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Articolo 3 CEDU - Proibizione della tortura (di Luigi Prosperi)
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani
o degradanti”.
1. Cenni storici: l’approccio degli organismi sovranazionali
2. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura
3. La nozione di tortura e il ruolo interpretativo della Corte
4. La ricerca dei criteri interpretativi
5. L’onere probatorio
6. La distinzione tra tortura e trattamenti o pene inumani e degradanti:
- la linea di demarcazione tra tortura e trattamenti inumani
- la condizione dei soggetti privati della libertà
- i trattamenti e le pene degradanti
- la pena di morte, grimaldello per l’estensione dell’ambito di
applicazione dell’articolo 3 (divieto di espulsione ed estradizione)
7. Gli obblighi positivi a carico degli Stati membri
8. Il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano
(click sul titolo per visualizzare il paragrafo)
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1. Cenni storici: l’approccio degli organismi sovranazionali
La tortura ha fatto parte per secoli dello strumentario a disposizione dei
soggetti deputati alla punizione dei crimini. Da un lato mezzo di ricerca della
prova, utilizzato per ottenere confessione, abolito solo tra la seconda metà del
‘700 e l’inizio dell’ ‘800 nei maggiori ordinamenti giuridici europei. Dall’altro vera
e propria punizione legale dei criminali (fino alla fine del ‘700 le pene corporali
erano comminate con frequenza, e tra quelle le esecuzioni pubbliche), avente lo
scopo ulteriore di ammonire la generalità dei consociati e così prevenire la
commissione dei reati, messa in discussione nel corso del XVIII secolo dagli
illuministi in genere e da Cesare Beccaria in particolare, il quale nella seconda
metà del ‘700 scriveva: “non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che,
in alcuni eventi, l’uomo cessi di esser persona, e diventi cosa1”.
Tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’ ‘800, come si accennava, nella redazione dei
Codici penali i legislatori dei Paesi europei più avanzati decidevano infine di
abbracciare i principi di gradualità, certezza ed uniformità della pena, e la
detenzione come strumento. Con l’effetto di spostare la questione del rispetto
della dignità dell’individuo al momento dell’esecuzione della punizione.
Nel corso del XX secolo il diritto a non essere sottoposti a tortura o a
trattamenti inumani o degradanti è stato universalmente riconosciuto: incluso
nelle Costituzioni di molti Paesi, sancito dall’articolo 5 della Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo del 19482 e dall’articolo 7 del Patto internazionale
sui diritti civili e politici del 19663, è oggi considerato parte dello jus cogens. Ciò
che non garantisce tuttavia che non vi siano state nel recente passato (e non vi
1 Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, 1764, Capitolo XXVIII. 2 “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. 3 “Nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico”.
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siano tuttora) delle violazioni generalizzate, o la tolleranza di queste, da parte di
organi statali: è fondamentale, rispetto a tali condotte, il ruolo preventivo (ma
troppo spesso solo punitivo) delle istanze internazionali.
L’importanza di questi organismi è spiegata anche dalla loro moltiplicazione:
ad oggi, hanno competenza giudiziaria in materia la Corte interamericana dei
diritti dell’uomo e la Corte europea dei diritti dell’uomo (organismi regionali con
poteri incisivi rispetto agli ordinamenti nazionali), e competenza “politica” il
Comitato per i diritti civili e politici delle Nazioni Unite, il Comitato delle Nazioni
Unite contro la tortura (istituito mediante l’articolo 17 della Convenzione
internazionale contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e
degradanti del 1984) e il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e
delle pene o trattamenti inumani e degradanti (istituito, in seno al Consiglio
d’Europa, con l’articolo 1 della Convenzione europea per la prevenzione della
tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti del 1987), nonché la
Corte Penale Internazionale, rispetto a violazioni massicce (di solito essendo
ricompresi la tortura e i trattamenti inumani e degradanti tra i comportamenti
posti in essere allo scopo di soppressione di un gruppo etnico o comunque
nell’ambito di conflitti)4.
2. Il Comitato europeo per la prevenzione della tortura
Con l’adozione, il 26 giugno 1987, della Convenzione europea per la
prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti,
sembrerebbe essersi realizzata una duplicazione della tutela in materia, in sede
di Consiglio d’Europa.
4 Corte Penale Internazionale che si distingue rispetto alle altre istanze perchè innanzi ad essa sono convenuti gli individui personalmente, e non gli Stati contraenti ai quali sia attribuita la responsabilità dei loro comportamenti.
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In realtà è l’articolo 1 della Convenzione in parola a spiegare la finalità
dell’adozione dell’atto (e dell’istituzione del Comitato), laddove nella seconda
parte si spiega che “il Comitato esamina, per mezzo di sopralluoghi, il
trattamento delle persone private di libertà allo scopo di rafforzare, se
necessario, la loro protezione dalla tortura e dalle pene o trattamenti inumani e
degradanti”.
Un meccanismo con finalità preventiva e che ha per beneficiari coloro i quali
siano già stati privati della libertà, e come soggetti passivi del controllo gli Stati
contraenti. In sintesi, si è voluto dotare il Consiglio d’Europa di un organismo di
pressione politica, che abbia lo scopo di prevenire quelle violazioni che, laddove
si dovessero ugualmente verificare, sarebbero invocabili dinanzi alla Corte
Europea di Strasburgo da parte dei singoli individui.
Il Comitato così istituito è composto da esperti indipendenti (uno per Stato
contraente) ed ha il compito (o meglio, il diritto) di effettuare visite presso i
luoghi in cui siano costrette le persone private della libertà da parte di un’autorità
pubblica (salvo i luoghi soggetti a “costante ed effettivo” monitoraggio ad opera
del Comitato internazionale della Croce Rossa). Prima di compiere il sopralluogo,
il Comitato deve darne avviso allo Stato nel cui territorio si voglia recare, affinché
appresti le misure necessarie al corretto svolgimento delle funzioni dell’organo
sovranazionale. Lo Stato può sollevare obiezioni, dalle quali nasce un
procedimento basato sulle consultazioni e volto a raggiungere un accordo che
consenta comunque di porre in essere il controllo, nelle forme più appropriate.
Al termine dei sopralluoghi, il Comitato redige un rapporto ed eventualmente
formula raccomandazioni allo scopo di migliorare le condizioni dei detenuti (o
meglio, per proteggerli dalla tortura e dai trattamenti inumani o degradanti). Il
rapporto ed ogni altra attività di informazione avente come destinatario lo Stato
contraente sono soggetti ad un regime di stretta riservatezza, con l’unica
eccezione del rapporto annuale trasmesso al Comitato dei Ministri e quindi
all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, in cui si da conto delle attività
svolte, in maniera sintetica e piuttosto generica. Tale riservatezza può essere
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derogata su espressa richiesta dello Stato, che può chiedere la pubblicazione del
rapporto, ovvero qualora lo decida il Comitato stesso, votando a maggioranza
qualificata di due terzi dei membri, come sanzione per la mancata collaborazione
o il rifiuto da parte delle autorità nazionali di dare seguito alle raccomandazioni
espresse: in questo caso, non si addiverrà alla pubblicazione del rapporto ma
verrà effettuata una dichiarazione pubblica sulla mancata adozione delle misure
prescritte.
Il nostro Paese è stato fatto oggetto di 4 visite, rientranti nel programma di
ispezioni periodiche: 1992, 1995, 1996 e 2000. In ognuna di queste circostanze,
il Comitato ha lamentato il rischio di subire maltrattamenti nella fase antecedente
ai trasferimenti in carcere, ma soprattutto la condizione dei detenuti all’interno di
queste ultime strutture, il sovraffollamento delle quali, tale da non permettere
alcuna circolazione interna, è stato indicato come maggiore problema da
risolvere. In aggiunta, è stata talvolta lamentata una scarsa collaborazione delle
autorità. Ciò che ad esempio si evince dal ritardo con cui il nostro Paese ha
accordato la possibilità di pubblicare i Rapporti – quello del 1996 è stato
pubblicato solo nel 2003.
Quella di ritardare la pubblicazione dei rapporti è una facoltà attribuita agli
Stati contraenti, avente natura politica e scopo di mitigare le conseguenze dei
rilievi del Comitato, in special modo rispetto all’opinione pubblica. Facoltà che
può spingersi sino ad un totale diniego, ammesso laddove vi sia una sufficiente
collaborazione de facto.
Tuttavia in alcuni casi limite si è giunti alla dichiarazione “d’ufficio”, ossia con i
2/3 dei voti favorevoli del Comitato, con cui sono state denunciate le più gravi
carenze nella collaborazione delle autorità pubbliche statali, che talora sono
arrivate a fornire false informazioni: gli unici due Paesi fatti oggetto di questa
procedura, ad oggi, sono la Russia (nel 2001 e nel 2003, con riferimento alla
situazione cecena) e, in periodo precedente, la Turchia (nel 1992 e nel 1996).
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3. La nozione di tortura e il ruolo interpretativo della Corte
Se la Convenzione contro la tortura delle Nazioni Unite si apre con una
definizione di “tortura”, in sede di redazione della CEDU (circa 40 anni prima) si
scelse una strada diversa, quella dell’interpretazione caso per caso.
Dal punto di vista politico, sembra utile riportare la dichiarazione di M. Cocks,
delegato del Regno Unito all’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, il
quale in sede di lavori preparatori esortava i relatori della Convenzione in questi
termini: “[L’Assemblea Parlamentare] crede che questo divieto debba essere
assoluto e che la tortura non possa essere ammessa per alcuno scopo, né per
reperire prove, né per salvaguardare la vita ovvero la sicurezza di uno Stato”.
Scopo nobilissimo, rispetto al quale tuttavia mancavano all’epoca le pertinenti
misure di attuazione. Soccorre dunque la costante giurisprudenza della Corte di
Strasburgo.
In una delle prime decisioni in materia, l’organismo giurisdizionale circa la
portata della norma affermava innanzitutto che “la Convenzione proibisce in
termini assoluti la tortura e le pene o trattamenti inumani o degradanti, quali che
siano i comportamenti della vittima. L’articolo 3 non permette limitazioni, in ciò
differisce dalla maggior parte delle disposizioni normative della Convenzione e
dei Protocolli n. 1 e 4 e, secondo l’articolo 15 paragrafo 2, non è soggetto a
deroga neppure in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione5”.
A chiarire la ratio della disposizione, sottolineava più di recente che
“[l’]articolo 3 non prevede nessuna eccezione e l’articolo 15 non consente di
derogarvi in tempo di guerra o di altro pericolo nazionale. Tale proibizione
assoluta da parte della Convenzione, della tortura e delle pene o trattamenti
inumani o degradanti dimostra che l’articolo 3 consacra uno dei valori
5 Così per la prima volta la Corte sul caso Irlanda c. Regno Unito, sentenza 18.1.1978, Serie A n. 25, paragrafo 163.
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fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa. La si
rinviene in termini analoghi in altri strumenti internazionali (...); è di solito
considerata una norma internazionalmente accettata6”.
E in una recente sentenza (peraltro a carico dell’Italia), con la quale si “copre”
un terzo decennio di giudizi, si legge: “anche nelle circostanze più difficili, quali la
lotta al terrorismo o al crimine organizzato, la Convenzione proibisce in termini
assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti7”.
Tutto quanto premesso, si evince come permanga una grande lacuna, ossia la
mancata individuazione delle fattispecie vietate: ruolo della Corte è stato (e
continuerà ad essere) quello di colmarla, rinvenendo per mezzo dell’esame del
caso concreto dei criteri interpretativi applicabili a tutti, sufficientemente elastici
da garantire al contempo la vitalità della norma convenzionale e soprattutto il
permanere del legame con i valori fondamentali delle società democratiche che
formano il Consiglio d’Europa, o più semplicemente con il comune sentire.
Essendo l’elasticità delle definizioni mai come in questo contesto (e come meglio
vedremo nel prosieguo dell’analisi dell’evoluzione della giurisprudenza)
funzionale al ruolo stesso della Corte: nell’applicazione della disposizione in
parola, ha infatti creato la tecnica di tutela c.d. par ricochet, adottando un
criterio inclusivo allo scopo di integrare la lettera della Convenzione.
6 Così la Corte sul caso Soering c. Regno Unito, sentenza 7.7.1989, Serie A n. 161, par. 88. 7 Corte, caso Labita c. Italia, sentenza 6.4.2000, Report of Judgements and Decisions 2000-IV, par. 119.
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4. La ricerca dei criteri interpretativi
In assenza di definizioni mediante cui circoscrivere i confini tra comportamenti
leciti e illeciti e tra le diverse fattispecie vietate, il giudice europeo ha in un primo
periodo improntato la sua attività alla ricerca di criteri interpretativi che fossero
universalmente applicabili.
Detto che non era in contestazione la distinzione, essenzialmente logica, tra
“trattamento” e “pena”, essendo ristretto l’ambito di quest’ultima a quelle misure
subite da un individuo in esecuzione di una condanna e ricadendo invece
nell’altro tutti quei comportamenti ascrivibili a soggetti che esplichino una
funzione pubblica (di cui diremo meglio più avanti, rispetto alla ripartizione
dell’onere probatorio), ciò che non trova risposta nella formulazione dell’articolo
3 è la questione dell’individuazione di una netta e riconoscibile linea di
demarcazione tra “tortura” e “pena o trattamento inumano o degradante”.
La dottrina ha riscontrato, nelle prime decisioni della Corte in materia, un
costante riferimento alla c.d. “soglia di gravità”, operante come criterio valido sia
per separare la sfera degli illeciti da quella delle pratiche legali e legittime, sia
per distinguere “tortura” e “pena o trattamento inumano o degradante”. Al punto
che appare più corretto parlare di “soglie di gravità”, cioè un limite esterno, con
funzione di filtro, e quei limiti interni mediante cui distinguere tra loro le condotte
vietate. La Corte ha affermato e spesso ribadito che “[p]er rientrare nell’articolo
3 un trattamento deve raggiungere un minimo di gravità8”.
Nello specifico, allo scopo di delimitare le singole fattispecie, sin dai suoi primi
interventi la Commissione ha sottolineato innanzitutto che “ogni tortura non può
non essere anche trattamento inumano e degradante e che ogni trattamento
inumano non può non essere anche degradante9”. Ha quindi spiegato che la
8 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 162. 9 Così la Commissione nel Rapporto del 18.11.1969 sul c.d. “caso Greco” (rapporto nato da un ricorso interstatale presentato congiuntamente dai Paesi scandinavi e dall’Olanda), in cui si esaminavano le massicce violazioni dei
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distinzione tra trattamento inumano o degradante e tortura “(...) consegue
principalmente da una differenza delle sofferenze inflitte. (...) Se da un lato
esistono violenze che, benché condannabili secondo la morale e, in linea
generale, anche dal diritto interno degli Stati contraenti, non rientrano tuttavia
nell’articolo 3 della Convenzione, è evidente, d’altra parte, che quest’ultimo,
distinguendo la <tortura> dai <trattamenti inumani o degradanti> ha voluto con
il primo di tali termini marchiare di particolare infamia trattamenti inumani
deliberati che provocano sofferenze molto gravi e crudeli10”. Infine, rispetto alla
distinzione tra (pena o) trattamento inumano e (pena o) trattamento
degradante, ha stabilito da un lato che “(...)una misura che scredita una persona
nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua reputazione, può essere
considerata un <trattamento degradante> ai sensi dell’articolo 3 solo se
raggiunge una certa soglia di gravità11”, e dall’altro che “[l]a sofferenza causata
deve collocarsi ad un livello particolare affinché si possa qualificare come pena
<inumana> ai sensi dell’articolo 312”.
Così delimitato l’ambito applicativo della norma, tuttavia, ben si comprende
come l’accertamento del superamento delle soglie di gravità non potesse
prescindere dalla contestualizzazione della valutazione, che tenesse conto,
insieme alle circostanze oggettive del fatto materiale, anche delle qualità
soggettive della vittima: ancora una volta, si evidenzia come la disposizione in
questione necessiti di un’interpretazione “viva”, influenzata dall’evoluzione
politico-sociale e più propriamente da quella del diritto penale.
diritti umani commesse nella Grecia del c.d. “regime dei Colonnelli” (a seguito del rapporto, per sfuggire a ben più gravi conseguenze - nello specifico, la sospensione - il Paese ellenico decideva di uscire spontaneamente dal Consiglio d’Europa). 10 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 11 Commissione, parere sul caso Asiatici dell’Africa Orientale c. Regno Unito, 1.12.1973, par. 189. 12 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.4.1978, Serie A n. 26, par. 29.
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Le qualità soggettive, o “parametri interni”, si riferirebbero alla natura, al
contesto e alla modalità di esecuzione e durata del trattamento o della pena, ma
anche ad elementi individualizzanti quali effetti fisici e mentali provocati, ovvero
età, sesso e stato di salute della vittima. Ciò che ci induce ad escludere
l’utilizzabilità di tali parametri a fini classificatori (seppur riconoscendo la loro
influenza sulle decisioni adottate) è la rielaborazione di un’osservazione risalente
addirittura all’inizio del XVIII secolo: scriveva infatti Christian Thomasius che la
tortura non è un valido e sicuro mezzo di accertamento della verità perchè può
portare tanto ad una falsa confessione, e quindi alla condanna di un innocente,
quanto all’assoluzione del colpevole che abbia resistito ai supplizi13. A contrario, e
quasi applicando una “legge del contrappasso” di dantesca memoria, si
perverrebbe alla condanna di uno Stato sulla base dell’<impressionabilità> o
della <sensibilità> del ricorrente, potendo la stessa condotta essere qualificata
“trattamento degradante” ovvero comportamento legittimo, a seconda delle
caratteristiche psico-fisiche della vittima.
Altrettanto pericolose sarebbero le conseguenze dell’adozione dei c.d.
“parametri esterni”, ossia il principio di proporzionalità che si tradurrebbe in
ricerca della mediazione tra i diritti dell’individuo e la difesa della società
democratica, essendo pertanto giustificate determinate condotte, altrimenti
riconosciute illegittime, qualora sia legittimo l’obiettivo perseguito. Con l’effetto
di applicare di fatto, nonostante l’esclusione espressa contenuta nell’articolo 15
CEDU, una deroga generale all’articolo 3. Risultato, questo, che in nessun caso
può considerarsi legittimo ai sensi della Convenzione, preferendosi piuttosto
un’utilizzazione dei “parametri esterni” ai fini della valutazione sul grado di
violazione della disposizione, così come accaduto nel già citato caso Irlanda c.
Regno Unito. In quella circostanza, infatti, la Commissione e la Corte venivano
chiamate a giudicare sui fatti avvenuti negli anni ’70 nel territorio dell’Irlanda del
Nord (sotto la giurisdizione del Regno Unito), laddove a seguito degli scontri tra
13 Christian Thomasius, De tortura ex foris Christianorum proscribenda, 1705.
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cattolici e protestanti le autorità britanniche avevano deciso di introdurre misure
extragiudiziali di detenzione ed internamento, pensate solo come risposta alle
violenze dell’I.R.A. (Irish Republican Army, considerata una “minaccia effettiva
alla legge e all’ordine”), ma trasformatesi in rimedi generalizzati, se si tiene
presente che nel primo giorno di applicazione furono arrestate 452 persone, delle
quali ben 350 internate senza alcun controllo da parte di un giudice. Erano stati
predisposti, al fine di accogliere gli arrestati, tre centri regionali, nei quali costoro
sarebbero stati interrogati nelle 48 ore successive al fermo, prima di addivenire
all’esame della loro posizione, ovvero alla loro liberazione. Scopo ultimo era
quello di ottenere informazioni, e a tal fine la polizia si serviva di metodi di
interrogatorio aventi talvolta pesanti conseguenze, anche fisiche, sugli arrestati.
Nel 1978 Amnesty International decideva di raccogliere in un rapporto dettagliato
le lamentele nei confronti delle forze dell’ordine britanniche, sottolineando come
l’effetto della graduale soppressione dell’internamento senza processo (attuata
nel 1975) fosse stato un incremento degli interrogatori, e di conseguenza delle
presunte violenze. Tra il 1975 e il 1978 i casi denunciati erano più di mille, su
poco più di 8 mila interrogatori accertati. A seguito della pubblicazione del
rapporto di Amnesty, il Parlamento inglese decideva di creare una commissione
d’inchiesta, presieduta dal giudice H. C. Bennet, allo scopo di verificare le
procedure utilizzate dalla polizia e definire eventuali responsabilità (private o
pubbliche). Nel 1979 la commissione presentava il c.d. Rapporto Bennet, nel
quale si sottolineava innanzitutto come il ricorso ai normali metodi di detenzione
fosse stato escluso dalla particolare situazione politica dell’Ulster, caratterizzata
dall’uso di violenze ad opera di gruppi paramilitari, contro civili e contro le forze
dell’ordine, e si sottolineava poi che le accuse avevano lo scopo di giustificare le
violenze o di ottenere l’assoluzione dinanzi alla corte giudicante. Si concludeva
quindi affermando che alcuni individui si sarebbero auto-inflitti le ferite, che i casi
di accertati maltrattamenti erano isolati e imputabili alla condotta di singoli
agenti di polizia, e ribadendo l’utilità degli strumenti, che avevano finalmente
consentito di combattere il terrorismo (tra il 75% e l’80% delle condanne per
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reati politici si erano infatti basate quasi esclusivamente su confessioni così
ottenute)14.
Ciononostante l’Irlanda aveva deciso nel frattempo di inoltrare presso la
Commissione Europea di Strasburgo un ricorso interstatale in cui si accusavano
le autorità inglesi di violazioni dell’articolo 3 CEDU, attuate in particolar modo
mediante le c.d. “cinque tecniche di privazione sensoriale”, consistenti
nell’incappucciamento, nell’obbligo di rimanere in piedi per lunghi periodi di
tempo, nell’assoggettamento a continuo rumore, nella privazione del sonno e
nella negazione di cibo e bevande.
La Commissione concludeva il proprio rapporto, presentato il 9.2.1976, nel
senso che tali comportamenti andassero ricondotti agli “atti di tortura”; ebbene,
senza dubbio alla base del giudizio con cui la Corte avrebbe in seguito modificato
tale valutazione, riconducendo le violazioni nell’ambito dei “trattamenti inumani”,
si può oggi riscontrare, accanto all’attenzione per i “parametri interni” (e che
analizzeremo nel dettaglio), una sorta di riconoscimento della necessarietà delle
misure in esame. Laddove probabilmente oggi un atto della portata del Rapporto
Bennet, e in particolare l’affermazione secondo cui la gran parte delle condanne
fossero basate su confessioni estorte con metodi piuttosto violenti, sarebbero
utilizzati come prova a carico dello Stato convenuto, infatti, si evidenzia come in
quel particolare momento storico, in cui l’emergenza terroristica colpiva anche
altri influenti Paesi in seno al Consiglio d’Europa, l’opinione pubblica e il “senso
comune” lo abbiano utilizzato o comunque letto in funzione di elemento a
discarico. Pur sottolineando come il risultato sia stato comunque una pronuncia
di condanna, seppure ammorbidita, e come dunque i “parametri esterni” siano
stati utilizzati solo allo scopo di valutare il grado della violazione.
Il risultato era dunque una sentenza di carattere soprattutto politico, di
condanna ma in forma edulcorata, e che però avrebbe fatto da preludio ad un
14 Per una dettagliata analisi, si rinvia al documento reperibile al seguente indirizzo internet: http://www.studiperlapace.it/view_news_html?news_id=irlanda2.
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cambiamento di rotta, che si sarebbe sostanziato innanzitutto nella graduale
scomparsa del criterio di “soglia di gravità” come limite esterno all’articolo 3
(mentre fondamentalmente veniva mantenuto in funzione dei limiti interni, linea
di demarcazione tra le condotte vietate), e in secondo luogo nel ricorso a
presunzioni di ordine probatorio, allo scopo di tutelare in modo finalmente pieno i
diritti degli individui nel momento della privazione della libertà, anche ove fosse
una situazione temporanea (presunzioni che avrebbero condotto ad una
pronuncia di portata ben diversa e più severa, nel caso poc’anzi esaminato).
5. L’onere probatorio
Abbandonato il criterio della soglia di gravità intesa come limite esterno
all’articolo 3, la Corte necessitava tuttavia di individuare elementi, il più possibile
oggettivi, sulla cui base valutare i comportamenti. Al contrario, da lì in avanti i
giudizi si sarebbero incentrati sull’analisi delle condizioni del ricorrente, sugli
effetti delle condotte piuttosto che su queste ultime di per sé. Nel corso degli
anni ’90, e in particolare nei testi delle sentenze sui casi Tomasi (del 1992),
Ribitsch (1995) e Selmouni (1999), si evidenziava una crescente attenzione per
le circostanze in cui si sarebbe addivenuti alle presunte violazioni. Nello specifico,
riguardando quei casi delle condotte poste in essere in seguito alla privazione
della libertà dei ricorrenti, si stabiliva che “nei confronti di una persona privata
della libertà, l’impiego della forza fisica, quando non sia strettamente necessitata
dal suo comportamento, viola la dignità umana e costituisce, in linea di principio,
una violazione del diritto garantito dall’articolo 315”.
Si propendeva quindi per una maggiore contestualizzazione dei
maltrattamenti, poiché valutazione logicamente antecedente alle altre, ritagliate
sulla personalità e l’individualità della presunta vittima. Operazione che ben si
15 Corte, caso Ribitsch c. Austria, sentenza 4.12.1995, Serie A n. 336, par. 38.
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evince dalla ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice nella decisione sul
caso Tomasi, laddove prima si rigettava l’eccezione del Governo francese,
secondo cui non era stato raggiunto il minimum di gravità richiesto dalla
precedente giurisprudenza europea, quindi si stabiliva per la prima volta, come
effetto della contestualizzazione di cui sopra (che però rimaneva implicita, poiché
non vi erano affermazioni dello stesso tenore di quelle sopra riportate, e che
risalgono alla sentenza Ribitsch, di 3 anni successiva), che “quando un individuo
afferma di aver subito nel corso di un fermo sevizie che gli abbiano causato
ferite, spetta al Governo fornire una spiegazione completa e sufficiente della loro
origine16”. In sostanza, si operava una presunzione di responsabilità a carico
dello Stato fondata sulle circostanze in cui gli eventi erano maturati.
Presunzione che si innestava su un quadro estremamente complesso dal
punto di vista dei ricorrenti: essendo generalmente numerosi i ricorsi fondati su
presunte violazioni dell’articolo 3, la Corte Europea aveva infatti preso a
richiedere una rigorosa dimostrazione della colpevolezza delle autorità statali,
con l’effetto che molto spesso si addiveniva a dichiarazioni di irricevibilità per
manifesta infondatezza. Al contempo, l’instaurare un procedimento in una
materia simile presenta di per sé difficoltà spesso insormontabili, quali
l’eventualità che il ricorrente sia unico testimone della violazione, che ben può
essere avvenuta in ambienti “privati”, o comunque chiusi, ad opera di soggetti
esercenti un’attività legata ad un pubblico potere, e che quindi siano quasi
“coperti” dall’autorità pubblica, beneficiando di una presunzione di innocenza più
estesa di quella concessa ai normali cittadini (si pensi ad esempio che nel diritto
italiano la dichiarazione di un pubblico ufficiale fa fede fino a querela di falso).
A tal proposito, spiegava la Commissione che “(...) le affermazioni di tortura o
di maltrattamenti che costituiscono violazione dell’articolo 3 della Convenzione
devono essere provate al di là di ogni ragionevole dubbio. Un dubbio ragionevole
16 Così la Corte sul caso Tomasi c. Francia, sentenza 27.8.1992, Serie A n. 214/A, parr. da 108 a 111, e in seguito sul caso Ribitsch, cit., par. 34, e in diverse successive sentenze.
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non è un dubbio fondato su una possibilità meramente teorica od artata per
evitare una conclusione sgradevole; è un dubbio le cui ragioni possono essere
dedotte dai fatti esposti. (...) Provare le affermazioni di tortura o di
maltrattamenti presenta difficoltà per il soggetto. In primo luogo, una vittima o
un testimone in grado di supportare la sua storia può esitare a descrivere o a
rivelare tutto ciò che sa per timore di rappresaglie contro di lui o la sua famiglia.
In secondo luogo, gli atti di tortura o di maltrattamenti commessi da agenti dei
servizi di polizia o dell’esercito sono compiuti, per quanto possibile, senza
testimoni e probabilmente all’insaputa dell’autorità superiore. In terzo luogo,
quando sono formulate affermazioni di tortura o di maltrattamenti, le autorità –
sia che si tratti del servizio di polizia o dell’esercito o dei ministeri interessati –
hanno inevitabilmente la sensazione di dover difendere una reputazione
collettiva, sensazione che sarà tanto più forte quando le autorità non siano a
conoscenza delle attività degli agenti contro i quali sono presentate le
denunce17”. La Commissione poneva attenzione a quanto appena esposto già nel
1969, nel rapporto sul c.d. “caso Greco”: come si può agevolmente notare, vi si
rinviene una sorta di anticipazione delle presunzioni che saranno utilizzate a
distanza di più di 20 anni, se non altro nel senso di anticipazione della ratio alla
base di quelle, laddove si sottolineano le difficoltà per le vittime, sia nell’inoltrare
un ricorso, sia (e tanto più) nel dover dimostrare la veridicità di quanto sostenuto
in esso.
Il risultato dell’evoluzione giurisprudenziale europea è in conclusione
un’attenuazione del rigore probatorio, quasi bilanciata dall’abbandono di altri
criteri, e in funzione della ricerca di maggiore contestualizzazione e di minor
“soggettivizzazione” delle indagini: si arriva così a stabilire, in via generalizzata,
che l’articolo 3 sia applicato ogni qual volta manchi una spiegazione plausibile
che collochi la causa delle lesioni (da verificare tramite esami medici) al di fuori
del luogo di detenzione. Spetta allo Stato convenuto dimostrare che le lesioni
17 Commissione Europea, “caso Greco”, cit., par. 26.
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riscontrate siano pregresse rispetto alla privazione di libertà, o procurate dalla
stessa presunta vittima, o giustificate sulla base del comportamento di questa,
essendo di per sé la condizione della detenzione e l’esistenza di danni fisici indizi
sufficientemente precisi, gravi, concordanti per affermare la responsabilità ai
sensi della Convenzione.
6. La distinzione tra tortura e trattamenti o pene inumani e
degradanti
La scelta che abbiamo effettuato, in ordine all’abbandono della ricerca a
posteriori di un criterio che funga da limite esterno all’articolo 3, da spartiacque
dunque tra liceità ed illiceità di una condotta, comporta una conseguenza sul
piano dell’interpretazione delle fattispecie vietate: la necessità di individuare
delle sentenze cardine, all’interno delle quali rinvenire definizioni vincolanti. Una
premessa necessaria: per merito della formulazione piuttosto generica, come si è
già detto, la disposizione in parola è tra quelle con maggiore capacità di
adattamento ai mutamenti politici, giuridici e sociali; come effetto, il c.d. limite
esterno della norma si sposterà in avanti o indietro a seconda del contesto
storico di riferimento.
- La linea di demarcazione tra tortura e trattamento inumano
La nostra rassegna della giurisprudenza della Corte in materia non può che
prendere le mosse dal caso “Irlanda c. Regno Unito”. Avendo già descritto la
vicenda in cui il ricorso trovava fondamento (si rinvia al paragrafo 4, pag. 6), ci
limitiamo a ricordare che il giudice di Strasburgo, nell’emettere la sentenza,
rigettava in parte il parere della Commissione, la quale aveva ravvisato nelle
condotte contestate gli estremi della tortura. Ci concentreremo invece
sull’affermazione secondo cui, consistendo il criterio per distinguere la tortura dal
trattamento inumano e degradante nella “differenza nell’intensità della
sofferenza inflitta”, e quindi rimandando i limiti interni dell’articolo 3 alla <soglia
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di gravità> di cui si è ampiamente detto nei paragrafi precedenti, ne consegue
che un trattamento inumano deve consistere “almeno [in] un’intensa sofferenza
fisica e mentale, se non anche in una vera e propria violenza sul corpo della
persona18”. Ciò che lo distingue per l’appunto dalla tortura, “trattamento
inumano o degradante che causa sofferenze più intense”, qualificate a loro volta
come “gravi e crudeli”. Il caso in parola soprattutto riveste importanza decisiva
perché denota una differenza fondamentale nell’interpretazione della CEDU
rispetto alla Convenzione ONU del 1984, che all’articolo 1 definisce la tortura
come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitte ad una
persona dolore o sofferenze, fisiche o mentali, con l’intenzione di ottenere dalla
persona stessa o da un terzo una confessione o un’informazione, di punirla per
un atto che lei o un’altra persona ha commesso o è sospettata di aver
commesso, di intimorire o costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro
motivo fondato su qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o
sofferenza siano inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che
agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o
tacito“.
Ove il giudice di Strasburgo avesse accolto il criterio della finalità per
distinguere tra le condotte vietate, non si vede come avrebbe potuto non
considerare “torture” le sofferenze inflitte nell’Irlanda del Nord a quegli individui
da cui si volevano ottenere informazioni, tenendo presente per di più che
secondo il Rapporto Bennet tra il 75 e l’80% delle condanne pronunciate in quel
contesto si erano basate su confessioni a loro volta ottenute con i metodi su cui
la Corte veniva chiamata a giudicare. Si restringeve quindi il confine della
tortura, rigettando l’opinione della Commissione, la quale nel parere sul “caso
Greco”, di quasi 10 anni più vecchio, aveva ritenuto che “(...) il termine tortura è
spesso usato per descrivere un trattamento inumano che ha l’obiettivo di
ottenere informazioni o confessioni, oppure d’infliggere una punizione ed è
18 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167.
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generalmente una forma aggravata di trattamento inumano o degradante19”.
Nella sentenza di condanna del Regno Unito, si stabilisce invece che “sebbene le
cinque tecniche, combinate insieme, siano dei trattamenti inumani e degradanti,
sebbene il loro obiettivo fosse ottenere delle confessioni, informazioni e fare
nomi, e sebbene furono usate sistematicamente, esse non causarono sofferenze
di particolari intensità e crudeltà da considerarsi tortura20”.
Soccorre infine, ai fini dell’individuazione della definizione di tortura, la
sentenza sul caso Aydin contro Turchia, datata 1997. La ricorrente, all’epoca dei
fatti 17enne, era stata tratta in arresto dalle forze dell’ordine assieme alla sua
famiglia, quindi tenuta in isolamento per tre giorni, bendata, picchiata, costretta
a spogliarsi e infine stuprata. La Commissione, nel suo parere, sottolineava che
lo stupro, atto di per sé particolarmente crudele, che colpisce integrità fisica e
morale della vittima, risultava in quelle circostanze aggravato perchè commesso
da persona dotata di autorità a danno di una maggiormente vulnerabile
(detenuta e per di più minorenne)21. La Corte, accogliendo questa impostazione,
ribadiva che “l’accumulo di atti di violenza fisica e mentale (...) e in particolare la
crudeltà dello stupro, cui era stata sottoposta, sono atti di tortura”; quanto allo
scopo, la situazione della zona poneva le forze dell’ordine nella condizione di
dover reperire informazioni, di tal ché “le sofferenze inflitte alla ricorrente devono
essere considerate come soggiacenti agli stessi obiettivi22”. Quest’ultimo rilievo è
decisivo, perchè ci permette finalmente di individuare un principio generalmente
applicabile: non solo il grado di sofferenza inflitta, ma anche la natura dell’atto e
lo scopo a cui soggiace conducono a qualificarlo “atto di tortura”. Un’azione di
per sé particolarmente crudele può essere tale senza il bisogno di indagare gli
altri elementi, i quali piuttosto possono qualificarsi, a fini di semplificazione (e
19 Commissione, caso Greco, cit. 20 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 21 Commissione, caso Aydin c. Turchia, parere 17.4.1997, paragrafi 214-215. 22 Corte, caso Aydin c. Turchia, sentenza 25.9.1997, par. 86.
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usando categorie giuridiche più vicine alla scienza giuridica italiana), come
<circostanze aggravanti>, esterne alla fattispecie. In conclusione, nessun atto
obiettivamente “inumano” potrà essere qualificato come “tortura” perchè
finalizzato ad esempio ad ottenere una confessione, mentre l’indagine sulle
circostanze sarà fondamentale in quei casi di condotte che si pongano al confine
tra le due fattispecie.
Si evince da quanto fin qui osservato che quella di “trattamento inumano” è
una definizione primaria. La Corte ha ad essa attribuito, accanto al valore
intrinseco, una funzione per così dire classificatoria: in due coeve sentenze si
stabilisce infatti che, da un lato, “[l’]articolo 3 della Convenzione (...),
distinguendo la <tortura> dai <trattamenti inumani o degradanti> ha voluto con
il primo di tali termini marchiare di particolare infamia trattamenti inumani
deliberati che provocano sofferenze molto gravi e crudeli23”; dall’altro, che “[l]a
sofferenza provocata deve situarsi ad un livello particolare perchè si possa
qualificare (...) inumana24”. Come conseguenza prima, si assume quale criterio
cui fare affidamento la “soglia di gravità”, utilizzata in funzione di limite interno
tra le fattispecie vietate dalla norma. In aggiunta, si impone (soprattutto nelle
sentenze emesse a partire dagli anni ’90) un dovere assoluto di rispettare
l’integrità fisica: ne troviamo un’anticipazione in un passaggio che già abbiamo
citato, in cui la Corte escludeva che i comportamenti oggetto di valutazione
potessero essere ricondotti alla tortura perchè quest’ultima è “un trattamento
inumano deliberato, che causa una sofferenza inumana e crudele25”; ebbene, a
partire da questa risalente decisione si è via via affermata la convinzione che
affinchè si possa ricondurre una condotta alla tortura devono ricorrere
circostanze tali da <qualificare> un trattamento inumano: la violenza deve
generare sofferenze fisiche particolarmente crudeli, o essere finalizzata ad
23 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167. 24 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, cit., par. 29. 25 Corte, caso Irlanda c. Regno Unito, cit., par. 167.
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ottenere una qualche confessione, o ancora essere perpetrata mediante atti per
loro natura intollerabili (come lo stupro commesso ai danni di minorenne in stato
di custodia26). In assenza di tali elementi caratterizzanti, ogni violenza grave sarà
ricondotta ad un trattamento inumano. L’accoglimento del metodo della
contestualizzazione dei comportamenti da valutare ha infine condotto alla nascita
di una sorta di fattispecie autonoma, con riferimento ai comportamenti posti in
essere ai danni di soggetti privati della libertà, rispetto ai quali è stato di fatto
spostato il confine tra tortura e trattamento o pena inumani e degradanti.
- La condizione dei soggetti privati della libertà
Ove si riduca il criterio interpretativo alla pedissequa applicazione della
norma, la lettera dell’articolo 3 CEDU non sarebbe di per sé garanzia di tutela nei
confronti di persone detenute. A differenza dell’articolo 10, paragrafo 1 del Patto
sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite del 196627 e dell’articolo 5, paragrafo
2 della Convenzione Americana sui diritti umani del 196928, infatti, la
Convenzione Europea non contiene alcun riferimento specifico. Consapevoli della
lacuna normativa, gli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa si sono presto
dedicati alla individuazione di un criterio interpretativo tale da giustificare
un’estensione della protezione. In un parere del 1968, la Commissione stabiliva
pertanto che la detenzione “non priva il detenuto della garanzia dei diritti e delle
libertà protetti dalla Convenzione29”. Più specificamente sanciva, un decennio più
tardi, che “una pena regolarmente inflitta può sollevare un problema rispetto
all’articolo 3 per il modo in cui è realizzata30”.
26 Corte, caso Aydin c. Turchia, cit. 27 “Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana”. 28 “Nessuno sarà sottoposto a tortura o a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Tutti coloro che siano privati della libertà saranno trattati con il rispetto dovuto alla dignità inerente alla persona umana”. 29 Commissione, caso Ilse Koch c. Austria, parere 8.3.1968, in Annuaire 5, pag. 127. 30 Commissione, caso Kotalla c. Paesi Bassi, parere 6.5.1978, D.R. 14, pag. 243.
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Solo a partire dagli anni ’90, tuttavia, si rinvengono nelle sentenze delle
osservazioni tali da permettere di ricostruire la reale portata delle affermazioni di
principio di cui si è in precedenza dato conto. Prima questione concerneva
l’individuazione del momento a partire dal quale concretamente si possa ritenere
un individuo “privato della libertà” ai sensi dell’articolo 3 (e quindi maggiormente
tutelato). Attraverso l’analisi di tre decisioni emesse nei primi anni ’90 si può
ricostruire l’iter logico seguito dalla Corte, ed indicare dei principi utilizzabili per
valutare le singole situazioni soggettive.
Primo in ordine cronologico è il già citato caso Tomasi. Il ricorrente,
sospettato di aver preso parte ad un attentato terroristico in Corsica, era stato
fermato dalla polizia e sottoposto ad interrogatorio. Proprio in quest’ultima
circostanza avrebbe subito maltrattamenti che andavano da vere e proprie
violenze fisiche alle minacce con armi, all’assenza prolungata di cibo e all’obbligo
di rimanere a lungo in piedi, ammanettato e nudo, davanti ad una finestra. Nella
sentenza la Corte, qualificando le condotte come “trattamenti inumani e
degradanti” e condannando la Francia ad un sostanzioso risarcimento,
sottolineava che “le innegabili difficoltà della lotta contro la criminalità, anche in
materia di terrorismo, non possono limitare la protezione dovuta all’integrità
fisica delle persone31”. Come detto, introduceva inoltre delle presunzioni di
colpevolezza e invertiva l’onere della prova, essendovi dei riscontri in ordine al
fatto che lo stato di salute del sig. Tomasi al momento dell’arresto fosse buono.
Nel caso Klaas invece la ricorrente, cittadina tedesca, lamentava di aver
subito maltrattamenti (che le avrebbero causato peraltro uno svenimento) in
occasione di un arresto che aveva subito in quanto colpevole di aver causato un
incidente automobilistico, guidando in stato di ebbrezza. Secondo la
Commissione, rileverebbe il fatto stesso di essere sotto la giurisdizione delle
31 Corte, Tomasi c. Francia, cit, par. 115.
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forze di polizia32. La Corte, al contrario, operò una distinzione rispetto al caso
Tomasi, poiché l’uso della forza ben poteva essere stato causato dalla resistenza
all’arresto, e le violenze in questo caso non sarebbero state sproporzionate33.
Infine nel caso Hurtado contro Svizzera la stessa Commissione si trovava a
cambiare orientamento rispetto al parere da ultimo citato: il ricorrente lamentava
di aver subito violenze durante l’arresto, ma l’organo giurisdizionale si limitò a
stabilire che vi fosse stata violazione dell’articolo 3 solo a causa della mancata
sottoposizione del fermato a visite mediche. Testualmente affermava che
“l’assenza di cure mediche adeguate in una simile situazione deve essere
qualificata trattamento inumano34”.
Ci sentiamo di poter affermare, sulla base dei principi appena presentati, che
l’arresto si differenzia dalla custodia perchè non esclude a priori il ricorso alla
forza, ma piuttosto lo sottopone ad una valutazione sulla proporzionalità rispetto
alla situazione (valutazione che sarà “ex ante”, avente ad oggetto cioè le
circostanze nelle quali effettivamente avevano operato la polizia o le altre forze
di sicurezza, così come apparivano in quel momento). Qualora un individuo
venga sottoposto a pena detentiva (anche solo di natura cautelare o comunque
preventiva), invece, lo Stato contraente si assume piena responsabilità per il
trattamento a quello riservato, e si pone come garante della incolumità fisica
(con l’eccezione di quelle offese causate direttamente dal comportamento del
detenuto). Diverse sentenze sono state emesse con riferimento alle condizioni
della detenzione: tra queste, ve ne sono due, piuttosto recenti, riguardanti il
nostro Paese.
32 Commissione, caso Klaas c. Germania, parere 21.5.1992, parr. 103-104. 33 Corte, caso Klaas c. Germania, sentenza 22.9.1993, Serie A n. 269, parr. 29-30. 34 Commissione, caso Hurtado c. Svizzera, parere 8.7.1993, par. 79.
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Il signor Benedetto Labita, arrestato perchè sospettato di essere membro di
un’organizzazione mafiosa, nel 1992 veniva trasferito nel carcere di Pianosa per
essere sottoposto al regime “41bis”, dall’articolo della Legge n. 354 del 1975 che
lo aveva introdotto nell’ordinamento penitenziario. Prima di essere assolto in
secondo grado dalla Corte d’Appello di Palermo nel dicembre 1995, il ricorrente
sarebbe stato vittima di una vasta gamma di violazioni della Convenzione:
denunciò infatti condotte contrarie agli articoli 3, 5, 6, 8, nonché all’articolo 2 del
Protocollo n. 4 e all’articolo 3 del Protocollo n. 1. Per quanto qui ci interessa, egli
riteneva che le misure d’isolamento (notturno e diurno), le violenze, le
perquisizioni corporali e le intimidazioni subite (causa di traumi sia psichici che
fisici) rappresentassero “trattamenti inumani e degradanti” ai sensi dell’articolo
3. La Commissione aveva peraltro accolto tale conclusione. Con sentenza presa a
strettissima maggioranza (9 voti contro 8), la Corte assolveva al contrario l’Italia
per mancanza di prove inconfutabili circa la gravità dei trattamenti, così
accogliendo l’opinione del Governo italiano, che da parte sua riconosceva le
condotte e al contempo le ridimensionava35. Identici iter ed esito avrebbe avuto,
di lì a poco, il ricorso del sig. Indelicato36, che come il suo predecessore
lamentava di aver subito trattamenti in violazione dell’articolo 3 nello stesso
carcere di Pianosa, ove era stato detenuto e sottoposto anch’egli al “regime
41bis” fino al settembre 1997, quando era stato prosciolto dalle accuse e
rilasciato. Rinviamo un ulteriore approfondimento delle due pronunce per quanto
riguarda dei diversi profili dell’applicazione dell’articolo 3.
In una serie di decisioni è stato invece stabilito che una detenzione in
condizioni tali da danneggiare la salute dei detenuti costituisce un trattamento
inumano e degradante.
Con riferimento all’isolamento, la Corte ha da un lato affermato che quello
totale può distruggere la personalità del detenuto e pertanto costituisce
35 Corte, caso Labita c. Italia, sentenza 4.6.2000, Reports of Judgements and Decisions, 2000-IV. 36 Corte, caso Indelicato c. Italia, sentenza 18.10.2001.
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trattamento inumano e che non si giustifica con esigenze di sicurezza, e dall’altro
non ha mai emesso sentenze di condanna in materia37, essendo in ogni caso
legittimo comminare la sanzione in parola nel rispetto di particolari condizioni. In
un altro caso (concluso con il rigetto del ricorso) si osservava che “deve aversi
riguardo alle circostanze (...), incluse la severità della misura, la sua durata, lo
scopo perseguito e gli effetti sulla persona38”, e si sottolinea che sicuramente
rappresenterebbe un trattamento proibito l’isolamento sensoriale del detenuto,
che tuttavia in quell’occasione non si era verificato. Talvolta si è inoltre fatto
riferimento ad un requisito ulteriore, quello della volontà di umiliare l’individuo39.
Altro elemento di cui la Corte ha tenuto conto nel valutare le condotte dei
soggetti responsabili della custodia dei detenuti è la prontezza con cui questi
ultimi, in caso di danni in qualsiasi modo prodotti, siano stati sottoposti a visita
medica. Alla base di questo principio si pone l’obbligo di garantire l’integrità fisica
degli individui, tenendo presente tuttavia che si deve intendere nel senso di
“aggravante”, circostanza da valutare insieme alle altre, di modo che deve essere
provata la sottoposizione a violenze o a trattamenti proibiti dall’articolo 3. A titolo
esemplificativo, nel caso Ilhan40 si è giunti ad una condanna per aver sottoposto
il ricorrente ad “atti di tortura”: la vittima aveva riportato danni di natura
permanente, e non era stata prontamente trasferita in una struttura ospedaliera.
Senza indagare su un eventuale peggioramento delle sue condizioni psico-fisiche
a causa del mancato intervento dei medici per un lasso temporale di almeno 36
ore, il giudice europeo utilizzava l’elemento oggettivo del ritardo nel
37 Nel caso Peers c. Grecia, deciso con sentenza del 19.4.2001, veniva dichiarata la violazione dell’articolo 3 con riferimento alle condizioni della detenzione, ma la Corte espressamente le riconduceva “solamente” ad un trattamento degradante. 38 Corte, caso Ensslin, Baader e Raspe c. Germania, sentenza 8.7.1978. 39 Così la Commissione sul caso Mac Feely del 1980, in cui affermava che la causa dell’aggravamento delle condizioni psico-fisiche erano gli stessi detenuti, accusati di atti di terrorismo in Irlanda del Nord, e dichiarava la non colpevolezza del Regno Unito. 40 Corte, caso Ilhan c. Turchia, sentenza 27.6.2000.
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trasferimento allo scopo di qualificare le condotte, assieme alle altre circostanze
in causa41.
Secondo gli organi giurisdizionali del Consiglio d’Europa, infine, anche i
soggetti internati negli ospedali psichiatrici, se sottoposti a trattamenti medici
contro la propria volontà (e tali da peggiorarne la condizione psico-fisica), ad
alimentazione forzata e all’isolamento, il tutto per un periodo prolungato,
possono essere riconosciuti vittime di violazioni dell’articolo 3 in quanto detenuti
sottoposti a trattamento inumano o degradante. Nel caso specifico, la
Commissione aveva ritenuto non strettamente necessarie le misure mediche e
perciò riscontrato una violazione dell’articolo 3 CEDU. Ribaltando ancora una
volta le conclusioni di quest’ultima e dichiarando la non violazione della norma, la
Corte stabiliva che “[l]a situazione di inferiorità e di impotenza che caratterizza i
pazienti internati negli ospedali psichiatrici richiede una maggiore vigilanza nel
controllo del rispetto della Convenzione. Benché spetti alle autorità sanitarie
decidere (...) i rimedi terapeutici da utilizzare, se del caso coattivamente, per
tutelare la salute psico-fisica dei pazienti totalmente incapaci di autodeterminarsi
e dei quali essi hanno perciò la responsabilità, questi ultimi non sono meno
protetti dall’articolo 3(...). Certamente la prassi medica consolidata è, in via di
principio, decisiva in un caso del genere: non può, in generale, essere
considerata inumana o degradante quella misura che sia dettata da una
necessità terapeutica. Spetta dunque alla Corte assicurarsi che quest’ultima sia
stata provata in modo convincente42”. Dunque una doppia valutazione: la prima
sui trattamenti, la seconda, eventuale, sulla loro inevitabilità, intesa come
assenza di cure alternative.
41 Anche nel caso Hurtado c. Svizzera si faceva riferimento all’obbligo di sottoporre prontamente il detenuto a visite mediche, come effetto di un generale obbligo positivo degli Stati, rispetto al quale rinviamo la trattazione al paragrafo seguente. 42 Così la Corte sul caso Herczegfalvy c. Austria, sentenza 24.9.1993, Serie A n. 241-B, par. 82.
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- I trattamenti e le pene degradanti
Restano dunque da analizzare le categorie dei trattamenti e delle pene
degradanti.
Per quanto concerne i primi, appare totalmente esaustiva (e tuttora attuale)
la definizione contenuta in un risalente parere emesso dalla Commissione nel
1973. Il ricorso era stato inoltrato da 31 cittadini residenti in Uganda e in Kenya,
ma originari di varie zone dell’Asia, con passaporto britannico (provenendo tutti
da Paesi all’epoca protettorati o colonie inglesi) ovvero in alcuni casi con speciale
protezione da parte di quest’ultimo governo: il c.d. “caso degli Asiatici dell’Africa
Orientale”. La domanda trovava fondamento nel rigetto della loro richiesta di
trasferirsi nel Regno Unito (inoltrata a causa delle difficoltà riscontrate sempre
più spesso nei Paesi di residenza), motivata sulla base di alcuni articoli del
Commonwealth Immigrants Act del 1968, e contestata ai sensi degli articoli 8
(inteso come diritto al ricongiungimento familiare, per quegli individui che
avessero dei membri della famiglia nel Regno Unito), 14 (divieto di
discriminazione, per essere trattati diversamente da altri cittadini dello stesso
Stato) e 3 CEDU. Riguardo quest’ultimo, il rigetto della richiesta di trasferimento
avrebbe costituito “trattamento degradante” perchè avrebbe di fatto trasformato
i ricorrenti in apolidi, con intento discriminatorio rispetto ai cittadini dei Paesi
“bianchi” del Commonwealth. La Commissione forniva innanzitutto una
definizione generale: “[l’]espressione <trattamenti degradanti> mette in
evidenza che tale disposizione tende in generale ad impedire lesioni
particolarmente gravi della dignità umana. Di conseguenza, una misura che
scredita una persona nel suo ceto sociale, nella sua situazione o nella sua
reputazione, può essere considerata un <trattamento degradante> (...) solo se
raggiunge una certa soglia di gravità. (...) La Commissione ricorda (...) che è
generalmente riconosciuto il principio in base al quale deve essere accordata
un’importanza particolare alla discriminazione fondata sulla razza; che il fatto di
imporre pubblicamente ad un gruppo di persone un regime particolare fondato
sulla razza può, in talune circostanze, costituire una particolare forma di lesione
della dignità umana; e che il regime particolare imposto a un gruppo di persone
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per motivi razziali potrebbe costituire un trattamento degradante laddove una
distinzione fondata su un altro elemento non solleverebbe tali questioni43”.
Invero il riconoscimento del carattere di “trattamento degradante” del
comportamento discriminatorio rappresenta ad oggi un caso quasi isolato44; più
interessante appare l’analisi della giurisprudenza avente ad oggetto le pene
degradanti.
Vero e proprio caposaldo in materia è la sentenza sul caso Tyrer45,
riguardante una condanna alla pena corporale della fustigazione emessa nell’isola
di Man, territorio britannico agli effetti della Convenzione, sebbene dotato di un
diverso sistema giuridico. Il ricorrente, all’epoca dei fatti minorenne, aveva
peraltro espresso la volontà di desistere dall’azione giudiziaria (nel frattempo la
condanna era stata eseguita e il signor Tyrer era divenuto maggiorenne); la
Commissione aveva rigettato la richiesta ai sensi dell’articolo 43 del suo
Regolamento, perchè il caso sollevava gravi problemi di carattere generale (in
futuro si sarebbero in ogni caso potute registrare violazioni di uguale natura,
vigente la medesima legislazione). La Corte, accolto questo orientamento,
passava a giudicare sul merito: escludeva innanzitutto che vi fosse la prova in
ordine al superamento delle soglie di gravità interne con riferimento alle
categorie di “tortura” e “pena inumana”, lasciando in vita solo le lamentele circa
la sussistenza di una “pena degradante”. Premesso che “un individuo può essere
umiliato per il solo fatto di essere stato condannato penalmente”, sottolineava
che “sarebbe assurdo sostenere che ogni pena giudiziaria (...) abbia carattere
<degradante> ai sensi dell’articolo 3”; occorreva perciò un criterio cui sottendere
la distinzione. Che veniva puntualmente rintracciato, laddove si stabiliva che
“(...) affinché una pena sia <degradante> (...), l’umiliazione e lo sconforto da cui
43 Commissione, caso Asiatici dell’Africa Orientale c. Regno Unito, parere 1.12.1973, paragrafi 189 e 207. 44 Altra sentenza di condanna è stata pronunciata recentemente: cfr. Corte, caso Moldovan e altri (n. 2) c. Romania, sentenza 12.7.2005, paragrafi da 102 a 114. 45 Corte, caso Tyrer c. Regno Unito, sentenza 25.4.1978, Serie A n. 26.
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è accompagnata devono collocarsi ad un livello particolare”: è necessario quindi
effettuare una valutazione dipendente “dal complesso delle circostanze in causa
e, in particolare, dalla natura dal contesto e dalle modalità di esecuzione della
pena46”. Esclusa la rilevanza, ai fini della valutazione in parola, dell’opinione
pubblica, la Corte sottolineava quindi che “(...) una pena non perde il suo
carattere degradante per il solo fatto di essere considerata costituire o di
costituire effettivamente un efficace strumento di dissuasione ovvero di lotta alla
criminalità47”. Rigettata del pari l’argomentazione governativa secondo cui
l’assenza di pubblicità impedirebbe ad una pena di ricadere nella categoria in
parola e che le garanzie circa le modalità esecutive fossero a tal fine ugualmente
rilevanti48, si giungeva alla dichiarazione di condanna sulla base del
fondamentale rilievo che “le pene giudiziarie corporali implicano, per natura, che
un essere umano si lasci andare a violenze fisiche su un suo simile. Inoltre, si
tratta di violenze istituzionalizzate, nel caso specifico autorizzate dalla legge,
disposte dagli organi giudiziari dello Stato ed irrogate dalla sua polizia. Così,
sebbene il ricorrente non abbia subito lesioni gravi o permanenti, la sua
punizione consistente nel trattarlo come un oggetto nelle mani della pubblica
autorità ha leso quanto della protezione figura precisamente tra gli scopi
fondamentali dell’articolo 3: la dignità e l’integrità fisica della persona. Non si può
nemmeno escludere che la pena abbia comportato pregiudizievoli ripercussioni
psicologiche49”.
La decisione veniva quindi accompagnata dalla Risoluzione DH 78(39) del
Comitato dei Ministri (datata 13.10.1978), nel cui allegato si rilevava, tra le
informazioni fornite dal Governo del Regno Unito, che tutti gli organismi giudiziari
dell’isola di Man, competenti per la pronuncia di condanne alla pena corporale,
46 Caso Tyrer, cit., paragrafo 30. 47 Caso Tyrer, cit., paragrafo 31. 48 Caso Tyrer, cit., paragrafo 32. 49 Caso Tyrer, cit., paragrafo 33.
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erano stati ufficialmente avvertiti che “in conseguenza di tale sentenza, la
punizione giudiziaria corporale, d’ora in avanti, deve essere ritenuta contraria
alla Convenzione”.
Altra sentenza, di pochi anni successiva, interveniva a sciogliere un dubbio di
natura interpretativa: se cioè il rischio del verificarsi di comportamenti proibiti ai
sensi dell’articolo 3 potesse costituire una violazione della norma, in particolare
nel caso in cui quei comportamenti fossero codificati. I ricorrenti, le signore
Campbell e Cosans, erano cittadine scozzesi e madri di due ragazzi minorenni,
frequentanti la scuola dell’obbligo. Nell’istituto in questione, ai sensi della
legislazione nazionale (vigente in tutto il Regno Unito), era utilizzato come
strumento di correzione un sistema di punizioni corporali. Il figlio della signora
Cosans, essendosi rifiutato di sottoporvisi, era stato sospeso; i genitori, informati
del provvedimento, decidevano di appoggiare la sua decisione, e il Preside della
scuola, per tutta risposta, comunicava loro ufficialmente che la sospensione
sarebbe stata prolungata finché non avessero accettato le regole, essendo il loro
rifiuto un elemento ostativo alla partecipazione del figlio alle lezioni
(effettivamente Jeffrey Cosans non sarebbe più tornato a frequentare
quell’istituto, poiché dopo quasi un intero anno di sospensione aveva compiuto
16 anni e deciso di abbandonare il suo percorso formativo). Il figlio della signora
Campbell, invece, non era mai stato minacciato di un tale comportamento;
ciononostante, avendo chiesto i genitori rassicurazioni circa il fatto che non
sarebbe mai stato sottoposto a quel genere di punizioni, avevano ricevuto
risposta negativa, e per questo si erano decisi ad inoltrare ricorso presso le
istanze sovranazionali.
Gli organi giurisdizionali di Strasburgo venivano quindi aditi allo scopo di
pronunciarsi su delle norme, anziché su condotte. La Commissione dichiarava che
non vi era stata violazione dell’articolo 3; la Corte accoglieva tale opinione,
spiegando che, se è vero che “un semplice rischio di comportamenti proibiti
dall’articolo 3 può contrastare, di per sé, con tale norma se è sufficientemente
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reale ed immediato50”, pur tuttavia “la situazione nella quale si trovavano i figli
delle ricorrenti non costituiva né una <tortura> né un <trattamento inumano>
(...) [perchè] nulla dimostra che abbiano subito sofferenze del livello implicato da
tali nozioni51”. Mutuando quindi la nozione di <trattamento degradante> dalla
sopra citata sentenza Tyrer, e specificato che oggetto d’indagine in casi del
genere devono essere la prostrazione e l’umiliazione eventualmente provate dalla
vittima, affermava che “(...) non risulta provato che gli allievi di una scuola dove
si ricorre a tali punizioni siano, a causa del semplice rischio di subirne una,
umiliati o sviliti agli occhi altrui (...) ad un qualsiasi livello52”. Poiché inoltre “(...)
un individuo di straordinaria sensibilità potrebbe rimanere profondamente
segnato da una minaccia [di un comportamento] che solo l’erronea
interpretazione del comune significato del termine potrebbe far qualificare
degradante53”, occorre considerare ai fini della valutazione esclusivamente le
prove di carattere obiettivo (nel caso in esame, non vi erano neanche certificati
medici sulla cui base riconoscere che i due ragazzi avessero subito ripercussioni
quantomeno psicologiche).
L’assenza di condanne fondate su comportamenti qualificati come “pene
inumane” (e la progressiva scomparsa, del pari, di quelle derivanti da “pene
degradanti”) ci conduce ad affermare che nell’attuale momento storico la
legislazione penale degli Stati membri del Consiglio d’Europa ha raggiunto uno
standard tale da garantire quanto meno il rispetto dell’articolo 3 (in via di
principio, ossia avendo come obiettivo solo le norme scritte). Avendo più volte
sottolineato la peculiare “vitalità” di questa disposizione, ci sembra più utile
indagare la linea direttrice su cui si muove (e si muoverà nel futuro prossimo) la
Corte Europea. E’ infatti in atto un’estensione dell’ambito applicativo dell’articolo
50 Corte, caso Campbell e Cosans c. Regno Unito, sentenza 25.2.1982, Serie A n. 48, paragrafo 26. 51 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 27. 52 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 29. 53 Caso Campbell e Cosans, cit., paragrafo 30.
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3, sia mediante ridefinizione dei confini interni, sia attraverso la tutela di
situazioni che potremmo definire “violazioni indirette”. Se di queste ultime
rinviamo la trattazione al paragrafo seguente, della prima operazione ci sembra
un chiaro esempio la sentenza sul caso Selmouni contro Francia del 1999. La
Corte in quell’occasione ha sostenuto che “condotte altre volte qualificate
trattamenti inumani e degradanti e non tortura potrenno ricevere una diversa
qualificazione in futuro perchè il maggior livello di protezione dei diritti umani
(...) oggi richiesto implica, inevitabilmente, maggiore fermezza nella valutazione
delle violazioni54” e qualificato quindi le condotte contestate (poste in essere da
funzionari di polizia in seguito ad un fermo) come atti di tortura.
Una ridefinizione dei confini della norma, in conclusione, che potrebbe
riflettersi anche su quelli che abbiamo catalogato come “esterni”, ossia sulla
distinzione tra atti legittimi e “trattamenti degradanti”.
- La pena di morte, grimaldello per l’estensione dell’ambito di
applicazione dell’articolo 3 (divieto di espulsione ed estradizione)
L’estensione dell’ambito applicativo dell’articolo 3 mediante inclusione di
quelle che abbiamo definito “violazioni indirette” ha una genesi, un momento
iniziale facilmente riconoscibile: la sentenza sul caso Soering c. Regno Unito,
emessa nel 198955.
Il ricorrente, Jens Soering, era un cittadino tedesco con problemi mentali che
nel 1985, nello Stato della Virginia (USA), aveva ucciso assieme alla fidanzata
Elizabeth Haysom (di nazionalità canadese) i genitori di quest’ultima. In seguito
al duplice omicidio, i due erano fuggiti nel Regno Unito, ove venivano arrestati
per truffa nell’aprile del 1986. Interrogato dalla polizia, il signor Soering
confessava in quell’occasione la propria responsabilità nel reato di cui sopra. Gli
Stati Uniti inoltravano quindi richiesta di estradizione di entrambi gli indagati
verso la Virginia, ove peraltro vigeva la pena di morte, sanzione che il ricorrente
54 Corte, caso Selmouni c. Francia, sentenza 28.7.1999, paragrafo 101. 55 Corte, caso Soering c. Regno Unito, sentenza 7.7.1989, Serie A n. 161.
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presumibilmente rischiava di vedersi comminata. La signorina Haysom, poiché
canadese, veniva estradata senza ritardo. Jens Soering, per il quale nel
frattempo era pervenuta medesima richiesta dalla Germania, suo paese natale (e
di cui era cittadino), presentava ricorso presso gli organi di Strasburgo allo scopo
di bloccare il procedimento, poiché nel frattempo le autorità britanniche avevano
ritenuto sufficienti le garanzie fornite dal Procuratore Federale dello Stato
americano in ordine alla non esecuzione della pena di morte, anche ove fosse
stata irrogata dal tribunale competente (sulla base del trattato anglo-americano
di estradizione del 1972, non si poteva concedere estradizione di un soggetto che
presumibilmente sarebbe poi stato mandato a morte – ove non già condannato).
La sentenza della Corte Europea presenta diversi profili d’interesse.
In primo luogo si sottolinea che “l’articolo 1 (...) fissa un limite, specialmente
territoriale, all’ambito di applicazione della Convenzione. In particolare, l’impegno
degli Stati si limita a garantire alle persone sottoposte alla loro giurisdizione i
diritti e le libertà enumerati. Inoltre, la Convenzione non disciplina gli atti di uno
Stato terzo, né pretende che le Parti contraenti impongano le sue norme a tale
Stato. L’articolo 1 non può essere interpretato nel senso di porre un principio
generale in base al quale uno Stato contraente, nonostante i suoi obblighi in
materia di estradizione, non possa consegnare un individuo senza accertarsi che
le disposizioni vigenti nel Paese di destinazione siano completamente conformi a
tutte le garanzie approntate dalla Convenzione. Tali considerazioni non possono
tuttavia esimere gli Stati contraenti dalle loro responsabilità, riguardo l’articolo 3,
per tutte o alcune delle conseguenze prevedibili che un’estradizione al di fuori
della loro giurisdizione comporti56”.
Si passa poi ad esaminare specificamente l’articolo 3, dopo aver premesso
che occorre interpretare ed applicare le disposizioni della Convenzione in modo
da assicurarne l’effettività e da non tradire lo spirito generale del Trattato.
56 Caso Soering, cit., paragrafo 86.
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Testualmente: “l’articolo 3 non prevede alcuna eccezione e l’articolo 15 non
acconsente a deroghe nemmeno in tempo di guerra o in caso di pericolo per la
sicurezza nazionale. Questo divieto assoluto (...) posto dalla Convenzione
dimostra che l’articolo 3 consacra uno dei valori fondamentali delle società
democratiche che costituiscono il Consiglio d’Europa. (...) Uno Stato contraente
agirebbe in modo incompatibile con i valori sottostanti alla Convenzione (...) se
consegnasse consapevolmente un latitante ad uno Stato terzo in cui esistano seri
motivi di ritenere che l’interessato sia minacciato dal pericolo di subire una
tortura [o un altro trattamento proibito]. Nonostante l’assenza di indicazione
letterale nel testo breve e generico dell’articolo 3, tale estradizione sarebbe in
manifesto contrasto con lo spirito della norma (...). In conclusione, la decisione
di estradare un latitante può sollevare un problema rispetto all’articolo 3, e
perciò impegnare la responsabilità di uno Stato contraente sulla base della
Convenzione, quando vi siano seri e accertati motivi di ritenere che l’interessato,
se consegnato al Paese richiedente, correrà un concreto rischio di essere ivi
sottoposto a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti. Per provare
tale responsabilità occorre valutare la situazione nel luogo di destinazione alla
luce degli standard richiesti dall’articolo 3. (...) [N]on si tratta di (...) stabilire la
responsabilità del Paese di destinazione, sia essa ai sensi dei principi del diritto
internazionale, della Convenzione o di altri atti. Nella misura in cui una
responsabilità è o può essere impegnata ai sensi della Convenzione, è quella
dello Stato contraente che concede estradizione, per aver posto in essere un atto
che ha come diretta conseguenza la sottoposizione di qualcuno a trattamenti
proibiti57”.
Ciò detto, per quanto concerne la pena di morte vanno presi in considerazione
gli ulteriori sviluppi politici. In via preliminare, si osserva che “gli autori della
Convenzione non possono certo avere inteso includere nell’articolo 3 il divieto
generale della pena di morte”. In aggiunta, “una pratica successiva in materia di
57 Caso Soering, cit., paragrafi 88 e 91.
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politica penale nazionale, sotto forma di abolizione universale della pena di
morte, potrebbe testimoniare l’accordo raggiunto tra gli Stati contraenti in ordine
all’abrogazione dell’eccezione prevista dal paragrafo 1 dell’articolo 2 e quindi alla
rimozione di un limite esplicito alle prospettive di interpretazione evolutiva
dell’articolo 3. Tuttavia il Protocollo n. 6 alla Convenzione, essendo accordo
scritto successivo, dimostra che l’intenzione delle Parti contraenti, espressa
recentemente nel 1983, era quella di adottare un normale metodo di
emendamento allo scopo di introdurre una nuova obbligazione di abolire la pena
di morte in tempo di pace e, ciò che più rileva, di farlo mediante strumento
facoltativo che lasci libero ogni Stato di scegliere il momento più opportuno per
assumere questo impegno. In queste condizioni (...) l’articolo 3 non potrebbe
essere interpretato come una proibizione generalizzata della pena di morte58”.
Tutto quanto premesso, la Corte conclude nel senso che “non ne deriva che le
circostanze relative ad una condanna a pena capitale non possano mai sollevare
una questione ai sensi dell’articolo 3. Il modo in cui è stata comminata o
applicata, la personalità del condannato e una sproporzione rispetto alla gravità
del reato, nonché le condizioni della dentenzione da subire in attesa
dell’esecuzione sono esempi di fattori che possono far ricadere il trattamento o la
pena cui il condannato sia sottoposto nell’ambito applicativo dell’articolo 3.
L’atteggiamento attuale degli Stati contraenti rispetto alla pena capitale rileva ai
fini della valutazione circa il superamento della soglia di tollerabilità della
sofferenza o dell’umiliazione59”. Presi in esame dati quali lo stato di salute del
Soering, l’età, le condizioni del regime di sorveglianza nel corridoio della morte
(affermando tra l’altro che la “sindrome del braccio della morte” costituiva
trattamento o pena inumana o degradante), la durata prolungata della
permanenza in quel luogo e la possibilità di estradare il ricorrente verso la
Germania, la Corte ha condannato il Regno Unito poiché l’insieme di tali
circostanze avrebbe determinato violazione dell’articolo 3.
58 Caso Soering, cit., paragrafo 103. 59 Caso Soering, cit., paragrafo 104.
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La sentenza Soering introduceva nella valutazione dei singoli casi un criterio
nuovo, mediante cui il principio della responsabilità dello Stato contraente per
“concorso” nella violazione commessa da uno Stato non membro sarebbe stato
applicato anche a fatti diversi: il giudizio probabilistico sul verificarsi della
condotta proibita dalla Convenzione. Ciò in cui consisteva il riferimento ai “seri ed
accertati motivi di credere che, se estradato, l’interessato andrebbe incontro ad
un reale rischio di essere sottoposto (...)60” ad un trattamento proibito. Laddove
il ricorrente presenti elementi obiettivi che inducano a ritenere reale il rischio,
spetterà allo Stato convenuto dimostrare che la violazione della Convenzione
(nello Stato terzo) sia improbabile. Conseguenza ulteriore dell’estensione della
tutela sarebbe stata l’applicazione dei suddetti criteri valutativi anche ai
provvedimenti di espulsione di uno straniero. Qualora vi siano i seri e fondati
motivi di cui sopra, ha più volte ribadito la Corte, “[l’articolo 3] comporta
l’obbligo di non espellere la persona in questione61”, sebbene sia pacifico che gli
Stati contraenti “(...) hanno il diritto di controllare, in base ad un principio di
diritto internazionale ben consolidato e senza pregiudizio per gli impegni
derivanti dai trattati (...), l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento dei non
cittadini62”. Per quanto riguarda gli elementi di prova, il giudice di Strasburgo ha
talvolta affermato che “occorre fare riferimento preliminarmente alle circostanze
che lo Stato convenuto conosceva o avrebbe dovuto conoscere al momento
dell’espulsione, ma ciò non impedisce alla Corte di prendere in considerazione
informazioni successive”, che “possono servire a confermare o a delegittimare il
modo in cui la Parte contraente interessata abbia valutato la fondatezza dei
timori di un ricorrente63”.
60 Caso Soering, cit., paragrafo 90. 61 Tra le altre, così la Corte sul caso Ahmed, sentenza 17.12.1996, paragrafo 39. 62 Così ad esempio la Corte sul caso Vilarajah ed altri c. Regno Unito (in cui i ricorrenti erano stati espulsi in seguito al diniego della concessione di asilo politico), sentenza 30.10.1991, Serie A n. 215, paragrafo 102. 63 Caso Vilarajah e altri c. Regno Unito, cit., paragrafo 107.
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Il signor Ahmed, cittadino somalo, era giunto in Austria nel 1990 ed in quel
Paese aveva ottenuto lo status di rifugiato in quanto membro di un partito
dell’opposizione, sottoposto ad una persecuzione (due membri della sua famiglia
erano già stati uccisi). Nel 1994, in seguito alla condanna a 2 anni e mezzo di
reclusione per tentata rapina, l’Ufficio Federale per i Rifugiati austriaco ordinava
di revocare lo status di rifugiato, mentre la Polizia Federale di Graz emetteva
ordine di espulsione dal territorio nazionale. A seguito di una serie di
procedimenti d’appello rispetto alle due misure, in ultima istanza il ricorrente
otteneva la sospensione annuale (a partire dal 22 novembre 1995) - ma
rinnovabile di anno in anno, in base all’evoluzione della situazione politica somala
- dell’ordine di espulsione. Nel frattempo, il signor Ahmed aveva inoltrato ricorso
presso gli organi del Consiglio d’Europa.
La Corte ha stabilito, nella sentenza con cui ha condannato l’Austria, che
“l’articolo 3 (...) non prevede eccezioni e non è suscettibile di deroghe ai sensi
dell’articolo 15 neanche in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della
nazione (...). Tale principio è valido anche quando l’articolo 3 sia oggetto di
esame in casi di espulsioni. Di conseguenza, le attività dell’individuo in questione,
per quanto inaccettabili o pericolose, non possono essere prese in
considerazione64”. Da cui deriva che la “(...) protezione assicurata dall’articolo 3
è pertanto più ampia di quella prevista dall’articolo 33 della Convenzione ONU
sullo status dei rifugiati del 195165”. Effetto diretto della condanna è stato
l’accoglimento dell’interpretazione della Corte da parte dei tribunali austriaci. Il 9
luglio 2002, in aggiunta, il Parlamento ha adottato un emendamento all’articolo
64 Caso Ahmed, cit., paragrafi 40 e 41. 65 Caso Ahmed, cit., paragrafo 41. L’articolo 33 della Convenzione ONU prevede infatti che: “1 Nessuno Stato contraente potrà espellere o respingere in nessun modo un rifugiato verso le frontiere dei
luoghi ove la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a causa della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad una determinata categoria sociale o delle sue opinioni politiche.
2 Il beneficio di detta disposizione non potrà tuttavia essere invocato da un rifugiato per il quale vi siano gravi motivi per considerarlo un pericolo per la sicurezza dello Stato in cui si trova, oppure da un rifugiato il quale, essendo stato oggetto di una condanna già passata in giudicato per un crimine o un delitto particolarmente grave, rappresenti una minaccia per la comunità di detto Stato”.
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57 della legge sugli stranieri del 1997; la disposizione, nel nuovo testo, prevede
che “l’espulsione o il respingimento di uno straniero in un altro Stato sono illegali
se tali misure conducono ad una violazione degli articoli 2 e 3 della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo o del suo Protocollo n. 6 sull’abolizione della pena di
morte”.
Questa costruzione giurisprudenziale, complessivamente considerata, risulta
(finalmente) armonizzata con l’articolo 3, paragrafo 1 della Convenzione delle
Nazioni Unite contro la tortura del 1984, norma in base alla quale “nessuno Stato
contraente espellerà, rimpatrierà o estraderà una persona verso un altro Stato
ove vi siano dei seri motivi di credere che rischi di essere sottoposto a tortura”.
Diversa la questione affrontata nella sentenza sul caso D. contro Regno
Unito66.
Il ricorrente, un trafficante di stupefacenti, cittadino del piccolo arcipelago di
Saint Kitts e Nevis, era entrato illegalmente in territorio inglese ed arrestato
all’aeroporto di Londra – Gatwick perchè trovato in possesso di una grossa
quantità di cocaina. Sottoposto a regolare processo, era stato condannato a
scontare una pena detentiva di 3 anni in un carcere britannico. Dopo circa un
anno e mezzo dall’imprigionamento, gli era stata diagnosticata la sindrome da
immunodeficienza acquisita (AIDS), per la quale veniva sottoposto a tutte le cure
del caso. Scontata la pena, veniva rilasciato e immediatamente raggiunto da un
provvedimento di espulsione delle autorità britanniche, contro il quale si
appellava inutilmente presso il tribunale nazionale competente prima di ricorrere
agli organi di Strasburgo. Nell’atto introduttivo di quest’ultima procedura
sosteneva di essere vittima di una violazione dell’articolo 3 CEDU poiché nel suo
Paese d’origine non avrebbe potuto ricevere le cure del caso, né essere in alcun
modo assistito, essendo privo di parenti o amici (mentre al momento era seguito
da alcune associazioni di volontariato). Come prova del rischio, adduceva inoltre i
66 Corte, caso D. c. Regno Unito, sentenza 2.5.1997, Raccolta 1997.
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rilievi dell’Alto Commissariato per gli Stati Caraibici Orientali e della Croce Rossa,
che avevano messo in evidenza le gravi carenze del sistema sanitario di Saint
Kitts e Nevis. La Corte, pur osservando che “[g]li stranieri che hanno scontato la
pena della reclusione e temono un provvedimento di espulsione non possono, in
via di principio, rivendicare il diritto a restare sul territorio di uno Stato
contraente al fine di continuare a beneficiare dell’assistenza medica, sociale o di
altra natura, assicurata durante il loro soggiorno in carcere (...)67”, affermava
che a causa dell’importanza fondamentale dell’articolo 3 nel sistema di
protezione convenzionale occorreva “(...) riservarsi un’elasticità particolare
nell’applicare quella norma in situazioni diverse (...)”, con l’effetto che “non le è
(...) impedito di esaminare la doglianza di un ricorrente (...) qualora il rischio che
questi subisca trattamenti vietati nel Paese di destinazione non provenga da
circostanze che possano implicare (...) la responsabilità delle autorità pubbliche
di tale Paese o che, autonomamente considerati, non violino la disposizione in
parola68”.
La Corte, tutto ciò considerato, ha condannato il Regno Unito e attribuito al
ricorrente il diritto a continuare a risiedervi (sebbene gli rimanessero di fatto
pochi mesi di vita).
Sembra potersi affermare che nell’interpretazione e applicazione dell’articolo
3 la Corte abbia improntato le proprie decisioni, e quindi la “vitalità” della norma,
ad un carattere umanitario. In seconda battuta l’orientamento espresso dagli
organi giurisdizionali di Strasburgo ha influenzato le decisioni politiche interne di
taluni Stati membri. Il risultato è stato l’adozione di atti normativi quali la
proposta di legge italiana per l’introduzione del reato di tortura, che analizzeremo
più avanti nel dettaglio, ovvero la modifica di atti pregressi quali lo Human Rights
Act inglese del 1998, più volte rivisto, prima in un’ottica punitiva – a seguito del
concretizzarsi della minaccia terroristica – poi in una prospettiva “garantista”.
67 Caso D., cit., paragrafo 54. 68 Caso D., cit., paragrafo 49.
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Proprio quest’ultimo intervento del legislatore britannico (giunto tra l’altro a
seguito di condanne emesse dalla Corte di Strasburgo e da altri organismi di
tutela dei diritti umani) ha rappresentato la base giuridica su cui si è poggiata
una recente e molto discussa decisione degli organi giudiziari di quel Paese.
Nel febbraio del 2000 un commando di 9 uomini di nazionalità afgana, in fuga
dal regime dei Talebani (poi salito tristemente alla ribalta delle cronache di tutto
il mondo), dirottavano un Boeing 727, costringendo l’equipaggio ad atterrare
presso l’aeroporto di Stansted (non molto distante da Londra). Arrestati,
venivano condannato in primo grado (nel 2001) per dirottamento e rapimento.
Nel 2003 la Corte d’Appello annullava le condanne, e nel 2004 un Comitato
Arbitrale stabiliva che il rimpatrio in Afghanistan avrebbe costituito violazione dei
diritti umani degli imputati. Si decideva pertanto di concedere loro un permesso
di soggiorno temporaneo, mediante cui non avrebbero in ogni caso potuto
allontanarsi né peraltro ottenere un impiego, e venivano quindi trasferiti in una
residenza messa a loro disposizione dal Governo britannico. Nel 2006, infine, una
decisione della Corte Suprema ha stabilito che i permessi di soggiorno
temporaneo limitavano illegittimamente il diritto di un individuo di rimanere nel
Regno Unito e ordinava di modificare quei provvedimenti. La Corte d’Appello, in
data 4 agosto 2006, ha infine rigettato l’ultimo ricorso inoltrato contro questa
decisione.
Come risultato, i dirottatori sono stati di fatto “riabilitati” e addirittura
mantenuti a spese del Governo (e quindi dei contribuenti). Ciò che ha generato
reazioni veementi dell’opinione pubblica, e la critica trasversale delle istituzioni
politiche, compresa quella del Primo Ministro Tony Blair.
Il caso qui presentato costituisce un precedente che da più parti viene
considerato pericoloso, dal momento che sembra siano d’ora in avanti autorizzati
comportamenti normalmente considerati reati, se commessi per sfuggire a
massicce violazioni dei diritti fondamentali. Senza addentrarci in valutazioni di
merito o di opportunità, ci limitiamo ad osservare che mai alcuna sentenza della
Corte Europea ha fornito la base giuridica per la giustificazione di comportamenti
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del genere di quelli posti in essere dai 9 cittadini afgani. Ben diversa essendo la
portata dell’affermazione secondo cui non può essere espulso chi, pur avendo
commesso azioni riprovevoli, realmente rischi di subire trattamenti proibiti
dall’articolo 3, una volta giunto nel Paese di destinazione. Da un lato essendo
sufficiente una garanzia in ordine alla portata di quei trattamenti, dall’altro non
essendo mai stata valutata la posizione di chi abbia commesso gravi reati per
entrare nel territorio dello Stato convenuto, al precipuo scopo di porsi sotto la
giurisdizione di questo. Circostanza su cui appare opportuno concentrare
adeguata riflessione, affinché non si generino situazioni di abuso del diritto
(umanitario, più che umano).
7. Gli obblighi positivi a carico degli Stati membri
Col tempo, la Corte ha preso ad accompagnare la valutazione sui singoli casi
con dichiarazioni di principio aventi ad oggetto i comportamenti che lo Stato
avrebbe dovuto porre in essere per non incorrere in una condanna. Alla base
della creazione di un generale dovere di tutelare gli individui che si trovino sotto
la custodia delle autorità vi è la volontà di rendere effettiva la garanzia
dell’articolo 3 CEDU. Per la prima volta, agli inizi degli anni ’90, la Commissione
ha affermato che “(...) in una situazione (...) conseguente al ricorso alla forza da
parte della polizia, le autorità dello Stato devono, in base all’articolo 3 della
Convenzione, adottare misure volte a garantire l’integrità fisica della persona che
si trova sotto la responsabilità delle autorità (...). Uno specifico obbligo positivo
grava sugli Stati (...) al fine di proteggere l’integrità fisica delle persone private
della libertà69”.
La Corte ha poi sottolineato, in aggiunta a tutto ciò, che l’articolo 3 va letto in
combinato disposto con l’articolo 1, cosicché il “dovere generale imposto agli
69 Corte, caso Hurtado c. Svizzera, cit., par. 79. Lo Stato convenuto veniva quindi condannato sulla base del rilievo che “l’assenza di cure mediche adeguate in una simile situazione deve essere qualificata trattamento inumano”.
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Stati (...) di riconoscere ad ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione i diritti
e le libertà definiti richiede l’esistenza di un’adeguata inchiesta ufficiale70” sulle
condotte di cui ci si dolga. La giurisprudenza più recente si è dedicata
all’individuazione dei requisiti dell’inchiesta: premesso che questa è <adeguata>
quando “conduce all’identificazione ed alla punizione dei responsabili71”, si è in
seguito specificato che deve essere anche approfondita ed effettiva, e condotta
con diligenza e rapidità72. Ciò che più va sottolineato, l’obbligo così circoscritto ha
assunto portata autonoma: ogni qual volta una persona lamenti di aver subito
maltrattamenti nelle more di una custodia, occorre porre in essere l’inchiesta nei
termini di cui sopra, pena il riconoscimento di responsabilità per violazione
dell’articolo 3, come avvenuto ad esempio nei due recenti casi (sopra esaminati)
in cui era convenuto il nostro Paese. I signori Labita e Indelicato lamentavano di
aver subito violazioni del diritto in parola nel carcere di Pianosa; ebbene, in
presenza di riscontri quali le critiche mosse dal magistrato di Livorno e
dall’ispettorato delle carceri della Regione Toscana, la Procura di Livorno aveva
effettivamente aperto un procedimento penale nei confronti di due guardie
carcerarie, ma la Corte d’Appello di Firenze, nella sentenza emessa circa 8 anni
dopo la presentazione della denuncia, aveva derubricato il reato. La Corte di
Strasburgo, nel condannare l’Italia per non essersi conformata l’inchiesta ai
requisiti europei, sottolineava la lentezza del procedimento tanto per ciò che
concerneva le indagini quanto per i due processi, e la negligenza
nell’identificazione dei presunti responsabili.
Un’ultima, ulteriore estensione dell’ambito applicativo dell’articolo 3, con
riferimento ai c.d. obblighi positivi degli Stati contraenti, ha come effetto la
condanna dello Stato convenuto qualora non abbia garantito una prevenzione
efficace delle violazioni commesse dai privati. Il primo caso in materia riguardava
70 Corte, caso Aksoy c. Turchia, sentenza 18.12.1996, Raccolta 1996-VI, par. 96. 71 Caso Aksoy, cit., par. 96. 72 Da ultimo, così la Corte sul caso Selmouni c. Francia, sentenza 28.7.1999, Raccolta 1999.
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un ricorso presentato per violazione degli articoli 3 e 8 mediante trattamento
violento, subito da un allievo da parte del direttore di un istituto scolastico
privato. Innanzitutto è interessante sottolineare che la Corte, accogliendo
l’opinione della Commissione, affermava che in via teorica l’articolo 8 può fornire
una maggiore tutela rispetto all’articolo 3 per ciò che concerne le misure
disciplinari, sebbene nel caso in questione l’interferenza nella vita privata fosse
accettabile perchè non si erano prodotte conseguenze psico-fisiche rilevanti73. Ciò
che più ci interessa, tuttavia, era il riconoscimento, ancora in accordo con il
parere della Commissione, e sebbene solo in via teorica (essendo seguito da una
dichiarazione di non violazione dell’articolo 3 nel caso specifico), di una
responsabilità statale per le violazioni che provengano da soggetti non
direttamente riconducibili alle autorità74, non potendo delegare una così
importante obbligazione a questi ultimi: con l’effetto di applicare la Convenzione,
di fatto, anche nei rapporti tra privati.
Nel caso più recente, il ricorrente era accusato di maltrattamenti nei confronti
di un minore. Il tribunale nazionale, avendo ravvisato nella condotta gli estremi
per qualificarla come “ragionevole mezzo di correzione”, aveva prosciolto
l’imputato. Il giudice europeo, al contrario, aveva ritenuto che la stessa esistenza
di una simile causa di esclusione della responsabilità penale non assicurasse
un‘adeguata protezione dei soggetti sottoposti alla giurisdizione statale, e
pertanto condannava lo Stato per violazione dell’articolo 3, effettuando questa
volta una valutazione sul sistema legislativo vigente75.
73 Corte, caso Costello-Roberts c. Regno Unito, sentenza 25.3.1993, Serie A n. 247-C, par. 36. 74 Caso Costello-Roberts, cit., par. 27. 75 Corte, caso A. c. Regno Unito, sentenza 22.9.1998, Raccolta 1998.
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8. Il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano
La vicenda riguardante l’introduzione nel nostro ordinamento giuridico (ossia,
nello specifico, nel codice penale) del reato di “tortura” sembra oggi, dopo anni di
discussioni e tentativi, in via di definizione.
La Costituzione Italiana non contiene il divieto espresso di tortura, quanto
norme a protezione dell’integrità fisica delle persone private della libertà, quali il
4° comma dell’articolo 13, che stabilisce che “è punita ogni violenza fisica e
morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” e ne fa
derivare un obbligo di incriminazione rispetto ai comportamenti proibiti. Obbligo
che ha trovato attuazione parziale, poiché nell’attuale codice penale sono
previste fattispecie come l’abuso di autorità, la violenza privata, la minaccia, che
coprono solo una parte dei comportamenti che potrebbero generare la violazione
della Costituzione. Anche rispetto alla definizione di tortura, il codice penale può
servire a rinvenire solo frammenti di questa, sparsi ad esempio nelle fattispecie
di percosse, lesioni, arresto illegale, indebita limitazione della libertà personale.
Una prima forma di pressione sul nostro Paese veniva esercitata dal Comitato
sui diritti umani istituito dal Patto sui diritti civili e politici del 1966, il quale
nell'esame dei due rapporti periodici sull'Italia sottolineava come fosse
necessario supplire a tale lacuna normativa (in adempimento del dovere di
adattare l’ordinamento nazionale all’articolo 7 del Patto).
La Convenzione ONU approvata dall'Assemblea generale il 10 dicembre 1984
e ratificata dall'Italia ai sensi della legge 3 novembre 1988, n. 498, fin qui più
volte citata, all'articolo 1 definisce il crimine della tortura come «qualsiasi atto
mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o
sofferenze, fisiche o mentali, con l'intenzione di ottenere dalla persona stessa o
da un terzo una confessione o un'informazione, di punirla per un atto che lei o
un'altra persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorire o
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costringere la persona o un terzo, o per qualsiasi altro motivo fondato su
qualsiasi altra forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenza siano
inflitte da un pubblico ufficiale o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale,
o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito». All'articolo 4 si
prevede che ogni Stato parte vigili affinchè tutti gli atti di tortura vengano
considerati quali trasgressioni nei confronti del proprio diritto penale. Lo stesso
vale per il tentativo di praticare la tortura. In aggiunta, l’articolo 16 sancisce che
“ogni Stato parte si impegna a vietare su tutto il territorio sottoposto alla propria
giurisdizione ogni altro atto costitutivo di pene o trattamenti crudeli, inumani o
degradanti, che non rientrino nella nozione di tortura definita dall’articolo 1
qualora tali atti siano commessi da un pubblico ufficiale o da qualsiasi altra
persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso
espresso o tacito (...)”. Ne deriva dunque un obbligo giuridico internazionale, che
all’epoca il nostro Paese non aveva adempiuto, fin lì essendo stato sottoposto
solo alla Convenzione Europea del 1950, che utilizzava, come più volte
sottolineato, dei termini molto meno precisi. Per di più, fin lì né la Corte di
Strasburgo né il Comitato dei Ministri avevano mai ufficialmente biasimato la
mancata introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura.
Nel 1987 l’Italia avrebbe poi ratificato (con legge 2 gennaio, n. 7) la
Convenzione europea per la prevenzione della tortura, sottoponendosi al
controllo ulteriore del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o
trattamenti inumani o degradanti.
Ciononostante, fino ai primi anni del nuovo secolo non si registravano
iniziative legislative di un certo rilievo. Il primo disegno di legge che sia stato
portato in Commissioni parlamentari era il n. 582/2001, che prevedeva
all’articolo 1 che “Nel Capo I del Titolo XII del Libro II del codice penale, dopo
l'articolo 593, è inserito il seguente:
«Art. 593-bis. - (Tortura) - Il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico
servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, dolore o sofferenze,
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fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza
persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza
persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far
pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato
su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.
La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale. È raddoppiata se ne
deriva la morte.
Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio
che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente
all'impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente»”.
Una fattispecie espressa, dunque, in cui si individuava anche un soggetto
attivo particolare, ossia “il pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio”.
Occorre sottolineare tuttavia come ci siano voluti 3 anni prima che si iniziasse
una discussione parlamentare sull’argomento, e che negli ultimi due si sono
seguite diverse iniziative, e per ognuna di queste si sono registrate modifiche del
testo. Ad oggi, la Camera ha approvato un disegno di legge che all’articolo 1
prevede:
“Nel libro secondo, titolo XII, capo III, sezione III, del codice penale, dopo
l’articolo 613 sono aggiunti i seguenti:
«Art. 613-bis. - (Tortura). – È punito con la pena della reclusione da tre a
dodici anni chiunque, con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti
sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti,
allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni
su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di
avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa
stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero
per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.
La pena è aumentata se le condotte di cui al primo comma sono poste in
essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.
La pena è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; è
raddoppiata se ne deriva la morte.
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Non può essere assicurata l’immunità diplomatica per il delitto di tortura ai
cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati da una autorità
giudiziaria straniera o da un tribunale internazionale. In tali casi lo straniero è
estradato verso lo Stato nel quale è in corso il procedimento penale o è stata
pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, nel caso di
procedimento davanti a un tribunale internazionale, verso lo Stato individuato ai
sensi della normativa internazionale vigente in materia”.
Sospendiamo il giudizio sulla questione, soprattutto in funzione del fatto che
al momento non si riscontra una volontà politica univoca, se è vero che il
dibattito verte ancora oggi sulla scelta circa l’individuazione, più o meno precisa,
del soggetto attivo del reato.
Quanto possiamo affermare con decisione, è fondamentale che in breve
tempo si pervenga all’approvazione di un testo di legge, non essendo più
rinviabile l’introduzione della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, anche
per il forte connotato simbolico che ha assunto la vicenda.
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