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Direzione
Fabiana DANESIN
Segreteria
Marco VIANELLO
Redazione
Fabiana DANESIN
Federico CAPPELLETTI - Giovanni COLI
Paola LOPRIENO – Marco VIANELLO
Comitato Scientifico
Damiano BEDA – Gabriele CIVELLO – Mariarosa COZZA
Andrea GALLI - Lorenza GAMBARO - Giorgia MASELLO
Marianna NEGRO - Paolo RIZZO - Elena ZENNARO
Referente
Giovanni COLI
PER IL SITO INTERNET
www.camerapenaleveneziana.it
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SEZIONE PRIMA – DIRITTO PENALE
Tribunale Ordinario di Venezia – Giudice Monocratico Penale – Sent. 2419/2017 del 18/12/2017
(dep. 10/01/2018), Giudice Capriuoli, Imp. XX
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Responsabilità penale –
Modalità della condotta e intensità del dolo – Inadempimento e noncuranza sul versante
genitoriale – Sussistenza.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. la responsabilità penale
discende dalle modalità della condotta e dall’intensità del dolo, le cui concrete declinazioni si
rinvengono nella circostanza che l’inadempimento, oltre a tradursi in una integrale omissione dei
versamenti, si concretizza nella ancor più grave e generale noncuranza del rapporto padre – figlio
sul versante affettivo.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Responsabilità penale –
Modalità della condotta e intensità del dolo – Inadempimento e noncuranza sul versante
genitoriale – Sussistenza.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. è opportuno, al fine di
realizzare pienamente lo scopo rieducazionale della pena, subordinare la sospensione
condizionale, riconoscibile in virtù dello stato di incensuratezza dell’imputato, all’integrale
pagamento della somma riconosciuta a titolo risarcitorio in favore della parte civile.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Risarcimento del danno –
Danno patrimoniale – Somme parametrate agli assegni non versati – Riconoscibilità -
Esclusione.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. le voci di danno
patrimoniale parametrate all’assegno di mantenimento rimasto inadempiuto non possono trovare
accoglimento, per non incorrere in una indebita duplicazione di titoli esecutivi omogenei nel caso
in cui siano presenti titoli giudiziari di natura civilistica.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Risarcimento del danno –
Conclusioni della parte civile - Richiamo alla liquidazione in via equitativa – Limite del
principio della domanda e vizio di ultrapetizione – Insussistenza.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. il richiamo, addotto
nelle conclusioni della parte civile, alla “somma ritenuta di giustizia anche in via equitativa”
svincola la liquidazione giudiziale da un qualche limite riconducibile al principio della domanda ed
al divieto di ultrapetita.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Risarcimento del danno –
Danno non patrimoniale – Criterio equitativo – Situazioni giuridiche costituzionalmente
protette – Applicabilità – Sussistenza.
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In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. in assenza di limiti
predeterminati occorre effettuare la liquidazione della voce residuale di danno, di carattere non
patrimoniale, sulla base del criterio equitativo, rinvenendo la fonte legale del risarcimento nella
commissione del reato in relazione a situazioni giuridiche protette aventi rilevanza costituzionale e
connesse agli aspetti relazionali della persona umana che trovano generale aggancio nell’articolo
2 Cost.
Violazione degli obblighi di assistenza familiare (art. 570 c.p.) – Risarcimento del danno –
Danno non patrimoniale – Parte Civile – Ex Coniuge – Riconoscimento della qualità di
danneggiato – Umiliazioni e sofferenze morali - Applicabilità – Sussistenza.
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare ex art. 570 c.p. la parte civile
rappresentata dall’ex coniuge, pur non potendo in via diretta qualificarsi persona offesa da reato,
può a tal riguardo vantare pretese risarcitorie in veste di soggetto danneggiato, e, quale titolo
giuridico, sovvengono le profonde umiliazioni e sofferenze morali subite a causa
dell’inadempimento dell’imputato.
NOTA
Il provvedimento in esame prende le mosse da una imputazione per inosservanza degli obblighi di
assistenza familiare (art. 570 c.2 c.p) per avere l’imputato omesso di versare (ovvero versato
parzialmente) l’assegno di mantenimento stabilito in sede giudiziale in favore del figlio minore.
All’imputato veniva, altresì, contestata la fattispecie di cui all’articolo 12 L. 898/1970.
Il provvedimento risulta interessante sotto molteplici profili, avendo dato corso ad una compiuta
disamina dei requisiti necessari affinché possa dirsi concretizzata la penale responsabilità in caso di
inosservanza degli obblighi di assistenza familiare in danno di minori, con riferimento alla condotta
complessiva del soggetto agente (così come già ritenuto dalla Suprema Corte) e per aver stabilito di
subordinare la sospensione condizionale della pena al risarcimento, in favore della parte civile
costituita (nella persona dell’ex coniuge) della somma determinata in via equitativa dal Giudice, con
specifico riferimento alla funzione rieducativa della pena.
a) Sui requisiti della penale responsabilità ex art. 570 c.p.: applicazione dei parametri di
valutazione ritenuti dalla Suprema Corte con orientamento consolidato, e valutazione della
condotta complessiva del soggetto agente.
E’ opportuno sottolineare, preliminarmente, che la Suprema Corte ha più volte avuto modo di
affermare che: “in materia di violazione degli obblighi di assistenza familiare, non vi è
equiparazione tra il fatto penalmente sanzionato e l’inadempimento civilistico, poiché la previsione
normativa di cui all’art. 570 c.p. non fa riferimento a singoli o ritardati pagamenti, ma ad una
condotta di volontaria inottemperanza con la quale l’agente intende specificamente sottrarsi
all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione. Sul piano oggettivo, in particolare, deve
trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un
tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che l’obbligato è
tenuto a fornire. Ne consegue che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con
l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire
anche al ritardo, il Giudice penale deve valutarne in concreto la gravità, ossia l’attitudine
oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende ad evitare (cfr. Cass. Pen., Sez. VI,
09.04.2014, n. 15898).
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Nel caso di specie, ci si è trovati ad esaminare la condotta di un soggetto economicamente stabile
(imprenditore in Cina) determinatosi a sottrarre al figlio minore, nato dal matrimonio con una donna
di nazionalità cinese, i mezzi di sostentamento disposti nella misura indicata giudizialmente.
Il Tribunale ha, utilizzando una motivazione ricca di riferimenti agli elementi di prova acquisiti in
giudizio, ed in particolare alle dichiarazioni rese dall’ex – coniuge dell’imputato, parte civile
costituita, ricostruito il complessivo contegno di quest’ultimo nei termini indicati dalla
giurisprudenza, senza soffermarsi a verificare il mero dato oggettivo dell’inadempimento civilistico
(pur sussistente) ma approfondendo l’analisi sino a concludere che il soggetto agente, con
pervicacia e spregio delle statuizioni giurisdizionali, nonché per mezzo di una condotta volta a
privare il figlio minore anche del più elementare legame affettivo, poteva dirsi responsabile del
reato ascrittogli.
In effetti, la condotta contestata si dipanava non solo attraverso il mancato versamento dell’assegno
di mantenimento destinato al figlio minore (collocato dalla madre presso i nonni in Cina per un
periodo, nell’impossibilità di assicurare autonomamente uno stile di vita dignitoso), ma anche
attraverso molteplici episodi di:
a) Disinteresse affettivo nei confronti del minore.
b) Mancato esercizio del diritto di visita nei confronti del minore.
c) Mancato riscontro sistematico dei tentativi di sollecito bonario posti in essere dall’ex
coniuge al fine di ottenere un più puntuale pagamento di quanto dovuto e tentativi di
procrastinare sine die l’inadempimento.
L’imputato pertanto, secondo gli approfondimenti svolti in giudizio, si era reso per anni (sin dai
primi anni di vita del figlio, per concludere con il raggiungimento della maggiore età di
quest’ultimo) inadempiente ai propri obblighi, manifestando però, in aggiunta, un atteggiamento
sprezzante e tendenzialmente assente nei confronti del minore, che poteva ben concretizzare la
fattispecie contestata, non potendosi restringere l’analisi al mero inadempimento civilistico.
Nondimeno, alla pronuncia di penale responsabilità si è pervenuti nel silenzio dell’imputato, il
quale non risultava aver addotto motivazioni concrete relative alla sua incolpevole condotta di
inadempimento. Con la conseguenza che la penale responsabilità è stata ritenuta anche nel quadro
di un atteggiamento complessivamente disdicevole, il che ha condotto a subordinare, poi, la
concessione della sospensione condizionale della pena al risarcimento stabilito in sentenza in favore
della parte civile, con particolare riferimento alla funzione rieducativa della pena, aspetto, questo,
decisamente rilevante nel caso di specie.
b) Sul risarcimento del danno e sulla sospensione condizionale subordinata al risarcimento ex
art 165 c.p., in omaggio al principio della funzione rieducativa della pena.
La seconda parte del provvedimento è stata riservata dal Giudice alla motivazione in ordine ai
confini della concessione della sospensione condizionale della pena al soggetto agente.
Tenuto conto del contesto ricostruito in giudizio in seno al quale hanno preso le mosse le condotte
contestate all’imputato, il Giudice ha ritenuto di subordinare la concessione della sospensione
condizionale al risarcimento del danno in favore della parte civile, risarcimento da corrispondersi,
ex art. 165 c.p., nel termine di 90 giorni dalla data di irrevocabilità della sentenza stessa, attraverso
un argomentare a parere di chi scrive di particolare spessore ma non immune da aspetti
problematici.
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b.1) Esclusione della riconoscibilità di danno patrimoniale nel caso di specie (duplicazione di
titoli esecutivi omogenei) e riconoscimento di voci di danno non patrimoniale determinate in via
equitativa.
Primo passaggio utile alla determinazione del risarcimento in favore della parte civile costituita è
l’esclusione del risarcimento del danno patrimoniale, pur lamentato in atti. Rileva infatti – a parere
di chi scrive, correttamente – il Giudice che il riconoscere voci di danno patrimoniale, in un
contesto quale quello oggetto di esame, che vedeva presenti già numerosi titoli giudiziali di natura
civilistica ed altrettanto numerosi atti di precetto rimasti lettera morta, avrebbe cagionato una
evidente duplicazione di titoli esecutivi di identico contenuto. In omaggio a quanto già ritenuto
dalla Suprema Corte (Cass. Pen., sez. VI, 18988/2012) il Giudice esclude la possibilità di porre a
carico dell’imputato voci risarcitorie che contemplino crediti già oggetto di separato titolo
giudiziale: subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al risarcimento di
voci di danno già oggetto di accertamento in diversa sede, infatti, aprirebbe la strada ad una
inammissibile duplicazione del pagamento, con evidente sacrificio delle ragioni del debitore.
Il Giudice ha quindi ritenuto di soffermarsi sulla risarcibilità di voci di danno di natura non
patrimoniale, sulla scorta del riferimento, operato in atti dalla parte civile, ad un risarcimento da
determinarsi anche in via equitativa, così sgombrandosi il campo da questioni legate ad un
eventuale vizio di ultra petizione.
Preliminarmente, appare interessante altresì soffermarsi sull’analisi - particolareggiata – che il
Giudicante riserva alla richiesta di liquidazione del risarcimento del danno non patrimoniale in via
“anche” equitativa operato dalla parte civile costituita e sul suo significato intrinseco. Sulla scorta
di quanto già ritenuto dalla Suprema Corte (Cass. Pen. Sezione III, 3894/2016), deve infatti
attribuirsi un preciso significato alle richieste di parte: laddove la parte civile punti, infatti, ad
ottenere una liquidazione delle voci di danno non patrimoniale in via anche equitativa, ciò, lungi dal
rappresentare una mera formula di stile, lascia presumere che la stessa parte civile patisca
un’incertezza nel determinare effettivamente l’entità e l’estensione del danno patito, e la sua
monetizzazione. Con la conseguenza che compito del Giudice sarà quello di “agganciare” la
liquidazione del danno stesso al contesto in cui si è sviluppato il fatto reato, ed alla lesione degli
interessi di volta in volta coinvolti.
Nel caso di specie, la base dell’argomentazione è costituita dal riferimento preciso alla valenza
costituzionale (articolo 2 Cost.) delle situazioni giuridiche soggettive protette dalla norma
incriminatrice di cui al reato contestato.
Pur non potendosi, sostiene il Giudice, assumere l’ex – coniuge (parte civile costituita) quale
persona offesa da reato, nondimeno le vessazioni, le umiliazioni morali ed i maltrattamenti subiti
dalla donna (costretta, da ultimo, a rinviare il figlioletto in Cina per evitare a quest’ultimo di
condurre la propria vita in una stanza d’albergo, a causa delle ristrettezze economiche) nondimeno
possono fondare voci di danno non patrimoniale suscettibili di riconoscimento.
Anche in questo caso, con motivazione attentamente particolareggiata, il Giudice lega la possibilità
di riconoscere alla madre la liquidazione di un danno di natura morale alla giurisprudenza della
Suprema Corte richiamandone le decisioni (Cass. Pen. Sez. VI, 03/02/2010 n. 14906) ed
argomentando di conseguenza.
A mente di una tale solida base argomentativa, il Giudice perviene alla conclusone forse più
interessante, cioè al subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena al
risarcimento del danno liquidato in via equitativa sulla base dei parametri indicati poc’anzi.
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Tale conclusione rappresenta, ad avviso di chi scrive, l’argomento più stimolante e maggiormente
gravido di conseguenze del provvedimento in commento. Appare vivo il convincimento che
l’imputato, riconosciuto responsabile di un reato indubbiamente ritenuto odioso, attraverso modalità
indici di un particolare spregio non solo della figura dell’ex moglie ma, anche e soprattutto, del
figlio minore, debba necessariamente effettuare un percorso rieducativo che, a mente delle
risultanze processuali, evidentemente non può compiersi se non attraverso l’attivazione di congegni
di natura risarcitoria di particolare importanza, che possano effettivamente (a parere del Giudicante)
contribuire a rieducare il reo attraverso la presa di consapevolezza del valore anche economico della
lesione delle delicate situazioni giuridiche soggettive sottese al reato contestato.
In effetti, se si procede ad una analisi, per così dire “asettica” della norma incriminatrice di cui
all’articolo 570 c.p., che parta dal dato testuale normativo per concludere con l’analisi delle pene
previste (detentiva e pecuniaria) ci si avvede che la stessa potrebbe, anche, non essere considerata
di particolare allarme sociale (la pena massima prevista non risulta particolarmente elevata, e il
trattamento sanzionatorio più pesante, previsto per la lesione degli interessi dei minori, non va al di
là della previsione della pena detentiva congiunta a quella pecuniaria).
Il “valore aggiunto”, ad avviso di chi scrive, del provvedimento in esame è rappresentato dalla
valorizzazione non solo e non tanto dell’aspetto, per così dire, “sociale” del reato contestato, ma
soprattutto, in un contesto motivazionale estremamente rigoroso, del disvalore complessivo delle
condotte che hanno portato il giudicante stesso a ritenere concretizzato il reato de quo, e,
conseguentemente, il danno morale liquidato.
Partendo da un’analisi particolareggiata degli elementi fondanti il reato in parola, infatti, e pur
applicando, a garanzia dell’imputato, una serie di parametri volti a non ridurre la penale
responsabilità ad una mera violazione di un obbligo civilisticamente stabilito ma a valutare il
complessivo disvalore di una condotta composita, allo stesso tempo pone le basi per il
riconoscimento di un valore – anche economico – alle privazioni morali, affettive ed economiche
poste in essere dall’imputato ai danni di madre e figlio.
Con un ulteriore passaggio di particolare interesse, infatti, il Giudicante riconosce un valore non
marginale alla situazione giuridica soggettiva della madre, sofferente per anni di privazioni (anche
fisiche) e umiliazioni costanti a cagione della condotta dell’imputato. Ciò rappresenta passaggio
fondamentale, volto, a parere di chi scrive, non solo e non tanto a dotare la norma incriminatrice di
un valore sanzionatorio legato al profilo penalmente rilevante di un inadempimento di diversa
natura, ma a concretizzare il ruolo di “argine” normativo della norma ridetta in rapporto a situazioni
di inadempimento civilistico potenzialmente in grado di rappresentare un serio pericolo per il
minore ma anche per l’ex-coniuge.
La lettura del provvedimento sembra quasi condurre l’interprete ad evincere il pensiero più
profondo del Giudicante, che ritiene, attraverso una sorta di “contrappeso”, di restituire valore e
concretezza al precetto penale ed alla funzione rieducativa e special – preventiva della pena.
Il Giudicante sembra aver notato una sorta di inadeguatezza del precetto penale di per sé stesso a far
fronte alle conseguenze della condotta incriminata. Effettivamente, nel caso di specie, la gravità
delle privazioni patite dalla madre, il conseguente riverbero negativo non solo sulla situazione
giuridica soggettiva del figlio minore in quanto creditore diretto della prestazione ma in quanto
figlio minore, che ha visto pregiudicato il rapporto con la madre a causa di un forzato rientro in un
paese straniero dettato da ragioni economiche e di protezione, ed il rapporto con il padre a cagione
di un disinteresse poi concretizzatosi addirittura in una totale cesura del rapporto affettivo, rivela,
forse, uno scollamento fra le potenziali conseguenze delle condotte incriminate e la pena prevista
dall’ordinamento.
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Non ci si può, tuttavia, esimere, ad avviso di chi scrive, da una considerazione dubitativa: pur
nell’estrema severità dell’impostazione seguita dal Giudice, e pur nella sostenibilità
dell’argomentazione seguita, determinata dal riferimento corretto e pertinente a numerosi precedenti
giurisprudenziali, appare rischioso formare un collegamento diretto fra la funzione rieducativa della
pena ed il risarcimento del danno cui viene subordinata la concessione della sospensione
condizionale della pena stessa.
In altre parole, il provvedimento in esame, pur rigoroso e pregevole nella sua stesura, demanda
forse un ruolo eccessivamente “educativo” al risarcimento del danno, con la conseguenza di
snaturare proprio lo scopo cui ambisce. Il provvedimento pare, infatti, concludersi propendendo più
per una funzione rieducativa dello stesso risarcimento, che non per una funzione rieducativa della
pena, pretendendo un integrale pagamento per accedere a un beneficio di legge: ciò snatura, ad
avviso di chi scrive, il pur pregevole intento di valorizzare le privazioni e le umiliazioni patite dai
soggetti danneggiati, lasciandosi sempre aperta la possibilità che l’imputato possa dar corso al
risarcimento per “lucrare” un beneficio di legge cui, diversamente, non avrebbe accesso.
In questa prospettiva, la situazione di danno viene, in qualche, modo, esposta a strumentalizzazioni,
con il rischio di non perseguire affatto né il fine rieducativo della pena, né tantomeno l’interesse del
danneggiato.
In ultima analisi, pare che il Giudicante abbia voluto perseguire, mediante il complessivo impianto
argomentativo/sanzionatorio/risarcitorio seguito l’interesse del danneggiato, più che la funzione
rieducativa della pena. Atteggiamento, questo, che se può essere utile e giustificato nel porre
problematiche utili e degne di analisi ed approfondimento in una prospettiva de iure condendo,
nondimeno appaiono stonare nell’ambito di una sentenza di condanna che, per l’appunto, dovrebbe
fermarsi all’oggi, nel tentativo di contemperare interessi parimenti rilevanti, e di pari valore
costituzionale, quali quelli dell’imputato e della persona offesa. [Giorgia Masello]
Tribunale di Venezia – Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 220/2018 del 31 gennaio 2018 (dep.
6 febbraio 2018) – Est. Bello – Imp. XY
Violazione degli obblighi di assistenza familiare – omessa somministrazione dei mezzi di
sussistenza – mancanza di prova delle privazioni subite dai familiari e del loro precedente
tenore di vita – insussistenza del reato
In tema di violazione degli obblighi di assistenza familiare, è necessaria la puntuale individuazione
dei mezzi di sussistenza che la condotta dell’imputato avrebbe fatto mancare ai familiari, sicché,
qualora il materiale probatorio raccolto nel corso dell’istruzione dibattimentale non consenta una
precisa ricostruzione delle privazioni patite dalle persone offese e del precedente tenore di vita,
l’imputato dovrà essere assolto con la formula “per non aver commesso il fatto”
Tribunale Ordinario di Venezia – Sezione del Giudice per le Indagini Preliminari – Falsa
testimonianza – Opposizione alla richiesta di archiviazione – Giud. Vicinanza
Falsa testimonianza (art. 372 c.p.) – Bene giuridico tutelato – Plurioffensività – Esclusione –
Persona offesa dal reato – Opposizione alla richiesta di archiviazione – Inammissibilità per
carenza di legittimazione
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In tema di falsa testimonianza, il privato non è qualificabile quale persona offesa dal reato di cui
all’art. 372 c.p., che tutela esclusivamente il bene giuridico dell’ordinata amministrazione della
giustizia. Di conseguenza, nessuno dei diritti che l’ordinamento giuridico riconosce alla persona
offesa dal reato può essere esercitato dal privato denunciante e l’eventuale opposizione alla
richiesta di archiviazione da questo presentata deve essere dichiarata inammissibile.
Falsa testimonianza (art. 372 c.p.) – Opposizione alla richiesta di archiviazione –
Inammissibilità – Partecipazione all’udienza camerale – Esclusione
In tema di falsa testimonianza, in caso di opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dal
privato denunciante, qualora sia comunque fissata l’udienza camerale, l’opposizione stessa deve
essere estromessa dagli atti e non è consentita al difensore del denunciante la partecipazione
all’udienza.
NOTA
Con l’ordinanza in commento, il G.I.P. presso il Tribunale di Venezia ha riaffermato il costante
orientamento della Suprema Corte volto ad escludere che colui che ha presentato denuncia in ordine
al reato di falsa testimonianza sia legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione,
non essendo tale soggetto titolare o contitolare dell’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, e
dunque non potendosi qualificare quale persona offesa dal reato1.
Il procedimento penale de quo traeva origine da denuncia per il reato di falsa testimonianza,
asseritamente avvenuta nel corso di un procedimento penale nel quale era imputato, da parte di un
privato cittadino.
Il P.M. presentava richiesta di archiviazione e ne dava avviso, ai sensi dell’art. 408 c.p.p., al
denunciante, che, nel termine di legge, proponeva opposizione alla richiesta di archiviazione stessa.
Il G.I.P. fissava udienza camerale, ai sensi degli artt. 409 e 410 c.p.p., notificando l’avviso a tutte le
parti, ivi compreso il denunziante-opponente, indicato quale persona offesa dal reato.
All’udienza camerale, preliminarmente, la difesa dell’indagato sollevava questione di
inammissibilità dell’opposizione poiché presentata da soggetto non legittimato.
In particolare, si evidenziava che il privato, benché denunciante, non rivestiva la qualifica di
persona offesa dal reato di falsa testimonianza, che tutela il bene giuridico dell’ordinato
svolgimento dell’attività giudiziaria.
Infatti, persona offesa da tale reato è esclusivamente lo Stato-collettività, senza che possano essere
contemplate altre vittime di reato, cui poter riconoscere una posizione qualificata, né potendo il
privato – anche se danneggiato dall’eventuale falsa testimonianza – dirsi, sia pure implicitamente,
titolare o contitolare dell’interesse preso in considerazione dalla norma incriminatrice.
Da questa premessa sostanziale, la difesa dell’indagato traeva alcune conseguenze sul piano
processuale.
In primo luogo, il denunciante non aveva diritto ad essere informato della richiesta di archiviazione
presentata dal P.M., né, ancor prima, doveva essere indicato quale persona offesa nel Registro
Generale al momento dell’iscrizione della notizia di reato.
Conseguentemente, egli non era legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione,
né, comunque, a depositare alcuna memoria difensiva, essendo tale facoltà riservata dall’art. 90
c.p.p. esclusivamente alla persona offesa dal reato.
Tale assunto era rafforzato anche dal fatto che la costante giurisprudenza di legittimità afferma che
il privato denunciante non è neppure legittimato a presentare ricorso per Cassazione avverso la
declaratoria di inammissibilità dell’opposizione pronunciata de plano dal G.I.P.
1 In questo senso, Cass. Pen., Sez. VI, 4 novembre 2015, n. 45137; Cass. Pen., Sez. VI, 5 aprile 2011, n. 15200;
Cass. Pen., Sez. VI, 15 aprile 2008, n. 20328; Cass. Pen., Sez. VI, 9 novembre 2006, n. 41344; Cass. Pen., Sez.
VI, 20 maggio 2005, n. 35051; Cass. Pen., Sez. V, 8 novembre 2000, n. 4627; Cass. Pen., Sez. VI, 28
settembre 1999, n. 2982; Cass. Pen., Sez. VI, 8 maggio 1998, n. 1695.
10
In secondo luogo, si evidenziava che il G.I.P., a fronte di una opposizione comunque presentata dal
denunciante, doveva dichiararla inammissibile e procedere come previsto dall’art. 409 c.p.p.,
pronunciando de plano decreto di archiviazione, ovvero fissando l’udienza in Camera di Consiglio,
della quale, tuttavia, in mancanza della persona offesa dal reato per cui si procedeva, dovevano
essere avvisati esclusivamente il P.M. e la persona sottoposta alle indagini.
Di conseguenza, il denunciante ed il suo difensore non potevano partecipare alla udienza così
fissata, né potevano esercitare alcuno dei diritti che il Codice di Rito riserva esclusivamente alla
persona offesa dal reato.
A fronte di tutte queste considerazioni, il G.I.P., con l’ordinanza in commento, non ha ritenuto
condivisibile l’opposta opinione secondo cui, considerando la falsa testimonianza quale reato
plurioffensivo, potevano essere riconosciuti al denunciante i diritti e le facoltà riservate alla persona
offesa dal reato.
Viceversa, il G.I.P. ha affermato che il privato non è mai persona offesa dal reato di falsa
testimonianza e che l’opposizione alla richiesta di archiviazione da questo presentata è
inammissibile e deve essere estromessa dagli atti del fascicolo processuale.
Inoltre, ha affermato che non sussiste in capo al denunciante ed al suo difensore il diritto a
partecipare all’udienza camerale.
Il G.I.P. di Venezia, dunque, ha fatto buon uso dei principi affermati in sede di legittimità,
ribadendo, in via generale, che la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione
spetta esclusivamente alla persona offesa e non anche al semplice danneggiato dal reato, pur se
denunziante.
Va sottolineato, infine, che tale conclusione non può essere ritenuta lesiva del diritto di difesa del
soggetto denunciante, se danneggiato dal reato.
La Suprema Corte, infatti, pronunciandosi sul ricorso proposto dalla “sedicente persona offesa” dal
reato di falsa testimonianza contro il decreto di archiviazione emesso de plano dal G.I.P., ha avuto
modo di affermare incidentalmente che “È poi da ritenere manifestamente infondata la questione di
costituzionalità dell'art. 408 c.p.p., nella parte in cui non riserva il diritto di proporre
opposizione alla richiesta di archiviazione al danneggiato-denunciante che non sia persona offesa,
in quanto detta mancata previsione non viola il diritto di difesa, potendo il danneggiato dal reato
esercitare ogni sua pretesa in sede civile, ove, come è noto, non spiega alcun effetto vincolante il
decreto dì archiviazione.”2.
Naturalmente, ove il procedimento penale non venga archiviato, il privato (denunciante o meno)
che affermi di essere danneggiato dal reato, potrà, nella fase successiva, costituirsi parte civile per
ottenere il risarcimento del danno. [Giulia Pesce]
Tribunale Ordinario di Venezia – Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 2551/2016 del 28.11.2016
(dep. il 31.12.17) – Giudice Natto – Imputati XY e YZ –
Diritto Penale dell’Ambiente - Gestione illecita di rifiuti non pericolosi - Stoccaggio all’interno
degli spazi doganali ed oltre il termine previsto per la normale sosta tecnica per le operazioni
portuali - Conoscenza del contenuto dei container – Nozione di detentore/possessore del
rifiuto – Insussistenza
[Artt. 193, c. 12 e 256, c. 1, lett. a, del D.Lgs. n. 152/2006]
In tema di gestione illecita di rifiuti, l’impresa terminalista portuale non ha, non può avere e non
deve avere conoscenza del contenuto dei container che è chiamata a movimentare, dal momento
che non dispone e non conosce neppure i documenti impiegati in occasione del trasporto
2 Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 28 settembre 1999, n. 2982.
11
transfrontaliero di rifiuti che siano racchiusi nei container. Diversamente dallo spedizioniere,
che conosce il contenuto del container ed ogni altro elemento in grado di qualificarlo sotto il
profilo giuridico, compresa la sua eventuale connotazione come rifiuto. L’impresa terminalista non
dispone liberamente degli spazi doganali e dei container ivi depositati, avendo solo la custodia
temporanea dei contenitori e non del loro contenuto, quale loro depositaria fino all’espletamento
delle successive operazioni di imbarco, su esclusiva indicazione e responsabilità dello
spedizioniere. Nessuna responsabilità può essere addebitata agli imputati rispetto alla prolungata
presenza nell’area doganale di container contenenti dei rifiuti, nei cui riguardi mai hanno assunto -
né avrebbero potuto assumere - la qualificazione giuridica di detentori o possessori.
NOTA
Con la pronuncia in commento - per quanto consta, resa per la prima volta nel
panorama giuridico italiano - il Tribunale di Venezia ha fatto chiarezza circa i termini di
responsabilità dell’impresa terminalista portuale in ordine al contenuto dei container presenti
all’interno degli spazi doganali, allorché tale contenuto sia costituito da rifiuti destinati allo
smaltimento od al recupero all’estero.
Il procedimento penale ha tratto origine da un’indagine condotta da Organi di P.G. Interforze presso
il Porto Commerciale di Venezia-Porto Marghera, avente ad oggetto la verifica delle modalità di
spedizione ed esportazione via nave di rifiuti, con particolare riferimento a quelli costituiti da
residui metallici o da residui plastici.
Il carico di rifiuti esaminato nel caso d’interesse (precisamente “scaglie di laminazione”, aventi
natura non pericolosa e classificate con codice di identificazione C.E.R. – Catalogo Europeo dei
Rifiuti – 100210), è stato rinvenuto all’interno di 68 container, accompagnati dalla cd. bolletta
doganale di esportazione, destinati alla Cina per il loro recupero ed accompagnati altresì dal cd.
Allegato VII del Regolamento 1013/2006/CE, ovvero il Documento contenente le informazioni che
devono accompagnare le spedizioni transfrontaliere di rifiuti disciplinate, per l’appunto, dal
predetto Regolamento comunitario, secondo quanto stabilito dall’art. 194 del D.Lgs. n. 152/2006
(cd. T.U. Ambientale).
Nel corso delle indagini la P.G. ha acquisito la documentazione riguardante la movimentazione dei
container sul territorio italiano, cioè i Formulari di Identificazione dei Rifiuti (F.I.R.) ed i
Documenti di Trasporto (D.D.T.) emessi, a loro volta, da un’altra impresa terminalista autorizzata,
tra l’altro, alla messa in riserva di rifiuti destinati al recupero ai sensi dell’art. 208 del D.Lgs. n.
152/2006, che si sarebbe occupata del loro trasporto sino al terminal portuale.
Da tali documenti si è riusciti a risalire al produttore iniziale dei rifiuti; al luogo di stoccaggio
presso la prima impresa terminalista, che ne è risultata detentore (ai sensi dell’art. 183, comma 1,
lett. h, del D.Lgs. n. 152/2006, avendone acquisito il possesso), nonché successivo produttore ai
sensi della lett. f) del medesimo articolo, nel momento in cui ha messo insieme i rifiuti pervenuti dai
diversi produttori iniziali, caricandoli in maniera indifferenziata nei 68 container ed apponendo su
ciascuno di essi il necessario sigillo; alle informazioni sulle successive operazioni di trasporto dei
container stessi dalla prima impresa terminalista al terminal portuale, in base alle quali, invero,
emergeva già alcun rappresentante del terminal portuale, quale destinatario dei rifiuti, aveva
sottoscritto i F.I.R. (circostanza non casuale e di per sé significativa dell’effettivo assetto dei ruoli e
delle responsabilità, forse non adeguatamente valorizzata dagli Organi di controllo che hanno
operato nella vicenda).
L’addebito è insorto infatti poiché le operazioni doganali di spedizione dei container sono state
avviate dopo circa un mese dall’ingresso degli stessi presso il terminal portuale, per autonoma ed
esclusiva iniziativa dello spedizioniere, soggetto giuridico che nulla ha a che vedere con
l’organizzazione e con l’attività del terminalista.
Una volta avviata la procedura per l’esportazione (mediante il cd. lancio della bolletta doganale),
l’Agenzia delle Dogane di Venezia, nell’ambito dei suoi ordinari controlli, ha chiesto al terminal
portuale d’ispezionare due dei container, visto che solo in virtù della ricezione della bolletta
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doganale (quindi, ben oltre il termine di sei giorni previsto dall’art. 193, comma 12, del D.Lgs. n.
152/2006, per lo stazionamento dei rifiuti “all’interno dei porti e degli scali ferroviari, degli
interporti, impianti di terminalizzazione e scali merci”), la stessa Agenzia ha avuto nozione della
presenza dei container all’interno del terminal, che prima di quel momento e di quell’adempimento
amministrativo non sono caricabili a bordo della nave.
Solo in occasione della verifica dei container, alla presenza del funzionario delle dogane e della
P.G. coinvolta, il terminalista portuale ha potuto rimuovere i sigilli apposti dallo spedizioniere su
ogni container e così conoscere il contenuto degli stessi.
La Pubblica Accusa ha sostenuto che l’impresa terminalista portuale fosse a conoscenza del
contenuto dei container, in quanto la relativa documentazione la indicava materialmente quale
destinatario del trasporto su gomma (F.I.R. e D.D.T.), mentre nella bolletta doganale (ove pure è
indicata la tipologia di merci contenuta nei container) era indicato lo stesso terminalista come
l’impresa che si sarebbe occupata del deposito e del carico sulla nave per il trasporto e
l’esportazione. Da ciò ne sarebbe derivata la responsabilità degli imputati per aver violato i limiti
temporali della cd. sosta tecnica presso le aree intermodali di cui al ricordato art. 193, comma 12 del
T.U. Ambiente e, in assenza di caso fortuito o di cause di forza maggiore, per aver quindi gestito
illecitamente i rifiuti in questione, mancando la Società dell’autorizzazione al loro deposito
preliminare.
Come affermato dal Giudice nella pronuncia in commento, l’istruttoria dibattimentale è valsa
invece a dimostrare che “la bolletta doganale, in cui è riportato il contenuto del carico, viene
presentata alla Dogana dallo spedizioniere doganale e non già dal terminalista, che peraltro in
realtà non viene a conoscenza della tipologia della merce contenuta nei container ma
esclusivamente del numero complessivo dei container in arrivo al Porto e dei loro codici
alfanumerici identificativi del singolo container nella sua materialità ma non nel suo contenuto,
atteso che comunque i documenti contenenti indicazioni sul predetto contenuto (FIR; DDT e
bolletta doganale) non vengono materialmente consegnati, visionati o sottoscritti dal terminalista”.
Nel caso di specie è stato accertato inoltre “che nell’area doganale gestita da <impresa
terminalista sono> presenti zone riservate solo per i container frigoriferi in quanto dotate di
impianti elettrici che consentono appunto il loro collegamento elettrico per il mantenimento della
temperatura, ma non già per la collocazione di tutte le altre tipologie di merci contenute nei
container”, dovendosi perciò riconoscere che esistono “spazi dedicati e suddivisi in relazione alle
diverse tipologie di materiali contenuti nei container”.
Neppure in ragione di questo estremo profilo fattuale dunque l’impresa terminalista avrebbe potuto
avere – rectius desumere – una specifica conoscenza del contenuto dei contenitori, non dovendoli
allocare in appositi spazi adeguatamente attrezzati.
Il Giudice ha raggiunto pertanto il convincimento secondo il quale il reato contravvenzionale in
imputazione non può ravvisarsi nei fatti oggetto del processo, poiché l’impresa terminalista portuale
non è affatto messa al corrente della tipologia di merce/materiale racchiuso nei container e “non
dispone liberamente degli spazi doganali e dei container ivi depositati, peraltro muniti di sigilli
[…], avendone solo la custodia temporanea”. Ed è per tale ragione che agli imputati non è stata
riconosciuta “la qualificazione giuridica di detentori o possessori” dei rifiuti, presupposto
ineludibile per l’attribuzione di qualsivoglia responsabilità “riguardo alla contestata gestione
illecita dei rifiuti, stoccati oltre il termine prescritto”.
La pronuncia permette di dare la necessaria certezza ai rapporti economici e giuridici nell’ambito
del trasporto/deposito intermodale, specie per l’attività dei terminal portuali, che diversamente
sarebbe esposta al rischio dell’applicazione di una norma di non immediata interpretazione quale
dev’essere considerato l’art. 193, comma 12, del D.Lgs. n. 152/2006, imponendo conseguenti
adempimenti di gestione afferenti il cosiddetto ciclo di vita del rifiuto.
Va evidenziato in particolare che, per il semplice fatto che tale disposizione si sia per la prima volta
riferita ai trasporti intermodali ed agli impianti di terminalizzazione, se n’è dedotto
semplicisticamente che il soggetto tenuto alla sua osservanza sia comunque l’impresa terminalista, a
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prescindere dalla circostanza che la stessa abbia o no – contrattualmente o di fatto – il possesso dei
rifiuti, piuttosto che la mera detenzione dei soli container, all’interno dei quali a sua insaputa siano
racchiusi dei rifiuti, come accade nella generalità dei casi in cui – al pari di quello delibato dal
Giudice Monocratico di Venezia – la loro movimentazione non avvenga “alla rinfusa”, ma
avvalendosi di contenitori riempiti e sigillati da altri e nell’esclusivo interesse di altre figure
professionali tipiche del trasporto via mare.
Una più attenta lettura della predetta disposizione del T.U. Ambientale, permette di comprendere
che il Legislatore ha avuto di mira unicamente il “detentore del rifiuto” tenuto ad “… informare,
senza indugio e comunque prima della scadenza del predetto termine il comune o la provincia
territorialmente competente […]. il detentore del rifiuto dovrà adottare, senza indugio e a propri
costi e spese, tutte le iniziative opportune per prevenire eventuali pregiudizi ambientali e effetti
nocivi per la salute umana […]. In caso di persistente impossibilità per caso fortuito o per forza
maggiore per un periodo superiore a 30 giorni […] il detentore del rifiuto sarà obbligato a
conferire, a propri costi e spese, i rifiuti ad un intermediario, ad un commerciante, od ad un ente o
impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti”.
Va ricordato infatti che il detentore del rifiuto, ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. h), del D.Lgs. n.
152/2006, è “il produttore del rifiuto o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”, qualità
che, nella vicenda in esame, si sostanzia soltanto in capo ad altri soggetti che possiedono i rifiuti
racchiusi nei container, avendone quindi la piena disponibilità giuridica, in ragione della quale
ottemperare ai contenuti prescrittivi della specifica disciplina ambientale, non già il terminal
portuale, ignaro depositario dei soli container e privo di qualsivoglia autonomia gestionale e
decisionale sul loro contenuto, quand’anche interferisca con la disciplina in materia di gestione e
del trasporto transfrontaliero dei rifiuti.
[Marianna Negro]
Tribunale di Venezia – Giudice Monocratico Penale – Sent. n. 376/2018 del 19 febbraio 2018 (dep.
28 febbraio 2018) – Est. Capriuoli – Imp. XY
Reati edilizi – realizzazione di un pergolato coperto nella parte superiore - permesso di
costruire – necessità
Cause di non punibilità – particolare tenuità del fatto – reato permanente – ostatività al
riconoscimento del beneficio – esclusione – criteri di valutazione per l’applicazione del
beneficio ai reati edilizi - individuazione
In tema di reati edilizi, sebbene l’esecuzione di un cd. pergolato non necessiti di per sé del rilascio
del permesso di costruire, la realizzazione di una copertura nella sua parte superiore con struttura
non agevolmente amovibile richiede il previo rilascio del titolo abilitativo edilizio, sicché la sua
messa in opera in assenza del predetto titolo integra astrattamente gli elementi costitutivi della
fattispecie criminosa sanzionata dall’art. 44, co. 1 lett. b) D.P.R. 380 del 2001.
Nondimeno, tenuto conto che il reato permanente non è riconducibile nell’alveo del comportamento
abituale ostativo al riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.,
tale beneficio è astrattamente applicabile anche ai reati edilizi, in relazione ai quali l'esiguità del
danno o del pericolo e le modalità della condotta devono essere apprezzate nel caso concreto alla
luce dei parametri di cui all'art. 133, comma 1, c.p..
NOTA
La sentenza in commento afferisce ad un procedimento nel quale l’imputato era chiamato a
rispondere della contravvenzione edilizia sanzionata dall’art. 44, co. 1° lett. b) D.P.R. n. 380 del
2001 per l’esecuzione di lavori edili in assenza del permesso di costruire.
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Oggetto di addebito era, in particolare, la realizzazione, in assenza del prescritto permesso di
costruire, di una copertura fissa, eseguita mediante la posa di assi in legno, di un pergolato scoperto
già precedentemente costruito presso un immobile di proprietà del medesimo prevenuto.
Il Giudice di prime cure ha, innanzitutto, esaminato la natura del manufatto in questione, al fine di
determinare la rilevanza penale della sua esecuzione in assenza del permesso di costruire.
Trattandosi, nel caso di specie, di un manufatto stabilmente ancorato al terreno, dotato di una
copertura fissa non agevolmente amovibile e, quindi, destinato dall’imputato ad un utilizzo non
meramente precario e contingente, la sua esecuzione aveva determinato un aumento volumetrico
dell’immobile complessivamente considerato, sicché sarebbe stato necessario il preventivo rilascio
del prescritto titolo abilitativo, nel caso di specie mancante.
Le conclusioni a cui è pervenuto il Giudicante appaiono, in parte qua, pienamente condivisibili.
La giurisprudenza di legittimità ha, infatti, autorevolmente statuito che il concetto di “precarietà”
di un opera edile, la cui esecuzione è per tale ragione esentata dal previo rilascio del permesso di
costruire, deve discendere alla sua destinazione ad un utilizzo “precario e temporaneo, per fini
specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente e sollecita eliminazione”, precisando
che non sarebbe a questo fine di per sé sufficiente “che si tratti di un manufatto smontabile e non
infisso al suolo”3
In senso adesivo a suddetto principio di diritto, la giurisprudenza amministrativa è intervenuta
nell’ambito dello specifico tema della copertura dei cd. pergolati, chiarendo che, sebbene di per sé
l’esecuzione di un pergolato non necessiti del permesso di costruire, nondimeno si rende necessario
il rilascio del predetto titolo abilitativo edilizio ogniqualvolta il pergolato stesso venga “coperto
nella parte superiore (anche per una sola porzione) con una struttura non facilmente amovibile
(realizzata in qualsiasi materiale)”4
La condotta del prevenuto, ovvero la realizzazione di un pergolato con copertura fissa in assenza del
permesso di costruire, aveva quindi astrattamente integrato gli elementi costitutivi della fattispecie
criminosa sanzionata dall’art. 44, co. 1 lett. b) D.P.R. 380 del 2001.
Il Giudice, peraltro, esaminando la fattispecie concreta emersa nel corso dell’istruttoria
dibattimentale, ha reputato applicabile al caso di specie la causa di non punibilità della particolare
tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen..
L’imputato, in particolare, aveva mantenuto sin da subito un condotta connotata da assoluta
diligenza, presentando all’amministrazione comunale, con l’ausilio di un professionista, un’istanza
di autorizzazione paesaggistica semplificata ai sensi del D.P.R. n. 39 del 2010 avente ad oggetto, tra
l’altro, proprio la realizzazione del pergolato privo di copertura.
La circostanza che il Comune avesse di lì a poco archiviato la relativa pratica edilizia per il carattere
evidentemente ultroneo dell’istanza di autorizzazione paesaggistica all’esecuzione di un’opera
rientrante nell’ambito della cd. edilizia libera, aveva senza dubbio indotto in errore il prevenuto in
merito alle caratteristiche dell’opera che egli intendeva realizzare.
L’assoluta buona fede dell’imputato trovava, del resto, piena conferma nell’avere egli
tempestivamente ottemperato all’ordinanza comunale di demolizione della copertura, con completo
ripristino dello stato dei luoghi e conseguente cessazione della permanenza del reato.
Tali elementi, unitamente all’assenza di vincoli paesaggistici nell’area ove il manufatto insisteva e
all’incensuratezza dell’imputato, sono stati quindi valorizzati dal Giudicante in quanto sintomatici
dell’esiguità del danno cagionato all’assetto del territorio e tali, quindi, da far ritenere il fatto di
reato contestato di particolare tenuità.
Anche sotto tale profilo la sentenza è pienamente condivisibile.
Per un verso, non appare ostativo all’applicabilità della ridetta causa di non punibilità la natura
permanente del reato oggetto di contestazione.
3 Cfr. Cass. Pen., sez. III, sent. 8/10/2015 n. 50215
4 Cons. Stato, sez. VI, sent. 25/01/2017, n. 306
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Sebbene la sentenza in commento non affronti espressamente suddetta quaestio juris, limitandosi a
rilevare che la demolizione dell’opera aveva comportato la cessazione della permanenza del reato,
merita rammentare che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare che “il reato
permanente, in quanto caratterizzato dalla persistenza, ma non dalla reiterazione, della condotta,
non è riconducibile nell’alveo del comportamento abituale che preclude l’applicazione di cui
all’art. 131-bis cod. pen.”5
Per altro verso, gli elementi emersi nel corso dell’istruzione dibattimentale e valorizzati dal Giudice
di prime cure rientrano pacificamente nei criteri di applicabilità della ridetta causa di non punibilità
ai reati edilizi, siccome delineati dalla giurisprudenza di legittimità.
Merita soffermare nuovamente l’attenzione sul già citato arresto giurisprudenziale di legittimità6
che, con didascalica argomentazione, ha fornito un vero e proprio vademecum degli elementi
fattuali da prendere in considerazione per l’eventuale formulazione di un giudizio di particolare
tenuità dei reati in parola.
La Suprema Corte, muovendo dal dato letterale del disposto normativo di cui all’art. 131-bis cod.
pen., che richiede la compresenza dei due cd. “indici-criteri” della particolare tenuità dell’offesa e
della non abitualità del comportamento, la sussistenza del primo dei quali deve a sua volta
discendere dai due cd. “indici-requisiti” della modalità della condotta e dell’esiguità del danno o
del pericolo valutate alla stregua dei criteri di cui all’art. 133, co. 1° cod. pen., applica detti
parametri valutativi alla fenomenologia delle violazioni urbanistiche e paesaggistiche.
Dopo aver statuito che “la consistenza dell’intervento abusivo (tipologia di intervento, dimensioni
e caratteristiche costruttive) costituisce solo uno dei parametri di valutazione”, la Corte regolatrice
individua, quali elementi rilevanti sotto un profilo strettamente urbanistico, “la destinazione
dell’immobile, l’incidenza sul carico urbanistico, l’eventuale contrasto con gli strumenti
urbanistici e l’impossibilità di sanatoria, il mancato rispetto di vincoli (idrogeologici,
paesaggistici, ambientali, etc), l’eventuale collegamento dell’opera abusiva con interventi
preesistenti, il rispetto o meno di provvedimenti autoritativi emessi dall’amministrazione
competente (ad es. l’ordinanza di demolizione), la totale assenza di titolo abilitativo o il grado di
difformità dallo stesso, le modalità di esecuzione dell’intervento”.
Nel caso di specie, come detto, le emergenze processuali avevano delineato un quadro probatorio
tale da integrare, sulla base dei cennati parametri, la causa di non punibilità della particolare tenuità
del fatto disciplinata dall’art. 131-bis cod. pen.
L’opera edile contestata all’imputato aveva, infatti, una limitata consistenza oggettiva (si trattava di
una copertura di circa 30 mq) ed una altrettanto limitata incidenza sul carico urbanistico; la sua
l’esecuzione, oltretutto realizzata in connessione ad un immobile già esistente e non abusivo, non
aveva comportato la violazione di vincoli idrogeologici, paesaggistici o ambientali e l’opera stessa
era stata tempestivamente demolita in ossequio all’ordinanza adottata dall’amministrazione
comunale. [Andrea Galli]
5 Cfr. Cass. Pen., sez. III, sent. 8/10/2015, n. 47039;
6 Cfr. Cass. Pen., sent. n. 47039 del 2015, cit. sub 3;
16
SEZIONE SECONDA – DIRITTO PROCESSUALE PENALE
Corte d’Appello di Venezia – Sezione Prima Penale - Ord. 15.7.2015 – Pres. G. Sartea – Rel M.
Medici – Imp. XY
Ricusazione - - Sentenza di patteggiamento pronunciata in separato processo nei confronti di
coimputati - Successivo giudizio nei confronti di altro concorrente - Incompatibilità del
giudice – Esclusione
Integra propriamente una causa di ricusazione, ex art. 37, comma primo lett. b), cod. proc. pen., e
non una causa di incompatibilità di cui all’art. 34 cod. proc. pen,. la circostanza che il medesimo
magistrato chiamato a decidere sulla responsabilità di un imputato abbia già pronunciato sentenza
di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente nel medesimo reato,
allorquando nella motivazione di essa risultino espresse valutazioni di merito sullo stesso fatto nei
confronti del soggetto sottoposto a giudizio.
Tribunale di Venezia – Giudice Monocratico – Ord. 15.2.2018 – Dott.ssa D. Defazio – Imp. XY
Giudizio abbreviato – Contemporaneo svolgimento nello stesso processo del rito ordinario e
del rito abbreviato – Incompatibilità del giudice – Esclusione
La trattazione congiunta da parte del medesimo giudice del rito abbreviato e di quello ordinario
nei confronti degli imputati che non abbiano formulato la relativa istanza non è causa di una
situazione di incompatibilità.
NOTA Le pronunce in commento si palesano di grande pregnanza per la valutazione in merito
all’imparzialità del giudice nel caso di processi in cui i coimputati abbiano scelto di definire la
propria posizione con riti diversi.
L’ordinanza della Corte d’Appello di Venezia in commento affronta il delicato tema della
possibilità per il giudice che si sia pronunciato con sentenza di patteggiamento nei confronti di un
correo per un reato a concorso necessario di giudicare nella fase di merito la posizione degli altri
concorrenti.
Con tale provvedimento la Corte d’Appello ha rigettato l’istanza di ricusazione presentata ritenendo
quindi che il medesimo giudice, dopo aver pronunciato la sentenza di patteggiamento nei confronti
di un concorrente necessario nel reato di rissa, potesse giudicare a seguito di rito ordinario anche gli
altri coimputati, non essendo entrato, con la valutazione ex art. 129 c.p.p., nel merito delle loro
rispettive posizioni.
La questione in esame è assai delicata e le radici della medesima vanno ravvisate nella sentenza
della Corte Costituzionale n. 371 del 1996 con la quale è stato dichiarato incostituzionale, per
violazione degli artt. 3 e 24 Cost, “l’art. 34 comma 2 c.p.p. nella parte in cui, specie nella peculiare
ipotesi di reati a concorso necessario, non prevede che non possa partecipare al giudizio su un
imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una sentenza nei confronti di
altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità
penale sia stata comunque valutata anche soltanto “incidenter tantum”.
Nella parte motiva della suddetta sentenza si legge che “nel caso in cui non solo vi sia concorso nel
medesimo reato ma la posizione di uno dei concorrenti costituisca elemento essenziale per la stessa
configurabilità del reato contestato agli altri concorrenti ai quali soltanto sia formalmente riferita
l’imputazione per la quale si procede, la valutazione della posizione del terzo, della quale non si
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sia potuto prescindere ai fini dell’accertamento della responsabilità degli imputati, costituisce
sicuro ed evidente motivo di incompatibilità nel successivo processo a carico di tale terzo. La
circostanza che, in assenza dell’interessato, la valutazione in ordine alla sua responsabilità non
possa sfociare, in quel processo, in una decisione suscettibile di divenire definitiva, nulla toglie al
pregiudizio che si determina. Ciò che conta – prosegue la Corte Costituzionale – ai fini
dell’integrità del principio del giusto processo, è che il giudice del nuovo dibattimento non sia lo
stesso che abbia preso parte al primo e che, per il peculiare atteggiarsi della fattispecie di
concorso, abbia dovuto formarsi un convincimento non soltanto sul merito dell’azione penale
svolta contro gli imputati, ma anche, seppure incidentalmente, sul merito della posizione del terzo”.
Affermato pertanto il suddetto principio diritto e così riformulato l’art. 34 c.p.p., si è quindi
affrontata un’altra questione che sempre più sovente andava a manifestarsi nelle aule giudiziarie e
tesa a valutare se l’ipotesi di incompatibilità, introdotta dalla sentenza della Corte Costituzionale
sopra richiamata, fosse configurabile anche quando la precedente sentenza fosse stata pronunciata ai
sensi degli artt. 444 ss c.p.p.
La giurisprudenza sul punto è stata talmente ondivaga che si è reso necessario l’intervento delle
Sezioni Unite le quali si sono definitivamente pronunciate sul punto con sentenza 26 giugno 2014,
n. 36847.
La Quinta Sezione Penale della Corte Suprema di Cassazione aveva infatti rimesso la questione alle
Sezioni Unite con ordinanza del 4 - 17 aprile 2014 in quanto si fronteggiavano tre diversi indirizzi
giurisprudenziali sul tema dell’incompatibilità del giudice che avesse precedentemente pronunciato
un patteggiamento nei confronti di un coimputato nel medesimo reato a concorso necessario a
decidere nel merito delle posizioni degli altri concorrenti necessari.
Un primo orientamento escludeva a priori la configurabilità della suddetta incompatibilità fondando
tale convinzione sulla peculiarità della pronuncia di patteggiamento, la quale, anche laddove avesse
investito la responsabilità di un concorrente nel reato soggettivamente plurisoggettivo, non avrebbe
mai portato a postulare la dimostrazione in positivo della responsabilità dell’imputato, ma soltanto
la valutazione in merito all’insussistenza di cause di non punibilità ex art. 129 c.p.p.
Un secondo indirizzo non escludeva in radice l’attitudine della sentenza di patteggiamento ad
assumere valenza pregiudicante ai fini dell’incompatibilità del giudice, ma limitava la portata di
detta attitudine alle ipotesi in cui, nel vagliare le altrui posizioni, il giudice stesso avesse effettuato
anche una concreta delibazione dell’accusa concernete l’imputato rimasto estraneo alla richiesta.
Un terzo orientamento, richiamantesi alla sentenza 371/1996 della Corte Costituzionale, riteneva
che dovesse ritenersi sempre sussistente l’incompatibilità a giudicare un imputato in ogni caso in
cui il giudice avesse, in una precedente sentenza, espresso incidentalmente valutazioni di merito in
ordine alla sua responsabilità penale. Tanto trovava applicazione, secondo tale indirizzo
interpretativo, anche nel caso in cui la precedente sentenza fosse stata pronunciata ex art. 444 c.p.p.
atteso che se è vero che con la sentenza applicativa della pena su richiesta delle parti il giudice non
compie un giudizio di colpevolezza “pieno e incondizionato”, egli tuttavia perviene comunque a
una valutazione di merito dei fatti, idonea a pregiudicare la sua imparzialità nel successivo giudizio.
Sulla scorta quindi dei suddetti e difformi indirizzi giurisprudenziali la Sezione Quinta Penale della
Corte Suprema di Cassazione rimetteva la questione alle Sezioni Unite con il seguente quesito: “se
l’ipotesi di incompatibilità del giudice derivante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 371
del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p. comma 2 “nella parte in cui
non prevede che non possa partecipare al giudizio nei confronti di un imputato il giudice che abbia
pronunciato o concorso a pronunciare una precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella
quale la posizione di quello stesso imputato in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata
comunque valutata” - sussiste anche per il giudice del dibattimento che, in un separato
procedimento, abbia pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di
un concorrente necessario nello stesso reato oggetto del giudizio”.
Le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 26 giugno 2014, n. 36847
hanno dato risposta positiva spiegando come “la forza pregiudicante di una sentenza di merito
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rispetto ad un successivo giudizio che riguardi la posizione di un concorrente nel medesimo reato a
concorso necessario non dipende dall’ambito di accertamento - pieno o limitato alla verifica dei
presupposti di cui all’art. 129 c.p.p. - che il primo giudizio esprime, perché, quale che sia la
valutazione di merito, inevitabilmente essa tocca un fondamentale aspetto oggetto del successivo
giudizio, quello della responsabilità penale – che per la parte in tal modo anticipata ne risulta in
correlativamente pregiudicato”.
Su tali basi la Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite con la sentenza richiamata ha quindi
enunciato il seguente principio di diritto: “nell’ipotesi di incompatibilità del Giudice derivante dalla
sentenza della Corte Costituzionale n. 371 del 1996 – che ha dichiarato la incostituzionalità
dell’art. 34 c.p.p., comma 2, “nella parte in cui non prevede che non possa partecipare al giudizio
nei confronti di un imputato il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare una
precedente sentenza nei confronti di altri soggetti, nella quale la posizione di quello stesso imputato
in ordine alla sua responsabilità penale sia già stata comunque valutata” - sussiste anche con
riferimento alla ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia, in separato procedimento,
pronunciato sentenza di applicazione della pena su richiesta nei confronti di un concorrente
necessario dello stesso reato”.
Tale pronuncia è altresì importante perché esplica come, al di là dei limitati casi di concorso
numericamente necessario come richiamati dalla sentenza 371 del 1996, nel caso in cui il giudice
del patteggiamento abbia comunque espresso valutazioni in merito alla responsabilità di terzi non
imputati in quel processo, si verificherebbe un’ipotesi di ricusazione ex art. 37 lett. b) c.p.p. così
come delineato dalla sentenza 283 del 2000 della Corte Costituzionale.
In merito alla suddetta sentenza della Corte Suprema di Cassazione, e ricollegandosi dunque al
primo provvedimento della Corte d’Appello di Venezia in commento, ci si permette avanzare talune
considerazioni.
La sentenza delineando il principio di diritto sopra richiamato parrebbe di primo acchito ampliare
le garanzie di terzietà e imparzialità anche al giudice già pronunciatosi con sentenza di
patteggiamento nei confronti di un concorrente necessario, ma, di fatto, limita tale effetto estensivo
alle ipotesi di concorso numericamente e matematicamente necessario, escludendo quindi le tante
numerose ipotesi in cui i reati a concorso necessario siano stati commessi da più persone rispetto al
numero minimo di partecipanti e quindi ai casi in cui la partecipazione di quel concorrente non sia
indispensabile per la sussistenza del reato.
Con la sentenza sopra richiamata, infatti, la Corte Suprema ha respinto le istanze di ricusazione in
quanto si trattava di una fattispecie di cui all’art. 416 c.p. commessa da più di tre persone e
considerato che nella sentenza di patteggiamento “non è stata espressa alcuna considerazione di
merito che possa reputarsi in concreto pregiudicante rispetto alla posizione dei correi”.
Come detto, anche la pronuncia della Corte d’Appello in esame ha avuto ad oggetto un’istanza di
ricusazione avanzata da un imputato di un procedimento per rissa che vedeva imputate, oltre il
ricusante, altre tredici persone, una delle quali aveva definito la propria posizione con sentenza di
patteggiamento. Dopo aver inquadrato quale causa di ricusazione quella sottoposta al suo vaglio, la
Corte Veneta ha rigettato la richiesta di ricusazione in quanto nella sentenza di patteggiamento il
giudice non aveva posto in essere alcuna valutazione di merito sulla responsabilità degli altri
coimputati riguardo al fatto per il quale si procede, essendosi limitato ad affermare l’insussistenza
dei presupposti per una pronuncia di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
L’ordinanza in oggetto pare pertanto avvalorare l’orientamento ormai superato dalla sentenza delle
Sezioni Unite n. 36847/14 avendo infatti la Suprema Corte specificato come l’effetto pregiudicante
si produca, seppure in parte qua, anche nel caso in cui il giudice del patteggiamento si sia limitato a
stabilire la non ricorrenza dei presupposti di cui all’art. 129 c.p.p.
Il punto è che, trattandosi di reato a concorso necessario commesso da più partecipanti rispetto al
numero minimo e secondo quanto indicato dalla sentenza delle Sezioni Unite, l’istanza di
ricusazione non avrebbe potuto comunque trovare accoglimento in quanto la posizione del ricusante
non era da ritenersi indispensabile per la sussistenza del reato.
19
Tanto premesso, l’oggetto dell’attenzione deve quindi spostarsi sull’effettiva imparzialità del
giudice in casi simili. A sommesso parere di chi scrive, pur essendo stato positivamente indicato
dalla sentenza della Corte Suprema di Cassazione a Sezioni Unite sopra richiamata che anche
l’accertamento ex art. 129 c.p.p. è capace di inquinare la genuinità del giudizio, pare poco conforme
alle garanzie del giusto processo che il giudice, in caso di reato a concorso necessario con numero
di imputati superiore al numero minimo, dopo aver pronunciato sentenza di patteggiamento nei
confronti di uno di essi, possa giudicare nel merito la posizione di tutti gli altri.
Appare infatti evidente la potenzialità lesiva di tale situazione non essendo nemmeno dato
conoscere su quali basi e con il coinvolgimento di quali precisi coimputati il giudice abbia ritenuto,
ai fini della pronuncia ex artt. 444 ss c.p.p., la sussistenza del reato a concorso necessario, essendosi
genericamente limitato a ritenere insussistenti per tutti i correi, in generale, le condizioni per una
pronuncia ex art. 129 c.p.p. Il giudizio sulla sussistenza del reato a concorso necessario ha infatti
obbligatoriamente investito, come nel caso del reato di rissa sottoposto all’attenzione della Corte
d’Appello, la valutazione in merito alla responsabilità di almeno altri due correi, senza però
conoscerne né l’identità né le ragioni.
Con il secondo provvedimento del Tribunale in composizione monocratica si affronta un altro
aspetto della terzietà del Giudice e relativo alla simultanea veste in capo al medesimo magistrato di
giudice del dibattimento e di giudice del giudizio abbreviato nei confronti di diversi imputati nel
medesimo procedimento.
Come si evince dal provvedimento in questione, il giudice non ha ravvisato la sussistenza di alcuna
situazione di incompatibilità in ipotesi di tal fatta procedendo quindi a giudicare taluni imputati con
rito abbreviato ed altri a seguito di rito ordinario.
Il sorgere di dubbi in merito alla fattiva terzietà del giudice è però più che lecito, in quanto così
facendo il medesimo giudice va a fruire di tutto il materiale proveniente dalle indagini in un caso e
di tutto il materiale raccolto a seguito dell’istruttoria nell’altro e dovrà procedere a giudicare gli uni
e gli altri immemore di tutti gli elementi a sua disposizione che dovrà ben selezionare nella
motivazione dell’una o dell’altra sentenza.
Anche in relazione a tale aspetto la tesi dell’insussistenza dell’incompatibilità ha trovato l’avvallo
della Corte di Cassazione; tra le tante, la sentenza della Sezione Sesta, 27.4.2012, n. 163657, esplica
abbondantemente le ragioni per cui, a parere del Supremo Collegio, non sussista alcuna censura in
capo al giudice che si trovi a giudicare secondo riti diversi imputati nello stesso procedimento.
Rimandando alla lettura della sentenza che certo meglio dello scrivente commentatore è in grado di
spiegare il pensiero cardine della medesima, preme in questa sede sottolineare come i Giudici con
tale provvedimento abbiano ritenuto che l’imparzialità e la terzietà del giudice siano “garantite
dalle regole di esclusione e di inutilizzabilità probatoria che presiedono allo svolgimento legale di
ogni funzione di giudizio”. Di fatto, quindi, si pretende che il giudice dimentichi il suo bagaglio di
conoscenze per giudicare con imparzialità in situazione difformi.
Con tale pronuncia viene dato atto di come vi fosse stato inizialmente un orientamento, proprio
della Sesta Sezione, che aveva ritenuto l’incompatibilità tra il giudice del giudizio abbreviato e il
giudice del giudizio ordinario, anche in considerazione del fatto che “il giudice può essere
influenzato nelle diverse decisioni assunte con un’unica sentenza da prove acquisite (anche se in
concreto non utilizzate nell’una o nell’altra decisione a seconda del rito) in un contesto unitario”.
Sulla base di tali presupposti, tale filone giurisprudenziale riteneva conseguentemente pregiudicata
la terzietà del giudice.
Sottolinea la Corte Suprema di Cassazione, però, che tale orientamento è stato ormai
completamente abbandonato e sostituito con quello assolutamente prevalente che ritiene la piena
7 Si riporta la massima: “la trattazione congiunta del rito speciale con quello ordinario nei confronti degli
imputati che non abbiano formulato la relativa istanza non è causa di abnormità o di nullità della decisione, né tanto
meno, di una situazione di incompatibilità suscettibile di tradursi in motivo di ricusazione per il giudice, poiché la
coesistenza dei procedimenti comporta solo la necessità che, al momento della decisione, siano tenuti rigorosamente
distinti i regimi probatori rispettivamente previsti per ciascuno di essi”.
20
compatibilità della trattazione congiunta di riti diversi. Spiega infatti come tale ipotesi sia stata
prevista e voluta dal legislatore storico (vedasi D.L. 7 aprile 2000, n. 82, art. 4 ter introdotto dalla
Legge di conversione 5 giugno 2000, n. 144) anche in virtù del fatto che l’incompatibilità del
giudice si può manifestare solo laddove il medesimo abbia esercitato funzioni giudicanti in ordine al
medesimo processo in una fase o grado precedente e non nel medesimo giudizio. Prosegue tale
pronuncia specificando poi come possa certamente capitare anche in altri contesti (vedasi ad
esempio la disposizione dell’art. 493 comma 3 c.p.p.) che alcuni atti vengano utilizzati nei confronti
di solo alcuni fra gli imputati. Di fatto, pertanto, si legge nella parte finale della motivazione della
sentenza de quo, “il mito di un giudice “vergine nella conoscenza” nella funzione dibattimentale è,
nell’accusatorio misto che governa il processo italiano, appunto niente più che un mito, atteso che
l’impermeabilità originaria rispetto alla fase dell’indagine non si è mai praticamente attuata”.
Ebbene, seppur l’opera interpretativa della giurisprudenza stia in parte procedendo per dare piena
concretezza e dignità al principio di imparzialità del giudice, è altresì evidente che allo stato
sussistano ancora delicate situazioni di pericolo di contaminazione del giudizio e tanto si verifica
nei casi oggetto di tale disamina ovvero allorquando il giudice del dibattimento abbia già giudicato
altri correi a seguito di patteggiamento o di giudizio abbreviato. Sarebbe auspicabile un ulteriore
passo avanti della giurisprudenza su tali importanti tematiche in modo da innalzare il concetto di
giudice “vergine della conoscenza” da mito a realtà, al fine di garantire il diritto dell’imputato ad
essere giudicato da un giudice terzo, imparziale e scevro di pregiudizi. [Paola Loprieno]
Corte Suprema di Cassazione – Sezione Quarta Penale – Sent. 9.3.2017 – Pres. Rocco Marco
Blaiotta – Rel. Mariapia Gaetana Savino – Imputato XY
Applicazione della pena su richiesta delle parti – Potere del giudice di modificare i calcoli
della pena, pur mantenendo immutata la pena finale concordata dalle parti – Esclusione –
Ragioni – Natura negoziale del “patteggiamento”
(Artt. 444 e segg. c.p.p.)
In tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, avendo il “patteggiamento” natura
negoziale, rispetto all’accordo raggiunto dalle parti il giudice è soggetto terzo e, come tale, ha
esclusivamente il potere di recepire o di rigettare in toto l’accordo stesso, mentre non può
integrarlo o modificarne i termini. Ciò vale anche con riguardo alle circostanze di reato, nel senso
che il giudice non può escludere una circostanza inserita dalle parti, ovvero includere nell’accordo
una circostanza dalle stesse non preventivata né operare un diverso bilanciamento, neppure ove ciò
porti al medesimo trattamento sanzionatorio richiesto dalle parti richiedenti. Anche in tal caso, egli
può solo respingere o accogliere in toto la richiesta formulata ai sensi degli artt. 444 e segg. c.p.p.
NOTA
Nel procedimento de quo, a fronte di istanza di patteggiamento ex artt. 444 e segg. c.p.p. per il reato
di omicidio colposo da circolazione stradale, istanza nella quale le parti avevano concordato circa la
concessione sia delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis c.p., sia della circostanza
attenuante del risarcimento del danno ex art. 62, n. 6, c.p., il Giudice per le Indagini Preliminari
presso il Tribunale di Venezia, dott. Alberto Scaramuzza, aveva sì applicato all’imputato la pena
finale dallo stesso richiesta, ma riformulando motu proprio i calcoli della sanzione detentiva e, in
particolar modo, negando la concessione della circostanza ex art. 62, n. 6, c.p., non essendo
intervenuto il risarcimento del danno da parte dell’imputato personalmente, bensì da parte della sua
compagnia assicurativa.
Ricorreva per Cassazione la difesa dell’imputato, dolendosi inter alia del fatto che il giudice di
prime cure avesse violato le disposizioni di legge in tema di applicazione della pena su richiesta
21
delle parti, ingerendosi indebitamente nel calcolo della pena, siccome integralmente concordato
dalle parti del procedimento.
Con sentenza n. 23149/2017 del 9 marzo 2017, depositata l’11 maggio 2017, sopra massimata, la
Sezione Quarta Penale della Suprema Corte di Cassazione ha accolto il proposto ricorso, annullando
senza rinvio la sentenza impugnata e trasmettendo gli atti al G.I.P. di Venezia per una nuova
valutazione dell’istanza di patteggiamento, così osservando: come è noto, il patteggiamento ha
natura negoziale; rispetto all’accordo raggiunto dalle parti, infatti, il giudice è terzo ed ha
esclusivamente il potere di recepire o di rigettare l’accordo stesso, mentre non può integrarlo o
modificarne i termini. In altre parole, quindi, il giudice del patteggiamento non può sostituire la
propria volontà a quella delle parti, inserendo – come avvenuto nel caso di specie – modifiche non
concordate dalle stesse (ex multis, Cass., Sez. III, n. 13719/2016; Cass., Sez. IV, n. 4632/2015). Ciò
vale anche con riguardo alle circostanze di reato, nel senso che il giudice non può escludere una
circostanza inserita dalle parti ovvero includere nell’accordo una circostanza dalle stesse non
preventivata, né operare un diverso bilanciamento. Anche in tal caso, egli può solo respingere o
accogliere in toto la richiesta avanzata dalle parti (Cass., Sez. III, n. 1191/2000). In particolare, il
giudice del patteggiamento non può operare un diverso giudizio quanto al
riconoscimento/bilanciamento delle circostanze, neppure ove ciò conduca, in ipotesi, al medesimo
trattamento sanzionatorio richiesto dalle parti.
La pronuncia della Suprema Corte appare integralmente condivisibile, oltreché supportata da una
serie nutrita di importanti precedenti giurisprudenziali.
Infatti, proponendo istanza di applicazione della pena ex artt. 444 c.p.p., l’imputato rinuncia sì a
tutte le garanzie processuali che gli deriverebbero dalla celebrazione di un pubblico dibattimento,
ma a patto e condizione che il giudice del patteggiamento si attenga rigorosamente alla richiesta
concordemente formulata dalle parti, avente vera e propria natura negoziale e consensuale.
All’interno dell’accordo, invero, rientra non solamente la pena finale concordata dall’imputato e dal
Pubblico Ministero, ma, come correttamente evidenziato dal Supremo Consesso, anche il
procedimento giuridico e matematico che abbia concretamente portato al calcolo di detta pena, ivi
compresa l’individuazione delle circostanze aggravanti ed attenuanti e il loro eventuale
bilanciamento ex art. 69 c.p.
D’altra parte, è evidente che l’imputato ha un interesse – giuridicamente apprezzabile e non di mero
fatto – non solo all’inflizione della pena finale da lui stesso richiesta, ma anche al riconoscimento,
in dispositivo e nella parte motiva della sentenza, di determinate circostanze di reato come, ad
esempio, l’attenuante del risarcimento del danno, affinché – quantomeno a futura memoria – sia
dato atto (seppure senza piena forza di giudicato ex artt. 651 e segg. c.p.p.) che, a seguito della
definizione del procedimento penale a suo carico, non residuano ulteriori danni risarcibili.
Il commento alla predetta sentenza ci consente, poi, di formulare un’ulteriore osservazione di
carattere generale: nel caso qui esaminato, la decisione del G.I.P. di Venezia di non concedere
l’attenuante del risarcimento del danno ex art. 62, n. 6, c.p., si palesava erronea non solo nella parte
in cui immutava ex officio il calcolo della pena, siccome puntualmente concordato dalle parti, ma
anche nella parte in cui si affermava l’impossibilità di concedere l’attenuante de qua nei casi di
risarcimento del danno proveniente dalla compagnia assicurativa, e non già dall’imputato
personalmente.
A tal riguardo, è pur vero che, secondo l’antico orientamento delle Sezioni Unite, “l’attenuante
della riparazione del danno non è applicabile qualora il risarcimento sia stato effettuato da un ente
assicuratore, anche se il contratto di assicurazione sia stato stipulato dall’imputato per la propria
responsabilità civile, perché, essendo detto contratto stipulato prima della commissione del reato, e
dovendosi individuare la ragione ispiratrice della circostanza nella resipiscenza che si esprime con
l’atto di riparazione, il comportamento risarcitorio, per integrare la previsione normativa, deve
essere posto in essere dall’imputato dopo l’esaurimento del reato e non può essere sostituito da una
condotta antecedente al reato stesso, concepita solo in previsione ed a titolo di garanzia per le
conseguenze dannose che esso potrebbe produrre cioè per sfuggire all’adempimento dell’obbligo di
22
integrale risarcimento” (Cass. pen., Sez. Unite, 23 novembre 1988, n. 5909, rv. 181084; conforme
Cass. pen., sez. IV, 15 gennaio 1991, n. 4441, rv. 187777).
Tuttavia, a fronte di ciò, negli ultimi anni la giurisprudenza di legittimità si è pressoché attestata su
posizioni diametralmente opposte, affermando che “ai fini della sussistenza dell’attenuante di cui
all’art. 62, n. 6, cod. pen., il risarcimento, ancorché eseguito dalla società assicuratrice, deve
ritenersi effettuato personalmente dall’imputato tutte le volte in cui questi ne abbia conoscenza e
mostri la volontà di farlo proprio (fattispecie relativa ad omicidio colposo da incidente stradale)”
(Cass. pen., Sez. IV, 6 febbraio 2009, n. 13870, rv. 243202; Cass. pen., Sez. IV, 4 ottobre 2004, n.
46557, rv. 230195). In senso difforme, si registra solo una pronuncia antecedente al 2009, e ad oggi
isolata (Cass., pen., Sez. VI, 9 novembre 2005, n. 46329, rv. 232837).
Tant’è – mutatis mutandis – che, nei procedimenti innanzi al Giudice di Pace, l’estinzione del reato
per intervenuta condotta riparatoria (cfr. art. 35, d. lgs. n. 274/2000) viene pacificamente concessa
anche nei casi in cui il risarcimento sia provenuto dalla compagnia di assicurazione obbligatoria, e
non già personalmente dall’imputato, purché il giudice ritenga che, in concreto, siano
complessivamente soddisfatte le esigenze di riprovazione e quelle di prevenzione del reato (ex
plurimis, Cass. pen., Sez. IV, 14 giugno 2017, n. 34888, rv. 270725).
Per tale ragione, pare corretto qui ribadire che, secondo l’orientamento oggi pressoché unanime, il
giudice penale non può negare l’attenuante del risarcimento del danno ex art. 62, n. 6, c.p., per il sol
fatto che il risarcimento del danno sia provenuto non già dall’imputato personalmente, bensì dalla
sua compagnia assicurativa, in forza di polizza ex lege obbligatoria. Infatti, se la ratio
dell’attenuante consiste nel “premiare” la volontà dell’imputato di risarcire il danno cagionato,
anche il fatto che il prevenuto abbia – seppur in adempimento di un obbligo di legge – provveduto a
stipulare apposita polizza assicurativa dimostra, ex se, una tale volontà riparatoria, seppure, in
effetti, espressa prima – e non dopo – la commissione del reato. D’altra parte, la stipulazione di
detta polizza richiede, da parte dell’imputato, l’esborso personale del premio annuo, condotta
solutoria alla quale, a questo punto, si deve fare riferimento onde fondare la circostanza attenuante
de qua su di un qualche comportamento economicamente apprezzabile del soggetto attivo di reato.
[Gabriele Civello]
23
SEZIONE TERZA – DOCUMENTI
LA CONDUZIONE DI UN’UNITA’ DA DIPORTO IN STATO DI EBBREZZA
Con le modifiche apportate di recente al codice della nautica, modifiche in vigore dal 13 febbraio
2018, si è (finalmente) previsto un espresso e chiaro divieto di “guidare” in stato di ebbrezza unità
da diporto (comando, condotta o direzione nautica8).
Le nuove norme prendono spunto da quelle simili già presenti nel codice della strada, ma con
alcune importanti e sostanziali modifiche, soprattutto in tema di sanzioni (di specie diversa e,
pertanto, in astratto meno gravi), ma anche carenza dell’opportunità di sostituire le sanzioni con
pene alternative.
E’ necessario anzitutto un brevissimo cenno schematico alle nuove sanzioni introdotte.
Comando, conduzione o direzione nautica in stato di ebbrezza alcoolica:
Ai minori di anni ventuno e agli utilizzatori a fini commerciali (art. 2, comma 1 CND) è vietata tout
court l’assunzione di bevande alcoliche (sanzione da euro 500,00 a euro 2.000,00 con tasso
alcolemico superiore a 0 e fino a 0,5 grammi per litro (g/l)).
a) tasso alcolemico superiore a 0,5 e fino a 0,8 grammi per litro (g/l): sanzione amministrativa
da euro 2.755,00 a euro 11.017,00 (aumento di un terzo per i soggetti minori di anni ventuno
o utilizzatori a fini commerciali); sanzione accessoria della sospensione della patente nautica
da tre a sei mesi;
b) tasso alcolemico superiore a 0,8 e fino a 1,5 grammi per litro (g/l): sanzione amministrativa
da euro 3.500,00 a euro 12.500,00 (aumento da un terzo alla metà per i soggetti minori di
anni ventuno o utilizzatori a fini commerciali); sanzione accessoria della sospensione della
patente nautica da sei mesi a un anno;
c) tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l): sanzione amministrativa da euro
5.000,00 a euro 15.000,00 (aumento da un terzo alla metà per i soggetti minori di anni
ventuno o utilizzatori a fini commerciali); sanzione accessoria della sospensione della
patente nautica da un anno a due anni.
Sanzioni, comunque, raddoppiate in caso di “guida” di navi da diporto, mentre sono aumentate,
comunque, da un terzo alla metà se la violazione è commessa nella fascia oraria tra le ore 22 e le
ore 7.
Comando, conduzione o direzione nautica in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze
stupefacenti o psicotrope:
1. sanzione “base”: sanzione amministrativa da euro 2.755,00 a euro 11.017,00;
2. aumento da un terzo alla metà in caso di soggetti minori di anni ventuno o utilizzatori a fini
commerciali;
3. sanzioni, comunque, raddoppiate in caso di “guida” di navi da diporto e in caso di sinistro
marittimo, mentre sono aumentate, comunque, da un terzo alla metà se la violazione è
commessa nella fascia oraria tra le ore 22 e le ore 7.
Sempre sanzione accessoria della sospensione della patente nautica da un anno a due anni.
Ulteriori sanzioni accessorie, aggravanti e misure cautelari:
Interviene sempre la revoca della patente in caso di reiterazione della violazione entro un biennio e,
per gli utilizzatori a fini commerciali, in caso di tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro
8 Per le categorie di patenti nautiche si rinvia all’art. 39, comma 6 del CND (D. Lgs. 18 luglio 2005 n. 171).
24
(g/l) oppure (sempre per gli utilizzatori a fini commerciali) in stato di alterazione psico-fisica per
uso di sostanze stupefacenti o psicotrope (anche se non ne è conseguito un sinistro marittimo).
Patente nautica sempre revocata in caso di sinistro marittimo con tasso alcolemico superiore a 1,5
grammi per litro (g/l).
Visita medica per verificare l’esistenza dei requisiti psico-fisici entro sessanta giorni (novanta giorni
e sospensione cautelare della patente fino all’esito in caso di alterazione psico-fisica per uso di
sostanze stupefacenti o psicotrope).
Sanzioni raddoppiate e sequestro dell’unità in caso di sinistro marittimo.
Sequestro in ogni caso in ipotesi di tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro (g/l).
Fuori dei casi di sequestro del mezzo, qualora l’unità non possa essere condotta da altra persona
idonea (immediatamente disponibile), può essere fatta trainare e affidata in custodia a terzi a spese
del trasgressore.
Il sequestro è escluso qualora l’unità appartenga a persona estranea alla violazione.
Modalità di accertamento:
è facoltà degli accertatori sottoporre il trasgressore ad accertamenti strumentali, eventualmente
accompagnandolo al più vicino ufficio o comando, nonché, in caso di impossibilità o rifiuto (rifiuto
che, qualora non costituisca reato, è punito ulteriormente con autonoma sanzione uguale a quella di
cui all’ipotesi sub c9), accompagnato presso una struttura sanitaria per l’accertamento del tasso
alcolemico.
In caso di esito positivo – che indica lo stato di ebbrezza ai fini dell’applicazione delle sanzioni - o
in caso di esito presso struttura sanitaria non immediatamente disponibile, gli accertatori possono
ritirare la patente per un periodo non superiore a dieci giorni.
Analogamente in caso di accertamenti dello stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze
stupefacenti o psicotrope, con possibilità di ritiro della patente anche qualora gli accertamenti
preliminari abbiano dato esito positivo e vi sia fondato motivo che il conduttore si trovasse in stato
di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti o psicotrope.
Vale la pena di evidenziare che l’art. 59, comma 1, lettera r) del d. lgs. 3 novembre 2017 n. 229, che
ha introdotto le “innovazioni” nel codice della nautica da diporto (entrate in vigore il 13 febbraio
2018), ha stabilito adottarsi entro sei mesi (cioè entro il 13 agosto 2018) decreto attuativo che, tra
l’altro definisca le procedure e le modalità “per l’accertamento del tasso alcolemico”.
Considerazioni
Sanzioni:
l’impianto sanzionatorio, come accennato, richiama, per quanto non incompatibile, lo schema già
riprodotto nel codice della strada, ancorché le sanzioni amministrative qui introdotte, diverse dalle
corrispondenti sanzioni penali previste, invece, per tutte le ipotesi di guida su gomma, sono assai
elevate anche per le violazioni meno gravi: si pensi alla “guida” in stato di ebbrezza alcolica con
tasso superiore a 0,50 g/l, ma inferiore a 0,80 g/l senza aggravanti.
Per effetto dell’art. 16 l. 689/81 (legge che ha introdotto all’epoca la cosiddetta depenalizzazione) il
contravventore in quel caso potrà essere ammesso a pagare entro sessanta giorni la sanzione nella
misura ridotta di euro 3.673,00, pari a un terzo del massimo.
La norma corrispondente del codice della strada, l’art. 186 CdS, consente il pagamento in misura
9 Sanzione amministrativa da euro 5.000,00 a euro 15.000,00, aumentate da un terzo alla metà per i minori di anni
ventuno e gli utilizzatori a fini commerciali.
25
ridotta pari a euro 709,0010
.
Nei casi più gravi (tasso alcolico superiore a 0,80 g/l) e per la guida in stato di alterazione psico-
fisica per uso di sostanze stupefacenti o psicotrope il codice della strada prevede sanzioni penali,
pur trattandosi di contravvenzioni; ma anche la confisca del veicolo, oltre che nel caso di
alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, anche nell’ipotesi più grave di
guida in stato di ebbrezza alcolica con tasso superiore a 1,50 g/l.
Il codice della strada, tuttavia, dal 2010 ha introdotto una modalità estintiva del reato che, da un lato
consente, a determinate condizioni, di svolgere lavori di pubblica utilità e, all’esito positivo, vedere
dichiarata l’estinzione del reato e dall’altro, stante la particolarità delle occupazioni convenzionate,
spesso funge da efficace deterrente.
Detta opportunità, come accennato, è utilizzabile solo una volta ed è esclusa in caso di incidente
stradale connesso alla guida in stato di ebbrezza alcolica o in stato di alterazione da sostanze
stupefacenti.
Il buon esito della misura alternativa comporta, nei casi in cui è prevista, anche la revoca della
confisca.
Stupisce che il legislatore del 2017, mentre ha ritenuto di adottare sanzioni amministrative invece di
quelle penali - probabilmente in ragione della minore densità di traffico acqueo rispetto a quello su
strada e, quindi, considerando una minore incidenza statistica in termini di pericolosità - non abbia
raccolto l’esperienza per lo più positiva dei lavori di pubblica utilità, adottando soluzioni analoghe
anche per la nautica.
Prescrizione della sanzione:
il legislatore della strada ha attribuito rilevanza penale alle violazioni, ma scegliendo la specie della
contravvenzione ha anche optato per una relativamente veloce estinzione delle stesse per
prescrizione.
Il legislatore del mare, invece, adottando le sanzioni amministrative, ha inteso imporre un termine
di contestazione iniziale11
, ma al contempo ha così consentito l’interruzione della prescrizione
quinquennale su base civilistica e, pertanto, sostanzialmente protraendola potenzialmente
all’infinito, se tempestivamente interrotta12
.
Sequestro di unità di terzi:
Si immagina che anche nel campo di applicazione del CND emergeranno, in tema di sequestro, le
problematiche già viste in ambito di circolazione stradale che, come si è visto, prevede in
determinati casi il sequestro a fini di confisca (art. 186, comma 2, lettera c) e art. 187, comma 1).
Si richiamano, pertanto, le soluzioni ormai consolidate della Corte di cassazione, la quale ha
affermato che la confisca del veicolo intestato a un terzo sia esclusa "solo quando questi risulti del
tutto estraneo al reato e in buona fede, intesa quest'ultima come assenza di condizioni che rendano
profilabile a suo carico un qualsiasi addebito di negligenza da cui sia derivata la possibilità della
circolazione del mezzo" (Cass. Pen., Sez. IV, 8 ottobre 2012, n. 39777), riaffermando per esempio
che il concetto di "appartenenza" deve intendersi, "non in senso tecnico, come proprietà od
intestazione nei pubblici registri, ma quale effettivo e concreto dominio sulla cosa, che può
assumere la forma del possesso o della detenzione, purché non occasionali" (Cass. Pen., sez. IV,
sentenza 1° giugno 2010 n° 20610, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittimo il
sequestro di uno scooter, formalmente intestato alla madre dell'imputato ma in uso a quest'ultimo).
10
Rispetto alla sanzione amministrativa da euro 532,00 a euro 2.127,00 (art. 186 CdS). 11
90 giorni per i cittadini italiani e 360 per i residenti all’estero (art. 14 l. 689/81). 12
Art. 28 l. 689/81.
26
Concludendo, relativamente alle unità concesse il leasing, prassi molto diffusa nel mondo della
nautica da diporto, la Suprema Corte ha deciso che "non è confiscabile la vettura condotta in stato
di ebbrezza dall'autore dei reato, utilizzatore del veicolo in relazione a contratto di leasing, se il
concedente, proprietario del mezzo, sia estraneo al reato"13
.
Rapporti con il delitto di ubriachezza di cui all’art. 1120 codice della navigazione:
La norma previgente – che non risulta essere stata abrogata dal rinnovato codice della nautica da
diporto – recita “Il comandante della nave, del galleggiante o dell'aeromobile ovvero il pilota
dell'aeromobile, che si trova in tale stato di ubriachezza, non derivata da caso fortuito o da forza
maggiore, da escludere o menomare la sua capacità al comando o al pilotaggio, è punito con la
reclusione da sei mesi ad un anno.
Il componente dell'equipaggio della nave, del galleggiante o dell'aeromobile ovvero il pilota
marittimo, che, durante un servizio attinente alla sicurezza della navigazione o nel momento in cui
deve assumerlo, si trova in tale stato di ubriachezza, non derivata da caso fortuito o da forza
maggiore, da escludere o menomare la sua capacità a prestare il servizio, è punito con la
reclusione da uno a sei mesi.
Le precedenti disposizioni si applicano anche quando la capacità al comando o al servizio è
esclusa o menomata dall'azione di sostanze stupefacenti.
La pena è aumentata fino a un terzo, se l'ubriachezza o l'uso di sostanze stupefacenti sono
abituali”.
Va anzitutto osservato che la norma prevista dal codice della navigazione, se riferita al diporto,
relativamente a comando, condotta o direzione nautica, comprende esclusivamente il comandante, il
componente dell’equipaggio della nave o il pilota marittimo, quali unici possibili autori del reato e
la nave14
quale unica costruzione destinata alla navigazione da diporto inclusa nelle definizioni
introdotte dal nuovo art. 3 del CND.
Si restringe, pertanto, il possibile campo delle sovrapposizioni che, tuttavia, potrebbero manifestarsi
in caso di comando o conduzione della nave in stato di ebbrezza alcolica o a causa dell’utilizzo di
sostanze stupefacenti che abbiano comportato l’esclusione o la menomazione della capacità al
comando o al servizio.
Molto fragili i confini anche tra le condotte previste dai vari precetti (stato di ebbrezza in
conseguenza dell'uso di bevande alcoliche – art. 53 bis CND -, stato di alterazione psico-fisica per
uso di sostanze stupefacenti o psicotrope – art. 53 quater CND – e, infine, esclusione o
menomazione della capacità al comando o alla conduzione dovuta a stato di ubriachezza – art. 1120
CN -), molto difficili gli accertamenti nell’esperienza del codice della navigazione, che non
prevedeva strumenti di verifica. Certamente possibili nella realtà alcune tappe giurisprudenziali che
potrebbero doversi occupare di decidere se si rientri nell’area di rilevanza penale o in quella delle
sanzioni amministrative o di entrambe.
Sia permessa solo una breve riflessione relativamente all’ipotesi in cui si optasse per la coesistenza
delle sanzioni: la giurisprudenza più illuminata e convenzionalmente orientata, in quanto attenta
agli insegnamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) e della Corte di Giustizia,
sarà in quel caso anche chiamata a valutare se non si tratti di sovrapposizione – vietata - di sanzioni
di specie sostanzialmente penale15
.
13
Cass. pen., Sez. Unite, Sent. (ud. 19/01/2012) 17-04-2012, n. 14484. 14
Articolo 3, lettere c), d) ed e) CND. 15
Quanto alla classificazione delle sanzioni a effetto penale si richiama, per tutte, la sentenza Corte europea dei diritti
dell’uomo 8 giugno 1976, Engel e altri c. Paesi Bassi, serie A n. 22, par. 82; quanto al divieto del ne bis in idem
27
Conclusioni
Come spesso accade, quindi, va visto con favore l’aver introdotto una regolamentazione precisa con
il più recente aggiornamento del codice della nautica da diporto, seppure, come spesso accade alle
norme di recente emanazione, apparentemente le problematiche superino le disposizioni chiare.
Si ritiene, tuttavia, che un utilizzo cum grano salis delle norme, soprattutto se di carattere
sanzionatorio e ancor più in quanto di recente emanazione, potrà costituire un equo deterrente
rispetto a comportamenti pericolosi e antisociali, confidando, tuttavia, nell’evolversi della
giurisprudenza avveduta, che fissi principi certi, che sappiano così guidare i comandanti.
Ciò però esprimendo l’auspicio che opportunità ragionevoli ed efficaci, come ipotesi di pagamento
in misura ridotta, in determinati casi anche in deroga alle disposizioni dell’art. 16 l. 689/8116
,
magari con attenuazione o estinzione anche delle sanzioni accessorie, siano presto introdotte anche
per la navigazione, che ci auguriamo di incrementare sempre più, non solo tra le norme di legge.
Così facendo, al pari di quanto già accade efficacemente con l’ammissione ai lavori di pubblica
utilità nella circolazione stradale, si attenuerebbe quella che allo stato appare una violazione dei
principi di ragionevolezza ed equità (rispetto alle norme che regolano l’analoga disciplina della
strada), violazione che potrebbe anche portare a interessare della vicenda la Corte Costituzionale.
[Marco Vianello]
sostanziale, si consulti, tra le altre, la decisione Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 4 marzo 2014 - Ricorso n.
18640/10 - Grande Stevens e altri c. Italia; quanto all’identità del fatto, al di là dell’esatta contestazione, si richiama la
sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo del 10 febbraio 2009 Grande Camera, caso di Sergey
ZOLOTUKHIN v. RUSSIA (Decisione n. 14939/03); quanto, infine, all’attuale stato dell’arte, si veda da un lato la
posizione in parte “possibilista” di una coesistenza di sanzioni portata dalla sentenza Corte EDU, Grande Camera, 15
novembre 2016 A. e B. contro Norvegia, ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11 e dall’altro gli sviluppi garantisti con le
conclusioni dell’avvocato generale, Campos Sànchez-Bordona, nella causa Menci (C-524/15, del 12 settembre 2017), il
quale nelle sue considerazioni afferma fermamente che “l’articolo 50 della Carta, al pari dell’articolo 4 del protocollo
n. 7, sancisce il principio del ne bis in idem in quanto diritto fondamentale della persona, non soggetto a deroghe.
Talvolta non si tiene sufficientemente conto di simile qualità e si fanno prevalere sul diritto in parola considerazioni di
ordine economico (la situazione delle finanze pubbliche, ad esempio), che, pur essendo perfettamente legittime in altri
ambiti, non sono sufficienti a giustificarne la limitazione”. Così facendo l’Avvocato generale ha rinviato al giudizio
della Corte di Giustizia la scelta tra principi che si riaffermano decisamente come fondamentali. 16
Come per esempio dal 2013 è possibile nel caso dell'art. 202 del CdS (“Per le violazioni per le quali il presente
codice stabilisce una sanzione amministrativa pecuniaria, ferma restando l'applicazione delle eventuali sanzioni
accessorie, il trasgressore è ammesso a pagare, entro sessanta giorni dalla contestazione o dalla notificazione, una
somma pari al minimo fissato dalle singole norme. Tale somma è ridotta del 30% se il pagamento è effettuato entro
cinque giorni dalla contestazione o dalla notificazione”).
In realtà già l’art. 57 ter del CND, nella sua versione rinnovata a far data 13.02.2018, prevede una disposizione
analoga, anche se di fatto non applicabile nella generalità di casi di “ebbrezza”, in quanto escluso (art. 57 ter, comma
4 CND) nei casi di sequestro o revoca della patente nautica.
28
LA RESPONSABILITA' PENALE
DELL'ESERCENTE LA PROFESSIONE SANITARIA
Normativa di riferimento:
Art. 3 legge 8 novembre 2012, n. 189 (di conversione del cd. decreto
Balduzzi n. 158/2012):
“L’esercente le professioni sanitarie che nello svolgimento della
propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate
dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In
tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 del codice
civile. Il giudice, anche nella determinazione del risarcimento del
danno, tiene debitamente conto della condotta di cui al primo periodo”
Art. 590 sexies c.p. (nuovo reato rubricato: “Responsabilità colposa per
morte o lesioni personali in ambito sanitario” - stesso trattamento
sanzionatorio riservato alla fattispecie comune), introdotto ex l.
24/2017 cd. Gelli-Bianco:
“1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio
della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo
quanto disposto dal secondo comma.
2. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità
è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle
linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in
mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che
le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino
adeguate alle specificità del caso concreto.”
29
A. Disciplina in vigenza del decreto Balduzzi.
In vigenza della legge Balduzzi l'esercente la professione sanitaria:
se in colpa lieve, non rispondeva penalmente
se in colpa non lieve, rispondeva penalmente
ed, in specie, la colpa dell'esercente la professione sanitaria era individuabile nella mancata
osservanza delle linee guida/buone pratiche che invece avrebbero dovuto essere state applicate con
riferimento allo specifico caso concreto; la colpa dell'esercente la professione medica17
, dunque, era
quindi modulata nel seguente modo:
1. colpa lieve = inadeguatezza non macroscopica delle linee guida/buone pratiche rispetto al
caso concreto;
2. colpa non lieve = inadeguatezza macroscopica delle linee guida/buone pratiche rispetto al
caso concreto.
La disciplina di cui al Balduzzi, dunque, prevedeva l'esenzione da responsabilità penale per il
medico che realizzasse il cd. adempimento imperfetto delle linee guida (= effettivo rispetto di
quanto prescritto dalle linee guida in una situazione in cui, però, esse non risultano di adeguata
applicazione: qui la condotta del medico è perfettamente corrispondente alla linea guida, ma
inadempiente rispetto a quanto prescritto dalla regola cautelare relativa all'applicazione delle linee
guida medesime), a seconda della gravità della colpa – id est: a seconda della portata dell'errore di
valutazione relativo all'adeguatezza delle linee guida per il singolo caso concreto (cd. error in
eligendo).
Nulla diceva, invece, la disciplina Balduzzi con riferimento al trattamento penale del medico per il
diverso caso del cd. adempimento incompleto delle linee guida (= effettiva individuazione delle
linee guida adeguate al caso concreto, ma radicale errore nella loro materiale applicazione in sede
esecutiva, cd. error in executivis: qui la condotta del medico è perfettamente conforme alla regola
cautelare, che prevede l'applicazione delle linee guida per quel caso specifico, ma è in concreto
inadempiente rispetto a quanto prescritto dalle linee guida). Con riferimento a casi del genere si
discuteva, ma l'opinione maggioritaria riteneva per lo più non applicabile la disciplina della legge
Balduzzi, sulla base del fatto che l'applicazione del Balduzzi presuppone la coincidenza tra ciò che
le linee guida prescrivono in astratto e ciò che il medico compie in concreto18
.
In sostanza, il decreto Balduzzi dettava una disciplina:
afflittiva nei confronti del medico che prescindesse del tutto o che sbagliasse completamente
in astratto l'individuazione delle linee guida;
una disciplina di carattere “premiale” nei confronti del medico che commettesse un errore di
rilevanza trascurabile con riferimento all'individuazione delle linee guida adeguate;
17 È essenziale comprendere, in questo senso, che la colpa del medico non va identificata con la
semplice inosservanza di quanto prescritto dalle linee guida, per il fatto che le linee guida non costituiscono
esse stesse la regola cautelare in riferimento alla violazione della quale è dato individuare la componente
soggettiva colposa: le linee guida sono direttive, raccomandazioni generiche elaborate in astratto, che
possono essere più o meno adatte al singolo caso concreto; la vera regola cautelare, allora, è quella che
impone all'esercente la professione sanitaria di verificare che la direttiva terapeutica delineata dalle linee
guida sia adeguata rispetto al caso concreto. In questo senso, allora, anche il medico che applica le linee
guida può dirsi in colpa, nella misura in cui abbia fatto applicazione di linee guida/buone pratiche
palesemente non adeguate alle specificità del caso concreto - anche se poi la sua perseguibilità sul piano
della responsabilità penale varierà al seconda del grado della colpa, id est a seconda dell'ampiezza dell'errore
relativo alla valutazione circa l'adeguatezza delle linee guida al caso concreto). 18 In realtà va precisato che l'applicazione del Balduzzi veniva esclusa con certezza solo con
riferimento al caso in cui la condotta realizzata dal medico sia totalmente altra rispetto a quella prescritta
dalle linee guida/buone pratiche; si discuteva, invece, con riferimento al caso più problematico – e molto più
comune – in cui il medico abbia posto in essere una condotta parzialmente riconducibile a quella prescritta
dalle linee guida e solo ad un certo punto sia incorso in un errore esecutivo.
30
non disciplinava in alcun modo il caso in cui il medico individuasse correttamente in astratto
le linee guida ma commettesse poi un errore (soprattutto se macroscopico) nel corso della
loro esecuzione materiale.
B. Disciplina a seguito dell'introduzione dell'art. 590 sexies c.p. ex legge n. 24/2017 (Gelli-
Bianco).
La nuova norma prevede l'esclusione della responsabilità penale del medico per i reati di lesioni e di
omicidio causati in occasione dell'esercizio della professione sanitaria, al ricorrere di una pluralità
di condizioni, quali:
1. che si tratti di colpa per imperizia tout court (cade ogni differenziazione letterale tra colpa
lieve e grave; rispetto al Balduzzi, dunque, cambia tutto, in quanto ad oggi la normativa reca
il diretto riferimento all'esenzione per la sola colpa dovuta ad imperizia)
2. che il medico abbia agito nel rispetto di quanto prescritto dalle linee guida/buone pratiche
adatte alla specificità del caso concreto (ed, in questo senso, vi è continuità con il Balduzzi)
3. che si tratti, peraltro, di linee guida/buone pratiche accreditate, dunque ritenute valide alla
luce di un procedimento selettivo di carattere amministrativo (e qui vi è una specificazione
per aggiunta rispetto al Balduzzi).
Il dichiarato intento del legislatore del 2017 è quello di “alleggerire” il trattamento civile e penale
della responsabilità del medico, cercare di attenuare la produzione del sempre più dilagante
fenomeno della cd. medicina difensiva.
Se detto obiettivo sembra essere stato centrato in ambito civile, non può dirsi lo stesso con
riferimento al trattamento penale della responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.
C.1 L'interpretazione della nuova disciplina della responsabilità penale del medico: della effettiva
portata e dell'applicabilità temporale della nuova disciplina.
La formulazione dell'art. 590 sexies c.p. ha fatto insorgere una serie di complessi problemi
interpretativi.
Al di là della problematicità del riferimento stesso all'esenzione della colpa per imperizia a fronte di
situazioni in cui il medico abbia rispettato quanto prescritto dalle linee guida accreditate ed
adeguate al caso concreto – problematicità data dal fatto che non si comprende proprio come possa
parlarsi di una forma di imperizia e, quindi, rispetto a quale forma di imperizia il medico non venga
punito –, ciò che è davvero problematico è comprendere quale sia esattamente la portata precettiva
della nuova normativa, quale sia il perimetro applicativo della causa di non punibilità prevista ex
art. 590 sexies c.p e, di qui, se tale norma possa dirsi migliorativa o meno rispetto alla disciplina
previgente ai fini della sua applicabilità retroattiva ai sensi dell'art. 2 c.p..
In sostanza, i problemi sono:
1. per quali tipologie di colpa il medico è effettivamente esente da responsabilità penale? Vale
il riferimento secco all'imperizia o deve comunque farsi riferimento ad una gradazione della
colpa lieve/grave?
2. ammesso e non concesso che la nuova disciplina contenga effettivamente un aliquid novi
rispetto alla previgente, la nuova disciplina deve considerarsi migliorativa (nel qual caso,
sarà suscettibile di applicazione retroattiva) o peggiorativa rispetto alla precedente?
3. alla luce della sua interpretazione, la nuova disciplina relativa alla colpa medica può dirsi
coerente rispetto al dato costituzionale (sotto un triplice aspetto: compatibilità con il
principio di colpevolezza; compatibilità con la tutela costituzionale del diritto alla salute ex
art. 32 Cost; non disparità di trattamento penale rispetto all'esercizio di altre professioni)?
Secondo una prima impostazione ermeneutica (stigmatizzata in Cass. Pen. n. 28187/17, cd.
sentenza Tarabori) [1] la nuova disciplina di cui alla legge Gelli-Bianco sarebbe meno favorevole
rispetto alla disciplina previgente. La disciplina attuale, infatti, ha eliminato ogni distinzione tra
31
colpa lieve/grave ai fini della rilevanza penale della condotta dell'esercente la professione sanitaria
(mentre in vigenza del Balduzzi la punibilità del medico che avesse fatto applicazione di linee guida
inadeguate al caso concreto era esclusa per i casi di colpa lieve – inadeguatezza non macroscopica –
). Infatti, secondo questa lettura interpretativa basata su una lettura testuale del dato normativo: in
vigenza del Balduzzi, se il medico individuava in astratto e dunque applicava linee guida non
adeguate, rispondeva solo in caso di colpa grave (macroscopica inadeguatezza) // oggi, se il medico
applica linee guida non adeguate, non è mai esonerato da responsabilità penale per imperizia.
Trattandosi di una disciplina peggiorativa rispetto alla precedente, dunque, essa non sarebbe
suscettibile di applicazione retroattiva ex art. 2 c.p. (e, pertanto, non sarebbe in grado di incidere
sull'eventuale giudicato medio tempore formatosi ex art. 2 c.p.).
Di più: non solo la normativa attuale non mostrerebbe alcun margine di miglioramento nel
trattamento della responsabilità penale del medico rispetto alla disciplina previgente, ma è stato
anche osservato che la nuova legge Gelli-Bianco avrebbe determinato un risultato obiettivamente
inutile – posto che essa determina un risultato pratico che è lo stesso che sarebbe derivato all'esito
dell'abrogazione secca della legge di conversione del decreto Balduzzi, ossia una disciplina in tutto
rispondente all'applicazione delle regole generali del diritto penale. Non solo, dunque, la nuova
normativa sarebbe peggiorativa rispetto al passato, ma sarebbe tecnicamente inutile nella sua
tautologia (esclude la punibilità per imperizia in ipotesi in cui imperizia non può esserci, ossia
laddove il medico abbia applicato le linee guida adeguate).
Ai sensi di una seconda impostazione ermeneutica (Cass. Pen. n. 50078/17, cd. sentenza
Cavazza) [2], invece, la nuova disciplina di cui alla legge Gelli-Bianco sarebbe più favorevole
rispetto alla disciplina previgente. Secondo questa diversa impostazione, la disciplina attuale
prevede una causa di esclusione della punibilità per l'esercente la professione sanitaria che opera sì
con riferimento al solo caso di colpa per imperizia, ma senza più distinguere tra colpa lieve e grave
ai fini di tale esclusione.
Trattandosi di disciplina in questo senso più favorevole rispetto alla precedente, dunque, la
normativa attuale sarebbe suscettibile di applicazione anche retroattiva.
C.2 L'interpretazione della nuova disciplina della responsabilità penale del medico: del rapporto
tra la colpa per imperizia e le altre tipologie di colpa – ossia la questione dell'applicabilità della
regola di cui all'art. 2236 c.c anche in ambito penale.
La nuova disciplina del 2017, peraltro, tocca uno dei temi che già in passato hanno animato dottrina
e giurisprudenza in ambito penalistico, ossia quello del rapporto tra la colpa per imperizia e le
altre tipologie di colpa, ossia la colpa per negligenza e imprudenza nell'ambito delle questioni
relative alla responsabilità dell'esercente la professione sanitaria.
La distinzione tra la colpa cd. per imperizia (id est l'errore tecnico, il mancato rispetto delle regole
cautelari tecniche e specifiche relative all'esecuzione di una prestazione di carattere specifico,
caratterizzate cioè da una difficoltà tecnica più elevata del normale e settorialmente specifica) e la
colpa cd. per negligenza ed imprudenza (id est l'errore che deriva dalla mancata osservanza di
regole cautelari che non hanno carattere tecnico, ma che derivano per lo più dal buon senso e
dall'esperienza comune) è una distinzione che nasce proprio dall'interpretazione di una norma di cui
al codice civile, ossia l'art. 2236 c.c..
Come noto, detta norma stabilisce che “Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di
particolare difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa
grave”. Nella sostanza, secondo l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza anche costituzionale,
l'art. 2236 c.c. esclude la responsabilità per colpa lieve del professionista con riferimento ai soli
casi di imperizia, tracciando in questo senso una distinzione nella valutazione della componente
soggettiva rispetto ai casi in cui la colpa va valutata non rispetto alla violazione di regole cautelari a
contenuto comune ma a contenuto elevatamente tecnico; l'idea di fondo è che solamente se la
prestazione si caratterizza per un'elevata difficoltà tecnica si può “perdonare qualcosa” a colui che è
32
obbligato ad eseguirla.
Si è storicamente posto il problema dell'applicabilità di tale regola, per come enucleata dalla
giurisprudenza anche costituzionale nell'interpretazione che ormai rappresenta diritto vivente, anche
in ambito penale. Sul punto:
secondo l'orientamento interpretativo originario, detta regola deve considerarsi operante
anche in ambito penale ai fini della valutazione della colpa del professionista, e ciò in
ragione di esigenze di coerenza del sistema complessivo;
successivamente, l'impostazione della giurisprudenza penale è mutata in senso opposto: si è
affermato che l'art. 2236 c.c. presuppone l'idea di una graduazione tra colpa lieve e grave
che deve considerarsi del tutto estranea alla disciplina penale. Si è osservato, in specie, che
l'unica graduazione della colpa nota al sistema penale è quella di cui all'art. 133 c.p., norma
che testimonia come il grado della colpa in ambito penale non possa in alcun modo incidere
sulla valutazione relativa all'an della punibilità, ma solamente ai fini dell'individuazione del
quantum di pena; la disciplina penale della colpa si esaurisce in quanto disposto ex art. 133
c.p. e, dunque, non vi sono lacune che sia necessario né ragionevole colmare mediante
l'estensione della regola civilistica di cui all'art. 2236 c.c.. L'esenzione da responsabilità
colposa per imperizia, dunque, può trovare operatività solamente in ambito civile.
Questo orientamento, tuttavia, ha subito una progressiva attenuazione nel tempo ad opera
della giurisprudenza che ha affermato che la regola espressa dall'art. 2236 c.c., ossia la
regola per cui ove la prestazione è tecnicamente più complessa occorre una valutazione
relativamente più indulgente circa la colpa in capo a colui che l'ha eseguita, non è altro che
l'espressione di quella che ben può qualificarsi come una massima di esperienza (posto che
corrisponde effettivamente all'id quod plerumque accidit che più la prestazione è difficile,
più è facile commettere errori esecutivi della stessa) e che il giudice penale non può non
tener conto di detta massima nella valutazione della colpa del professionista; in questo
modo, è rientrato dalla porta ciò che la giurisprudenza precedente aveva fatto uscire dalla
finestra.
In conclusione: ad oggi, la giurisprudenza penale per lo più afferma che l'art. 2236 c.c è norma non
suscettibile di applicazione diretta in ambito penale, e tuttavia afferma che effettivamente
corrisponde ad una massima comune di esperienza e buon senso il principio che la norma civilistica
in questione esprime; pertanto, ad oggi è possibile affermare che il principio secondo il quale va
tenuto conto della difficoltà tecnica della prestazione in sede di valutazione penalistica della
colpa del soggetto chiamato a darvi esecuzione trova certamente applicazione anche in ambito
penale.
A fronte di un quadro di riferimento normativo così configurato, alla luce dell'evoluzione
giurisprudenziale, l'entrata in vigore del decreto Balduzzi nel 2012 ha segnato un forte elemento di
novità, dal momento che ha per la prima volta introdotto apertamente una distinzione tra colpa
lieve/grave dotata di rilevanza in ambito penale con riferimento al trattamento della responsabilità
del professionista sanitario.
In particolare, si è posto il problema dell'inquadramento dell'esenzione da responsabilità per colpa
lieve di cui alla disciplina Balduzzi, nella misura in cui il pensiero giuridico si è interrogato per
comprendere se l'esclusione di responsabilità per colpa lieve dovesse riferirsi esclusivamente alla
colpa per imperizia o meno. Sul punto si è registrato un ampio contrasto interpretativo:
i) secondo una prima impostazione ermeneutica, il riferimento alle linee guida – che sono
regole di carattere tecnico-specialistico –, valeva a fondare l'idea che l'esclusione della
punibilità per colpa lieve dovesse riferirsi all'esclusione della sola colpa lieve per imperizia;
ii) secondo una diversa impostazione, invece, le linee guida non contengono solamente regole
di carattere tecnico, ma anche raccomandazioni che esplicitano regole di prudenza e
diligenza, e dunque non vi sono gli estremi per affermare una così rigida
compartimentazione dell'operatività della disciplina Balduzzi, non vi sono gli estremi per
33
affermare che essa valga ad escludere la sola responsabilità per colpa lieve per imperizia.
È proprio alla luce di questo dibattito, allora, che probabilmente si spiega la scelta legislativa del
2017 di “tagliare la testa al toro”, esplicitando la limitazione dell'esclusione della punibilità
solamente con riferimento alla colpa per imperizia. In questo senso, la scelta del legislatore del
2017 non è poi così scontata, nella misura in cui si considera che per il tramite di essa il legislatore
ha preso una posizione netta su un tema molto discusso, affermando expressis verbis che la colpa
per negligenza e per imprudenza devono considerarsi indifferenti rispetto al tema dell'osservanza o
meno delle linee guida/buone pratiche accreditate.
In questo senso, allora, la normativa recente assume un significato maggiore, quanto meno in senso
dogmatico.
C.3 L'interpretazione della nuova disciplina della responsabilità penale del medico: tentativi di
interpretazione alla ricerca dell'aliquid novi.
Non è semplice, dunque, individuare l'esatta perimetrazione dell'ambito di applicazione della nuova
disciplina della responsabilità penale del medico.
Tale difficoltà, come evidenziato, si lega alla valutazione relativa all'effettivo grado di innovatività
della disciplina di cui alla legge Gelli-Bianco rispetto a quella precedentemente in vigore, in quanto:
se si sposa l'idea per cui la nuova disciplina non si caratterizza in senso innovativo rispetto
alla precedente, per cui essa si traduce in una disposizione inutile e tautologica, il cui
risultato applicativo, di fatto, non è diverso da quello che si sarebbe ottenuto all'esito di
un'abrogazione secca del Balduzzi (impostazione che basa su una lettura testuale del dato
normativo), allora la legge Gelli-Bianco non ha altri effetti se non l'inasprimento del
trattamento penale della responsabilità medica (perchè ad oggi è considerata punibile anche
la colpa lieve, che ieri non lo era);
se, invece, si vuole andare alla ricerca di un elemento di novità, questo potrebbe individuarsi
– ed effettivamente è stato proposto come tale nell'ambito di alcune letture della nuova
normativa offerte dalla dottrina – nel fatto che la nuova legge si presta a regolamentare
anche l'ipotesi fattuale del cd. errore applicativo (error in executivis), ossia la fattispecie del
cd. adempimento incompleto che il decreto Balduzzi non regolamentava. In questo senso,
allora, la norma non solo acquisterebbe un significato anche sistematico, ma determinerebbe
un trattamento di carattere più favorevole per l'esercente la professione sanitaria e si
renderebbe suscettibile di applicazione anche retroattiva ai casi di colpa per imperizia19
.
C.4 L'interpretazione della nuova disciplina della responsabilità penale del medico: le risposte
della giurisprudenza (Cass. Pen. SS.UU 21 dicembre 2017).
La questione relativa all'individuazione dell'ambito applicativo dell'art. 590 sexies c.p. è stata
recentemente rimessa all'esame delle SSUU penali, le quali si sono pronunciate alla fine del mese di
dicembre, offrendo una risposta piuttosto complessa, così definita nell'informazione provvisoria
diffusa all'esito dell'udienza del 21 dicembre:
“L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali
derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:
a) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da negligenza o imprudenza;
b) se l’evento si è verificato per colpa (anche “lieve”) da imperizia: 1) nell’ipotesi di errore
rimproverabile nell’esecuzione dell’atto medico quando il caso concreto non è regolato dalle
raccomandazioni delle linee-guida o, in mancanza, dalle buone pratiche clinico-assistenziali; 2)
nell’ipotesi di errore rimproverabile nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone
19
Con evidenza, si tratta di un'operazione ermeneutica dal risultato piuttosto forte, nella misura in cui per dare
significato alla norma si giunge ad escludere in alcuni casi la punibilità del medico che compia un errore applicativo
rispetto alle linee guida accreditate correttamente individuate ed adeguate al caso concreto, anche nei casi di colpa
grave.
34
pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto, fermo restando l’obbligo del
medico di disapplicarle quando la specificità del caso renda necessario lo scostamento da esse;
c) se l’evento si è verificato per colpa (soltanto “grave”) da imperizia nell’ipotesi di errore
rimproverabile nell’esecuzione, quando il medico, in detta fase, abbia comunque scelto e rispettato
le linee-guida o, in mancanza, le buone pratiche che risultano adeguate o adattate al caso concreto,
tenuto conto altresì del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto
medico”.
Ad un primo esame relativo alla sola informazione provvisoria, risulta già possibile rilevare alcuni
aspetti di notevole importanza.
In primo luogo, le SSUU hanno rilevato che la causa di esclusione della punibilità di cui all'art.
590 sexies c.p. opera con esclusivo riferimento alla colpa per imperizia, non essendo invece atta
ad operare con riferimento alle ipotesi di colpa per negligenza ed imprudenza dell'esercente la
professione sanitaria.
Con ciò, le SSUU contribuiscono a rimarcare il fatto che la regola di origine civilistica – ma, come
detto, radicata nell'esperienza derivante dall'id quod plerumque accidit – oggi è suscettibile di
trovare applicazione anche in ambito penale. La complessità tecnica che caratterizza il contenuto
della prestazione, dunque, determina la necessità di una particolare attenzione nella valutazione
relativa alla colpevolezza che anche il giudice penale si accinga a compiere.
In secondo luogo, già l'informazione provvisoria diffusa dimostra come le SSUU abbiano rifiutato
di aderire all'interpretazione testuale e più stretta dell'art. 590 sexies c.p. (sostenuta nella cd.
sentenza Tarabori), introducendo in via interpretativa la sussistenza di un sistema di
graduazione della colpa per imperizia stessa, pur in mancanza di qualsivoglia riferimento testuale
nella citata norma. Le SSUU, infatti, individuano le ipotesi in cui effettivamente sussiste una
responsabilità penale colposa per imperizia dell'esercente la professione medica (e, dunque, i casi in
cui non opera la causa di esclusione della punibilità), distinguendole in:
I. casi di imperizia lieve, quando:
i. vi sia stato un errore esecutivo di carattere non macroscopico, in assenza di linee
guida/buone pratiche accreditate atte ad offrire un regolamentazione dell'operato del
medico nel caso concreto;
ii. siano state erroneamente individuate le linee guida/buone pratiche accreditate, le quali
cioè si siano rivelate non adeguate al caso concreto (cd. error in eligendo) in maniera
non macroscopica;
II. casi di imperizia grave, quando:
i. vi sia stato un errore esecutivo di carattere macroscopico, in assenza di linee
guida/buone pratiche accreditate atte ad offrire un regolamentazione dell'operato del
medico nel caso concreto – ma anche quando l'errore esecutivo si sia verificato quando
le linee guida/buone pratiche accreditate vi siano e siano state individuate correttamente
in astratto, in quanto adeguate al caso concreto;
ii. siano state erroneamente individuate le linee guida/buone pratiche accreditate, le quali
cioè si siano rivelate non adeguate al caso concreto (cd. error in eligendo) in maniera
macroscopica.
Con evidenza, dunque, il vero elemento di novità di cui alla disciplina introdotta dalla legge Gelli-
Bianco per come interpretata dalle SSUU, sta nella regolamentazione anche delle ipotesi del cd.
error in exectutivis che, invece, risultava privo di qualsiasi disciplina nella vigenza della normativa
Balduzzi.
Quello che è già certo ed evidente dalla lettura della sola informazione provvisoria è che la
regolamentazione della responsabilità penale dell'esercente la professione medica
ricomprende finalmente anche i casi problematici sino ad ora qualificati come ipotesi di cd.
35
adempimento incompleto delle linee guida, ossia quelle fattispecie caratterizzate dal rispetto da
parte del medico della regola cautelare (derivante dalla valutazione di adeguatezza delle linee
guida/buone pratiche in relazione al caso concreto) ma dal mancato adempimento delle linee guida
(che, lo si rammenta, non costituiscono esse stesse regola cautelare) per errore nella loro attuazione
concreta sul piano esecutivo.
Di grande importanza, infine, la permanenza del richiamo delle SSUU alla necessità di tenere
comunque conto, nel corso della valutazione in sede penale relativa alla colpevolezza dell'esercente
la professione sanitaria, “del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche
dell'atto medico”. Non solo, infatti, questo richiamo contribuisce a riaffermare una volta di più
l'applicabilità della regola civilistica di cui all'art. 2236 c.c anche in ambito penale, ma evidenzia
l'esigenza di ragionevolezza nella fase di applicazione – ed, ancor prima, di interpretazione – della
nuova normativa relativa alla responsabilità penale del medico.
In un momento storico in cui la scienza supera continuamente i propri traguardi e rinnova
costantemente le ritenute certezze, in cui non vi sono punti fermi insuscettibili di essere posti
costantemente in discussione, l'affermazione della necessità di una concreta valutazione del grado di
rischio e delle difficoltà specifiche che il medico sia stato chiamato ad affrontare e gestire
costituisce un'indispensabile valvola di apertura, in grado di conferire la necessaria flessibilità ad un
sistema che, per sua natura, non tollera e non può tollerare eccessiva rigidità, alla luce del suo
incessante evolversi.
In conclusione: pur avendo già potuto enucleare alcuni punti fermi posti dalle SSUU, è chiaro che
una simile e complessa interpretazione – spintasi così tanto oltre il dato letterale della norma –
necessita di essere sorretta da una motivazione forte e profonda, dalla quale non potrà
assolutamente prescindersi per un'analisi completa dello statuto normativo attuale della
responsabilità penale dell'esercente la professione sanitaria.
In particolare, la lettura integrale dell'interpretazione offerta dalle SSUU appare quanto mai
necessaria al fine della risoluzione dei problemi di disciplina intertemporale (*) relativa
all'applicazione della legge n. 24/2017, nonché della riflessione relativa alla sussistenza di eventuali
profili di incostituzionalità della nuova disciplina sula responsabilità penale del medico.
[Claudio Beltrame – Anna La Bombarda]
36
(*) Sul punto, è possibile per il momento compiere quanto meno il seguente ragionamento
schematico, senza pretesa di completezza alcuna:
BALDUZZI GELLI-BIANCO
1.
trattamento della
responsabilità per
colpa per negligenza
e imprudenza
opinioni discordanti:
- HP1) l'esclusione della
punibilità vale solo con
riferimento ai casi di colpa per
imperizia, ergo il medico
RISPONDE PER
NEGLIEGENZA /
IMPRUDENZA se LIEVI
- HP2) l'esclusione vale con
riferimento alla colpa lieve
senza specificazione, ergo il
medico NON RISPONDE MAI
PER COLPA LIEVE DI
QUALSIASI TIPO
il medico RISPONDE
COMUNQUE per negligenza
e imprudenza tout court
Se accolta hp1:
invariato
Se accolta hp2:
modificato in
peius
2.
trattamento della
responsabilità per cd.
error in eligendo
il medico risponde SOLO PER
ERROR IN ELIGENDO
MACROSCOPICO
(colpa grave)
costituisce una forma di
imperizia sia lieve che grave di
cui IL MEDICO RISPONDE
COMUNQUE
modificato in
peius
3.
trattamento della
responsabilità per cd.
error in executivis
in assenza di linee
guida/buone pratiche
non era regolamentato,
ma in via interpretativa si
negava l'applicazione della
disciplina Balduzzi (che
presuppone per l'esenzione
l'identità tra quanto prescritto
dalle linee guida e quanto
realizzato) – ergo IL MEDICO
NE RISPONDEVA
COMUNQUE
COSTITUISCE IMPERIZIA
SIA LIEVE CHE GRAVE
di cui il medico RISPONDE
COMUNQUE
(perchè l'esclusione di
punibilità per imperizia opera
solo se vi è rispetto delle linee
guida sussistenti e
correttamente individuate
come applicabili al caso
concreto)
tendenzial-
mente
invariato
ma
regolamentato
4.
trattamento della
responsabilità per cd.
error in executivis
in presenza di linee
guida/buone pratiche
in astratto e adeguate
al caso concreto
non era regolamentato,
ma in via interpretativa si
negava l'applicazione della
disciplina Balduzzi (che
presuppone per l'esenzione
l'identità tra quanto prescritto
dalle linee guida e quanto
realizzato) – ergo IL MEDICO
NE RISPONDEVA
COMUNQUE
COSTITUISCE IMPERIZIA
GRAVE di cui il MEDICO
RISPONDE
(se c'è linea guida, l'imperizia
assume gravità maggiore)
tendenzial
mente
invariato
ma
regolamentato