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31 31 Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VI - N. 31 -Settembre-Ottobre 2000 L’aquila d’Europa Francesco Giuseppe I: sovrano esemplare di un Impero provvidenziale La battaglia dei Campi Raudi Il determinismo storico e la libertà La Weltanschauung veneta Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli

Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana Anno VI - N ... · Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada, Claudio Caroli, Marcello Caroti, Giorgio Cavitelli, Sergio Cecotti, Massimo

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3131Bimestrale edito dalla Libera Compagnia Padana

Anno VI - N. 31 -Settembre-Ottobre 2000

✓L’aquila d’Europa

✓Francesco Giuseppe I: sovrano esemplare di un Impero provvidenziale

✓La battaglia dei Campi Raudi

✓Il determinismo storico e la libertàLa Weltanschauung veneta

✓Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli

La Libera

Compagnia

Padana

I «Quaderni Padani» raccolgono interventi di aderenti alla “Li-bera Compagnia Padana” ma sono aperti anche a contributidi studiosi ed appassionati di cultura padanista. Le proposte vanno indirizzate a: La Libera Compagnia Padana.

Il significato di Lepanto - Brenno 1Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli - Silvano Straneo 3Il determinismo storico e la libertà La Weltanschauung veneta - Eugenio Fracassetti 14Se il libero mercato diventa ideologia - Davide Gianetti 18L’aquila d’Europa - Gilberto Oneto 20Franceso Giuseppe I: sovrano esemplare di un Impero provvidenziale - Massimo de Leonardis 29Claudia Augusta - Giulio Pizzati 36La battaglia dei Campi RaudiPadania 101 a.C.: i Cimbri contro le legioni romane - Lamberto Sarto 43Adda: fiume, campo di battaglia, confine - Elena Percivaldi 49Manifesto per l’indipendenza della Romagna - Alessandro Barzanti 52Biblioteca Padana 55

Periodico Bimestrale Anno VI - N. 31 - Settembre-Ottobre 2000

Quaderni PadaniCasella Postale 55 - Largo Costituente,4 - 28100 NovaraDirettore Responsabile:Alberto E. CantùDirettore Editoriale:Gilberto OnetoRedazione:Alfredo CrociCorrado GalimbertiFlavio GrisoliaElena PercivaldiAndrea RognoniGianni SartoriCarlo StagnaroAlessandro StortiGrafica:Laura GuardinceriCollaboratoriFrancesco Mario Agnoli, Ettore A. Alberto-ni, Giuseppe Aloè, Camillo Arquati, Loren-zo Banfi, Fabrizio Bartaletti, AlessandroBarzanti, Alina Benassi Mestriner, ClaudioBeretta, Daniele Bertaggia, Dionisio DiegoBertilorenzi, Vera Bertolino, FiorangelaBianchini Dossena, Diego Binelli, RobertoBiza, Giorgio Bogoni, Fabio Bonaiti, LuisaBonesio, Giovanni Bonometti, RomanoBracalini, Nando Branca, Luca Busatti,Ugo Busso, Giulia Caminada Lattuada,Claudio Caroli, Marcello Caroti, GiorgioCavitelli, Sergio Cecotti, Massimo Centini,Enrico Cernuschi, Gualtiero Ciola, CarloCorti, Michele Corti, Mario Costa Cardol,Giulio Crespi, PierLuigi Crola, Mauro Dal-l’Amico Panozzo, Roberto De Anna, Mas-simo de Leonardis, Alexandre Del Valle,Corrado Della Torre, Alessandro D’Osual-do, Marco Dotti, Leonardo Facco, Rosan-na Ferrazza Marini, Davide Fiorini, AlbertoFossati, Eugenio Fracassetti, Sergio Fran-ceschi, Carlo Frison, Giorgio Fumagalli,Pascal Garnier, Mario Gatto, Ottone Ger-boli, Michele Ghislieri, Davide Gianetti,Giacomo Giovannini, Michela Grosso,Paolo Gulisano, Joseph Henriet, ThierryJigourel, Matteo Incerti, Eva Klotz, AlbertoLembo, Pierre Lieta, Gian Luigi LombardiCerri, Carlo Lottieri, Pierluigi Lovo, SilvioLupo, Berardo Maggi, Andrea Mascetti,Pierleone Massaioli, Ambrogio Meini, Cri-stian Merlo, Ettore Micol, Alberto Mingar-di, Renzo Miotti, Aldo Moltifiori, MaurizioMontagna, Giorgio Mussa, Andrea Olivel-li, Giancarlo Pagliarini, Alessia Parma, GiòBatta Perasso, Mariella Pintus, DanielaPiolini, Giulio Pizzati, Francesco Predieri,Ausilio Priuli, Leonardo Puelli, Laura Ran-goni, Igino Rebeschini-Fikinnar, GiulianoRos, Maurizio G. Ruggiero, Sergio Salvi,Oscar Sanguinetti, Lamberto Sarto, Gian-luca Savoini, Massimo Scaglione, LauraScotti, Marco Signori, Stefano Spagocci,Silvano Straneo, Giacomo Stucchi, Candi-da Terracciano, Mauro Tosco, ClaudioTron, Nando Uggeri, Fredo Valla, GiorgioVeronesi, Antonio Verna, Alessio Vezzani,Eduardo Zarelli, Antonio Zòffili.Spedizione in abbonamento postale:Art. 2, comma 34, legge 549/95Stampa: Ala, via V. Veneto 21, 28041Arona NORegistrazione: Tribunale di Verbania: n.277

Il 7 ottobre del1571, proprio 429anni fa, la flotta

cristiana sconfiggevaquella turca liberandoi mari meridionalid’Europa da una scia-gura che da tempo liinfestava.

Il significato milita-re di quella battaglia èchiaro: i Turchi inva-sori sono stati fermatisul fronte marittimo,su quello terrestre cipenseranno da lì a po-chi decenni i coman-danti imperiali Mon-tecuccoli e PrincipeEugenio a contenerela marea musulmanae a cominciare a ri-cacciarla nelle sue ta-ne anatoliche.

Ma sono i significatipolitici dell’episodioche sono molto piùinteressanti.

L’Europa cristianasi stava scontrandocon l’Islam in unaguerra che durava al-lora – praticamentesenza interruzione –da nove secoli e cheoggi (dopo una appa-rente interruzione) stà riprendendo secondo loschema di sempre: i Musulmani che attaccano iCristiani con il solito repertorio di violenze, cru-deltà e inganni.

La composizione delle forze cristiane in que-sta lotta millenaria non è sempre stata la stessa:risulta piuttosto interessante vedere come eranocambiati al tempo di Lepanto gli attori rispetto– ad esempio - alle Crociate che avevano impe-gnato l’Europa alcuni secoli prima. È significati-vo esaminare la composizione della flotta cri-stiana. Delle 208 navi, ben 110 erano veneziane

(di cui 30 cretesi), 22erano genovesi, 3 pie-montesi, 12 toscane(dell’Ordine di SantoStefano), 9 dei Cava-lieri di Malta, 8 ponti-ficie e 44 imperiali (dicui ben 36 napoletanee siciliane).C’erano ancora le re-pubbliche marinarepadane (Genova e, so-prattutto, Venezia),c’era l’Impero (alloraispano-tedesco degliAsburgo e non piùfranco), c’erano gliordini militari (Maltae Santo Stefano), c’e-ra quello che restavalibero del mondo gre-co-ortodosso (Candia)e c’era, naturalmente,la Chiesa Cattolica afare da guida e collan-te spirituale. La prima considera-zione riguarda gli as-senti. C’erano i catto-lici, ma non tutti. Al-cuni – ampiamentegiustificati – comeAustriaci, Tedeschi,Polacchi e Ungheresi– erano pesantementeimpegnati sul fronte

di terra e, in ogni caso, non avevano alcuna peri-zia o forza marinara. La Francia era clamorosa-mente assente (i soli Francesi presenti si trova-vano sulle galere maltesi) per un gioco infingar-do di ammiccamenti, miopi opportunismi estrane alleanze. La Francia era sempre stata inprima linea prima nella lotta contro l’Islam (daPoitiers alle Crociate) e tornerà ad esserci inBarberia solo dopo il sanguinoso dramma dellarivoluzione, che può anche essere visto comeuna sorta di punizione per il tradimento dellacausa cristiana.

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Il significato di Lepanto

Stendardo personale dell’imperatore Carlo V nelquale campeggiano le immagini di Dio Padre,di Santiago Matamoros (San Giacomo “ucciso-re di musulmani”), l’aquila bicipite imperialefra le Colonne d’Ercole, San Pietro e il motto“Plus Ultra”.

C’erano i pochi ortodossi ancora liberi nei ter-ritori veneziani: tutti gli altri soffrivano sottol’oppressione turca le cui vittorie (quella di Co-stantinopoli prima di tutte) erano in gran parteavvenute proprio per le divisioni fra ortodossi, efra ortodossi e cattolici.

Non c’erano i protestanti che avevano diviso laCristianità e che si erano chiamati fuori da que-sta lotta per l’Europa: e Lutero aveva addiritturasostenuto – fra le tesi degli esordi della sua “car-riera” – che: “È peccato resistere ai Turchi, per-ché la Provvidenza si serve di questa nazioneinfedele per punire le iniquità del suo popolo”,intendendo, ovviamente, quello cristiano. Piùtardi si pentirà di questo suo criminale disimpe-gno scrivendo addirittura due libri: Preghieracontro il Turco, e Della guerra contro i Turchi.Ma il guaio era ormai fatto e la divisione nelcampo cristiano aveva sottratto enormi energiealla guerra in difesa dell’Europa. Questo disim-pegno non risparmierà i protestanti dalla ferociaislamica che dovranno affrontare nel XVII secolosulle coste di casa e con grandi sforzi militaridelle loro flotte, soprattutto inglese e olandese.

La morale che si trae da quella vicenda cosìlontana e così vicina è che le divisioni d’Europasono la sola vera forza dei suoi nemici. Per i se-coli successivi questo sarà drammaticamente ve-rificato in due spaventose guerre fratricide e conla perdita di quella funzione di civiltà-guida e disupremazia economica e culturale che l’Europaaveva mantenuto per millenni. Oggi il vecchiocontinente stà subendo un altro attacco mortaleche viene portato congiuntamente da mondiali-sti e da islamici e non è più in grado – proprio acausa delle sue divisioni non più solo religiose –di difendersi e di evitare il ripetersi di altre si-tuazioni umilianti come quella del Kossovo.

In particolare Lepanto ha speciale valore pro-prio per la Padania. Erano padane quasi tutte lenavi della flotta cristiana, erano padani i coman-danti più importanti, era padano Pio V, il ponte-fice che era riuscito a mobilitare e a tenere unitele forze europee. Non solo: erano padani anche idue più valorosi ed efficaci comandanti delle ar-mate imperiali in lotta contro i Turchi, il Princi-pe Eugenio di Savoia e Raimondo Montecuccoli.La Padania era in primissima fila in quella lottamortale e non è azzardato affermare che unabella fetta del merito di avere salvato l’Europa inquel frangente vada proprio ai Padani.

Cosa resta oggi dello spirito di Lepanto? GliEuropei sono divisi più di prima e soprattuttonon sembrano - almeno in occidente - avere la

forza e la voglia di combattere per la difesa dellaloro civiltà. Forse stanno un po’ meglio – alme-no dal punto di vista dell’autostima e dell’istintodi sopravvivenza – solo i popoli cattolici e orto-dossi che si sono da poco liberati dall’oppressio-ne comunista. I Cavalieri di Malta che imperso-navano il più indomito spirito di difesa della cri-stianità hanno subito un identico processo didecadenza: oggi si dedicano a canaste e tazzinet-te benefiche. Ma, quel che è peggio, non c’è piùla Chiesa alla guida della comunità dei popolieuropei: un Papa ha restituito ai Turchi lo sten-dardo conquistato a Lepanto, un altro bacia ilCorano. Qua e là si leva qualche guizzo di vita-lità ma si tratta di segnali troppo deboli che nonpermettono di presagire a tempi brevi una ripre-sa di autorevolezza e di energia.

In Padania non va meglio: Roma ha devastatoVenezia e Genova, le ha ridotte a ruderi turisticisporchi e assistiti, le ha riempite di quei sarace-ni che le due città avevano tenuto lontano persecoli da tutta l’Europa. E questa sembra essereproprio la circostanza più pericolosa: gli Islami-ci sono ormai in casa nostra, all’interno dellemura delle nostre città. Si sono insinuati conl’inganno nella sola porzione di Europa meri-dionale dove non erano mai riusciti ad arrivarein armi. Si organizzano in comunità aggressivee numerose, costruiscono strutture di devasta-zione culturale e religiosa, continuano a trave-stirsi da agnellini e da diseredati, e lo farannofinchè non saranno in grado di impadronirsi delterritorio e di distruggere la nostra civiltà ine-betita dal falso benessere e dal buonismo piùdevastante. Sono - se possibile – anche peggioridei loro vecchi che sbarcavano roteando scimi-tarre.

Cosa significa oggi invocare lo spirito di Le-panto? Significa che, se ha senso lottare, si develottare. Che, se amiamo questa terra e le nostrelibertà, si deve fare di tutto per preservarle. Che,se riteniamo che questa civiltà cristiana sia –pur in questa sua fase decadente e incitrullita -la migliore delle civiltà possibili, dobbiamo com-battere chi la vuole distruggere, siano essi sara-ceni, foresti d’altro genere o autoctoni rinco-glioniti. Liberiamo la Padania dai nuovi Turchi edai loro manutengoli italioni e mardani. Se ladifesa dell’Europa si basa – come ci hanno inse-gnato quattordici secoli di storia – in larga parteanche sulla difesa della nostra terra, ricostruia-mo con solide mura il bastione padano della for-tezza europea.

Brenno

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PremessaUna svolta importante nel pensiero occidenta-

le, avvenuta a cavallo fra l’Otto e il Novecento, èstata la fine del determinismo di matrice illumi-nistica settecentesca, prima nell’ambito dellescienze fisico-matematiche, e poi, di riflesso, inquello socio-economico e in filosofia. Lo spiritodel determinismo è sintetizzato molto bene dal-le parole del matematico francese Pierre-SimonLaplace: “Datemi le condizioni dell’universo inun dato istante, insieme con sufficiente potenzadi calcolo, e io vi dirò in che condizioni esso sitroverà in un qualsiasi istante futuro”.

Mentre Laplace credeva di possedere la chiavedell’universo fisico, altri pensatori, questa voltasociologi ed economisti, di cui Karl Marx è ilpiù celebre ma non certo l’unico, stabilivanoper le società umane leggi evolutive e modelliche immancabilmente si sarebbero realizzati ri-solvendo una volta per tutte i mali che da sem-pre hanno afflitto l’umanità. Inutile dire che larealtà, naturale e sociale, ha presto provvedutoa calmare la baldanza di tutti quanti, decretan-do così la fine dei tentativi di inquadrare la na-tura e, ciò che qui più interessa, le società uma-ne, all’interno di teorie che stabilissero definiti-vamente i meccanismi del loro divenire. Se con‘ideologie’ intendiamo le varie costruzioni dipensiero, spesso peraltro di grande pregio intel-lettuale, che fornivano la base teorica a tali ten-tativi, possiamo equivalentemente parlare di fi-ne delle ideologie.

Il binomio mondialismo-identità dei popolinon sfugge all’impotenza del prevedere qualesarà la strada che le società umane imbocche-ranno sotto la spinta delle nuove tecnologie edegli interessi economici e politici soggiacenti.

Scopo di queste note è allora quello di forni-re, se possibile, dati e argomenti che servano atenere sotto controllo l’evolversi dei fatti, farequalche previsione a breve termine, capire qualisiano i margini d’azione per incidere sugli avve-nimenti e rompere la coltre dell’informazione

ufficiale (media, scuola, governi) che tende a farapparire ’ineluttabile’, ‘naturale’, ‘nella realtàdelle cose’ una determinata linea di sviluppopiuttosto che un’altra, mentre invece la storiaha mostrato di svolgersi come un magma mobi-le sempre pronto a rimescolarsi e il cui puntod’arrivo non è determinabile a priori.

Il fattore tecnico informaticoIl rapido sviluppo dell’informatica, con gli

strumenti tecnici che mette a disposizione, gio-ca un ruolo importante negli aspetti economici,culturali e politici che riguardano il binomiomondialismo-identità.

I primi calcolatori elettronici nascono in In-ghilterra e Stati Uniti negli anni ’40, durante laseconda guerra mondiale, per esigenze militari(sistemi di puntamento, cifratura). Grazie an-che agli sviluppi della fisica, conoscono un’evo-luzione rapidissima, passando dalle valvole invetro ai transistor, fino agli attuali circuiti inte-grati. Capacità sempre maggiori di memorizza-zione e potenza di calcolo li rendono presto in-dispensabili nell’ambito della ricerca scientificae nelle grandi strutture pubbliche e private,mentre il successivo calo dei costi e delle di-mensioni li introducono poco alla volta nellecase private. Le reti di calcolatori permettono apiù macchine di comunicare tra loro scambian-dosi dati e distribuendo la potenza di calcolo.

L’embrione di ciò che sarebbe diventato Inter-net nasce ai tempi della guerra fredda (1973) daun progetto della Advanced Research ProjectsAgency del ministero della Difesa degli StatiUniti. L’esigenza da soddisfare è quella di unarete in grado di funzionare ancora, anche secon prestazioni ridotte, qualora una parte di es-sa venga distrutta da un attacco nemico. Vienesviluppato un insieme di protocolli di comuni-cazione denominato TCP/IP che prevede il fra-

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Testo della conferenza tenuta il 9 settembre 2000, all’Univer-sità d’Estate di Erba

Globalizzazione, mondialismo e identità dei popoli

di Silvano Straneo

zionamento dei dati da trasmettere in pacchettiindipendenti l’uno dall’altro, ognuno dei qualitrova la sua via dal mittente al destinatario perstrade anche diverse all’interno della rete. Nelnodo di arrivo i pacchetti vengono ricomposti ene viene controllata l’integrità. Il vantaggio ditale protocollo consiste nel fatto che non è ne-cessario definire né conoscere il cammino che idati percorreranno. Sarà il software stesso, lun-go i nodi della rete, a farsi carico di instradarli,evitando le eventuali interruzioni e scegliendoil percorso più veloce.

È l’inizio di Internet. Quando le esigenze mi-litari si affievoliscono, sono dapprima le Univer-sità, i Centri di ricerca e le grandi istituzioni acollegare fra loro le proprie reti locali (da cui ilnome di ‘rete delle reti’). In questa fase, l’uso diInternet è ancora limitato prevalentemente al-l’ambito accademico per lo scambio di informa-zioni scientifiche e richiede conoscenze tecni-che non indifferenti.

L’ultimo atto avviene nel 1989 presso il centrodi ricerca del CERN di Ginevra con la nascita delWorld Wide Web, progettato per semplificare lacondivisione di informazioni tra gruppi di ricer-catori di fisica delle alte energie operanti in na-zioni diverse. La facilità d’uso dell’interfacciautente, dotata spesso di una grafica accattivante,ne decreta subito il successo anche presso ilgrande pubblico e conseguentemente pressooperatori commerciali anche medi e piccolinonché presso tutti coloro che hanno interesse,per svariate ragioni, a tenere sott’occhio un ba-cino di opinione costituito da milioni di perso-ne. Gli sviluppi futuri sono guidati dal Consor-zio WWW, con sede sempre negli Stati Unitipresso il Massachusetts Institute of Technology.

Il ruolo degli USA nelle trasformazioni in corso

Gli Stati Uniti hanno vinto la seconda guerramondiale, hanno drenato le migliori intelligen-ze da ogni paese, detengono le tecnologie chia-ve, sono rimasti l’unica superpotenza militare ecostituiscono il più importante mercato mon-diale. I paradigmi economici e culturali che na-scono in questo paese diventano presto standardnel resto del mondo, occidentale e non.

Per comprendere l’evoluzione possibile del bi-nomio identità-mondialismo è pertanto fonda-mentale cercare di capire quali sono le strategieche gli USA potranno adottare per meglio man-tenere la loro leadership mondiale e i loro inte-ressi. Fino al 1989 la politica estera americana

era basata essenzialmente sul contenimento del-la potenza sovietica, il freno alla diffusione delcomunismo e il predominio sul mondo occiden-tale. Da quella data in poi, i possibili scenaristrategici americani diventano molteplici.

OPZIONE CONSERVATIVA - Sostiene l’opportunità dinon discostarsi sostanzialmente dalla politicaestera seguita fino al 1989. I concetti base sonocontenuti nel New World Order del presidenteBush (1990), col quale si stabiliscono le nuove‘responsabilità’ degli USA e si ammette la guer-ra preventiva al fine di preservare l’ordine mon-diale. Nel 1992, un rapporto del Pentagono daltitolo Defense Planning Guidance (del Sottose-gretario alla Difesa per gli affari politici PaulWolfowitz), preconizza un nuovo ordine mon-diale funzionale al ruolo che gli USA intendonomantenere di superpotenza unica dotata di fa-coltà d’intervento anche unilaterale. CharlesKrauthammer auspica una confederazione occi-dentale con gli USA al centro (in qualche modoprefigurata dal Gruppo dei Sette) come primonucleo di un mercato comune mondiale. Ciòporrebbe al riparo la supremazia americana, perora assoluta, dall’arrivo di nuovi contendenti.Secondo Joseph Nye, gli USA devono assumereil ruolo di grande organizzatore mondiale assi-curandosi il controllo dei grandi istituti inter-nazionali quali Fondo Monetario Internaziona-le, Banca Mondiale, World Trade Organization,Trattato per la non-proliferazione nucleare ec-cetera.

Ben Wattenberg, direttore di Radio Free Eu-rope, sostiene che il popolo americano deve ri-conoscere il ‘new manifest destiny’ che gli èproprio e promuovere nel mondo una democra-zia di tipo americano per mezzo degli strumenti‘culturali’ con cui primeggia: la lingua inglese,le università, i sistemi informatici, i media, ilmondo dello spettacolo. Fra i seguaci di que-st’ordine di idee, c’è Strobe Talbott, attuale nu-mero due del Dipartimento di Stato di Clinton.Insomma, Microsoft Windows, Pamela Ander-son e Coca Cola per un mondo unipolare a do-minanza USA.

OPZIONE ISOLAZIONISTA - Sostiene che una politi-ca estera di intervento a tutto campo presentaper gli USA costi superiori ai benefici e che, es-sendo oggi il potere essenzialmente economico,la vera predominanza va affermata su questoterreno. È da segnalare che l’accezione ameri-cana del termine ‘isolazionismo’ non significa

4 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000

affatto ‘di isolamento’. L’ex collaboratore diNixon e Reagan, Patrick Buchanan, ad esempio,auspica il totale ritiro delle forze USA dall’Euro-pa e dall’Asia, mantenendo però il primato mili-tare e non escludendo sporadici interventi an-che unilaterali.

OPZIONE INTERNAZIONALISTA - Richard Gardner, at-tuale consigliere di Clinton, è il fondatore delPractical internationalism, il cui concetto base,che ispira buona parte dell’attuale politica esteraamericana, è quello di sicurezza multilaterale:sulla base del vantaggio garantito loro dall’isola-mento geografico e da un’indiscussa superioritàmilitare, gli USA dovrebbero limitare l’uso dellaforza all’interno di contesti multilaterali e cer-care di mantenere una situazione di equilibriosfruttando le rivalità fra le altre potenze. HenryKissinger sostiene che gli interventi USA do-vrebbero essere selettivi, evitando di intervenirein ogni situazione di crisi: se in alcuni casi è in-dispensabile un intervento diretto americano, inaltri è sufficiente un’azione multilaterale e in al-tri ancora non si interviene affatto.

In questa prospettiva, l’intento di costituireun ordine globale fondato sugli interessi USArisulta meno forte ma è sempre presente. Stro-be Talbott, Segretario di Stato aggiunto, parladi ‘diplomazia per una competitività globale’(1994) intendendo con questo lo stare in guar-dia affinché nuovi raggruppamenti economiciregionali non si pongano obiettivi contrastanticon i famosi interessi superiori degli Stati Uniti,magari chiudendosi all’influenza dei capitaliamericani. Richard Haas, della Brookings Insti-tution ed ex consigliere di Bush, vede l’Americacome una Big Corporation che deve sfruttare lasua temporanea posizione di forza sul mercatoper trasformarlo secondo i propri fini. Nel suoThe Reluctant Sheriff (1997) scrive: “Obiettivodella politica estera americana deve essere l’o-perare con gli altri attori che condividono lestesse idee per migliorare il funzionamento delmercato e per rafforzare il rispetto delle sue re-gole fondamentali. Con il consenso, se possibi-le, con la forza, se necessario”. Dunque l’exGendarme del Mondo, impegnato in passato acombattere l’Impero del Male ovunque si mani-festasse, si trasforma nel buon sceriffo il quale,quando costretto, raccoglie in fretta un mani-polo di vigilantes e parte alla repressione.

USA E INTERNET - Nel 1993, Al Gore inaugura laGlobal Information Infrastructure che nel Due-

mila connetterà fra loro più di duecento milionidi computer. È il nuovo grande progetto del-l’amministrazione Clinton, analogo, comeespressione delle ambizioni egemoniche ameri-cane, al New Deal di Roosevelt e all’obiettivoMoon di Kennedy.

Gli USA, insieme composito privo di quell’o-mogeneità che solo la storia può produrre, com-pensano il loro deficit di identità ‘comunicando’più di ogni altro paese. E poiché, come è noto,ciò che conviene agli USA deve necessariamentevalere anche per il resto del mondo, prescrivonoa tutti la loro ricetta. Anzi, trovandosi in posi-zione di forza, esercitano una supervisione sullasua messa in opera per pilotare opportunamenteil processo di globalizzazione. Infatti, come Br-zezinski aveva sostenuto fin dagli anni Settanta,“… sono stati gli Usa il paese che ha lavorato dipiù alla creazione di un sistema di comunica-zioni mondiali avvalendosi dei satelliti e che sitrova più avanti nella messa a punto di una gri-glia mondiale di informazioni”.

L’ESSENZA DELLE VARIE OPZIONI - È appena il casodi osservare come, dalle dichiarazioni di uominidi stato, politologi, strateghi vari e soprattuttodalla politica messa in atto nella realtà dei fatti,appaia chiaramente che la volontà USA non è disedere pari tra pari nel consesso mondiale dellenazioni ma di dirigerlo conformemente ai pro-pri interessi. L’idea di base è quella di creare unmercato unico mondiale a misura USA sfruttan-do l’attuale posizione di forza militare, economi-ca e tecnologica, impedendo che altri possanoeguagliarla, mantenendo o conquistando il pre-dominio nei grandi organismi finanziari inter-nazionali e sui sistemi delle comunicazioni, sen-za trascurare ciò che a detta loro è la cultura.

Le moderate differenze consistono più che al-tro nel privilegiare eventuali interventi multila-terali rispetto a quelli diretti, senza peraltromai escluderli del tutto.

Aspetti economiciLa categoria del lavoro umano si è sempre ar-

ticolata in mestieri diversi, dotati tutti di unaloro precisa specificità riconosciuta socialmen-te, ad esempio con le istituzioni delle varie ‘ar-ti’, e rafforzata nell’immaginario da rappresen-tazioni e simbologie del tipo dei santi patroni.Un formidabile colpo alla specificità dei lavori èvenuto, agli albori del Novecento, dalla visioneindustriale di Taylor, con la sua razionalizzazio-ne estrema dei tempi e dei metodi produttivi.

Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000 Quaderni Padani - 5

Qui l’artefice produce, mediante una serie dioperazioni elementari rigidamente pianificate emonotonamente ripetute, uno stesso dettaglio,sempre più particolare, che prenderà significatosolo quando composto con tutti gli altri dettagliprodotti con uguali modalità da altri a costitui-re l’opera finita. Alla figura dell’artefice è sot-tratta ogni connotazione di carattere professio-nale, etico e psicologico ed è privilegiato unica-mente l’aspetto tecnico dell’organizzazione dellavoro, volta alla massima efficienza e redditi-vità economica.

Il concetto di informazione incomincia ad ap-parire in tutta la sua importanza quando, alMassachusetts Institute of Technology, il mate-matico Norbert Wiener inizia lo studio della Ci-bernetica. L’idea, non nuova in verità ma porta-ta ora a compimento e formalizzata matemati-camente, è la possibilità di governare il funzio-namento di un dispositivo utilizzando l’infor-mazione sugli effetti che l’azione in corso staproducendo per agire a ritroso sulla sorgentedell’azione stessa, regolandola (regolazione re-troattiva o feedback).

Queste nuove idee scientifiche, insieme conle teorie di Taylor, sono parte dell’atmosferaculturale in cui si sviluppa il modello industria-le di Henry Ford, secondo il quale l’impresa de-ve articolarsi in un primo livello al quale com-petono le decisioni strategiche (gli obiettivi delmeccanismo-impresa), un secondo cui competela gestione delle risorse (regolata da feed-back)e un terzo incaricato della produzione (il fun-zionamento del meccanismo). Sui mercati na-scenti e relativamente chiusi del tempo, che ga-rantiscono una domanda sostanzialmente stabi-le e prevedibile, questi modelli hanno successoper molti decenni.

Nei primi anni Ottanta emerge il modellogiapponese (Toyota), la cui caratteristica princi-pale è la capacità di adeguarsi prontamente, conla produzione di beni diversificati prodotti inpiccole serie, a una domanda che nel frattemposi è fatta mutevole e internazionalizzata. L’o-biettivo viene raggiunto sostituendo alla prece-dente rigida organizzazione industriale unastruttura flessibile in grado di ridistribuireprontamente al proprio interno, sulla base diun flusso informativo sempre di tipo feed-back,energie materiali e umane, superando così laclassica distinzione fra servizi di produzione,direzione e amministrazione. Inizia il techno-logy push, dove l’innovazione tecnica è semprepiù spesso ricercata dalle grandi aziende non al

fine di migliorare i prodotti ma per creare neiconsumatori nuove esigenze e mode che richie-dano di essere soddisfatte. Pubblicità e marke-ting si incaricano poi di scatenare la domanda.

Negli anni Sessanta, Galbraith scriveva: “Or-mai l’iniziativa di decidere che cosa debba esse-re prodotto non appartiene più al consumatorema alle grandi organizzazioni produttive. Uncondizionamento, di cui la pubblicità è solouno degli strumenti, tende a imporre un’identi-ficazione fra gli obiettivi dell’organizzazione,quelli del corpo sociale e quelli dell’individuo.Le grandi industrie modellano gli atteggiamentidella collettività sui propri bisogni”. Ed infattiAkio Morita, presidente di Sony Corporation,dichiara: “Sony non vende nuovi prodotti. Sonyvende nuovi comportamenti”.

La parabola dei metodi di produzione indu-striali sopra accennata lascia intravedere qualisaranno le tendenze prossime future (e in partegià attuali).

Le grandi multinazionali, di vecchia e nuovacostituzione, manterranno un nucleo alquantoristretto di dipendenti diretti le cui retribuzio-ni, peraltro costituite in gran parte da dividen-di, saranno funzione dei risultati ottenuti, men-tre filiali delocalizzate si confronteranno me-glio con i mutevoli mercati tramite subappalti elavoro part-time. Il sistema industriale mondia-le assumerà dunque l’aspetto di un reticolo di-stribuito sull’intero pianeta i cui nodi, autono-mi ma integrati, saranno, ciascuno, un centrodi decisione, di spesa e di responsabilità operan-te in rete attraverso collegamenti informaticiinternazionali non controllabili dagli stati na-zionali, mediante i quali comunicherà decisionie sposterà risorse e capitali in tempo reale daun capo all’altro del mondo.

Finalmente, mentre dall’antichità fino al se-colo scorso il lavoro umano è stato concepito,in termini generali, come trasformazione dimasse (prevalentemente materiali) medianteforze da applicarsi con opportuno impiego dienergia (fisica o intellettuale), il lavoro verràsempre più a consistere in elaborazioni di codi-ci, simboli e segni, ossia di dati. Infatti, se l’am-ministrazione pubblica e privata, i sistemi ban-cario e commerciale, la ricerca scientifica, l’in-segnamento, la propaganda, il divertimento, in-somma molte fra le principali strutture delmondo umano si riducono a essere sostanzial-mente elaborazioni di dati, allora produzione econsumo divengono immateriali anch’essi equindi adatti alla trasmissione a distanza: te-

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leacquisto, teleinsegnamento, teleconferenza,telesorveglianza, teleservizio, eccetera. In bre-ve, una teleattività sistematica in cui entità aprima vista eterogenee - quali beni materiali,attività umane, processi tecnici, industriali,scientifici e addirittura emozioni - sono ridottiad articolazioni diverse di uno stesso sistemagenerale che li mette in equivalenza, il denomi-natore comune essendo il nuovo concetto di la-voro come attività processuale [Legrain, Guat-tari].

Altro aspetto da considerare in questo scena-rio è la finanziarizzazione dell’economia. La fi-nanza, da corollario della produzione destinatoad agevolare gli scambi e quindi l’espansioneindustriale, stà prendendo il sopravvento neiconfronti della produzione stessa, ossia dell’e-conomia reale. Molte aziende tralasciano la lorovocazione produttiva basata su prospettive amedio e lungo termine, con un riguardo più omeno grande per il fattore occupazionale, peradottare sempre più la prospettiva di prettamarca americana del profitto immediato (nonpiù capital gain ma semplicemente profit).

Se dunque la tendenza della politica capitali-sta è quella di privilegiare la rapida circolazionedel capitale rispetto alla produzione di valorereale (finanziarizzazione dell’economia), è chia-ro che il potere decisionale passa dalle vecchieborghesie produttive nazionali a una nuovaborghesia internazionalizzata degli investimen-ti finanziari.

Grazie a informatizzazione e collegamenti inrete, gigantesche corporation impegnate in at-tività di ogni genere possono oramai essere di-rette da un piccolo gruppo di manager situati inposti chiave in cui è possibile prendere rapidedecisioni e impartire molteplici ordini. Non sitratta di imprenditori ma di stipendiati di altolivello (quali ad esempio un chief executive offi-cer americano), i cui introiti sono in gran partecostituiti da partecipazione agli utili. Natural-mente ciò comporta il declassamento dei quadriintermedi finora preposti su vari livelli a talifunzioni.

Aspetti culturaliL’assunto di base di ogni tecnocrazia, sia essa

industriale oppure finanziaria, è l’ammetterecome reale solo ciò che è quantificabile e diret-tamente manipolabile. Da ciò discende che chiè in grado di governare un processo tecnico-in-dustriale o finanziario sarà ipso facto in gradodi governare ogni aspetto del reale, compreso

quello socio-politico, e quindi anche la societànel suo complesso. Questo cadere della distin-zione fra politica (come ambito dei fini) e tecni-ca (come ambito dei mezzi) fa sì che a ogniscelta politica, per sua natura legata a conside-razioni di carattere morale e culturale, vengasostituita una scelta determinata da una stimatecnica basata su puri criteri efficientistici. Nel-la rozza visione della società come unità pro-duttiva di cui occorre massimizzare l’espansio-ne economica, trovano poco o punto posto igiudizi di valore, che quantificabili non sono, ela cosa pubblica è gestita mediante un apparatodi controllo tecnico-burocratico basato su di unconcetto di bene comune ridotto al puro benes-sere materiale.

In un sistema come questo, dove il denaro èal primo posto assoluto, la semplificazione deivalori in gioco comporta per i nuovi dirigentitecnocratici una vera e propria deflazione cul-turale. La capacità acquisita dalle borghesie na-zionali di negoziare i loro rapporti con la so-cietà non serve più e infatti incominciano a sor-gere scuole storiche che rivedono al ribassol’importanza delle storie nazionali. Il filosofoinglese Michael Oakeshott, ad esempio, scrivein un suo recente lavoro che non esiste una‘storia della Francia’. Al che, qualcuno ha repli-cato che “una cosa chiamata Francia ha lascia-to tracce più durevoli di una cosa chiamata Mi-chael Oakeshott”. Tuttavia la revisione dellastoria per bandire da essa la nazione è rivelatri-ce di un movimento di fondo da cui prende aemergere l’ideologia ufficiale della nuova classe:un integralismo di marca tecnica, universalista,multiculturale e multirazziale contrapposto aivalori degli stati-nazione, definiti sempre retro-gradi e a volte razzisti.

Al centro di questa operazione ideologica vi èancora lo strumento Internet, sotto il cui cap-pello si ritrovano, in curiosa compagnia dei tec-nocrati delle corporation, sia gli entusiasti chesi attendono dalle nuove tecnologie comunica-tive un ‘recupero di democrazia’ sia i cyber-punk, per i quali ‘la rivoluzione corre sulle retiinformatiche’, tutti uniti dalla stessa visione,piuttosto rudimentale e deterministica, che es-senzialmente subordina la risoluzione di que-stioni non computabili alla ‘potenza di calcolo’disponibile e pretende di far transitare attraver-so le reti di calcolatori la regolamentazione del-la società umana.

La visione che sta alla base di questa nuovaideologia comunicativa consiste nel “… credere

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e far credere che i problemi sociali siano innan-zitutto problemi di comunicazione, che una so-cietà si sviluppi prima di tutto grazie alla capa-cità di trasportare i suoi messaggi e che pertan-to basti moltiplicare i canali e accrescerne la ca-pacità di trasmissione e di stoccaggio, perchévenga alla luce una società nuova più democra-tica, più conviviale, aperta e pacifica”. Insom-ma, un embrassons nous generalizzato (e rego-lamentato dai superiori) per porre finalmentetermine al millenario travaglio delle societàumane.

L’analisi del traffico sulla rete rivela inveceche il tema più frequentemente dibattuto neinewsgroup riguarda il funzionamento della retestessa. D’altronde, prescindendo da qualchefolkloristico e superpubblicizzato cybermatri-monio, della cui sorte non è poi mai dato sape-re, è difficile immaginare quali altri legami al-l’infuori di quelli virtuali possano unire indivi-dui che si connettono e sconnettono a caso,anonimamente e senza responsabilità.

Di fronte a questo mondo unidimensionaleregolato da un governo planetario di transazio-ni finanziarie e contatti umani elettronici, leculture ancorate al suolo e alla storia dovrebbe-ro scomparire. Così preconizza il Gruppo di Li-sbona: “Bisogna concepire un programma d’a-zione basato in particolare sul ricorso estensivoalle nuove tecnologie dell’informazione e dellacomunicazione … L’intensificazione di questodialogo attraverso una moltitudine di strumen-ti è infatti la via più sicura per edificare unnuovo mondo globale fondato sul rispetto del-l’altro e per fortificare le basi di un sistema digoverno mondiale cooperativo”.

Aspetti politiciVa preliminarmente osservato che la diffusio-

ne di Internet con i suoi corollari economici edi costume, è un fenomeno consolidato da cui,piaccia o no, è ormai impossibile prescindere.

Il mondialismo, inteso come tendenza all’ag-gregazione, economica prima e politica in varieforme poi, fino al suo stadio ultimo costituitoda un solo governo per tutto il pianeta, è cosadistinta dalla globalizzazione, intesa come libe-ralizzazione degli scambi e creazione di unmercato unico. Naturalmente vi sono profondecorrelazioni fra i due fenomeni, e al proposito siconfrontano due diverse correnti di pensiero,una delle quali sostiene che la globalizzazionedei mercati implica necessariamente un gover-no mondiale unico mentre per l’altra non solo

tale implicazione non sussiste ma al contrariola liberalizzazione degli scambi favorisce le au-tonomie politiche.

TESI 1. LA GLOBALIZZAZIONE È LO STADIO CHE PRE-CEDE IL MONDIALISMO - Questa tesi si basa sull’as-sunto che la struttura economica determiniquella politica e ritiene pertanto inevitabile cheun mercato mondializzato porti con sé un go-verno mondiale.

Secondo questa linea di pensiero, un mercatomondiale necessita di una regolamentazionemondiale che può avvenire soltanto per via legi-slativa, da cui l’esigenza di un organismo politi-co che vi provveda. In questo processo i mag-giori gruppi economici non mancherebbero dipremere con forza formidabile affinché ciò av-venga nel modo più conforme ai loro interessi,liberandosi dall’impaccio costituito da ciò chefurono le nazioni con le loro diversità a intral-ciarne lo sviluppo.

I cittadini-consumatori abbandonerebbero iconsumi tradizionali legati alla cultura del loroterritorio per avvezzarsi, anche a mezzo del te-chnology push cui si è accennato prima, al con-sumo di beni standardizzati la cui produzione,pubblicità e distribuzione risultano convenientisolo su scala mondiale. Un primo assaggio ditutto questo potrebbe essere l’elettronica diconsumo, l’abbigliamento e il divertimento dimassa di stile americano. Quegli stessi cittadi-ni-consumatori, d’altra parte, avvezzati come siè detto e opportunamente scolarizzati dai gran-di mezzi di comunicazione, riterrebbero infinedel tutto naturale e auspicabile la sanzione defi-nitiva di questo stato di cose con la proclama-zione anche formale del nuovo organismo poli-tico.

Quanta democrazia reale possa poi sussisterein una gigantesca struttura di questo tipo, an-corché sanzionata da regolari elezioni, lo sicomprende sufficientemente bene osservando ilfunzionamento del sistema americano, dove icandidati presidenti sono scelti primariamentedalle lobby in grado di fornire i milioni di dolla-ri necessari per una campagna elettorale con-dotta fra luci al neon e majorette, con una per-centuale di votanti fra le più basse del mondo.

L’anima della strategia mondialista sarebbedunque a Wall Street e presso le holding, lebroker house, i grandi Fondi Comuni di Investi-mento, i Pension Found, le grandi banche in-ternazionali, eccetera. Segnatamente, essa sa-rebbe presso la Banca Mondiale e il Fondo Mo-

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netario Internazionale (FMI), organismi a scalamondiale in grado di controllare i flussi finan-ziari internazionali che riguardano le più im-portanti decisioni economiche del pianeta.

A proposito del funzionamento di queste dueultime istituzioni, la sociologa Susan George,codirettrice del Transnational Institute di Am-sterdam osserva: “La Banca Mondiale determi-na non solo le scelte macroeconomiche, essapone anche altre condizioni, classificate sotto ilnome di ‘buon governo’ … che sono state cau-sa di contraddizioni ... Alcuni suoi progettihanno dato luogo a violazioni massicce dei di-ritti umani, provocando l’esodo di milioni dipersone ... La Banca stabilisce le proprie leggisenza essere stata legittimata da cinquant’annie, per ragioni complesse, le sue istanze dirigen-ti non possono avere soddisfacenti meccanismidi controllo”.

“Il FMI tende, tramite le condizioni che poneper la concessione dei prestiti ai Paesi in diffi-coltà, a privare gli Stati del controllo della loroeconomia. Questo organismo non cerca di ade-guarsi alle realtà di ciascun caso concreto macerca di imporre ai paesi le proprie norme eco-nomiche. L’obiettivo sarà raggiunto nella misu-ra in cui le particolarità saranno distrutte. Conla normalizzazione economica verrà la norma-lizzazione culturale e la uniformizzazione deimodi di vita”.

E ancora: “L’analisi dimostra che il ricorsoindiscriminato al prestito smobilizza l’econo-mia di un Paese, scoraggia il risparmio nazio-nale, rallenta la crescita della produttività in-terna, riduce la padronanza della catena tecno-logica, orienta l’apparato produttivo verso i bi-sogni di una economia internazionale decen-trata e drena a termine le risorse del Paese ver-so le potenze industriali. A ciò si aggiunge l’a-lienazione culturale prodotta dall’introduzionenon meditata di un modello culturale stranie-ro, lo sconvolgimento della struttura sociale, inparticolare l’esodo rurale e la perdita progressi-va dell’autonomia politica”.

TESI 2. LA GLOBALIZZAZIONE FAVORISCE LE AUTONO-MIE - Secondo questa scuola, il mondialismo,inteso come programma mirante all’instaura-zione di un governo unico planetario, massimaconcentrazione immaginabile di potere e quindiminaccia per la libertà dei popoli, è un fenome-no addirittura opposto alla potente forza decen-tralizzatrice costituita dalla liberalizzazione suscala mondiale dei mercati i quali, essendo in-

siemi di rapporti volontari dai quali è banditol’uso della forza, non possono causare quellosradicamento delle varie culture che è inveceoperato dalla centralizzazione statale, strumen-to con cui le culture egemoni hanno sempreschiacciato quelle minoritarie.

Proprio la novità tecnologica costituita dalladiffusione della rete, con le sue conseguenzeeconomiche e culturali, ha dato inizio al decli-no del rigido controllo che gli stati centralizzatihanno sempre esercitato sulle popolazioni stan-ziate entro i propri confini. Molti popoli ora av-vertono lo stato nazionale, cui più o meno for-zatamente appartengono, come un ingombro,perché sanno di essere inseriti in una rete discambi globali di fronte alla quale le burocrazieaccentratrici mostrano, insieme al loro costo,tutta la loro arroganza e inutilità.

Friedrich Von Hayek, premio Nobel per l’Eco-nomia del 1974, sostiene la necessità di globa-lizzare i mercati, mentre si dichiara contrario aqualsiasi tipo di governo mondiale: “Un governomondiale anche molto buono - scrive - sarebbecomunque una calamità, perchè precluderebbela possibilità di sperimentare strumenti alter-nativi”. Dunque, per Hayek, la liberalizzazionedegli scambi non porta né deve portare all’omo-logazione politica.

La studioso liberista Hans-Hermann Hoppe,in un suo recente saggio scrive: “L’integrazionepolitica comporta maggior potere per uno Sta-to di imporre tasse e regolare la proprietà men-tre l’integrazione economica rappresenta un’e-stensione della divisione interpersonale e inter-regionale della partecipazione al lavoro. Comepuò dunque - si domanda - la liberalizzazionedegli scambi comportare un aumento dellacentralizzazione, considerando che in linea diprincipio tutti i governi riducono la partecipa-zione al mercato e la formazione della ricchez-za economica?”

Sempre secondo Hoppe, “… nel confronto traintegrazione forzata e separazione volontaria,ci sono ragioni a favore della seconda …”. Ipiccoli paesi sono naturalmente portati a sce-gliere il libero mercato anziché un’economiastatalizzata e inoltre la compresenza di tanti di-versi stati sul territorio di un vecchio stato-na-zione li pone in naturale concorrenza poiché iloro governi, “per evitare di perdere la parte piùproduttiva della popolazione, sono spinti adadottare politiche interne più liberali”. Final-mente, poiché “adottando un regime di liberoscambio illimitato, persino il più piccolo dei

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territori può pienamente essere integrato nelmercato mondiale e usufruire di tutti i vantag-gi della divisione del lavoro”, la liberalizzazionedegli scambi risulta inseparabile dall’autono-mia. E infatti, molti piccoli paesi prosperano enon anelano a congiungersi con altri proprioperché si sono aperti ai mercati mondiali, men-tre molti grandi stati, portati dalle loro dimen-sioni a tendenze protezioniste quando non au-tarchiche, hanno non di rado conosciuto il ri-stagno economico.

La nuova EuropaEntrambe le tesi sopra esposte contengono

spunti interessanti. In ogni caso, mentre la glo-balizzazione è un fenomeno in espansione datenere sotto attento controllo, un governo cen-trale, europeo prima e mondiale poi, è sicura-mente qualcosa che si deve e si può fermare, sesi vuole evitare una pericolosa involuzione dallademocrazia reale, intesa come effettiva possibi-lità di incidere sulle decisioni che vengono pre-se, a una democrazia soltanto più formale, vuo-to meccanismo di delega e rappresentanza. In-fatti, anche semplicemente per ragioni di nu-mero e di distanze geografiche, in un parlamen-to continentale o mondiale la voce del singolocittadino elettore viene ad avere un peso prati-camente nullo mentre la gestione vera del pote-re è in mano alle alte gerarchie politico-buro-cratiche e la forza di pressione ai grandi accen-tramenti finanziari e all’industria della comuni-cazione.

L’esame di come si sta sviluppando la nuovaEuropa è un’interessante banco di verifica delleargomentazioni precedenti.

La nuova Europa nasce bancocentrica. L’arti-colo 107 del Trattato di Maastricht recita: “Nel-l’esercizio dei poteri e nell’assolvimento deicompiti e dei doveri loro attribuiti dal presentetrattato e dallo statuto del SEBC (Sistema Eu-ropeo di Banche Centrali) né la BCE (BancaCentrale Europea) né una Banca Centrale néun membro dei rispettivi organi decisionalipossono sollecitare o accettare istruzioni dagliorgani comunitari, dai governi degli Statimembri né da qualsiasi altro organismo...”.

All’osservazione che, con un’organizzazioneeconomica siffatta, la politica interna dei singo-li stati viene essenzialmente governata dall’e-stero, la risposta è che il nuovo ‘interno’ non èpiù quello dei singoli stati bensì quello dell’in-tero continente. È quindi ovvio che la regola-mentazione economica avvenga a livello conti-

nentale. In più, viene spiegato che è questa lanuova dimensione alla quale occorre adeguarsi.Senz’altro è vero. Manca però un particolareimportante: la possibilità che resta al cittadinoelettore e contribuente di controllare con ilproprio povero voto entità talmente potenti elontane. Si consideri, ad esempio, che le famose‘direttive’ dell’Unione non sono deliberate dalParlamento europeo, il quale ha funzioni soloconsultive, bensì dalla Commissione, che è unorgano eminentemente tecnocratico svincolatoda ogni autentica legittimazione: questa è la‘sovranità popolare’ di cui godono i popoli euro-pei nella nuova ‘casa comune’, in attesa di quel-la ancora più grande a venire.

Il discorso è naturalmente diverso per legrandi istituzioni finanziarie, le quali da tempohanno intravisto la possibilità di intervenirenella trasformazione economico-politica del-l’Europa e del mondo. E infatti i supporter piùentusiasti dell’unificazione europea sono statibanchieri e governanti, figure spesso coinciden-ti (come ad esempio nel caso italiano di Prodi,Dini e Ciampi). Da subito le banche hanno datoinizio a una girandola di fusioni e altre mano-vre varie.

Quanto a prestazioni economiche, la nuovaEuropa non ha dato finora gran prova di sé. Dalmomento dell’introduzione dell’Euro, la pro-duttività europea ha visto un calo continuo eparallelamente la nuova moneta non ha fattoche deprezzarsi sul dollaro e sullo yen. D’altraparte, anche il lato politico della costruzione hamostrato vistose crepe, con il fallimento dellamissione ‘umanitaria’ nella ex-Yugoslavia e conle tensioni create dal caso Austria. Che ne sa-rebbe stato della traballante costruzione euro-pea se un politico sgradito, ad esempio, allaFrancia fosse stato democraticamente elettonella poderosa Germania?

ImmigrazioneÈ ovvio che popolazioni ad alto tasso di svi-

luppo demografico e basso livello culturale edeconomico cerchino di spostarsi in zone dove èstata prodotta maggior ricchezza, sollecitate aciò anche dalle trasmissioni radiotelevisive chene mostrano in genere gli aspetti più allettanti.Questi trasferimenti di enormi masse umanenon risolvono il problema della sovrappopola-zione nel mondo (gli africani con i loro ritmi diproliferazione sono già 700 milioni) né quellodella povertà, che va affrontato nei paesi d’origi-ne, mentre creano grandi squilibri nelle zone in

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cui si riversano, come sta accadendo in Europa,una delle parti più popolate del pianeta.

La situazione in ItaliaL’emigrazione italiana verso l’America del se-

colo scorso volgeva verso spazi sterminati epressoché inabitati. Ancor oggi la densità di po-polazione negli USA è di appena 28 abitanti perchilometro quadrato e di 12 in Argentina, men-tre in Italia risultano censiti 190 abitanti perchilometro quadrato. In queste condizioni didensità demografica, cui si aggiungono tassi didisoccupazione e criminalità fra i più alti d’Eu-ropa e inefficienza dei pubblici servizi, la do-manda di quanti immigrati l’Italia possa acco-gliere non ha ancora avuto risposte serie da par-te dei responsabili. I governi di centro-sinistrahanno spalancato le porte all’immigrazione consanatorie e leggi tipo la Turco-Napolitano cheprevede, insieme a molto altro, la possibilità diricongiungimenti famigliari fino al terzo grado,praticamente il trasferimento di interi villaggi,data la vaghezza dei concetti di parentela e statodi famiglia presso molte delle popolazioni inte-ressate. Dal canto suo la Caritas, che gestiscemiliardi di assistenza pubblica e privata, conti-nua a premere per la cosiddetta politica delleporte aperte, salvo lanciare di tanto in tanto gri-da di allarme sul fatto che alla robusta crimina-lità italiana si è aggiunta quella immigrata,mentre il Vaticano è giunto a chiedere per ilGiubileo un’ulteriore sanatoria per tutti i clan-destini. Un mix di interessi elettorali futuri, in-teressi economici e fumose teorie terzomondistea spese dei cittadini e della convivenza civile.

Un argomento fra i più comuni dei fautoridelle porte spalancate è che serve manodoperaper i lavori che gli Italiani non vogliono più fa-re. Così si ha l’assurdo che mentre, ad esempio,i giovani disoccupati siciliani e napoletani con-tinuano a essere assistiti con il denaro pubblico,sui pescherecci di Mazara del Vallo e nei campici sono marocchini e senegalesi. Un altro è chela popolazione italiana invecchia e occorrequindi sopperire con un’immigrazione giovane.Ma come il Nord Europa ha da tempo compre-so, a fronte del prolungamento della vita mediaè la nozione stessa di vecchiaia che va rivista,con un adeguato rinvio dell’età di pensiona-mento.

Se qualcuno pensa di risolvere con l’immigra-zione il problema di chi pagherà le pensioni, al-lora dovrà mettere nel conto incalcolabili costia tempo differito (la casa, la sanità, la moschea,

la scuola in lingua madre, eccetera) oltre alleinevitabili tensioni e ai problemi di ordine pub-blico.

Se dunque la tendenza allo spostamento è na-turale, assai meno naturale è che i governi,quello italiano in primis, abbiano svolto un’a-zione assai blanda di contenimento di questemasse umane. Sia l’immigrazione un fatto in-controllato per incapacità o imprevidenza, siaun fatto voluto e favorito, essa è diventata unfenomeno sociale di estrema importanza chesta producendo un graduale sfiguramento dellepopolazioni europee, diluendole e intaccandonele originalità culturali con il forzarle a convive-re in casa propria con nuove, numerose e a vol-te assai intolleranti presenze.

La capacità che un gruppo ha di opporsi a unprogetto che tende a farlo scomparire è diretta-mente proporzionale al suo grado di organicitàinterna, al suo essere Gemeinschaft e ciò avvie-ne quando i suoi membri hanno la stessa prove-nienza etnica e culturale. Pare allora che lamassiccia immigrazione che giunge in Europaproprio in coincidenza con la nascita del nuovoSuperstato sia funzionale alla progressiva crea-zione di un utile magma umano costituito daatomi disaggregati, privi di quelle radici (lin-gua, mentalità, cultura, tradizioni) che ne de-terminano le caratteristiche più significative,estranei a ogni appartenenza e che mantengonocome unico attributo quello della quantità.

Identità dei popoliL’identità di un popolo riposa sul lento amal-

gama prodotto al suo interno da secoli di espe-rienze vissute in comune in pace e in guerraentro un territorio che ne è stato teatro e checon le sue caratteristiche ha contribuito a de-terminarne la specifica “cultura” intesa comeWeltanschauung, concezione del mondo.

“Un popolo è tale - scrive Renan - se ha ilsentimento dei sacrifici compiuti e di quelli cheè ancora disposto a compiere insieme. Presup-pone un passato ma si riassume nel presenteattraverso un fatto tangibile: il consenso, il de-siderio chiaramente espresso di continuare avivere insieme. … La sua esistenza è un quoti-diano plebiscito”. La secessione, per Renan, èdunque un diritto naturale.

La cultura di un popolo, solo in parte codifi-cata nei documenti del sapere ufficiale, spaziada fattori basilari quali la lingua, la concezionedel lavoro, il tipo di rapporti interpersonali, laproduttività scientifica e artistica, la religione,

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le superstizioni, la struttura della famiglia, i co-stumi sessuali e alimentari fino a fattori mini-mi, quali il gusto per il baccano o il silenzio.Essa evolve nel corso dei secoli in dipendenzacomplessa da molteplici fattori e viene trasmes-sa di generazione in generazione ai nuovi natiche, si potrebbe dire, la succhiano insieme allatte materno.

A ragione Johann Gottlieb Fichte afferma chela nazione, che è cosa distinta dallo Stato, è unarealtà fondata sulla storia: i suoi confini verinon sono pertanto qualcosa di fisico come imonti o i fiumi, che il nemico può sempre var-care, ma le tradizioni comuni e soprattutto i va-lori condivisi da tutti i suoi appartenenti. Lalingua svolge un’azione di primissimo piano nelsintetizzare le esperienze collettive, incorporan-dole in un flusso che si trasmette, a volte arric-chito, a volte impoverito, di generazione in ge-nerazione e che viene a guidare, per così dire, ilpensiero lungo direttrici caratteristiche, riflet-tendo il carattere del popolo che la parla e, asua volta contribuendo a formarlo e a trasmet-terlo.

La Gran Bretagna, isola di navigatori e com-mercianti, ha sviluppato nel corso dei secoliuna visione pragmatica del mondo, ben illustra-ta anche dalla sua produzione filosofica, dove ilconseguimento di un certo risultato è privile-giato rispetto all’indagine sui suoi presuppostiteorici. La lingua inglese, che ha registrato nelsuo evolversi l’influenza di una tale mentalitàed ha, di riflesso, contribuito a ritrasmetterla, èesemplare al proposito: struttura grammaticalee sintattica ridotta al minimo, essa procedequasi per immagini (idioms), tesa alla rapidità econcretezza della comunicazione più che all’ap-profondimento teorico dei concetti. In Germa-nia e in particolare nel suo nucleo prussiano,situazione geografica, risorse naturali, agentiesterni e specificità di quell’etnia hanno prodot-to quella cultura nota per profondità di pensie-ro, efficienza e rigidezza, nel bene come nelmale, di cui la lingua tedesca è l’emblema.

In stretta analogia con l’impulso naturale,che spinge i singoli individui a prolungare e af-fermare sè stessi lanciando nella discendenza ilproprio codice genetico, anche le motivazionifondamentali di ogni comunità umana sono lasopravvivenza alle durezze della natura e l’affer-mazione di fronte alle altre comunità. Profon-damente diversi sono però i modi in cui questepulsioni vengono realizzate nel corso deglieventi che costituiscono la storia. Ognuno di

questi modi è la sperimentazione di una fra lepossibili strade alla sopravvivenza e alla ricercadella propria ragione di esistere che la natura,in un certo luogo e tempo, consente a un grup-po umano. In questo senso la cultura di un po-polo lo distingue dagli altri e lo caratterizza,fintantoché una catastrofe, una trasformazioneprofonda, lenta o improvvisa, non ne inizi unanuova.

L’antropologo Claude Levi-Strauss scrive chela vera ricchezza dell’umanità è costituita daidifferenti modi con i quali i diversi gruppi uma-ni affrontano la vita nel suo duplice aspetto ma-teriale e intellettuale, ossia delle diverse rispo-ste che essi danno al problema del perché viveree del come sopravvivere. Se le chiavi interpreta-tive del mondo e dell’esistenza sono ridotte auna sola, l’umanità avrà difficoltà a risolvere ipropri problemi. Per questo è essenziale checiascun popolo conservi la propria Weltan-schauung specifica, distillato di esperienze ori-ginali in secoli di vita comune.

La società capitalistica industriale, basata suproduzione e consumo sempre più frenetico dimerci, travolge ogni tipo di cultura che non siain grado di adeguarsi in fretta alle sue leggi, ap-piattisce sui suoi propri ogni altro valore, mo-dello, visione.

Chi non si dota di un apparato produttivo in-dustriale è destinato a scomparire come entitàsociale. Chi se ne dota ex abrupto, senza che ilprocesso sia stato lentamente maturato e meta-bolizzato, vede presto insorgere contraddizioni,conflitti e rigurgiti sanguinosi. Esempi ne sonopaesi di recente industrializzazione in sud Ame-rica e paesi riccamente dotati di risorse naturaliin Africa, dove una ricchezza improvvisa e im-portata ha paradossalmente significato per lepopolazioni corruzione, massacri, miseria edemigrazione di massa. L’identità è lo schermonaturale alla devastazione di delicati equilibriinterni causata dall’imposizione acritica e im-provvisa di modelli estranei.

Particolare interesse ha il caso dello Stato ita-liano, che è sorto non da una matura coscienzaunitaria, da una vera omogeneità culturale,economica ed etnica ma dalla volontà espansio-nistica di una casa regnante che ha forzato in-sieme popoli separati da oltre un millennio distoria.

Scriveva Stendhal nell’Ottocento: “Fra unItaliano e un Piemontese vi è maggior differen-za che fra un Francese ed un Inglese”. E di cul-tura italiana, nel senso più ampio sopra defini-

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to, si può parlare poco ancora oggi. L’inventareuno stato forzando insieme i popoli dell’Italiameridionale con la loro storia e i loro valori equelli settentrionali (passati attraverso la fonda-mentale esperienza storica dei liberi comuni, econ il forte denominatore comune dell’etica dellavoro e della mentalità razionale che l’accom-pagna e ne costituisce, per dirla con Hegel, ilVolksgeist, la ‘moralità sociale’ in cui essere edover essere coincidono nella famiglia, nella so-cietà civile e nello Stato), l’accentrare il nuovoStato per tema di spinte centrifughe, l’imporreleggi e mercato piemontesi alla società meridio-nale-papalina (latifondista e spagnolesca, e im-possibilitata a recepirle), la becera politica diitalianizzazione forzata del fascismo e infine lacollusione fra apparato statale romanizzato egrande industria assistita pubblica e privata,tutto ciò ha condotto alla situazione attuale diuno stato che, unico in Europa, deve ricorrereall’impiego dell’esercito regolare in alcune sueregioni per potervi mantenere una parvenza diordine civile.

Mentre già nel 1700 Montesquieu affermavache leggi e istituzioni dei vari popoli non sonoqualcosa di casuale o arbitrario ma sono stretta-mente legate al carattere dei popoli stessi, ai lo-ro costumi nonché alla natura del paese in cuiessi vivono, cioè al clima, alla struttura geogra-fica eccetera, concludendone che è un puro ca-so che leggi di un popolo convengano a un al-tro, due secoli dopo gli artefici dell’unità italia-na ancora ignoravano questi fatti elementari.Così, per quanto il Meridione italiano non bril-lasse nel novero delle società europee di metàOttocento, mai aveva toccato il livello di disfaci-mento sociale cui assistiamo ai giorni nostri.Anche il Meridione italiano è stato deradicato.

Riprendendo lo spunto iniziale sulla fine delleideologie, si può affermare insieme l’impredici-bilità del punto di arrivo di questo momentostorico estremamente complesso e gravido ditrasformazioni economiche, culturali e politi-

che ma contemporaneamente la possibilità diincidere con l’azione sul suo svolgimento, perrimanere padroni del nostro destino individualee di popolo. Molti popoli in Europa proprio inquesti anni hanno fatto significativi passi avantiverso la loro autonomia

Chateaubriand si chiedeva alla fine del secoloscorso: “Che cosa sarebbe una società universa-le senza alcuna nazione, che non fosse né fran-cese, né inglese, né tedesca, né spagnola, néportoghese, né italiana, né russa, né tartara, néturca, né persiana, né indiana, né cinese, néamericana, o magari che fosse tutte queste so-cietà insieme? Che cosa ne risulterebbe per isuoi costumi, le sue scienze, le sue arti, la suapoesia?”. Che cosa sarebbe, si potrebbe aggiun-gere, un’orchestra composta da strumenti tuttiuguali? Per dirla ancora con Renan, “attraversole loro diverse vocazioni, spesso opposte, le na-zioni servono alla comune opera della civiltà;tutte apportano una nota a quel grande con-certo dell’umanità che è, in definitiva, la più al-ta realtà ideale da noi raggiunta. La loro esi-stenza è garanzia della libertà che sarebbe per-duta se il mondo avesse una sola legge ed unsolo padrone”.

Comportamento, linguaggio, abbigliamento,musica, divertimento, cibo uniformi su scalaplanetaria allevano un’umanità omogeneizzatatragicamente dotata degli stessi pensieri e sti-moli emotivi. Chi viene privato delle sue radicie memoria storica, chi non è in grado di capireattraverso quali percorsi è diventato quello cheè, è in balia di centri di potere economico e po-litico sempre più lontani, anonimi e potenti, gliunici ad avere mezzi sufficientemente forti perimporre di volta in volta quegli schemi di com-portamento che più servano ai propri interessi.Privato di un governo locale che sappia con-trapporsi come uno scudo alle scelte centrali, ilcittadino vedrà il suo potere di influire sul pro-prio destino e sul mondo destinato ad accoglie-re i suoi figli diventare insignificante.

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Diceva l’indimenticabile “parón” Nereo Roc-co (l’allenatore della squadra calcistica delMilan negli anni sessanta) a proposito del

sistema - si potrebbe dire “della filosofia” - deldirigere le partite di calcio adottato da un cele-bre arbitro in quegli anni (Concetto Lo Bello),che questi fosse solito “usare” il regolamentoarbitrale non tanto e non solo affinché lo svol-gimento sportivo della gara - e quindi il risulta-to finale - si evolvessero e si concludessero se-condo la pura logica sportiva dettata dal regola-mento calcistico, quanto secondo una sua, cer-to non predeterminata ma personalizzata e per-sonalistica logica dirigistica che andava a pre-miare e a colpire le squadre in campo secondouna propria individuale interpretazione dell’e-quità sportiva, interpretazione che peraltroemergeva ed era suggerita dallo svolgimentostesso della gara.

Il regolamento arbitrale in questo caso nonera più una legge obiettiva e uguale per tutti,atta a permettere l’emersione in campo di unrisultato sportivo conforme al puro andamentodella gara, quanto un elemento soggettivo, unostrumento personalizzato atto a imporre ungiudizio di valore - e quindi un responso - se-condo una razionalità umana e non sportivache si riconosceva peraltro leale e, a propriomodo, onesta.

L’errore di fondo - diceva giustamente Rocco -è che queste due razionalità, quella sportiva equella umana, non sempre coincidono perchéaltrimenti lo sport finirebbe d’essere “maestrodi vita”, e si arriverebbe anzi a un capovolgi-mento dei valori essenziali emergenti dallacompetizione, che è paradigma della vita.

Tale sistema d’analisi è valido e applicabile al-la moderna problematica sociale e, più specifi-camente, alla questione del “determinismo sto-rico” (la weltanschauung) dei gruppi sociali

omogenei (minoranze etniche) relativamente alpiù ampio concetto di libertà.

L’immodestia di arrogarsi a giudici di “tutto”,la pre-potenza di voler acquisire in prima perso-na gli strumenti di gestione della società e dellavita di tutto e di tutti, è tipico della filosofia dit-tatoriale secondo cui è un uomo (o un’accozza-glia di uomini) - e non l’ordinato evolversi delrapporto di forza a tutti i livelli della vita sociale- che elargisce, a suo giudizio, il premio o la pu-nizione. L’uomo in questo caso non è più altemporaneo servizio di un regolamento o diuna istituzione, ma sono il regolamento o l’isti-tuzione al servizio dell’uomo, finalizzate alla di-screzione personalistica.

L’equivoco, in questi casi, è sempre presentein maniera subdola, quando si dà - coram popu-lo, su suggerimento dei mass-media - un giudi-zio di onestà e di galantuomini a questi perso-naggi. È questa la pacificazione delle coscienze,è questa la chiusura gratificante di un cerchiosocialmente totalizzante. Ma l’onestà deve esse-re una virtù sociale diffusa e pagante e non lacondizione - ammesso che realmente ci sia -per acquisire poteri totalitari, perché altrimentisi finirebbe per credere che l’onestà è premian-te nei confronti di una massa... di disonesti, equesto non può essere perché è fuori dallarealtà. Vero è che non può essere la caraturadell’uomo forte su cui si deve discutere, quantola filosofia che sottende alla liceità di avere po-teri forti su altri uomini. In verità, nell’ambitodella vita umana e sociale, nell’ambito dellatanto richiesta “libertà”, non dev’essere un uo-mo - onesto o disonesto che sia! (o un gruppo

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(*) Tratto, e liberamente rielaborato dallo stesso autore, dal-lo scritto presente nel volume Cento voci; Rebellato Ed. Ve-nezia 1986.

Il determinismo storico e la libertà

La Weltanschauung venetadi Eugenio Fracassetti

di uomini - onesti o disonesti che siano -) - chedà giudizi di valore su altri uomini, che deter-mina la graduatoria dei valori umani e sociali,ma dev’essere la vita stessa (la “gara”, nell’am-bito sportivo) che fa queste scelte obbligate inmisura dei valori presenti nella “piazza”, ai finidi un arricchimento e miglioramento comune.Alla fine di questo processo democratico, se siha pazienza, e soprattutto se si vuole credere inciò, accettandone le regole e i responsi, i verivalori individuali e collettivi emergono, come ifunghi nel bosco dopo la pioggia.

Noi sappiamo che la sovrana legge di selezio-ne naturale decide la scomparsa o l’evoluzionein positivo (la vita) di ogni razza animale o ve-getale. Voglia o non voglia questa legge è in ap-plicazione anche nel mondo dell’uomo. È moltodubbio che questo concetto si presti a giudizi divalore: il determinismo storico dell’uomo infat-ti (uomo come singolo e uomo come entità so-ciale) - la sua weltanschauung - è dovuto pertanta parte alla sua capacità di sopravvivere allasofferenza, alla volontà (individuale o di grup-po) di prestabilire e di conseguire un propriodifficile e problematico futuro, alla originale“forza” civile di elaborare e di tener fede a unapropria etica di gruppo. Per scendere nello spe-cifico di un paese che adotti la legalità parla-mentare in politica e la libera intrapresa in eco-nomia, lo sviluppo della dinamica libertaria nel-la sua pur minima interpretazione impone chel’evoluzione storica di ogni gruppo sociale omo-geneo non sia frenata o “guidata” da un potere

“superiore” che la predetermini in nome di unconcetto giustizialista di corto respiro, ma sialibera di incanalarsi in una o in un’altra direzio-ne verso un determinismo storico fondato sudei reali rapporti di forza e di potere che talegruppo sociale è in grado di imporre, non tantoal resto della società a cui appartiene, quanto alpiù ampio contesto internazionale, affermandoe illustrando così - coi fatti - il valore assolutodella propria cultura autoctona.

Tale possibilità alla affermazione della propriastoria, tale libera opzione verso un proprio e de-terminato futuro, responsabilizza e unifica ilgruppo sociale, amplia il ventaglio delle possibi-lità del singolo e fornisce sempre nuovi, freschie positivi impulsi all’insieme, in contrapposizio-ne a una latente e regressiva involuzione insenso “imperiale”, non tanto e non solo dellasingola etnia, quanto di tutta la società. Il pro-blema sostanziale è che questa weltanschauungsociale possa essere contenuta all’interno diuna vera struttura di democrazia rappresentati-va (l’Europa dei Popoli!) che, pur permettendoe assecondando la modifica - non irreversibile -dei rapporti di forza intesi in questo caso nontra i ceti ma tra le etnie, garantisca vera e sicu-ra democraticità al sistema sociale e politico inoggetto.

Qualche tempo fa un nostro amico diceva che“... oggi bisogna trovare la forza di vivere per“altri” valori per non correre il rischio d’impu-tridire!”. Sono poche povere parole che espri-mono tuttavia una condizione esistenziale,

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Bandiera veneziana del XVII secolo

quella di milioni di uomini schiavi dell’infimaproblematica del contingente e non più confor-tati da una praticabile speranza. Bisogna direche se qui da noi - nel Veneto - oggi l’uomo ma-terialmente, statisticamente, edonisticamentesta meglio di ieri, sul piano di una più comples-siva problematica esistenziale questo “star me-glio” pone certamente dei dubbi. Noi riteniamoche il nostro mondo, quel mondo che ha ancoraprofonde radici nella passata maestà della Sere-nissima Repubblica di Venezia, che per secoli furiferimento e guida culturale e artistica per l’in-tero universo civile, noi riteniamo - dicevamo -che questa nostra “enclave” etnica, che tanto hadato nel passato e che tanto potrebbe ancoradare oggi alla cultura occidentale, stia final-mente, dopo due secoli, mostrando i segni didecadimento sotto il subissante, volgare e falli-mentare pensiero e comportamento mediterra-neo che fa dell’arraffamento, del potere tout-court, dell’emarginazione politica del “valore” edel raffinato convincimento occulto attraverso imass-media monopolistici, le sue armi di batta-glia. “La cattiva moneta scaccia quella buona”dice il proverbio, e questa massa di volgaritàpolitica, culturale e comportamentale che dadecenni - direi ormai da secoli - ci viene scari-cata addosso spinge la nostra gente a standarddi pensiero e azione di un livello sempre piùbasso e infimo. Ad omologarsi al pensiero guidaromano. Un luccicante, fatuo e problematicobenessere sta avanzando mentre noi stiamoperdendo noi stessi, le nostre radici, la coscien-za delle nostre potenzialità culturali (rigorosa-mente censurata) e la coscienza del nostro valo-re storico assoluto.

La politica e l’economia romana “ci marcia”su di noi e sugli ormai secolari nostri sforzigiornalieri di mettere la testa fuori “dalla mer-da”... ma poi sempre, con tasse, gabelle e dictatsiamo ricacciati più in giù, sempre più in giù,fino a far conoscere le patrie galere ai più “indi-sciplinati” e goliardici venetisti.

L’economia romana “ci marcia” su di noi nonsolo perché siamo degli ottimi e fedeli pagatoridi tasse, ma anche perché siamo - coram popu-lo - dei grandi “evasori” in rapporto alle nostrepotenzialità economiche tassabili. La verità èche da oltre centotrenta anni continua a insi-stere su di noi quella grande spoliazione checon tanta efficacia ha inaugurato Napoleonenelle sue “leggendarie” campagne d’Italia.

L’economia romana “ci marcia” su di noi per-ché trasferisce altrove la nostra linfa economica

per un “sacro” principio di solidarietà, non vo-lendo rendersi conto che quando tale solida-rietà - che non è fatta di “fregole” ma di cifreastronomiche inconcepibili per un amministra-tore onesto - è protratta per anni e per secolisenza produrre alcun volano di sviluppo altrove,è pura “appropriazione indebita”, è puro conso-ciativismo mafioso, ma soprattutto è un percor-so assolutamente antitetico a un concetto fortedi “giustizia” a cui uno Stato non dovrebbe maiabdicare. Non è ozioso il ricordare che la di-mensione del potere economico è in similitudi-ne con la dimensione del potere politico, e conla potenzialità complessiva di un popolo di farecultura autoctona. Lo spostamento di grandimasse economiche è quindi sinonimo di sposta-mento di vero potere politico a scapito di un po-polo o di una etnia, in favore di un altro popoloo di un’altra etnia, alterando così in modo arti-ficiale i naturali e ovvi rapporti di forza e gliequilibri di potere che naturalmente si attuanoin un paese in relazione all’etica individuale de-gli uomini e di quella collettiva di un popolo, einstaurando così anche falsi e artefatti valorinazionali. Il senso di ingiustizia, infatti, e diprevaricazione dello Stato sul cittadino è pale-semente avvertito “a pelle” dalle persone comu-ni, ma poi ognuno tira avanti, “digerisce” la suacrisi e pensa ai fatti suoi perché, in fin dei conti,“non siamo mai stati così bene!...” pur con iconti pubblici spaventosamente in rosso checolpiranno ingiustamente molte generazionifuture! Certo non potrà continuare così, all’infi-nito, questa cuccagna, i numeri - e forse l’Euro-pa - non lo potranno permettere.

Queste lamentele e questi mugugni nel Vene-to hanno certo una data d’origine che coincidecol truffaldino plebiscito del 21/22 ottobre 1866che sancì la forzata annessione all’Italia. Certo,ogni cultura può vivere e convivere con ogni al-tra cultura, ogni etnia con ogni altra etnia, pur-ché ci sia all’origine una convinta, limpida etrasparente scelta democratica delle popolazio-ni, e in secondo luogo un patto di convivenzachiaro e rispettato; purché fin dall’origine unadieta (un governo rappresentativo paritetico)stabilisca e determini vere condizioni di paritàdi poteri al fine di evitare successivi cannibali-smi politici del tipo di ciò che fece Roma, circaduemila anni fa, con la grande civiltà etrusca(assoggettamento per omologazione) e di ciòche ancor oggi Roma sta rifacendo, nel silenziodel mondo, con la grande civiltà veneta. Certo, iBalcani in questi anni fanno testo, e senza vere

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garanzie istituzionali a tutela dei gruppi e dellenazionalità minoritarie tutto può succedere inmodo subdolo o manifesto. L’entrata in guerranel 1915 dell’Italia a fianco della Serbia controgli Imperi centrali, per esempio, può configu-rarsi storicamente come una occulta, indirettama efficace pulizia etnica nei confronti del Ve-neto colpevole, fin d’allora, di strane voglie in-dipendentiste e federaliste. Tale verità emergedalla storica constatazione che gli ultimi collo-qui preliminari del Sonnino con i plenipoten-ziari austriaci nel 1915, pur dando soluzione aogni precedente pretesa di carattere territorialemessa in campo da Roma (Trento e Trieste),non fu sufficiente a evitare la guerra, che del re-sto, pur sanguinosa e vittoriosa, non servirà aconquistare tutto ciò che si aveva precedente-mente acquisito nel tavolo delle segrete trattati-ve preliminari.

In realtà qui siamo tutti pacifisti, tutti abor-riamo la guerra e tutti siamo a favore della poli-tica da intendere, questa sì, come vera guerra,ma combattuta con le parole in un posto chia-mato Parlamento. Ma attenzione ai sotterfugi, averi e propri inganni politici guidati da sètte se-grete e malavitose che tanta parte hanno avutonel manovrare in modo occulto gli eventi politi-ci e nel decidere le sorti di questo paese dal Ri-sorgimento in poi. Attenzione alle furberie truf-faldine che sono presenti a ogni angolo di stra-da, perché già il fatto di aver unificato fin dal1861 la penisola italica senza la guida di unCongresso Costituente che desse voce alle giu-ste pretese delle storiche e diverse entità etni-che e culturali, senza la presenza fin dall’inizio,di una Dieta che fosse fulcro e arbitro dei diver-si poteri, si è costituita immediatamente, fin dalprimo governo dell’Italia unificata, una maggio-ranza parlamentare che di fatto ha pieni poteriche mai però compare. Questa maggioranzaparlamentare che si protrae nel tempo, occultadietro il grande teatro della politica italica, e

che tira i fili di ogni commedia parlamentare, èindividuabile nel Partito Trasversale Meridiona-le che ha fatto, fin dal 1861, un boccone di tuttele antiche civiltà italiche e le ha poste di fattosotto le grandi ali della vecchia cultura borbo-nica. È stata questa la carta vincente giocata findall’origine dalle grandi organizzazioni segretee mafiose del meridione italiano, che sottendealla grande epopea risorgimentale e che nessungrande storico italiano, escluso forse StefanoJacini, ci ha mai raccontato. Questa carta è sta-ta talmente vincente che a tutt’oggi - pur dopo itravagli spaventosi di questi ultimi cento-trent’anni, è ancora perfettamente giocabile nelParlamento italiano. Ma con quali principi giu-ridici, politici e ideali si è unificato questo paesenel 1861? Possiamo noi continuare ad affidarcia storici prezzolati e a politici corrotti nel pen-sare e nello sperare nel futuro dei nostri figli? Aquale weltanschauung, in coscienza, noi possia-mo affidarci se le premesse sono queste? Comepossiamo noi oggi - come ieri, del resto - conti-nuare a essere chini sul nostro lavoro giornalie-ro e trascurare le ragioni di fondo, le fonda-menta del nostro essere politico, le ragioniprofonde della caduta del nostro “telos”, dellanostra speranza? Com’è possibile che derubatisistematicamente della nostra cultura e dellanostra economia si possa continuare a lavoraree a produrre e tirare la carretta come degli asinipresi a bastonate?

Se negli anni della fame l’emigrazione eramossa dalla disperazione, oggi si emigra per ne-cessità e per scelte imprenditoriali, per sfuggirealla micidiale morsa fiscale - una colossale tan-gente - che impone la chiusura delle aziende.Se la nostra terra batte tutti i record della dena-talità, se i giovani più non procreano, ci dovràessere pure un motivo... e il motivo essenziale,al di là dei moralismi, è che si è interrotta - for-se inconsciamente ma in modo generalizzato -la ragione della speranza!

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Dopo il crollo del muro di Berlino e il conse-guente fallimento del comunismo da unpunto di vista militare ed economico, il capi-

talismo e gli inerenti processi di globalizzazionesi stanno affermando, da vincitori, in quasi tuttoil pianeta. Tuttavia occorre analizzare se tale af-fermazione si espanda spontaneamente, in virtùdi una maggiore efficacia rispetto alla pianifica-zione economica di stampo marxista, oppure sesia indotta non tanto da iniziative e provvedimen-ti legislativi o governativi quanto da caratteristi-che intrinseche al capitalismo. Non si tratta quidi celebrare le doti e le virtù del libero mercatobensì di individuare e possibilmente prevenire ledegenerazioni in cui un dato tipo di sistema eco-nomico può incorrere lungo il suo cammino sto-rico. Se il marxismo riconduceva ed esauriva ognidinamica storica, sociale, religiosa, culturale inun ambito meramente economicistico di pretesascientificità, il capitalismo pare seguirne le ormetramutandosi, da dottrina economica fallibile e fi-nita, a sistema conchiuso e autoreferenziale at-traverso l’assolutizzazione delle sue componentiprincipali e il progressivo estendersi di queste allealtre variabili sociali. Come vedremo di seguito,liberismo e marxismo si incontrano spesso nellariaffermazione di una volontà di plasmare il realee la società al fine di giungere a un “mondo mi-gliore” e “nuovo” rispetto al precedente. Esem-plare è in questo senso il più importante teoricodel liberismo moderno, Ludwig von Mises, puntodi riferimento essenziale per la corrente america-na dei libertarians rilanciata decenni fa da Mur-ray Rothbard, che nella sua Politica economicaafferma: “Il requisito indispensabile per il rag-giungimento di una maggiore uguaglianza eco-nomica nel mondo è l’industrializzazione. Ciò èpossibile solo attraverso l’incremento dell’investi-mento o dell’accumulo di capitali.” Anche inMarx l’industrializzazione era ritenuta un proces-so storico indispensabile affinché il proletariatogiungesse a maturazione della propria consape-volezza di classe sfruttata e imponesse la sua dit-tatura come approdo alla società senza classi. Inquest’ottica per il marxismo erano ineluttabiliquei processi di industrializzazione che consenti-vano alle contraddizioni insite nella produzione

di esplicitarsi ed esplodere per via rivoluzionaria.Mises condivide con Marx l’idea che il processoindustriale coincida con il progresso infinito econtinuo e che debba essere esteso a tutti i popoliai quali, successivamente, secondo Mises si appli-cheranno “valide politiche economiche” onderaggiungere prosperità e ricchezza. Questa visio-ne misiana affonda le proprie radici nella certezzataumaturgica di uno sviluppo economico pro-gressivo e incessante dimenticando che esso, vi-ceversa, risulta essere il prodotto di una storia, diuna cultura, di una tradizione specificatamenteeuropee.

Molti popoli oggi vivono seguendo modelli disviluppo cosiddetti arcaici: distruggere il loro si-stema economico imponendone uno a loro in-compatibile significa distruggere un patrimonioetno-culturale specifico e inimitabile. La penetra-zione di McDonald’s, in questo senso, è sintoma-tica. Un’altra caratteristica comune alle due ideo-logie politico-economiche è il carattere universa-listico, transnazionale e apolide su cui convergo-no. Se la dottrina marxista reputa indispensabileprocedere all’“emancipazione” di “realtà” comel’etnia, il carattere culturale specifico di un popo-lo, le tradizioni che lo animano, la religione chelo caratterizza, al fine di “abolire il dominio ditutte le classi insieme con le classi stesse”, il libe-rismo segue la medesima strada utopistica. DiceVon Mises: “In assenza della libertà di migrazio-ne i capitalisti tendono a spostarsi verso queiPaesi in cui è disponibile molta manodopera acosto ragionevole. Questo metodo è la migrazio-ne del capitale (…) Tuttavia le restrizioni all’im-migrazione - e su questo non esiste il minimodubbio - riducono la produttività del lavoro uma-no”. Mises teorizza e invoca così la necessità delmelting-pot e della società multirazziale poichéessa offrirebbe ai capitalisti maggiore scelta, infatto di manodopera, di quanto non sia in gradodi fare una società etnicamente omogenea. Anchein questo caso è soppresso il fattore umano e siesalta la produzione fordista su scala planetariadove l’individuo si trasforma in “materiale biolo-gico” da plasmare, utilizzare e accantonare se-condo un procedimento di inesausta produttività.È evidente allora il carattere apolide e sradicato di

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Se il libero mercato diventa ideologiadi Davide Gianetti

un tale modello economico laddove la complessarete di interazioni sociali si riduce a una sciattadicotomia produttori-consumatori nell’illusione,crudele, di una interscambiabilità fra i due status,in realtà congelati entro un circuito totalitarioperché totalizzante e “perfetto”. E a nulla valgonole tesi di alcuni (pochi) anarco-capitalisti che po-stulano restrizioni all’immigrazione in base asupposti “diritti di proprietà”. L’immigrazione varespinta perché sul piano etno-culturale vi sonoprofonde incompatibilità fra i vari popoli, tali daritenere difficoltosa la ricomposizione a unità (in-tegrazione) delle naturali e inevitabili conflittua-lità interetniche. Il liberismo invece considera ivincoli etnici, antropologici, culturali e religiosidi impedimento allo sviluppo capitalistico e nepretende il superamento in favore di una struttu-ra sociale atomizzata e individualistica attorno al-la quale si riorganizzeranno i rapporti sociali subasi prettamente capitalistiche. Per ottenere ciò ènecessario abbattere le frontiere nazionali e mo-dellare il mondo secondo i criteri liberisti. VonMises al riguardo è chiarissimo: “Non sono asso-lutamente l’inferiorità né l’ignoranza a fare ladifferenza: la differenza la fanno l’offerta e laqualità dei capitali disponibili. In altre parole laquantità di capitali è maggiore nei cosiddettiPaesi avanzati rispetto a quelli in via di sviluppo.Si potrebbero redigere degli statuti internaziona-li, che non siano solo semplici accordi, che sot-traggano gli investimenti stranieri alla giurisdi-zione nazionale. Questo potrebbero farlo le Na-zioni Unite. Per far sì che i Paesi in via di svilup-po diventino prosperi come gli Stati Uniti mancauna sola cosa: il capitale, e ovviamente la libertàdi poterlo gestire in base alle regole di mercato enon a quelle imposte dai governi”. La drammati-ca implicazione che segue il ragionamento di Mi-ses si è concretizzata in questi anni: la nascita delmondialismo ha sancito la morte degli Stati na-zionali. Tuttavia invece di procedere a una ridefi-nizione degli stessi su basi etno-culturali che fa-cessero sorgere confederazioni di patrie identita-rie, il mondialismo, grazie al capitalismo, ha edi-ficato un superstato mondiale che regge le sortidel pianeta imponendo leggi, provvedimenti e po-litiche economiche. Queste ultime rappresenta-no, in definitiva, l’ideologizzazione del capitali-smo e la sua imposizione ai vari Paesi, la trasfor-mazione dei parlamenti nazionali in consigli diamministrazione, la morte della politica e la suasostituzione con manager aziendali che rispondo-no non agli elettori ma ai consiglieri di ammini-strazione del governo di quel determinato Stato.

Ovviamente il superstato in questione non pos-siede un territorio e dei confini, non è ricono-sciuto come tale ma esiste ed è incarnato da unasparuta e potentissima schiera di finanzieri e ban-chieri che ricattano, attraverso i capitali immensiche detengono, nazioni e continenti interi deci-dendone le sorti. Il liberismo si è così imbattutoin due aporie insolubili: la prima consiste nell’a-ver espropriato il diritto decisionale e di controllodei cittadini per riporlo nelle mani di anonimibanchieri svincolati dal vaglio elettorale, dimo-strando così la profonda antidemocraticità dell’i-deologia capitalistica e con ciò contraddicendol’assioma libertario secondo cui a una sempre piùvasta libertà di mercato corrisponde automatica-mente un analogo ampliamento delle libertà de-mocratiche e civili. La seconda aporia consistenell’aver prodotto un superstato centralizzato eavulso dal potere decisionale degli individuismentendo così la teoria anarco-capitalista chepostula la soppressione dell’entità statuale attra-verso la radicalizzazione delle politiche capitali-stiche.

Un ultimo punto congiunge liberismo e marxi-smo: la certezza che il dipanarsi della Storia e deisuoi eventi segua le medesime dinamiche mate-rialistiche e quantistiche dei processi economici.Dice ancora Von Mises: “L’affermazione dell’eco-nomia come un nuovo ramo della conoscenza èstato uno degli eventi più portentosi della storiadell’umanità. Nel preparare il terreno per l’im-presa capitalistica privata, essa ha trasformatoin poche generazioni tutte le faccende umane inmaniera più radicale di quanto non sia stato fat-to nei precedenti duemila anni”. Ne scaturiscequindi una concezione messianica e perfettisticadell’agire umano che trova il suo corrispondentenella pretesa scientificità del pensiero marxista,nell’infallibilità della sua dottrina perché unicadisvelatrice dei reconditi meccanismi storici. Allaluce di tutto ciò è pertanto impossibile non indi-viduare una tendenza culturale che si va progres-sivamente imponendo nel ventunesimo secolo. Illiberismo si appresta, da efficace dottrina econo-mica, a divenire un sistema politico-ideale cheinforma la società sottoponendola ai propri mec-canismi ripercorrendo, di fatto, la strada che haintrapreso il marxismo nel secolo precedente.Non si tratta qui certo di rifiutare il libero merca-to in sé o di rivalutare il marxismo: si tratta dicontrastare l’ideologia del libero mercato impe-dendo che il mondialismo divenga per il liberi-smo quello che il comunismo era stato per ilmarxismo.

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La grande forza dei simboli veri – ha spiegatoMircea Eliade - è di continuare a funzionaree ad assolvere la loro funzione anche quan-

do se ne è persa l’immediatezza della compren-sione o il loro utilizzo in quanto simboli rico-nosciuti è stato interrotto. Una prova della giu-stezza dell’osservazione è data dal successo delSole delle Alpi, recentemente riproposto e subi-to entrato nel favore popolare dal cui inconscioculturale non era evidentemente mai uscito.

Questo è solo il più noto dei casi perché negliultimi tempi tutta una serie di simboli sonotornati in vita a rappresentareautonomie, identità e aspira-zioni di libertà: segni araldici,stendardi e bandiere, magari an-tichissimi, rispuntano dopo de-cenni o secoli di oblio e ritrova-no quasi miracolosamente unposto di primo piano nell’affettopopolare. Uno di questi è labandiera dell’aquila imperiale,antico segno araldico dello spi-rito dell’Europa profonda, po-polare e cristiana.

La necessità di una bandiera“vera” per l’Europa

Il Consiglio d’Europa ha adot-tato nel 1953 una bandiera az-zurra con quindici stelle gialle acinque punte, disposte in cer-chio. Nel 1955 il loro numero èstato (senza apparente motivo)ridotto a dodici. Nello stesso1953 l’Organizzazione del Trat-tato dell’Atlantico del Nord(NATO) aveva adottato la suabandiera, in verità piuttosto si-mile, costituita da un cerchio eda una rosa dei venti biancasempre in campo azzurro.

Quella delle dodici stelle hagradualmente eliminato la vec-chia bandiera del Movimento

Federalista Europeo (una grande E verde incampo bianco) che per molti anni aveva rappre-sentato ideali e speranze di federazione conti-nentale. Oggi il drappo azzurro è stato ufficia-lizzato e il suo uso è diventato obbligatorio ne-gli stati della Comunità a fianco delle bandierenazionali.

Sulla sua origine si ripete una versione che lavuole desunta dalla diffusa rappresentazione ico-nografica dell’Immacolata Concezione, nellaquale la Vergine ha un’aureola di stelle su unfondale azzurro cielo o veste un manto azzurro

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L’aquila d’Europadi Gilberto Oneto

Aquila imperiale (Miniatura del libro IV degli Annales della“Nazione Germanica” nell’Università di Bologna)

stellato: questa origine “devo-zionale” sarebbe scaturitadalla iniziativa dei patri fon-datori della Comunità, i cat-tolici Schumann, Adenauer eDe Gasperi. In realtà, al di làdelle reali intenzioni di queisignori, e sempre che sia verala versione, il simbolo adotta-to è però assai poco cristiano.La stella a cinque punte è deltutto assente dall’araldica tra-dizionale e da quella cristianain particolare: le stelle delmanto e della corona dellaVergine erano solitamenterappresentate a otto punte. Ilpentagramma è invece unchiaro segno massonico (diderivazione mediorientale,come prova anche la sua pre-senza nell’iconografia islami-ca) e la disposizione a cerchioriproduce l’identica figura (atredici stelle) della primabandiera americana, o quellache campeggia attorno allapiramide massonica riprodot-ta sul dollaro. Il fondo azzurro è poi lo stesso(oltre che della NATO) anche della bandiera del-le Nazioni Unite a ulteriore conferma della realeorigine ideologica del simbolo.

In realtà però la bandiera stelluta rappresentaperfettamente il tipo di Euro-pa degli Stati Nazionali, delbanchieri e delle grandi hol-ding finanziarie che si stàcreando. Ma non rappresentaaffatto l’Europa dei popoli edelle libertà.

Oggi la lotta per la vera Eu-ropa ha bisogno di simbolipiù rassicuranti e meno am-bigui, e non può che cercarlinella sua tradizione araldicapiù nobile. La storia del con-tinente è stipata di lotte e diparticolarismi, di guerre fra-tricide ma anche di aspirazio-ni di unione, a completamen-to della sua sostanziale unitàculturale, religiosa e identita-ria. Nel passato i momenti diunità temporanea, di lotta

concorde contro i nemici esterni e – soprattutto– le aspirazioni a un destino comune hannopiuttosto sintomaticamente quasi sempre avutolo stesso simbolo: quello dell’aquila imperiale.

Da Roma al Sacro Romano Impero Germani-co, dall’Impero di Occidente aquello di Oriente, c’è semprestata un’aquila a segnare ten-tativi di aggregazione, anchequelli purtroppo effettuati informa di sopraffazione comequello romano e quello napo-leonico.Una distinzione morale oltreche storica sembra essereperò data dalla specialità dellesue varie connotazioni icono-grafiche: le aquile di forma ro-mana (rappresentate tridi-mensionalmente, magari con-tornate da una corona di allo-ro) sono state portate dai “cat-tivi”, le aquile germanizzate egraficizzate nel tratto (solita-mente nere, di colore pieno)sono quasi sempre state segno

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Grand’arme di Carlo V imperatore, sul castello dell’Aquila

Scudo dei Marchesi Malaspina diMassa

dei “buoni” (almeno in termini di rispetto pertradizioni identitarie e religiose), e le stesse condue teste (bicipiti) dei “buonissimi”.

Simbolismo dell’aquilaL’aquila è l’uccello che vola più in alto di tut-

ti, è capace di innalzarsi sopra le nuvole e di fis-sare il sole, è universalmente considerato ilsimbolo celeste e solare per eccellenza, che rap-presenta la luce in conflitto con le oscure forzectonie, ossia legate alla terra e all’oltretomba.(1) Proprio per questo è sovente raffigurata nel-l’atto di artigliare serpenti, simboli tellurici. Lasua condizione di re dell’aria e degli uccelli la fadiventare simbolo reale. Era simbolo di Giove eper il Cristianesimo è diventato segno di Ascen-sione, di contemplazione (e perciò tratto araldi-co di San Giovanni Evangelista) e della regalitàdi Cristo. È l’uccello-tuono, simbolo del fulmi-ne, è l’uccello di luce e di illuminazione, è im-magine del sole e rappresenta il re in quanto fi-glio della luce.

La lettera A del sistema geroglifico egiziano ècostituita da un’aquila e significa “calore vitale,origine e giorno”. L’aquila passa la vita in pienosole, è luminosa e partecipa di elementi comearia e fuoco. Le sue caratteristiche sono il volointrepido, la velocità e la famigliarità con il tuo-no e il fuoco, la nobiltà eroica, associata al pote-

re e alla guerra. (2) Per tradizione,l’aquila possiede il potere di ringio-vanire, e cioè l’eternità. Si espone al-la vicinanza del sole e quando le suepiume iniziano a bruciare, si gettanell’acqua pura e trova così una nuo-va giovinezza. Si può paragonarla al-l’iniziazione alchemica che prevedeil passaggio nell’acqua e nel fuoco.(3) Si diceva che, all’indebolirsi dellavita, essa volasse contro il sole per“(…) dissipare i veli dei suoi occhi,poi tornava alla terra e per tre volteimmergeva il capo in una sorgentedi acqua pura, per recuperare la vi-sta e la gioventù: così il cristiano de-ve immergersi per tre volte nellafonte della salute”. (4) Il mito è pro-babilmente di origine ebraica, e av-veniva ogni dieci anni con l’acquadel mare. (5) Come uccello solare ha una vista ec-cezionale, è perciò paragonata all’oc-chio che tutto vede e quindi a Dio. Èsimbolo di vittoria.

Il suo utilizzo araldico è probabilmente diorigine orientale, è stato usato da Roma comesegno imperiale sui labari delle legioni, ma hatrovato il suo massimo sviluppo nel mondo ger-manico. Assai stranamente essa è quasi del tut-to assente nell’iconografia celtica che è invecepiena di orsi, draghi, corvi e – naturalmente -cinghiali.

Le sole presenze si trovano in alcuni episodidella mitologia irlandese e gallese.

Nell’araldica europea l’aquila è, insieme al leo-ne, l’animale più frequente. Le sue qualità eroi-che hanno spinto molti re a usarlo come simbo-lo: la si trova specialmente sull’araldica degliimperatori romano-germanici (a partire da Car-lo Magno), dei sovrani tedeschi, dei duchi di Ba-viera, Slesia e Austria, dei margravi del Brande-burgo e dei re polacchi. In Padania e dintorniessa è presente sugli stendardi dei Savoia, diNizza, di Fiume, del Friuli, degli Estensi di Mo-

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(1) J.C. Cooper, Dizionario degli animali mitologici e simbo-lici (Neri Pozza: Vicenza, 1997), pag. 37.(2) Jean-Eduardo Cirlot, Dizionario dei simboli (Armenia:Milano, 1996), pag. 89.(3) Jean Chevalier e Alain Gheerbrant, Dictionaire des Sym-boles (Seghers: Paris, 1973), vol.1, pagg. 20 ÷ 27.(4) Giovanni Cairo, Dizionario ragionato dei simboli (Forni:Bologna, 1979), pag. 23.(5) J.C. Cooper, op. cit., pag. 39.

Scudo di un’antica bandiera di Trieste

dena, di Mantova, Trento e Tirolo, e sulla ban-diera “ducale” dell’Insubria. La sua presenza èdiffusissima nell’araldica cittadina e delle fami-glie nobiliari.

Simbolismo dell’aquila bicipiteSpesso si trova l’aquila raffigurata con due te-

ste. Secondo Biedermann, alla sua diffusionepotrebbe aver contribuito, oltre alle evidentimotivazioni simboliche, anche la tendenza allasimmetria che da sempre caratterizza l’araldicaeuropea.(6) In ogni caso, la sua prima rappre-sentazione conosciuta in occidente è quella sul-la Colonna Traiana,nello scudo di unsoldato. Qualchestudioso ha ipotizza-to che sia stato Co-stantino, per espri-mere il senso delledue parti del suo im-pero, il primo adadottare l’aquila adue teste, l’una voltaa Oriente e l’altra aOccidente. Questapossibilità è sostenu-ta dal Ruscelli, citatodal Cairo: “È perchétra i romani si vedetale insegna (l’aquila“normale”, nda) cosìda Cesare come daPompeo Magno su-premi imperatori, liquali furono divisid’animi, e combatte-ron fra loro con tan-ta rovina della loropatria, per questo sipuò forse credere che i nostri cristianissimi im-peratori portan per insegna l’aquila a due teste,volendo per avventura mostrare che le dueaquile erano già unite in una sola, né debbonoin quella esser mai animi, né operazioni di di-visione nell’imperio e nella religion cristiana.(…) Più tosto è fatto per mostrare l’unione, chepretendono e speran di fare di due imperi, oradivisi, cioè del Levante e del Ponente. (…) For-se con le due teste abbiam voluto mostrar lacura, e la protezione delle cose umane e delledivine, o qualche altro tal generoso e santopensiero”. (7) Le due teste sarebbero cioè la rap-presentazione dell’Oriente e dell’Occidente

(verso cui sono rispettivamente girate) e anchel’unione del potere politico con quello spiritua-le, sottolineata dal fatto che l’aquila (sia nellasua versione occidentale che in quella orienta-le) tiene in una zampa lo scettro e la spada, enell’altra il globo imperiale.(8) Secondo il Cairo,il simbolo dell’aquila bicipite sarebbe stato poiripreso da Carlo Martello all’inizio dell’ottavosecolo, oppure – secondo altre fonti – da CarloMagno, anche se quasi tutta l’iconografia aral-dica del tempo gli attribuisce un’aquila “norma-le” monocefala ghibellina, voltata cioè verso si-nistra. I guelfi (e anche la Lega Lombarda, per

distinguersi dalleforze imperiali) im-piegavano invecequella voltata versodestra: questa parti-colarità può fornireun’altra spiegazionedel simbolismo bice-falo, inteso anchecome il superamen-to della divisionedelle due fazioni. Sitornerebbe in ognicaso al segno dellacompresenza del po-tere imperiale (ghi-bellino) con quellospirituale papale(guelfo).Come segno araldicodegli imperatori, es-sa figura sulle ban-diere tedesche findal 1312 e nei sigillidi Carlo IV (1347),acquisisce impiego“ufficiale” sotto Sigi-

smondo come simbolo esclusivo della potestàimperiale nel 1433, o addirittura nel 1401, nelperiodo della sua reggenza. (9) Forse in quellaoccasione le era stato attribuito anche il signifi-cato aggiuntivo di unione dell’Austria e dellaGermania, che è stato più tardi ripreso dall’As-

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(6) Enciclopedia dei simboli (Garzanti: Milano, 1991), pag.42.(7) Giovanni Cairo, op. cit., pagg. 23-24.(8) Il Globo imperiale è una sfera facente sormontata da unacrocetta significante il dominio del cristianesimo sul mon-do.(9) Whitney Smith, Le bandiere, storia e simboli (Mondado-ri: Milano, 1975), pag. 116.

Stemma del Regno lombardo-veneto.

semblea nazionale di Fran-coforte nel 1848 con la crea-zione di uno stendardo nelquale l’aquila bicipite venivasovrapposta al tricolore ne-ro-rosso-oro.

L’adozione dell’aquila bici-pite era forse anche stata ef-fettuata in Occidente per rin-correre il “concorrente” Gio-vanni V Paleologo, imperato-re d’Oriente, che l’aveva adot-tata nel 1357 nella edizioneoro su fondo rosso. Nel 1472è anche Giovanni Vassilijevic,primo autocrate russo, libe-ratore della Moscovia dall’or-da d’oro mongolica e preten-dente al trono d’Oriente, ausarla, sia pur nella versionecon le ali abbassate. (10) Lasua ufficializzazione in Rus-sia avviene però solo con IvanIII il Grande nel 1495, cheper primo aveva lasciato il ti-tolo di Granduca per assume-re quello di Zar. Questi avevainfatti sposato Sofia Paleolo-go, il cui zio Costantino XIIera stato l’ultimo imperatore bizantino, e di cuidiveniva così legittimo erede, anche degli attri-buti araldici. Le due teste venivano a quel puntoanche a rappresentare la sovranità dello Zar sul-l’Occidente e sull’Oriente, e più specificatamentesull’Europa e sull’Asia. Anche l’aquila russa tene-va fra gli artigli lo scettro e il globo: Pietro I ilGrande nel 1703 aveva sperimentato una stranaversione con quattro carte marittime tenute ne-gli artigli e nei rostri a manifestare la volontàdella Russia di diventare potenza marittima. (11)L’impero d’Oriente la usava oro su campo rosso(o nera su campo rosso), quello d’Occidente nerasu campo oro-giallo. A volte in entrambi era usa-ta su campo argento-bianco.

In una versione del 1699 l’aquila oro era posta

sul campo azzurro centrale del tricolore russo. InOccidente è sempre raffigurata con le ali spiegate,in Oriente con le ali spiegate o abbassate. (12)

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La battaglia di Lepanto (Di-pinto spagnolo, 1575). Vi sidistinguono con chiarezzasulle navi cristiane l’Aquilaimperiale (su campo bian-co), la Croce di San Giorgioe il Leone di San Marco,anch’esso su campo bianco

(10) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24.(11) Whitney Smith, op. cit., pag. 175.(12) Le descrizioni secondo il linguaggio araldico sono: Aquila bicipite dell’Impero d’Oriente: spiegata d’oro in cam-po di rosso (originariamente di porpora) eccezionalmentecoronata d’oro;Aquila bicipite dell’Impero d’Occidente: spiegata di nero etalvolta coronata di nero in campo d’oro, con la testa aureo-lata;Aquila bicipite russa: spiegata di nero con ambedue i capicoronati, oltre la corona più grande alzata fra i due capi.Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, Insegne e Sim-boli (Roma: Ministero Beni Culturali e Ambientali, 1983),pag. 1010.

Esiste anche una versione massonica dell’a-quila a due teste ad ali spiegate, con la coronasormontata dal triangolo e con l’iod ebraica nelcentro, introdotta da Elia Ashmole alla fine delXVII secolo, per “narrare tutta la leggenda dellaCreazione”. (13) Per la massoneria essa simbo-lizza anche il 33° grado di rito scozzese: una co-rona copre ambedue le teste e con gli artigli tie-ne orizzontalmente una spada col motto: “Deusmeumque ius”, cioè “Dio è il mio diritto”. (14) Sitratta di un atteggiamento del tutto coerentecon la prassi massonica di scimmiottare simbolicristiani ribaltandone il significato più profondoe il valore morale.

Secondo Cirlot, la bicefalia simboleggia poi,come tutti gli elementi duplici (Giano, Gemelli,

Ascia bipenne, eccetera), il dualismo della crea-zione-distruzione, ascensione-discesa, andare-tornare, dare la vita-uccidere. (15)

L’aquila bicipite è rimasta simbolo di entrambigli imperi fino alla loro fine: sventolava su Co-stantinopoli fino alla sua caduta in mano turca(1453) ed è stata usata dagli Asburgo (sia di Spa-gna che d’Austria) fino alla formale cessazionedell’Impero nel 1806. Essa era sullo stendardopersonale di Carlo V. Come segno dell’imperia-lità cristiana d’Occidente ha sventolato a Lepan-to (forse in una versione marinara su fondo

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(13) Giovanni Cairo, op. cit., pag. 24.(14) Hans Biedermann, op. cit., pag. 41.(15) Jean-Eduardo Cirlot, op. cit., pag. 91.

bianco) e in tutte lebattaglie contro i Tur-chi e i giacobini. Dal-l’inizio del XIX secoloè diventata la bandie-ra dell’Impero au-striaco (dal 1848, au-stro-ungarico) fino al1919, acquisendo l’ul-teriore simbolismodell’unione dei regnidi Austria e di Unghe-ria rappresentati dalledue corone reali sulledue teste, con la co-rona imperiale sovra-stante il tutto. In oc-cidente è stata perlungo tempo anche labandiera del regno diSicilia, del regno diNapoli (fino al XVII secolo), del Ducato di Carra-ra e del regno Lombardo-Veneto. (16)

In oriente è invece rimasta a simbolizzare gliZar di Russia, eredi dell’Impero bizantino fino al1917. In particolare essa è stata bandiera impe-riale fra il 1842 e il 1858 e bandiera nazionalefra il 1914 e il 1917. Essa è anche presente (inversione abbassata su fondo rosso con una stella

sul capo) nella ban-diera albanese diSkander Beg, nemicodei Turchi, e (biancasu fondo rosso) nelloscudo di Serbia. È an-cora oggi (nera, conle ali ribassate, sufondo oro-giallo) ilsimbolo e la bandieradel Monte Santo,l’antico Hagion Oròsdegli ortodossi. Dopola caduta del comuni-smo essa è ricompar-sa sia in Serbia che inRussia. Essa è anche moltopresente nell’araldicadi moltissime città inogni angolo di Euro-

pa; le più note sono: Arnheim, Groningen e Ni-mega in Olanda; Brno, Opava, Pilsen, Pre_ov eTàbor in Cechia; Ginevra in Svizzera; Görlitz,Lubecca e Norimberga in Germania; Krems eVienna in Austria; Krasnodar e Poltava in Rus-sia, Ordjonikidze-Dzaoudzikaou nell’Osseziarussa, Oswiecim in Polonia; Szeged in Ungheria;Toledo in Spagna; Coligny in Francia e Castro-giovanni (l’attuale Enna) in Italia. Essa è ancheil simbolo di una delle contrade di Siena. A Ver-sailles, in Francia essa è stata sostituita dallastravagante imitazione costituita da un gallo adue teste. (17)

In Padania è presente sull’antico scudo diTrieste, del Monferrato, sugli stemmi di Carrarae Sabbioneta, e di moltissime famiglie nobili.

La sua presenza era sicuramente assai piùcompatta in Padania e in Italia, ma anche in tut-ta Europa, prima delle “censure araldiche” per-petrate dalle rivoluzioni giacobina e comunista,e dagli stati nazionali ottocenteschi.

Dell’aquila è stata in passato elaborata ancheuna stranissima versione a tre teste, nella qualela terza testa sarebbe stata aggiunta a simboleg-giare il regno cristiano di Terra Santa. (18)

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(16) Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op.cit., pag.137. (17) Jir̆i Louda, Blasons des Villes d’Europe (Gründ: Parigi,1972).(18) Ottfried Neubecker, Araldica (Longanesi: Milano, 1980),pag. 225; e Giacomo C. Bascapé e Marcello Del Piazzo, op.cit., pag. 164.

Sigillo dell’Impero russo (XV secolo)

Bandiera del Sacro Romano Impero (Mano-scritto del XVI secolo)

Il senso del suo attuale riutilizzo

Si tratta di un simbolo antichissi-mo il cui rinvigorimento avrebbe pri-ma di ogni altra cosa il significato disuperamento delle sciagure ideologi-che che hanno devastato l’Europa ne-gli ultimi due secoli, e il ritorno auna idea di Comunità basata suprofonde similitudini culturali e reli-giose, sulla continuità storica e sullecomuni origini. Sarebbe – per para-frasare De Maistre – non un volertornare al Medio Evo ma farlo conti-nuare, riproponendo una comunitàdi popoli fratelli uniti sotto unastruttura imperiale dallo scarso pesopolitico (se non di comune visionedei rapporti verso l’esterno) ma dallapreponderante carica simbolica.L’Europa che ha preceduto i grandisconvolgimenti rivoluzionari, chel’hanno profondamente devastata e divisa, avevain sé tutte le potenzialità per generare unacompatta unione dei suoi popoli, costruita sulloscrupoloso rispetto per le differenze e per le au-tonomie locali: tutte cose che non è in grado (eche non ha intenzione) di fare l’attuale sciagu-rata Europa dei banchieri e dei burocrati. L’a-quila bicipite ha sempre rappresentato entitàpolitiche sovranazionali, composte dall’unionedi popoli diversi e diautonomie rispettatee proprio per questoè stata sempre odiatada giacobini, nazio-nalisti e comunisti.Tutti i simbolismi dicui l’aquila è semprestata caricata sono distretta attualità perl’Europa di oggi.

La complementa-rietà e la differenzafra il potere politicoe quello spiritualedevono essere allabase di ogni modernasocietà liberale basa-ta sulla assoluta divi-sione e indipendenzadei poteri ma anchefortemente ancorataai valori morali e

culturali della comune tradizione cristiana. So-prattutto in un momento nel quale mondiali-smo e islamismo stanno aggredendo congiuntila grande Patria comune degli Europei, tutti ivalori che l’aquila ha sempre rappresentato siergono come baluardo e difesa delle nostre li-bertà antiche. Così oggi, l’aquila nera torna aessere (con forza quasi addirittura superiore aquella del passato) segno di alleanza fra il pote-

re politico e quellospirituale, di unionedell’Occidente conl’Oriente d’Europa(anche in termini re-ligiosi), e di lottacontro il mondiali-smo massonico el’aggressività islami-ca. Questa era la bandie-ra che sventolava suibastioni di Costanti-nopoli cristiana asse-diata dai Turchi, cheguidava le armatecristiane di Eugeniodi Savoia e di Rai-mondo Montecuccoliche hanno respintole orde islamichefuori dal cuore dellaMitteleuropa; era la

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Cotta d’arme dell’araldo dell’Imperatore romano-germa-nico

Corona dell’Impero, usata la prima volta da Otto-ne I il grande nel 962

bandiera che ha accompagnato – assie-me agli stendardi padani di San Marcoe di San Giorgio – la vittoria della flottacristiana di Giovanni d’Austria e di Ago-stino Barbarigo a Lepanto. È la bandie-ra che ha per secoli difeso i nostri po-poli da tutti i tentativi di invasione isla-mica, e che ha tenuto testa alle ordegiacobine e napoleoniche, a tutte le tra-me massoniche e alle brutalità comuni-ste.La bandiera viene riproposta nella suaversione occidentale più recente, conl’esclusione delle due corone reali edello scettro, e – ovviamente – di ognisegno araldico particolare o dinastico.Per maggiore forza simbolica la coronaimperiale asburgica avrebbe dovuto for-se essere sostituita da quella più antica,attribuita a Carlo Magno, che avrebbeperò portato qualche problema allasimmetria che costituisce uno dei suoicaratteri grafici più incisivi.Il suo rinnovato uso acquista particola-re significato in Padania perché ai sim-bolismi che condivide con tutto il restod’Europa si sommano da noi alcuni al-tri significati piuttosto pregnanti.È la bandiera che ha sventolato sul col-le dell’Assietta, assieme al drapò pie-montese, in difesa di questa terra, era ilsimbolo impiegato da una larga partedegli insorgenti padani ed è stato – perdecenni – il segno più odiato da tutti icospiratori risorgimentali. Riprendereoggi a sventolare la bandiera che era(sia pur nella sua versione asburgica) diRadetzky è un chiaro segno antirisorgi-mentalista e antiunitario. Utilizzare lastessa aquila che ha difeso con tenaciala Russia cristiana dal terrore bolscevi-co è un forte segno di rigetto dellamortifera ideologia comunista.Come segno solare, l’aquila non puòpoi non proporre strettissime parentelecon il Sole delle Alpi che può anche es-sere letto come una sorta di sua stiliz-zazione: il petalo verticale alto rappre-senta le teste, i due superiori le ali, idue inferiori gli artigli e quello vertica-le basso la coda.Assieme alla Croce di San Giorgio è ilpiù forte segno di libertà e di identitàdei nostri popoli.

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Aquila del Sacro Romano Impero con tre teste, simbo-leggiante la conquista della Terrasanta

L’aquila europea

Una Dinastia cattolicaIl ricordo nostalgico dell’Impero asburgico

coinvolge un vasto arco politico-ideologico. SulCorriere della Sera, Claudio Magris ricordavache «A Trieste il movimento Civiltà mitteleuro-pea festeggia con manifesti gialloneri e plurilin-gui il compleanno di Francesco Giuseppe e sischiera su posizioni radicali di sinistra; anni faappoggiava, alle elezioni, i partiti dell’estremasinistra ed era vicino ai Verdi e alle correnti del-la Nuova psichiatria di Basaglia» (1). Quasitrent’anni fa furono invece i cattolici tradiziona-listi a tappezzare Milano di manifesti con la fotodell’Imperatore Francesco Giuseppe e la scritta«Europa, una, cattolica, imperiale!».

Non ho difficoltà a confessare di appartenereal secondo gruppo di nostalgici. Non amo l’at-mosfera decadente di certa cultura mitteleuro-pea, preferisco il ritmo della Marcia di Radetzkydi Strauss padre e la melodia del Bel DanubioBlu di Strauss figlio ai suoni scomposti diSchönberg e la mia simpatia per le idee dell’Ar-ciduca Ereditario Francesco Ferdinando è raf-forzata leggendo che in una occasione percossecon il frustino da cavallerizzo un quadro diKokoschka. Potrei dire come l’ultimo dei Trottanelle pagine iniziali della Cripta dei Cappuccini:«Io non sono un figlio del mio tempo, anzi, miriesce difficile non definirmi addirittura suo ne-mico. Non che io non lo capisca, come tante vol-te sostengo. Questa è solo una scusa di comodo.Per indolenza, semplicemente, non voglio essereaggressivo o astioso, e perciò dico che una cosanon la capisco, quando dovrei dire che la odio ola disprezzo. Ho l’orecchio fine, ma faccio il sor-do. Mi pare più elegante fingere un difetto cheammettere di aver sentito rumori volgari» (2).

Se sono qui oggi (3) con estremo piacere a ri-cordare la venerata memoria dell’Imperatore èperché mi riconosco da sempre nei valori mo-

narchici e cattolici che la figura di FrancescoGiuseppe ha simboleggiato in 68 anni di regno enella Tradizione di una Europa cristiana che laDinastia degli Asburgo ha incarnato in mille an-ni di storia. Da Madrid a Vienna, da Lisbona aPraga, da Bruxelles a Milano, da Napoli a Craco-via, sono almeno 19 gli Stati attuali (4) sui quali,o su parti dei quali, gli Asburgo dei due rami au-striaco e spagnolo hanno regnato per periodi piùo meno lunghi, come Sovrani ereditari o SacriRomani Imperatori, senza contare i territori ex-traeuropei.

Dinastia europea più di qualunque altra casaregnante, «gli Asburgo - ha scritto Hugo vonHoffmansthal - hanno rappresentato mille annidi lotta per l’Europa, mille anni di missione eu-ropea, mille anni di fede nell’Europa» (5). L’Im-pero d’Austria sul quale regnò Francesco Giu-seppe I era erede del Sacro Romano Impero, lacui corona gli Asburgo cinsero per la prima vol-ta nel XIII secolo e poi ininterrottamente, salvotre anni, dalla prima metà del ’400 fino al 1806.«Il nostro Imperatore è un fratello temporaledel Papa, è Sua Imperiale e Regia Maestà Apo-stolica ... nessun altra Maestà in Europa dipende

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Francesco Giuseppe I:Sovrano esemplare

di un Impero provvidenzialedi Massimo de Leonardis

(1) C. Magris, Mitteleuropa. Lessico dell’ambiguità, in Cor-riere della Sera, 11-11-98, pag. 33.(2) J. Roth, La Cripta dei Cappuccini, Milano 1995, pag. 10.(3) Il testo rispecchia la relazione svolta al convegno tenutoa Milano nel novembre 1998 per iniziativa della FondazioneCajetanus in occasione del 150° anniversario dell’ascesa alTrono dell’Imperatore Francesco Giuseppe I e del 160° anni-versario dell’incoronazione nel Duomo di Milano dell’Impe-ratore Ferdinando I a Re del Lombardo-Veneto.(4) Austria, Belgio, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Francia,Germania, Italia, Jugoslavia, Liechtenstein, Lussemburgo,Olanda, Polonia, Portogallo, Repubblica Ceca, Romania, Slo-vacchia, Spagna, Svizzera, Ungheria. (5) Sul tema, in italiano, cfr. H. von Hofmannsthal, L’Austriae l’Europa. Saggi 1914-1928, Casale Monferrato 1983, inparticolare pagg. 7÷71.

a tal punto dalla grazia di Dio e dalla fede deipopoli nella grazia di Dio», esclama il polaccoConte Chojnicki nella Marcia di Radetzky (6).«L’Impero era sacro. Non poteva tramontare»,si ripete l’alfiere Menis, al quale nei giorni dellasconfitta del 1918 toccherà portare lo stendardodel suo reggimento di cavalleria, tra le cui pie-ghe ristagnavano ancora «il solenne profumod’incenso delle messe al campo e delle proces-sioni, il dolce odore di sangue delle vittorie equello amaro dei serti di alloro» (7).

In Spagna e nel Sacro Romano Impero gliAsburgo avevano rappresentato la spada dellaControriforma. Per secoli gli Asburgo furononei Balcani lo scudo del mondo cristiano difronte all’Islam. Tra i comandanti dei loro eser-citi, e tra i più grandi generali di tutti i tempi,furono gli “italiani” Raimondo Montecuccoli edEugenio di Savoia, che si firmava Eugenio von

Savoy, simboleggiando così il caratteremultinazionale ed europeo dell’Impero.Nel 1914 ritroviamo un Conte RodolfoMontecuccoli, nato a Modena nel 1843 ediscendente del grande generale, capo diStato Maggiore della Imperiale e RegiaMarina Austro-Ungarica.Nei limiti consentiti dall’evoluzione sto-rica, nell’Impero e nella Dinastia viveval’eredità del Sacro Romano Impero el’Austria-Ungheria era l’unica monarchiae l’unica grande potenza cattolica (8);per queste ragioni chi aveva il disegno di“repubblicanizzare l’Europa” individuavain essa il nemico da abbattere, impri-mendo alla prima guerra mondiale il ca-rattere di scontro ideologico: «Come re-pubblicanizzare l’Europa? I radicali pen-savano alla Germania, ma non dimenti-cavano che in Germania vi erano anchedei protestanti e dei massoni. Mentre ilnemico tradizionale, l’Austria-Ungheria,incarnava insieme monarchia e cattoli-cesimo ... il grande disegno ... era diestirpare dall’Europa le ultime vestigiadel clericalismo e del monarchismo» (9).

Sovrano consacrato, primo funzionariodell’Impero, povero peccatoreNell’Imperatore Francesco Giuseppe sicomponevano armonicamente due con-cezioni della regalità: il sovrano consa-crato, «per Grazia di Dio», ed il sovranoprimo funzionario dello Stato. La ceri-monia nella quale soprattutto rifulgeva il

carattere cattolico dell’Impero e del suo Sovranoera la processione a Vienna del Corpus Domini,forse il maggiore evento annuale della monar-chia. L’Imperatore a capo scoperto seguiva a pie-di il Santissimo Sacramento, alla testa dei digni-tari della Corte e dello Stato. Lo zelo e la preci-sione con i quali l’Imperatore sbrigava le prati-

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(6) J. Roth, La Marcia di Radetzky, Milano 1996, pag. 209.(7) A. Lernet-Holenia, Lo stendardo, Milano 1989, pagg. 260e 194.(8) Con una popolazione quasi completamente cattolica laRepubblica francese ed il Regno d’Italia si caratterizzavanoperò per l’anticlericalismo dei loro regimi e per il conflittocon la Chiesa ed il Papato. In Gran Bretagna e Russia i So-vrani erano allo stesso tempo i capi simbolici delle rispettivereligioni di Stato, anglicana ed ortodossa; nell’Impero Tede-sco era forte il predominio della Prussia luterana. (9) Cfr. F. Fejtó́, Requiem per un Impero defunto. La dissolu-zione del mondo austro-ungarico, Milano 1990, pag. 320.

Francesco Giuseppe nel 1863. Dipinto di EduardEngerth

che sottopostegli erano proverbiali e nonsi può leggere senza commozione la cro-naca dei suoi ultimi giorni, quando, colpi-to dalla malattia, si sedeva comunque alsuo scrittoio dalle prime ore del mattinofino a tarda sera, chiedendo addirittura diessere svegliato (alle tre e mezza!) primadel consueto orario, per compiere il lavoroaccumulatosi a causa delle forze che or-mai lo abbandonavano.

La grandezza e l’umiltà del Sovranocattolico, che regna “per Grazia di Dio”ma di fronte al confessore è uguale al piùmodesto dei suoi sudditi, come diceva unAsburgo, Filippo II di Spagna, trovavanoespressione nel cerimoniale della sepoltu-ra degli Imperatori, quando davanti allaKaisergruft, la Cripta dei cappuccini, ilMaresciallo di corte chiedeva di far entra-re la bara del defunto usando prima il“grande titolo”, poi la “piccola titolatura”,vedendosi però negare l’ingresso, che ot-teneva solo la terza volta, quando alla do-manda del frate «Chi chiede accesso?» ri-spondeva semplicemente: «Tuo fratelloFrancesco Giuseppe, un povero peccato-re».

All’Imperatore, secondo le sue parole,«nulla era stato risparmiato» sul pianopersonale: la fucilazione del fratello, il sui-cidio del figlio, l’assassinio della moglie(10) e del nipote erede al trono. FrancescoGiuseppe avrebbe potuto dire di sé come ilsuo antenato Rodolfo nei versi di Grillparzer:«Ciò che era mortale l’ho estirpato/E sono sol-tanto l’Imperatore che non muore mai».

L’Impero necessarioUna riflessione sull’Impero multinazionale de-

gli Asburgo può iniziare dal pensiero dell’Impe-ratore stesso, riferito dalla testimonianza del-l’aiutante di campo Albert von Margutti: «Nonfurono avvenimenti storici quelli che hannounito i nostri popoli, ma bensì le necessità asso-lute della loro presente e futura esistenza. Per-ciò la Monarchia è un insieme non artificiosoma organico, e, come tale, qualcosa di indubbia-mente necessario. Essa rappresenta l’asilo, il ri-fugio di tutti i frammenti di nazioni gettati ver-so l’Europa centrale. Abbandonati a se stessiavrebbero un’esistenza miserabile, diverrebberobalocco di ogni loro più potente vicino. Invece,uniti, rappresentano non solo una potenza de-gna nel suo complesso di rispetto, ma possono

col reciproco aiuto sociale ed economico rag-giungere condizioni più sicure e più favorevolialla loro esistenza e al loro sviluppo» (11). Laprima edizione delle memorie di von Marguttiapparve nel 1921 e non si può quindi pensareche l’Autore, morto nel 1940, avendo quindi iltempo di vedere i paesi dell’Europa centro-orientale stretta nella morsa della Germania diHitler e dell’Unione Sovietica di Stalin, addome-sticasse i suoi ricordi per attribuire un giudizioprofetico all’Imperatore.

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(10) Una moglie della quale, alla sua scomparsa, disse: «Nes-suno sa quanto ci siamo amati». Ma certo Elisabetta d’Au-stria non fu vicina come avrebbe dovuto al consorte e, so-prattutto, non aveva affatto la sua stessa concezione della re-galità, coltivando anzi idee “sovversive”, che almeno nonuscirono dal campo di discutibili esercizi letterari (cfr. E.d’Austria, Diario poetico, Trieste 1998), cosicché il popoloconobbe solo il fascino di “Sissi”. (11) A. di Margutti, L’Imperatore Francesco Giuseppe, Geno-va 1990, pag. 116.

Fotografia di Francesco Giuseppe nel 1888

Lo storico francese Jacques Droz in un inter-vento nel 1963 al XLI Congresso di Storia delRisorgimento Italiano esprimeva un giudizio al-trettanto positivo sulla missione storica dell’Im-pero asburgico: «La monarchia austro-ungaricaassolveva nel 1914 un compito incontestabile enon era affatto quel “carcere dei popoli” comespesso è stata definita. Ci si può chiedere se gliStati che si formarono dal suo smembramentosi siano dimostrati più capaci di lei di risolvere iproblemi nazionali. L’idea nazionale. molto ri-spettabile in sé, è poi troppo spesso diventatastrumento di oppressione. Forse la saggezzaavrebbe richiesto che le aspirazioni nazionaliavessero cercato di svilupparsi nel seno di unoStato plurinazionale» (12). Una terza autorevoleopinione, tra le molte che si potrebbero citare,sull’insostituibile ruolo dell’Impero nell’Europadanubiano-balcanica è quella di uno dei più im-portanti diplomatici e studiosi della diplomazia,largamente noto come il teorico del contain-ment, la strategia di resistenza all’espansioni-smo sovietico, l’americano George Kennan per ilquale «L’Impero austro-ungarico appare tuttoracome soluzione degli intricati problemi di quel-la parte del mondo, migliore di tutto ciò che gliè subentrato» (13).

L’Impero asburgico si reggeva su alcuni pila-stri la cui saldezza era intaccata da forze centri-fughe, in opposizione alle quali si manifestavanoperò anche forze centripete, come ben sottoli-nea nella sua opera François Fejtó́. Lo storicobritannico Alan Sked scrive che la fine della mo-narchia non era affatto scontata, anzi essa si an-dava rafforzando (14), mentre Victor-Lucien Ta-pié osserva che da diversi punti di vista «si pote-va persino ritenere l’Austria-Ungheria una po-tenza del futuro» (15) ed anche C. A. Macartneyparla di «molti elementi [che] inducevano all’ot-timismo», all’inizio del secolo, sul domani del-l’Impero (16). Il primo pilastro era evidentemen-

te la monarchia, la lealtà nei confronti dellaquale «era ben lungi dall’essere una sempliceespressione retorica» e rimase in particolare«intatta» fino alla morte del leggendario Impe-ratore. Un altro elemento di coesione era la reli-gione cattolica, che riuniva intorno all’Impera-tore austro-tedeschi, slovacchi, sloveni, croati,polacchi e la maggioranza dei cechi e degli un-gheresi. Ma anche le altre confessioni cristiane, icui alti dignitari sedevano anch’essi, in quantotali, nelle assemblee parlamentari, svolgevanoun analogo ruolo politico. Un altro pilastro fon-damentale era costituito dall’Esercito Imperial-regio, «vero e proprio crogiolo» delle popolazio-ni di tutte le parti dell’Impero, e dalla Marina. Eancora «l’amministrazione, efficiente e non cor-rotta, e la burocrazia, imponente» e «la comu-nanza di interessi che univa i diversi popoli nel-la vita politica come in quella economica» (17).

Tutte le nazionalità potevano contare sulla«protezione della legge e avevano totale libertàdi coscienza e di culto» e godevano «di libertàmolto più grandi di quelle dei loro fratelli di raz-za che vivevano al di fuori delle frontiere del-l’Impero»: questi i caratteri della Felix Austria(18).

Un giudizio, l’ultimo ricordato, che troveràpiena conferma nel dopoguerra, quando «le na-zioni di cui i vincitori proclamarono la “rinasci-ta” si dimostrarono, per molti aspetti, creazioni“letterarie” più che politiche e soprattutto pic-coli imperi multinazionali, assai meno liberali etolleranti dell’impero “distrutto” di cui avevanofatto parte» (19).

All’Austria-Ungheria succedettero infatti pre-tesi Stati nazionali che in realtà erano altrettan-to multinazionali dell’Impero scomparso, conl’aggravante che rifiutavano di riconoscerlo el’etnia dominante opprimeva le minoranze. Lacomposizione etnica e religiosa di tali Stati ri-sulta dalle tabelle seguenti (20):

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(12) Cit. in V.-L. Tapié, Monarchia e popoli del Danubio, To-rino 1993, pagg. 6-7.(13) G. Kennan, The Decline of Bismarck’s European Order.Franco-Russian Relations, 1875-1890, Princeton 1979, pag.423.(14) Cfr. A. Sked, Grandezza e caduta dell’Impero asburgico1815-1918, Roma-Bari 1993, pagg. 236 ÷ 239.(15) Op. cit., pag. 420.(16) C. A. Macartney, L’Impero degli Asburgo 1790-1918, Mi-lano 1981, pagg. 870 ss.(17) Sui benefici economici che l’Impero arrecava a tutte lesue parti cfr. D. F. Good, The economic Rise of the Hab-sburg Empire, 1750-1914, Berkeley-Los Angeles 1984. Sul-

la forza della monarchia, cfr. Tapié, op. cit., pagg. 385-386,476-77.(18) Cfr. H. Bogdan, Storia dei paesi dell’est, Torino 1994,pp. 150-55, dal quale sono tratte le citazioni. Secondo Sked,anche gli 800mila italiani «erano in effetti una nazionalitàfavorita piuttosto che oppressa, nel senso che (specie dopo il1907) avevano rispetto al numero più rappresentanti di ognialtro gruppo nazionale» (op. cit., pag. 229), affermazioneche dedichiamo a qualche tardivo ammiratore di GuglielmoOberdan, che era poi lo sloveno Wilhelm Oberdank.(19) Il giudizio è dell’Ambasciatore Sergio Romano, Introdu-zione a Fejtó́, op. cit., pag. XV.(20) Tratte da Bogdan, op. cit., pagg. 227 ÷ 231.

A questi dati eloquenti vanno aggiunte alcuneconsiderazioni relative a due Stati, la Cecoslo-vacchia e la Jugoslavia, creati con i trattati dipace del 1919, due costruzioni artificiali che so-no durate pochissimo e si sono dissolte, la primavolta rispettivamente nel 1939 e nel 1941, la se-conda, e stavolta non si può accusare nessun Hi-

tler (21), nel 1993 e nel 1991. In entrambi gliStati le etnie dominanti, Cechi nel primo caso,

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Cecoslovacchia

Polonia

(21) Ma, comunque, osserva Bogdan, «sotto molti aspetti, lanuova situazione [del 1941] corrispondeva alle aspirazionidei popoli molto più dell’antico regno unitario di Jugosla-via» (op. cit., pag. 306).

Regno dei Serbi-Croati-Sloveni (dal 1929 Regno di Jugoslavia)

Serbi nel secondo, che rappresentavano menodel 50% della popolazione, esercitarono una du-ra egemonia sulle minoranze nazionali, che eb-bero tutti i motivi di rimpiangere la situazioneprecedente. Non a caso slovacchi, come del re-sto croati e sloveni, erano rimasti fino all’ulti-mo fedeli alla monarchia. Nel 1938 in Cecoslo-vacchia su 140 ufficiali generali uno solo eraslovacco, su 13.000 ufficiali subalterni, gli slo-vacchi erano 420; 33 erano gli slovacchi a fron-

te di 1.246 cechi nei ranghi del mini-stero degli esteri; tra gli 8.000 funzio-nari delle amministrazioni centralidello Stato gli slovacchi erano solo130. Considerando la situazione dellaSlovacchia essa «rimaneva sotto ogniprofilo una colonia dello Stato ceco-slovacco, sfruttata a esclusivo vantag-gio dei cechi» (22). Ben diversa erastata la situazione prima della guerra,quando, ad esempio, un prelato slo-vacco, il Cardinale Csernoch, era sta-to Arcivescovo di Esztergom e Prima-te di Ungheria. Per non parlare natu-ralmente della situazione di tedeschied ungheresi in uno Stato creato daimassoni Masaryk e Benes˘ , grazie al-l’appoggio dei fratelli di setta negliStati nemici dell’Austria-Ungheria, efondato su due princìpi contradditto-ri, quello storico, la restaurazionedell’antica Boemia-Moravia, e quellodell’identità etnica, peraltro fittizia, di

cechi e slovacchi (23).La situazione della Jugoslavia è fin troppo no-

ta. Sloveni e croati ebbero prestissimo modo dirimpiangere anch’essi il passato, in uno Statodominato dai serbi la cui costituzione centrali-sta venne approvata nel 1921 senza che alla sua

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(22) Bogdan, op. cit., pagg. 238-239.(23) Cfr. Fejtó́, op. cit., pagg. 441-442.

Francesco Giuseppe nel 1912

Romania

votazione partecipassero, in segno di protesta, ideputati delle due minoranze nazionali. Il capodel partito contadino croato Radic dichiarò: «Icroati non erano gli schiavi della monarchiaasburgica e i serbi non ne sono stati i liberato-ri». Verrà ucciso a colpi di pistola in pieno parla-mento nel 1928; il suo successore Mac̆ ek verràarrestato per aver protestato contro la nuova co-stituzione ancora più centralista introdotta nel1931, a seguito del colpo di Stato di due anniprima del Re Alessandro II.

La caduta dopo la prima guerra mondiale deitre Imperi europei ed in particolare di quelloasburgico determinò un vuoto ed una frammen-tazione di potenza nell’Europa centro-orientale(la cosiddetta “balcanizzazione”). Sul piano eco-nomico i nuovi Stati potevano a fatica reggersiautonomamente; quella «magnifica via di unifi-cazione che è il Danubio rimase, tra le due guer-re, quasi inutilizzata, perché non si riuscì mai asopprimere o ridurre le undici dogane che lospezzettavano da Ratisbona fino a Giurgiu» (24).Ma in politica e soprattutto in politica interna-zionale il vuoto viene sempre colmato. Dopovent’anni le nazioni di quella parte dell’Europaerano strette nella morsa della Germania nazio-nalsocialista e della Unione Sovietica (25). L’ordi-ne, ma dell’oppressione e della morte, venne poiimposto per quasi mezzo secolo dal comunismo,caduto il quale la storia ritrovò un appuntamen-to simbolico in un luogo dove già era stata scrit-ta una pagina tragica: Sarajevo.

È paradossale che ottantadue anni fa le forzedominanti in Europa decretassero la morte del-l’Impero multinazionale degli Asburgo, mentreoggi esse inneggiano alla società multietnica emultireligiosa, non tra europei, ma con africanied asiatici, senza gli elementi unificanti del tro-no e dell’altare.

Ottanta anni fa si distruggevano gli Imperi, siabbattevano i troni e si frammentava l’Europa,oggi si vuole ricostruirla in nome del denaro.Dobbiamo credere che ciò avvenga per caso eche la politica internazionale sia mossa solo daquella che è stata definita la “perpetua quadri-glia” tra le Grandi Potenze (26)?

Ottantadue anni fa si chiudeva la vicenda sto-rica dell’Impero Asburgico, ma, nonostante l’ef-fimera esultanza dei vincitori, finiva anche l’Eu-ropa come soggetto dominante della politicamondiale, si ponevano anzi le premesse delladominazione del nostro continente da parte disuperpotenze ad esso totalmente o parzialmenteestranee.

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(24) P. Henry, Nazionalità e nazionalismo, in AA. VV., Nuovequestioni di storia contemporanea, Milano 1969, vol. I, pag.308.(25) Cfr. M. de Leonardis, L’Europa e il Mediterraneo dalla pri-ma alla seconda guerra mondiale/Europa und das Mittelmeervom Ersten zum Zweiten Weltkrieg, in AA. VV., L’unità d’Eu-ropa: il problema delle nazionalità/Die Einheit Europas: dasProblem der Nationalitäten, Merano 1990, pagg. 201 ÷ 217.(26) A. J. P. Taylor, L’Europa delle Grandi Potenze. Da Met-ternich a Lenin, Bari 1971, pag. 13.

La Via ClaudiaLa Via Claudia Augusta Altinate e la Via Clau-

dia Augusta al Po erano le due alternative ini-ziali della stessa strada. Una partiva da Altino,l’altra da Ostiglia sul Po. La biforcazione si con-giungeva a Trento. Di lì direttamente alla Reziavia Resia o al Norico via Brennero.

Altino era il porto marittimo più vicino al Da-nubio cui si potesse giungere per nave da Romao dal Mediterraneo orientale. Il porto fluviale diOstiglia sul fiume Po era ancor più vicino viaVerona e Trento, ma durante la siccità il fiumepoteva non essere navigabile. Normalmente ilfiume era più rapidamente percorribile verso ilmare col favore della corrente. Cioè nella via diritorno. Il corso del Po era diverso dall’attuale.Bagnava il porto fluviale di Ferrara e sfociavanella base navale di Ravenna dove stazionava laflotta pretoria, pronta a imbarcare o sbarcaretruppe a Ostiglia o Altino.

Da Altino si giungeva a Trento passando perFeltre. Il porto lagunare di Altino era comunqueil punto di arrivo e di partenza di tutta la logisti-ca nord orientale (Rezia, Norico, Germania Da-nubiana). Serviva anche di appoggio alla logisti-ca nord occidentale (Germania Renana, Gallia,Britannia).

Da Altino sono tutt’oggi rilevabili tutte le di-rettrici orientate sui vari passi della Cisalpinatracciate ancor prima degli assi viari veri e pro-pri. Lo scopo principale era giungere ai passi nelminor tempo possibile.

Una seconda tesi vuole che vi fossero due di-stinte vie Claudie. Anziché congiungersi a Tren-to, una avrebbe portato da Ostiglia al Passo Re-sia. L’altra da Altino al Brennero per la Val Pu-steria.

Una terza tesi vuole che la Claudia, da Osti-glia, anziché dirigersi su Verona e Trento, pas-sasse per Legnago e risalisse la Valle dell’Agno,al Passo di Campognosso per poi congiungersialla valle dell’Adige.

Tutte queste tesi sembrano mal poste. Più cheuna strada forse la Claudia era un sistema viarioper passare le Alpi. Molte erano le alternative

necessarie in caso di occupazione di un passo daparte di forze avverse, inondazioni, nevicate, fra-ne, eccetera. È credibile che siano state usatenel tempo tutte le alternative possibili.

Indipendentemente dai percorsi ipotizzati da-gli storici gli allineamenti qui a seguito rilevatiindicavano le direzioni da seguire per orientarsinel territorio ancor prima che le opere stradalifossero tracciate, eseguite, migliorate o munite.In mancanza della bussola far riferimento allealte cime era il solo modo di procedere.

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Claudia AugustaDi Giulio Pizzati

L’autore è da tempo impegnato nel ritrovare e documentaregli schemi degli allineamenti (leys) su cui è stato costruito ilreticolo ambientale del Veneto antico e forse di gran partedella Padania.In questo saggio si occupa di definire gli allineamenti imper-niati su Altino che sono il risultato della romanizzazione dischemi e di principi di sacralizzazione ambientale piuttostocomuni nelle culture preceltiche, celtiche e quindi anche ve-netiche, come è già stato anche illustrato sul numero 18 deiQuaderni Padani.

Numerose vettedel Veneto portanoancora i nomi datidai topografi duranteil periodo Giulio-Claudio quando furo-no fatti i rilievi preli-minari al traccia-mento delle vie di ac-ceso alla Rezia ed alNorico. Centro delradiale era il portolagunare di Altino.Minimi erano invecei riscontri dal portofluviale di Ostiglia.

Il toponimo e l’a-cronimo alto si trovaripetuto in moltissi-me varianti: Monte Alto, Vedetta Alta, Rialto,Punta Alta, Pertica Alta, Altissima, Carè Alto. Èerrato ritenere che il nome nasca dalla maggiorealtitudine del rilievo rispetto ad altri. L’illazionecade constatando che le cime denominate “alte”sono spesso circondate da cime di quota supe-riore.

Molti anche i toponimi: Collalto, Cerealto, Alti-vole, Altavilla, Villalta, Fossalta, Alte, Altissimo.Ci sono poi toponimi variati con i secoli come:Monte Baldo [*b-Alto], Montaldo [*mons-Altus],Cima Auta [*Alta], Ault [*Altus].

Acronimi e toponimi che contengono la radiceAlto riferita ad Altino giacciono sempre su retteche collegano Altinoai passi alpini. I rile-vamenti cartograficiche seguono voglio-no illustrare unica-mente questa consta-tazione.

Altino-PassoBrennero

Il collegamentoovest-est della Cisal-pina era già statotracciato e in parteeseguito con la Po-stumia. Nel periodoGiulio-Claudio si do-veva fare il collega-mento sud-nord ol-tre le Alpi. Il lungotratto della Postumia

dal Brenta a Oderzo ben si prestava da scalime-tro per determinare le distanze. Punto radialeera Altino. La retta che congiunge Altino alBrennero passa sopra una vetta della Marmoladaoggi denominata Auta [*Alta]. Su quella retta fucostruito il primo tratto di strada ancor oggi esi-stente che passa da Quarto d’Altino e si dirige alPonte della Priula. L’avvicinamento al Brenneronel primo tratto di pianura fino al Piave venivacosì fatto nel modo più diretto.

Tutti i percorsi di fondovalle per attraversarele Alpi erano in uso da millenni. Si trattava direnderli più praticabili e diretti con opere delgenio militare.

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Altino-Passo ResiaIn una qualsiasi

giornata serena daAltino si può vedereil bianco delle cimealpine. Guardandoverso il Monfumo lalinea visiva che por-tava al passo verso laRezia, individua lasommità di Col Altoa quota 498 sull’asse:Vedetta Alta a quota3262 in Val dell’Ulti-mo, sul prolunga-mento Monte Alto aquota 3262 in Val Ve-nosta e infine il Pas-so Resia. Questa rettaindividuava il trattodi strada da Altino aMontebelluna versola Rezia. Il primotratto Altino-Trevisoè oggi scomparsoforse per lo straripa-mento del Sile.

Altino-Passo CisaFra le molte radiali rilevate, l’asse che da Alti-

no porta in direzione del passo appenninico del-la Cisa è caratterizzato dalla ripetizione del no-me Concordia. Dalla Cisa la retta tocca Concor-dia al Secchia, traversa l’Adige a Castelbaldo.Chiave del sistema topografico è la ripetizionedel nome alto, per cui Castelbaldo sembra ri-conducibile: *Castel(b)alto, *Castellum Altum.A nordest l’asse identifica Concordia Sagittaria,

le gole dell’Isonzo eil passo di Pedicollesenza altri riscontritoponomastici.

Altino-Genava(Ginevra)La retta che con-giunge Altino conGenava è ricca diomofonie. Alto sitrova ripetuto diecivolte. Da Ginevraverso la Savoia: Hau-te Pointe (Q. 1958) eHautforts (Q. 2466).In Svizzera: HauteCime (Q. 3260) aovest di Martigny.Anche Alphubel (Q.4207) è forse ricon-ducibile ad Altus. InPiemonte c’è PizzoMontalto (Q. 2505)presso Domodossola.Aralalta (Q. 2006)presso S. Pellegrinoè in Lombardia. Ci

sono poi il paese di Perticalta, Malga Alta di Por-ra (Q. 1499). Monte Alto (Q. 1723). Nella Vene-zia: Valdritta del Baldo [*(B)Alto] (Q. 2278), poiRevolto [*(Rivus)Altus] (Q. 1511), e quindi Alti-no.

Questo radiale dopo Trebaseleghe tagliava laPostumia al 36° miglio presso S. Pietro in Gu.

XLI-Piccolo San BernardoLa retta che congiunge Altino con il 41° mi-

glio porta al Colle del Piccolo San Bernardo pas-sando per Quarena [*Qua(d)ra(gintu)na] di Ga-vardo (BS). Sull’asse si trovano la cima del mon-te Faldo [*(F)alto] (Q. 805) e Monte Alto (Q.957) sui Lessini. Oltre Quarena la retta intersecaMonte Alto (Q. 652) a sud di Sarnico sul Lagod’Iseo e porta al passo del Piccolo San Bernardopassando per Monte Emilius.

Emilius-Altino può essere importante in quan-to chiude il triangolo cisalpino S. Marino-Emi-lius-Altino.

XL-QuadragintaIl quarantesimo miglio est si ottiene congiun-

gendo il campanile della chiesa di Quargnenta diBrogliano con Altino. L’intersezione con la Po-

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stumia avviene a Ospedalettosulla retta dal Brenta a Vicen-za. Circa Quargnenta va ricor-dato che su una cartapecoradell’anno 976 il toponimo ap-pare nella sua forma originaria:“... locus et fundus qui vocaturQuadragenta …” Il documen-to, ora all’archivio segreto vati-cano, proviene dal fondo di SanGiorgio in Braida di Verona edè stato pubblicato su gli Atti eMemorie dell’Accademia diScienza, Agricoltura e Letteredi Verona, anno 1966/1967, se-rie 6, volume 18, pagg.166/169, Verona 1968. (Segna-lazione di Silvano Fornasa)

Sul prolungamento ovest ol-tre Quargnenta c’è un altro to-ponimo numerico: il paese diSquaranto che dà il nome alVaio. Il mutamento linguisticosi può così congetturare:[*(S)qua(d)ra(gi)nto].

I tre toponimi: Quarena,Squaranto e Quargnenta of-frono un interessante quadrodi variazione fonetica.

Numerosi sono i riscontri diquesto asse che sembra colle-gare Aosta, Campanili di Bolca,Roverè, Pieve San Pietro Mus-solino, Quargenta, Brogliano,Castelgomberto, Madonna del-le Grazie, Costabissara, Ospe-daletto (Miglio XL), Altino.

XXXIl 30° miglio a est si delinea

sulle carte congiungendo Alti-no con Trenta d’Isonzo. La di-zione del toponimo non lasciadubbi sulla sua origine e sull’e-sattezza delle presenti consta-tazioni.

Le 30 miglia a ovest si deli-neano con Terviso in Istria, Al-tino, XXX miglio presso Citta-della, Tretto, Altissimo di Nago(Q. 2078), Ballotto Alto, Tre-malzo (Q. 1975), Pizzo dei TreSignori (Q. 1554) e il PassoSempione.

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IXAnche il 9° miglio ovest haun riscontro: da Piz Nunain Engadina (Q. 3176) aPunta Alta (Q. 2798) si in-terseca la Postumia al IXmiglio verso Altino.

VIICongiungendo il settimomiglio ovest con Altino,sul prolungamento si tro-va l’appezzamento SetteCasoni al Cavallino di Je-soloe a nordovest localitàLe Musette [*Mu Sette] diOnigo.

XIIIOltre a determinare letrenta miglia su entrambii lati della Postumia dal-l’intersezione con la Clau-dia, furono fatte misura-zioni del 13° miglio oveste del 13° miglio est. Il 13°miglio ovest è rilevabilecongiungendo Altino conCima dei Tre Signori aquota 3359 sul Cevedale.All’intersezione con la Po-stumia si trova il toponi-mo Tredici dato a un ap-pezzamento di terra a Suddi Barcon. Questo toponi-mo è leggibile sulla TavolaIGM scala 1:50.000. Altririscontri minori giaccionosull’asse: Casara Trentin eValle Trentin in prossimitàdi Cima Portule e Tre For-ni vicino Istrana. Il XIII miglio sulla Postu-mia, a est dell’intersezionecon la Claudia è ancor piùfacilmente rilevabile. A su-dovest di Altino c’è il Pon-te di Rialto [*Rivus Altus],a nordest ci sono Trepalla-de, Tre Case, Tremacque,fino al monte Terzadia aquota 1961 presso TreppoCarnico sullo spartiacquedelle Alpi.

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Evidentemente la mutazione lin-guistica ha eliso nella maggior par-te dei casi il suffisso -decim. PerCima dei Tre Signori si può pensa-re a questo svolgimento: *CymaTres Decima, *Cima Tres Domini,Cima Tre Signori.

I, II e IIIIl centro della radiale è l’asse che

da Altino porta al Brennero sulquale fu costruito il primo tratto diClaudia fino al Ponte della Priula.Il suo prolungamento sud identifi-ca esattamente il Forte di Treportidi Jesolo. Probabilmente il Forte,circondato dall’acqua, era un anti-co torrione munito di segnalazionee di misurazione.

Il terzo miglio est dall’intersezio-ne dell’asse della Claudia con la Po-stumia, a sud di Altino identificacon precisione, uno dopo l’altro, icampanili di Santa Caterina eSant’Erasmo. Il secondo miglio est,a sud di Altino traguarda il campa-nile di San Francesco del deserto.

Ad est dell’intersezione Postumia-Claudia, ilprimo miglio congiunto con Altino tocca ilCampanile di Burano.

Dalla parte opposta dell’asse Brennero-Altino,ci sono il Forte di Treporti, dal primo miglioovest, Altino e il Campanile di Torcello.

Il secondo miglio ovest segna Altino, Pontedelle Due Sorelle.

Il terzo miglio ovest passa su Altino e sulCampanile di Treporti.

Solo Due Sorelle e Treporti consevano le di-zioni numeriche originali. Un’antica illustrazio-ne di Alvise Cornaro nel sito del secondo miglioriporta il toponimo “Do Casteli”. Gli altri topo-nimi sono stati tutti probabilmente cambiati.

Sul prolungamento nord delle radiali resta unsolo toponimo numerico: Tre Pietre di Cesio-maggiore e Corno Tramin.

Anche sul ghiacciaio della Marmolada esistonodue acronimi numerici: Sasso Dodici (Q. 2742) eSasso Undici (Q. 2792) che però non si accorda-no con la dizione dei piccoli numeri. Probabil-mente si riferiscono ad altra misurazione. Pocolontano a ovest della Marmolada, a sud di Vigodi Fassa c’è l’acronimo: Sasso delle Dodici (Q.1428). Esso forse si riferisce alla radiale di Con-cordia Sagittaria. Infatti prolungando l’asse Sas-so delle Dodici oltre Concordia si incontra il to-ponimo Dodici d’Istria a sudest di Parenzo.

Padova e VicenzaAnche la città di Padova era orientata su acro-

nimi derivati da Altino. Il Decumano Massimo

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da Monte Alto (Q. 444) prose-gue sui Berici fino a Malamoc-co. Il Cardo Massimo da Col Al-to (Q. 598) di Maser traguar-dando Castelfranco.

Vicenza invece ha il CardoMassimo da Monte Rua sui Be-rici al Summano. Il DecumanoMassimo da Cittadella a Soave.Rileviamo un particolare forsecasuale: prolungando quest’assea sudovest oltre Soave, si incon-tra un altro Soave sul Mincio.Altro particolare: il segmento diPostumia dal Brenta a Vicenzagiace su una retta che tocca ColVisentin (Q. 1764) a sud di Bel-luno.

Prima ancora di essere rivoltacontro pericoli di invasioni bar-bariche, la strategia romana della Cisalpina erarivolta all’occupazione e al controllo delle Alpi edelle Prealpi. Solo dal IV al V secolo la difesa dainvasioni assunse carattere preminente.

I campi militari divenuti poi città della Vene-zia erano posti a guardia delle valli prealpine invista di rapidi interventi contro le popolazioni

locali. Dalla pianura, un sistema di due o più vieportava dai campi-città all’imbocco delle valli.

Verona controllava l’imbocco della valle del-l’Adige e tutte le valli veronesi della Lessinia.

Prunello o Valbruna, ora Tezze di Arzignano,era posta all’imbocco delle valli del Chiampo edell’Agno. Forse era rincalzata da Este.

Vicenza puntava verso val Leogra e Astico coni rispettivi posti franchi di Schio e Thiene.

Padova rincalzava da un lato Vicenza e altredue vie controllavano la Valbrenta via Cittadellae la valle del Piave via Valdobbiadene.

Altino e la Via Claudia sembrano invece impo-stati a diversa strategia, cioè di un rapido attra-versamento delle Alpi.

Miliarium AureumCon questa analisi considero conclusa la mia

ricerca. Un sistema usato duemila anni fa, ora èsufficientemente chiaro. Come ho già scritto su:Geografia Romana (1984), L’oro di Marana(1986) e Toponimi numerici della Postumia edella Claudia (1998), la pianificazione territoria-le romana doveva soddisfare più esigenze: rileva-re il territorio e controllarlo. Tutte le vie, le istal-lazioni e gli insediamenti erano posti su una tra-ma prestabilita. Questo supporto geometrico la-tente prima ignoto, lo mostra chiaramente.

Lo stesso tipo di ricerca può essere esteso atutta la Cisalpina e all’impero. Resta solo da de-terminare il legame fra i vari sistemi che con-vergevano sulla pietra miliare d’oro fatta erigereda Augusto nel foro presso il tempio di Saturnoper indicare il punto dove tutto iniziava.

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Non si hanno notizie certissime sulla venutadei Cimbri in Padania, si pensa che la mi-grazione di queste popolazioni sia iniziata

partendo dal territorio che attualmente corri-sponde alla penisola dello Jutland in Danimarca[1]. Per quanto riguarda il no-me “Cimbri”, possiamo risalirea vocaboli derivati dal tedescoche fanno corrispondere il ter-mine con la parola “saccheg-giatori”; secondo BerresfordEllis [2], il nome deriva da vo-caboli di origine celtica come:“cimb” (tributo, riscatto) e“cimbid” (prigionieri); unaconsiderazione che possiamosicuramente fare è notare co-me quel poco conosciuto siastato tramandato da storici la-tini e greci che lo hanno evi-dentemente fatto dal loroesclusivo punto di vista (il no-stro è ben diverso: forse liavremmo chiamati “liberato-ri”).

Alla fine del II secolo aC., in-sieme con i Teutoni, gli Ambro-ni e numerose altre popolazionigermaniche minori, i Cimbriattraversarono l’Europa Cen-trale penetrando in Gallia Tran-salpina e in Padania, entrandoin conflitto con le numerose le-gioni romane a presidio dei ter-ritori di confine. È interessantenotare come i nomi dei Teutonie degli Ambroni siano sicura-mente di origine celtica [3], in-fatti Teutoni corrisponde all’Ir-landese “tuath” (tribù) e al Gal-lese “tud” (gente); il termineAmbroni deriva dal nome dato

dai Celti ai corsi d’acqua (ambra = acqua). An-che i nomi dei comandanti di queste popolazionisono sicuramente gallici, abbiamo Teutoboduusper i Teutoni e Claodicus per i Cimbri, guidatidal re Beorix (o Boiorix). I Romani ricordavano

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La battaglia dei Campi RaudiPadania 101 a.C.:

i Cimbri contro le Legioni romane di Lamberto Sarto

Le donne difendono i carriaggi ad Aquae Sextiae. Incisionedel XIX secolo

ancora la paura provocata dalle invasioni deiCelti nei secoli precedenti e il loro terrore eradiventato qualcosa di “genetico”: non a caso il 6ottobre del 105 aC., ad Arausio (Orange, Fran-cia), 80.000 legionari (due armate consolari gui-date da Caepio e Mallius) furono sbaragliati indue distinte battaglie (una sconfitta che nellastoria di Roma ha riscontro solamente con quel-la subita dai legionari a Cannae).

Fu allora che venne mandato a comandare letruppe romane il console Gaio Mario, ritornatovittorioso dalla Libia, per affrontare i “barbariinvasori”. In due separate battaglie intorno adAquae Sextie, corrispondente alla città proven-zale di Aix, nel Dipartimento del Rodano, (Figu-ra I) Mario sconfisse i Teutoni e gli Ambroni,mettendosi in condizione di volgere la sua at-tenzione ai Cimbri comandati dal re Beorix che,scendendo dal passo del Brennero, avevano datofilo da torcere presso Tridentum (Trento) alle le-gioni di Lutatius Catulus inviate dal Senato diRoma per fermarli, impresa miseramente fallitaal punto che Catulus scappò con tutte le suetruppe fino in Emilia [4].

Mario con sei legioni formate da veterani (cir-ca trentamila uomini) marciò, dopo aver attra-versato il Po e dopo essersi riunito con le truppe

di Catulus, incontro a Beorix in Padania, vicinoai Campi Raudi presso Vercellae. La localizzazio-ne del campo di battaglia non è mai stata risoltain modo definitivo: autori come Gualtiero Ciola[5], parlano della valle dell’Adige, in realtà alcu-ne carte topografiche possono aiutare a chiarirela questione. Grazie alla carta della Padaniatracciata da Abramo Orfelio nel 1590, tuttoraconservata presso la Raccolta Civica Bertarelli(figura II), i Campi Raudi sono localizzati a Estdi Vercelli nel tratto delimitato dal fiume Sesia edalla confluenza del Ticino nel Po a Nord di Ca-steggio (antica capitale dei Celti Anari e impor-tante caposaldo a difesa del guado sul Po: ancheAnnibale nell’attraversare il grande fiume eradovuto passare da qui) .

A questo punto è doveroso esaminare alcunequestioni:

Non abbiamo nessun tipo di rilevanza archeo-logica su questo avvenimento, quello che ci èpervenuto lo dobbiamo a Plutarco, che era piùinteressato a esaminare lo spessore psicologico ecaratteriale dei personaggi implicati piuttostoche renderci un resoconto dettagliato della bat-taglia e delle circostanze connesse.

Si pensa che una parte di quello che Plutarcoha scritto sia frutto di sue invenzioni che poco

corrispondono conquello che si puòricavare dalle co-noscenze archeolo-giche sulle popola-zioni germanichedel periodo in ge-nerale. Scrive in-fatti Plutarco aproposito della ca-valleria dei Cimbri:“I loro cavalieri(...) indossavanoelmi a forma di te-ste di belve ferocicon le fauci spa-lancate (...), e que-ste erano copertecon piume , facen-doli sembrare piùalti di quello cheerano. Avevanopettorali di ferro ebianchi scudi lu-centi. Ogni uomoportava due gia-vellotti, da lancio,

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Combattimento delle donne cimbre ai Campi Raudi

e per il combattimento (…) usavano larghe epesanti spade”.

Dall’evidenza archeologica sulle popolazionigermaniche di quel periodo non risulta infattiche esse indossassero armature: solo raramenteportavano elmi e avevano pochissime spade. De-scrivendo il tipo di armi delle popolazioni ger-maniche del primo secolo dC., Delbruck H. nellasua “Storia dell’arte della guerra” ci fornisce unquadro molto dettagliato: “Solamente pochiguerrieri avevano armature o elmi, la loro prin-cipale protezione era un grande scudo di legnoricoperto talvolta di pelli e la protezione dellanuca era fornita da copricapi fatti sempre dipelli e pellicce…. le prime file dei combattentiavevano lance lunghe la maggioranza utilizza-va bastoni e piccoli giavellotti” [6]. Questa testi-monianza riguarda il massacro delle tre legioniromane di Varo ai tempi dell’imperatore Augu-

sto circa 110 anni dopo gli avvenimenti citati inquesto articolo ed è perciò presumibile che po-tesse riguardare anche popolazioni più antiche.L’unica cosa storicamente accertabile scritta daPlutarco è la descrizione dei cavalli che erano si-curamente più possenti dei “pony” delle popola-zioni latino-mediterranee.

Va comunque ricordato che lo storico di origi-ne greca aveva descritto gli eventi ben 200 annidopo l’accaduto ed è perciò ipotizzabile cheavesse in mente le popolazioni germaniche delsuo tempo.

Tornando ad esaminare la battaglia, sappiamoche Beorix stava aspettando fiducioso l’arrivodegli alleati Teutoni e Ambroni per stabilirsi de-finitivamente in Padania, quando Mario soprag-giunse stabilendosi ad Ovest rispetto ai Cimbri,dentro un campo fortificato vicino a Vercellae, alsicuro da improvvisi assalti.

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Figura I. Percorso dei Cimbri e dei Teutoni (tratto da Peter Wilcox et all., Barbarians againstRome, p. 84)

Fu allora che Beorix, dopo aver sfidato Mario aduello (ancora una volta dobbiamo registrareuna tipica usanza che giustifica l’ipotesi avanza-ta da molti studiosi di uno stretto legame cultu-rale dei Cimbri col mondo celta) [7] e avere otte-nuto un rifiuto, affrontò le legioni in campoaperto e - come scrive Plutarco – Mario, contra-riamente a ogni dottrina tattica militare roma-na, accettò lo scontro affermando che la pianuraera un ottimo posto per combattere e per con-sentire alla sua cavalleria di muoversi agevol-mente.

Anche questa descrizione iniziale lascia al-quanto perplessi, Mario disponeva solamente di300 cavalleggeri per ogni legione. Le legionipresenti erano una decina ma ridotte di numero

in effettivi: anche qualora fosse stata presente aranghi interi, la cavalleria romana avrebbe avutoal massimo 3.000 uomini e cioè, stando alla te-stimonianza storica, in rapporto di 1 a 5 rispettoai Cimbri.

La battaglia iniziò con la cavalleria dei Cimbriall’assalto del fianco sinistro dei Romani. Con-temporaneamente la gran massa della fanteria“barbarica” attaccò al centro le legioni coman-date da Catulus, inferiori in qualità rispetto allelegioni di Mario. Quello che è stato tramandatoda Plutarco a questo punto è semplicemente lapresenza sul campo di battaglia “di un gran pol-verone” col risultato finale della sconfitta deiCimbri.

Come i Romani abbiano fermato la carica di

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Figura II. Localizzazione dei Campi Raudi. Disegno di Abramo Orfelio, 1590 d.C.

15.000 cavalieri sul fianco e l’assalto della fante-ria al centro rimane un mistero; viene ricordatoche i Cimbri attaccarono con il sole di fronte etutto quello che è stato scritto è una frase moltolapidaria: “I Cimbri attaccarono, i Cimbri mori-rono”. Anche la descrizione dell’epilogo dellagiornata lascia molto perplessi: sempre Plutarcotestimonia infatti come le donne cimbre ucci-dessero i superstiti che ritornavano al campo ecome, pur di non farsi catturare dall’odiato ne-mico, si togliessero esse stesse la vita, rinnovan-do un’usanza che trova riscontro fra le più tipi-che tradizioni celtiche [8]. Basterà pensare allavicenda di Boudicca, regina degli Iceni, chesconfitta si tolse la vita dopo aver ucciso i suoicari.

Di questo valoroso popolo, Plutarco affermache ben 60.000 furono i prigionieri e che i mortiammontarono a 120.000.

Note sulle forze in campoEsercito romanoConsoli - Gaius Marius e Q. Lutatius CatulusLegioni - 6 legioni di veterani sotto il comandodi Mario per un totale di circa 32.000 uomini, e4 legioni sotto il comando di Catulus per un to-tale di 20.300 uomini.Le cosiddette legioni “mariane” erano il risulta-to della esperienza di guerra di Gaio Mario, cheaveva abolito l’antica suddivisione secondo leclassi in velites, hastati, principes e triari. Ognilegione era organizzata su tre linee di coorti for-mate da manipoli di 400, 500 o 600 legionari aseconda della necessità: ogni legionario aveva adisposizione un metro e mezzo di spazio in ognifila del manipolo.

CimbriComandante in capo BeorixCavalleria di 15.000 uomini e fanteria di 120.000uominiLa disposizione, secondo Putarco, di questaenorme massa di uomini è ancora una voltamolto opinabile (più corretto sarebbe dire total-mente sbagliata), infatti egli afferma che la fan-teria occupava uno spazio di circa 14 migliaquadrate (un miglio corrispondeva, nella misu-razione romana, a circa 1480 metri), se conside-riamo che ogni singolo uomo occupava uno spa-zio, ad essere generosi di 2,5 metri quadri (comescritto in precedenza, i legionari occupavanouno spazio di un metro e mezzo ciascuno), uti-lizzando una semplice calcolatrice otteniamoche sul campo di battaglia avrebbero dovuto es-

serci un esercito spropositato di 15 milioni diCimbri.

Considerazioni finaliOsservando i numeri complessivi delle forze

in campo (135.000 Cimbri contro 52.300 Roma-ni), sembra impossibile pensare a una sconfittacosì totale dei “Germanici”. Considerando anchela descrizione fatta da Plutarco dell’armamento(elmo, pettorale metallico, lancia e spada), duesono le ipotesi finali:A. I numeri sono reali.

Come visto in precedenza, è difficile credereche i Cimbri fossero armati come guerriericelti. Più probabilmente, come confermato daireperti archeologici delle popolazioni germa-niche del periodo, erano dotati di pochissimearmi di metallo di buona fattura, scudi di le-gno e nessuna corazza o elmo in grado di resi-stere ai colpi inferti dai legionari romani.Inoltre dobbiamo tenere conto del misteroche riguarda i superstiti del massacro, standoalle fonti vi furono 60.000 prigionieri e ben120.000 morti. Un esercito di 135.000 uominiche si muoveva con le famiglie comporterebbetranquillamente la presenza di oltre 300-350.000 persone con relativi carriaggi e so-stentamenti per uomini, donne e bambini: èquindi difficile pensare che i circa 100-150.000 superstiti siano spariti senza lasciaretraccia ma purtroppo nulla è rimasto, né distorico, né di archeologico, che risolva il mi-stero. Le considerazioni possibili basandosisui “numeri” di Plutarco sono:1. i superstiti si allontanarono ritornando nel-

la loro terra (a sostegno possiamo fare rife-rimento a quanto avvenne agli Helvetii, che,dopo la sconfitta subita da parte di Cesare,rientrarono nei loro confini);

2. i superstiti si ritirarono dalla pianura fer-mandosi sui monti e nelle vallate alpine for-mando nuove comunità. C’è una leggendache li vuole stanziati nelle valli biellesi. Sicu-ramente non hanno però nessun rapportocon i Cimbri che tutt’oggi abitano alcune zo-ne delle province di Verona, Vicenza e Tren-to, che sono giunti in Padania nel tredicesi-mo secolo, come attestato da un documentodatato 5 febbraio 1287 con la concessione daparte del vescovo di Verona Bartolomeo dellaScala, del permesso di insediarsi.[9]

B. I numeri sono falsi.Abbiamo già visto come sia difficilmente cre-dibile l’informazione di Plutarco sulla disposi-

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zione sul campo di battaglia. Altri dubbi sor-gono se si confronta la narrazione effettuatada Cesare che aveva descritto una migrazionedi questo tipo, riguardante gli Helvetii sconfit-ti a Bibractae, nel suo De Bello Gallico. Stan-do agli storici, ben 368.000 persone furonosconfitte dalle legioni cesariane. E’ stato an-che dimostrato che i numeri inerenti la forzadei Galli siano sempre stati falsati da Cesare:ad esempio, il convoglio degli Helvetii, che do-veva avere circa 8.500 vagoni trainati da 4buoi ciascuno, avrebbe raggiunto la lunghezzadi circa 125 chilometri che appare del tuttoinverosimile [10]. Neppure l’obiezione che ilconvoglio poteva muoversi su file parallelenon è proponibile: le strade del tempo non so-no certo le autostrade di oggi. E inoltre il per-corso dei Cimbri attraversava valichi alpini,corsi d’acqua e difficoltà notevoli ed è facileimmaginare cosa sarebbe successo davanti aostacoli semplici come ponti o guadi: si sareb-bero formati ingorghi indescrivibili rallentan-do la marcia inesorabilmente. Anche senza considerare i carri di trasporto,se una legione romana di 6.000 uomini forma-va una colonna di 1,5 km [11], i 120.000 fantidi Beorix (sicuramente meno disciplinati deiRomani) avrebbero formato una linea lunga, aessere ottimisti, almeno 30 km. Considerandoda 20 a 30 i chilometri di marcia percorsigiornalmente, significherebbe che quando latesta della colonna arrivava alla destinazionegiornaliera prevista, la coda doveva ancoramettersi in marcia!Se non diamo credito a Plutarco ma ci affidia-mo a storici come Delbruck e Connolly, il nu-mero dei Cimbri è riferibile a circa 10.000guerrieri più donne e bambini, e si arriva a ci-fre intorno a 30-40.000 persone (a sostegno diquesta tesi, ricordiamo che durante le “inva-sioni barbariche” di Goti, Vandali e Burgundi iloro numeri andavano da 10.000 a 20.000guerrieri per popolazione), una loro sconfittaavrebbe portato molto probabilmente allaestinzione o riduzione in schiavitù di tutto ilpopolo spiegando così il mistero sulla fine deisuperstiti.

Comunque si leggano i numeri della migra-zione dei Cimbri, furono indubbiamente deglieroi quelli che affrontarono le legioni di sangui-nari professionisti armati di tutto punto, e so-prattutto sapendo di avere la responsabilità ditutta la loro popolazione di anziani, donne e

bambini al seguito. Il vero grande rammaricoche resta è constatare, leggendo libri di storia“italiana”, come vi sia un assoluto oblio su gestacompiute da condottieri ed eroi (come questima anche come tanti altri) che hanno dato la lo-ro vita in Padania e per la Padania: vie, strade epiazze delle nostre città dovrebbero portare no-mi come, Beorix, Bellovesus, Ducario, Annibalee tanti, tanti altri ancora.

Bibliografia[1] Theodore Ayrault Dodge, Caesar (New York:Da Capo Press, 1997), p.17 [2] Peter Berresford Ellis, Celt and Roman (Lon-don: Constable and Company, 1998), p.233[3] Peter Berresford Ellis, op.cit., p.233 [4] Peter Wilcox, Rafael Trevino, Barbariansagainst Rome (Oxford: Osprey edition, 2000),p.86 [5] Gualtiero Ciola, Noi Celti e Longobardi (Ve-nezia: Helvetia edizioni, 1997), p.117 [6] Hans Delbruck, The Barbarian Invasions(University of Nebraska: Bison Book, 1996), p.47[7] Peter Wilcox, Rafael Trevino, o. cit., p.86[8] Ibidem, p.86“Le donne germaniche li colpirono con scuri econ bastoni, strapparono loro gli scudi con lenude mani, non riparmiarono nemmeno i lorouomini, perché ai loro occhi colui che fuggivameritava la morte”. S Fischer-Fabian, I Germa-ni (Garzanti, Milano: 1997), p.46“(…) allora presero le spade che avevano impu-gnato contro i nemici, e le rivolsero contro sestesse e i propri congiunti. Alcune si trafisseroscambievolmente, altre afferrandosi per la golasi strozzarono a vicenda, altre legarono unacorda alle zampe dei cavalli e, dopo averla av-volta attorno al proprio collo, frustarono i ca-valli e furono da essi trascinate e dilaniate. Al-tre ancora si appesero con una corda al timonedel proprio carro che avevano drizzato in alto.Fu rinvenuta persino una donna che aveva le-gato, con una corda al collo, i due figlioletti aipropri piedi, e, dopo essersi lasciata cadere nelvuoto per impiccarsi, aveva parimenti trascina-to nella morte i suoi bambini”. (Orosio, Histo-riae)[9] Paolo Righetti, “Spazio architettonico e cul-turale: i villaggi Cimbri”, su Etnie, n.5, 1983,pp.28-31[10] Hans Delbruck, Warfare in Antiquity (Uni-versity of Nebrasca: Bison Book, 1996), p.461[11] Peter Connolly, Greece and Rome at War(London: Greenhill Book, 1998), p.238

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Ci sono luoghi che nel corso dei secoli sonostati teatro di molti eventi storici e che an-cora oggi, dopo tanto tempo, mantengono il

loro fascino intatto, se non addirittura accre-sciuto proprio dal peso di quelle memorie di cuisono stati testimoni. Uno di questi siti è il fiumeAdda, per secoli barriera di confine tra territorioccupati da popolazioni diverse: separava gli In-subri dai Cenomani ai tempi dei Celti, l’Austriadalla Neustria ai tempi dei Longobardi, i posse-dimenti di Milano da quelli della Se-renissima dopo il 1427 e fino al 1797.È logico dunque che l’Adda fosse sce-na di numerosissimi scontri militarie teatro di sanguinose battaglie sinquasi dalla Preistoria dei popoli pada-ni fino a vicende più attuali.

Se scorriamo gli annali della storia,troviamo il primo scontro importantelungo le sponde del fiume nel 222a.C., episodio della lunga guerra chevide opposti i Celti padani ai Romaniinvasori e che terminò con la conqui-sta e la sottomissione della Gallia Ci-salpina da parte di Roma all’inizio delsecolo seguente. Nel 222 le legionicomandate da C. Flaminio e P. Furioriuscirono a sconfiggere i Galli Insu-bri, facendo circa 16.000 prigionieri e8000 morti in battaglia.

Proprio in questi giorni (per la pre-cisione l’11 agosto) cade la ricorrenzadi un altro episodio bellico importan-te sul fiume, che nel 490 vide oppostigli Ostrogoti di Teodorico agli Erulicomandati da Odoacre. Gli Ostrogotierano stati mandati in Italia dall’im-peratore d’Oriente Zenone nella spe-ranza di contrastare Odoacre, che nel476 aveva deposto l’ultimo imperato-re romano - il giovanetto Romolo Au-gustolo - e, pur avendo inviato allostesso Zenone le insegne dell’Imperoriconoscendone la superiorità, di fat-

to esercitava i pieni poteri in Occidente. Teodo-rico aveva già sconfitto Odoacre l’anno primasul fiume Isonzo; avrebbe potuto dirigersi versoRavenna, dove Odoacre aveva stabilito la capitaledel suo regno, ma preferì lanciarsi verso l’Adda:aveva infatti intuito che gli Eruli stavano ten-tando di ricostruire il loro esercito grazie all’ap-porto di rinforzi germanici. L’improvviso attaccodi Teodorico - alleatosi coi Visigoti - sbaragliòOdoacre che, sconfitto con gravi perdite, si trin-

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Adda: fiume, campo di battaglia, confine

di Elena Percivaldi

Una miniatura che rappresenta l’imperatore FedericoBarbarossa, protagonista di una battaglia nei pressi diCassano d’Adda

cerò a Ravenna, dove capitolò dopo tre anni diduro assedio.

Meno di duecento anni dopo, nel 688, uncruento combattimento ebbe luogo a Cornated’Adda tra i Longobardi tradizionalisti arianiguidati dal duca di Trento e Brescia Alachis e letruppe comandate dal re Cuniperto, esponentedella parte cattolica. I guerrieri di Alachis aveva-no posto i loro accampamenti nei pressi di Cor-nate, dove c’era una piccola radura. Paolo Diaco-no, lo storico dei Longobardi, racconta che pocoprima della battaglia un tal Senone, chiericodella chiesa di S. Giovanni Battista di Pavia, poi-ché temeva per la vita di Cuniperto, si offrì disostituirlo indossando la sua armatura e fu ucci-so per mano del duca ribelle. Cuniperto sfidò al-

lora Alachis in singolar tenzone, ma il duca ri-fiutò perché sulle lance del re era incisa l’imma-gine di S. Michele, protettore del popolo longo-bardo e sul quale egli stesso aveva giurato. Maormai era troppo tardi per evitare lo scontro,che si consumò con una grossa strage da ambole parti. L’esercito cattolico ebbe la meglio, e iguerrieri ariani che scamparono al massacro sulcampo perirono annegati nel fiume. Alachis fuvinto dal re in persona; la sua testa fu mozzata ele ginocchia spezzate; il suo cadavere mutilato einforme fu esposto dai vincitori come trofeo diguerra.

Nel Medioevo, in piena lotta tra Comuni e Im-

pero, il fiume fu teatro di parecchie scaramuccetra le truppe imperiali di Federico Barbarossa equelle guidate dai Milanesi. Il castello di Trezzosull’Adda, caposaldo conteso tra le due parti pro-prio per le sue qualità di avamposto militare diprimaria importanza strategica, fu occupato varievolte dall’imperatore e altrettante riconquistatodai lombardi, che si impadronirono anche del te-soro che il Barbarossa vi aveva nascosto. Ma fu aCassano d’Adda, nel 1158, che Federico ricevetteuna sonora batosta. Dopo aver sconfitto i milane-si al di là del fiume, pensò bene di inseguirli sulponte mentre ripiegavano a rotta di collo verso laloro città. La struttura di legno però non ressel’urto della cavalleria pesante imperiale e si fran-tumò sotto di essa, trascinando tra i flutti ungran numero di uomini e permettendo ai super-stiti milanesi di tornare salvi a casa.

Sempre Cassano fu al centro di un altro eventoimportante, avvenuto il 27 settembre 1259. Ezze-lino da Romano, il terribile signore di Verona, do-po aver occupato Brescia ritenne giunto il mo-mento di dirigersi verso Milano per prendernepossesso, ma non vi riuscì. Ripiegò dunque versol’Adda - non senza prima aver razziato strada fa-cendo qualche centro come Vimercate - e tentòl’assedio della fortezza di Cassano. Ma fallì nelsuo progetto: sconfitto dai Milanesi e dai loro al-leati della Lega guelfa comandati da Martino dellaTorre e Azzo d’Este, Ezzelino fu ferito ad un piededa un colpo di mazza sferrato da un tal Antelmoda Cova. Nel tentativo di salvarsi, si gettò nell’Ad-da ma fu catturato e portato al castello di Sonci-no, dove morì una decina di giorni più tardi.

Successivamente, il 25 febbraio 1323, a scon-trarsi sul fiume furono i seimila fanti e mille ca-valieri di Galeazzo Visconti e le forze della Legaantiviscontea. Sul campo i comandanti Marco eLuchino Visconti uccisero senza pietà, dopoaverli fatti prigionieri, Simone Crivelli e France-sco di Garbagnate, i due capitani avversari.

Dopo le lotte tra Comuni e Barbarossa e quel-le tra Visconti e Torriani per il predominio suMilano, troviamo di nuovo il castello di Trezzoprotagonista. Essendo caduto in rovina a causadell’incuria e dei numerosi eventi bellici, fu re-staurato nel 1370 da Bernabò Visconti, che nefece una sua residenza adibita alle cacce e ai di-vertimenti, oltre che una solida fortezza. Ma taleazione fu al Visconti fatale: nel 1385 fu infattirinchiuso nelle sue segrete dal nipote, e vi trovòla morte - forse per avvelenamento - poco tempodopo.

Il Quattrocento fu il secolo delle lotte per il

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Crocetta d’oro che i Longobardi cucivano suivestiti. Alcune sono tornate alla luce nei pres-si di Cornate

predominio tra Milanoe Venezia. L’Adda di-ventò confine tra i dueStati nel 1427, dopo lavittoria di Venezia aMaclodio, ma la situa-zione non si stabilizzòdi certo. Nel 1437 sul-l’Adda fu sconfitto l’e-sercito guidato dal ca-pitano di ventura Nic-colò Piccinino, checombatteva al soldo deiVisconti sempre controVenezia e si era già di-stinto, pur nella disfat-ta, proprio a Maclodiocontro il Conte di Car-magnola. E il 14 mag-gio 1509, nel quadrodelle guerre d’Italia, a Vailate - poco distante dalfiume, in località nota anche col nome di Agna-dello o di Ghiara d’Adda - l’esercito della Lega diCambrai (circa 37mila uomini messi a disposi-zione da papa Giulio II, da Ferdinando il Cattoli-co, dal re di Francia Luigi XII, dall’imperatoreMassimiliano, dal duca di Savoia e dal duca diFerrara) sconfisse duramente Venezia, costrin-gendola a rinunciare definitivamente ad espan-dersi oltre l’Adda.

I veneziani, comandati da Bartolomeo d’Alvia-no e Nicola Orsini, varcarono il fiume per con-quistare gli avamposti di Pandino e Vailate; maappena giunti all’altra riva, vennero colti di sor-presa dai Francesi capitanati da GiangiacomoTrivulzio; i reparti guidati dal d’Alviano si batte-rono, mentre quelli comandati dall’Orsini prefe-rirono ritirarsi lasciando gli alleati in balia del-l’avversario. Le perdite furono circa seimila eBartolomeo fu ferito e fatto prigioniero.

Dopo un periodo di relativa tranquillità, le ri-ve dell’Adda tornarono al centro delle vicendebelliche nel Settecento durante la guerra di suc-cessione spagnola. A Cassano nel 1703 ben 4500soldati piemontesi furono imprigionati dai Fran-cesi e lasciati morire di fame nelle segrete dellafortezza dopo che Vittorio Amedeo II di Savoiaebbe deciso di rompere l’alleanza stipulata con ilre Luigi XIV. E due anni dopo, nel 1705, sempreCassano fu il sito di una battaglia tra gli impe-riali austriaci comandati dal principe Eugenio diSavoia e i Francesi del Duca di Vendome. Il 15agosto, dopo vari scontri improduttivi, gli Au-striaci furono costretti a passare al di là del fiu-

me per riparare aBrembate; e il giornodopo i Francesi incon-trarono le truppe au-stro-piemontesi a Cas-sano e le sconfisseroduramente. Il principeEugenio, che era inter-venuto in aiuto del du-ca di Savoia contro gliSpagnoli che nel frat-tempo avevano occu-pato il Piemonte, fucostretto alla fuga inTirolo, lasciando sulcampo oltre 10.000morti. L’ultimo episodio im-portante di cui fu tea-tro il fiume avvenne il

10 maggio 1796, nel quadro della campagna d’I-talia condotta da Napoleone Bonaparte. Dopoaver sconfitto i Piemontesi a Mondovì, Bonapar-te rivolse le sue attenzioni contro gli Austriaciguidati dal generale Beaulieu, riuscendo a im-porgli la ritirata sul fiume Adda attraverso ilponte di Lodi. Dall’altra riva gli Austriaci canno-neggiarono i Francesi che cercavano di passareil fiume; per aggirare il bersagliamento, Napo-leone condusse una parte dei suoi a guadarel’Adda sulla sinistra, in modo da accerchiare ilnemico. La manovra riuscì perfettamente e gliAustriaci furono costretti a ritirarsi in disordinein direzione del Mincio, lasciando ai Francesi ilponte e gran parte dei cannoni e dell’artiglieriae aprendo loro la via per Milano.

Tanti avvenimenti bellici, tanti personaggistorici e tanti morti hanno dunque contribuito acaratterizzare nel corso dei secoli la fisionomia el’importanza del fiume Adda, uno dei più note-voli luoghi storici della Lombardia e di tutta laPadania. In questa sede abbiamo trattato solodei fatti militari, ma l’Adda fa parte del nostropatrimonio culturale anche perché le sue acquefurono sfruttate per scopi industriali e sono sta-te uno dei fattori che hanno portato l’economiadella Lombardia a distinguersi come una dellepiù avanzate e produttive d’Europa. E sull’Addalavorò Leonardo e operarono altri ingegneri, chediedero il loro contributo per domarne il corso.L’Adda è dunque una parte integrante della no-stra storia e della nostra cultura, che sicura-mente bisognerebbe valorizzare e far conosceremeglio.

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Statua equestre di Bernabò Visconti, che morìin prigione nel castello di Trezzo

“La Romagna non è l’Emilia”. Se c’è una co-sa che i Romagnoli potrebbero ricordarviall’infinito è proprio la loro specificità ri-

spetto ai cugini Emiliani. Una differenza frutto disecoli di storia raramente condivisa che si denotaanche negli idiomi locali. Essi hanno avuto en-trambi chiaramente origine dalla sovrapposizionedel latino al sostrato celtico, ma hanno subitoun’evoluzione differente. La diversità della linguaromagnola è infatti frutto - come ha affermatoFriedrich Schürr, glottologo austriaco che ha de-dicato gran parte dei suoi studi alle evoluzioni fo-netiche del romagnolo - al“periodo di sostanziale iso-lamento entro i confini del-l’Esarcato di Ravenna equelli sovrappostivi delloStato Pontificio”.

La conquista longobardadi vasti territori della peni-sola attualmente italiana (VIsecolo d.C.) avvenne in ma-niera graduale. A nord sifermò per un certo numerodi anni ai margini del fiumePanaro, allora compreso nelterritorio esarcale di Raven-na, e ciò che restò sotto ildominio dell’Esarca vennedenominato Romania, valea dire: terra di Roma, legata all’antica capitaledell’impero dalle leggi, dalla lingua, dall’alimen-tazione, eccetera. poiché i Bizantini, che qui re-gnavano, si credevano diretti eredi dell’Imperoromano. Successivamente i Longobardi si spinse-ro fino a Bologna, s’integrarono facilmente conquel territorio e le sue istituzioni culturali e ilterritorio dell’Esarca, così ristretto, venne deno-minato Romandiola. Vale a dire “piccola terra diRoma”. Tale situazione si protrasse all’incirca pertre secoli e si trattò dell’atto di nascita della Ro-magna, con una delimitazione territoriale, da al-lora, fortemente determinata.

Geograficamente la Romagna è infatti delimita-

ta a nord dal fiume Reno, dalle valli comacchiesi,dalla bassa argentana e su fino a Sesto Imolese ri-salendo il corso del Sillaro. Sempre il Sillaro sipone come confine fino al Passo della Futa sulcrinale appenninico. Da questo punto seguendo ilcrinale appenninico principale fino all’Alpe dellaLuna si delinea invece il confine a sud. Rimanesolo un po’ più incerto il confine che dall’Alpedella Luna va verso Gabicce: quella è una zona ditransizione che negli anni passati ha subito piùl’occupazione e l’organizzazione del ducato mon-tefeltresco di Urbino che la presenza delle auto-

rità pontificie. Si tratta dellaRomagna della quale parla,fra l’altro, Dante nel XXVIIcanto dell’Inferno in termi-ni estremamente puntualianche in ordine alle princi-pali città e alle relative si-gnorie. Il territorio romagnolo, am-ministrativamente, ha regi-strato nei secoli diverse pre-senze estranee e svariate in-gressioni: fiorentine, ferra-resi e urbinate, tanto chenel 1371, quando ai fini fi-scali e per la conoscenza delterritorio venne redatta laprima carta della Roman-

diola, per la frantumazione sopra citata non fupossibile tracciare il confine a ridosso del crinalee neanche a nord con Ferrara che, fino all’estin-zione della casa dinastica d’Este, mantenne ilcontrollo della cosiddetta Romagna estense. Solocon l’unità d’Italia la Romagna vide finalmentedesignare a sé quest’ultima porzione: (Massalom-barda, Conselice, Lugo, Fusignano, Bagnacavallo,Solarolo e parte della pianura faentina) e di di Ca-stel Bolognese, ma vide invece “partire” tutto l’I-molese che tutt’ora permane amministrativa-mente nell’orbita provinciale di Bologna.

Precedentemente, nel 1850, il segretario di sta-to pontificio Giacomo Antonelli, operò, per ragio-

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Manifesto per l’indipendenzadella Romagna

di Alessandro Barzanti

Antica bandiera imperiale dell’esarca-to di Ravenna

ni amministrative e di culto, una sorta di riformaregionalistica del territorio della Chiesa. ChiamòMarche e Umbria pressappoco gli attuali corri-spondenti territori regionali e Marittima-Campa-gna la parte dell’attuale Lazio allora pontificia.Rimasero scoperte a nord le Legazioni di Bolo-gna, Ferrara, Ravenna e Forlì e, con un’indubbiaforzatura che però premiava il riferimento storicopiù consolidato, venne loro imposto il nome diRomagna. Nel 1858, poi, la Legazione di Roma-gna fu trasformata in Legazione delle Romagnecon una durata di pochi mesi, in quanto i plebi-sciti del 1859 portarono i territori in questione inseno al successivo Regno d’Italia.

Nel 1923 infine, per volere di Benito Mussoli-ni, alla Romagna si aggiunsero i territori dellaRomagna toscana, che a lungo erano stati sottoil controllo politico e amministrativo toscano.Tali circostanze non hanno però mai attenuatoil senso d’appartenenza, il comune sentimento,della popolazione romagnola. Questo rimane, inassoluto, il segno più caratterizzante di ogni co-

munità saldamente omogenea. Resta, tuttavia,fuori di dubbio che il termine Romagne, impie-gato anche per fare riferimento a quelle porzioniche per secoli sono state assoggettate dai confi-nanti, ha generato in seguito qualche confusio-ne, e ha fornito pretesto, a diversi disinformati,di riferirsi impropriamente al territorio roma-gnolo, anche negandolo. E’, in ogni caso, inne-gabile che Bologna e Ferrara sono sempre staterealtà del tutto diverse e distinte dalla Romagna,e che Bologna, anche all’epoca delle Legazioni,non ha mai esercitato delle funzioni egemoni esostitutive, rispetto al potere centrale, nei con-fronti delle romagnole. Sul piano dell’organizza-zione ecclesiastica, in aggiunta, la Chiesa raven-nate e romagnola ha sempre goduto di una certaautonomia, con la denominazione di Flaminia,certamente come conseguenza dell’antico Esar-cato.

Nonostante questa palese e profonda identitàoggi la Romagna si trova a dover condividere laregione con l’Emilia.

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Confini storici ed etnolinguistici di “Romagna e Montefeltro”

L’articolazione del territorio dello stato previ-sta dalla Costituzione italiana è discutibile sottovari aspetti, ma il caso più eclatante è senzadubbio l’individuazione della regione Emilia-Ro-magna.

La definizione di questa regione è stata un’in-giustizia, perché figlia di procedure non confor-mi e di equivoci.

Il primo colpo contro l’autonomia della regio-ne storica romagnola venne inferto dal Comita-to di redazione della cartacostituzionale durante ilavori dell’Assemblea co-stituente, nel secondo do-poguerra. Senza averneesplicito potere questo co-mitato soppresse alcuneregioni che erano state in-cluse dall’apposta sotto-commissione dopo ampieconsultazioni, anche po-polari, e votazioni all’in-terno dell’Assemblea. Leregioni erano infatti rima-ste solo diciannove: risul-tavano depennate il Moli-se, il Salento e l’Emilia-Lunense. Il Friuli era sta-to accorpato alla VeneziaGiulia e compariva la dici-tura “Emilia e Romagna” a rappresentare nonsolo l’Emilia-Lunense, ma tutto questo più laRomagna. Da quell’atto d’imperio scaturirononei giorni successivi numerose proposte di cor-rezione sia in direzione più radicale che anti-re-gionalista. Vinse l’ordine del giorno, che recavacome primo firmatario Ferdinando Targetti, cheprevedeva l’introduzione nella Costituzione diun apposito articolo che stabilisse le modalitàper la nascita e la modifica delle entità regionali.La vittoria di questo contribuì però a far cadereautomaticamente gli emendamenti a favore del-l’introduzione della regione Romagna.

Un emendamento del deputato liberale Epi-carmo Corbino tentò, prima di procedere allavotazione finale sull’elenco delle regioni, di to-gliere dalla denominazione regionale il termine“Romagna”. Esso venne subito approvato, ma nenacque una generalizzata ribellione che coinvol-se l’intera aula di Montecitorio. Vista la situazio-ne, il presidente Terracini si rimise alle decisionidell’assemblea che si dichiarò favorevole alla ri-petizione del voto. Quest’ultima decisione sol-levò un vespaio al punto che, per timore che

qualcuno impugnasse il caso a pretesto, alla fineil voto non venne ripetuto; fu invece incaricatoil Comitato di redazione di determinare il nomedefinitivo.

Questo effettuò un secondo colpo di mano in-serendo la denominazione “Emilia-Romagna”,dicitura diversa per l’ennesima volta, che venneinfine approvata da un’assemblea coinvolta piùda altre tematiche e da ravvicinate scadenze chenon dall’autonomia della Romagna.

Con la Costituzione del1948 assieme all’Emilia-Romagna, nacquero diver-se altre regioni composite,come l’Abuzzo e Molise eil Friuli-Venezia Giulia.Per alcune si è passati poia soluzioni più radicali,come nel caso dell’Abruz-zo e del Molise, divenuteentrambe regioni nel1963, ma ciò non è avve-nuto per la Romagna. In questi anni la Romagnaè stata trattata alla streguadi cenerentola e oggi piùche mai sono evidenti i ri-sultati della disparità ditrattamento all’internodella regione Emilia-Ro-

magna riguardanti in particolare l’università sta-tale, il tribunale amministrativo regionale, la cor-te d’appello, la sede Rai, gli ospedali specializzati,i circuiti creditizi, il comparto turistico, le azien-de termali, la caccia e la tutela dell’ambiente.

ProspettiveSia a livello regionale che italiano la situazio-

ne pare però non avere vie di uscita. La battagliaper questo riconoscimento non è facile, perchéla legge referendaria che regola la nascita o lafusione di regioni (art. 132), non prevede che aesprimersi sul quesito sia solo la popolazione re-sidente direttamente interessata al cambiamen-to della Regione stessa, cioè nel nostro caso i so-li romagnoli ma, sempre rimanendo nel nostroambito, anche gli emiliani. Anche questa ipotesiperò è alquanto remota, perché a monte occor-rerebbe il voto favorevole dei consigli comunalie provinciali dei comuni intenzionati a costitui-re la nuova regione, nonché quello di tanti con-sigli provinciali o comunali che rappresentinoalmeno un terzo della restante popolazione dellaregione dalla quale è proposto il distacco.

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Il Gallo araldico di Romagna

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Trasgressioni. Quadrimestraledi cultura politica, numero 25(1998) e numero 26 (1998).

Il nome di Marco Tarchi è bennoto a chi si occupi di studi po-litici e istituzionali. Pur rico-noscendo la sua serietà meto-dologica e storiografica, granparte dell’apparato culturale li-beral gli attribuisce posizionipolitiche personali a dir pocooscure. Al contrario, attento emetodico studioso della crisipolitica dei regimi democratici(e il fenomeno del “leghismo”non poteva non passare attra-verso la sua lente meticolosaed esigente), Tarchi è animato-re di un orizzonte culturaleche si definisce, con orgoglio,“non conformista”. In questaprospettiva, dirige e coordinadue importanti riviste: il qua-drimestrale di cultura politicaTrasgressioni e il mensile di at-tualità culturali Diorama lette-rario. Negli ultimi numeri diTrasgressioni si leggono duearticoli di Tarchi che senz’altrointeresseranno il lettore: “Il‘crimine’ etnopluralista”, sulnumero 25 (l’articolo è apparsoanche, con lo stesso titolo, nelnumero 20/1998 di Tellus, rivi-sta di geofilosofia), e “Le radicidella crisi italiana e le scorcia-toie dell’ingegneria istituziona-le”, sul numero 26. Quest’ulti-mo riporta anche una ben cu-rata analisi di Pietro Montanarisul “Documento per un nuovofederalismo” di Cacciari. Già dauna prima lettura ci si può ren-dere conto della serietà del“prodotto” e della sua indubbiautilità documentaria.

L’articolo sul “‘crimine’ etno-pluralista” è una risposta criti-ca di Tarchi alle posizioni diBruno Luverà (di cui i lettoriricorderanno gli interventi nonsempre benevoli nei confrontidei Quaderni, pubblicati su Li-mes. In particolare, il riferi-mento è a: “La politica esteradella Lega”, Limes. 2/1997, pp.87-96) e ai detrattori dell’ideafederalista. La risposta è anali-tica e rigorosa, non mancandoperò gli spunti polemici. Ac-canto a una certa confusionemetodologica, Tarchi rimarca,respingendola, la volontà diinutile criminalizzazione cheaccompagnerebbe le posizionidi Luverà. Certo, se il federali-smo della Nuova destra (si ve-da, a tal proposito, l’ottima an-tologia curata da AlessandroCampi, La rivoluzione federali-sta. Roma: Edizioni del Setti-mo Sigillo, 1997), di cui Tar-chi, assieme ad Alain de Benoi-st, è animatore, non sempre ècompatibile con il federalismolibertario tout court da noi ingran parte proposto, è comun-que da rilevare che punti dicontatto e di serio confrontonon mancano. Ma anche que-sto, giustamente, non è un“crimine”, è libertà di discus-sione e di posizione.L’articolo sul numero 26 diTrasgressioni, parte da unaquestione fondamentale nellaricostruzione della dinamicadella crisi del sistema italiano.la latenza della crisi stessa nelpiano dei governi di centro si-nistra. La “crisi italiana” vienecosì analizzata da Tarchi secon-do i suoi sviluppi, seguendo isuoi tempi lunghi, e abbando-nando gran parte dei luoghicomuni tra Prima Repubblica eSeconda Repubblica, e mo-strando infine continuità e di-vergenze nel segno di quella la-

tenza, diventata, col tempo,“patenza”. Le riviste, dal prezzo contenu-to, sono facilmente reperibiliin libreria, ma per informazio-ni ci si può rivolgere alla Coo-perativa culturale “La Roccia diErec” di Firenze (che coordinaanche un bel servizio di offertelibrarie), telefonando allo 055-2340714.

Marco Dotti

La Vallassina. Identità e memoria nella storia di una Valle Lariana

Nell’area più interna del Trian-golo Lariano, penisola compre-sa fra i due rami del Lago diComo, un’antica vallata cheprende il nome dal borgo di As-so si configura come un’areasocioculturale e ambientale vi-tale, luogo dalle grandi poten-zialità attrattivo-turistiche etecnico-imprenditoriali. La Val-lassina è il cuore del TriangoloLariano e la sua identità piùantica ci è stata tracciata da unVallassinese che, più di due se-coli fa, testimoniò con la suadocumentata trattazione stori-ca, l’attaccamento alla sua ter-ra, rendendo possibile la rico-struzione della storia della Val-lassina, sua «Patria», dall’epocaromana fino alla fine del XVIIIsecolo circa.Il sacerdote Carlo Mazza (ver-satissimo nella storia sacra ecivile, dottore in Teologia e«lettore delle lingue orientali ediritto canonico», prevosto diAsso dal 1774 al 1808) è l’auto-re del manoscritto Memoriestoriche sopra la religione, sta-to civile e politico e varie epo-che, della Vallassina con unadisertazione sopra i più antichidi lei monumenti (1796) che cirimanda un quadro dello «statoReligioso, Civile e Politico (dei

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Vallassini), dove in un colpod’occhio potranno instruirsidelle loro vicende dalla primaorigine fino ai nostri tempi» eci introduce alla Valle in modosemplice e immediato sin dalProemio del suo testo. Infatti -recita l’autore -, «La vasta pia-nura del Milanese che dallaparte del Nord sollevasi insen-sibilmente in amene collineche portano il nome generaledi Monte di Brianza, s’alza fi-nalmente in alte montagne lequali formano un triangolo, epenisola intracchiusa fra i duerami del Lario che terminanouno a Como, l’altro a Lecco.Frammezzo a questa lingua diterra, nel cui apice sta Bellag-gio ed Asso nella base, corredal Sud al Nord una popolosaValle chiamata Assina dal Bor-go di Asso che n’è il principalpaese e capo di dieci terre, ol-tre ai molti Cassinaggi ed Alpi

in essa dispersi». Asso, «resoameno da vari e grandiosi edifi-ci di seta e tintorie, e da unacascata di un fiume che si rove-scia da un’alta rupe a piombonella sottoposta vasca», con «letre Torri che s’ergono nel sitopiù eminente del Borgo, il lettodel fiume, il ponte, le case civiliframmezzo alle rustiche, le dueterre di Pagnano e Fraino a luisovrastanti, l’elevate e visibilipianure di Gemù e di Caglio ele terre che si scorgono in lon-tananza, avvivano il fondo efanno il chiaroscuro d’un benintenso quadro di prospettiva»;la Valbrona e Visino a levante;Lasnigo, Barni e Magreglioconfinante a settentrione conCivenna, allora Feudo Imperia-le dei PP. Cistercensi; Sorma-no, Rezzago e Caglio a Ponentesono le terre che compongonoquest’operosa Valle, «uno deipiù doviziosi Distretti di Lom-bardia».Il manoscritto del prevostoMazza - che è composto da duevolumi - riassume, quindi, lememorie storiche, religiose epolitiche della Vallassina dalle

“origini” fino al XVIII° se-colo. Opera che pur con isuoi limiti, è una fonte dinotizie imprescindibile -accanto agli archivi par-rocchiali - per la cono-scenza della storia, dellacultura e delle tradizionidella Valle e che ci riman-da il sapore di un mondoche la profonda trasfor-mazione sociale e cultura-le seguita agli eventi dellaRivoluzione Francese ha,poi, irrimediabilmentecancellato. Benché l’operanon fosse mai stata dataalle stampe prima del1984 fu, inoltre, fonte diriferimento per gli studidi numerosi storici lom-

bardi e comaschi. Basti ricor-dare Ignazio e Cesare Cantù.Quest’ultimo in particolare hautilizzato - forse per primo - ilmanoscritto, come egli stessoracconta, nella Storia di Comoe sua Provincia. Le Memorie storiche della Val-lassina sono articolate in unProemio, che tratta di notizietopografiche e interessanticonsiderazioni sopra i primiabitanti e le più antiche vicen-de della Vallassina; una Parteprima, intitolata Sulla religio-ne, nella quale l’autore trattadelle origini della religione cat-tolica in Vallassina, delle pievie dei vicariati. Di particolare ri-lievo è, inoltre, una descrizionedelle chiese della Vallassina (lepiù antiche, alcune preesistentialle attuali) con i disegni e lerelative misure. Vi è pure unarassegna degli antichi mona-steri e delle confraternite.Il primo volume del manoscrit-to si conclude con l’accenno auna serie di personaggi venera-bili, nati o vissuti nella Valle. Il secondo volume - la Parte se-conda - tratta, invece, Delle co-se memorabili di Vallassina dalpunto di vista storico, politicoed economico. Dopo aver trac-ciato un quadro della storia ge-nerale della Valle dai suoi tem-pi più antichi fino al presente(1766), il manoscritto proseguecon un capitolo sulla Signoriae Feudo di Vallassina e sui nu-merosi castelli o torri della Val-le per poi passare a trattare del-lo Statuto Municipale e di altreleggi con cui la Valle si resseper circa sei secoli. L’autore de-scrive a lungo i privilegi e leesenzioni godute dalla Vallassi-na fino al 1765. Segue, poi, uninteressante capitolo sulla po-polazione antica e modernadella Valle e sul talento dei Val-lassinesi e loro industria. Ed

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infine, dopo un capitolo sulparticolare dialetto della Valle,chiamato «Spasello», il secon-do manoscritto termina connotizie inerenti il clima e gliaspetti meteorologici. Dice lo stesso autore nel Proe-mio del manoscritto: «Ho datoall’opera il titolo di memorie, el’ho divisa per materie, poichéognun vede che i fasti di unpicciol distretto non possonofornire né molti fatti né sem-pre connessi per tesserne unastoria seguita con ordine cro-nologico. Mi è stato anzi d’uo-po di riempire i vuoti di più se-coli colle generali notizie, peraltro a noi comuni, dei popoliconfinanti e del resto della no-stra Provincia». Inoltre, rivol-gendosi al lettore, il prevostoMazza lascia trasparire il suoamore per i Vallassini, comeegli affettuosamente li chiama,«pel cui vantaggio e piacereprincipalmente ho inteso discrivere. Se tanto avrò potutoottenere, mi stimerò ben sod-disfatto di tutto questo penosomio travaglio».Pagina dopo pagina, l’identitàdi una terra viene ricostruita eci viene tramandato tutto lospessore di secoli di storia chehanno tessuto il destino di unterritorio, la sua identità, lasua memoria.Come lo stesso autore affermanel Proemio del manoscritto,ciascun popolo non rimane in-differente a ciò che gli dà iden-tità e lo costituisce come popo-lo. Infatti: «Non vi ha alcun Po-polo, né forse Uomo alcuno,che non ascolti col più vivo in-teresse le notizie spettanti alproprio Paese e che non abbiadesiderato sovente di saperequali siano stati i primi suoicominciamenti, i progressi, levicende nel corso di tanti seco-li». E prosegue, poi, «Io ben

m’avvidi di ciò all’occasioneche feci un’omelia nel giornodella dedicazione della miaChiesa, spiegando queste paro-le dell’Apostolo: “Rememora-mini pristinos dies” in cui mifu d’uopo accennare alcunedelle antiche memorie patrie, ilche fu sentito con istraordina-ria soddisfazione e divenne perpiù giorni il soggetto dei co-muni discorsi e di mille curio-se dimande fattemi in appres-so».E scorrere oggi le memorietramandateci dal prevosto Maz-za, può voler dire ancora mol-to. Ma, soprattutto, vuol direcercare di ricostruire e “ri-vela-re” l’identità di tante piccolepatrie a cui ci si sente di appar-tenere nonostante il continuotentativo - messo in atto nel-l’attuale società dai centralismiburocratici - di cancellare i po-poli, vestali delle autonomie edelle tradizioni. E’ una piccolastoria, la storia di una terra«longa 5 miglia italiane e 200trabucchi» che come la storiadi tante altre terre, magari nonscritta, ci parla di sentimenti edi valori di piccoli o di grandiuomini, ci racconta di spazi in-timamente legati alle vicendedegli uomini e ci aiuta a risco-prire e a tessere la trama diuna tessera di quell’identità ne-gata che, comunque, ci appar-tiene.Dalle Memorie storiche esce vi-vida la forza del sentimento diappartenenza a una terra e allasua gente. Una terra, con le suecaratteristiche fisiche e il suoclima, influisce sicuramentesul carattere del popolo che laabita, ma il rapporto è vicende-vole. E’ la gente che la abita ela lavora a plasmare la propriaterra rendendola unica, diversada ogni altra, imprimendole ilproprio “marchio”. In questo

senso, un omaggio alle terredella Vallassina è un omaggioalla sua gente, un atto d’amore.Ma si può amare veramente so-lo ciò che si conosce. Soltantochi conosce le proprie radici sada dove viene, ha coscienzadelle proprie tradizioni, è ingrado di dialogare con le altreculture. Solo chi possiede lastoria e la cultura della propriaterra ne sa anche riconoscere ipregi e i limiti e sa migliorarlalà dove è migliorabile.E che i Popoli di Vallassina, in

terra di Padania, possano trarrerafforzata - attraverso l’anticatestimonianza del prevostoMazza - la conoscenza, il recu-pero, l’interpretazione e lareinvenzione di una terra el’impalcatura storica fra passa-to e presente della Valle, al finedi riscoprirne gli elementi chenel tempo hanno dato identitàe autonomia a un territorioche non sempre le istituzionilocali, dimentichi della fortetradizione cui i loro padri han-no dato vita, hanno saputo ri-conoscere, salvaguardare e farevolvere.

Giulia Caminada Lattuada

Simon JamesI Celti, popolo atlanticoNewton Compton, pagg. 180,Lire 9.900

Vasta eco ha prodotto in In-ghilterra ed America il saggiodi Simon James “I Celti atlan-tici. Antica civiltà o modernainvenzione?”. Ora è stato tra-dotto in lingua italiana grazieai tipi della Newton Compton,col titolo un po’ ambiguo di “I

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Celti, popolo atlantico” (pagg.180, Lire 9.900).La tesi del noto archeologo èpresto detta: nelle isole britan-niche, contrariamente a quan-to asserito dalla storiografiatradizionale, i Celti non sonomai vissuti. C’erano, prima del-l’invasione degli Angli e deiSassoni, delle popolazioni abo-rigene che nulla avevano a chefare con l’etnia celtica se nonper alcuni scambi culturali, co-munque marginali, coi Celtiveri, quelli che abitavano sulcontinente.Il falso mito della Britanniaceltica sarebbe nato solo nelSettecento, a fini di rivendica-zione nazionalistica e autono-mistica da parte dell’Irlanda edella Scozia: prova ne sia il fat-to che nessuno, prima del Set-tecento, nelle isole si definivacelta o discendente di Celti.I vari popoli detti dagli antichi“atlantici” presentavano oltre-tutto delle notevoli differenzetra di loro, che dimostrano lamancanza di un ceppo comu-ne. I famosi druidi sarebberouna peculiarità solo insulare,che non corrisponde alla veracultura celtica, meno “sangui-naria” ed “esoterica” di quantosi sia finora creduto. Altri ca-ratteri e comportamenti che laletteratura britannica ed euro-pea ha attribuito ai Celti d’ol-tremanica andrebbero rivisti eridimensionati. Chi sarebbero allora i veri eredidegli antichi Celti? Sir Jameslascia intendere che solo fran-cesi e svizzeri (ex galli transal-pini) e padani (ex galli cisalpi-ni) possono rivendicare appie-

no questa eredità. Inparticolare nell’Italiasettentrionale sono statiritrovati abitati, repertie manufatti che testi-moniano inequivocabil-mente la medesimaidentità celtica riscon-trata a nord delle Alpi.Dalle zone del Reno edel bacino altodanubia-no i Celti si sarebberodiffusi per l’Europa con-tinentale e occidentale,senza mai superare laManica. Il testo di Simon Jamessi divide in una primaparte di fase destruensed una seconda di faseconstruens.Riporta dapprima i pre-supposti e i limiti della storiaufficiale, che viene criticata perl’eccessivo piglio antropologicodestinato a generare delle falseclassificazioni: gli antropologiinfatti vorrebbero incasellaresubito qualsiasi cultura in unagrande famiglia etnica, mentrela realtà, quale risulta dalle ri-cerche degli archeologi, risultasempre molto più complessa,specifica e frammentata. Inol-tre la manualistica storica ri-sulta il frutto della mentalitàdell’epoca in cui viene scritta edelle ideologie che la contrad-distinguono, al di là delle stes-se buone intenzioni dello stu-dioso. Ad esempio gli storici in-glesi dell’Ottocento e del Nove-cento hanno visto inconscia-mente nell’esistenza di un pu-ro popolo celtico nelle isolebritanniche, caratterizzato dariti ancora arcaici, la dimostra-zione della superiorità dell’et-nia anglosassone, venuta oltre-manica a portare la “vera ci-viltà”.Del resto - fa intendere l’autore- la stessa linguistica e una

scienza naturale come la gene-tica non sono mai riuscite a di-mostrare l’esistenza di un’uni-ca grande lingua diffusasi sulleisole e legata strettamente aquella gallica da una parte euna vera omogeneità biologicatra irlandesi, gallesi e scozzesidall’altra. Va scritta allora unanuova storia etnica delle regio-ni atlantiche, le cui linee prin-cipali vengono appunto propo-ste negli ultimi capitoli del li-bro, attraverso paragrafi dal ti-tolo illuminante: “Dall’età delbronzo all’età del ferro”, “I re-gni indigeni dopo i Romani”, “IVichinghi, elemento catalizza-tore o etnogenesi?”.Nel complesso il libro del Ja-mes si propone come il tassellodi un nuovo mosaico storiogra-fico ed etnologico che potrebbepresto portare anche al defini-tivo riconoscimento della realeidentità etnica della Padania ri-spetto all’Italia e alle nazioniperiferiche dell’Europa, facen-do sempre più riconoscere lacultura celtica come “madredella Mitteluropa”.

58 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000

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58 - Quaderni Padani Anno Vl, N. 31 - Settembre-Ottobre 2000