeva rendere solida la struttura.

Agli angoli ha posto elementi a V che compongono la trama della struttura portante di tuttala sala, costituita da pali di legno quadrangolari che si aprono a mo’ di mensole a sostegno di unarchitravatura lignea continua.

Il tetto a capanna è costituito dall’orditura di verdi pali di castagno sormontati da una seriedi tavole che ne costituiscono la copertura, mentre la cappa del camino è in pietra e mattoni.

Il soffittoIl soffitto, piano, è particolarmente bello. Bianchi dà dimostrazione delle profonde

conoscenze prospettiche con un senso scenografico ed organizzativo degli elementi assai originale,venutogli probabilmente dalla scuola dell’Accademia Bolognese sotto l’insegnamento di Basoli e diSantini e da suggestioni realistiche di Bargioni e di Contestabile nelle sale dei palazzi reali a Lucca.

Egli riesce, nonostante l’altezza ridotta del soffitto, a creare un effetto spaziale dilatatoverso l’alto. Inventa lungo tutte e quattro le pareti una specie di soppalco formato da una coppia digrosse tavole sostenute da mensole. Tutto l’impianto compositivo del soffitto è disegnato con unaprospettiva centrale il cui punto principale, al quale concorrono idealmente le linee, è posto alcentro della sala. L’artista per rendere l’effetto spaziale ancor più evidente crea diversi piani

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prospettici: il primo è costituito dalle falde del tetto e dall’orditura dei pali e delle tavole; il secondodal palo trasversale e dai due cavalletti laterali; il terzo dagli oggetti soprastanti le tavole del palco;il quarto, che caratterizza la composizione, è dato dai tavoloni che formano il palco; il quinto edultimo da alcuni oggetti che si proiettano verso il basso (le carrucole, la pelle di leopardo, le spighedi grano, la corda) e che rendono ancora più evidente il senso della spazialità illusoria, resa piùveritiera dall’uso delle varie tonalità cromatiche.

Nell’angolo nord-est sopra pali e tavole il pittore adagia una pelle di leopardo, vicino allatesta dell’animale spunta un “kinjal”, lungo pugnale russo-caucasico (fig. 5).Vicino è collocato un“malempeggio”, attrezzo usato per la pulitura degli olivi.

Nella parte opposta troviamo cinque canne di bambù corredate di filo, amo e sugherinotondo adatto per la pesca in acque ferme, due cerchi di bertabelli, uno a maglia larga e l’altro amaglia più stretta, per la pesca di anguille, tinche, lucci, scalbatre e pesca da fondo, che venivanomessi agli sbocchi del fossetti, fissati ad un palo nei punti di passaggio obbligati, orientati controcorrente (fig. 6).

All’angolo opposto, Bianchi organizza un ammasso di remi per i barchini di padule, diforme diverse: un “roccetto”, una coppia di remi usati con lo scalmo, dei “remetti o remi” usatistando in piedi sul “culaccino” (la poppa) del barchino, remi con le pale incatramate, altri con laparte terminale dipinta di azzurro e su tre di essi spicca in nero il marchio a fuoco “CL” (CarloLodovico) sormontato da una corona, a indicare la proprietà regale; tre grosse matasse di corda dicanapa e una più piccola, fissate da una sopralegatura alla maniera marinara (fig. 7 e 8). Ai lati deicanapi vi sono quattro nasse per la pesca delle anguille, fatte di mezze canne tagliate e unite dagiunchi, con le quali si pescavano le anguille di risalita, durante i mesi da novembre a gennaio, el’anguilla cannaiola, più piccola ma più pregiata e saporita. Dietro le matasse di corda fuoriesce unarpione o “mezzo marinaio” usato in mare come attrezzo per l’accosto e la presa di funi.

Nel quarto angolo, quello a nord-ovest, è dipinto in maniera evidente un “diavolaccio ofrugnolo” fig. 9), (scambiato erroneamente da alcuni per una grande ragnatela) per la caccia cheveniva praticata, specialmente nella stagione invernale, a merli e altri uccelli che, catturati vivi,servivano ai cacciatori come richiamo. Ci sono, inoltre, due grosse fiocine da padule e da lago,immanicate in lunghi bastoni. La parte alta delle fiocine è in ferro formata da undici punte ciascunadelle quali ha una serie di quattro uncini .

Troviamo ancora: tre botticelle di legno contenenti, forse, polvere da sparo e otto sacchetti dijuta con impresse in nero le lettere PT 7, PT5, PT3, PT2 (fig. 10). La sigla PT sta per “piombotemperato” riferito alla grandezza del metallo dei pallini da caccia per il caricamento dei fucili.

Parete estAl centro della parete completamente rivestita di tavole, sporge di circa 30 cm. la cappa del

caminetto sostenuta da un semplice architrave, sorretto da due pilastrini dipinti a finto legno.A sinistra del caminetto ripiani e mensole sostengono vari oggetti di uso comune: una

scodella, un catino, una lanterna metallica ad olio (fig. 11). Appeso ad un chiodo un lumino dettoanche “luppichino”; lì vicino, uno “scaldino” in cotto, una fiaschetta in vetro foderata interamentedi typha (erba palustre, comunemente detta sala, biodo o stiancia), la famosa “veste” esterna,necessaria per favorire la stabilità dei fiaschi di vetro e proteggerne la fragilità; un piccolo calice interracotta, due piatti da parata decorati alla grottesca con personaggi tipici tratti da ambientimilitareschi: due figure di armigeri con tanto di spade e fucili vestiti con abiti di foggia seicentesca.La cromia che caratterizza le superfici invetriate è basata sulla prevalenza di larghe campiture digiallo alternato all’azzurro, caratteristico della ceramica di Montelupo del secolo XVII.

Sulla cappa del camino Bianchi dispone una rastrelliera in legno che sostiene tre fucili. Ilprimo fucile in basso ha la canna rivolta verso nord, gli altri due sono girati nella direzione opposta(fig. 11). Appare chiara la volontà del duca di mettere in risalto le armi da lui usate durante lebattute di caccia, facendole collocare in bella vista sotto ad un trofeo, un paio di corna di cervoappese alla cappa.

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Sotto la rastrelliera un foglietto, con l’angolo sinistro ripiegato, raffigura l’immagine diMaria SS. della Consolazione di Roma.

Parete sudLa parete sud è caratterizzata da una bellissima finestra dipinta, a timpano, strutturata da una

grata in legno, come spesso s’incontrano ancora oggi in vecchie case rurali della zona.Qui il pittore dimostra tutto il suo mestiere e la sua abilità nel rendere illusorio lo spazio. Al

di là della grata si intravede un luminoso cielo azzurro toccato da colpi di bianco, che dà l’idea diuno spazio arioso, solare e infinito (fig. 13). Le ombre portate della grata, si proiettano a sinistrasulle tavole dell’anta aperta, creando un forte effetto prospettico messo in risalto dall’ombra scura.

A sinistra della finestra, su alcuni ripiani sono posti altri oggetti di uso quotidiano; a destradella finestra una lepre, eviscerata, è appesa ad un chiodo. Anche questo soggetto è trattato conmaestria dal pittore che sa conferire una certa morbidezza al pelo dell’animale da poco ucciso,dimostrando un sapiente uso delle ombre. Sulla porta è affisso un foglietto devozionale raffigurante,in tratti neri, un Cristo Crocifisso con la scritta “Gesù mio Misericordia”.

Il soggetto è un Cristo “patiens” dipinto ad imitazione della tecnica xilografica con cuispesso venivano eseguite stampe da matrici lignee, poi diffuse a bassi costi per la devozionepopolare.

Ancora su questa parete, in alto, in un incavo tra due mensole, trova posto un vaso giallo diterracotta invetriata con due piccoli manici contenente fiori e foglie campestri, fiori che nascono neimesi estivi (agosto e settembre) e sono facilmente reperibili localmente. Infine, una gabbiettarealizzata con cannelle palustri o “midollino”, specie di giunco, che veniva usata per contenereuccelli da richiamo.

Parete ovestDue vere finestre danno luce alla stanza affacciandosi in direzione del mare, distante pochi

chilometri. Su questa parete si trovano i lacerti superstiti di quello che doveva essere l’originarioarredo rustico, otto legni (quattro in alto e quattro in basso) scolpiti come rami nodosi e utilizzatiper sostenere e fermare i tendaggi (fig. 14).

Sul finto tavolato che ricopre anche questa parete, troviamo una piccola acquasantiera, opiletta, di ceramica bianca. Tra le due finestre, appesi ad un paletto, ci sono un corno da caccia, unpaloscio o daga da caccia, una borsa di pelle (carniera) o poltroni era, un gancio di legno ricurvoche sostiene, appese per le zampe, due folaghe, tipici uccelli palustri che, soprattutto in passato,amavano ritrovarsi numerosissimi nel Lago di Massaciuccoli e nei paduli contigui.

La famosa “tela” delle folaghe ha visto partecipi nomi illustri come Maria Luisa, madre delduca Carlo Lodovico, negli anni 1820 - 1821 e Giacomo Puccini, appassionato cacciatore, che nonperdeva occasione durante i suoi soggiorni a Torre del Lago per dilettarsi con questo passatempoquando, nei primi anni del ‘900, il lago ed i paduli pullulavano di questi uccelli che richiamavanostuoli di visitatori da più parti della Toscana.

L’ambiente del lago, fino agli anni del dopoguerra, era una delle zone più importanti d’Italiaper il transito di numerosissime specie di uccelli che trovavano in questi luoghi un habitat ideale.

Anche il pittore Lorenzo Viani, nei suoi scritti, ci fornisce testimonianze relative allospettacolo eccezionale che le folaghe offrivano nel momento della caccia.

Parete nordÈ la parete nella quale si apre la porta che immette nel vestibolo. In alto, a sinistra, il pittore

la “sfonda” con un incavo rettangolare, sostenuto da mensole e travi, nel quale ha sistemato: unfascio di panìco, una civetta da richiamo per la caccia, uno specchietto ed altri oggetti utilizzati perla caccia (fig. 15).

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I soggetti religiosiIl duca Carlo Lodovico vuol forse ricreare in questo ambiente, lontano da Lucca, un angolo

intimo, privato, dove la caccia e la pesca costituiscono il motivo dominante dell’otium,immergendosi in un mondo dove si trova a suo agio; la scelta delle tre immagini religiose, nelvestibolo e nella sala, potrebbero esprimere la sua volontà di testimoniare, anche in questoparticolare ambiente, il suo legame con la religione.

Già all’esterno, sopra la porta d’ingresso, troviamo il simbolo del Cristo. È un bassorilievoquadrato, in marmo grigio, raffigurante il sole raggiato con le lettere IHS, espressione del cultolegato al SS. Nome di Gesù, voluto e portato nella terra di Camaiore nel secolo XV da SanBernardino da Siena.

Il quadretto dipinto nel vestibolo raffigura una pietà che fa pensare che il pittore abbiavoluto imitare una formella in ceramica di gusto popolare.

All’interno della sala l’immagine di Maria SS. della Consolazione di Roma, affissa allacappa del camino, è piuttosto singolare.

Il pittore raffigura un busto di Madonna, vista di tre quarti e contornata da una sottile cornicenera. La Vergine ha un’espressione dolente e intensa, intenta a pregare con le mani giunte. Ha ilcapo e le spalle coperte da un mantello azzurro e una veste rossa ricopre il corpo e le braccia,un’aureola contorna la testa leggermente inclinata in avanti. Bianchi, in questo come nell’altrofoglietto devozionale, riesce con grande abilità a rendere l’effetto trompe-l’oeil di pezzi di cartaattaccati con chiodi alle pareti, giocando sull’effetto di ombre portate, riproducendo lo stile e lasemplicità delle stampe popolari. Può darsi che l’inserimento dell’immagine della Madonna delleGrazie nella chiesa della Consolazione di Roma sia stato voluto dallo stesso duca, forse per qualchelegame di tipo religioso, a memoria della permanenza della madre a Roma nella residenza dei nonnie nel Convento di S. Domenico e Sisto.

L’altra stampa è affissa alla porta della parete sud: rappresenta un Cristo patiens sulla crocecon un cartiglio con le lettere INRI. Sullo sfondo, in basso a destra delle rocce, appare una città conalte torri, cupole e campanili, forse Gerusalemme e il Monte Calvario. Tutta la composizione èincorniciata da una bordatura sottile nera sotto la quale, in caratteri capitali, la scritta “GESU’ MIOMISERICORDIA”. Anche questa immagine xilografata del Cristo crocifisso trova riscontro nellafede popolare.

ConsiderazioniNel realizzare la “Sala rustica” l’artista dà prova del suo talento, dimostrando un’attenzione

e uno spirito di osservazione verso gli oggetti, sia quelli di uso quotidiano, sia quelli personali delduca che probabilmente egli stesso aveva voluto dipinti. È difficile comunque stabilire quale libertàabbia avuto Bianchi nella scelta delle cose da riprodurre e quanti e quali siano stati i vincoliiconografici imposti dal duca.

È comunque evidente dall’analisi di tutta la struttura pittorica che il pittore ha pienamenteassolto l’incarico e l’indirizzo stilistico voluto dal committente, creando e inventando un ambientedel tutto particolare, rispettando il carattere della caccia e della pesca.

Prima di intraprendere l’ideazione della sala deve aver studiato e rivisitato lo stile deifiamminghi attraverso opere originali che erano in Lucca o stampe che circolavano in città.

Nel periodo barocco, oltre alle grandi composizioni con soggetti da caccia, esisteva tutto unmercato di quadri di formato minore con motivi più semplificati che, venduti a prezzi più bassi,potevano essere acquistati anche da nobili meno facoltosi. Un soggetto che s’impose fu quello degli“uccelli appesi a testa in giù”, divenendo poi tema autonomo fino alla creazione illusoria deltrompe-l’oeil che già aveva un prototipo nella pernice di Iacopo de’ Barbari del 1504, il primoesempio datato e firmato di elementi legati alla parete.

Bianchi aveva avuto modo di apprezzare anche lavori di artisti operanti nella reggia lucchesee di ricavare spunti e idee nell’ambito specifico dell’uso del trompe-l’oeil, né gli erano certo ignoti idipinti e le impostazioni compositive, in quelle sale di Gasparo Bargioni e di Niccolò Contestabile.

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Usando lo stile illusorio si ricollega alla più antica tradizione del Barocco fiammingo eitaliano e fornisce ai fruitori un saggio della sua preparazione teorica e culturale sulle teorieprospettiche, dimostrando di essere non solo un esecutore manuale, ma il “pictor doctus” che escedall’ambito inferiore delle arti meccaniche per proporsi come colui che è in grado di creare eprogettare un ambiente attraverso l’applicazione teorica e la conoscenza di discipline scientifiche, inparticolare l’uso della prospettiva. Con questo lavoro sembra voler ricordare gli inganni di Zeusi ola “starna di Protogene”, cercando nel disinganno il momento in cui la percezione diventa gioco.

Provocando la percezione il pittore sollecita anche le sensazioni tattili, si cerca così ditoccare per verificare se l’oggetto dipinto su una superficie piatta è vero o falso, e quanto più questosenso del tatto è sollecitato, tanto più accresce nel fruitore l’ammirazione per l’artista che ha saputocon la sua abilità trarci in inganno, giocando con l’apparenza virtuale delle cose dipinte.

Pensando al pavimento originale della “Sala rustica”, su cui figuravano oggetti, animali,paglia ed altro, sembra che Bianchi si sia ricordato del famoso pavimento del mosaicista Sosos(metà IV e metà III sec. d.C.).

Con la realizzazione della “Sala rustica”, egli trova il modo di sfogare ed esprimere unrealismo più veritiero e immediato scevro da ogni mediazione con l’antico, a diretto contatto con lecose, gli oggetti e le forme della vita reale, in modo particolare con la realtà legata al mondocontadino. Qui la sua pittura trova modo di espletarsi in un linguaggio più libero anche se è, altempo stesso, vincolato dal dover ritrarre gli oggetti in modo puntuale e meticoloso.

Nella “Sala rustica” reinventa degli spazi attraverso l’illusione visiva, la finzione, l’effettotrompe-l’oeil che nell’arte barocca aveva raggiunto alti livelli di rappresentazione di spazi illusori,con eccessi virtuosistici fino all’uso delle deformazioni anamorfiche, peraltro già note nel ‘500.

Il senso dello spazio illusorio creato da Bianchi, è strutturato su un rigoroso impiantoprospettico della sala dove le cose e gli oggetti sono quasi tutti rappresentati con un punto di vistaposto a m. 1,45 di altezza dal pavimento, e gli oggetti sono dipinti nelle dimensioni reali. Un altroelemento fondamentale usato in maniera efficace è la luce che fa risaltare i volumi e i dettagli,provocando ombre portate ed una illusoria tridimensionalità, stimolando nell’osservatore lasensazione di trovarsi di fronte ad oggetti veri, da toccare. Tiene conto della luce proveniente dallefinestre vere e da quella finta, creando ombre più reali possibili continuando ancor di più l’ingannoottico.

Il duca, grande amante della caccia, ha voluto inserire nella sala tutto ciò che ad essa èlegato. Entrando nella sala si ha la sensazione di essere arrivati dopo una battuta di caccia e il ducasembra aver appena riposto l’equipaggiamento e la selvaggina uccisa: i fucili nella rastrelliera, glistivaloni di cuoio rovesciati e appesi ad un paletto, le fiaschette per i pallini e la polvere da sparo, laborsa cartucciera, il corno, gli uccelletti, la lepre, le folaghe. Sono assenti, se si escludono le cornadi cervo sulla cappa del camino, prede nobili come cinghiali, fagiani, caprioli e daini.

Per i nobili la caccia era un passatempo, ma ai contadini non era permessa e quindi sitrovavano costretti a praticare quella di frodo, per molti l’unica possibilità di sfamarsi, specialmenteverso i primi di ottobre con l’arrivo degli uccelli migratori, e in genere si limitava alla cattura dipiccoli animali. La classe contadina non doveva perdere tempo nella caccia, ma dedicarsi al lavorodei campi nell’interesse del padrone, affinché la terra rendesse al massimo.

Già nel 1814 Ferdinando III aveva promulgato leggi sulla caccia che toglievano ai contadinicerti diritti che avevano da sempre avuto. Anche nel Ducato di Lucca, sotto il governo di MariaLuisa di Borbone, e successivamente del figlio Carlo Lodovico, le leggi sulla caccia insistono inmodo particolare sulle modalità relative all’ottenimento della licenza per la caccia col fucile.

Vengono altresì date indicazioni sui periodi in cui cacciare e al tipo di selvaggina, con larelativa tassa da pagare; il cacciatore che richiede il permesso di caccia con il fucile deve presentareun attestato di buona condotta morale, rilasciato dal proprio parroco. Vi sono poi delle precisenormative che riguardano le Reali Bandite che sono riservate a pochi.

Come si può notare i privilegi erano ancora destinati a chi aveva mezzi e tempo liberoescludendo di fatto i più poveri da tale attività, relegando i medesimi a praticare la caccia di

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nascosto e con mezzi illeciti o di fortuna, utilizzando il “diavolaccio”, le trappole, i lacci oquant’altro, mezzi poveri che escludevano le armi da fuoco, ma che riflettevano l’ingegno.

Sia i nobili che la nuova classe emergente, la borghesia, condannavano la caccia di frodoritenendola indegna di un gentiluomo e aborrivano tutti quegli strumenti e mezzi considerativergognosi perché ingannevoli sì da “assassinare” la selvaggina che si trovava in una situazione diinferiorità rispetto all’uomo.

Perché, allora, in una stanza tutta dedicata alla caccia di tipo nobile come attestano i varielementi dipinti, viene inserito il “diavolaccio”, un attrezzo che esprime e testimonia la caccia difrodo?

Un personaggio di alto rango quale era Carlo Lodovico non poteva certo praticare un tipo dicaccia così ignobile, ma l’attenzione per questo oggetto, dipinto con estrema precisione da Bianchi,dimostra l’interesse del duca e fa pensare che anch’egli l’abbia in effetti praticata, in barba a tutti idivieti e a tutte le convenzioni formali. Ed era forse la trasgressione alle regole che rendeva piùsolleticante la caccia e per soddisfare la sua sfrenata passione andava tutto bene, anche l’uso dimezzi proibiti. È un personaggio contraddittorio, apparentemente formale ma spesso infrange leregole, dedito ai piaceri della vita e proprio in questo ambiente può dimenticare i doveri verso loStato e abbandonarsi ad una forma di libertà senza etichetta.

La residenza di Conca poteva così diventare uno spazio dove trovare un momento di riposoalla ricerca del proprio “paesaggio interiore”. “Il duca, un transumante, un nomade per l’Europa.Uno che fugge, fugge dai luoghi e dalle persone che lo circondano, ma in primo luogo fugge da sestesso.”

Purtroppo la perdita dei mobili originali non ci permette di penetrare fino in fondo il senso elo stile generale della sala. Non è escluso che gli arredi siano stati progettati dallo stesso Bianchi,come aveva fatto un anno prima nel salotto del marchese Mazzarosa, dove era riuscito, attraversouna concezione unitaria dell’opera, a rendere la decorazione pittorica un tutt’uno con gli arredi.

Tutta la decorazione della sala è stata eseguita a tempera e calce. Bianchi deve avercertamente disegnato dei bozzetti da sottoporre al duca, sia per l’ideazione della finta costruzioneche, soprattutto, per gli oggetti da collocare nel contesto delle pareti e del soffitto. È piacevoleimmaginare la sala con il mobilio completo ed ecco prender forma un ambiente dove il tema dellacaccia e della pesca costituiscono gli elementi fondamentali per creare l’illusione, il sogno che nonfinisce, dove la memoria di avventure venatorie, di rischi, di grandi battute, il rumore e lo scoppiodei fucili, l’odore della polvere da sparo, il sangue della selvaggina uccisa, il latrare dei cani, ilfruscio del fogliame, il freddo, la pioggia, la notte, i silenzi durante gli appostamenti, sonoriproposti attraverso il gioco della finzione scenica: la stanza diviene, usando le parole di MarioPraz, “un palco nel teatro del mondo”.

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fig. 1

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fig. 2

fig. 3

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fig. 4

fig. 5

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fig. 6

fig. 7

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fig. 8

fig. 9

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fig. 10

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fig. 12

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fig. 14

fig. 15

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I BORBONE E LA COLTIVAZIONE DEL RISO NELLA ZONA DI MASSAROSAEnio Calissi

Essendo stato invitato a svolgere una relazione sulla presenza e l’influenza dei Borbonenel Comune di Massarosa, ho affrontato l’argomento della coltivazione del riso, fortementevoluta e sostenuta dal duca di Lucca, Carlo Lodovico.

Non saprei dire quale estensione territoriale avesse raggiunto la coltivazione del riso nelterritorio della Repubblica di Lucca agli inizi del XVII secolo. Certamente era un’attivitàassai diffusa, ma già allora veniva ritenuta causa del diffondersi della malaria, che tante vitemieteva ogni estate. È certo che gli abitanti di molte località, tra cui Quiesa e Stiava,elevassero accese proteste, chiedendo al Governo della Repubblica di vietare quella coltura,praticata nei terreni umidi.

Con un Decreto dell’11 maggio 1612 venne perciò proibita, per sempre, la coltivazionedel riso su tutte le terre della Repubblica lucchese. La pena per i contadini trasgressori vennefissata in 25 scudi, mentre per i proprietari del terreno ammontava addirittura a 200.

Nei due secoli successivi non risulta vi siano stati, sull’argomento, altri interventilegislativi, fino a quando, nel 1822 Maria Luisa di Borbone, duchessa di Lucca, con unproprio Decreto, ribadì il divieto ed aggiorna gli importi delle pene pecuniarie che, per itrasgressori, risulteranno ancor più severe. Questo provvedimento è la conferma che qualcunoaveva, evidentemente, almeno l’intenzione di riprendere la coltivazione del riso.

Alla morte della duchessa, avvenuta nel 1824, salì al trono il figlio Carlo Lodovico ilquale, ben presto, dovette riaprire il capitolo delle risaie a seguito delle insistenti richieste dinobili imprenditori. Primo fra tutti i richiedenti fu il marchese Sampieri di Bologna che, fortedelle esperienze acquisite nella sua regione, intendeva cimentarsi nella coltivazione del risoanche in Lucchesia. Il conte e avvocato Carlo Massei, primo fra i lucchesi, intuì che la colturadel riso poteva procurare ottimi guadagni e dette vita ad un’apposita società con Sampieri; sulfinire del 1839 ottennero, con Decreto ducale, il permesso di coltivare il riso nelle terre dellacosiddetta marina lucchese.

Lo stesso Carlo Massei, in uno scambio epistolare con suo fratello Giovanni, trasferitosiin Emilia, in merito alle coltivazioni agricole, scrisse che: “[…] volesti assegnare postoonorevole, se non la primizia (che questa spetta a buon diritto alla canapa) al riso che tantacopia lussureggia sulle terre basse e palustri di cotesta regione. E desideroso come semprefosti, di veder resa, ognor più felice, la condizione del tuo paese natio, facevi voti perché ilPrincipe, saggio e benevolo, che a nostra gran ventura qui regna, ammettesse anche nelDucato lucchese, questa coltivazione, togliendo via le leggi proibitive […]. Or, cotesti tuoivoti, ottennero qui, favorevole accoglimento […]”.

La lettera di Carlo Massei è una preziosa testimonianza sulla situazione, nella nostrazona, al tempo in cui Carlo Lodovico iniziò a rilasciare le prime autorizzazioni per lacoltivazione del riso. Contiene inoltre lusinghieri apprezzamenti nei confronti del duca per lasua magnanimità.

A tale scritto ho attinto a piene mani per trasmettere fedelmente il pensiero dell’autore.L’importanza del testo a cui mi riferisco, è confermata dalla stampa che ne fu fatta a Lucca,tipografia Bertini, anno 1841, con il titolo “Delle risaie nel Ducato di Lucca, e dell’industrialucchese”. Per l’argomento di questo incontro, interessa però solo la prima parte.

Massei, dunque, riferiva al fratello che a seguito della provvidenza sovrana parecchiepersone si erano unite in società e si accingevano all’opera della coltivazione. Riconoscevache il marchese Sampieri meritava elogi per aver suscitato nei lucchesi il primo interesse, eper aver portato a Lucca l’esperienza della coltivazione bolognese, stimolando così la volontàdi molti altri a seguirne l’esempio.

Affermava poi che fino a quel momento l’attività intrapresa gli aveva causato soloamarezze, dovute a suo dire a malignità e calunnie e, al fine di ottenere le terre necessarie alla

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coltivazione, aveva cercato di superare tutti gli ostacoli incontrati. Scrive, infatti, che iproprietari terrieri, o negavano la locazione o richiedevano condizioni e ripristini impossibilial termine dell’affittanza. Quasi tutti poi pretendevano affitti esagerati e anticipati. Occorreperò subito precisare che in tutte le frazioni pianeggianti, poi divenute Comune di Massarosa,in estate si diffondeva la malaria e la coltivazione del riso era ritenuta una causa ed un veicolodi propagazione.

Cito ancora: “Adunque dovemmo contentarci di poca quantità di terra, qual ci fuconceduta dalla discretezza di qualche onesto proprietario, fra cui dobbiamo, a cagioned’onore, nominare il Duca regnante, il quale, mentre come Sovrano apriva ai lucchesi questanuova sorgente di pubblico bene, l’aiutava poi, e la secondava, come possessore di terre,concedendole alla Società a condizioni al tutto favorevoli e mitissime. Del qual segnalatobenefizio egli avrà il meritato premio […….] Malgrado dunque di tanta contraddizione e ditanti ostacoli sorge ora una risaia sulle lande paludose di Montramito; e ben presto, queiluoghi infetti di aria malsana, d’onde il passeggero s’affretta ad allontanarsi, si abbelliranno disì ricca messe”.

Massei sottolineò che si trattava di terreno paludoso e attribuì a tal condizione la cagionedell’aria malsana, mentre lavorando la terra con la vangatura e la successiva immissione diacqua corrente dovrebbero ridursi le cause delle infezioni.

Sempre secondo il suo parere, altro vantaggio che ne deriverebbe dalla coltivazionedel riso, sarebbe quello di utilizzare molta manodopera locale, che in quel periodo era solitaandare a cercar lavoro in Maremma e in Corsica traendone scarso profitto.

Tre erano i tipi di riso che venivano coltivati in Italia: quello italiano, appunto, coltivatonelle regioni del nord, quello cinese e quello noto come bastardo, derivato dai due precedenti.La società di Massei aveva scelto il cinese perché, essendo più precoce, necessitava di minorutilizzo dell’acqua e avrebbe quindi prodotto minori rischi per la salute pubblica.

Massei, scrisse pure che “La nostra risaia è posta presso Montramito, fra la Via di Genovae quella per Viareggio; e chi si reca a questa città, vede alla sua dritta, un tratto assai vasto diterreno, di circa 230 delle nostre coltre.” Tenendo presente che una coltra è poco più di 4.000mq., il tutto equivale, perciò, ad una estensione di otre 90 ettari.

L’autore si dilungò, poi, nella descrizione delle fasi della coltivazione; elogiò i contadinilocali che, in breve tempo, eguagliarono gli esperti fatti giungere da Bologna e sottolineò ilguadagno che ne trassero molte famiglie, altrimenti soggette ai rischi di carestia, causata dalloscarso raccolto di olive avutosi in quell’anno.

In questo contesto non fece cenno alle proteste delle popolazioni locali e di Stiava inparticolare, contrarie alla nuova coltivazione e all’abuso dell’acqua operato dalla sua società,cioè la Sampieri e Massei. Elogiò invece i parroci di Viareggio e di Stiava i quali, anzichéfomentare le proteste, encomiarono la nuova attività definendola, cito “feconda sorgente dipubblica prosperità”.

Frattanto alla società mancava il luogo dove avrebbe dovuto “pilare”, ovvero brillare, ilriso. I proprietari di mulini della zona avevano pretese considerate esorbitanti. Ma eccointervenire ancora il principe, definito “generoso”, che provvedeva alle contingenti necessità,concedendo l’uso di un suo molino, con facoltà di adattarlo secondo le esigenze.

Proseguendo l’esame dello scritto si legge che Massei, auspicava che avvenisse nelDucato una regolarizzazione della coltivazione del riso, come già è in atto in alta Italia,soprattutto per l’utilizzo dell’acqua, all’epoca “cagione di sanguinose risse”. In realtà, almenoa Stiava, non si hanno notizie di fatti sanguinosi, ma certamente la situazione, ed i rapporti trai dipendenti della società ed i proprietari terrieri confinanti, erano estremamente critici. Difatto gli agricoltori del luogo non accettavano che i risaioli, nuovi giunti, s’impadronissero diquell’acqua che finora avevano considerato come propria, e soprattutto che lo facessero conuna buona dose di scaltrezza se non proprio di prepotenza.

La regolamentazione avvenne, o meglio sarebbe dovuta avvenire, con la nomina, da parte

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del duca, della Commissione sulle risaie, affidando poi l’incarico di presiederla al marcheseAntonio Mazzarosa. Ne facevano parte un professore di agraria e fisica, un dottore e uningegnere.

I rapporti tra il sovrano e la Commissione furono tenuti da Niccolao Giorgini, all’epocaconsigliere di Stato e direttore generale del Dipartimento dell’Interno. La nomina del nuovoorganismo avvenne nell’aprile del 1840. Il lavoro della Commissione si dimostrò subitodifficile e complesso, stante i due fronti che si erano creati tra i risaioli e gli altri coltivatori.L’oggetto del contendere era soprattutto l’utilizzo delle acque dei fiumi Stiavola e Selice. Lasocietà Sampieri-Massei, per altro, si dimostrava poco rispettosa delle regole, prima auspicate,dando luogo a vigorosi risentimenti.

Il 20 maggio 1840 il presidente della Sezione di Stiava, Lorenzo Del Frate,rappresentando anche gli altri proprietari terrieri della zona di Montramito, scrisse algovernatore di Viareggio denunciando che le acque delle gore di Stiava e di Montramito eranostate ambedue deviate dal loro corso naturale e mandate in terreni coltivati a risaie, con ilpericolo che, in caso di piogge, i terreni seminativi e prativi possano essere sommersi congravissimo danno di tutti.

Tra il 1840 e il 1842, il lavoro della Commissione sulle risaie non avrebbe avuto maitregua. La coltivazione del riso era ormai stata introdotta, seppur ancora a livellosperimentale, in vari luoghi dello Stato lucchese e i problemi sorgevano ovunque. Lalegislazione e le ordinanze non erano sufficienti a normalizzare le situazioni che localmentevenivano a crearsi.

Dopo due anni di difficile lavoro la Commissione decise di dimettersi (anche perché ilduca l’aveva sostanzialmente esautorata, concedendo autorizzazioni senza più chiederne ilpreventivo parere), e quando il presidente scrisse al sovrano la decisione assunta, tramite ilcitato Niccolao Giorgini, questi le rispose che S.A.R. aveva appena provveduto a scioglieretale organismo, per cui non sarebbe stato necessario dare seguito alla missiva. Rimase tuttaviain carica la Commissione sulla Salute, che da tempo aveva affiancato quella tecnica.

Nel 1843 si svolse a Lucca il Congresso degli Scienziati il quale si espresse in sensonegativo sulla coltivazione del riso, nonostante l’accalorata interessata difesa dell’avvocatoMassei. Gli investitori del settore, però, non si dettero per vinti e il duca Carlo Lodovico,nonostante il qualificato parere, continuò a concedere autorizzazioni.

Intanto le controversie proseguivano, ora anche tra Stato e coltivatori. Nel 1845 il sovrano delegò a Niccolao Giorgini il compito di rilasciare le autorizzazioni,

le quali sarebbero sensibilmente fino all’estate del 1846, quando, a seguito delle insistentiproteste e un ulteriore parere contrario di una nuova Commissione, il duca stesso primasospese le coltivazioni e dopo qualche mese le vietò definitivamente.

Dopo l’annessione di Lucca al Granducato, nel 1849 il governo toscano autorizzò laripresa della coltivazione nei terreni già utilizzati in precedenza.

Non cessarono però le controversie, gli abusi e le repressioni fin quando, con l’avventodell’Unità d’Italia, il re Vittorio Emanuele II il 29 agosto 1868 con un Regio Decreto emanò ilRegolamento per la coltivazione del riso nella Provincia di Lucca, Decreto poi parzialmentemodificato con un altro del successivo 30 dicembre. Nonostante ciò la normativa avrebbetardato ancora molto prima di stabilizzarsi.

Nel 1881 un’altra Commissione Sanitaria esaminò la situazione delle risaie di Stiava,accusate di cagionare l’epidemia di febbri periodiche alla popolazione della vicina Viareggio,e consigliò le autorità di sopprimerle.

I pareri sanitari, però, non furono affatto concordi. Già nel 1846 il dottor Stefano Ghisellidi Massarosa affermò testualmente che “[…] dalle considerazioni sull’attuale stato sanitario, eda un accurato giudizioso esame dei morbi, che qui hanno regnato, non risultano essere lerisaie cagione dell’aumento dell’insalubrità dell’aria […].”

In seguito anche il dottor Edoardo Francalanci, operante a Bozzano, avrebbe affermato

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che la coltivazione del riso non era stata la causa dei danni alla salute e che la diffusione dellamalattia era dovuta agli anofeli, cioè alle zanzare. Si riteneva che i problemi si verificassero acausa della mescolanza delle acque salate del mare con quelle dolci. Per ovviare a ciò venneroallora costruite delle cateratte a bilico, allo sbocco in mare dei principali canali che insieme adaltri provvedimenti contribuirono, col tempo, alla scomparsa della malaria.

Nonostante tutte le contraddizioni la coltivazione del riso si sarebbe espansanotevolmente, e il neonato Comune di Massarosa, sarebbe arrivato ad essere tra i maggioriproduttori nazionali.

Numerosi sono stati i proprietari terrieri che si dedicarono alla coltivazione del riso, daPiano di Mommio a Massaciuccoli. Tra i primissimi e più attivi occorre ricordare il conteCarlo Minutoli-Tegrimi, con possedimenti nella zona di Quiesa e Massaciuccoli. Visti gliimmediati successi produttivi, già nel 1841 il conte Minutoli incaricò un ingegnere bolognese,di nome Carlo Scarabelli, di progettare un vasto edificio per la lavorazione del riso,comprendente l’essiccatoio, la brilla e il magazzino, nonché vari ambienti abitativi.L’ingegnere Scarabelli progettò anche tutti i macchinari occorrenti, poi realizzati da una ditta,anche questa del capoluogo emiliano. Si tratta ovviamente dell’edificio ora noto come “LaBrilla”, posta nella zona di Quiesa, sulla strada per Massaciuccoli, complesso recentementerestaurato dall’Ente Parco di Migliarino – S. Rossore – Massaciuccoli, e già adibito a grandieventi culturali.

Volendo aprire una parentesi per un parere personale, avendo più volte visitato l’edificioin questione, debbo dire che si tratta di un ambiente straordinario per la sua architettura e per imacchinari originali che ancora conserva, compresa una gigantesca ruota ad acqua: sarebbeun luogo largamente adatto ad ospitare un museo dell’attività e della cultura contadina.Consiglierei, a chi ancora non l’ha potuto fare, di trovare l’occasione per una visita.

Ritornando alla coltivazione del riso, debbo sottolineare che pur essendo dovuta passareattraverso una serie infinita di vicissitudini, di ogni genere, ha contribuito a portare nelComune di Massarosa lavoro e un po’ di prosperità fin’oltre la metà del secolo scorso, quandola nascente industria calzaturiera, che offriva condizioni lavorative meno gravose, più stabili epiù tutelate, iniziò a strappare manodopera al mondo dell’agricoltura.

Concludendo occorre riconoscere che l’avvocato Carlo Massei era stato lungimirante, mala maggiore riconoscenza è doveroso esprimerla nei confronti del duca Carlo Lodovico che,tenacemente e direi quasi ostinatamente, continuò a perseverare, fin quando gli fu possibile,nella concessione di autorizzazioni e agevolazioni per espandere la coltivazione del riso.

Per fornire qualche dato vorrei dire che nel territorio comunale la produzione annua non èmai stata costante ed oscillava intorno ai 2.000 quintali: nel 1953 vi fu ancora un raccoltoabbondante di ben 2.070 quintali di risone. L’ultimo dato si riferisce al 1957, anno in cuiverosimilmente la coltivazione del riso cessò22.

22 Buona parte dei dati riportati nel testo sono stati tratti da S. MARIANI, La Brilla e le risaie di Massaciuccoli, Pisa,Felici, 2008.

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NOTIZIE E CURIOSITA' BORBONICHE A STIAVA E DINTORNIDott. Otello Lenzi

Prima di iniziare a parlare dei Borbone nel Comune di Massarosa dobbiamo precisare cheessa fu costituita in comune nel 1859 e che precedentemente Massarosa e quelle che sono oggi lesue frazioni erano frazioni di Viareggio, elevata a città dalla duchessa Maria Luisa nel maggio del1820. Nel 1814, dopo la prima sconfitta di Napoleone, i Baciocchi furono allontanati da Lucca ovevennero gli austriaci che vi rimasero fino al 1817 dopo che il Congresso di Vienna ebbe assegnato aMaria Luisa di Borbone il Ducato di Lucca. Fu un’assegnazione a termine, con patto di reversibilitàsul Ducato di Parma e Piacenza alla morte di Maria Luisa d’Austria alla quale quel Ducato era statoassegnato vita natural durante. Nel frattempo vi erano stati i 100 giorni di Napoleone e la sua sconfitta a Waterloo che noncomportarono alcun mutamento per i lucchesi23. Come annota il conte Sardi nelle sue memorie, gliaustriaci, che erano venuti fra gli applausi, se ne ritornarono via fra i fischi perché i lucchesiavevano imparato a proprie spese che razza di liberatori essi fossero. Il 7 dicembre 1817 Maria Luisa fece il suo ingresso in Lucca accompagnata dai figli,Carlotta e Carlo Ludovico; questi, diciannovenne, era un bel giovane, sempre sorridente e allegro eciò fece sperare ai lucchesi un avvenire migliore. Maria Luisa regnò a Lucca poco più di cinque anni, mentre Maria Luisa d’Austria, cheGiusti chiama degradata in quanto da imperatrice dei francesi si ritrovò a essere duchessa di Parmae Piacenza, rimase nel Ducato assegnatole più di trent’anni. Ella governò con mitezza e sotto di leiParma registrò un notevole progresso civile, economico e culturale tanto che quando, alla suamorte, i parmensi si ritrovarono sotto un Borbone, dopo qualche anno se ne liberarono. Il suoassassino trovò da subito compiacenti coperture e poté emigrare indisturbato in Argentina. ConParma nel Regno d’Italia Carrà tornò nella sua città ove pensava di trovare trionfali accoglienze, mail governo, tramite la questura gli fornì i denari per ritornarsene a vivere in Argentina. I Savoia, acui pure a suo tempo aveva fatto comodo, non potevano onorare un regicida; anche loro erano re! La presenza dei Borbone nel Comune di Massarosa è subito dopo l’insediamento in Luccadella duchessa Maria Luisa, poiché l’atto con cui lei acquistò dai conti Sardi la fattoria di Stiava èdel 30 dicembre 1817. La fattoria di Stiava consisteva, come risulta dalla descrizione fatta nell’attodel 1849 di cessione dei beni da Carlo Ludovico al figlio Carlo Ferdinando, “in campi, paduli, pratie moltissimi uliveti con casa padronale e annessi, nel villaggio di Stiava, sezione di Stiava; di unacasa già padronale ora rustico detta il Romito poco distante da detto villaggio ed un grandissimofrantoio con mulino presso la chiesa parrocchiale”. Il Romito, che già allora era pressoché abbandonato perché scomodo e poco capienterispetto al palazzo, segnava il limite meridionale dei beni dei Borbone nel comune unitamente a unaselva in località La Gulfa presso Montramito e un terreno paludoso a Piano del Quercione. La casa padronale era l’attuale Palazzo, edificato dai Buonvisi nel 1648 e da loro vendutocon l’intera fattoria ai Mansi nel 1725; da questi nel 1750 ai conti Sardi che la venderono aiBorbone nel 1817. Da Maria Luisa passò al figlio Carlo Ludovico, da questi al figlio CarloFerdinando che l’assegnò per testamento al secondogenito Roberto unitamente alla contigua fattoriadi Conca di Sopra (la primogenita Margherita ebbe assegnata quella di Viareggio che comprendevaanche dei fabbricati in distrutti durante la Seconda guerra mondiale; Enrico ebbe la fattoria di SanMartino in Freddana, la più vasta ma in gran parte boschiva e la fattoria di Puosi; Alice, che avevasposato il granduca di Toscana ebbe la fattoria di Monte Pepe a Montignoso e l’azienda agraria diSanta Lucia a Camaiore).

23 Un mutamento, accrescitivo, avvenne nelle finanze di Rothschild. Come noto ad un certo punto sembrò cheNapoleone avesse la meglio sugli austro-prussiani tanto che la Borsa di Londra subì un collasso: Nathan Rothschild, chevenne a saper che sulla scena della battaglia si stava avvicinando un esercito fresco al comando di Wellington, fecepesanti acquisti di titoli di Stato inglesi a prezzi stracciati prima che arrivasse a Londra la notizia della vittoria,traendone ingente guadagno

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Nel 1923 il principe Saverio vendé la Fattoria di Stiava ai conti Toscano che la detengonotutt’oggi Nei primi decenni del Novecento in occasione di uno scavo sotto il palazzo di Stiava a circa80 cm. fu rinvenuta una certa quantità di monete romane, alcune delle quali pervennero al dottorSpigai, il medico condotto. Le monete portavano sul dritto la testa di Giano bifronte e sul rovesciola prora di una nave con la scritta Maian. Si trattava di un asse uncinale, una moneta coniata dopo il197 a.C. Poiché nel 194 a.C. è registrato il magistrato monetale Caio Maianus, il professor LopezPegna dell’Università di Firenze, in una pubblicazione del 1958 dal titolo Versilia ignota, ritiene chea lui debba attribuirsi tale moneta repubblicana che testimonierebbe lo stanziamento di coloniromani nella conca di Stiava prima della fondazione di Lucca (180 a.C.) Altra moneta bronzeadatabile verso il 247 d.C. con scritto” liberalitas augusto rum” fu trovata negli oliveti sotto ilcasolare Tassi; presso il cimitero fu trovato da operai che scavavano una fossa un medio bronzodell’imperatore Traiano portante sul dritto la dicitura “divus pater Traianus” e sul verso “Securitaspublica”; in località al Belli, vicino alla sorgente dell’acquedotto, furono trovate a circa 3 metri diprofondità rottami di anfore romane.

Ab antiquo già esisteva un frantoio che ai primi del Novecento il duca Roberto potenziòfacendone uno dei più moderni in Europa, c’era anche il mulino e una brilla per il riso. Oggi ilfrantoio non esiste più, il resto è in stato di abbandono. Nelle annate migliori la produzione totale di olio delle fattorie dei Borbone superava i 1.000quintali. Nella esposizione internazionale di Milano del 1906 gli oli ottennero il massimoriconoscimento qualitativo.

Nel 1895 il duca Roberto contribuì generosamente alle spese per l’ampliamento della chiesail cui campanile era stato eretto sotto il governo del nonno Carlo Ludovico: c’è chi ricorda ancora ildetto: “se non era per Carlo Ludovico le campane sonavan di sul fico”.

Nel 1904 il duca Roberto donò al paese una fontana di marmo smontata nel 1925 e quindidispersa; sul basamento era incisa l’iscrizione di Leone Bigongiari: “perchè le saluberrime acque,ricchezza e orgoglio del paese, sgorghino al sole in perenne vena, S. A. Reale Roberto di Borboneduca di Parma, con atto munifico questa marmorea fonte al popolo di Stiava donava. XX – VI –MCMIV.” Col duca Roberto i Borbone dettero un notevole impulso all’olivicoltura e all’agricoltura ingenere. Nella relazione del direttore delle tenute ducali datata agosto 1906 si legge: “i possedimentiche Sua Altezza Reale Don Roberto di Borbone duca di Parma possiede in provincia di Lucca neicomuni di Camaiore, Massarosa e Viareggio, contano le più svariate colture, dai boschi di pini,querce, lecci, dagli scopicci cedui che rivestono le più alte cime delle colline di Puosi, Gallena,Vallina, Mommio, Pianore, Stiava e Conca, si scende gradatamente alle selve di castagni, aglioliveti, alle vigne, alle ricche pianure irrigue, a colture promiscue avvicendate e no, alle prateriestabili e ai terreni palustri che si prolungano fino quasi alle porte di Viareggio e ove producesiottimo riso e buon falasco.

A Pistoia gli olivi disposti a conveniente distanza nelle piane, sono allevati e potati a vaso oa limone, perciò tenuti a moderata altezza che consente in massima parte la bracatura e la raccolta amano delle olive in quantità maggiore o minore tutti gli anni”. Il Romito, anch’esso edificato dai Buonvisi nel XIV secolo, seguì le sorti della fattoria. Allimite meridionale delle proprietà in Massarosa già nel 1849 era ridotto a un rustico e poi è andatosempre più degradandosi fino a ridursi a un rudere, essendo il palazzo più comodo specie dopo cheCarlo Ludovico aveva fatto tracciare la via che unisce il palazzo alla villa di Conca di sopra. La fattoria di Conca di sopra, contigua a quella di Stiava, era composta, come dalladescrizione nell’atto di cessione dei beni sopra richiamato, “di oliveti, campi, padule, casapadronale e annessi nel luogo detto Conca di sopra nelle sezioni di Bargecchia e Corsanico, unfrantoio e una brilla da riso e un po’ di terreno paduligno, prativo e da risaia”. La villa fu edificata nel XV secolo dai Dal Portico; nel 1776 Maria Dal Portico e il maritoAlessandro Castracani la ristrutturarono e costruirono l’oratorio. Alla fine del Settecento la fattoria

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passò ai Cittadella, nel 1826 l’acquistò Maria Teresa Felicita di Savoia per pervenire in ultimo alduca Roberto. Nei primi anni Trenta del Novecento il principe Saverio la vendé a Jacomell, poipassò ai Fantozzi, ora appartiene alla “Corona de Castiglia y Aragon di Eiarque Salesa Mary”,famiglia imparentata con casate nobiliari spagnole che ha provveduto a restaurare lodevolmente ifabbricati importando dalla Spagna le ceramiche di Manises già utilizzate dai Borbone. Conca fu col palazzo di Stiava una delle residenze preferite dal duca Carlo Ludovico cheveniva a cacciare e a pescare nel Lago di Massaciuccoli. In occasione delle nozze del figlio CarloFerdinando con Luisa Maria di Berry vi aveva fatto affrescare dal pittore lucchese FrancescoBianchi detto “il Diavoletto” il padiglione di caccia con scene e animali propri del Lago diMassaciuccoli. Carlo Ludovico con la sua corte soggiornava spesso a Stiava e a Conca come risultada una cronaca del tempo: “tutta la corte si riuniva a colazione a Stiava a mezzogiorno; per il pranzoa Conca alle sei per poi tornare alla veglia a Stiava e quindi a mezzanotte ognuno andava perproprio conto”. Vi hanno risieduto i figli di Roberto fra cui Zita che, prima di andare in Austria, donò unacatenina d’oro con medaglia a una contadinella, la signora Maria, deceduta a novantasei anni nel1994. Il conte Cesare Sardi nelle sue memorie scrive: “sono certo di non esagerare se affermo cheCarlo Ludovico dal 1824 al 1847, in media non ne passò nei suoi stati neppure la terza parte.Quando poi, tra un viaggio e l’altro, vi si fermava per qualche tempo, intramezzava quel tempo conviaggetti frequenti a Genova, a Modena, a Torino e con gite a Firenze, a Pisa, a Livorno. Alsoggiorno nella piccola capitale preferiva quello delle ville reali di Marlia e dei Bagni e più ancoral’altro delle private proprietà che aveva comprato a Camaiore, alle Pianore, a Stiava, alla Pieve diSanto Stefano”. A Bargecchia nella Villa del Colle ha vissuto Alice di Borbone-Spagna dal 1906, quando inseconde nozze sposò Lino Del Prete, al 1975 quando è morta quasi centenaria. I passaggi diproprietà di questa residenza sono ben documentati: 1650 dipendenza Certosa di Farneta; 1808 inseguito alla soppressione dei conventi passò ai Baciocchi; 1809 l’acquistò Belluomini, ministro deiBaciocchi; 1816 con la Restaurazione passò al Ducato; 1817 fu assegnata alla Chiesa Metropolitanadi Lucca; 1846 acquistata da Francesco Del Prete, padre di Raimondo e nonno di Lino. Oggi è deglieredi Del Prete. Anche a Bargecchia il duca Roberto contribuì generosamente per la costruzione delcampanile e per l’acquisto delle campane.

Nella Villa del Colle erano spesso ospiti Giacomo Puccini e il principe Gaetano di Borbone,l’ultimo dei figli del duca Roberto. L’attuale re di Spagna Juan Carlos quando era ragazzo eraspesso ospite di Alice; era il beniamino delle sue numerose figlie che lo chiamavano “il bimbo”. Nella sezione di Mommio i Borbone nel 1824 acquistarono dagli Orsucci, che l’avevanocostruita nel 1717, la villa Le Terrazze, che rivenderono presto ai Pozzo dal Borgo, famigliaoriginaria della Corsica che aveva ricoperto incarichi sotto il duca di Lucca; da quelli passò poi aiGhivizzani e quindi ai Pistoresi. La villa Le Terrazze non era di comodo accesso rispetto alla vicinaVallina, per cui fu presto venduta. In Piano di Mommio avevano la piccola azienda agraria delCasone, dipendente dalla Vallina, venduta ai Pelliccioni nella prima metà del Novecento.

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PARTE III

Documenti dellaAccademia “Maria Luisa di Borbone”

raccolti a cura del Prof. Marco Gemignani e di Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli

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RUOLO DEGLI ACCADEMICI

Dott.ssa Gianna Benetti Trinchese, già funzionario del settore Cultura dell’AmministrazioneProvinciale di Lucca;

Prof. Anna Vittoria Bertuccelli Migliorini, docente dell’Università di Pisa;

Prof. Renato Bonuccelli, docente in congedo, storiografo;

Dott. Glauco Borella, Soprintendenza di Lucca, storico dell’arte;

Prof. Guglielmo de Giovanni-Centelles, accademico pontificio di Belle Lettere e Arti, direttore perl’Italia del Conseil Meditèrraneén pour la Culture dell’Unesco;

Dott. Mauro Del Corso, presidente della Federazione Italiana degli Amici dei Musei;

Dott. Diego Fiorini, vicepresidente e direttore artistico della Fondazione “Cerratelli” di SanGiuliano Terme;

Prof. Gino Fornaciari, docente dell’Università di Pisa;

Paolo Fornaciari, direttore del Centro Documentario Storico del Comune di Viareggio – tesoriere;

Prof. Marco Gemignani, docente dell’Accademia Navale di Livorno – cancelliere;

Geom. Luciano Giannelli, studioso di storia locale;

Prof. Marco Lenci, docente dell’Università di Pisa;

Dott. Otello Lenzi, storico – conservatore;

Dott. Roberto Lucarini, commercialista, storico;

Dott. March. Antonio Mazzarosa Devincenzi Prini Aulla, agronomo – preside;

Dott. Giuliano Micheli, presidente dell’Acrel, vicepresidente della Misericordia di Viareggio –assessore;

Mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli, vicepresidente della Società Italiana di Scienze Ausiliariedella Storia, docente dell’Università Cattolica di Leopoli (Ucraina) – decano;

Prof. Paolo Emilio Tomei, docente dell’Università di Pisa – cerimoniere.

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ATTIVITA' DELL’ACCADEMIA “MARIA LUISA DI BORBONE” NELL’ANNO 2013

6 febbraio: riunione del Senato Accademico per la programmazione annuale;

21 febbraio: il decano partecipa alla riunione del Comitato Permanente di Villa Borbone aViareggio;

14 marzo: l’accademico prof. Renato Bonuccelli conduce una visita guidata a Villa Borbone per ilGruppo di circa ottanta soci dell’UNITRE di Ponsacco (Pi). L’Amministrazione Comunale inviauna lettera di ringraziamento;

23 marzo: incontro di studio su “Viani e i Borbone a Viareggio” a Villa Borbone (vedi Cronachedegli eventi più importanti e Atti del Convegno). In questa occasione viene proiettato il film-documentario realizzato da Luigi Martinelli sul testo di Giovanni Scarabelli Ombre a Villa Borbone;

27 marzo: il decano partecipa presso il Comune di Viareggio a una riunione organizzativa delleattività estive di Villa Borbone;

6 maggio: l’accademico dott. Otello Lenzi conduce una visita guidata a Villa Borbone per ungruppo di circa venticinque giornalisti di vari Paesi organizzati da Blogtour;

25 maggio: Tornata Accademica a Villa Borbone. Nella seduta pubblica viene presentato l’Annale2012 da parte dell’accademico prof. Paolo Emilio Tomei e interviene la prof. Isabella TobinoAntongiovanni sul tema Maria Luisa di Borbone: incontro con Mario Tobino (vedi Cronache deglieventi più importanti). Successivamente viene proiettato il film-documentario I Dimenticati diNicolò Signorini;

26 maggio: il decano conduce una visita guidata a Villa Borbone per i partecipanti al raduno delleauto Cinquecento FIAT;

27 maggio: il decano partecipa alla riunione della Commissione per il programma estivo di VillaBorbone;

8 giugno: il decano partecipa alla riunione del Comitato Permanente di Villa Borbone;

8 giugno: il decano conduce due visite guidate a Villa Borbone per i partecipanti alla manifestazione“Giardini in fiore”;

9 giugno: l’accademico prof. Renato Bonuccelli conduce due viste guidate a Villa Borbone per ipartecipanti alla manifestazione “Giardini in fiore”;

9-12 giugno: gli accademici dott. Otello Lenzi e prof. Renato Bonuccelli accolgono edaccompagnano S.A.R. la principessa Diana, figlia di Gaetano di Borbone, nella visita strettamenteprivata alle ville della sua infanzia, Le Pianore, La Vallina e Viareggio;

22 giugno: il prof. Renato Bonuccelli conduce una visita guida a Villa Borbone di Viareggio delgruppo dei medici di oncologia pediatrica con famiglie riuniti nel convegno tenutosi a Parma e làpresieduto da S.A.R. la principessa Maria Teresa di Borbone;

26 giugno: il decano apre la serie delle iniziative estive a Villa Borbone di Viareggio presentando il

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volume della collana “Le Scie” di Gianni Oliva, Un regno che fu grande. La storia negata deiBorbone di Napoli, Milano, Mondadori, 2012 (vedi Cronache degli eventi più importanti);

29 giugno: riunione del Senato Accademico per la valutazione delle attività di metà anno;

6 luglio: il decano tiene una conferenza al Club Nautico Versilia su “La ‘Real Flotta’ di Maria Luisadi Borbone”;

9 luglio: il decano conduce con interprete una visita guidata alla Cappella di Villa Borbone diViareggio per il gruppo di studentesse (oltre cinquanta) della South Hampstead School (Londra);

16 luglio: il decano conduce con interprete una visita guidata alla Cappella di Villa Borbone diViareggio per il gruppo di studenti (oltre cinquanta) della Sandbach High School e VI Form College(Londra);

31 luglio: l’accademico prof. Renato Bonuccelli conduce una visita guidata a Villa Borbone diViareggio per alcuni villeggianti olandesi;

2 agosto: il decano presenta a Villa Borbone il volume di N. Verdile, Maria Luisa la duchessainfanta. Da Madrid a Lucca. Una Borbone sullo scacchiere di Napoleone, Lucca, Maria PaciniFazzi, 2013 (vedi Cronache degli eventi più importanti);

9 agosto: il decano presenta a Villa Borbone il volume di F. Anichini-B. M. Scirè, Il Diavoletto.Giuseppe Bianchi, l’immaginifico “pittore a muro” dell’Ottocento lucchese, Lucca, Maria PaciniFazzi, 2013, autore di numerosi affreschi nelle residenze borboniche, particolarmente della “Salarustica” del Casino di Caccia di Conca di Sopra; 16 agosto: il decano, il cancelliere, il cerimoniere e gli accademici prof. Renato Bonuccelli, dott.Diego Fiorini e geom. Luciano Giannelli partecipano alla cerimonia di consegna del Premio “Gentedi Mare-cultura” 2012 conferito alla nostra Accademia. In questa occasione l’Accademia hapubblicato il primo quaderno di Monografie, curato da Renato Bonuccelli e Giovanni Scarabelliavente come titolo La ‘Real Flotta’ di Maria Luisa di Borbone, Duchessa di Lucca;

24 agosto: l’accademico prof. Renato Bonuccelli conduce una visita guidata a Villa Borbone diViareggio nell’ambito della Festa del Peperoncino; 30 agosto: il decano conduce una visita guidata a Villa Borbone di Viareggio;

12 settembre: il decano partecipa alla riunione del Comitato Permanente di Villa Borbone;

13 settembre: l’accademico prof. Renato Bonuccelli conduce una visita guidata a Villa Borbone;

26 settembre: il decano e l’arch. Franco Allegretti incontrano a Lucca il direttore dell’IstitutoMusicale “L. Boccherini” per concordare l’esecuzione delle composizioni della duchessa MariaLuisa di Borbone nel maggio del prossimo anno;

28 settembre: intervento del decano su Maria Cristina di Savoia Borbone, regina di Napoli, sorelladella duchessa di Lucca Maria Teresa Felicita, consorte di Carlo Ludovico, presso il CircoloUfficiali della Marina della Spezia;

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5 ottobre: incontro di studio su “I Borbone nel Comune di Massarosa” a Villa Gori di Stiava (vediCronache degli eventi più importanti e Atti del Convegno);

16 ottobre: il decano e gli accademici prof. Paolo Emilio Tomei e prof. Renato Bonuccellipartecipano a una riunione in Comune di Viareggio per la preparazione dell’audiovisivo didatticoillustrativo di Villa Borbone;

21 ottobre: il decano celebra la S. Messa in memoria del Beato Carlo d’Asburgo, marito dellaS.d.D. Zita di Borbone Parma, nella Chiesa della Misericordia di Viareggio;

29-30 ottobre: il decano e gli accademici prof. Paolo Emilio Tomei e prof. Renato Bonuccellipartecipano a Villa Borbone alle riunioni organizzative della giornata regionale del Fondo AmbienteItaliano (FAI);

7 novembre: il decano partecipa alla presentazione dei due volumi editi da Pacini di Pisa Studi inricordo di Tommaso Fanfani (già nostro accademico) nella sede della Fondazione Piaggio aPontedera (Pi);

9 novembre: il Club Nautico di Viareggio decide la ristampa di centocinquanta copie del volumettodegli accademici R.Bertuccelli-G. Scarabelli, La ‘Real Flotta’ di Maria Luisa di Borbone,Duchessa di Lucca, n. 1 della nostra collana “Monografie”, da distribuire a tutti i soci quale strennadi Natale 2013;

11 novembre: il decano e gli accademici prof. Paolo Emilio Tomei e prof. Renato Bonuccellipartecipano a Villa Borbone all’incontro con gli studenti, segnalati dai rispettivi dirigenti scolasticidei Licei Classico e Scientifico e dell’Istituto Professionale “G. Marconi” indirizzo turistico, inpreparazione della giornata FAI per la scuola;

12 novembre: riunione del Senato Accademico. Si delibera la costituzione giuridica notariledell’Accademia con il conseguente assetto amministrativo al fine di consentire l’accesso aifinanziamenti pubblici;

18 novembre: il decano sovrintende a Villa Borbone alla giornata FAI per la scuola: visitano oltre650 alunni delle scuole della Versilia (Viareggio, Camaiore e Forte dei Marmi);

30 novembre: il decano e gli accademici prof. Renato Bonuccelli e prof. Paolo Emilio Tomeipartecipano a Villa Borbone alla consegna degli attestati di “Apprendista Cicerone” ai trentacinquestudenti che hanno guidato le scolaresche nella Giornata FAI per la scuola e successivamenteall’accensione della stella cometa, presepio e albero di Natale nel parco antistante la Villa.

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CRONACHE DEGLI EVENTI PIÙ IMPORTANTIMons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli

A Villa Borbone di Viareggio il Convegno “Viani e i Borbone” il 23 marzo

Con una assai significativa partecipazione di pubblico, si è svolto a Villa Borbone in collaborazionecon il Comitato Permanente l’incontro di studio su “Viani e i Borbone” (vedi Atti del Convegno). Altermine è stato proiettato il film-documentario di Luigi Martinelli Ombre a Villa Borbone.

Tornata Accademica Avvenuta a Villa Borbone il 25 maggio

Conclusa la seduta riservata ai soli accademici, alle ore 17.00 si apre la seduta pubblica che si tienenella sala convegni di Villa Borbone di Viareggio. Si registra una partecipazione davveroeccezionale: tutti i posti a sedere sono occupati e si devono aggiungere ancora sedie.

L’incontro si apre con la presentazione dell’“Annale 2012” da parte dell’accademico prof.Paolo Emilio Tomei che illustra sinteticamente la struttura della pubblicazione e il contenuto deisingoli contributi.

La relazione principale è affidata alla prof. Isabella Tobino Antongiovanni, consigliere dellaFondazione “Mario Tobino” di Lucca. Tratta con singolare sensibilità il tema Maria Luisa diBorbone: incontro con Mario Tobino. Si riporta qui di seguito il testo.

“Quando sono stata contattata da Monsignor Giovanni Scarabelli per parlare dei rapporti fraMaria Luisa di Borbone e Mario Tobino, ho accettato ben felice di accontentare un carissimo amico. Man mano che i giorni passavano e si avvicinava la fatidica data, però, mi ritrovavo semprepiù spesso a pensare come mai avrei potuto mettere in rapporto due personaggi così diversi purnella loro specifica grandezza.

Dalla ricerca sulla storia della mia cara città sapevo che Maria Luisa aveva fatto molto per ilsuo moderno sviluppo marinaro e turistico. Lei, per prima, l’aveva elevata al rango di città, Leiaveva fatto costruire la Darsena Lucca la più antica del porto, dando così il via al suo sviluppocommerciale e nautico. Ed ancora aveva affidato al giovane architetto Nottolini l’ideazione delnuovo assetto urbanistico del borgo, quello che ancora oggi caratterizza Viareggio, almeno nella suaparte più antica, con le sue strade ortogonali e le sue case alte al massimo tre piani e, a quei tempi,tutte fornite di orto, da cui quell’espressione tutta viareggina all’arrivo dei villeggianti estivi: vado asta’ nella casetta in fondo all’orto!

E pensate, per facilitarne lo sviluppo ed accrescerne la popolazione, il terreno non solo eraconcesso gratuitamente, ma era prevista, per decreto, l’esenzione dalle imposte sui fabbricati e gliorti per ben venticinque anni !

Proprio la stessa politica dei nostri giorni!A Viareggio fu costruito anche un ospedale. Insomma Maria Luisa indubbiamente amò

questo borgo di pescatori, lo amò per il suo clima, le sue pinete, da poco sistemate e donate aicittadini da Elisa Baciocchi, il suo mare.

Aveva pensato di farsi costruire una magnifica Reggia prospiciente il canale Burlamacca, eraqui che sorgevano le ville dei magnati lucchesi che cominciavano ad apprezzare la città, e chedoveva essere collegata al casino di caccia (la Villa Borbone che noi visitiamo oggi) con unmagnifico viale alberato (il nostro Viale dei Tigli): suo giardino reale, la nostra pineta di levante!

Che richiamo turistico avrebbe avuto la nostra città se tutto questo si fosse realizzato! Certamente, consapevole del suo potere assoluto, la duchessa ben si guardò dal ricompensare lacittà per averle sottratto quel verde che Elisa le aveva donato, ma questa è un’ altra storia!

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Ma come era Maria Luisa? Prima di tutto era una Borbone di Spagna che in tuttoripercorreva la strada della corte spagnola che significava assolutismo, bigottismo, finzione,privilegio ed arbitrio. Quindi il suo primo pensiero a Lucca fu quello di restituire alla chiesa ciò cheera stato alienato con Elisa fino a tal punto che si trovò in contrasto con lo stesso arcivescovo Sardiche voleva destinare una residua parte di quei beni al sostentamento delle tristi condizione deiparroci, soprattutto nelle campagne. La restaurazione religiosa arrivò a controllare anche le singolefamiglie: a chi non dicesse il rosario la sera sarebbe stato precluso il lavoro e gli studenti che nonfrequentassero i sacramenti non sarebbero stati ammessi agli esami!

Ora collegare una donna di tali principi, anche se innamorata di Viareggio, con MarioTobino non era certamente facile.

Tobino non solo era un uomo della sua epoca, ma amava profondamente la vita, la bellezza,il divertimento, ed era poco incline a certi rigidi regolamenti religiosi, pur se credente ed educato dauna madre, la signora Maria, con forti legami con la Chiesa e dedita al culto della Madonna.

E allora?Forse l’amore per la stessa città poteva unire i due grandi personaggi?Ad aprirmi uno spiraglio e a farmi capire quanto potessero essere vicini ci ha pensato la

penna del grande poeta.Forse questa vicinanza esiste solo nella mia immaginazione, ma desidero comunque

rendervene partecipi.Tobino descrive Maria Luisa , nel capitolo a lei dedicato in Sulla spiaggia e di là dal molo,

come una bigotta, tappata di nero, i polpastrelli come la cera delle candele. Comunioni,inginocchiatoi, digiuni, penitenze… cattolica, spagnola, rosario e impiccagione. Ma amavaViareggio e Viareggio la trasformava! Per Tobino le sue scappate nella cittadina bagnata dal mare,dove la duchessa possedeva un vascello dorato con a poppa sete, velluti, damaschi, erano l’unicomodo per fuggire il severo protocollo di corte, lì sul mare, adagiata mollemente a poppa, la nobildonna scopriva se stessa.

Lucca le appariva lontanissima, la carrozza che l’avrebbe ricondotta su per il monte unoscarafaggio! E navigando sul mare azzurro, entro i limiti del sua piccolo Ducato, dalla foce delFiume Serchio fino a Pietrasanta, quando volgeva la prua verso l’orizzonte, i sogni cominciavano adanzare come fanciulleschi delfini, e vedeva una grande gloria marinara per Viareggio e per suofiglio che l’avrebbe governata…

Ed eccolo il contatto !Anche per Tobino che lavorava tutto il giorno al Manicomio di Maggiano, da lui definito

una città incantata, la venuta a Viareggio, la sua città natale, era sinonimo di libertà, di sogno, difelicità.

A Lucca il lavoro, le preoccupazioni, le diagnosi difficili, le urla dei malati, di là dal montela luce, il sole, il mare, lo sguardo che si perde all’infinito, il sogno di diventare un grande poeta.”

La terza parte dell’incontro è dedicata alla proiezione del film-documentario I Dimenticati diNicolò Signorini coadiuvato da un eccezionale staff di collaboratori. Si tratta di un percorso, quasidel tutto ambientato nell’ex Ospedale Psichiatrico di Maggiano vicino a Lucca attraverso documentie interviste relative alla vicenda dello scrittore Mario Tobino in un continuo intrecciarsidell’esperienza del medico con quella dello scrittore. Di singolare potenza evocativa, il filmato diquasi un’ora e mezzo riscuote alla fine un entusiastico e meritatissimo plauso del pubblico.

A Villa Borbone di Viareggio presentazione del volume di Gianni Oliva Un Regno che fu grande il 26 giugno

Le iniziative estive di Villa Borbone quest’anno vedono la partecipazione diretta in alcuneoccasioni delle nostra Accademia. La seguente è la prima in calendario e riguarda la presentazione

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del volume storico di Gianni Oliva, Un Regno che fu grande. La storia negata dei Borbone diNapoli, Milano, Mondadori, 2013. Tutti gli incontri si svolgono nel parco della Villa alle ore 17.00.

Interviene il nostro decano che, oltre a moderare gli interventi, introduce l’incontro conl’autore con la presentazione sotto riportata.

“Un po’ di anni fa, in occasione della celebrazione di un matrimonio di amici, mi ritrovai aMadrid e, naturalmente, fui portato in visita anche al Palazzo Reale. Un edificio imponente, almenoin una certa prospettiva, ma freddo nel suo marmoreo biancore. Avvertivo dentro di me unfastidioso e crescente senso di disagio e mi resi conto che, inavvertitamente, nella mia mentecontinuava a presentarsi a vincente confronto l’immagine della Reggia di Caserta. Lì, nella capitale“dell’impero sul quale non tramonta il sole” mi aspettavo qualcosa di strabiliante e invece prendevosempre più coscienza del fatto che lo strabiliante l’avevo in Italia. Eppure la famiglia regnante era lastessa, anzi c’era stata una plurima successione al trono da Napoli a Madrid. Non eraprovincialismo nazionalistico o orgoglio italiano, ma dovevo riconoscere che pur confinando, grazieal Mare Mediterraneo che lambisce le loro coste, c’era una “magnificenza” a mio parereindubbiamente a nostro favore. Fu forse quell’occasione a suscitare in me il desiderio di sapernequalcosa di più e ne parlai alcune volte con l’amico professore Tommaso Fanfani, indimenticabilestorico dell’economia. E lui, toscanissimo, mi offrì una serie di dati che emergeranno anche nelprosieguo di questa mia presentazione.

Posso dire di aver letto il presente volume del professor Gianni Oliva con pacato sensocritico, anzi pregiudizialmente sospettoso, all’insegna della domanda: che cosa vuol dimostrare unpiemontese con quest’opera, se non trovar modo, magari sotterraneamente o indirettamente, digiustificare la conquista del Sud Italia da parte del suo ex Regno d’origine?

Devo riconoscere che man mano la vigile lettura proseguiva il sospetto andava dileguandosiper affermarsi in me la convinzione di trovarmi di fronte ad una trattazione intellettualmente onestae storicamente ben fondata. Affermo con tutta tranquillità che il libro è pervaso da una equilibratamisura che evita le secche dell’esaltazione a tutti i costi o di quella negatività che è frutto dellasuperbia dei vincitori e dei conquistatori. E qui potrei anche finire, perché ho appena affermatoquello che a mio modesto parere è il pregio maggiore dell’opera che abbiamo in presentazione,pregio che mi ha profondamente colpito.

Ma una volta che prendo la parola è difficile farmi tacere, per cui proseguo, anche perchécredo che sia il caso di chiederci perché abbiamo deciso di trattare dei Borbone di Napoli in questache fu sede dei Borboni di Parma e Lucca. A parte la comune genealogia delle due dinastie, ci sonopersonaggi che hanno a che fare direttamente con questa Villa. Qui nella Cappella Mausoleo èsepolta la prima moglie del duca di Parma Roberto I, cioè Maria Pia di Borbone (1849-1882), figliadi secondo letto del re di Napoli Ferdinando II (1810-1859). Ma prima ancora di questo, è ben notoche Maria Teresa Felicita di Savoia (1803-1879), moglie del nostro duca Carlo Ludovico (1799-1883) e il cui appartamento è ancora oggi decorato della Croce sabauda, era sorella di MariaCristina di Savoia (1812-1836), oggi prossima alla beatificazione, prima moglie del re di NapoliFerdinando II e madre del re Francesco II (1836-1894). Ma ancora qui da noi è sepolto il principeEnrico conte di Bardi (1855-1905), sposo in prime nozze di un’altra figlia di Ferdinando II, cioèMaria Luisa (1855-1874).

Questo precisato, andiamo avanti nell’analisi del libro di Gianni Oliva, sperando di nonbruciare le domande che poi vorrete rivolgergli, per cui non preciso il perché di quell’aggettivo“negata” ch’egli sceglie nel sottotitolo, ma mi soffermo su alcuni dati in positivo. Mi riferisco inparticolare alle pagine 195-197, attingendo ai miei ricordi di quinta elementare quando ci venivainsegnato che la prima ferrovia in Italia era stata la Napoli-Portici, esclusivo frutto di uno sfizio dellocale re. Leggendo il volume di Oliva si apprende che invece faceva parte di un complesso eavveniristico piano di incremento industriale e di collegamenti commerciali, che, non avendo avutoseguito dopo il 1861, è certamente da annoverarsi fra le cause del sorgere della storica “questionemeridionale”. In ogni caso, si documenta la realizzazione già allora di altri tronchi ferroviari estradali di fondamentale importanza.

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Altro argomento: l’Arsenale navale di Napoli. Mi diceva il ricordato prof. Fanfani che era ilmigliore e più avanzato del Mediterraneo, tanto da venir visto come potente concorrente dallaMarina britannica. Questa potrebbe essere la chiave segreta interpretativa del fatto che dopo il 1861in pochissimi anni esso venne in parte smantellato dal Regno d’Italia, trasferito a Genova con circatremila maestranze dando origine a quella che sarà poi l’Ansaldo.

Il professor Oliva accenna anche ad un altro fatto, pur senza soffermarvisi: quandoFrancesco II lascia Napoli abbandona anche il tesoro reale insieme ai conti bancari, valutato in circa53 milioni e mezzo di ducati oro. Quando Vittorio Emanuele II di Savoia entra a Napoli, il Regno diPiemonte ha un debito internazionale di circa 56.000.000 di ducati oro. Di lì a pochi giorni questodebito viene saldato. Mi sia lecito chiedere: con che cosa, dato che il tesoro reale e i conti bancariborbonici napoletani contemporaneamente spariscono totalmente? Intendiamoci bene, esiste inguerra lo ius predae, ma a me interessano ora le conseguenze economiche e finanziarie dei territoridell’ex Regno delle Due Sicilie.

Oltre alle già citate pagine, si può andare oltre, cioè alle successive 198, 199, etc., perraccogliere numerosi altri esempi di uno poderoso sviluppo in corso, interrotto bruscamente eridotto quasi a nulla con l’Unità d’Italia.

E si parla pure dell’Esercito borbonico e, relativamente a questo credo che sia ancora deltutto in sospeso la questione delle migliaia di prigionieri mandati in Piemonte e in Val d’Aosta dopoil 1861 e non più tornati nelle loro terre, nonostante un’opera di qualche mese fa tenti di negarel’esistenza del problema.

Ma c’è un elemento di sconcertante attualità: il Regno delle Due Sicilie sotto il governoborbonico mantenne sempre il pareggio del bilancio dello stato. Dopo l’Unità d’Italia, eccettol’anno famoso di Quintino Sella, questo pareggio non è più esistito ed è la causa dell’aggravarsidella crisi che oggi ci attanaglia gravemente.

A questo punto qualcuno potrebbe essere tentato di tacciarmi di “revisionismo”, accusa chetorna sempre in campo quando non si vuole affrontare una più ampia verità storica, rimanendoancorati a interpretazioni profondamente legate a interessate ideologie. Io non temo d’esseredefinito revisionista se si tratta di acquisire una maggiore oggettività dei fatti. E mi sembra di poterdire che con quest’opera anche il professor Oliva non tema questo rischio: di ciò gli va datoampiamente merito.

Ma non sarei onesto se mi fermassi a questo punto, perché sarebbe solo la proposta dielementi positivi. Nella politica economica dei Borbone c’erano dei grossi limiti. Ne evidenzioalmeno alcuni: un forte protezionismo dello Stato, motore effettivo dello sviluppo, il cui interventocostituiva una garanzia ma non favoriva sufficientemente l’iniziativa privata consentendol’affermarsi di quel ceto medio borghese che costituirà invece l’asse portante dell’economia nellealtre regioni italiane. In secondo luogo, come naturale conseguenza di questo primo, esisteva unaconcentrazione dello sviluppo solo all’interno del Regno, trascurando i mercati internazionali e leiniziative di commercio ed interscambio con l’estero. Un altro limite è ben descritto nelle pagine239-241 ed è relativo alla “gestione”, diciamo così, dell’Esercito.

Un ultimo, doveroso rilievo. Il volume è corredato da alcune tavole genealogiche chefacilitano l’orientamento nell’intricata selva di nomi presenti in tutte le pagine ed è scritto in stilenarrativo, elementi questi che ne rendono facile l’approccio e la lettura, senza appesantimentidocumentari che comunque ben si intuisce che costituiscono l’irrinunciabile fondamento delracconto e della critica storica.

Ho lasciato, ovviamente, molti temi in ombra. Spero di aver detto abbastanza, ma nontroppo, soprattutto mi auguro di aver offerto ulteriori stimoli ai vostri interventi, per cui adessoposso e voglio concludere, assumendo proprio dalla paginetta del post scriptum l’elemento finale diquesto assai pregevole saggio di Gianni Oliva, elemento al quale lui per primo si attienerigorosamente: “La storia delle dinastie termina con la fine dei loro regni”. È vero, ma è parimentivero che la storia delle persone che le compongono continua anche dopo, sebbene occorrano altricriteri per una loro considerazione.”

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A Villa Borbone di Viareggio presentazione del libro di Nadia Verdile La Duchessa Infanta il 2 agosto

Sempre nell’ambito delle iniziative estive a Villa Borbone, il decano presenta la biografiadella duchessa di Lucca, Maria Luisa di Borbone, scritta dalla professoressa Nadia Verdile epubblicata a Lucca da Maria Pacini Fazzi nel 2013. Segue il testo dell’intervento.

“A testimonianza del mio sincero apprezzamento dell’opera in presentazione oggi, vi dicosemplicemente che, letta alcuni mesi fa, mi è venuto spontaneo, quasi un’esigenza, di rileggerlarecentemente.

Sono convinto che solo una donna con la caratterizzante ricchezza di sensibilità e sentimentopoteva scrivere un libro come questo, affrontando un personaggio complesso e drammatico qualeMaria Luisa di Borbone (1782-1824).

Viareggio deve moltissimo all’azione di governo di Maria Luisa ed è bene ricordare, seppurin forma stringatissima alcuni dei suoi interventi che ne hanno influenzato lo sviluppo in manieradeterminante. Eleva il grosso paese di poco più di 3.000 abitanti al rango di città con tutti i privilegiin quel tempo conseguenti. Apre il primo stabilimento balneare. Costruisce la prima Darsenaindirizzando lo sviluppo di una allora assai timida attività cantieristica, che vedrà una autenticaesplosione nella seconda metà del XIX secolo con affermazioni di rilievo internazionale. Stabilisceil primo piano regolatore urbanistico, piano che sarà praticamente osservato fino alla metà degli aniCinquanta del Novecento. Dà l’avvio alla costruzione di una reggia sull’attuale piazza Manzoni –purtroppo rimasta incompiuta e il cui primo lato andò distrutto nei bombardamenti della Secondaguerra mondiale – e ordinò, all’interno della tenuta reale, la costruzione del casino di caccia che sitrasformò nel tempo nell’attuale Villa Borbone, quella che ci ospita in questo momento.

Posso aggiungere altri significativi segni della predilezione della duchessa di Lucca per lanostra città. Volle infatti che qui venissero celebrate le nozze del figlio Carlo Lodovico con MariaTeresa Felicita di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I, re di Sardegna. E qui volle anche lacostruzione e la manutenzione del Bargio Reale e, seppure per pochi anni, la sede stanziale dellaFlotta Regia. E, appena, poteva, “scappava” da Lucca e veniva a godere, anche per motivi di salute,il più salubre clima marino di Viareggio.

Un arido elenco, questo, ma che documenta quanto la nostra città abbia avuto spazioprivilegiato nel cuore della sovrana: il tutto nel breve arco di sei anni. Non dico questo, comunque,per alimentare un senso di gratitudine nei suoi confronti, quanto per evidenziare la ricchezza di unapersonalità che la storia tratta marginalmente e che invece Nadia Verdile ci restituisce con lapresente biografia in una ricchezza poco conosciuta e sicuramente non sufficientemente valutata.

Basta far riferimento agli anni della sua vita tutto sommato breve, dal 1782 al 1824, perrenderci conto degli eventi straordinari nei quali si è trovata coinvolta e dai quali fu condizionata e,più ancora, violentata. Nadia Verdile ripercorre con fine sagacia il dramma di una nascita e di unainfanzia segnati da genitori alquanto “distratti” e non attenti al suo bisogno di affetto e dicoinvolgimento. Quasi pre-pubere viene promessa sposa a un cugino del tutto sconosciuto,Ludovico di Borbone, erede del trono ducale di Parma che non avrà mai, e a lui viene consegnatacome sposa a soli tredici anni. Avviene una specie di miracolo: i due si innamorano perdutamente evivranno un matrimonio felice, seppur segnato da prove assai pesanti. Anche in questo caso, solo unrapido elenco di passaggi. Napoleone li nomina sovrani di un effimero Regno d’Etruria, imponendoloro una sosta a Parigi al fine di saggiare l’umore di quel popolo che solo pochi anni prima avevadecapitato i re Borbone. Arrivano a Firenze in una reggia, Palazzo Pitti, dove manca tutto: mobili,letti, stoviglie, posaterie: devono chiedere tutto in prestito a una riluttante nobiltà locale che li vedecome del tutto estranei alla loro storia e ai loro interessi.

Agli impegni di governo si sommano i drammi familiari: l’amatissimo sposo Lodovico èsempre più gravemente malato, tanto che morirà quando lei avrà soltanto ventidue anni. Una figliamuore poco dopo la nascita e degli altri due, Carlo Lodovico e la sorella, Maria Luisa non puòinteressarsi quanto vuole perché assorbita dalle cura dello Stato. Uno Stato che le viene tolto per

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mene di potere interne alla famiglia Bonaparte. Sballottata qua e là a piacimento del “padroned’Europa”, tenta un minimo di autonomia: il che le costa la dolorosissima separazione dal figlio euna concreta prigionia in un convento di Roma. Cade Napoleone, ma i problemi per lei non sirisolvono, anzi. Il Ducato di Parma non è disponibile per lei e, a forza di insistere, il Congresso diVienna le trova infine una sistemazione, provvisoria anche questa, creando appositamente il piccoloDucato di Lucca. Vi arriva sul finire del 1817 in mezzo a una cruenta crisi economica che staprovocando decine e decine di morti per fame. Anche qui le difficoltà inerenti a una “estranea”cheviene a governare un territorio ricco di una plurisecolare storia di indipendenza e libertà. Tutteprove che minano gradualmente la sua salute fino a portarla a prematura morte a soli quarantadueanni.

Nadia Verdile si interroga sulle ragioni profonde di una così lunga, ostinata resistenza a tantepensantissime prove in una donna alla fin fine forte e debole insieme. La risposta è apparentementesemplice: Maria Luisa è animata da una incrollabile fede cristiana alla quale si attiene condeterminazione e alla quale resta saldamente ancorata, tanto da guadagnarsi da Napoleone l’epitetodi bigotta. Ma non è certamente il giudizio dell’imperatore dei francesi che conta, quanto il fatto chequesta fede la sostiene e le consente di superare da vittoriosa la sequela di prove che deve via viaaffrontare.

C’è un ultimo aspetto che desidero illuminare. La storiografia risorgimentalista condizionatadall’esito delle lotte per l’Unità d’Italia, ha caricato di un improprio significato di arretratezza,populismo e ignoranza l’aggettivo borbonico. Il profilo di Maria Luisa che emerge dalla fluida,avvincente ed elegante prosa di Nadia Verdile è sicuramente di ben altro segno. Se è pur vero che èlegata ad una visione dell’esercizio del potere tipo anciéne régime, di questo si serve in unatensione continua al bene dei sudditi. Non sto ad elencare le numerose decisioni prese a beneficiodei più poveri e all’incremento di tutta la società. Ma non solo questo. Si tratta di donna di ampiacultura, poliglotta, di grande sensibilità artistica tanto da lasciarci a incontestabile documento,proprio ascrivibile al periodo di governo del Ducato di Lucca, alcune sue composizioni musicali edalcune opere pittoriche che, seppur non registrate dalla storia dell’arte, costituiscono chiaro indiziodi un animo e di una mente ben coltivati, degne d’essere rilevate per dare pieno spessore a questa,ripeto, drammatica figura che rischia l’immeritato grigiore di una interpretazione stereotipa esuperficiale.

Il recupero a tutto tondo di Maria Luisa di Borbone va ascritto a merito di Nadia Verdile,merito che riconosciamo appieno a questa sua opera per la quale la ringraziamo di tutto cuore.”

A Villa Borbone di Viareggio presentazione del libro di Franco Anichini e Bianca Scirè Il Diavoletto. Giuseppe Bianchi, l’immaginifico “pittore amuro” dell’Ottocento lucchese il 12 agosto

L’incontro conclusivo delle iniziative estive a Villa Borbone riguarda l’interessantissimostudio di Franco Anichini e Bianca Scirè dedicato d un incisivo pittore affreschista che ha lasciatosplendida testimonianza della propria arte in numerose residenze borboniche, compreso il Casino dicaccia di Carlo Ludovico a Stiava. Qui si conserva, recentemente restaurata, la “Sala rustica”, operache può considerarsi il capolavoro di Bianchi sia per l’assoluta originalità che per la complessitàcompositiva. Dato che questo lavoro viene illustrato nell’intervento del prof. Franco Anichini nelnostro incontro di studio di Stiava (vedi Atti del Convegno), non si ritiene necessario riportare iltesto della presentazione effettuata in questa occasione dal nostro decano.

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Al Museo della Marineria di Viareggio assegnazione del Premio “Gente di Mare” Sezione“Cultura” 2012 all’Accademia “Maria Luisa di Borbone” il 16 agosto

Con una solenne cerimonia e alla presenza della maggiori autorità cittadine sia civili chemilitari si è svolta l’annuale consegna dei Premi “Gente di Mare” promossa dalla Sezione diViareggio dell’Associazione Medaglie d’Oro di Lunga Navigazione relative al trascorso anno 2012.

Per la sezione “Cultura” il Premio, consistente in un’artistica targa personalizzata, è statoassegnato alla nostra Accademia con la seguente motivazione: “all’Accademia Maria Luisa diBorbone per le ricerche sulla Marina del Ducato di Lucca e per le conferenze sui Borbone e ilmare”.

Alla cerimonia hanno partecipato il decano, il cancelliere, il cerimoniere e gli accademiciprof. Renato Bonuccelli, geom. Luciano Giannelli e dott. Diego Fiorini. In assenza del preside, fuoriToscana, il Premio è stato ritirato dal decano che in una breve intervista ha illustrato le finalitàdell’Accademia e ha ringraziato calorosamente i promotori, evidenziando anche come si tratti di unconferimento che riconosce il valore dell’impegno culturale perseguito metodicamente dalla nostraAccademia.

Il decano e il cancelliere ritirano il Premio dal presidente dell’Ass. Medaglie d’Oro di Lunga NavigazioneCav. Zeffiro Rossi

A Stiava il Convegno “I Borbone nel Comune di Massarosa” il 5 ottobre

Attuando una direttiva del Senato Accademico tesa a meglio radicare sul territorio versiliesedell’antico Ducato di Lucca la presenza e la promozione culturale della nostra Accademia, a Stiava,

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presso l’Auditorium comunale di Villa Gori (g.c.), organizzato dall’Accademia “Maria Luisa diBorbone” stessa e dalla Sezione di Massarosa dell’Istituto Storico Lucchese, si è tenuto sabato 5ottobre 2013 un incontro di studio sul tema “I Borbone nel Comune di Massarosa” (vedi Atti delConvegno). Si sono registrati gli interventi del nostro decano mons. prof. fra’ Giovanni Scarabelli,dell’avvocato Giorgio Paolini, del professor Franco Anichini coautore di un’importante monografiadal titolo Il Diavoletto. Giuseppe Bianchi, l’immaginifico “pittore a muro” dell’Ottocento lucchese,(Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2013), del presidente della Sezione di Massarosa dell’Istituto StoricoLucchese Enio Calissi autore di alcuni saggi storici sul territorio, dell’accademico Otello Lenzi,autore di un fondamentale studio sui Borbone. Moderatore il signor Mariano Martinelliappassionato cultore di storia locale.

Dopo il saluto del sindaco di Massarosa, dott. Franco Mungai, il professor Scarabelli haportato il saluto del preside e ha poi parlato della presenza e delle vicende che portarono Alice diBorbone Del Prete a vivere a Bargecchia nella Villa del Colle.

L’avvocato Paolini ha trattato della presenza e dell’opera di Niccolao Giorgini nel Ducato diLucca, aprendo interessanti piste di approfondimento sul tema del rapporto fra cattolicesimo eliberalismo.

Il professor Anichini ha parlato della figura e dell’opera del pittore Francesco Bianchi, detto“Il Diavoletto”, attivo sotto i Borbone, illustrando con immagini l’opera dell’artista nellarealizzazione del padiglione di caccia nella villa di Conca di Sopra, voluto dal duca Carlo Ludovico,e ben conosciuto come “Sala rustica”.

Il signor Calissi ha esposto con dovizia di dati le problematiche inerenti la coltivazione delriso nel territorio del Comune di Massarosa durante e dopo il Ducato di Lucca, attingendo anche adalcuni documenti inediti o poco conosciuti quali gli Atti del Congresso degli Scienziati Italiani chesi tenne a Lucca nel 1843.

L’accademico Lenzi ha trattato della presenza dei Borbone sul territorio con particolareriguardo a quelli che furono i siti di loro proprietà. È seguita la proiezione di interessantifotogrammi inerenti gli argomenti trattati.

A conclusione il decano ha ringraziato i presenti, informandoli brevemente sulle attivitàdell’Accademia e sui programmi per il prossimo anno.

Da registrare alcuni interventi da parte del qualificato pubblico, fra i quali si segnalavanoanche alcuni discendenti della principessa Alice di Borbone.

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ELENCO DELLE DONAZIONI FATTE NEL 2013 DALL’ACCADEMIA “MARIA LUISA DI BORBONE”

Alla dotazione di Villa Borbone:

- uno specchio in cristallo molato con cornice ottocentesca dorata “a mecca” per l’arredo dellacamera da letto;

- un tavolo “presidenziale” per la sala convegni di Villa Borbone;- un’artistica applique in ferro battuto dorato per la ricostruita camera da letto di Villa

Borbone;- una cassa lignea ottocentesca di orologio con quadrante dorato contornato da cornice dorata

e risguardi lignei neri decorati finemente ai quattro angoli. Il meccanismo dell’orologio,funzionante, è moderno e alimentato a pila elettrica.

ELENCO DELLE DONAZIONI RICEVUTE NEL 2013 DALL' ACCADEMIA “MARIA LUISA DI BORBONE”

I seguenti volumi:

- F. ANICHINI-B. M. SCIRÈ, Il “Diavoletto”, Giuseppe Bianchi, l’immaginifico “pittore a muro”dell’Ottocento lucchese, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2012. Pubblicazione assai ben documentatasull’attività di questo pittore affreschista che ha operato in numerose residenze borboniche nelDucato di Lucca;

- “Annale 2012” dell’Accademia “Maria Luisa di Borbone” (cinque copie);

- R. BONUCCELLI-G. SCARABELLI, La ‘Real Flotta’ di Maria Luisa di Borbone Duchessa diLucca, Viareggio, Accademia “Maria Luisa di Borbone”, 2013;

- P. FINUCCI, Contributi per la storia della medicina a Lucca, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2010;

- S. PAGANO-P. PIATTI (a cura di), Actum Lucae. L’Archivio Storico Diocesano di Lucca iscrittonel Registro della Memoria del Mondo, Lucca, Archivio Storico Diocesano di Lucca, 2012;

- S. PAGANO-P. PIATTI (a cura di), Il patrimonio documentario della Chiesa di Lucca. Prospettivedi ricerca, Firenze, Il Galluzzo, 2010;

- E. PELLEGRINI (a cura di), Descrivere Lucca. Viaggio tra note, inventari e guide dal XVII alXIX secolo, Pisa, ETS, 2009;

– A. ROMITI, L’archivio del Comune di Camaiore. Periodo della Repubblica. Introduzione einventario, Lucca, Istituto Storico Lucchese, 2009. Importante per i numerosi documenti attinentianche alla storia di Viareggio;

– L. SANTINI, I sonetti religiosi della Terra di Camaiore dalla collezione dell’Archivio dell’exTipografia Benedetti, Massarosa, Associazione Volontari Camaioresi, 1997. Assai interessante per lasintetica introduzione di Luca Santini nella quale si evidenziano le dediche a personaggi dellafamiglia Borbone, testimonianza di un persistente e permanente legame;

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– F. BATTILANI (a cura di), Capitoli della Confraternita del SS. Sagramento, e Carità Cristianada erigersi nella Chiesa Parrocchiale della Città di Viareggio – 1826, Viareggio, Edizioni dellaFontana. 2013. Nella lunga introduzione (pp. 7-28) di G. SCARABELLI, La Misericordia diViareggio nella rinascenza spirituale dell'Ottocento, viene illustrato il ruolo del duca CarloLodovico nella fondazione di questa Istituzione;

- G. SCOTTI, Il primo soccorso, Viareggio, Misericordia, 1992 (venti copie) destinate alpersonale in servizio a Villa Borbone nell’ambito del progetto “sicurezza sul lavoro”;

- E. TOMEI, Racconti Viareggini di terra e di mare, Viareggio, Baroni, 1996;

- P. E. TOMEI, Un orto e le sue radici. Lucca 1820-2012, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2012;

- N. VERDILE, Maria Luisa la duchessa Infanta, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2013. Una delicataricostruzione biografica che fa piazza pulita di luoghi comuni e rivaluta la figura della duchessa diLucca.