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Marco Martini Aristarco Scannabue ASPETTI E MOMENTI DELLA CRITICA LETTERARIA NEL GIORNALISMO VENEZIANO E MILANESE DEL SETTECENTO EDIZIONI ISSUU.COM

Aspetti e momenti della critica letteraria nel giornalismo veneziano e milanese del Settecento

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Scopo di questo breve saggio è mostrare come nel giornalismo veneziano e milanese, che nel corso del Settecento conosce un notevole impulso (come, del resto, tutta l'editoria del secolo, che è appunto il secolo del giornalismo) agli albori delle nuove idee riformatrici dell'Illuminismo, abbia contribuito a svecchiare l'erudizione stantia e perbenista della società italiana; in particolare si esaminano alcuni articoli delle riviste "La frusta letteraria" di Giuseppe Baretti e "La critica"; pungente risulterà l'analisi del personaggio di Aristarco Scannabue, riprodotto in copertina. E' la tesi di un corso annuale post-lauream di Perfezionamento organizzato dal Dipartimento di "Italianistica" dell'Università degli Studi di Firenze nell' a. a. 1998/99. Colgo l'occasione per ringraziare la Chiar. ma Prof. ssa Roberta Turchi, ordinario di letteratura italiana presso il medesimo Ateneo fiorentino, che mi ha seguito con estrema cordialità.

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Marco Martini

Aristarco Scannabue

ASPETTI E MOMENTI DELLA CRITICA LETTERARIA NEL GIORNALISMO

VENEZIANO E MILANESE DEL SETTECENTO

EDIZIONI ISSUU.COM

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- UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE -

- FACOLTA’ DI “ LETTERE E FILOSOFIA ” -

- DIPARTIMENTO DI “ ITALIANISTICA “ -

CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN “ ITALIANISTICA “ :

“ QUESTIONI DI STORIOGRAFIA LETTERARIA E PROBLEMI DI PERIODIZZAZIONE DELLA LETTERATURA ITALIANA “.

TESI DI PERFEZIONAMENTO IN “ LETTERATURA ITALIANA “ :

ASPETTI E MOMENTI DELLA CRITICA LETTERARIA NEL GIORNALISMO VENEZIANO E MILANESE DEL SETTECENTO

- RELATRICE: CHIAR. MA PROF. SSA ROBERTA TURCHI -

- PERFEZIONANDO: DOTT. MARCO MARTINI -

INTRODUZIONE

L’intenso movimento riformatore che vivificò la seconda metà del XVIII° secolo ri- volse la propria attenzione alla letteratura, con lo scopo ben preciso di emanciparla

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dai legami tradizionali e di renderla più aderente alla realtà e più utile al progresso civile e sociale (1). Come accade in ogni rivolta ideale, i ‘modernisti’ critici e giornalisti di ispirazione illuministica guardarono al passato con uno spirito fortemente antistoricista, tanto da cadere in eccessi di pessimo gusto; nonostante ciò, ebbero il duplice merito di infon- dere colore alla critica e di divulgare le loro idee per mezzo di speciali pubblicazioni periodiche (2). La fisionomia del letterato illuminista è contraddistinta da alcuni caratteri fondamen- tali: il cosmopolitismo, il gusto per i viaggi, l’esperienza di problemi sociali ed econo- mici, la curiosità per i diversi rami del sapere. A questi interessi corrisponde natural- mente la scelta di forme letterarie agili ed antiretoriche, come il saggio, il libello di intervento ( o pamphlet), l’articolo giornalistico. La diffusione delle nuove conoscenze presso strati di popolazione sempre più ampi fa perno proprio su tali strumenti, soggetti ad un continuo ricambio e rinnovamento, così che questi generi letterari, abitualmente considerati come ‘minori’, assumano un ruolo di primaria importanza nella divulgazione illuministica, attirando spesso degli scrittori di qualità, o comunque costringendoli a dare misura del loro valore anche su questo terreno. Non va trascurato, infatti, che nella seconda metà del Settecento il giornali- smo rappresenta il miglior mezzo per l’intervento immediato dello scrittore sui proble- mi del proprio tempo. Il favore del pubblico, d’altra parte, può garantire al compilato- re un sufficiente guadagno, tanto da fare, in qualche caso, del giornalismo una profes- sione autonoma. E’ infatti di primaria importanza, in questo campo, la presenza di un pubblico vasto ed attento, anche se non necessariamente colto (sovente era di estra- zione borghese), ma comunque interessato alla discussione ed all’aggiornamento: e non è un caso che la pubblicistica, la saggistica di intervento ed il giornalismo rag-

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giungano l’apogeo della loro importanza proprio nel triennio giacobino (1796-99), quando la parola scritta diventerà anche strumento di lotta e di azione politica. Il giornale viene quindi presentato come uno strumento nuovo, rispetto al libro: sorge l’esigenza di rivolgersi ad un pubblico europeo ed in questo contesto la rivista diventa mezzo di espressione e di comunicazione degli intellettuali, ma anche strumento di diffusione della cultura popolare. Nuove discipline, come il commercio e l’economia, entrano a far parte degli articoli di giornale, come testimoniato da “Il Caffè”. Purtroppo il mecenatismo non è ancora finito, anche se risulta indebolito: l’intellettua- le non vive solo della propria penna, ma ha bisogno del signore, per pubblicare (3): è il caso di insigni letterati, quali Carlo Goldoni e Giuseppe Parini (4). Considerata l’importanza, quindi, del giornalismo, si inizierà il presente lavoro trattan- do le riviste venete del ‘700, per affrontare, nel secondo capitolo, la questione su “La frusta letteraria” del Baretti ed approdare, nell’ultima parte di questa tesi, a discutere dell’importanza della rivista milanese “Il Caffè”.

NOTE RELATIVE ALL’INTRODUZIONE

(1) Cfr. W. Binni, Il Settecento letterario, in Letteratura italiana, Garzanti, Milano,

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vol. VI°, 1988, II edizione. (2) Cfr. R. Pasta, L’Illuminismo, in Storia moderna, Donzelli, Roma, 1988, II° vol. (3) Cfr. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino, 1967 e A. F. M. Voltaire , Il secolo di Luigi XIV°, con introduzione di E. Sestan, a cura di V. Morra, Einaudi, Torino, 1971, G. Parini, “La caduta”, in Il Giorno. Le Odi, vv. 41/100, pp. 226/228, a cura di A. Calzolari, Garzanti, Milano, 1987,

V. Alfieri, Del Principe e delle lettere, a cura di G. Bàrberi Squarotti, Serra e Riva, Milano, 1983 e Della Tirannide, 2 libri, in Opere, Paravia, Torino, 1908.

(4) Giuseppe Parini lavorò presso la nobile famiglia dei Serbelloni, a Bellagio, sul la- go di Como, per motivi economici; come è noto, fu da questa licenziato per aver protestato contro la marchesa Serbelloni, che aveva ingiustamente inflitto uno schiaffo ad una cameriera.

CAPITOLO I°: RIFLESSI DELLA NUOVA CULTURA A VENEZIA

A Venezia non si ebbe un governo illuminato, ma le istanze della cultura illuministica vi giunsero di riflesso e in chiave moderata e si svilupparono

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più sul piano letterario che su quello economico, filosofico, giuridico ed amministrativo (1). Il giornalismo letterario italiano non inizia con “Il Caffè”. Senza voler ricor- dare Anton Francesco Doni e tralasciando i Ragguagli di Parnaso del Boccalini, si trova un primo esempio di gazzettino culturale nel Gior-

nale de’ Letterati stampato a Roma,dopo il quale, prima di giungere al

periodico di Pietro Verri, si incontrano ben 44 fogli volanti, apparsi con maggiore o minore fortuna in diverse città d’Italia. La maggior parte di esse ebbero un carattere erudito, accademico, spesso pedantesco e non furono, di conseguenza, mai popolari. L’unica rivista degna di rilievo è il Giornale de’ Letterati d’Italia, fondato nel 1710 da Apostolo Zeno e pubblicato a Venezia sino al 1731, con la collaborazione di Scipione Maffei e di Muratori (2). Nel 1751 esce a Venezia il Magazzino universale, il primo dei numerosi “magazzini” ed “osservatori” che persino nel titolo imitano la famosa “ri- vista di argomento vario” (in inglese “magazine”), The spectator (1711-12), di Joseph Addison e Richard Steele: una formula nuova per il giornalismo, consistente nell’educare i lettori alla modernità e nell’istruirsi, quasi inav- vertitamente, con notizie proficue, articoli moraleggianti, commenti piace- voli, critiche, recensioni e corrispondenze. E quando il rinnovamento chia- mò i letterati a raccolta, perché ne divulgassero i princìpi e le aspirazioni, la stampa periodica assolse brillantemente l’incarico di combattere i pregiudizi secolari, la pedanteria, di far da portavoce alle dottrine d’oltralpe. Nacquero, in questo contesto, la “Gazzetta veneta” e l’ “Osservatore veneto” di Gasparo Gozzi, “La frusta letteraria” del Baretti ed “Il Caffè” di Pietro Verri: i primi tre

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con un indirizzo letterario, il quarto aperto anche ad argomenti di morale, scien- za, legislazione, economia, e quindi più eclettico. Il conte veneziano Gasparo Gozzi (3) sin da giovane palesò un temperamento in- cline agli studi ed alla poesia; fu però privo di senso pratico. Fu così che, in poco tempo, del suo vistoso patrimonio (anche per una certa ‘frivolezza poetica’ della moglie) non rimase quasi nulla, per cui egli fu costretto a scuotersi di dosso la in- nata pigrizia e a darsi da fare per guadagnare qualcosa; compose futili Rime Pia- cevoli, canzoni d’occasione, commediole, traduzioni e romanzi d’ appendice. Nel 1759 chiese inutilmente la cattedra di lettere latine e greche all’Università di Pado- va, ma gli fu negata a causa della sua scarsa conoscenza di greco. Il Gozzi allora si volse con entusiasmo e profitto alla stampa periodica, e dal feb- braio 1760 al gennaio 1761 compilò, da solo, 103 numeri de la “Gazzetta veneta”: fu fondatore, direttore, redattore, cronista, correttore ed impaginatore di questa ri- vista bisettimanale, sorta con intenti commerciali, in quanto si proponeva di divul- gare “tutto quello ch’è da vendere, da comprare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate, in Venezia o fuori Venezia, il prezzo delle merci, il valore de’ cambi, ed altre notizie, parte dilettevoli e parte utili al pubblico” (4). In realtà il foglio mutò indirizzo a vista d’occhio, poiché, seguendo l’esempio dello Specta- tor, il Gozzi ravvivò il contenuto, rendendo arguti i commenti ai fatti di cronaca, ampliandoli in forma di novelle, trasformandoli in deliziosi bozzetti, rappresentan- ti i più tipici costumi della vita popolare veneziana, intercalandoli con briosi dialo- ghi o con critiche artistiche e teatrali. Appunto da questo modernissimo ‘giro in città’ trasse origine il nucleo centrale delle sue novelle, poi riunite in un volume. Scaduto il contratto con la società di commercianti da cui dipendeva la “Gazzetta veneta”, il Gozzi ideò un nuovo giornale, l’ “Osservatore veneto”, del quale redas-

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se, sempre da solo, 104 numeri, usciti regolarmente ogni mercoledì ed ogni sabato, dal febbraio 1761 al gennaio 1762: si tratta di una ricca ‘galleria di ragionamenti’ e di vigorosi ritratti morali tendenti all’educazione civile e sociale, di allegorie, di favole, di dissertazioni, di ritratti scritti allo scopo di sconfiggere l’ignoranza, di confutare gli errori e di salvare le buone tradizioni; già, anche la difesa della tradi- zione, perché il colto patrizio appartenne al rinnovamento per la costante preoccu- pazione di migliorare i costumi, ma in fondo fu un conservatore (5), incerto tra lo antico ed il nuovo, timoroso del fatto che la libertà potesse scivolare nella licenza. Non per nulla il suo stile è di solito modernamente snodato, lindo, chiaro, rapido, disinvolto, ma talvolta anche prolisso e ricercato (6). Questo amore per la tradizione è palese anche nelle altre opere: Lettere diverse e Lettere familiari, Sermoni, componimenti a carattere moraleggiante in endecasilla- bi sciolti. Ricordiamo anche la Difesa di Dante, pubblicata nel 1758, opera generosa ed affet- tuosa, ma priva di concetti critici. Tuttavia i molti difetti del libro (il cui titolo esat- to è Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante attribuita in- giustamente a Virgilio) sono in parte compensati da una schietta ammirazione del sommo poeta e dalla affermazione che La Divina Commedia è un poema unico, “una Danteide” (7). Da allora iniziò la polemica sul valore artistico del poema. Il nome del gesuita mantovano Saverio Bettinelli (8) è legato al più grande scandalo letterario del secolo, rappresentato dalle sue famigerate Lettere virgiliane del 1757, alle quali Gasparo Gozzi rispose con la sopracitata Difesa di Dante. Il volumetto non giudica severamente soltanto l’Alighieri, bensì anche i maggiori idoli del passa- to, dagli scrittori delle origini in poi: nel nome di un ‘modernismo demolitore’ed in- consulto, il Bettinelli fa il processo alla tradizione, e pone sotto accusa la letteratura

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italiana, condannandone i rappresentanti più illustri. Il battagliero gesuita immagina che, dai Campi Elisi, Virgilio spedisca all’Arcadia dieci lettere, nelle quali, con cau- stica ironia (senza però un sicuro metodo critico) rigetta il titolo di maestro datogli dal ‘gotico’ Dante e si scaglia contro la poesia italiana. Nell’aspra rassegna dedica una particolare attenzione a La Divina Commedia, che definisce “un caos di confusione, un imbroglio” (9) di cui si possono salvare solo un centinaio di terzine; quindi propone di “estrarre i migliori pezzi di Dante ... e raccoglierli insieme in un piccolo volume di tre o quattro canti veramente poetici” (10); liquida i trecentisti, affermando “tutti si consegnino alla Crusca o al fuoco” (11); salva da questa strage il Petrarca,perché “regni sopra gli altri” (12), ma dopo il taglio di un buon terzo del Canzoniere e con ampie annotazioni dov’è oscuro e di- fettoso; giudica l’Ariosto “un gran poeta” (13), a patto che si sopprimano le stanze contenenti “turpi buffonerie, miracoli di paladini, incanti di maghi” (14); pensa che il Tasso non si debba ristampare “senza provvedimenti all’onor suo ... Riducasi dun- que a metà tutto il poema e correggasi molto lo stile” (15). Molti gridarono al sacrilegio e definirono il gesuita mantovano “Padre Totila”, ma la sua ribellione aveva un vivo significato, che superava i suoi giudizi scandalistici. La sua azione infatti mirò ad imbrogliare la pedanteria ed a svecchiare la nostra cul- tura, anche se la sua revisione critica letteraria fu condotta con superficialità, con- traddizione ed, a volte, ridicole esagerazioni. Il rinnovamento fu ricco d’ingegni ora in guerra con i classici, ora con i ‘nuovi bar- bari’. Gretti avversari di ogni novità furono per esempio i soci della veneziana “Ac- cademia dei Granelleschi” (16), che deve il suo nome all’insegna rappresentante un gufo che teneva stretti nella zampa alcuni granelli; considerava gli illuministi come coloro che avrebbero determinata assai rapidamente la fine della cultura italiana.

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Ebbe quindi una posizione di opposizione intransigente e conservatrice di fronte alla “Accademia dei Pugni” (1762), estremista e rivoluzionaria, mentre l’ “Accademia dei Trasformati”, di cui fu animatore Giuseppe Maria Imbonati, era di orientamento che potremmo definire ‘centrista’, in quanto accettava moderatamente le innovazio- ni straniere senza, d’altra parte, ripudiare il classicismo. Carlo Gozzi, fratello mino- re di Gasparo, fu uno dei più attivi partecipanti all’ ”Accademia dei Granelleschi”. Compose le Fiabe e vari scritti polemici, tra cui La tartana degli influssi per l’anno bisestile 1756, in cui gettò in ridicolo Goldoni e l’abate Chiari, ed il poema burlesco in dodici canti La Marfisa bizzarra, che ripete gli attacchi contro i due antagonisti, che avevano diviso il pubblico in ‘chiaristi’ e ‘goldoniani’, ed inoltre vuol essere una satira intellettuale della corruzione (17). Un sano ed equilibrato concetto della modernità ebbe invece l’abate padovano Mel- chiorre Cesarotti (18), filologo, poeta, professore di greco e di ebraico all’Università di Padova, traduttore di Omero (che rifece anche in prosa) e delle celebri Poesie di Ossian (19), autore di 40 volumi di Opere, convinto assertore dell’enciclopedismo francese, servile panegirista di Napoleone. Come teorico del linguaggio, si cimentò inoltre in uno studio molto importante, che ebbe vasta risonanza e fu intitolato Sag- gio sulla filosofia delle lingue (1785). In questa, reagì in uguale misura al pericoloso capriccio della moda ed al miope assolutismo degli accademici della Crusca, che ac- centuavano soltanto i vocaboli consacrati dalla tradizione: le lingue sono organismi vivi, vitali, dinamici, che si trasformano sulle orme del progresso umano e che quin- di hanno bisogno di una terminologia sempre nuova; d’altra parte, i neologismi devo- no conformarsi all’essenza del lessico in cui si incorporano, devono essere foggiati intelligentemente e rispettare le leggi fonetiche, devono evitare gli inutili eccessi o abusi. In particolare, la lingua italiana non può ignorare il plurisecolare substrato

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fiorentino, il che non significa però una passiva acquiescenza alla dittatura toscana: anzi, tutte le regioni della penisola hanno il dovere di concorrere a formare quella sintesi idiomatica che produrrà una nuova lingua nazionale (20). Il libro suscitò proteste e consensi: le prime, da parte dei puristi, indignati per la fla- grante profanazione della nostra integrità linguistica; i secondi, da parte dei rinnova- tori e di coloro che si credettero autorizzati, travisandone il contenuto, alla più sfre- nata libertà personale. Giudicando con maggior serenità, la critica contemporanea non solo vede nel Saggio sulla filosofia delle lingue uno dei tanti episodi della ribel- lione al gretto assolutismo dei tradizionalisti o un’esortazione a fuggire le smodera- tezze d’avanguardia, ma soprattutto vi riconosce la validità e la modernità di molte intuizioni, che preludono alle teorie sul linguaggio formulate durante il periodo del Romanticismo (21).

NOTE RELATIVE AL I° CAPITOLO

(1) Cfr. E. Bigi, La critica letteraria nella seconda metà del Settecento, in Poesie e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Cisalpino-Goliardica, Milano,

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1986, pp.174/202.

(2) Cfr. E. Bigi, Dal Muratori al Cesarotti, tomo IV°: Critici e storici della poesia e delle arti nel secondo Settecento, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960. (3) 1713-86. (4) Cfr. G. Gozzi, “Gazzetta veneta”, a cura di A. Zardo, Sansoni, Firenze, 1957, II edizione, con nuova presentazione di F. Forti. Cfr. anche Giornalismo letterario del Settecento, a cura di L. Piccioni, 2 voll., Utet, Torino, 1949. (5) Cfr. G. Gozzi, “Osservatore veneto”, a cura di E. Spagni, Firenze, Barbèra, 1924.

Cfr. anche Giornali veneziani del Settecento, a cura di M. Berengo, Feltrinelli, Milano, 1962. (6) Cfr. M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Laterza, Bari, 1968.

(7) Cfr. G. Gozzi, Giudizio degli antichi poeti sopra la moderna censura di Dante ingiustamente attribuita a Virgilio, in Scritti scelti, a cura di N. Mangini, Utet, Torino, 1960 o G. Gozzi, Difesa di Dante, a cura di M. G. Pensa, con introdu- zione di G. Petrocchi, Marsilio, Venezia, 1990. (8) 1718-1808. (9) Cfr. S. Bettinelli, Lettere virgiliane, in Lettere virgiliane e inglesi, Laterza, Bari, 1930. (10) Ibid. (11) Ibid. (12) Ibid.

(13) Ibid.

(14) Ibid.

(15) Ibid.

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(16) “Accademia dei Granelleschi”, 1757-62. (17) Carlo Gozzi (1720-1806). Cfr. C. Gozzi, Scritti, Einaudi, Torino, 1977.

(18) 1730-1808. (19) Cfr. M. Cesarotti, Poesie di Ossian, Einaudi, Torino, 1976.

(20) Cfr. M. Fubini, Il gran Cesarotti, La Nuova Italia, Firenze, 1949. (21) Cfr. W. Binni, Preromanticismo italiano, Laterza, Bari,1974, terza edizione.

CAPITOLO II°: GIUSEPPE BARETTI E “LA FRUSTA LETTERARIA” Spirito ribelle nel pieno significato della parola fu il torinese Giuseppe Baretti (1), giornalista non inferiore a Gasparo Gozzi. Sarebbe potuto diventare uno dei più

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grandi critici, ed invece l’impulsività, unita alla mancanza di una solida dottrina estetica, circoscrisse la portata della sua opera (2). Resta ad ogni modo il miglior critico, l’ingegno più agile, il pensatore più moderno dell’intero Settecento (3). Fuggito da casa a sedici anni per certi dissensi con la famiglia, riparò dapprima a Guastalla, nell’Emilia, presso uno zio, poi si recò in varie città dell’Italia setten- trionale, vivendo alla meno peggio, ma trovando il tempo per studiare e per com- porre piacevoli poesie d’intonazione bernesca (4). A Venezia fu accolto nella Ac- cademia dei Granelleschi e strinse amicizia con i fratelli Gozzi, a Milano parte- cipò alle prime riunioni dell’Accademia dei Trasformati. Nel 1751 andò a Londra, dove trascorse nove anni come addetto alla direzione del Teatro italiano: grazie al- la facilità con cui imparò l’inglese, potè dedicarsi all’insegnamento della lingua italiana ed alla pubblicazione dei testi tendenti a diffondere fra gli stranieri la co- noscenza della letteratura italiana, e seppe catturare la stima e l’amicizia di uomi- ni illustri. Nel 1760 la nostalgia per l’Italia lo spinse ad accompagnare un giovane inglese in un viaggio attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia. Si stabilì in seguito a Milano, dove divenne amico del Parini e cominciò a pubblicare la rela- zione dell’ampio giro turistico nelle vivaci Lettere familiari ai fratelli: si tratta di rapidi schizzi che hanno per fulcro la vita quotidiana, con i suoi piccoli avveni- menti ed il suo mutare di tonalità: il primo volume delle ‘Lettere’ ottenne un grande successo. Trasferitosi a Venezia, dovette superare numerosi ostacoli per dare alle stampe il secondo volume, tanto che rinunciò; in compenso, però, si ac- cinse all’impresa più impegnativa, con la fondazione di un quindicinale redatto soltanto da lui, “La frusta letteraria”. Questa presentava già nel titolo stesso il suo programma battagliero di ‘fustiga-

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zione’ dei cattivi libri, vecchi e nuovi, dei cattivi scrittori, antichi e moderni, nell’intento di scuotere la letteratura e di ridarle vigore. Con il suo significativo pseudonimo di Aristarco Scannabue, un immaginario soldataccio assistito dal cu- rato don Petronio Zamberlucco e dal servo Marcouf, Baretti pose mano alla meta- forica ‘frusta’ schiacciandola in faccia alla “celebratissima letteraria fanciullaggi- ne” (5) dell’Arcadia, ai cruscanti, agli oziosi versificatori, agli eruditi, “ai tanti

Goti e vandali, che dal gelato settentrione dell’ignoranza sono venuti a manomet-

tere, a vituperare e a imbarbarire il nostro bellissimo e gloriosissimo stivale” (6).

E’ chiaro che molti letterati, colpiti in pieno viso, sollevarono un notevole clamo-

re, cosicché il governo della Serenissima soppresse la rivista, accampando la scu-

sa di un articolo apparso sul numero 25 e considerato offensivo alla memoria del

Bembo. Il Baretti, tuttavia, non si scoraggiò, anzi, si rifugiò presso Ancona, dove

rese pubblica la sopraffazione subita per avere commesso “l’atroce delitto di pro-

vare che un gentiluomo di quella città, morto da più di due secoli, fu uno dei più

magri poeti d’Italia” (7). Dal 1° aprile al 15 luglio 1765 diede alle stampe altri ot-

to numeri del periodico, polemizzando soprattutto con quel padre Appiano Buo-

nafede, di Comacchio (8), che lo aveva assalito velenosamente nelle pagine del

Bue pedagogo.

Deluso e scoraggiato, l’anno successivo il Baretti riprese la via di Londra.

Serbava negli occhi la visione delle città da cui si era dovuto allontanare

e quando l’inglese Samuel Sharp osò diffondere alcune Lettere di viaggio

calunnianti l’Italia, si affrettò a rintuzzarlo con Una relazione degli usi e

costumi d’Italia, nella quale perorò la causa della cultura italiana, esaltò

l’intrinseca bontà dei compatrioti, addirittura ‘spezzò una lancia’ a favore

della Crusca. Il librò gli procurò tanta notorietà da farlo eleggere segretario

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della “Reale Accademia di Belle Arti” per la corrispondenza straniera.

Nel 1770 soggiornò brevemente in Italia, per poter rivedere i parenti e gli amici

più cari; quindi ritornò all’operosa vita londinese. Insieme con altri scritti mino-

ri, pubblicò un opuscolo francese d’importanza europea in cui insorse contro le

censure mosse a Shakespeare da Voltaire, un dizionario spagnolo ed inglese,

una Scelta di lettere familiari fatta per uso degli studiosi di lingua italiana.

Si spense nella capitale inglese il 5 maggio 1789.

Malgrado le sue intemperanze e i suoi difetti, ‘l’uomo Baretti’ riesce simpatico

a tutti coloro che gli si accostano. Gravi discrepanze si notano invece sul valore

della critica barettiana, con specifico riferimento a “La frusta letteraria”.

Abbiamo visto che Aristarco Scannabue è sceso in guerra contro “tutti questi

moderni goffi e sciagurati, che vanno tuttodì scarabocchiando commedie impu-

re, tragedie balorde, critiche puerili, romanzi bislacchi, dissertazioni frivole, e

prose e poesie d’ogni generazione, che non hanno in sé il minimo sugo, la mini-

ma sostanza, la minimissima qualità da renderle o dilettose o giovevoli ai leggi-

tori ed alla patria” (9). Sin qui un programma prevalentemente distruttivo; ma

sull’altro piatto della bilancia sta il programma che possiamo definire costrutti-

vo: l’esortazione ad una letteratura utile e morale, alla sincerità, alla concretez-

za, all’originalità creativa, ad uno stile semplice, dignitoso, logico, efficace.

Concetti forse un po’ teorici e non ordinati sistematicamente, ma chiari e ricchi

di buon senso.

Il vecchio Aristarco rappresenta il lettore moderno: è uomo d’azione, ruvida-

mente schietto, formatosi alla scuola dell’esperienza, pronto alla polemica ed

‘alla frusta’; nello stesso tempo è però ‘l’alter ego’ del Baretti, vale a dire fin

troppo impulsivo, un po’ presuntuoso, più di una volta incoerente a causa del-

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la sua insaziabile brama d’indipendenza, che lo rende ribelle a sé stesso ed agli

altri. Fu iconoclasta quanto il Bettinelli, sebbene di gran lunga più simpatico e

persuasivo. Spesso trascura volentieri il lato positivo della sua ‘crociata’ per il

puro piacere di ‘schioccare la frusta’ a dritta ed a manca, spesso cogliendo nel

giusto, ed in qualche caso colpendo fuori di posto.

E’ vero che stima “sublime, sublimissimo” (10) e “poeta de’ più grandi che

s’abbia il mondo” (11) il “tanto dolce, tanto soavissimo e tanto galantissimo

Metastasio” (12); è vero che considera “oscura, noiosa e seccantissima” (13)

La Divina Commedia; è vero che giudica “per lo più pessimo e studia-

tamente abbindolatissimo” (14) lo stile del Boccaccio; è vero che sferza con

inutile ostilità il Goldoni, “un pubblico avvelenatore” (15) che “sbaglia il vizio

per virtù” (16) e “si gode papalmente l’aura popolare” (17). In compenso è il

primo ad intuire la genialità del Cellini, ha spesso ragione quando si scaglia

contro il Bembo,i petrarchisti,gli àrcadi ed i poeti minori a lui contemporanei (18).

Prescindendo dal valore artistico e storico della critica barettiana, che in ogni ca-

so contribuì enormemente al rinnovamento letterario italiano, lo scrittore torine-

se va considerato un artista personalissimo e geloso della propria indipendenza

spirituale, uno dei nostri maggiori polemisti, un prosatore tuttora vivo e moder-

no. Molto ci sarebbe da dire sulla sua prosa, schietta, robusta, vigilata persino

nelle ripetizioni, circospetta nell’uso di parole di nuovo conio, mirabilmente

ricca di elementi aulici e popolani, di locuzioni veristiche e di toni immaginosi.

E’ una prosa che ci fa entrare in confidenza con il suo autore e ci fa dimenticare

alcune eccessive spavalderie del vecchio Aristarco Scannabue (19).

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NOTE RELATIVE AL II° CAPITOLO

(1) 1719-89.

(2) Cfr. M. Berengo, La società veneziana del ‘700, Sansoni, Firenze, 1960. (3) Cfr. G. Damerini, Il Settecento veneziano, Mondadori, Milano, 1939.

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(4) Cfr. M. Berengo, La società veneta alla fine del ‘700, Sansoni, Firenze, 1956. (5) Cfr. G. Baretti, “La frusta letteraria”, in Opere, a cura di L. Piccioni, in Scrit- tori d’Italia , Laterza, Bari, 1933. Cfr. anche G. Baretti, “La frusta letteraria” in Opere scelte, a cura di B. Maier, Utet, Torino, 1972, 2 voll. (è un’antologia di testi). (6) Ibid.

(7) Ibid. (8) 1716-93. (9) Cfr. G. Baretti, “La frusta letteraria” ..., cit. (10) Ibid.

(11) Ibid. (12) Ibid. (13) Ibid. (14) Ibid. (15) Ibid.

(16) Ibid. (17) Ibid. (18) Cfr. M. Cerruti - P. Trivero, Giuseppe Baretti: un piemontese in Europa, Atti del Convegno di Studi (Torino, 21-22 settembre 1990), Dell’Orso, Alessandria, 1993.

(19) Cfr. I. Crotti, Il viaggio e la forma: Giuseppe Baretti e l’orizzonte dei generi

letterari, Mucchi, Modena, 1992.

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CAPITOLO III°: “ IL CAFFE’ ” A MILANO

Sulla base delle nuove idee riformatrici, l’altra capitale dell’editoria, oltre a Venezia, fu Milano. Il caso de “Il Caffè” diventa esemplare solo quando lo si con- sidera come il più celebre episodio di una serie destinata a continuare in pubblica-

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zioni meno avventurose, più vicine alla formula del bollettino erudito o a quella della cronaca internazionale, basata sui dispacci ministeriali o sulle informa- zioni riprese dalle gazzette straniere; si possono ricordare, per il primo tipo, lo “Estratto della Letteratura europea”, diretto da Pietro Verri tra il 1776 ed il 1769, e, per il secondo, la “Gazzetta di Milano”, che Giuseppe Parini redasse, soprattut- to per ragioni di ordine economico, fino alla fine degli anni sessanta. A Milano ed in Lombardia, un moderato influsso illuministico si diffonde con il favore delle autorità centrali. I regni di Maria Teresa d’Austria (1) e di suo figlio Giuseppe II° (2) incarnano perfettamente i princìpi del dispotismo illuminato: lo Stato favorisce l’evoluzione delle istituzioni verso un moderno ed efficiente siste- ma politico, chiamando a far parte dell’apparato amministrativo tecnici qualifica- ti, provenienti dalle classi borghesi e nobiliari, rese in tal modo pienamente parte- cipi del piano di riforma. Tra i risultati più immediati di questa riforma, bisogna senz’altro ricordare la compilazione di un censimento generale delle proprietà e della popolazione (catasto), di concezione decisamente moderna, oltre alla aboli- zione dei privilegi feudali ed alla libertà di commercio, interno ed estero. Su questo sfondo si colloca l’attività della piccola compagnia di amici che iniziò a raccogliersi, a partire dai primi anni sessanta, nella casa milanese di Pietro Verri (3), primogenito di un’ illustre casata; il padre era un uomo retrivo e conservato- re, appartenente al senato della città. Dopo una giovinezza scapestrata, il Verri

aveva deciso di dedicarsi ai nuovi studi di economia ed all’esame di quella filoso- fia ‘pratica’ che riconosceva i suoi maggiori modelli nel pensiero francese con- temporaneo; si unirono dunque a lui il fratello più giovane, Alessandro (4), ed il marchese Cesare Beccaria (5), entrambi provenienti dagli studi di legge, ed altri giovani che legarono la loro opera alle più diverse discipline, tra i quali sembra

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doveroso ricordare almeno lo scienziato Paolo Frisi (6), uno dei maggiori esperti italiani di idraulica e cosmografia. Tra il 1764 ed il 1766 il gruppetto diede vita ad una rivista, “Il Caffè”, che suscitò grande scalpore per la combattiva affermazione di valori antitradizionali: il perio- dico si apriva alla discussione di grandi temi come di argomenti più circoscritti e specifici, dagli innesti del vaiolo ai fidecommessi (gli obblighi, imposti agli eredi, di conservare i beni e di trasmetterli, alla morte, ad una persona prestabilita), dalla riforma del diritto alla divulgazione scientifica, portando un notevole contributo a favore di una letteratura socialmente utile, il cui primo bersaglio polemico era da riconoscere nella mancanza di contenuti e nell’astrattismo dei “parolai” (7): “Cose, non parole” (8) era il motto de “Il Caffè”. Questa polemica volontà di in- tervento si manifestò in modo ancor più evidente nell’opera che il ventiseienne Cesare Beccaria pubblicò anonima nel 1764, Dei delitti e delle pene. Si trattava di

una breve, ma efficacissima sintesi, incentrata sul problema della legislazione criminale, che provocò un ripensamento generale da parte dei singoli Stati sulla questione, grazie alla forza precisa ed inconfutabile di un’argomentazione razio- nale e niente affatto retorica. Il libro di Beccaria, che conobbe un’enorme diffusione anche fuori d’Europa, re- sta il contributo più importante del pensiero italiano al movimento europeo delle riforme, e definisce insieme alcune caratteristiche fondamentali dell’Illuminismo lombardo: la volontà di tenersi lontani da ogni speculazione astratta, l’esigenza di un profondo impegno morale e l’attenzione ai problemi più importanti della vita civile. Dopo gli anni sessanta del Settecento, il gruppo perde la sua compat- tezza e così la sua straordinaria vitalità; ma, intervenendo in campi nei quali si erano ormai acquistati autorevoli competenze (molti tra gli uomini de “Il Caffè”

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intrapresero brillanti carriere nella pubblica amministrazione; Beccaria e Frisi fu- rono anche chiamati all’insegnamento universitario), gli illuministi lombardi la- sciarono un messaggio intellettuale e morale destinato a durare nel tempo, e ad essere ripreso con intenti analoghi, in età risorgimentale, dalla generazione di Manzoni e di Cattaneo. A “Il Caffè” Pietro Verri contribuì con quasi quaranta articoli e fu superato quantitativamente solo dal fratello Alessandro. Al centro dei suoi interessi era la lotta contro la vecchia cultura, che riconosceva presente sia nell’atteggiamento pedantesco di tanti suoi contemporanei, sia nel rifiuto opposto dalla scienza ad accettare le ultime, benefiche scoperte in campo medico, o nell’ottusa fiducia ac- cordata dagli uomini di legge alla loro tradizione plurisecolare. La satira è l’arma che Pietro maneggia più abilmente nel condurre la sua polemica, della quale va ancora una volta sottolineato il carattere pratico, che rende “Il Caffè” meno ori- ginale e spregiudicato rispetto agli esiti del contemporaneo pensiero anglosasso- ne (si pensi a “The Spectator” di Addison e Steele) o francese, ma sicuramente più utile all’attuazione di quelle riforme concrete che maggiormente premevano agli intellettuali italiani. La rivista che fece da portavoce al movimento illuministico lombardo ebbe breve vita: dal giugno 1764 al giugno 1766. La scelta di un’informazione che fosse an- che libero e piacevole intrattenimento, intuizione geniale di Pietro Verri per dare spazio ai molteplici e disordinati interessi dei suoi collaboratori, incontrò il favo- re del pubblico, ed una volta cessata la pubblicazione, ne vennero anche diffuse delle raccolte in volume. Nonostante questo suo carattere ‘leggero’, la rivista seppe farsi strumento fondamentale della battaglia per il rinnovamento, assecon- dando il carattere dei giovani compilatori nel gusto per l’intervento polemico,

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sferzante ed incisivo, sui difetti della società, e stimolandoli, allo stesso tempo, a farsi carico di problemi di ampia portata sociale e civile, quali i già citati fide- commessi, innesto del vaiolo e questioni di economia e commercio, interno ed esterno. Nel primo numero (9), presentando il programma del periodico, Pietro Verri ci fa entrare nel vivo di quella conversazione tra amici che fu l’ “Accademia dei Pugni”, formata nel 1762 con l’esplicito battagliero intento di ‘tendere i pugni’ verso coloro che osteggiavano le idee innovatrici ed il progresso sociale. Anche l’ “Accademia dei Pugni” ebbe centro propulsore a Milano. L’ambientazione e la presentazione del luogo nel quale avvengono i colloqui, appunto “Il Caffè”, aper- to a Milano dal greco Demetrio, risponde perfettamente a questa esigenza, stabi- lendo un dialogo immediato con il lettore: i contributi dei collaboratori saranno infatti spesso intercalati da battute di conversazione, commenti ed osservazioni còlte al volo nella vivace bottega di Demetrio. Alla rivista, Beccaria contribuì con un numero di articoli relativamente esiguo, se confrontato con quello dei fratelli Verri; ma, considerando i caratteri propri della sua scrittura, lenta e faticosa, e l’impegno appena concluso per la stesura di Dei delitti e delle pene, i suoi sette contributi (cinque per la prima annata, due per la seconda), non appaiono irrilevanti. Gli argomenti sono svariati: due testi trattano di calcolo delle probabilità, un altro anticipa la materia delle Ricerche intorno alla natura dello stile, gli altri presentano, conformemente allo spirito più caratteristico del periodico milanese, divagazioni su temi vari e curiosi, dai “Piaceri dell’immaginazione” agli “Odori”. Uno dei contributi più notevoli offerti da Beccaria a “Il Caffè” si presenta come un’autorevole definizione del giornalismo antitradizionale settecentesco. Lo

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autore fa esplicito riferimento (10) al significato sociale assunto dal diffon- dersi dei giornali, che ha coinvolto anche il pubblico femminile. Importante è la complessa considerazione sul ruolo del giornalista: il suo compito è quello di istruire i lettori, funzione difficile da adempiere e di notevole responsabilità, che deve essere assolta cercando, al tempo stesso, di interessare e divertire il proprio pubblico. L’opera per la quale Beccaria è universalmente conosciuto è però indiscutibil- mente Dei delitti e delle pene, in cui affronta il problema della giustizia; i capi- toli più rilevanti sono quelli relativi alla tortura (11) ed alla pena di morte (12). Sulla prima, sostiene che si tratta di una pratica barbara, che non serve per sape- re la verità su un eventuale crimine commesso dall’imputato, in quanto la tortura mette solo alla prova la fibra muscolare di una persona, che, se forte, resisterà ai supplizi e tacerà la verità, se debole, pur di non sottoporsi al dolore, dirà tutto, an- che il falso. Di fronte ad un reato, l’imputato può essere considerato innocente, colpevole o di dubbia colpevolezza. Nel primo caso va rilasciato, nel secondo dev’essere considerato come innocente, perché non si può condannare un incerto colpevole, mentre, afferma Beccaria, se l’imputato è colpevole dev’essere giudicato secondo le leggi, e sono inutili i tormenti. L’innocente è inoltre, in questo caso, più svantaggiato del reo, perché può essere dichiarato innocente dopo essere stato torturato, mentre il colpevole, se viene dichiarato innocente dopo la tortura, ha cambiato una pena maggiore con una minore, ed è risultato perciò avvantaggiato. La tortura, conclude Beccaria, avvantaggia quindi i colpevoli, che in altro modo potrebbero essere giustiziati. Nelle ultime pagine del suo saggio, l’autore si cimenta sul problema della pena di morte ed afferma che è documentato che essa non fa diminuire la delinquenza; i

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delitti vanno prevenuti mediante l’educazione, e non repressi, perché con la re- pressione lo Stato si macchia dello stesso reato che condanna. Sono, queste, pagi- ne, quindi, di intenso valore pedagogico. Potenti mezzi educativi sono per Becca- ria lo stimolo ad un lavoro fruttifero e l’istruzione obbligatoria. Si noti infine che Beccaria non combatte la tortura e la pena di morte facendo ap- pello al sentimento umano di pietà, ma da vero illuminista, adducendo motivazio- ni condotte in forma rigidamente razionale. Ne “Il Caffè” si discuteva anche di agricoltura e di influssi lunari, di morale, mu- sica, letteratura italiana, poste e vita in campagna, insomma, degli argomenti più disparati. Si può considerare una sorta di campionario di enciclopedia popolare. Nel complesso, gli articoli erano dettati da un ‘internazionalismo’ che subiva lo influsso delle dottrine razionalistiche francesi, anche se si può segnalare che in un numero del terzo semestre trovò posto lo scritto “Della patria degli italiani” (13), nel quale l’erudito Gian Rinaldo Carli di Capodistria (14) biasimava lo scarso pa- triottismo del popolo e le insane lotte campanilistiche. “Il Caffè” veniva pubblicato regolarmente ogni dieci giorni, ma per evitare noie con la censura milanese,si stampava a Brescia, cioè nel territorio della Repubblica di Venezia. Pur non preoccupandosi di formare una coscienza nazionale, la rivista vi concorse indirettamente, come si può vedere dal citato articolo di Carli. Come si è detto, il più fecondo ed originale redattore del periodico milanese fu Alessandro Verri, che in gioventù aderì entusiasticamente all’enciclopedismo francese e partì all’attacco del purismo linguistico, ma che dopo un viaggio a Lon- dra e dopo essersi stabilito a Roma cambiò rotta, sia disapprovando la cultura di oltralpe, sia professandosi un classicista. Frutto di questa metamorfosi furono i ro- manzi Avventure di Saffo poetessa di Mitilene, Vita di Erostrato e Le notti roma-

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ne al Sepolcro degli Scipioni. In quest’ultimo, di gran lunga migliore rispetto agli altri due, l’autore immagina di essersi recato a visitare la tomba degli Scipioni, scoperta nel 1780 sulla via Appia; ed ecco apparirgli nel buio le ombre dei più il- lustri romani (Cesare, Cicerone, Bruto), che in un serrato colloquio discutono vari problemi politici, quali la libertà, la tirannide e le forme di governo. Le conversa- zioni si protraggono per sei notti; però, nella sesta,il Verri guida le ombre attraver- so la Roma moderna e le invita a confrontarla con l’antica. Da qui ne trae origine la conclusione didascalica del libro, che si chiude appunto con l’affermazione del- la Chiesa cattolica sull’impero romano. L’opera ottenne un grande successo, tanto da essere tradotta in sei lingue e da suggerire non poche imitazioni; tuttavia, ai no- stri occhi, appare stucchevole per il manierismo espressivo, per il tono declamato- rio, per la magniloquenza dello stile. Suo sicuro pregio è quello di aver fuso un tema derivato dalle Noctes acticae di Aulo Gellio con l’atmosfera classica di Ro- ma e con il fascino della poesia sepolcrale inglese, diffusasi in Italia per mezzo dei Pensieri notturni di Edward Young, dando così inizio ad una tipica corrente del preromanticismo italiano (15). Il fratello Pietro Verri si dedicò a vari problemi di filosofia, economia, scienza del- le finanze, storia, pedagogia. Scrisse il Discorso sulla felicità, il saggio sulle Cause della grandezza e decadenza del commercio di Milano, le note Osservazioni sulla tortura, in cui condannò le atrocità commesse dai rappresentanti della legge quan- do volevano strappare una confessione agli imputati, collegandosi, in tal modo, al senso generale dell’opera di Beccaria (16), che era arrivato a propugnare un nuovo codice penale: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il riconoscimento di tutti i mezzi di difesa per l’imputato, la riduzione del carcere preventivo al minimo indispensabile, l’abolizione degli arbìtri e delle frodi nell’indagine giudiziaria, la

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proibizione della tortura, la netta scissione dell’ufficio del giudice da quello di pub- blico accusatore, la formulazione di leggi chiare e precise per impedire qualsiasi sopruso nell’applicarle. La riforma va oltre la procedura: con uno stile chiaro,lo au- tore auspica pene adeguate alle colpe e, in ogni caso, commisurate con il danno su- bito dal consorzio umano, la soppressione della pena capitale, l’istituzione della “servitù vincolante” (17), simile ai lavori forzati,affinché il condannato possa risar- cire la società. Si può infine sostenere che i nuovi orizzonti nel campo speculativo e negli ordina- menti politici, sociali ed economici aperti da “Il Caffè” e dalla bramosia di riforme che caratterizza il secondo Settecento, offrirà linfa vitale al Romanticismo nel seco- lo immediatamente successivo, che riprenderà dall’Illuminismo il motivo della li- bertà per affermare il senso della storia (18).

NOTE RELATIVE AL III° CAPITOLO (1) 1740-80. (2) 1780-90.

(3) 1728-97. (4) 1741-1816.

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(5) 1738-94. (6) 1728-84.

(7) Cfr. “Il Caffè”, edizione integrale a cura di S. Romagnoli, Feltrinelli, Mila- no, 1960. (8) Ibid. (9) Ibid. (10) Ibid. (11) Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. XII°, a cura di F. Venturi,

Einaudi, Torino, 1965.

(12) Ibid., capp. XXVIII° e XLI°. (13) Cfr. “Il Caffè” ..., cit. (14) 1720-95. (15) Cfr. F. Cicoira, Alessandro Verri, Pàtron, Bologna, 1982.

(16) Cfr. N. Voleri, Pietro Verri, Le Monnier, Firenze, 1969, II edizione. (17) Cfr. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ..., cit. (18) Cfr. F. Venturi, Settecento riformatore. Da Muratori a Beccaria, Einaudi, Torino, 1969, II edizione ( in particolare il capitolo “La Milano de << Il Caffè >>”, pp. 523 e sgg.). Lo studio del Venturi offre un ampio panorama sulla vita culturale italiana nell’ultimo scorcio del XVIII° secolo.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE In questo lavoro si è voluto dapprima insistere sull’importanza e la funzione del giornalismo nel Settecento e sul ruolo dell’intellettuale, in riferimento alla con- temporanea crisi del mecenatismo, che tuttavia non è ancora finito, anche se, proprio grazie alle riviste, il pubblico,numericamente,si allarga ed il ‘700 diventa

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il secolo in cui la verità è patrimonio di tutti, e non più di una ristretta ‘elite’(1). In seguito si sono esaminate, sia pure per linee generali, le differenze tra lo Illu- minimo veneziano e quello milanese, per parlare poi dei vari ‘Magazzini’, come il “Magazzino universale”, che trova riferimenti ne “The Spectator” inglese. Dopo questa premessa sull’ accresciuta circolazione di idee nel secolo dei lumi, si è concentrata l’attenzione su Gasparo Gozzi e sulle riviste venete, quali la “Gazzetta Veneta” e l’ “Osservatore veneto”. Di seguito, parlando dei riflessi della nuova cultura a Venezia, si è affrontata la polemica tra la cosiddetta ‘Dife- sa di Dante’ di Gasparo Gozzi e le Lettere virgiliane di Saverio Bettinelli sulla lingua ed il petrarchismo. Si è concluso il primo capitolo del presente lavoro con alcuni cenni su Carlo Gozzi e l’ “Accademia dei Granelleschi”, per approdare in- fine alla ‘modernità’ del pensiero di Melchiorre Cesarotti. Si sono dedicati gli altri due capitoli della tesi, rispettivamente, a Venezia ed a Milano, capitali dell’editoria in Italia, per trattare “La frusta letteraria” nella Se- renissima e “Il Caffè” a Milano. Nel secondo capitolo, in particolare, ci si è con- centrati sull’attività letteraria e sullo spirito polemico di Giuseppe Baretti, consi- derando il programma della rivista, l’atteggiamento scandalistico del pubblico per le accuse mosse da Baretti a Bembo e la conseguente censura della rivista da parte del governo veneziano. In seguito, il giornale riprende la sua attività e na- scono nuove polemiche del Baretti con Appiano Buonafede, autore del Bue pe- dagogo, contro Aristarco Scannabue, protagonista de “La frusta letteraria”. Le polemiche di Baretti non sono finite: nel ‘periodo londinese’ polemizza con Samuel Sharp, che aveva accusato la cultura italiana. E’ stato interessante nota- re, in proposito, come un polemista come Baretti arrivi persino a difendere, con- tro la cultura straniera, l’ “Accademia della Crusca”! L’Arcadia è stroncata da

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Baretti ne “La frusta letteraria” come una “fanciullaggine di corbellerie” (2), in- sieme a Crescimbeni e Zappi, definiti “zuccherosi sentimentaloidi” (3), autori di una “poesia eunuca” (4). Si è conclusa la trattazione su “La frusta letteraria” con alcune considerazioni sulla figura di Aristarco Scannabue, intesa come proiezione e ‘momento autocritico’, al tempo stesso, del Baretti medesimo. Nell’ultimo capitolo della presente ricerca, il terzo, si è parlato infine della na- scita e del programma della rivista “Il Caffè”, e ci si è quindi geograficamente spostati a Milano, città in cui la cultura illuministica, come si è visto, ha una diversa connotazione rispetto a Venezia. Si sono esaminati pochissimi ‘fogli’ del giornale, relativi ad articoli di Pietro Verri, il maggior sostenitore del perio- dico, e di Cesare Beccaria, del quale si sono considerati anche alcuni capitoli del suo celeberrimo trattato Dei delitti e delle pene. Si è collegata tale disamina alle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, fratello di Alessandro. Pietro Verri, in quest’opera, ricostruisce il ‘processo agli untori’ ed affronta quindi il problema della giustizia criticando fortemente il Seicento. Tale ‘pro- cesso’ sarà oggetto delle pagine manzoniane de I Promessi Sposi e della Storia della colonna infame. La storia viene letta da Verri come un’alternanza di luci ed ombre ed il ‘600 viene stroncato. Lo stesso Verri, nel 5° foglio de “Il Caffè” (5), difende invece la commedia goldoniana dalle accuse del Baretti: l’arte goldoniana è per Verri autentica moralità presentata in veste sensibile, mentre Baretti, ne “La frusta letteraria”, aveva considerato Goldoni basso ed immorale. In modo particola- re, Baretti critica Pamela come una serva furba, che vuole sposare il figlio della propria padrona morta,solo per volgari motivi economici. Pamela è considerata una serva abilissima che utilizza l’arma della virtù in senso decisamente immorale (6). In questo contesto di fine secolo assume valore il romanzo di Alessandro Verri,

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fratello di Pietro; il romanzo conosce un periodo di brillantezza. Da questo punto si muoverà il Romanticismo: ossia la ‘luce’ verso il ‘buio’, inteso come zona legittima della coscienza. Quando Baretti scrive questo, Venezia è ‘tutta goldoniana’, perché l’abate Pietro Chiari nel 1764 ha smesso di scrivere per il teatro e scrive solo romanzi: il pubblico veneziano non è più diviso tra ‘chiaristi’ e ‘goldoniani’ e questo suscita le ire del Baretti su “La frusta letteraria”. Quello che si è voluto dimostrare, con la presente dissertazione, è che il Settecen- to non è solo il secolo dei ‘lumi’ e delle riforme, ma anche il secolo in cui si sor- gono i germi per la nascita del Romanticismo nel secolo successivo, perché si difende, nel proficuo spirito polemico di un Baretti, anche la cultura e la lingua italiana e ne “Il Caffè” si combatte per la libertà, idea del Romanticismo (7). Desidero infine ringraziare la Prof. ssa Roberta Turchi, che mi ha cortesemente e pazientemente seguito in questo lavoro ed alla quale debbo moltissimo per la mia formazione intellettuale.

NOTE RELATIVE ALLE CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

(1) Cfr. Voltaire A. F. M., voce “Lettere, uomini di lettere o letterati”, in Dizio- nario filosofico, a cura di R. Lo Re e L. Sosio, Rizzoli, Milano, 1982, I° vol.,

pp. 296/298.

(2) Cfr. G. Baretti, “La frusta letteraria”, in Opere, a cura di L. Piccioni, in Scrit-

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tori d’Italia , Laterza. Bari, 1933 o in Opere scelte, a cura di B. Maier, Utet, Torino, 1972 (antologia in 2 voll.). (3) Ibid. (4) Ibid. (5) Cfr. P. Verri, “La commedia”, in “Il Caffè (1764-1766)”, a cura di G. Fran- cioni e S. Romagnoli, Bollati Boringhieri, Torino, 1993, pp. 50-56. (6) Cfr. G. Baretti, “Pamela fanciulla”, in “La frusta letteraria”, a cura di L. Piccioni, Laterza, Bari, 1932, vol. II°, pp. 29/41.

(7) Cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Orsa Maggiore, Torriana, (Fo), 1988, II° vol., cap. XX°, pp. 663/442.

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INDICE GENERALE Introduzione ....................................................................................p. 5 Note relative all’Introduzione..........................................................p. 5 Capitolo I°: Riflessi della nuova cultura a Venezia.........................p. 6 Note relative al I° capitolo...............................................................p. 12

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Capitolo II°: Giuseppe Baretti e “La frusta letteraria”.....................p. 14 Note relative al II° capitolo..............................................................p. 19 Capitolo III°: “Il Caffè” a Milano....................................................p. 21 Note relative al III° capitolo............................................................p. 29 Considerazioni conclusive...............................................................p. 30 Note relative alle Considerazioni conclusive...................................p. 33 Bibliografia A) Fonti primarie.............. ........................................p. 34

B) Letteratura critica........ ..........................................p. 35 C) Testi di riferimento.... ......................................... .p. 36 D) Opere di carattere generale consultate....................p. 36

Indice generale...................................................................................p. 38