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PAUL BAIROCH: “Economia e storia mondiale” Mito una nozione scorretta della storia dell’economia condivisa da molti economisti, dagli scienziati sociali e dal pubblico in genere. 1. Mito della rapida crescita economica del XIX secolo molti economisti ritenevano il secolo XIX un periodo di crescita rapidissima. In realtà, il tasso di crescita annuo risultava molto più basso di quanto suggerito dalla maggior parte degli economisti (1,5% dell’incremento medio annuo del PNL pro capite dei paesi sviluppati per il periodo 1800-1913 . A causa delle innumerevoli discussioni sul rallentamento della crescita eco dopo il 1973-74, questo mito è quasi tot sparito. 2. Mito del libero scambio e del XIX secolo un gruppo conservatore che idealizza il XIX secolo e fa del libero scambio quasi una dottrina sacra; fino agli inizi degli anni 60, la storia commerciale dei paesi sviluppati è stata, però, quasi interamente una storia di protezionismo . Esclusa l’Inghilterra che divenne liberista solo un secolo e mezzo dopo la Rivoluzione industriale, la politica liberista europea durò solo due decenni e coincise- o condusse- al periodo economicamente più negativo del secolo. 3. Mito del colonialismo occidentale un gruppo composto principalmente da economisti che vedono la storia della colonizzazione come una storia di bianchi che diventano ricchi opprimendo il Terzo mondo. In realtà, i paesi che hanno avuto pochi legami economici con il Terzo mondo, hanno riscosso successi eco maggiori di quelli delle grandi potenze coloniali. Se è indubitabile che il contributo del Terzo mondo, specialmente attraverso la disponibilità di materie prime e di energia a buon mercato, sia stato uno dei fattori della rapida crescita delle economie occidentali nel periodo 1953-73 , la situazione fu alquanto differente nel secolo XIX e nella prima metà del XX. Durante questo periodo, infatti, il mondo sviluppato esportò anche energia nel Terzo mondo e fu quasi tot autosufficiente in materie prime. 1

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PAUL BAIROCH: “Economia e storia mondiale”

Mito una nozione scorretta della storia dell’economia condivisa da molti economisti, dagli scienziati sociali e dal pubblico in genere.

1. Mito della rapida crescita economica del XIX secolo molti economisti ritenevano il secolo XIX un periodo di crescita rapidissima.In realtà, il tasso di crescita annuo risultava molto più basso di quanto suggerito dalla maggior parte degli economisti (1,5% dell’incremento medio annuo del PNL pro capite dei paesi sviluppati per il periodo 1800-1913. A causa delle innumerevoli discussioni sul rallentamento della crescita eco dopo il 1973-74, questo mito è quasi tot sparito.

2. Mito del libero scambio e del XIX secolo un gruppo conservatore che idealizza il XIX secolo e fa del libero scambio quasi una dottrina sacra; fino agli inizi degli anni 60, la storia commerciale dei paesi sviluppati è stata, però, quasi interamente una storia di protezionismo. Esclusa l’Inghilterra che divenne liberista solo un secolo e mezzo dopo la Rivoluzione industriale, la politica liberista europea durò solo due decenni e coincise- o condusse- al periodo economicamente più negativo del secolo.

3. Mito del colonialismo occidentale un gruppo composto principalmente da economisti che vedono la storia della colonizzazione come una storia di bianchi che diventano ricchi opprimendo il Terzo mondo. In realtà, i paesi che hanno avuto pochi legami economici con il Terzo mondo, hanno riscosso successi eco maggiori di quelli delle grandi potenze coloniali.Se è indubitabile che il contributo del Terzo mondo, specialmente attraverso la disponibilità di materie prime e di energia a buon mercato, sia stato uno dei fattori della rapida crescita delle economie occidentali nel periodo 1953-73, la situazione fu alquanto differente nel secolo XIX e nella prima metà del XX. Durante questo periodo, infatti, il mondo sviluppato esportò anche energia nel Terzo mondo e fu quasi tot autosufficiente in materie prime.

PARTE 1 “I principali miti sul mondo sviluppato”

1. La crisi del 1929 e la grande depressione

Il crollo del 1929 è stato innanzi tutto lo “specchio” al quale tutti si sono rivolti quando il collasso del mercato azionario del 1987 suscitò timori di un’altra grande depressione. Le politiche commerciali ebbero un ruolo centrale nelle discussioni concernerti le misure da adottare per evitare una grave depressione, ed era opinione quasi generale che si sarebbero dovute evitare misure protezionistiche poiché era stato il protezionismo la causa del crollo del 29 e della depressione successiva.La storia eco mostra che alla base di questa tesi vi sono almeno 3 miti:

Gli anni venti sono spesso descritti (erroneamente) come anni di crescente protezionismo una delle ragioni di questo equivoco può essere ricondotta alla Conferenza economica internazionale organizzata nel 1927 dalla Lega delle Nazioni, che si proponeva, fra l’altro, di modificare le politiche eco esistenti, ritenute eccessivamente inclini al protezionismo; i dazi vennero così abbassati in quasi tutti i paesi sviluppati e furono adottate misure più liberali, per questo è scorretto ritenere che la crisi del29 sia stata preceduta da livelli

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tariffari più alti (es. in Giappone, Australia, NZ e Stati Uniti venne approvata una legislazione antidumping, per evitare che un bene venisse venduto ad un prezzo troppo basso). Si può quindi affermare che il periodo precedente la grande depressione sia stata caratterizzata in Europa da una tendenza verso politiche commerciali più aperte. Ciò non significa che si trattasse di un periodo di libero scambio.

Ma da dove veniva allora l’idea errata degli anni venti come un periodo di crescente protezionismo?Alla vigilia della crisi, gli USA avevano avviato un processo di trasformazione della loro politica commerciale nella direzione di un maggiore protezionismo crollo di Wall Street dell’ottobre 1929 il 17 giugno 1930 venne firmato lo Smooth-Haweley Act (legge tariffaria) da parte del presidente Hoover il protezionismo raggiunse livelli senza precedenti (60%) anche altri paesi, per rappresaglia, aumentarono i dazi sui prodotti Usa. Tali misure protezionistiche erano quindi il risultato della depressione, e non viceversa, come è stato spesso sostenuto. Globalmente gli anni Venti non furono anni di protezionismo crescente. Il periodo fu solo la continuazione della tendenza di fondo delle politiche commerciali del XIX sec. E negli ultimi due anni del decennio la tendenza liberista si fece ancora più pronunciata.

La depressione in realtà fu molto meno grave e generale di quanto si crede per un gran numero di paesi, gli anni 1930-39 furono ovviamente un periodo molto negativo, in particolare per gli Stati Uniti (alta disoccupazione, diminuzione del PNL pro capite). Rispetto agli anni precedenti, gli anni Trenta mostrano un forte rallentamento dello sviluppo economico, ma non una diminuzione del PNL pro capite nei paesi sviluppati, che invece aumentò annualmente del 1,1% tra il 1929 e il 1939. Il periodo 1925-29 non fu molto favorevole ma addirittura il migliore nella storia della crescita eco mondiale fino agli anni 50. Ci sono almeno 8 paesi per i quali gli anni 30 furono, in termini di crescita eco, migliori degli anni 20; tra questi, Gran Bretagna e Germania, le due maggiori potenze eco europee. 1929-32 crollo del commercio internazionale, sia nei prezzi sia in volume, del 60% circa. Non vi è dubbio che questo crollo fu causato dai provvedimenti di esasperato protezionismo che la maggior parte dei paesi adottò nei primi anni della depressione (contingentamenti e licenze di importazione = es. di controllo quantitativo diretto sul commercio estero). Ma nonostante il crollo del commercio internazionale, per quanto riguarda la crescita eco gli anni Trenta non furono a livello mondiale, né in molti paesi, anni così neri come si è soliti descriverli.

[Un caso a parte lo rivestono la Svezia e la Svizzera, due piccoli paesi altamente industrializzati che non presero parte al conflitto e che ebbero negli anni 30 esiti molto diversi. Mentre il PNL lordo pro capite della Svezia aumentava annualmente del 2,2%, il PNL pro capite della Svizzera diminuiva dello 0,2%, nonostante la crisi del 29 fosse in quest’ultimo paese molto meno pesante. Ciò si può spiegare con l’ampia gamma di misure socioeconomiche adottate dal governo svedese e con la mancanza di interventi da parte delle autorità federali svizzere.]

Anche le economie fasciste durante la depressione non ebbero un andamento eccezionale come generalmente si ritiene un luogo comune riguardante il periodo è che solo le economie fasciste (Germania e Italia) furono in grado di tener testa alla depressione; anche se si deve ammettere che la Germania conseguì, sotto molti aspetti, risultati insolitamente buoni, tanto che lo stesso Churchill ne apprezzò il successo. Il suo PNL pro capite aumentò, infatti, del 4,2% l’anno, tra il 1929 e il 1938, e la disoccupazione diminuì rapidamente, anche grazie alla corsa agli armamenti. Il 30 gennaio del 1933 Hitler divenne cancelliere della Germania e il tasso di disoccupazione industriale cadde da una media del 43,8% nel ’33 al 3,2% nel ’38. Un successo eco che era sensibilmente inferiore nel decennio precedente e che dal 1936 può essere attribuito quasi interamente al riarmo della nazione. Il tasso di disoccupazione fu comunque ridotto artificialmente, poiché vennero escluse dal mercato del lavoro un numero cospicuo di persone (principalmente donne, celibi, minorenni…). L’Italia, invece, si trovava in una situazione peggiore: dopo 13 anni di governo fascista, il tasso di disoccupazione era analogo a quello delle economie non fasciste con la disoccupazione più elevata.

Le economie fasciste non furono, quindi, così funzionanti come si è creduto; la depressione fu molto meno pesante di quanto generalmente si dà per scontato e, cosa più importante, non fu causata da misure protezionistiche.

2. L’età d’oro del libero scambio europeo è davvero esistita?

Uno dei miti più diffusi può essere espresso nei seguenti termini: “Il libero scambio è la regola, il protezionismo è l’eccezione” (attuato negli anni Venti e Trenta) la verità è che, storicamente, il libero scambio è l’eccezione e il protezionismo la regola.

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1815: Un oceano di protezionismo intorno a poche isole liberiste

Il XVI e il XVII sec. Furono l’età d’oro del mercantilismo: i metalli preziosi erano considerati decisivi per la ricchezza e la potenza di una nazione. Perciò una nazione senza miniere d’oro o argento doveva regolare il suo commercio estero allo scopo di ottenere un surplus di esportazioni sulle importazioni. Inoltre i possedimenti coloniali dovevano servire come mercati protetti per le esportazioni. Il XVIII sec. È invece visto come un periodo di transizione > mercantilismo fino al 1760 > trattato commerciale anglo-francese 1786 > liberismo commerciale se non in tutta Europa, almeno tra le due grandi potenze > mancata realizzazione del trattato > guerre nel periodo 1790-1815, blocco inglese della Francia > ritorno al protezionismo alla fine del secolo. Per quanto riguarda il pensiero eco, però, il liberismo fece progressi:

-Teorie liberiste Adam Smith “Ricchezza delle nazioni” 1776 (in Inghilterra furono pubblicate 8 ediz. Prima del 1800), difesa del libero commercio a livello internazionale. Tuttavia sul piano pratico, la supremazia del pensiero eco liberale in Europa, non eliminò il protezionismo di tipo mercantilistico, e ancor meno impedì che se ne sviluppasse uno di nuovo tipo (collegato ad un aumento del nazionalismo all’inizio del XIX sec. e risultato della presa di coscienza dello sviluppo eco derivante dalla rivoluzione industriale e dal progresso dell’industria britannica).

-Teorie protezionistiche Friedrich List “Il sistema nazionale dell'economia politica” 1841; il protezionismo per List era una politica temporanea con lo scopo di consentire a un paese di edificare un’economia robusta attraverso l’industrializz., che nelle prime fasi, non deve essere soverchiata dalla concorrenza di industrie straniere più mature, in modo da condurre al libero scambio.Anche se la fase protettiva comporta dei risultati negativi, questi dovrebbero essere considerati come costi di apprendimento dell’industrializzazione. è quella che fu chiamata più tardi la tesi delle “industrie bambine”, che necessitano dapprima il protezionismo e poi una volta cresciute a suff. per sostenere la concorrenza internazionale, passano al liberismo.

1815-46: Verso il liberismo in Gran Bretagna (dal 1842)

In Gran Bretagna la lotta politica tra i sostenitori del libero scambio e i fautori del protezionismo cominciò più o meno alla fine delle guerre con la Francia nel 1815. L’aristocrazia votò a favore di una nuova legge sul grano diretta a proteggere l’agricoltura interna dalle importazioni di cereali dall’estero = protezionismo 1815 Corn Law, che proibiva l’importazione di frumento. Questa regola segnò l’inizio del conflitto fra gli interessi dell’agricoltura, la cui importanza nella vita eco era in declino, e quelli dell’industria manifatturiera, che stava diventando il principale settore dell’attività eco. Le leggi sul grano non furono abolite fino al 1846, tuttavia il liberismo compì qualche progresso – es. dal 1825 il parlamento autorizzò nuovamente l’emigrazione di operai specializzati, che era stata proibita fin dal 1719 per timore della concorrenza estera -. Durante questo periodo l’industria britannica stava aumentando il suo vantaggio, già considerevole, sui rivali (es. con l’8-10% della pop. d’Europa, nel 1800 produceva il 29% della ghisa europea).Il principale ostacolo al libero scambio, tuttavia, era ancora la pesante protezione all’agricoltura. Poiché essa comportava prezzi elevati dei prodotti agricoli e, quindi, salari reali più bassi, la strategia degli industriali, specialmente cotonieri, fu di usare la povertà dei lavoratori per rafforzare il loro attacco contro le leggi sul grano, sostenendo che esse riducevano la probabilità di esportare prodotti industriali inglesi nei paesi con surplus agricolo che non fornivano più prodotti alimentari alla GB.1842: il primo ministro Robert Peel introdusse una riforma tariffaria molto liberale che riduceva i dazi alle importazioni (e revocava il divieto di esportare macchinari). Nessun cambiamento fu però apportato alle leggi sul grano, fino al 15 maggio 1846, quando le leggi furono abrogate in seguito al disastroso raccolto di patate in Irlanda. Questa data è sicuramente considerata come l’inizio del libero scambio in GB.

Mentre la GB stava diventando consapevole del suo vantaggio industriale e adottava una politica di libero scambio, il resto dell’Europa stava diventando conscio della sua arretratezza industriale e cercava un modo per ridurre la distanza con una nuova forma di mercantilismo, più difensivo che offensivo, che sarebbe stato in seguito chiamato protezionismo.

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1846-60: l’influenza teorica del liberismo britannico sul continente

Mentre il liberismo prendeva piede in GB, nel continente il protezionismo resisteva nonostante la propaganda liberoscambista. Il paese più altamente sviluppato era diventato il paese più liberale, il che rendeva facile l’equazione tra successo eco e sistema di libero scambio, mentre in realtà il legame causale era esattamente l’opposto. Dopo il ’46 la GB continuò a perseguire una politica commerciale liberista, diventando sempre più un’economia aperta. Questo periodo fu poi segnato da eventi estranei alla vita eco ma che ebbero importanti conseguenze sull’economia, come: la riduzione significativa dei costi di trasporto conseguente all’applicazione della macchina a vapore alla ferrovia e alla navigazione; l’espansione rapida delle riserve di metalli preziosi in seguito alle scoperte in Nord America e in Australia; e i primi passi nella meccanizzazione agricola negli USA.La liberalizzazione del commercio britannico incoraggiò indirettamente il commercio internazionale nel resto dell’Europa, e i sostenitori del libero scambio non mancarono di sottolineare l’es. britannico, ottenendo delle riduzioni tariffarie (che non furono però molto significative fino al 1860).Prima di questa data, oltre la GB, solo i Paesi Bassi, la Danimarca, il Portogallo e la Svizzera (dal 1856 anche Svezia e Belgio) avevano adottato una politica veramente liberista, pur mantenendo un certo grado di protezionismo.

1860-79: Interludio liberista europeo

La svolta fondamentale del libero scambio comincia nel 1860 con il trattato commerciale anglo-francese. La Francia era, infatti, il paese con cui i liberoscambisti inglesi intrattenevano più rapporti commerciali, ma anche il paese con il quale essa aveva il più alto deficit commerciale. Il trattato, che doveva durare 10 anni, non fu discusso in parlamento, dove la maggioranza di deputati protezionisti l’avrebbero bocciato. La minoranza a favore del liberismo era guidata da Napoleone III, che si era convertito a questa dottrina durante una delle lunghe permanenze in GB e che vedeva le implicazioni pol. del trattato.Questo, infatti, condusse presto ad un “disarmo” tariffario nell’Europa continentale, principalmente in virtù della clausola della nazione più favorita formula con la quale ciascuno dei firmatari di un trattato consente di concedere all’altro qualsiasi vantaggio, favore o privilegio riconoscerà in futuro a qualsiasi altro paese. Nel 1861 fu firmato un trattato fra Francia e Belgio e fino al 1866, praticamente tutti i paesi europei entrarono in questa rete di trattati. L’obiettivo era di consentire ai paesi meno avanzati di acquisire la conoscenza tecnica di tutti gli aspetti della produzione industriale per essere in grado di competere sui mercati internazionali. Può sembrare, quindi, che in Europa fosse iniziata un’età d’oro per il libero scambio, ma nel mondo intero, la storia tariffaria dei paesi sviluppati prese una direzione differente.Fu in particolare il caso degli USA, dove nacque la moderna scuola di pensiero protezionistica nel periodo della rivoluzione “post-industriale”. Gli anni ’60 furono complessivamente per gli USA un periodo di crescente protezionismo.

1879-92: Il ritorno graduale al protezionismo nel continente

La Germania fu il primo grande paese europeo a operare sostanziali cambiamenti nella sua politica doganale, con la nuova tariffa del 1879 (risultato della Realpolitik di Bismarck), che segnò un graduale ritorno al protezionismo in Europa. Il trionfo delle idee protezionistiche fu in larga misura il risultato di una coalizione tra interessi agricoli e interessi industriali; i coltivatori, delusi dalla lenta crescita di vendite alla GB e gravemente svantaggiati dalle importazioni di cereali e di altre derrate da oltreoceano, si unirono così agli industriali che non si erano mai convinti dei vantaggi del libero commercio. La vera fine del periodo liberista può, però, essere datata dal 1892, l’anno dell’adozione in Francia della cosiddetta tariffa protezionistica Méline.

1892-1914: Il protezionismo si rafforza nel continente ma la GB resta liberista

Periodo di crescente protezionismo nell’Europa continentale, anche se non tutti i paesi cambiarono le loro politiche allo stesso tempo.In Germania, la pol. tendente a mitigare le alte barriere tariffarie attraverso trattati commerciali, inaugurata col trattato austro-ungherese del 1891, fu proseguita fino al 1902 (furono firmati trattati con 6 paesi > riduzione parziale del protezionismo, specialmente per l’agricoltura). Dopo questa data, anche la Germania rafforzò il suo protezionismo.

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La Francia, d’altra parte, divenne sempre più protezionista.

Nel 1913, tutti i paesi avevano adottato pol. commerciali molto protettive (era ancora “un oceano di protez. Intorno a poche isole liberiste”), ad eccezione dei paesi più piccoli, come i Paesi Bassi fedeli ad una pol. liberista, e della GB. Dal 1875-77, però, la crescita eco britannica cominciò a rallentare considerevolmente (le esportazioni verso l’Europa e gli USA diminuirono, mentre crebbero quelle rivolte alle colonie dell’impero britannico) > ciò creò un clima particolarmente favorevole a un certo grado di protezionismo, che si realizzò nel 1881 con la creazione del Fair Trade League, una lega che voleva imporre dazi di ritorsione sui prodotti industriali importati da paesi che non consentivano il libero ingresso a prodotti industriali britannici (10-15%); anche i beni importati che erano in competizione con quelli provenienti dalle colonie sarebbero stati tassati. Tuttavia, negli anni ’80, si opposero, in virtù del fatto che la GB esportava manufatti in misura quasi 5 volte superiore ai manufatti importati. Nei mercati extraeuropei, poi, dove l’influenza britannica era ancora molto forte, i prodotti inglesi dovettero fronteggiare una seria concorrenza da parte dei rivali europei. 1903 Riforma tariffaria di Joseph Chamberlain > favorevole ad una posizione più protezionista e ad una riforma doganale > 3 obiettivi:

- aumentare il gettito delle entrate (al fine di finanziare le pol. sociali); - garantire protezione all’industria;- erigere un sistema preferenziale a beneficio dell’impero.

Contrattacco liberale da parte del più eminente economista inglese, Alfred Marshall, su richiesta del Ministro del tesoro > elezioni generali del gennaio 1906, vinte dal Partito liberale, sostenitore del libero scambio (il valore tot. delle import. salì del 9,7% e il volume del PNL del 3%). Il 1932 fu la data reale dell’abbandono del libero scambio da parte della GB (adottato per ca. un secolo, dal 1846 al 1932).

3. È esistito il libero scambio nel resto del mondo?

La rivoluzione industriale generò un’espansione commerciale in Europa che ebbe conseguenze molto diverse sulle politiche commerciali del resto del mondo. MONDO SVILUPPATO TERZO MONDO protezionismo liberismo(pol. commerciale dominante (pol. commerciale impostasoprattutto negli USA) soprattutto nelle colonie)

Politiche commerciali non europee prima del XIX sec.: differenze nel tempo e nello spazio

Differenze nel tempo: es. Cina e Giappone entrambi i paesi sono in genere descritti storicamente come economie molto chiuse, ma non è sempre stato così.

CINA durante la dinastia Sung (960-1297), il commercio marittimo ebbe grande espansione e si crearono grandi città costiere. L’immagine europea di una Cina chiusa in se stessa, diffidente verso i commercianti stranieri, non ha nessun riscontro in quei tre secoli. I rapporti commerciali con il mondo esterno erano non solo tollerati ma attivamente ricercati e incoraggiati, tanto che inviava a sua volta missioni commerciali all’estero e partecipava direttamente all’interscambio internazionale. Tuttavia, nel 1490, dopo più di cinquecento anni di politica commerciale liberista, la Cina chiuse le porte, con l’intento di manifestare la propria superiorità verso i meno sviluppati “barbari” che costituivano il resto del mondo > nel 1757, rafforzò ulteriormente il suo “protezionismo”, questa volta per difendersi dall’invasione dell’Occidente.

GIAPPONE tra il 1639 e il 1854 fu probabilmente una delle società più chiuse (una sola nave occidentale poteva entrare in un porto giapponese ogni anno). In realtà aveva avuto anch’esso un periodo di apertura, che aveva condotto alla reazione del 1639.

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Dal 1550 i gesuiti, seguiti da altri ordini religiosi, erano riusciti a convertire ampie parti della pop. di alcuni regioni del paese, che erano anche più inclini al contatto con l’Occidente. Nel 1612 fu promulgato un decreto che metteva al bando il cristianesimo > sommosse del 1637 > 1639 divieto quasi tot. del commercio con l’estero, visto come un veicolo di idee e ideologie straniere. Dunque il periodo “liberista” del Giappone durò ca. 350 anni, dal XII sec. alla metà del XVII. Negli anni ’60, quando i paesi sviluppati dell’Occidente si erano convertiti alla pol. liberale, il Giappone adottò una pol. molto più restrittiva nelle import. che lo portò ad un grande successo eco. In quegli anni, il Giappone era ancora molto meno industrializzato dei paesi più avanzati dell’Occidente (come l’Italia). Però, grazie alla pol. adottata, nel 1973 il suo livello di industrializzazione pro capite aveva quasi raggiunto quello dell’Occidente. Il Giappone poi, accrebbe notevolmente la sua forza lavoro nell’industria manifatturiera, abbassando il livello di disoccupazione. Secondo Eva Ehrlich, il successo giapponese è dovuto in parte alla diversa pol. eco adottata, ma anche, all’etica dei lavoratori giapponesi.

Differenze nello spazio: es. Impero Ottomano durante i sec. in cui Cina e Giappone erano fortemente protezionisti, questo vasto impero non europeo fu molto “liberista” e molto aperto alle importazioni. I dazi alle importazioni erano più bassi della magg. parte dei dazi interni. Questa pol. liberista va fatta risalire al 1536, data di uno dei primi trattati commerciali tra l’Impero e uno Stato europeo, la Francia (“capitolazione”= atto con la quale i sultani concedevano privilegi eco a soggetti di stati amici non musulmani). Le capitolazioni del 1673 e del 1740 ottennero persino gli elogi dei liberoscambisti britannici (es. Disdraeli).

Stati Uniti: culla e bastione del protezionismo moderno (1791-1860)

È possibile dividere la storia degli Stati Uniti in tre periodi distinti:- 1816-1846 periodo protezionista- 1846-1861 periodo liberista (o di protezionismo attenuato)- 1861-IIGM rigido protezionismo

Il moderno protezionismo è quindi nato negli USA. Nel 1791, Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro nel primo governo degli Stati Uniti, stilò il suo famoso Report on Manifactures, che è considerato la prima formulazione della moderna teoria protezionistica.Il contributo principale di Hamilton è l’accento che egli pone sull’idea che l’industrializzazione non sia possibile senza la protezione di una tariffa doganale (egli fu il primo ad introdurre l’espressione “industrie bambine”).La prima tariffa del 1789 è considerata moderatamente protezionista; in realtà, prevedeva dazi sui prodotti dell’industria manifatturiera – che doveva proteggere – del 7,5-10%. Ma dopo due revisioni, la tariffa del 1792 aumentò ben del 50% su quasi tutte le categorie di beni, fino a giungere a quella del 1816, in cui i dazi sulle importazioni erano di ca. il 35% per quasi tutti i prodotti industriali. La tariffa in vigore dal 1829 segnò poi l’apice del protezionismo americano.Il contrasto tra il sud, che, in quanto esportatore di prodotti agricoli (cotone, tabacco) era liberista, e il nord, che era in via di industrializzazione e quindi protezionista, emerse in questo periodo. [ Il movimento protezionista, supportato da numerose pubblicazioni propagandistiche, era spronato dall’esistenza di sacche di disoccupazione e da crisi cicliche] Questa situazione condusse ad una grave crisi - a causa dell’opposizione da sud e di alcuni stati che proclamarono la nullità delle leggi federali- che si risolse nel 1832 con l’adozione di un Compromise Bill (riduzione dei tassi più alti di import. fino ad un livello unificato del 20%). L’anno del colpo di stato di Napoleone III, il 1860, è anche quello in cui negli Usa Abraham Lincoln fu eletto e iniziò la secessione degli stati del sud > la Guerra Civile americana si concluse nel 1865 con la vittoria degli abolizionisti del nord sui filo-schiavisti del sud, e quindi con il successo dei protezionisti sui fautori del libero mercato del sud, la cui principale voce all’esportazione era il cotone greggio.Già in quell’anno, il volume della produzione industriale degli Usa rappresentava il 13% di quella europea, e solo venti anni più tardi sarebbe salita al 24%. Per questo motivo, dal 1870 le vicende tariffarie degli Stati Uniti divennero di importanza mondiale.

Dalla tesi delle “industrie bambine”alla protezione dei salari americani (1861-1914)

È durante questo periodo che il contrasto tra le pol. comm. dell’Europa e degli Usa divenne più marcato. La tariffa del 1861 era l’inizio di una pol. che gli Stati Uniti avrebbero seguito fino alla fine della IIGM.

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1890 > tariffa McKinley per salvaguardare i salari degli operai e tutelare maggiormente il settore agricolo > aumento generalizzato dei dazi doganali sulle importazioni. Ma durante tutto il periodo 1890-1913 ci fu una serie di modificazioni tariffarie che alternativamente ridussero e aumentarono i dazi in misura modesta, secondo i risultati elettorali.Il 4 ottobre 1913, in seguito alla vittoria elettorale del Partito democratico, venne approvata la cosiddetta “tariffa Underwood” > profonda – ma temporanea – rottura con la pol. precedente > incremento dei beni ammessi all’entrata libera e caduta dei dazi medi di import. > moderazione nelle pol. protezionistiche statunitensi che però non ebbe un ruolo significativo a causa della IGM > 1921 ritorno del Partito repubblicano al potere > legge tariffaria di “emergenza” del ’22 che implicava un netto aumento della protezione.

I dominion britannici: l’indipendenza doganale porta al protezionismo

Gli inglesi decisero di concedere un’ampia autonomia doganale a quelle che alla fine del sec. sarebbero diventate colonie dotate di autogoverno (Canada, Australia e Nuova Zelanda > con una presenza cospicua di pop. europee). 2 fasi:

1. 1867-1888 periodo di pol. liberiste, giustificate dall’opportunità di esportare in condizioni più favorevoli i prodotti agricoli in GB;

2. 1888-1913 pol. tariffarie protezionistiche, con cui cercavano di incoraggiare i loro rispettivi settori industriali.

CANADA la revoca delle Corn Laws in GB (1846) e l’abolizione di altre preferenze nei confronti di merci canadesi condusse alla necessità di una drastica riorganizzazione della pol. comm., dato che quasi tutte le esportazioni erano destinate alla GB > trattato di reciprocità con gli Usa del 1854 libero commercio dei prodotti agricoli tra i due paesi in cambio dei diritti di pesca e di navigazione per gli Usa + pol. protezionista del governo per proteggere agricoltura e industria.

AUSTRALIA fu la prima colonia britannica a introdurre una pol. comm. diretta a promuovere l’industria per mezzo di una tariffa protezionista (1867), la cui ragione è, in larga misura, la disoccupazione, a sua volta risultato della forte immigrazione (scoperta di giacimenti auriferi > già dal ’56 la produzione aurifera aveva cominciato a calare, creando vaste sacche di disoccupazione soprattutto nelle città).1908 raddoppio dei dazi sulle import. per la maggior parte delle categorie di merci, pur mantenendo una preferenza per i prodotti britannici.

NUOVA ZELANDA per tutto il XIX sec. ebbe una tariffa più liberista di Australia e Canada, a causa dell’importanza che rivestiva l’agricoltura nell’eco neozelandese. Fatta eccezione per alcune industrie di trasformazione agricola, il mercato locale era troppo piccolo per consentire una vera industrializzazione. Come in Australia, però, il crollo della produzione aurifera ebbe come conseguenza il rafforzamento del protezionismo, sostenuto dai partiti dei lavoratori. 1888 tariffa per la produzione di alcuni settori dell’industria.

Un liberismo imposto nel futuro Terzo mondo

Non c’è dubbio che fosse un oceano di liberismo, ma di 2 tipi: uno imposto per le colonie e un altro per i paesi nominalmente indipendenti, cui era “suggerito” un det. regime doganale. La regola generale prevedeva il libero accesso di tutti i prodotti della madrepatria; in alcune colonie, certi prodotti venivano import. senza dazi (o con dazi minimi come nel caso dell’India.I paesi del Terzo mondo, invece, almeno nel XIX sec. erano indipendenti, o comunque non vere e proprie colonie, come: America Latina, Cina, Thailandia e il Medio Oriente. nella maggior parte dei casi l’Occidente aveva imposto trattati (detti “ineguali”) che prevedevano l’eliminazione tot. dei dazi doganali sulle import. o la regola del 5%, secondo la quale nessun dazio poteva superare questa soglia.

Non è quindi esagerato affermare che il mondo sviluppato era un oceano di protezionismo, che non si ritirò fino alla IIGM. Vi erano solo due isole di liberismo, la GB, la più importante, e l’Olanda (le esportazioni di questi due paesi rappresentavano insieme il 21% del tot. dei paesi sviluppati – nel Terzo mondo le esportazioni combinate dei paesi

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liberisti indipendenti rappresentavano solo il 22%, ma si trattava di un liberismo imposto). Tra il 1815 e il 1913 solo l’Europa ebbe un breve periodo di vero liberismo.CINA e GIAPPONE prima liberali, poi eco protezioniste USA protezionistaIMPERO OTTOMANO liberistaTERZO MONDO liberismo impostoGB e OLANDA liberiste

4. Il protezionismo ha sempre avuto un impatto negativo?

Solo negli ultimi anni è stato messo in discussione il dogma secondo il quale il protezionismo ha necessariamente un impatto negativo sull’economia.

Liberalismo e crescita eco in GB dopo il 1846

Questo primo esperimento di libero scambio ebbe un impatto positivo (1843-61 crescita del commercio estero del 6% l’anno e del tasso di crescita eco). Non si deve però dimenticare la peculiarità della situazione britannica: non solo era la nazione dove era nata la rivoluzione industriale, ma aveva anche un vantaggio tecnologico superiore a quello degli altri paesi. La quota della produzione di cotone britannico venduto all’estero, che aveva cominciato a calare prima del ’46, ora crebbe di nuovo, e ciò significò un ulteriore aumento dell’importanza della nazione, già predominante nel campo. L’industria inglese, che godeva di un forte vantaggio tecnologico, aveva quindi trovato un mercato molto più ampio, anche se esterno all’Europa. Il libero scambio portò quindi un grande successo eco.

Il libero scambio e la depressione europea

La fase liberale delle pol. europee durò dal 1860 al 1892 e coincise con quella che venne definita la grande depressione europea, la quale terminò solo nel 1892-94, quando si ritornò al protezionismo. La diminuzione del tasso di crescita del PNL pro capite fu del 30% in GB e dell’80% nel resto d’Europa.Libero scambio = depressione? Protezionismo = ripresa?Per l’Europa il rallentamento della crescita fu principalmente il risultato di una diminuzione della crescita della produzione agricola. Questa crisi agricola può essere spiegata con l’afflusso di cereali esteri, a sua volta risultato di un abbassamento dei costi di trasporto e della tot. abolizione della protezione doganale dei cereali, entrata in vigore nell’Europa continentale tra il 1866 e il 1872 i cereali costituivano il 40% della produzione agricola dei paesi industrializzati!L’afflusso di cereali colpì particolarmente i coltivatori diretti il basso prezzo delle import. portò ad una caduta dei prezzi interni dei cereali e dei prodotti agricoli in generale il livello di vita dei coltivatori cadde (questo settore rappresentava più della metà della pop. tot. dell’Europa continentale) trend negativo che si trasmise anche all’industria. In GB la situazione era meno grave, poiché le forze lavoro agricole rappresentavano solo il 22% della pop. lavorativa; dal ’46, infatti, la GB aveva gradualmente spostato i fattori di produzione (lavoro-capitale) dall’agricoltura all’industria.

Protezionismo: espansione del commercio estero

Il successivo periodo di rafforzamento del protezionismo coincise con una rapida espansione del commercio, con un’accelerazione della crescita eco e con un miglioramento degli scambi. Anche se ciò non può essere considerato una prova che il protezionismo generi commercio internazionale, è però un’indicazione che non sempre lo impedisce. In GB, paese che non applicò misure protezionistiche, vi fu un periodo di stagnazione; durante i due decenni successivi, l’espansione del commercio fu molto più veloce nei paesi che avevano adottato il protez. che in GB, rimasta liberista.

Sviluppo eco negli Stati Uniti

Durante tutto il XIX sec. e fino agli anni ’20, la culla del protez. sperimentò uno dei più rapidi ritmi di crescita eco del mondo.

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Il successo degli Usa non è dovuto unicamente alla sua pol. doganale, ma vi contribuirono altri fattori, come: il rapporto elevato tra terra e pop., la disponibilità di materie prime e il massiccio afflusso di lavoro e capitale dall’Europa.Il successo degli Usa fu maggiore nei periodi protez., mentre l’Europa era liberista. Nel suo periodo meno protez., infatti, dal 1846 al 1861, l’America adottò una forma molto blanda di protezionismo o un liberismo moderato (che ebbe come unico effetto quello di ritardare la crescita eco).

L’impatto negativo del liberismo imposto nel Terzo mondo

Il liberismo eco imposto ai paesi del Terzo mondo fu sicuramente la causa del loro ritardo nell’industrializzazione. Infatti, nei primi decenni del XIX sec. grandi quantità di prodotti manifatturieri a buon mercato avevano condotto ad un processo di deindustrializzazione. Ad es. dopo il 1813(quando fu soppresso il monopolio comm. dell’East India Company che impediva l’import. di prodotti tessili in India) l’afflusso di prodotti tessili in quel paese crebbe considerevolmente.Nel 1860 le esportazioni annue di cotone dalla GB, dalla Francia e dagli Usa in America Latina causò la quasi tot. sparizione delle industrie tessili in quelle regioni.

CONCLUSIONI:

Regolarmente, il protez. ha condotto all’industrializzazione e allo sviluppo eco, o almeno ha agito come fattore concomitante. Il liberismo, invece, ha avuto tre volte su quattro dei risultati negativi. L’eccezione è il caso britannico del periodo liberista post-1846, dove questa pol. fu probabilmente un importante fattore di accelerazione dello sviluppo eco che caratterizzò i 2 o 3 decenni seguiti a un quasi totale smantellamento doganale ( il livello pro capite si alzò notevolmente e la GB primeggiava nel campo della siderurgica, dei tessuti – cotone – e nella capacità produttiva del ferro). Ma ciò avveniva in un paese che, per essere stato la culla della riv. industriale, nel 1846 godeva di un vantaggio sostanziale sul resto del mondo sviluppato. Inoltre la GB aveva alle sue spalle almeno un sec. e mezzo di protezionismo!Verso il 1906, però, la pol. liberista inglese cominciò ad accusare i primi cedimenti. Tutto il mondo si stava convertendo alla pol. protez., mentre la GB decise di proseguire per la sua strada.Accadde così che nel 1913 il paese più industrializzato non era più la GB, ma gli Usa, con un distacco di ca. il 10%. Nel 1932, la GB rinunciò alla pol. liberoscambista per adottare quella protez., ma gli Usa superavano nel livello di industrializzazione la GB di ca. il 50%! Tornare al protez. è un elemento importante per capire lo sviluppo eco inglese degli anni ’30.

Risultati negativi del libero scambio: sec. XIX

1. La crisi nota agli storici come “grande depressione”cominciò durante il periodo 1869-73 quando le pol. comm. in Europa avevano raggiunto un grado di liberismo senza precedenti. Questa depressione fu molto più seria, più lunga e grave di quella che si verificò a partire dal 1929.2. Non solo la crescita eco diminuì, ma anche il commercio internazionale!3. Gli Usa al momento della grande depressione europea attraversavano una fase di rapida crescita, proprio perché si erano trovati estranei alla pol. del libero scambio (avevano adottato invece una pol. molto protezionistica).4. Il fatto più sconcertante è che la crescita eco cominciò ad aumentare proprio quando l’Europa ripristinò le sue pratiche protez. (durante questa buona fase eco dal 1889 al 1913, la GB aveva registrato invece una crescita eco molto lenta).5. La causa principale del rallentamento eco fu il declino del reddito rurale, dovuto, a sua volta, da una caduta dei prezzi agricoli, causata dall’afflusso dei cereali importati libero scambio!6. Nel sec. XIX l’esperienza liberoscambista del Terzo mondo fu un tot. fallimento: l’apertura delle eco di questi paesi fu una delle principali ragioni del loro sviluppo insufficiente.

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PARTE 2 “I grandi miti sul ruolo del Terzo mondo nello sviluppo occidentale”

Uno dei miti più importanti è che il colonialismo abbia giocato un ruolo cruciale nello sviluppo del mondo occidentale. Questa idea si basa su tre argomentazioni:

1. il mondo sviluppato dipendeva per la sua industrializzazione dalle materie prime del Terzo mondo;2. il Terzo mondo era un importante sbocco per i prodotti dell’industria manifatturiera dell’Occidente;3. il colonialismo ha svolto un ruolo importante nell’innesco della riv. industriale.

1. Le materie prime del Terzo mondo non furono decisive per l’industrializzazione dell’Occidente (almeno fino al 1955)

È diffusa la credenza che lo sviluppo del mondo occ. e, in particolare la sua industrializzazione si siano basati per un lungo periodo sulle materie prime del Terzo mondo. Tuttavia, questo è un fenomeno relativamente recente – ancora nell’immediato secondo dopoguerra i paesi sviluppati erano quasi totalmente autosufficienti dal punto di vista energetico -.Fino alla fine degli anni ’30, poi, il mondo sviluppato produceva più energia di quella che consumava – ca. il 98% dei minerali - e quindi esportava un considerevole surplus di prodotti energetici (in particolare carbone). Solo dopo la rapida crescita dei produttori del Medio Oriente, dopo la IIGM, si verificò un cambiamento.[Inoltre si è dovuta attendere la riv. del trasporto a vapore per vedere gli inizi di un trasporto internazionale di combustibile; prima, infatti, i costi di trasporto erano troppo elevati]Paradossalmente, il principale esportatore di carbone nel Terzo mondo era il paese più sviluppato, la GB.Per quanto riguarda il petrolio, la sua produzione comm. moderna iniziò nel 1860, e gli Usa per oltre un sec. ne furono i principali produttori ed esportatori. La regione più deficitaria era l’Europa (Russia esclusa), dove la produzione locale soddisfaceva meno della metà del consumo. Nel 1910, il ferro rappresentava il 95% dei metalli prodotti; il comm. minerale di ferro prima del 1914 era principalmente un’attività intraeuropea (Francia, Spagna, Svezia). Le esportazioni di rame e stagno dal futuro Terzo mondo cominciarono invece anche prima del XIX sec.(principalmente dall’America Latina); la dipendenza dei paesi sviluppati per questi 2 minerali metalliferi era già sensibile alla vigilia della IGM.Le altre materie prime: fibre tessili (cotone, lana, seta, lino, canapa), tinture per queste, gomme, cuoi, pelli. Diversamente dalle altre materie prime, il Terzo mondo ha svolto un ruolo più significativo, anche se non dominante. Ma le cose sembrano diverse se viste dall’altra parte. Le esportazioni di beni primari, infatti, rappresentavano più del 90% del tot. delle esportazioni del Terzo mondo, e il 100% delle materie prime.Beni primari: possono essere definiti tutti i beni che non subiscono nessuna sostanziale trasformazione, e di cui alcuni possono essere consumati senza alcuna lavorazione (per es. la frutta o il sale).Materie prime: sono beni primari usati dalle industrie manifatturiere. Il periodo tra le due guerre appare caratterizzato da un rapido aumento della produzione di materie prime nel Terzo mondo (l’incremento maggiore avvenne in Africa).Dunque, se effettivamente dal 1955 in poi la grande dipendenza dalle materie prime del Terzo mondo era diventata una realtà, prima di quel periodo non è altro che un mito. I paesi sviluppati furono in grado di raggiungere un livello di industrializzazione molto elevato sulla base di materie prime locali nonché dello sfruttamento della manodopera locale. [venivano export. anche prodotti tropicali, zucchero, che era considerato un prodotto di lusso in Europa…]

2. Gli sbocchi coloniali non furono cruciali per le industrie occidentaliContrariamente a un’opinione diffusa, non vi è alcun periodo della storia dell’Occidente sviluppato in cui gli sbocchi comm. costituiti dalle colonie e dal Terzo mondo siano stati mai veramente importanti per le loro industrie. Il Terzo mondo non è nemmeno mai stato uno sbocco significativo. Il mito ha una delle sue origini nel fatto che per la maggior parte dei paesi del Terzo mondo, dall’inizio del XIX sec. fino ad epoca recente, quasi tutti i prodotti industriali consumati localmente venivano da paesi sviluppati, e questa è una delle cause principali di deindustrializzazione del Terzo mondo. Esso ha solo un ruolo modesto come sbocco per il mondo sviluppato; tra il 1800 e il 1938, infatti, solo il 17% delle esportazioni tot. fu destinato al Terzo mondo. Non si deve dimenticare, poi, che, sebbene gli Usa fossero geograficamente più vicini alla principale area comm. del Terzo mondo di allora (l’America latina), il volume dei loro cambi con quest’ultima fu meno ingente di quello dell’Europa.La principale eccezione fu la GB: per questo paese le export. nel Terzo mondo rappresentarono il 40% del tot. durante quel periodo (in particolare, il 67% della produzione britannica di cotone).

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Tra i 1899 e il 1938, invece, si può stimare che il 26-32% delle export. delle industrie dei paesi sviluppati fosse diretto al Terzo mondo. Si tratta pur sempre di uno sbocco marginale. Complessivamente, l’accesso ai mercati del Terzo mondo non fu che un piccolo stimolo per le industrie dei paesi sviluppati.

Un paradosso: le potenze coloniali crescono più lentamente un elemento addizionale che porta a rivedere il ruolo della colonizzazione nell’industrializzazione e nello sviluppo dell’Occidente.Se si confrontano i tassi di crescita durante il XIX sec. emerge che i paesi non coloniali, di regola, hanno avuto uno sviluppo eco più rapido dei paesi coloniali (GB, Francia, Paesi Bassi, Portogallo e Spagna < Belgio, Germania, Svezia, Svizzera e Usa).

3. Il colonialismo fu determinante per innescare la Rivoluzione industriale?Questo mito concerne in particolare la GB il primo paese a intraprendere la riv. e anche il solo a beneficiarne in misura considerevole per 50-80 anni inoltre, le export. britanniche erano tra le più orientate alle colonie.In realtà è un mito piuttosto difficile da dimostrare: l’Inghilterra iniziò la sua riv. industriale (e agricola) fin dal 1680-1700 e tale sviluppo ebbe un’accelerazione tra il 1720 e il 1760. Ma, nella prima metà del XVIII sec., l’impero coloniale inglese era molto limitato (la parte più importante era il Nord America, ma solo dopo il trattato di Parigi del 1763, che cedeva il Canada e la Louisiana all’impero britannico, che i possedimenti inglesi presero significato). Alla stessa epoca, invece, gli imperi portoghese e spagnolo insieme contavano più di 10 milioni di abitanti. L’impero britannico divenne significativo solo alla fine del XVIII sec., grazie alla sua espansione in India. Inoltre, fino all’inizio dell’800, le colonie britanniche erano meno orientate allo scambio internazionale di quelle spagnole e portoghesi (avendo climi che rendevano possibile la produzione di beni agricoli per l’export. in Europa). Solo nei primi anni del sec. i mercati coloniali fornirono sbocchi importanti ai prodotti industriali inglesi.Siamo quindi di fronte ad una relazione quasi rovesciata: la colonizzazione britannica, e in particolare la colonizzazione europea moderna, può essere spiegata con la rivoluzione industriale. Il fatto che la colonizzazione seguisse l’industrializzazione non prova la causalità.

4. Bilancio del colonialismoSe l’Occidente non ha guadagnato moto dal colonialismo, ciò non significa che il Terzo mondo non abbia perso molto.- Deindustrializzazione es. caso dell’India: non c’è dubbio che l’afflusso dei prodotti industriali inglesi dal 1813 comportò una deindustrializzazione su vastissima scala (industria tessile > appena il monopolio dell’East India Company cessò nel 1813, l’importazione di tessuti inglesi crebbe considerevolmente, anche grazie alla mancanza di dazi doganali). Il processo fu simile o persino peggiore nel resto dell’Asia – con l’eccezione della Cina, dove l’afflusso di prodotti industriali occ. iniziò più tardi -.La maggior parte dei paesi latinoamericani modificarono le loro pol. comm. nel periodo 1870-90, introducendo tariffe protez. per promuovere l’industrializzazione (es. Messico e Brasile) > il protez. non è mai sbagliato per paesi “nuovi” come questi, dove l’industria non è abbastanza forte per sostenere la concorrenza estera.L’indipendenza pol. dopo la IIGM cambiò radicalmente la situazione, poiché il loro primo obiettivo eco di quasi tutti i paesi di nuova indipendenza del Terzo mondo fu l’industrializzazione (che ebbe aspetti neg. come: le differenze regionali industria manifatturiera concentrata nelle mani di soli 5 paesi, Brasile, Taiwan, Singapore, Corea del Sud e Hong Kong; crescente multinazionalizzazione occidentale dell’industria manifatturiera e specializzazione in settori tradizionali).

Terzo mondo rapido incremento demografico dagli anni ’30 (specie dopo il 1950) una delle cause principali dei problemi di sviluppo eco di quest’area. durante il XIX sec., come diretta conseguenza della colonizzazione, in alcune colonie la pop. crebbe a un ritmo che non aveva precedenti (es. Giava, Egitto e Indonesia).

La realtà di un’enorme differenza di reddito

Alla fine del periodo della colonizzazione, nel 1950, le eco del Terzo mondo avevano un livello di vita molto più basso di quello dei pesi sviluppati. Ciò a causa delle divergenti tendenze della crescita eco. Nei paesi sviluppati, un sec. e

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mezzo di riv. industriale aveva portato alla moltiplicazione per 5 o più del livello medio di vita; nelle regioni dell’Occidente dove il successo fu più netto, il livello di vita aumentò di 10 volte. Nel Terzo mondo, invece, vi furono regioni in cui il tenore di vita nel ’50 era inferiore a quello del 1800 (es. Cina) e il reddito pro capite reale era 5 o 6 volte più basso di quello dei paesi sviluppati – il reddito medio pro capite del Terzo mondo era un decimo di quello dell’Occidente -. Ovviamente la più importante conseguenza della colonizzazione fu la perdita dell’indipendenza nazionale + vincoli pol. addizionali + introduzione del lavoro forzato (ca. 11 milioni di schiavi furono deportati dal continente africano nelle colonie europee).Può sembrare paradossale, ma una buona notizia per il Terzo mondo è che lo sviluppo dell’Occidente non era dovuto al suo sfruttamento. Se fosse il contrario, infatti, ne seguirebbe che lo sviluppo eco richiede lo sfruttamento di altre vaste regioni e, poiché il Terzo mondo di oggi non potrebbe soddisfare queste condizioni, ciò implicherebbe l’impossibilità del suo sviluppo eco. L’esperienza dell’Occidente mostra che è possibile un processo di sviluppo senza lo sfruttamento di altre regione.

PARTE 3 “I grandi miti sul Terzo mondo”

Studio dei problemi dello sviluppo e del sottosviluppo (sviluppo = termine usato per indicare una situazione eco successiva alla rivoluzione industriale)

1. Era grande il differenziale di reddito prima dello sviluppo moderno?1700-1750 si è spesso affermato che l’Europa era già molto più ricca, se non più sviluppata del resto del mondo. In realtà, prima dello sviluppo eco non vi era una grande differenza di reddito tra i paesi sviluppati e il Terzo mondo. I paesi che sono ricchi oggi erano già prosperi prima della riv., e i poveri erano già poveri prima di diventare Terzo mondo per una combinazione di fattori sia geografici, sia umani.Tentativi di misurare questa differenza:- Zimmermann (1962) nel 1860 48$ per il III mondo/175$ per i paesi sviluppati- Kuznets (1958) 1865 prodotto pro capite di 70$ per il III mondo/290$ “- Landes (1961) 1960 reddito pro capite di 25-30 £ per il III mondo/60-70 “Conclusione:Vi era parità di reddito pro capite tra le medie del futuro Terzo mondo e dei futuri paesi sviluppati prima che queste ultime regioni cominciassero a essere sottoposte al processo della crescita eco moderna “fardello dell’Europa più povera”: Russia, Europa orientale e sud-orientale esistenza di civiltà asiatiche “più ricche”: Cina (Il Milione di Marco Polo, fine del XIII sec.) e India, civiltà precolombiane prima dell’arrivo degli europei, Persia. In conclusione, probabilmente, prima degli sconvolgimenti della riv. industriale, il paese medio del futuro Terzo mondo non era più povero di un’analoga regione del futuro mondo sviluppato.

2. Deterioramento a lungo termine delle ragioni di scambio?Mito che è andato gradualmente dissolvendosi negli ultimi 10 anni, secondo il quale, tra il 1880 e il 1936, si era verificata una riduzione del 43% degli indici dei prezzi mondiali dei prodotti primari rispetto agli analoghi indici relativi ai prodotti dell’industria manifatturiere. Poiché le export. del Terzo mondo sono costituite quasi interamente di prodotti primari e le import. di prodotti industriali, la conclusione è un deterioramento delle ragioni di scambio per il Terzo mondo. Questo agli economisti sembra impossibile, poiché dovrebbero costare meno i prodotti dell’industria, grazie all’aumento della produzione (principale risultato dei 2 sec. di riv. industriale). In realtà ciò deriva dal fatto che la Lega delle Nazioni usa solo indici dei prezzi inglesi aumento prezzi export. britanniche, una delle principali cause della depressione degli anni ’20 in GB. In quegli anni, quindi, le ragioni di scambio per i beni primari rispetto ai manufatti migliorarono invece di peggiorare.Eccezione: lo zucchero, primo grande prodotto del Terzo mondo per il quale comparisse un prodotto concorrenziale nel mondo sviluppato (lo zucchero da barbabietola, inizio XIX sec.). Comunque il fatto che le ragioni di scambio in termini di baratto netto nel commercio del Terzo mondo siano migliorate non implica necessariamente uno sviluppo positivo. Questo sarebbe il caso se esso fosse accompagnato da un aumento dei salari e degli altri redditi del Terzo mondo, come nei paesi sviluppati, che invece rimasero stagnanti.

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3. Quanti più prodotti tropicali si esportano tanto più aumentano le importazioni di alimentari?Espansione delle colture per l’esportazione in molti paesi questa evoluzione ha avuto però delle conseguenze eco e sociali negative in alcuni casi, le disponibilità locali di cibo furono ridotte import. regolari di cereali o carestie. solo in seguito alla diminuzione dei prezzi dei cereali vi fu un miglioramento delle ragioni di scambio dei prodotti agricoli tropicali rispetto ai cereali dei paesi temperati (vedi 2.). Fino al II dopoguerra, le eco del Terzo mondo continuavano, in realtà, a esportare più cereali di quanti non ne importassero; ma dal 1948 l’eccedenza si trasformò in deficit. La causa principale del disavanzo alimentare fu un rapido aumento della pop. combinato con un processo significativo di urbanizzazione che ha portato a una grande pressione sulla terra. La domanda addizionale di cibo dalle pop. urbane ha generato un aumento delle import. (stimolate anche da cause esterne come, il programma di aiuti alimentari – iniziato nel ’54 - e l’aumento della produttività occ.).Aumento delle import. di alimentari: dal 7 al 16% nel 1987-91. La situazione più drammatica era quella del Medio Oriente, dove le import. nette di cereali rappresentavano il 45% della produzione locale. Ma questo, non è spiegabile con l’aumento delle export. di prodotti tropicali, nonostante se ne registrasse un sensibile aumento la regione dove le import. di cereali sono cresciute maggiormente e hanno raggiunto il livello più elevato, il Medio Oriente, è anche quella con il più basso livello pro capite di export. di prodotti tropicali. Questi, inoltre, non assicurano ricavi finanziari più elevati perché sono diventati poco costosi.

4. Crescita della popolazione: è meglio essere in tanti?Rapido incremento della pop. del Terzo mondo, iniziato già durante il periodo della colonizzazione (in qualche paese il fenomeno risale alla metà del XIX sec., ma nel suo complesso non si manifestò sino agli anni ’30 del nostro sec.) dal 1938 al 1950 e oltre il tasso di crescita cominciò a salire rapidamente (raddoppiò in 30 anni!, mentre all’Europa occorse un sec.!). Ciò generò una serie di miti:- idea che almeno nelle prime fasi dello sviluppo dell’Occidente l’aumento della pop. fu un fattore positivo = argomentazione contro la pianificazione familiare- idea che in alcune regioni con una bassa densità demografica la crescita della pop. non abbia aspetti negativi.Le analisi statistiche non hanno dato nessuna indicazione che periodi di crescita demografica accelerata abbiano condotto a una crescita eco più rapida. La crescita più rapida della pop. fu anzi negativa, specialmente quando il tasso di crescita superò l’1% l’anno meno terra da coltivare, più disoccupazione, + bambini = necessità di + scuole, urbanizzazione negativa, meno spazio!

PARTE 4 “Miti minori”

1. Il commercio estero fu un motore della crescita eco?Il commercio estero è generalmente considerato un motore della crescita eco; ma la storia dimostra che raramente le cose vanno a questo modo.La crescita eco porta al commercio estero e non viceversa! Es. nel Terzo mondo anche se si esportava non si era verificata una grande crescita eco; Giappone aumento crescita eco e crescita comm. dovute a progressi tecnologici.

2. La IGM fu preceduta da una depressione?Spesso gli anni precedenti la IGM sono descritti come un periodo di depressione; oggi si è dimostrato che non è così. Il periodo 1900-1913 fu anzi uno dei migliori mai registrati (crescita annua complessiva intorno al 5%). Negli Stati Uniti, questi anni furono anche più prosperi, specialmente perché la guerra scoppiò in Europa e perché non vi fu recessione nel 1910. Ma anche per i 3 principali paesi coinvolti (Francia, Germania e GB), l’intero periodo fu molto favorevole il volume delle export. crebbe

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Perciò la IGM, a differenza della II, cominciò nel corso di una prima fase di rapida crescita eco.

3. Le esportazioni di beni primari sono una strada verso il sottosviluppo?Il fatto che le export. di quasi tutti i paesi del Terzo mondo consistessero quasi interamente di beni primari ha condotto alla conclusione che l’export. di quest’ultimi sia una via al sottosviluppo. La realtà è molto più complessa, perché alcuni dei paesi sottosviluppati di oggi sono stati in passato esportatori di beni primari (es. Usa > esportava materie prime, specie cotone, Australia, Canada, Danimarca, NZ), ma avevano iniziato già nel XIX sec. una pol. di industrializzazione mediante misure protez.. Specializzarsi in export. di beni primari non porta di per sé al sottosviluppo, a patto che si proceda ad una industrializzazione, che diventa quasi una scelta obbligata per raggiungere un elevato livello di sviluppo ( > protezionismo).Es. Argentina in conseguenza delle massicce export. di prodotti agricoli, verso il 1910 si collocava tra il 10 e il 15 posto della graduatoria mondiale dei paesi più ricchi; gli effetti combinati di una crescita lenta della produttività agricola, e del livello limitato di industrializzazione, condussero a una netta discesa della sua posizione. Nel 1990, l’Argentina era scesa al 44 posto. Conclusione: se l’esportazione di beni primari non fu sempre una via al sottosviluppo, la migliore via allo sviluppo fu l’industrializzazione, attuata attraverso misure protezionistiche.

4. L’occidente conobbe veramente una crescita economica rapida?Il mito che nel mondo sviluppato il XIX sec. fosse un periodo di rapida crescita eco è oggi meno diffuso e accettato. Ma raramente si comprende quanto fu lenta in realtà quella crescita il tasso di crescita eco pro capite annuo fu certamente inferiore allo 0,2%.

5. Il mondo tradizionale era poco sviluppato?Una quantità di studi danno l’immagine del mondo tradizionale come poco urbanizzato; una recente ricerca ha dimostrato che le cose non stanno affatto così. In realtà, per molti sec. prima della Riv. industriale, il mondo era da 3 a 4 volte più urbanizzato di quanto non si credesse in precedenza. Tra il 1850 e il 1910, il livello di urbanizzazione in Europa salì da meno del 15 al 32%. [il Giappone era la civiltà più urbanizzata nel XVIII sec.]

6. L’occidente fu l’unico grande colonizzatore?La storia del sottosviluppo del Terzo mondo, che è principalmente costituito di ex colonie europee, ha condotto all’erronea credenza che l’Europa fosse la sola importante potenza coloniale. La realtà è però del tutto diversa.Principali aspetti negativi della forma di colonizzazione europea e della colonizzazione in generale:- un tentativo di imporre con la persuasione o con la forza la cult. (religione e lingua) della potenza coloniale agli abitanti delle colonie;- l’introduzione di una serie di regole che subordinano gli interessi eco e pol. delle colonie a quelli della potenza coloniale;- la discriminazione basata sulla razza, origine o religione a danno degli abitanti delle colonie e a favore di quelli della potenza coloniale.La storia delle colonizzazioni non europee presenta le stesse caratteristiche negative.Le altre colonizzazioni in molti casi durarono anche più a lungo di quella europea: es. impero egiziano durò 5 secoli (dal XVI all’XI a.C.); impero persiano durò 3 secoli (dal VII al IV a.C.); impero romano 4 secoli (dal sec. I a.C. al IV d.C.); impero cinese e mongolico; imperi dell’America precolombiana; impero arabo e ottomano (che colonizzarono parti d’Europa più a lungo di quanto l’Europa non abbia colonizzato il Medio Oriente).

7. L’occidente fu il più grande trafficante di schiavi?Uno dei peggiori marchi d’infamia della colonizzazione europea, la tratta degli schiavi africani, sfortunatamente non fu, in tutta la sua ampiezza, un caso unico come è spesso dato per scontato. [“schiavo” da “slavo”, il che rispecchia il fatto che i pop. slavi erano spesso conquistati e resi schiavi nel medioevo]Il commercio degli schiavi africani (9,5-10 milioni) durò per più di 3 secoli. La deportazione degli schiavi in America cominciò nella prima decade del XVI sec., fu ridotta dopo il 1815 e divenne di scarsa entità dopo il 1870. Il commercio di schiavi islamico non è certamente sconosciuto, ma è sottostimato, anche dagli africani stessi; rispetto a quello europeo, esso iniziò prima, nel VII sec., durò più a lungo – sino alla fine del XIX sec. - e coinvolse un num. maggiore di schiavi – ca. 26 milioni -.

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Inversione della crescita della produttività nell’industria e nell’agricoltura

I vincoli fisici e climatici delle attività umane hanno condotto, fin dagli albori della storia, a una crescita della produttività (intesa come “rendimento” o “resa”) agricola più lenta di quella industriale (divario che si è ulteriormente allargato in seguito alla riv. industriale), in particolare dell’industria manifatturiera. Nell’Europa del XIX sec. ci fu un incremento sia dei rendimenti che della produttività; negli Usa, invece, i rendimenti dei cereali rimasero stabili, mentre la produttività aumentò più rapidamente che in Europa. Tra il 1950 e il 1990, l’incremento fu del 3,6% nell’industria e del 5,6% nell’agricoltura.Questo nuovo trend della produttività agricola ha conseguenze di vasta portata, come l’ascesa rapida della produzione , che nell’Europa occ. ha condotto alla sparizione delle import. di cereali (svolta rispetto agli anni ’60, quando l’Europa occ. era un grande importatore netto di cereali)

Il Terzo mondo è diventato un importatore netto di prodotti alimentari e agricoli

Nella fase tradizionale del colonialismo, ossia quella che precede la riv. industriale, gli scambi del futuro Terzo mondo erano già caratterizzati da una forte eccedenza delle export. di prodotti agricoli es. America latinaIntorno al 1800 le export. di prodotti agricoli dal futuro Terzo mondo probabilmente superavano le import. di quei prodotti. Anche durante il periodo tra le due guerre, in campo agricolo le export. del Terzo mondo erano quasi 3 volte le import.Il rapido aumento dei prezzi del petrolio negli anni ’70 rafforzò sia il trend crescente delle import. di cereali, sia il rallentamento delle export. di prodotti agricoli.

I costi di produzione dei prodotti alimentari nei paesi sviluppati diventano più bassi di quelli del Terzo mondo

Il rapido incremento dell’import. di cibo nei paesi del Terzo mondo è da porre in relazione al significativo miglioramento della produttività agricola che ha caratterizzato l’agricoltura occ. a partire dai primi anni ’50 2 conseguenze:1. ampia disponibilità di prodotti alimentari2. rovesciamento dei costi di produzione agricoli erano maggiori a causa del più elevato costo del lavoro.

Il petrolio diventa meno caro del carbone

All’inizio degli anni 80 dell’800, il petrolio, prodotto su larga scala negli Usa, era 1,7 volte più caro del carbone. Alla vigilia della IIGM negli Usa il petrolio era ancora 1,5 volte più caro del carbone. In Europa, benché i costi di estrazione del carbone fossero più elevati che negli Usa, la diff. di prezzo era maggiore, perché gran parte del petrolio era importato. Solo tra le due guerre il prezzo del petrolio cominciò ad avvicinarsi a quello del carbone. Dopo la IIGM, la scoperta di riserve petrolifere a basso costo di estrazione, specialmente nel Medio Oriente, condusse a un rapido aumento della produzione e a una riduzione dei prezzi reali. In Europa occ. il petrolio divenne più conveniente del carbone verso la metà degli anni ’50 (proprio il carbone forniva quasi il 100% dell’energia usata). Negli Usa questo punto di svolta si verificò più tardi, poiché il carbone era più abbondante e più facile da estrarre e perciò più conveniente. L’inversione del rapporto tra i prezzi del carbone e del petrolio ebbe conseguenze mondiali indirette molto importanti:- riduzione della produzione locale di energia in Occidente (principalmente carbone decadenza eco di quasi tutte le regioni carbonifere d’Europa; es. chiusura delle miniere carbonifere in Belgio)- dipendenza energetica dall’estero (laddove, fino alla metà degli anni ’40, l’Occidente produceva più energia di quanta ne consumasse).Petrolio meno caro significa anche più automobili > accelera il collasso delle città > spostamento degli abitanti verso le periferie > rilocalizzazione di strutture comm. che prima si trovavano nel cuore delle città.Le due principali conseguenze della dipendenza energetica dall’estero sono:1. dal 1973 instabilità dell’eco mondiale

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2. crescita senza precedenti dei prezzi internazionali aumenti dei prezzi del petrolio nel ’73 e nell’80 (il prezzo salì da meno di 2 dollari al barile tra il 1960-70 a 33 dollari nel 1981. Questi aumenti dei prezzi condussero alle prime 2 gravi recessioni dell’Occidente postbellico.Benché fossero intervenuti anche altri fattori, non c’è dubbio che l’instabilità eco e l’inflazione causate dall’incremento dei prezzi del petrolio furono i principali elementi del repentino aumento dei tassi di interesse internazionali, che colpì rovinosamente il Terzo mondo, che aveva, ed ha ancora, un elevato debito estero.Gli aumenti dei prezzi probabilmente sarebbero stati più graduali se non fossero intervenuti fattori politici (ruolo dei paesi arabi dell’OPEC – Org. Dei paesi esportatori di petrolio – influente nell’aumento del ’73). Il petrolio diventò cosi tre volte più caro del carbone, nonostante gli aumenti dei prezzi anche per questo combustibile. [un declino dei prezzi del petrolio si avvertì dall’83]Una delle merci il cui prezzo aumentò sulla scia di quello del petrolio, fu lo zucchero, in seguito all’aumento dei redditi dei paesi del Medio Oriente, ghiotti di prodotti dolciari.

CONCLUSIONI“Il paradosso della storia economica: l’assenza di leggi eco assolute”

Non vi è nessuna legge o regola dell’eco che sia valida per ogni periodo storico o struttura eco. Secondo la teoria neoclassica, ad es., la liberalizzazione del commercio è la via verso una parificazione dei livelli di sviluppo, che innalza i livelli bassi e non viceversa.Rispetto a questo modello, invece, il libero scambio coincise con la depressione, mentre il protez. fu la principale causa di crescita e sviluppo per la maggior parte degli odierni paesi sviluppati (l’unica reale eccezione fu la GB).In alcuni casi, però, la storia può dimostrare anche i benefici del liberismo: es. decisione ingl. di introdurre il libero scambio nel 1846, o, nel II dopoguerra, liberalizzazione degli scambi in Europa che portò ad una rapida crescita eco.Il modello classico e la sua tesi contro il protezionismo è cmq astorica: presuppone, infatti, un mondo perfettamente concorrenziale, mentre il mondo reale è caratterizzato da mercati imperfetti e da discontinuità. Es. gli elettori britannici che nel 1906, su consiglio di Marshall, bocciarono la “fair trade policy” di Chamberlain commisero un grave errore, dando l’avvio al declino dell’eco britannica, e persistendo nel libero scambio in un contesto internazionale di protez., che vedeva ormai il primato degli Usa. Nel 1932, quando la GB abbandonò la pol. comm. liberista, il livello di industrializzazione negli Usa superava ormai quello inglese del 50% (inoltre Germania e Belgio vi erano molto vicine).Ciò che è vero per i paesi sviluppati nel periodo 1950-73, non si applica certamente a tutti i paesi meno sviluppati, che hanno seguito pol. tariffarie più liberali dell’Europa del XIX sec. il processo di industrializzazione è stato impedito dall’afflusso di prodotti manufatti “deserti” industriali = rallentamento nella crescita industriale.Il volume della crescita manifatturiera delle eco di mercato del Terzo mondo (escludendo i “4 dragoni”, Hong Kong, Corea del Sud, Singapore e Taiwan) aumentò soltanto del 2,5% l’anno tra il ’70 e il ’90.Ma c’è un altro limite al successo della liberalizzazione occ. del II dopoguerra: ci si può chiedere in che misura le pol. comm. seguite dall’Occidente in quel periodo furono vantaggiose per loro per quanto riguarda l’industria. Il passaggio al liberalismo nei paesi occ. cominciò all’inizio degli anni ’60 (quello che riguarda le import. di prodotti industriali non raggiunse però lo stesso livello in tutti i paesi). Il Giappone adottò invece una pol. restrittiva era ancora meno industrializzato dei paesi più avanzati dell’Occidente. La crescita industriale del paese è stata in seguito molto più rapida di quella dei suoi partner del mondo sviluppato.

GIANNI FODELLA: “Fattore Orgware”

La sfida economica dell’Est-Asia

Quali sono i fattori che rendono attualmente competitivi il Giappone e le eco asiatiche di nuova industrializzazione?Non l’hardware, cioè la semplice disponibilità di materie prime (che nell’era della dematerializzazione – fenomeno che vede diminuire il contenuto di energia e materie prime nei beni e servizi prodotti, mantenendo inalterate o addirittura

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accrescendo le prestazioni che ne derivano – non costituisce più un fattore critico), e neppure il software, cioè il livello scientifico (mentre risulta invece fondamentale l’abilità nell’acquisire e nell’utilizzare tecnologie messe a punto da altri).L’elemento cruciale appare oggi un altro: l’orgware, un concetto indispensabile per spiegare i differenziali di efficienza dei fattori produttivi nei diversi sistemi eco, che si traducono in differenti velocità di crescita.Parte da due presupposti:1. EST-ASIA la vasta area culturale dominata o fortemente influenzata dalla civiltà cinese comprendente tutta l’Asia e buona parte dell’Asia di sud-est.

2. Suggerisce le STRATEGIE che il nostro paese e l’Europa devono mettere in atto per restare al passo con le attuali rivoluzioni produttive e per rimanere competitivi sul mercato internazionale, prima fra tutte il Protezionismo differenziato si può ad armi pari sul mercato internaz. solo sostituendoli libero scambio indiscriminato con un protez. diff. in funzione della qualità dell’orgware e del livello di reddito che caratterizzano ogni sistema eco.

PARTE 1

“Il concetto di orgware”

L’attuale rivoluzione produttiva: la riv. agricola ha rappresentato una svolta fondamentale nella storia del genere umano. L’uomo, che fino ad allora per vivere aveva contato sulla raccolta e sulla caccia, quindi sulla crescita spontanea delle fonti di sostentamento, con l’agricoltura e con l’allevamento incominciò ad influenzare la produzione di cibo. Anche la cosiddetta riv. industriale va inquadrata all’interno di quella agricola, nel corso della quale la forza dell’uomo veniva già integrata da quella animale e da quella meccanica. L’organizzazione sociale non muta così radicalmente come avevano cercato di dimostrare invece molti storici: la divisione del lavoro esisteva già da tempo, almeno fin da quando sono esistite agricoltura e civiltà urbana, anche se ovviamente fenomeni come l’urbanizzazione si sono accentuati e accelerati. Tecniche di fabbricazione sempre più raffinate processo di miniaturizzazione risparmio di materie prime e di energia introduzione di nuovi materiali fabbricati dall’uomo facendo uso degli elementi più abbondanti nel pianeta (silicio, carbonio) al concetto di disponibilità si è sostituito quello di accessibilità (in termini di prezzo) dei fattori produttivi necessari alla crescita. Dematerializazione: il progresso delle tecniche ha reso sempre più abbondanti e meno costose le risorse naturali di origine agricola e mineraria e la creazione di nuovi materiali e le tecniche produttive sempre più sofisticate hanno ridotto il contenuto di materie prime e di energia dei prodotti > questi 2 fenomeni hanno danneggiato i paesi produttori di materie prime e accresciuto l’importanza dei paesi le cui eco si fondavano sulla trasformazione e commercializzazione dei prodotti > scomparsa dei monopoli tecnologici. Per l’operare simultaneo di questi 3 elementi abbondanza a livello dematerializzazione uso libero della mondiale di risorse dei prodotti tecnologia naturali

non sono stati i sistemi eco a crescere più rapidamente, bensì quelli dalle risorse umane più capaci e meglio in grado di utilizzare su vasta scala le risorse mondiali di materiali e tecnologia a fini produttivi come i paesi dell’Est-Asia.Se si considerano le dinamiche eco più recenti, è possibile dividere il mondo contemporaneo in 6 grandi zone, in base alle diverse velocità di crescita eco caratterizzate rispettivamente:1. l’Est- Asia da un estremo dinamismo;2. l’Europa da uno sviluppo intensivo e da un recente dinamismo (aumenta il reddito pro capite e il benessere eco);3. il Nord America, l’Oceania e il Sudafrica da un dinamismo calante;4. l’Asia sud-occ. e l’Africa sett. Da uno sviluppo estensivo e da un relativo ristagno (aumenta la pop. ma le condizioni di vista restano inalterate);5. l’America latina da un declino;6. l’Africa sub-sahariana da un deciso declino.

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Spesso l’aver imposto a una realtà sociale ed eco diversa forme istituzionali nate in un contesto culturale differente ha creato una situazione dove i comportamenti mal si adeguano alle norme di importazione e alle regole originarie ormai in disuso. Un’eccezione è il Giappone, dove c’è una cultura periferica, la cui caratteristica costante è stata quella di importare istituzioni straniere (cinesi e coreane prima, europee e americane poi) senza farsene influenzare, ma riempiendole via via di contenuti tipicamente giapponesi. L’Europa, invece, non è riuscita a superare lo scoglio degli egoismi nazionali (stato centralizzato, partiti nazionali) e si è dimostrata inadeguata ad un’eco sempre più internazionalizzata e caratterizzata da decentramenti della produzione e da localismi.Così la zona più importante sotto il profilo demografico e più dinamica dal punto di vista eco è divenuta l’Est-Asia.Perché è competitiva l’Est-Asia?

I paesi di questa area sono caratterizzati da: Un’omogeneità culturale derivante dall’influenza che vi esercita la civiltà cinese (o dalla presenza diretta di

minoranze cinesi che controllano una parte rilevante dell’eco, come in Indonesia), riscontrabile nelle istituzioni socio-politiche, come la famiglia, i rapporti interpersonali e i rapporti stato-cittadino;

Diffusione della scrittura ideografica (ideogrammi), che pur variando nella pronuncia è compresa da cinesi, giapponesi e vietnamiti;

Intensa attività agricola formidabile area manifatturiera; Impetuosa accelerazione dell’economia; I tassi di crescita demografica sono scesi al di sotto di quelli che caratterizzano la magg. dei paesi in via di

sviluppo e si sono stabilizzati; I tassi medi annui del PNL pro capite sono i più elevati al mondo (superano il 4%); Abbondante disponibilità di risorse umane e materiali = Hardware [per l’eco di un paese la capacità di produrre

e usare per primo una certa tecnologia, così come la disponibilità di materie prime, ha cessato di essere cruciale è diventato fondamentale il grado di diffusione di tale tecnologia];

Abbondante disponibilità di tecnologie e capacità manageriali = Software capacità del sistema eco di far uso delle risorse materiali e tecnologiche presenti non al proprio interno ma nel sistema eco mondiale;

Hardware e Software non sono sufficienti a determinare la crescita eco, ma devono essere coordinati da istituzioni, regole, norme e relazioni internazionali reciproche = Orgware indicatore del livello di organizzazione strutturale di un determinato sistema eco nell’Est-Asia c’è un orgware di eccellente qualità, retaggio della civiltà cinese (confucianesimo)

orgware ottimo + software e hardware adeguati = crescita economica

L’orgware non è mai stato preso in considerazione dagli economisti, perché i sistemi eco tradizionalmente studiati avevano orgware di qualità molto simili. In quel periodo vi erano paesi come la Cina e ilo Giappone dotati di orgware di qualità superiore a quella dei paesi economicamente dominanti; tuttavia, essendo quei paesi dotati di hardware e di software di livello inferiore a quello dei paesi occ., la loro performance eco rimase modesta. Infatti così come hardware e software da soli non bastano, neppure il solo orgware è sufficiente ai fini dello sviluppo. L’orgware è un insieme di fattori presente in forme diverse in tutte le società organizzate in qualsiasi epoca storica, indipendentemente dalle tecnologie in uso e dalle forme di governo politico. Un criterio per stabilirne la qualità può essere l’esame della relazione che passa tra i comportamenti concreti e quelli previsti dalla norma (tradizione, consuetudine, legge): quando essi coincidono, la qualità dell’orgware è massima. Un’ampia evasione fiscale, ad es., contribuisce a deprimere la qualità dell’orgware; questa sarà tanto più elevata quanto minori saranno i differenziali tra norme e comportamenti effettivi.Bisogna però fare attenzione a non ridurre l’orgware alla mera categoria dell’”essere rispettosi delle leggi” il vero criterio è quello della prevedibilità dei comportamenti, cioè in linea con le aspettative degli altri danno vita ad un sistema dove ciascuno fa ciò che gli altri si aspettano da lui. La qualità è tanto più elevata quanto più ampio è l’orizzonte temporale contemplato da tali norme e condiviso dai singoli nel loro agire quotidiano.È dunque una somma di comportamenti eticamente motivati a dare vita a un orgware di qualità elevata.Cercare di avere un orgware di qualità elevata non significa adottare le istituzioni, le norme e i comportamenti che caratterizzano oggi l’Est-Asia, ma significa rivendicare la propria originalità culturale, nazionale e locale. La performance eco del sistema è strettamente legata alla qualità dell’orgware, poiché la stessa quantità e qualità di risorse

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(umane, fisiche, finanziarie) può essere usata con diversi gradi di efficienza, mentre la tecnologia e le capacità manageriali hanno modo di essere utilizzate in maniera diversa in contesti istituzionali e comportamentali differenti.

1° Rapporto annuale del programma di sviluppo delle Nazioni Unite 1990:- Giappone 1° paese nel mondo in base all’indice di sviluppo umano (HDI = tiene conto della speranza di vita, del tasso di alfabetizzazione e del PIL pro capite in termini reali).- Cina 2° paese per PIL- Corea del Sud ha moltiplicato in ¼ di sec. di 71 volte il suo PIL nominale spostamento verso l’Asia orientale del baricentro eco del mondo

Successo dell’Est-Asia testimoniato da: Allungamento della speranza di vita alla nascita di quasi 2 decenni negli ultimi 30 anni Crescita della disponibilità giornaliera di calorie pro-capite Aumento della % di iscritti all’università Il rapporto tra pop. in età da lavoro e tot. pop. è simile a quello dei paesi economicamente più avanzati Miglioramento delle risorse umane sotto il profilo

quantitativo qualitativo (controllo crescita (miglioramento condizioni demografica e riduzione alimentari, sanitarie e tasso di dipendenza) educative)

Questi miglioramenti porteranno nell’arco di un ventennio l’Est-Asia, che oggi ha una pop. pari a 6 volte quella del Nordamerica e redditi medi pro-capite espressi in dollari pari a un decimo di quelli nordamericani, a superare il PIL congiunto di Europa e Nordamerica, divenendo l’area eco più rilevante del mondo.Per l’Est-Asia Dio = Società l’uomo è immerso nel mondo orgware ottimale, rapporti fra individui basati su relazioni fiduciarie e non contrattuali, la morale divina si identifica con quella sociale / Per l’Occidente distinzione spirito-materia, anima-corpo, uomo-natura la violazione delle norme sociali è percepita come meno grave della violazione delle norme divine.Soltanto, quindi, quando l’orgware è di buona qualità i rapporti fra gli individui e fra le istituzioni possono basarsi su relazioni fiduciarie, offrendo così al sistema eco un’affidabilità e una flessibilità che sono sconosciute dove prevalgono invece relazioni contrattuali.

Il successo dell’Est-Asia NON dipende da: Disponibilità delle risorse naturali (poiché i casi più emblematici di successo eco si sono verificati proprio in

paesi che ne sono privi); Grado di istruzione della popolazione (che è ancora oggi mediamente più elevato in Europa e in America

settentrionale che non in Asia); Livello scientifico e tecnologico (poiché ai fini della crescita eco contano le applicazioni della tecnologia e la

sua diffusione capillare); Eccellenza nell’inventiva .

Ma al di là della prossimità geografica, l’area del Pacifico esiste veramente in termini geopolitica? Presenta cioè qualche uniformità?Per quanti sforzi si facciano, non si riesce a identificare quest’area come caratterizzata da una qualche omogeneità. Ad es. la crescita del PNL pro-capite nei vari paesi è stata sempre molto diseguale in ogni epoca; non c’è inoltre uniformità di sistemi eco (capitalismo + democrazia in Giappone, autoritarismo in Corea del Sud, “laissez faire” a Hong Kong, socialismo nelle varie accezioni cinese, vietnamita e nord-coreana, dirigismo a Singapore e liberismo a Taiwan), anche se su tutte le varie forme politiche sembra dominare il comune substrato culturale. Vi è inoltre una variabilità delle tipologie di sviluppo eco: da eco fondate sul petrolio (Brunei, Indonesia) a quelle guidate dalle export. (Taiwan e Corea del Sud), dalle città-stato fondate su comm. e industria manifatturiera (Hong Kong – che è tornato sotto la sovranità politica cinese nel 1997 - e Singapore) a eco di dimensioni continentali (Cina) o all’ampio mercato interno (Giappone) o

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fondate su pol. autarchiche (Corea del Nord) o che si stanno rapidamente industrializzando pur avendo ancora un’ampia base nel settore primario (Malaysia, Thailandia, Vietnam).Dinamismo eco dell’Est-Asia crescita dei volumi di produzione e di commercio estero secondo i dati del Fondo Monetario Internazionale, la quota delle export. mondiali rappresentata dall’Est-Asia era del 9% nel 1950 e del 22% nel 1988 (crescita ottenuta a scapito dei paesi sviluppati – che mantengono però la quota preponderante – ma soprattutto a scapito dei paesi meno sviluppati, la cui quota delle export. mondiali si è dimezzata.

Come ne è nato dunque il “mito”?- Dal punto di vista degli Usa importanza dei rapporti comm. già dal 1981 (comm. estero superiore a quello con l’Europa)- Rapporti bilaterali Usa - Giappone legame molto forte il Giappone importa dagli Usa prodotti in gran parte indispensabili (ca. 1/4 delle sue import. tot.) e ha in questi un mercato di sbocco vitale per 1/3 delle sue export. tot. L’economista giapponese Kojima, mosso dall’esigenza di rispondere adeguatamente alla creazione del MEC in Europa e nella stesso tempo di consolidare i legami con gli Usa, avanzò la proposta di un’area di libero scambio del Pacifico – PAFTA- fin dalla metà degli anni ’60 l’idea della comunità eco con Usa, NZ, Canada, Giappone e Australia per creare un blocco eco in contrapposizione con l’Europa fu xò accolta con freddezza.[ 1940 > Sfera di Co-prosperità > Asia sotto tutela del Giappone > trauma per gli asiatici]. In ogni caso, il Giappone è oggi l’unico paese dell’area del Pacifico a poter praticare il libero scambio senza danni, anzi, un’abolizione tot. delle barriere doganali risultante dalla creazione di una zona di libero scambio regionale, non solo avrebbe effetti diseguali per i vari paesi coinvolti, ma tornerebbe soprattutto a suo favore.

GIAPPONEDopo la guerra perduta, aveva un problema urgente da risolvere: come sopravvivere contando esclusivamente sui propri mezzi.Politiche per correggere il deficit della bilancia commerciale:

1. importazioni limitate ai prodotti indispensabili materie prime, alimenti base e beni capitali non producibili all’interno guida ferma dei consumi privati per non accrescere la dipendenza dall’estero (es. la dieta carnea, che in Italia contribuì a squilibrare in modo permanente i conti con l’estero, non ebbe alcun equivalente giapponese)

2. esportazioni promosse con ogni mezzo , dumping compreso, per pagare le importazioni vitali3. adeguamento della struttura produttiva del paese per adattarla alla concorrenza internazionale.

L’inquinamento mieteva numerose vittime e il Giappone veniva additato dall’opinione pubblica mondiale come il paese più inquinato al mondo (anche a causa di avvenimenti come quello clamoroso relativo alla baia di Minamata inquinata dal mercurio nel 1956, che diede anche il nome a una nuova malattia.Dal 1968 ripresa economica crescente ottimismo era delle 3C, nella quale i giapponesi usano i redditi crescenti per dotarsi di condizionatore d’aria per l’estate (cooler), per comprare il televisore a colori (color) e l’auto (car) liberalizza così in modo crescente i movimenti di capitale.Anche l’inflazione viene domata, grazie alla rivalutazione dello yen (mutamento del rapporto di cambio col dollaro dopo la dichiarazione di non convertibilità del 1971) e al basso costo del capitale la competitività dei prodotti giapponesi comincia a fondarsi su fattori diversi dal prezzo.La crescita dell’eco giapponese non è dovuta però alle esportazioni, poiché il grado di apertura è modesto; la strategia comm. del Giappone ha sempre usato come base il mercato interno, considerato come territorio protetto e riservato alla produzione delle proprie imprese. Il luogo comune che la crescita si sia basata sulle export. è nato a causa dello stile di penetrazione comm. attuato dal Giappone sui mercati esteri, basato su una massiccia concentrazione degli sforzi in pochi settori-chiave (caratterizzati da un forte ritmo di crescita e da un’elevata innovazione tecnologica), in cui hanno ottenuto grande successo, causando letteralmente la scomparsa dal mercato dei loro concorrenti. Prima di affrontare i mercati esteri, quindi, le imprese giapponesi sviluppavano il mercato interno. Quando decidono di muoversi all’estero tutte insieme lo fanno talvolta perché parte di un cartello o perché legate alla concorrenza reciproca, che in Giappone è forte anche tra le imprese nazionali. Nel ’67, il Giappone era cmq al penultimo posto per la dipendenza dalle export.; il grado di dipendenza estera è però aumentato rapidamente alla fine degli anni ’60.Produzioni offshore: creazione di capacità produttiva all’estero unica risp. adeguata a una pol. protezionistica che potrebbe essere adottata e diretta in qualsiasi momento contro il Giappone (es. industrie automobilistiche). Oggi il Giappone ha un mercato interno pari a quello degli Usa (dove il reddito è pressappoco analogo, ma dove la pop. è il doppio) ed è il principale esportatore di apparecchi e di componenti essenziali, di cui migliora continuamente le

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prestazioni attraverso innovazioni che mantengono i suoi prodotti nella fascia qualitativa più alta in questo modo impediscono ai concorrenti di insidiare le posizioni raggiunte e relegano in uno stato di sudditanza tecnologica i produttori che si servono dei componenti essenziali di fabbricazione giapponese.Alla base del successo giapponese c’è il superiore livello di orgware è una delle ragioni che hanno spinto il paese a fare investimenti esteri diretti nei mercati tradizionali di sbocco di questi prodotti. La necessità di assicurarsi un flusso costante di materie prime che il paese non possedeva è la principale ragione degli investimenti esteri diretti, che sono principalmente di due tipi:- develop and import tesi a sviluppare le risorse naturali del paese destinatario dell’investimento, facendo uso del capitale e della tecnologia giapponese, al fine di importare le materie prime di origine mineraria e agricola di cui aveva bisogno (le rivalutazioni dello yen hanno poi reso sempre + convenienti anche le import. di manufatti).- anti trade-oriented investimenti motivati dalla chiusura del mercato e tesi ad aggirarne le barriere tariffarie e non.A partire però dagli anni ’70, il paese ha cominciato a disinvestire, soprattutto nei Pms, come hanno fatto del resto diverse multinazionali europee e americane.Nuove tecnologie e manodopera specializzata: aumento di produttività dovuto alla straordinaria abilità di acquisire e diffondere la tecnologia di importazione all’interno del proprio sistema eco. Le imprese investono enormi risorse nella formazione dei propri lavoratori, sia per favorire il mutamento delle mansioni ogni volta che se ne presenti la necessità, sia per incoraggiare l’identificazione del dipendente con l’impresa. Ben diversa è, invece, la situazione nelle imprese occ., dove gli investimenti nella formazione sono sempre condizionati dall’eventualità che il dipendente porti altrove le conoscenze acquisite. A questo proposito, però, il Giappone, nonostante acquisti brevetti per diffondere tecnologia al suo interno, è il paese a eco di mercato che fornisce minori informazioni agli stranieri sui risultati delle proprie ricerche in campo tecnologico. [strumento delle joint-ventures attraverso le quali il Giappone acquisisce tecnologia, spesso attraverso licenze a prezzi irrisori per l’uso di tecnologie avanzate prodotte, per es. negli Usa dove viene privilegiato il tornaconto personale]Non è poi raro il caso in cui, se il Giappone si trova in ritardo rispetto ai suoi concorrenti in det. campi, il gap venga colmato inviando nei paesi più avanzati un gran num. di elementi capaci di fare tesoro dell’esperienza altrui (è il caso della moda e del design delle auto) è da molto tempo il principale importatore mondiale di servizi di consulenza.

Per un paese come il Giappone, che importa pressoché tutte le materie prime e le fonti energetiche di cui si serve l’industria, e buona parte dei prodotti alimentari che consuma la forza lavoro, poter importare a prezzi costanti o decrescenti (quando lo yen si rivaluta) permette di contenere o di ridurre i costi di produzione. Le esportazioni giapponesi sono prevalentemente composte da manufatti producibili ovunque, mentre le importazioni sono costituite sia da materie prime che il paese non possiede in nessun modo e che non può sostituire con beni succedanei senza costi proibitivi, sia da beni capitali di produzione estera, che se non fossero importati frenerebbero la diffusione capillare della tecnologia all’interno del sistema eco che è uno dei “segreti” del Giappone.

L’ascesa eco del Giappone si è dunque basata su pol. che hanno adottato il protezionismo più spinto nei confronti del mercato interno, contando però sul liberoscambismo del resto del mondo.

È stato grazie alla qualità del suo orgware che il Giappone ha saputo porre le premesse per far nascere nel proprio sistema eco quei vantaggi assoluti e comparati (consentiti dalla creazione deliberata di fattori di cui non era dotato) che gli hanno permesso di conquistare i mercati mondiali in molti settori industriali. Partendo dalle stesse premesse e facendo uso delle stesse tecnologie, si accinge ora ad entrare nel settore aerospaziale e nel nucleare “pulito” basato sul plutonio.

COREASembra impossibile spiegare la crescita eco della Grande Corea (comprendente la Corea del Sud o Repubblica di Corea e quella del Nord o Repubblica Democratica Popolare di Corea) data la presenza di fattori – che altrove hanno portato a risultati disastrosi di indebitamento e di stagnazione eco - come:

mancanza di democrazia militarizzazione del paese pianificazione eco imposta dall’alto familismo e nepotismo ridotta capacità di risparmio interno

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scarsità di risorse materiali e di tecnologia

Nord ha attuato una pol. di “fiducia in sé” (juche), contando in gran parte sulle sue forze apporto sovietico e cinese 1. ha industrializzato il paese 2. ha accresciuto notevolmente la produttività dell’agricoltura (leader del blocco socialista in campo agricolo) fino agli inizi degli anni ’70, il PNL pro-capite era maggiore che al Sud successivamente incontra delle difficoltà sempre maggiori, dovendo limitarsi solo alle poche risorse interne deficit della bilancia comm., debito estero crescente (anni ’80, PIL pro-capite è 1/3 di quello del Sud; venuto a mancare nel ’91 l’appoggio dell’URSS, il PIL è costantemente diminuito fino quasi a dimezzarsi, e l’il sistema industriale già obsoleto, ha ridotto la produzione al 20% della capacità) l’eco è ancora oggi in gran parte collettivizzata, anche se il piano del ’94 prevede un certo grado di apertura verso gli investimenti stranieri. Negli ultimi anni, anche a causa di una serie di catastrofi naturali, il paese è stato prostrato da una grave carestia, che ha provocato ca. 3 milioni di vittime. La ripresa nel 2000-1 delle relazioni con la Fed. Russa ha condotto a un accordo sul traffico comm. aereo.

Sud senso di competizione con il Nord influenza dei modelli occidentali e americani (appoggiato dagli Usa, il governo è stato anche a lungo controllato dai militari) i gruppi finanziari privati (chaebol) contribuiscono a sviluppare l’economia è il più clamoroso miracolo eco del dopoguerra ha visto crescere di 71 volte il proprio PIL, ad un tasso medio annuo del 7% (nel ’65 si doveva supplire facendo ricorso al risparmio estero) l’inflazione è stata domata, l’industria è cresciuta, il consumo di energia pro-capite è aumentato, la speranza di vita alla nascita è passata dai 54 anni ai 70, grazie alle campagne di pianificazione delle nascite promosse dal governo fin dagli anni ’60, la natalità è scesa al di sotto del 2%, il consumo calorico pro-capite è superiore a quello del Giappone, progressi in agricoltura e crescita della produzione di cereali (riso, orzo, frumento…), è aumentato il flusso dei capitali in entrata, per ridurre la forte dipendenza di energia dall’estero, ha potenziato la produz. di energia elettrica di origine nucleare la grande crescita delle export. nel ’98-99 ha portato in attivo la bilancia comm.

La penisola pop. dalla nazione coreana, pur divisa pol. ha sperimentato una crescita eco ineguagliata, cui non è facile dare una spiegazione; in entrambe le zone del paese è stata dedicata una grande attenzione alle risorse umane e quindi all’istruzione, tenuta in grande conto da una società prof. influenzata da idee e istituzioni di origine cinese > confucianesimo (dopo l’annessione della Corea al Giappone nel 1910, vennero introdotte la lingua e le istituzioni giapponesi in luogo a quelle coreane per annullare l’identità cult. nazionale, ma riconquistata l’indipendenza nel 1948 – q1uando si formarono anche i 2 stati separati -, l’istruzione è tornata ad essere la base delle tradizioni e della cult. nazionale 1950 scoppia la guerra tra Sud e Nord, in cui intervengono anche Usa e Cina, che si conclude nel ’53 con la conferma della divisione) > l’analfabetismo è stato da tempo debellato; le ore di lavoro pro-capite annuo dei coreani superano poi largamente quelle di qualsiasi altro paese industrializzato. Il successo eco coreano, voluto e pianificato dal governo, è stato realizzato dai cittadini con un vigore forse spiegabile solo con l’orgoglio nazionale. Non si può sostenere, però, che esista un modello eco sud-coreano, perché la ricetta fondata sull’intervento dello Stato a favore delle grandi imprese e sul protezionismo del mercato interno, che conta allo stesso tempo sul liberismo altrui, è una miscela contraddittoria che in un altro ambiente porterebbe probabilmente a risultati molto diversi. Sono stati piuttosto i prezzi guidati o amministrati del credito, delle divise estere e delle materie prime che hanno consentito alla Corea di raggiungere le posizioni eco attuali. ( previsioni: il Giappone supererà gli Usa e al Corea supererà il Giappone entro il 2010)

CINADal 1949 la Cina è divisa in 2 stati: la Repubblica Popolare Cinese e la Repubblica della Cina Nazionale (Taiwan). La Rep. Pop. cinese è stata proclamata dopo la guerra civile fra i comunisti di Mao Zedong e i nazionalisti di Chiang Kai-shek conclusasi con la sconfitta di questi ultimi e con la loro fuga a Taiwan. Il dialogo sulla riunificazione dei 2 stati, lanciato dalla Cina Pop. nel 1984, sulla base del criterio “un paese due sistemi” è proseguito tra fasi alterne (un passo importante sul piano eco si è verificato nel 2001 con la liberalizzazione degli investimenti provenienti da Taiwan in territorio cinese). La Cina ha poi accelerato ulteriormente il processo di transizione verso il mercato con misure volte a incrementare l’afflusso di investimenti esteri la chiusura delle vecchie industrie di stato ha però suscitato una crescente protesta operaia in Manciuria nel 2002. È rimasto incerto invece il processo di democratizzazione (repressioni dei culti non riconosciuti, pena capitale)Sotto il profilo dell’intercambio comm. ha un peso trascurabile: esporta manufatti per un valore pari a quello di Singapore e inferiore a quello di Taiwan, e ciò a causa delle enormi dimensioni del paese che rendono irrilevanti gli scambi con l’estero rispetto al volume del comm. interno. Inoltre, ha sempre importato solo i beni strettamente

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indispensabili, stabilendo nello stesso tempo con quali altri beni pagarli, e le export. sono costituite per 2/4 da manufatti. Coesistenza di 2 tipi di sistemi eco sotto un’unica autorità di governo:

1. su base capitalistica2. su base cooperativa o collettiva

La Cina non è solo il sistema eco più grande al mondo, ma è anche il più influente (la quota delle export. mondiali ha oscillato tra l’1 e il 2% nel periodo 1950-88, ma date le dimensioni del paese è solo guardando al mercato interno che ci si rende conto del dinamismo di un’eco che ha raggiunto valori di produzione non trascurabili, cui si accompagnano tassi di crescita eccezionali). La Cina è il paese più popolato al mondo le campagne di pianificazione familiare intraprese già dagli anni ’70, hanno abbassato notevolmente il tasso di crescita (+ fenomeno dell’infanticidio femminile); solo un terzo dei cinesi vive in centri urbani, ma costante è il flusso migratorio nelle campagne. Nonostante il rallentamento dell’eco mondiale nel 2001-02, l’eco cinese ha continuato a crescere a ritmi elevati (6-7%), grazie soprattutto al buon andamento degli investimenti esteri e dei consumi interni. Tra i fattori del “miracolo eco cinese” vi è la presenza, nelle regioni costiere meridionali, di numerose zone franche e zone eco speciali, dove viene incoraggiata la costituzione di joint venture e l’apertura di filiali di società straniere. La liberalizzazione dell’eco e la conseguente ristrutturazione delle imprese pubbliche, hanno però comportato un forte aumento della disoccupazione, soprattutto nelle città. Oggi è il più importante produttore di una vasta gamma di beni (già nel 1830 la Cina era il più importante produttore di manufatti al mondo, seguita poi dall’India e dalla GB), come: seta grezza, suini, riso (la coltura più importante, diffusa soprattutto nel sud è il 1° produttore e il 1° esportatore), arachidi, tabacco, canapa, semi di cotone, sesamo, fibre di lino e cotone, iuta, tè, miglio, frumento…Fra le risorse energetiche abbonda il carbone, ma in aumento è anche l’estrazione del petrolio.Commercio estero : dal 1980 al 1996, il valore in dollari dell’export è aumentato di oltre 8 volte e nei 4 anni successivi le esportazioni si sono ulteriormente raddoppiate: così la Cina è diventata uno dei 10 maggiori esportatori mondiali. Quando la Cina riuscirà a soddisfare le esigenze del suo vasto mercato interno, dal quale ora è tot. assorbita, e riverserà parte delle sue produzioni sui mercati mondiali, le dimensioni di questa nuova presenza potranno avere effetti molto più sconvolgenti dell’ingresso nel mercato di Giappone, Corea e altri esportatori minori dell’Est-Asia. Nel quadro eco moderno, la Cina dovrebbe essere considerata sotto 3 profili:

1. a differenza del Giappone, la Cina ha sempre creato da sé i propri modelli e le imprese hanno sempre avuto una certa autonomia (non c’era un controllo ferreo dello stato come in Unione Sovietica);

2. strategie nell’ambito dell’Est-Asia si muove con qualche difficoltà, anche se il suo sviluppo è lento ma cospicuo;

3. la vastità del suo mercato interno. Così, una volta soddisfatte le esigenze interne e raggiunti standard qualitativi tali da rendere appetibili i suoi manufatti sui mercati internazionali, la Cina potrebbe agevolmente conquistare i mercati mondiali di qualsiasi industria manifatturiera.La Cina è però carente nella formazione delle risorse umane (soprattutto per quel che riguarda l’istruzione secondaria e universitaria > 1%). Il grado di diffusione dell’istruzione è rilevante, perché la Cina ha bisogno di importare tecnologia.

PARTE 2

“La parabola dell’Occidente”

L’egemonia pol. ed eco dell’Europa sul mondo ha inizio nel XVI sec., si dispiega appieno nel XIX sec. e si conclude dopo che la protagonista fu, per breve tempo, l’America. Solo oggi è però possibile stabilire dei paragoni con la situazione dell’Est-Asia: dai resoconti di Marco Polo sappiamo che la Cina del XIII sec. aveva traffici più ricchi di quelli del Mediterraneo, città più vaste e più prosperose e superava l’Occidente in ogni campo. Nel 1830 – il sec. europeo per eccellenza – il primo produttore al mondo di manufatti era la Cina, seguita dall’India, mentre la GB era solo terza.Nel 1890, la GB, soppiantata dalla Germania, aveva cessato di essere la prima potenza eco in Europa, mentre a livello mondiale già dominavano gli Usa. Anche la parabola inglese era stata tutto sommato di breve durata, e sarebbe cessata per sempre se la Germania non avesse commesso per 2 volte l’errore di cercare di ottenere con la forza bellica la supremazia che avrebbe ottenuto con mezzi pacifici.I fattori climatici climatologia storica = del passato (Vittori, “Clima e storia”)

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Tutte le società umane, così come quelle del mondo animale, sono formate da una combinazione di elementi soggetti all’azione del clima; i diversi fattori fisici e ambientali dei territori in cui le comunità umane si sono formate avrebbero operato gradualmente nel corso del tempo in modo tale da caratterizzarle di qui l’ipotesi che il clima sia di fondamentale importanza per spiegarsi certe differenziazioni che si osservano in queste società.A partire dal 1350, si è verificata una fluttuazione climatica (chiamata nella lett. scientifica piccola età glaciale) che ha interessato l’Europa fino al 1860 ca. È difficile stabilire se questo evento abbia un rapporta con le motivazioni che hanno spinto gli europei in giro per il mondo; non è però escluso che, al ridursi delle superfici coltivate e quindi delle risorse disponibili in Europa, lo spirito di avventura delle pop. si sia accentuato, fornendo una valida motivazione al desiderio di più abbondanti risorse.

L’egemonia dell’Inghilterra

L’Inghilterra della rivoluzione industriale era un paese dove le istituzioni, le norme e i comportamenti avevano dato vita a un orgware di qualità eccellente. Alla metà dell’800, con una pop. che era la metà di quella francese, produceva i 2/3 del carbone e metà del ferro e dei tessuti di cotone del mondo. Il reddito pro-capite medio era probabilmente il più elevato dell’epoca. Con i suoi manufatti dominava tutti i mercati e aveva abolito quasi tutte le barriere a protezione dei suoi produttori di beni e servizi. La diffusione della tecnologia era stata più rapida in GB che non nell’Europa continentale. 1851 esposizione al Crystal Palace segnò l’apogeo dell’Inghilterra come officina del mondo. Tra il 1850 e il 1873 però, il divario tecnologico fra Inghilterra e il resto dell’Europa scomparve, e la deflazione contribuì ovunque alla contrazione dei profitti e quindi ad una magg. = fra le eco più sviluppate d’Europa.La liberalizzazione dei comm. ebbe così breve durata; la durezza della concorrenza per gli sbocchi esteri e la crescente importanza della domanda interna fecero erigere ovunque, nella seconda metà dell’800, barriere protettive, e anche la GB vide scossa la sua fede nel libero commercio.

L’ascesa della Germania

Il primato industriale, dopo il 1870, passò dall’Inghilterra alla Germania unificata, dove la rapida industrializzazione e l’incremento demografico erano stati fondamentali per la vittoria della coalizione prussiana sulla Francia.Bismarck aveva trasformato la Germania da uno dei migliori mercati per le manifatture inglesi in uno dei suoi più agguerriti concorrenti. La diffusione della tecnologia era avvenuta in modo tale da far pensare che l’innovazione fosse stata istituzionalizzata dalle imprese (come avvenne 1 sec. dopo in Giappone) adozione di brevetti stranieri.

L’imprenditore ted. guardava il futuro con magg. fiducia di quanto non facesse quello inglese o francese; Adozione dei più moderni criteri produttivi; Elevata qualità della forza lavoro tedesca (ben istruita, diligente e motivata); Gestione ottimale della cosa pubblica da parte delle istituzioni; Cemento alla volontà comune fornito dal Nazionalismo.

La Germania diventò, così, la prima potenza eco d’Europa, anche se non del mondo, poiché, nel frattempo, il posto dell’Inghilterra era stato preso dagli Usa.Fu un paradosso che una società liberale come quella inglese, es. di uguaglianza e mobilità, finisse per perdere queste caratteristiche proprio durante il periodo della sua democratizzazione pol.; e che, al contrario, una società gerarchizzata e autoritaria come quella tedesca, finisse per sviluppare canali vigorosi di mobilità e di promozione sociale senza mai democratizzarsi veramente.Le due guerre ebbero l’effetto di ritardare il predominio della Germania in Europa ( fine della leadership scientifica e tecnologica dovuta alla perdita di vite umane e alla fuga di molti talenti provocata dal clima pol.).

Il secolo americano

I regimi autoritari e le guerre favorirono, invece gli Usa, presso i quali trovarono rifugio e mezzi per continuare le loro ricerche molti ingegni brillanti, che contribuirono a trasferire oltre oceano quell’eccellenza scientifica che era stata caratteristica dell’Europa fino alla IIGM.Usa = terra di immigrazione e di rifugio Nel 1790 gli Usa avevano meno di 4 milioni di abitanti, dei quali il 93% viveva nelle campagne; nessuna città raggiungeva poi i 50.000 abitanti. Già nel 1860, gli Usa contavano 31 milioni di abitanti ed erano la seconda potenza

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industriale al mondo dopo la GB. Il paese era divenuto il primo produttore mondiale di prodotti agricoli e di manufatti (nel 1914 aveva il 40% della capacità manifatturiera mondiale risultato raggiunto anche grazie alla diffusione di invenzioni fatte e spesso sperimentate altrove). Il “sogno americano” contribuiva a far sì che l’orgware fosse di qualità elevata. Tuttavia dal 1960, il divario è stato colmato, e gli indicatori mostrano che il tenore di vita medio degli Stati Uniti non solo non è superiore ma anche più basso di quello riscontrato in Europa. Giappone e Germania sono da tempo i colossi eco la cui ascesa fu ritardata dalle due guerre

ma ci sono ora altri due protagonisti: Cina e Corea

PARTE 3

“Competere con l’Est-Asia”

Grazie al suo orgware di alta qualità, il Giappone - facendo uso anche della capacità produttiva dei paesi dell’Est-Asia che sta cercando di legare a sé con gli investimenti esteri – potrebbe arrivare in breve tempo, ad esercitare un ruolo crescente, forse fino a prendere addirittura il posto degli Usa, quale potenza eco egemone.È possibile adottare una strategia per competere oggi col Giappone e domani con la Cina? Per farlo, bisogna fare uso di un PROTEZIONISMO DIFFERENZIATO, in funzione dell’orgware e del grado di sviluppo economico, che tenga conto delle diverse basi di carattere extra-economico che hanno però una profonda influenza sull’eco non solo per controllare la crescita troppo rapida di un partner imprevedibile, ma anche per sanare una situazione in cui i poveri restano poveri e i ricchi sempre più ricchi. Quindi, dopo anni di negligenza, è giunto il momento di prendere sul serio il Giappone e di adottare una strategia che consenta di contenere la sua prorompente espansione, e che, allo stesso tempo, permetta a tutte le eco di competere ad armi pari (in passato non è mai avvenuto perché la competizione sembrava essere solo fra imprese e non tra paesi). Caratteristiche del sistema eco giapponese (simile a quello italiano):

Dovizia di piccole e medie imprese Alta natalità di nuove realtà produttive Diffusa imprenditorialità Elevati tassi di risparmio Rapida crescita della produttività Capacità manifatturiera (che ha fatto del Giappone ormai da due decenni il 2° paese industriale al mondo dopo

gli Usa).Negli anni ’50 lo sviluppo del Giappone era considerato trascurabile negli anni ’60 la sua rapida crescita eco era considerata solo legata ai bassi salari. In quell’epoca avrebbe avuto senso promuovere joint-ventures paritetiche italo-giapponesi, poiché in cambio della tecnologia che potevamo offrire, avremmo ottenuto porzioni consistenti di mercato. Avremmo poi dovuto mandare a studiare in Giappone i giovani, i quali avrebbero diffuso nel nostro paese le conoscenze acquisite, mettendoci così in grado di competere o collaborare su un piano di sostanziale parità. Ma per questo tipo di strategia è ormai troppo tardi (almeno per il Giappone).Imprese - americane: perseguono la pura efficienza aziendale - giapponesi: subordinano l’efficienza aziendale ad obiettivi di strategia e politica industriale nazionale (hanno peso maggiore gli usi rispetto ai contratti formali; inoltre la violazione delle regole in una relazione “fiduciaria” è vista come molto riprovevole diversamente da ciò che avviene nelle relazioni occ. di tipo contrattuale).

Protezionismo Differenziato

L’era delle ideologie sembra al tramonto e occorrerà pensare a qualche nuovo schema di riferimento che tenga conto delle esperienze storiche di questi ultimi 2 secoli e che riconosca finalmente che comportamenti diversi da quelli tipici di chi appartiene all’alveo cult. europeo non possono essere considerati semplici “anomalie”, ma sono invece la prova che le nostre regole “universali” funzionano solo in un ambito cult. ben preciso: quello di matrice europea, dominante negli ultimi 5 secoli.

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Necessità di formulare dottrine come il protezionismo differenziato, commisurato sia allo sviluppo (e quindi al grado di benessere materiale di cui godono i cittadini) sia alla qualità dell’orgware che caratterizza ciascun sistema eco, e regolamentato per evitare i danni causati dal protezionismo tout court ma anche dal liberismo indiscriminato. Deve imporre l’apertura a quei sistemi eco dove il PNL pro-capite è elevato e l’orgware di buona qualità, consentendo, nel medesimo tempo, la protezione dei propri mercati ai sistemi eco meno favoriti per quanto riguarda questi fattori.

La minaccia rappresentata dal Giappone potrebbe essere in fondo un ottimo pretesto per liberarci di vecchi strumenti ormai inservibili se non addirittura dannosi, e sperimentarne di nuovi che rendano il mercato meno ostile ai più deboli, poveri e disorganizzati. [Si tratterebbe di ideare uno schema teso a trasferire in sede internazionale ciò che è stato fatto escogitando il Welfare State o l’Eco Sociale di Mercato, al fine di generare una nuova società internazionale.

Nei paesi dove i redditi della maggior parte dei consumatori sono invece pericolosamente vicini alla mera sussistenza, l’elemento chiave della competitività resta solo il prezzo.

Oggi il Giappone è, insieme alla Germania, uno dei pochi sistemi eco che potrebbe applicare senza riserve l’ideologia liberoscambista; non bisogna dimenticare, però, che è stato proprio praticando costantemente pol. opposte che esso ha potuto creare le basi per divenire un alfiere del liberismo negli anni ’90.

CONCLUSIONI

Prima della rivoluzione dei trasporti la dotazione naturale dei fattori produttivi costituiva la sola base produttiva su cui potesse contare il singolo sistema eco e prevaleva quindi nei diversi paesi del mondo la diversità delle condizioni di produzione. Con la drastica diminuzione dei costi di trasporto, non solo il vantaggio competitivo delle nazioni ha cessato di basarsi sulla dotazione naturale dei fattori produttivi, ma anche il costo, del lavoro non è più l’elemento su cui fondare una produzione competitiva: con l’automazione e con l’innovazione è divenuto invece essenziale controllare volumi crescenti di prodotto, attraverso la creazione di unità produttive in mercati diversi con investimenti esteri diretti.

GIORGIO FUÀ: “Crescita economica”

Le insidie delle cifre

Indicatori di crescita economica:1. allungamento speranza di vita2. disponibilità giornaliera calorie pro-capite3. livello di istruzione (numero di iscritti alle università)4. rapporto tra pop. in età da lavoro e tot. pop.

Le cifre del reddito nazionale sono oggi argomento quotidiano per il grande pubblico.È divenuto uso comune riferirsi- al livello del reddito pro-capite x giudicare se e quanto un paese “stia meglio” di un altro -al tasso di crescita del reddito pro-capite come indicatore della rapidità con cui un paese riesce a progredirema…con l’impiego acritico di statistiche si acquisisce un patrimonio di certezze falso!Vengono sviluppati 3 temi:1. viene fatto un rapido esame delle statistiche del passato, dei vari paesi nel mondo > i dati disponibili sono tantissimi, ma il nucleo delle info affidabili è ristretto vigono però alcune uniformità o “leggi statistiche”.2. discussione dei punti di collegamento tra nozione di CRESCITA ECO nozione di BENESSERE

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intesa come crescita del reddito, cioè della quantità dimerci ottenuta (o prodotto misurato nei conti nazionali)

non mancano prove statistiche dell’esistenza di una correlazione positiva tra durata della vita e livello del reddito.3. difficoltà sempre maggiore di ottenere misure soddisfacenti della crescita eco con la tecnica statistica in uso.

Fuà esamina la velocità di crescita = saggio % medio annuo di variazione del reddito

Quale crescita

CRESCITA non quella in moneta corrente (che apparirebbe tanto + rapida quanto + rapida è l’inflazione), ma quella depurata delle variazioni monetarie, cioè espressa in “termini reali” = crescita del PIL a prezzi costanti. crescita dell’aumento del reddito o prodotto misurato nei conti nazionali, esaminando il PIL totale e per abitante indicatore + certo (sono differenti, es. Australia: ha una buona posizione nella graduatoria dei paesi secondo la velocità di crescita se guardiamo il PIL tot. ma è in coda se guardiamo il PIL per abitante). il saggio di aumento della pop. varia notevolmente nel tempo e nello spazio.

- dopo il 1950: crescita o recupero del tracollo dopo la guerra?- quesiti inevitabili in questo studio:

quali e quanto gravi sono le deficienze delle misure che usiamo se c’è un rimedio e in caso negativo cosa fare dell’idea di crescita

Es. può esserci un paese che, poiché è ben governato vede aumentare il livello di occupazione e produzione a pop. costante abbiamo un aumento del PIL per abitante ma non del PIL per occupato.

1° limite: - Crescita del PIL per abitante connessa allo sviluppo inteso come evoluzione strutturale, cioè cambiamento nella composizione e nell’utilizzazione del prodotto nonché nella struttura sociale (sono 2 facce dello stesso problema).

2° limite: - La crescita che è qui studiata è quella misurata nella contabilità eco nazionale (la quale ha come oggetto solo i flussi delle merci1 quindi è la crescita delle attività “mercificate”, dei valori di mercato, non quella dei valori della convivenza civile o della cultura, o della salute, ecc…

PIL e benessere

I conti eco nazionali hanno come oggetto i flussi delle merci: se confrontiamo 2 paesi e il 1° ha un PIL maggiore, ciò non vuol dire che goda di un benessere maggiore, ma che ha un’attività di mercato più intensa che non il 2°.

Benessere il livello di benessere è determinato dal grado in cui i bisogni vengono soddisfatti il benessere di un paese non dipende solo dalla quantità tot. dei mezzi di soddisfazione presenti, ma anche dalla sua ripartizione tra i singoli componenti della pop.

Esiste una proporzionalità tra i prezzi e l’utilità marginale delle merci ma NON tra i prezzi e l’unità tot.!

Gli aggregati di contabilità nazionale come il PIL, sebbene siano interessanti quali misure della quantità di merci, non hanno titolo per essere utilizzati quali misure della quantità di soddisfazioni. Qual è allora l’aggregato di contabilità nazionale più adatto? È meglio il prodotto interno o quello nazionale? Lordo o netto? Oppure è più corretto concentrare

1 Merci: tutte le cose che formano oggetti di scambio sul mercato BENI (materiali) o SERVIZI (immateriali).

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l’attenzione sui soli impieghi interni (consumi e investimenti) del prodotto? O sui consumi soltanto? Soltanto delle merci consumate si può dire, infatti, che sono state davvero godute in modo definitivo dalla pop. nel periodo esaminato.

Bisogni generati dalla crescita

Il cambiamento produttivo che aumenta la quantità delle merci a disposizione della pop., la priva di alcune soddisfazioni di cui essa godeva precedentemente, in forma non mercificata, e per ripristinare le quali bisogna ora far ricorso a merci appropriate.Es. 1– aumento dell’occupazione femminile in Italia trasformazione delle casalinghe in occupate contributo alla produzione di merci riduzione dell’attività non mercificata (custodia bambini, anziani, preparazione pasti…) nuove attività mercificate (asili nido, lavanderie, ristorazioni…).

Es. 2- passaggio dall’eco agricola ad una eco urbana, industriale e post-industriale: forte aumento della produzione di merci profondo cambiamento dei modi di vita e di lavoro perdita del contatto con la natura

per soddisfare i nuovi bisogni si sviluppano nuove attività mercificate (es. industrie vacanziere, ginnastica, sport)Come vengono registrati dal PIL questi cambiamenti produttivi? In tutti i casi, la serie del PIL registra le variazioni intervenute nella produzione di merci, senza riguardo a quelle intervenute nelle soddisfazioni non mercificate.Es. – sviluppo tecniche agricole inquinamento (ad es. delle falde acquifere) depurazione nuove attività che riparano una perdita subita (potabilità dell’acqua). Il PIL registra sia il magg. valore aggiunto realizzato nell’agricoltura, sia quello realizzato nelle opere occorrenti a ripristinare la situazione precedente.

Buona parte di ciò che chiamiamo crescita eco consiste nella mercificazione di attività e di soddisfazioni che precedentemente esistevano al di fuori del mercato.

Per ottenere una magg. produzione il + delle volte si causa un danno che poi non viene riparato (es. inquinamento) attraverso lo sviluppo di produzioni appropriate.La serie del PIL registra anno per anno i risultati immediati degli sviluppi produttivi, senza tener conto dei danni che in conseguenza di questi sviluppi vengono a gravare sul futuro; es. innovazioni merceologiche portano sulla scena al tempo stesso nuovi mezzi di nuovi bisogni da soddisfazione soddisfareChi produce una nuova merce può quindi essere considerato il creatore di un nuovo bisogno (per quella merce).N.B. Creare un nuovo bisogno non è però necessariamente un apporto negativo al benessere.

Connessione storica tra il livello di reddito di un paese e la durata media della vita dei suoi abitanti, che può essere considerata un indicatore significativo del benessere fisiologico goduto dalla pop. crescita del PIL pro-capite = crescita della durata media della vita (fisiologica benessere generale).

Che cosa fare

Non disponiamo ancora di una tecnica soddisfacente per misurare a prezzi costanti: il valore aggiunto delle attività terziarie il valore realizzato con la produzione di merci innovative

Giudizio scettico sulle cifre del PIL a prezzi costanti = è ingiustificato prestarvi così tanta attenzione, come se fosse l’unico modo per misurare la crescita dell’eco. Questi indicatori hanno cmq funzioni molto importanti, ma diverse dalla

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misurazione della crescita; è ingiustificato, quindi, allarmarsi o esultare perché la velocità di crescita del PIL risulta ½ punto % annuo al di sotto o al disopra di quanto ci attendevamo, o di quanto è avvenuto in passato, o di quanto stia avvenendo in altri paesi. 2 idee che furono espresse dagli economisti del passato: 2 possibili soluzioni

1. provare ad usare il prodotto materiale come indicatore, a differenza del PIL o di altri aggregati di uso corrente (eco classica e tradizione marxista) ignorare i servizi significa però trascurare la magg. parte delle attività di mercato;

2. prestare attenzione alla quantità di merci acquistabile e non a quella contenuta nel prodotto.La situazione si è ulteriormente modificata per il grande sviluppo del terziario e dell’innovazione merceologica, che ha messo in crisi il significato del PIL a prezzi costanti spesso si preferisce il PIL misurato in potere d’acquisto (+ semplice). Chi vuole misurare la crescita della produzione di merci, nelle odierne eco avanzate, ha quindi a sua disposizione una pluralità di indicatori. Es:- Qual è stato il saggio di crescita negli anni ’80? appena superiore al 2%.- La crescita è davvero rallentata negli anni ’80 rispetto agli anni ’70? se si guarda la misura convenzionale a prezzi costanti si trova un forte rallentamento, ma se si guarda il potere d’acquisto in consumi alimentari c’è solo un rallentamento lieve.

Conclusioni

Questo saggio si è quindi proposto di verificare cosa dicano in realtà le cifre della crescita eco (intesa come crescita della produzione di merci) che si ricavano dalle statistiche del PIL a prezzi costanti.Ma che cosa sappiamo sulla crescita del PIL fino ad oggi? Le info di cui disponiamo sono abbastanza affidabili solo per quanto riguarda un numero ristretto di paesi; troviamo però 3 uniformità di comportamento:

1. una volta che un paese ha iniziato l’aumento del suo PIL per abitante, questo aumento prosegue per tutto il periodo storico esaminato;

2. la velocità di crescita varia nel tempo, alternando fasi in cui è + rapida (“piena”) con fasi in cui è + lenta (“magra”), e questa alternanza presenta una sostanziale sincronia tra i diversi paesi;

3. all’interno di ognuna di queste fasi sincroniche di magra o di piena, le diff. di velocità tra un paese e l’altro sono generalmente modeste.

Fino a che punto è giustificato l’uso comune di riferirsi al livello del PIL come indicatore del livello di benessere goduto dalla pop.? Si vedono subito molte ragioni per escludere che ad ogni differenza di PIL debba sempre corrispondere una differenza nello stesso senso di benessere; ma poi si nota che le statistiche dell’ultimo ½ secolo mostrano l’esistenza di una relazione fra PIL pro-capite di un paese e la durata media della vita dei suoi abitanti. Risulta in ogni periodo esaminato, che la durata media della vita in un paese è funzione crescente del suo PIL pro-capite, finche si considerano i paesi aventi un PIL pro-capite inferiore a 3.000-4.000$ con potere d’acquisto 1980. Ma raggiunto questo reddito limite essa è approssimativamente = in tutti i paesi con il passare del tempo si verifica, quindi, un allungamento della durata della vita corrispondente ad ogni dato livello di reddito. L’uso del PIL come indicatore della crescita non solleva serie obiezioni finché si tratta delle fasi iniziali di sviluppo di un’eco moderna (in Ita fino alla IIGM), in cui la magg. parte del PIL a prezzi correnti è ancora costituita dalla produzione di beni non innovativi (anziché da beni o servizi). In queste fasi il PIL misura con un grado di approssimazione accettabile la quantità di merci prodotta nel paese. Quando però si considera una fase + matura dello sviluppo eco, il PIL cessa di essere un indicatore soddisfacente della quantità di merce prodotta (e anche le formule sostitutive sono inadeguate) sebbene sia scadente, non si rinuncia ad usare il PIL a prezzi costanti.

La quantità di merce prodotta in un paese è un tema centrale nella disciplina eco; la crescita di questa produzione porta con sé un + razionale impiego delle risorse, una + vivace circolazione soc. e nuove libertà, una magg. soddisfazione di bisogni e un allargamento di orizzonti culturali… uno dei fattori del benessere di una nazione studio dei meccanismi sociali che det. la crescita del mercato, con lo scopo di suggerire ai governi come migliorarli. Ma, con gli sviluppi successivi, un ulteriore sviluppo del mercato nella parte ricca del mondo non rappresenterebbe + un fattore positivo. Oggi dobbiamo smettere di privilegiare il tradizionale tema della quantità di merce prodotta e dedicare magg. attenzione ad altri temi (es. soddisfazione o insoddisfazione che il lavoro procura a chi lo fa oggi nei paesi ricchi è + urgente studiare le vie per restituire interesse al lavoro, piuttosto che le vie per aumentare di qualche punto % la

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quantità di merce prodotta. Per il resto del mondo, però, la quantità di merce resta un problema urgente per alcuni i paesi ricchi dovrebbero cmq continuare ad aumentare la loro produz. per aiutare i paesi poveri, rivolgendo a questi ultimi un crescente flusso di investimenti, di domanda di prodotti e di manodopera (miseria dei poveri che minaccia la tranquillità dei ricchi). Ma basta una % minima del PIL per aiutare i paesi poveri a soddisfare i bisogni essenziali quindi il dovere della solidarietà internaz. non è una ragione suff. perché il mondo ricco continui a proporre un forte tasso di crescita della propria produzione come obiettivo primario. Per curare il male della divisione del mondo bisognerebbe contrastare la concezione per cui un singolo modello di vita e di sviluppo (oggi quello centrato sulla crescita delle merci) viene proposto e accettato come l’unico valido, e nell’apprezzare che ogni pop. cerchi la via che meglio corrisponde alla sua storia e non si senta inferiore per il solo fatto che produce meno merci.

FODELLA: “L’economia cinese negli ultimi 20 anni”

L’obiettivo eco del 20° Congresso del Partito Comunista Cinese nel settembre del 1982, era di quadruplicare la produzione agricola e industriale nell’anno 2000.- anni ‘70-’80 tasso di crescita annuo del 4%- anni ’80-’90 era previsto il 9,5%Il vero problema era se la Cina sarebbe riuscita a raggiungere quella soglia che le avrebbe consentito una sviluppo pari quello del Giappone; per far ciò, era previsto che risolvesse entro gli anni ’90 problemi come l’educazione di base. Dall’altro lato, però, già possedeva risorse che il Giappone non ha mai avuto (e la capacità di sfruttarle).Uno dei maggiori problemi è la crescita demografica mantenuta all’1% annuo, per non superare 1,2 miliardi di individui nel 2000. Obiettivi che potevano essere raggiunti solo se il 90% delle famiglie nelle aree agricole e il 95% di quelle nelle aree urbane obbedivano alla pol. del governo es. la pressione sociale esercitata dal gruppo sull’individuo (tipica dell’Est-Asia).La Cina è il paese + pop. al mondo, ma le campagne di pianificazione familiare intraprese già negli anni ’70 hanno abbassato il tasso di crescita crescita annua 1% (1995-2000).Un altro indicatore della crescita eco è la speranza di vita era di 68 anni negli anni ’80; nel 2000 è di 69 anni M e di 73 F (è un importante indicatore dello standard di vita, poiché include anche il livello nutrizionale e l’efficienza delle condizioni sanitarie).In termini di entrate pro-capite la Cina era ancora, negli anni ’80, uno dei paesi più poveri al mondo, insieme a Pakistan, Zaire, Madagascar e Indonesia (una famiglia di 4 persone spendeva in media al mese l’equivalente di 50$); tutti i beni importati avevano poi un costo elevato.Ancora oggi però, la Cina è all’81° posto dell’indice di sviluppo umano.Nella produzione pro-capite di beni, il paese si trovava già in una buona posizione es. produzione pro-capite di grano = 340Kg, simile a quella del Messico, Brasile, e dell’Italia-Germania degli anni ’70 (così come la produzione di pesce, cotone e cemento).Il commercio estero rappresenta un’elevata % delle entrate nazionali e oggi la Cina è uno dei 10 maggiori esportatori mondiali; inoltre importa pochi beni, perché è in grado di produrre quasi tutto. Per evitare massicce import. di beni di consumo durevoli, è necessario mantenere quote ristrette e stabilire una base industriale (anche attraverso joint-ventures con imprese straniere). Durante la Rep. Pop. Cinese, la pop. è raddoppiata, le entrate nazionali sono cresciute, nonostante l’instabilità eco del trentennio precedente (+ importanza data all’agricoltura e all’industria leggera per creare condizioni di vita migliori).

CARLO M. CIPOLLA: “Conquistadores, pirati, mercatanti”

La saga dell’argento spagnolo

Nel corso di tutto il Medioevo, l’Europa soffrì di una pesante penuria di metalli preziosi. Ma, improvvisamente, a partire dalla metà del XVI sec., le colonie americane (soprattutto Messico e Perù) riversarono sulla Spagna tonnellate d’argento (senza peraltro alcun beneficio per il pop.). Così l’argento si diffuse rapidamente in un paese dopo l’altro, da

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Occidente a Oriente, mentre le merci orientali che attraevano gli europei – spezie, sete, porcellane – si muovevano in senso opposto intenso commercio su scala mondiale.Lo strumento finanziario che favorì questo sviluppo fu una rozza e pesante moneta d’argento, chiamata “real de a ocho” o anche “peso” in Spagna (“pezzo da otto” nei paesi anglosassoni e “piastra” in Ita). Dalla Turchia alla Persia, all’India fino alla Cina, il real diventò la moneta più richiesta e fornì la liquidità necessaria per far funzionare il sistema degli scambi intercontinentali. La sua importanza deriva dal fatto che l’argento serviva agli europei per acquistare merci sui mercati extraeuropei, dove non c’era alcun interesse per i prodotti dell’Europa. Chi deteneva reales de a ocho possedeva un potere d’acquisto spendibile in ogni parte del mondo chi invece ne era privo era automaticamente tagliato fuori dal mercato. I reales aprirono alle nazioni europee l’opportunità di espandere notevolmente il loro comm. con l’Oriente.A Genova nel 1589, si proibì la circolazione di qualsiasi moneta straniera, ad eccezione dei reales. Per esportare argento dalla Spagna occorreva ottenere una speciale licenza dalla Corona, ma i genovesi erano particolarmente privilegiati (non per la benevolenza dei sovrani spagnoli, che anzi, a cominciare da Filippo II li odiavano, considerandoli quasi degli strozzini, ma per la loro potenza finanziaria) data la facilità con cui ottenevano licenze d’esportazione, i genovesi divennero i distributori dell’argento spagnolo per buona parte dell’Europa meridionale.Dalla fine del ‘500 il contrabbando di argento si fece più frequente e più diffuso diminuì l’importanza delle licenze di esportazione, ma i genovesi mantennero il loro potere.Vantaggio dei reali rispetto alle paste ibero-americane (lingotti) non pagavano i dazi durante il tragitto.I reales de a ocho esportati dalla Spagna (che uscivano in casse contenenti l’ammontare di 20.000 reali) non erano destinati a rimanere al lungo nei vari paesi europei, ma erano “calamitati” verso oriente:

- la prime tappa era rappresentata dall’Impero turco 1530 comparvero per la prima volta nei Balcani e 50 anni dopo a Costantinopoli e negli altri centri comm. dell’Impero.

Dopo la pesante svalutazione del 1585-86 e per tutto il XVII sec., la moneta turca si fece sempre più rara e fu sempre più sostituita da monete straniere, soprattutto dai reali da 8 spagnoli (tanto che i funzionari cominciarono a tenere i conti in reali). per tutto il XVII e parte del XVIII, l’impero ottomano servì come terra di transito per le monete e l’argento ibero-americano che muovevano verso oriente.

- tanti reali entravano nell’impero turco e tanti ne uscivano, diretti soprattutto verso la Persia e l’India (2 paesi con i quali l’impero turco intratteneva una bilancia commerciale pesantemente negativa).

- Reales affluirono alla Persia anche dalla Russia i russi acquistavano dalla Persia soprattutto seta, satin, damaschi, taffettà, cotone, cuoio marocchino, incenso, indaco e altri coloranti. In cambio di queste merci, la Russia esportava in Persia pellicce, cuoio russo, vetro moscovita; queste esport. erano però di valore inferiore, per cui i russi saldavano con l’esportazione di argento monetato.

Ma la marcia verso Oriente dei reales non si fermò in Persia:- nel primo decennio del XVII sec., la marea dei reali era giunta a invadere anche l’India e la Cina punto di

partenza del movimento dei reali in Oriente era il fatto che gli europei, avidi di prodotti orientali, non avevano nulla da offrire in cambio (poiché né India né Cina avevano interesse per i prodotti dell’Europa).

numerosi tentativi per cambiare la situazione e inserirsi nel comm. cinese (che fallirono): es. in GB il Governo ordinò che almeno un decimo del carico di ogni nave diretta alle Indie fosse composto di “derrate, prodotti, o manufatti del regno”.Se gli europei volevano comm. con l’India e la Cina non avevano altra scelta che offrire a quei paesi dell’argento e soprattutto reales deficit della bilancia comm. europea verso l’Asia.

L’esportazione di argento e il commercio con l’Oriente furono facilitati e ampliati dalla creazione della Compagnia inglese delle Indie orientali (autorizzata nel 1600 dalla regina Elisabetta) e la Compagnia olandese (nata nel 1602). Queste 2 compagnie furono i colossi dell’eco del tempo: mobilitarono ricchezze che nessun’altra compagnia aveva trattato prima, introdussero nuove tecniche d’affari, ottennero dai rispettivi governi notevoli privilegi (tra i quali il monopolio del comm. con le Indie orientali e il permesso di esportare dai rispettivi paesi tutto l’argento che desideravano).

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L’Europa venne così a conoscenza di prodotti orientali che prima non conosceva, ad es. il tè (che venne portato per la prima volta in GB nel 1664), il quale divenne la principale merce di import. della Compagnia di conseguenza il saldo positivo della bilancia comm. cinese continuò a crescere.

INDIA e CINA: l’impero Mogul in India e la Cina ebbero diversi tratti in comune per quanto riguardava i rapporti comm. e monetari con l’Europa, ma anche notevoli differenze.Gli imperatori Mogul non permisero mai che monete forestiere circolassero liberamente nei loro stati, quindi tutti i reales de a ocho che affluirono in India furono immediatamente fusi e trasformati in rupie.I cinesi, invece, non coniarono mai monete d’oro o d’argento, e a differenza dell’Europa, sin dai tempi della sua fondazione, l’Impero cinese ebbe un sistema monetario consistente soltanto in monete di bronzo adatte alle transazioni locali ma non agli scambi internazionali, per i quali si ricorreva all’argento spagnolo (richiesto anche per il pagamento delle tasse). In Cina, quindi, l’argento circolava abbondantemente in forma di pani o di frammenti di monete (quando dovevano pagare i cinesi tagliavano con le forbici un lingotto o una moneta in pezzi di peso conveniente, tale cioè da rappresentare il valore desiderato) = l’argento non era trattato come moneta bensì come merce, e quindi a peso. I reales rimanevano i preferiti dai cinesi e arrivavano anzitutto direttamente da Acapulco con un galeone che li trasportava alle Filippine, da cui poi proseguivano verso la Cina (ca. 143 tonnellate l’anno). Una seconda via partiva da Panama, un’altra ancora da Siviglia (dove il metallo veniva trasportato, illegalmente o legalmente, a Londra, Amsterdam e Genova) una massa di argento che in forma di monete o di barre muoveva dal Messico e dal Perù alla Spagna, da dove si diffondeva poi in tutti i paesi d’Europa, dalla quale una gran parte muoveva verso Oriente per finire in India e in Cina. In senso opposto, una massa di prodotti asiatici passava in Europa ed una massa di prodotti europei muoveva verso le Americhe. L’argento ibero-americano, largamente rappresentato dai reales, fornì la liquidità necessaria per il funzionamento di questo sistema (il cui volume, proprio per la mancanza di un’adeguata liquidità, era stato inconcepibile nel Medioevo).Riflettendo su tali movimenti, il mercante portoghese Gomes Solis scrisse sul suo “Arbitrio sobre la plata“ – Discorso sull’argento –, pubblicato a Londra nel 1621, che “l’argento vaga attraverso tutto il mondo nelle sue peregrinazioni, per poi finire in Cina, dove rimane come al suo centro naturale”.

Non ci fu un vero e proprio impero eco spagnolo, e non poteva essere altrimenti dato lo stato della tecnologia e dei trasporti, ma alcuni ritengono ci fosse invece una sorta di impero monetario casigliano, basato su un’abbondante quantità di argento e di oro che il reame riceveva dalle Indie e sull’eccellente qualità delle coniazioni che erano apprezzate in tutto il mondo. In ogni angolo del Mediterraneo orientale, la moneta spagnola circolava a fianco di quella austriaca e di quella turca in questo modo contribuì a creare una sorta di unità eco nel mondo.

Questo impero monetario fu più vasto e duraturo dell’impero politico. alcune obiezioni, dato che una volta riversate le migliaia e migliaia di tonnellate di argento sulle varie parti d’Europa, la Spagna perdette ogni controllo su questa massa monetaria: a manovrare la distribuzione dei rales non fu la Spagna, bensì Genova e il Portogallo prima,e le compagnie delle Indie olandese e inglese poi.Inoltre, le vere monete internazio9nali, riconosciute e accettate ovunque, furono il fiorino di Firenze e il ducato veneziano nel Medioevo, e la lira sterlina nel XIX sec., per la loro stabilità, nella lega e nel peso, dell’intrinseco; i reales, invece, non furono monete stabili, perché mostravano una magg. variabilità nel peso e nella lega, per cui erano contati come merci e non come pezzi monetari.Resta quindi un mistero come mai una moneta così mal coniata, brutta, così facilmente tosabile, e inaffidabile quanto a intrinseco, fosse così ricercata e accettata in ogni parte del globo. L’unica ipotesi è che la forza dei reali da 8 consistesse essenzialmente nella loro enorme quantità e nella loro diffusione in ogni parte del mondo, che permisero lo straordinario sviluppo del comm. internazionale durante i sec. XVI e XVII. Il mantenimento dei livelli raggiunti dal comm. internaz. dipese dal mantenimento della liquidità rappresentata dalla massa di reali iniettata allora nel mercato; se i reali fossero stati banditi e la loro massa fosse conseguentemente diminuita, il commercio internaz. avrebbe subito un tracollo spaventoso. Questo spiega l’alternarsi di provve3dimenti che prima bandivano la moneta spagnola, che minacciava la buona moneta nazionale, e poi si ritornava sui propri passi riammettendo i reales, per evitare un collasso dell’attività comm. (specialmente nei paesi orientali), e riaggiustando i cambi dei reali con la moneta nazionale per proteggere quest’ultima.

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Conclusioni

Grave deficit della bilancia comm. inglese con la Cina soluzione solo verso il la metà del XVIII sec. con l’oppio i primi a introdurre questa droga in Cina furono i portoghesi. Il colonnello Watson, invece, per saldare i deficit suggerì alla Compagnia di fare un uso estensivo dell’oppio che l’Inghilterra poteva trarre dall’India. Queto piano funzionò a meraviglia, e a partire dal 1776 la quantità di oppio esportata dagli inglesi in Cina crebbe di colpo e continuò a crescere rapidamente negli anni successivi, soprattutto negli anni 1830-40.Il tradizionale surplus della bilancia commerciale cinese cominciò così a diminuire fino a trasformarsi in un pauroso deficit l’argento cominciò uscì di massa dalla Cina ritornando in Occidente. Il governo cinese, doppiamente preoccupato per le conseguenze di tali avvenimenti sia sulle condizioni sanitarie della pop. Sia sulla disponibilità di argento, tentò di correre ai ripari, ma la sua debolezza di fronte alla potenza ingl. ne vanificò gli sforzi 1839 guerra dell’oppio in cui la Cina fu sconfitta ed umiliata ed i rapp. tra occ. e oriente avvelenati per sempre.

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