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il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici 1 IL NARRATORE AUDIOLIBRI PRESENTA Racconti umoristici di Anton P. Čechov 01 - Un cognome cavallino Al maggior generale a riposo Buldeiev avevan preso a dolere i denti. Egli sciacquava la bocca con acquavite, con cognac, applicava al dente malato della gruma di tabacco, dell'oppio, della canfora, del petrolio, spalmava la guancia con iodio, negli orecchi aveva dell'ovatta imbevuta di spirito, ma tutto ciò o non giovava, o gli provocava la nausea. Alla proposta di estirpare il dente malato il generale aveva risposto con un rifiuto. Tutti i familiari - la moglie, i bambini, la servitù, perfino lo sguattero Pet'ka - proponevano ciascuno un suo rimedio. Tra l'altro, anche l'intendente di Buldeiev, Ivan Jevseic', venne da lui e gli consigliò di curarsi con gli scongiuri. «Qui, nel nostro distretto, eccellenza» disse, «un dieci anni fa era in servizio l'impiegato del dazio Jakov Vassilic'. Nello scongiurare il mal di denti era di prima qualità. Soleva voltarsi verso la finestra, mormorare qualcosa, sputare, ed era fatto! Una tal forza gli era stata data... ». «E dov'è adesso?». «Dopo che l'hanno licenziato dal dazio, abita a Saratov dalla suocera. Ora non vive che sui denti. Se a qualcuno un dente si mette a far male, si va da lui, e giova... Quelli del posto, di Saratov, li cura a casa propria, e quelli che sono di altre città, per telegrafo. Mandategli, eccellenza, un telegramma, dicendo ch'è così e così... al servo di Dio Aleksèi dolgono i denti, prego guarire. E il denaro per la cura lo manderete per posta». «Insulsaggini! Ciarlataneria!».

Checov, Racconti umoristici

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raccolta di racconti umosistici di Anton Checov

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il Narratore audiolibri Anton P. Čechov – Racconti umoristici

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IL NARRATORE AUDIOLIBRI PRESENTA

Racconti umoristici di

Anton P. Čechov

01 - Un cognome cavallino

Al maggior generale a riposo Buldeiev avevan preso a dolere i denti. Egli

sciacquava la bocca con acquavite, con cognac, applicava al dente malato della

gruma di tabacco, dell'oppio, della canfora, del petrolio, spalmava la guancia con

iodio, negli orecchi aveva dell'ovatta imbevuta di spirito, ma tutto ciò o non giovava, o

gli provocava la nausea. Alla proposta di estirpare il dente malato il generale aveva

risposto con un rifiuto. Tutti i familiari - la moglie, i bambini, la servitù, perfino lo

sguattero Pet'ka - proponevano ciascuno un suo rimedio. Tra l'altro, anche

l'intendente di Buldeiev, Ivan Jevseic', venne da lui e gli consigliò di curarsi con gli

scongiuri.

«Qui, nel nostro distretto, eccellenza» disse, «un dieci anni fa era in servizio

l'impiegato del dazio Jakov Vassilic'. Nello scongiurare il mal di denti era di prima

qualità. Soleva voltarsi verso la finestra, mormorare qualcosa, sputare, ed era fatto!

Una tal forza gli era stata data... ».

«E dov'è adesso?».

«Dopo che l'hanno licenziato dal dazio, abita a Saratov dalla suocera. Ora non vive

che sui denti. Se a qualcuno un dente si mette a far male, si va da lui, e giova...

Quelli del posto, di Saratov, li cura a casa propria, e quelli che sono di altre città, per

telegrafo. Mandategli, eccellenza, un telegramma, dicendo ch'è così e così... al servo

di Dio Aleksèi dolgono i denti, prego guarire. E il denaro per la cura lo manderete per

posta».

«Insulsaggini! Ciarlataneria!».

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«Ma voi provate, eccellenza. È molto amante della vodka, non vive con la moglie,

ma con una tedesca, bestemmia, ma, si può dire, è un signore miracoloso! ».

«Mandalo, Alioscia» supplicò la generalessa. «Tu, ecco, non credi negli scongiuri,

ma io ho provato su me stessa. Anche se non credi, perché non mandare? Non ti

seccheranno mica le braccia per questo».

«Be', d'accordo» acconsentì Buldeiev. «Qui non solo all'impiegato del dazio, ma

anche al diavolo manderesti un telegramma... Oh! Non ne posso più! Be', dove abita

il tuo impiegato del dazio? Come scrivergli? ».

Il generale sedette davanti alla tavola e prese in mano la penna.

«A Saratov ogni cane lo conosce» disse l'intendente. «Vogliate scrivere,

eccellenza: città di Saratov, dunque... A sua nobiltà il signor Jakov Vassilic'...

Vassilic'...».

«Be'?».

«Vassilic'... Jakov Vassilic'... e di cognome... Ecco che il cognome l'ho

dimenticato!... Vassilic'... Diavolo... Com'è dunque il suo cognome? Poc'anzi, quando

venivo in qua, me ne ricordavo... Permettete... ».

Ivàn Jevseic' levò gli occhi al soffitto e mosse le labbra. Buldeiev e la generalessa

aspettavano impazienti.

«Ebbene? Pensa più svelto!».

«Subito... Vassilic'... A Jakov Vassilic'... Ho dimenticato! È anche un cognome così

semplice... cavallino; si direbbe... Giumentin1? No, non Giumentin. Un momento...

Stallonov forse? No, nemmeno Stallonov. Ricordo ch'è un cognome cavallino; ma

quale, m'è uscito di capo...».

« Puledrov? » .

«Proprio no. Un momento... Giumèntizin... Giumèntikov... Kobeliòv...».

«Questo è già canino2, e non cavallino. Stallòncikov? ».

«No, nemmeno Stallòncikov... Cavallinin... Cavalkòv... Puledrin... È sempre un'altra

cosa!».

«Be', allora come potrò scrivergli? Pensaci!».

«Subito. Cavalkin... Giumentkin...Timonièr3...»

1Questo nome, e a tutti i successivi, per mantenere il sapore della novella, viene data la corrispondente forma italiana, salvo le terminazioni russe, che si conservano. 2 Viene infatti da kobèl, cane (maschio). 3 Timoniere, o cavallo delle stanghe.

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«Timonierkov?» domandò la generalessa.

«Proprio no. Bilancinkin4... No, non è questo! Ho dimenticato! ».

«Allora perché mai, che il diavolo ti porti, ti fai avanti coi tuoi consigli, se hai

dimenticato? andò in collera il generale. «Vattene fuori di qui!».

Ivàn Jevseic' uscì lentamente, e il generale si afferrò la guancia e prese a girare per

le stanze.

«Oh, padri miei!» si lamentava. «Oh, mamma mia! Oh, vedo le stelle!».

L'intendente uscì in giardino e, levati gli occhi al cielo, cercò di rammentare il

cognome dell'impiegato daziario: «Stallòncikov... Stallonkovski... Stallònenko...

No, non è questo! Cavallinski... Cavallevic'... Stallònovic... Giumentianski...».

Dopo un po' di attesa lo chiamarono dai signori. «Te ne sei ricordato?» domandò il

generale.

«Proprio no, eccellenza».

«Forse Corsierski? Cavalnikov? No?».

E nella casa si misero tutti a gara a inventar dei cognomi. Passarono in rassegna

tutte le età, i sessi e le razze dei cavalli, ricordarono la criniera, gli zoccoli, i

finimenti... In casa, in giardino, nella stanza dei servi e in cucina le persone

andavano da un angolo all'altro e, grattandosi la fronte, cercavano il cognome...

L'intendente veniva di continuo chiamato in casa.

« Mandriòv?» gli domandavano. «Zoccolìn? Staillonovski?».

«Proprio no» rispondeva Ivàn Jevseic' e, levati in alto gli occhi, continuava a

pensare ad alta voce: «Destrièrenko... Destrièrcenko... Stallonieiev...

Giumentieiev...».

«Babbo!» si gridava dalla stanza dei bambini. «Troikin! Briglietkin!».

Tutta la casa di campagna fu sottosopra. Il generale impaziente, sfinito, promise di

dare cinque rubli a chi avesse ricordato il vero cognome, e a cercare Ivàn Jevseic'

cominciarono a venire a intere frotte...

«Baiov!» gli dicevano. «Trottatorski! Cavallitski! ».

Ma giunse la sera e il cognome non era ancora stato trovato. E così andarono a

dormire, senza aver mandato il telegramma.

Il generale non dormì tutta notte e andò sempre da un angolo all'altro, gemendo...

Dopo le due del mattino usci di casa e bussò alla finestra dell'intendente. 4 Da bilancino o trapelo (il cavallo di rinforzo).

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«Non è Castronov?» domandò con voce di pianto.

«No, non è Castronov, eccellenza» rispose Ivàn Jevseic' e sospirò come un

colpevole.

«Ma forse non è un cognome cavallino, ma qualche altro!».

«Parola d'onore, eccellenza, è cavallino... Questo anzi lo ricordo benissimo».

«Come sei smemorato, mio caro... Per me adesso quel cognome è più caro, mi

sembra, d'ogni cosa al mondo. Sono sfinito!».

Al mattino il generale mandò nuovamente per il dottore.

«Lo estragga!» si risolse. «Non ho più la forza di sopportare... ».

Arriva il dottore ed estrasse il dente malato. Il dolore si calmò immediatamente, e il

generale tornò tranquillo. Fatta l'opera sua e ricevuto quel che spettava per il lavoro,

il dottore salì sul suo calesse e andò a casa. Fuor del portone in un campo incontra

Ivàn Jevseic'... L'intendente stava sul ciglio della strada e, guardandosi riconcentrato

sotto i piedi, pensava a qualcosa. A giudicar dalle rughe che gli solcavano la fronte e

dall'espressione degli occhi, i suoi pensieri eran tesi, tormentosi.

«Isabellov... Correggionov...» mormorava. «Soggolin... Cavalski...».

«Ivàn Jevseic! » gli si rivolse il dottore. «Non potrei, colombello, comprar da voi un

cinque stai d'avena? I nostri contadini mi vendono l'avena, ma è cattiva assai...».

Ivàn Jevseic' guardò ottusamente il dottore, fece un certo qual bizzarro sorriso e,

senza dir nemmeno una parola in risposta, battendo le mani, corse verso la casa

padronale con tanta rapidità come se lo avesse inseguito un cane arrabbiato.

«Ho trovato, eccellenza! si mise a gridare gioiosamente, con voce alterata,

piombando nello studio del generale. «Ho trovato, che Dio conservi in salute il

dottore! Avenov! Avenov è il cognome dell'impiegato daziario! Avenov, eccellenza!

Mandate un telegramma ad Avenov! ».

«To'! » disse il generale con disprezzo e gli fece le corna sotto il viso. «Non ho più

bisogno del tuo cognome cavallino! To'!».

02 - Il Leone e il Sole

In una delle città situate da questa parte della catena degli Urali si diffuse la voce

che giorni prima era giunto in città e si era fermato all'albergo Giappone il dignitario

persiano Rachat-Chelam. Questa voce non produsse sugli abitanti alcuna

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impressione: era arrivato un persiano, e fosse pure. Il solo sindaco della città, Stepàn

Ivànovic' Kutsin, appreso dal segretario della Giunta l'arrivo dell'orientale, si fece

pensoso e domandò:

«Dove si reca?».

«A Parigi, sembra, o a Londra».

«Uhm!... Dunque un pezzo grosso?».

«Ma il diavolo lo conosce».

Venuto dalla Giunta a casa sua, e pranzato, il sindaco tornò a farsi pensoso, e

questa volta ormai meditò fin proprio a sera. L'arrivo dell'illustre persiano lo aveva

fortemente incuriosito. Gli pareva che il destino stesso gli avesse inviato quel

Rachat-Chelam e che, finalmente, fosse venuto il momento propizio per fare del suo

appassionato, intimo sogno una realtà. Il fatto è che Kutsin aveva due medaglie, la

Stanislao di terza classe, l'insegna della Croce Rossa e l'insegna della «Società di

Salvataggio sulle Acque», e inoltre si era fatto ancora un ciondolo (fucile e chitarra

d'oro, che si incrociavano), e questo ciondolo, infilato all'occhiello della divisa,

somigliava da lontano a qualcosa di speciale e passava benissimo per un segno di

onorificenza. È poi risaputo che, più si han decorazioni e medaglie, più se n'ha

voglia; e il sindaco della città da un pezzo già desiderava ricevere l'ordine del «Leone

e Sole», lo desiderava appassionatamente, pazzamente. Egli sapeva a meraviglia

che per ricevere quest'ordine non necessitava né battersi, né fare un'elargizione a un

asilo, ma ci voleva solo un'occasione propizia. E ora gli pareva che quest'occasione

fosse venuta.

Il giorno dopo, a mezzodì, egli mise tutti i suoi distintivi, la catenella, e si recò al

Giappone. La sorte lo favorì. Quand'egli entrò nella camera dell'illustre persiano,

quest'ultimo era solo e non faceva nulla. Rachat-Chelam, un asiatico colossale dal

lungo naso di beccaccia, gli occhi a fior di testa, e in fez, era seduto sul pavimento e

rovistava nella valigia.

«Prego scusare il disturbo» cominciò Kutsin, sorridendo. «Ho l'onore di

presentarmi: cittadino emerito ereditario e cavalier Stepàn Ivànovic' Kutsin; sindaco

del luogo. Stimo dover mio onorare sotto l'aspetto della vostra persona, per così dire,

il rappresentante d'una potenza a noi amica e vicina.

Il persiano si volse e borbottò qualcosa in pessima lingua francese, che risonò

come il batter di una gamba di legno contro un'asse.

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«I confini della Persia» continuò Kutsin il saluto anticipatamente mandato a

memoria, «si toccano strettamente con le frontiere della nostra vasta patria, e per ciò

le mutue simpatie mi spingono, per così dire, a esprimervi solidarietà».

L'illustre persiano si alzò e tornò a borbottare alcunché in una lingua legnosa.

Kutsin, che non conosceva le lingue, scosse la testa in segno che non capiva.

«Be', come farò a discorrer con lui?» pensò. «Sarebbe bene ora mandar per un

interprete, ma è una faccenda delicata, non si può parlare davanti a testimoni.

L'interprete lo strombazzerebbe poi per tutta la città».

E Kutsin prese a richiamarsi in mente delle parole straniere, quali le conosceva dai

giornali.

«lo sono il sindaco della città...» mormorò. «Cioè il lord-mer5... munizipale6... Vuì?

Comprené7?.

Egli voleva esprimere a parole o in mimica la sua posizione sociale e non sapeva

come farlo. Gli venne in aiuto un quadro con una grossa scritta «La città di Venezia»,

appeso al muro. Egli accennò col dito alla città, poi alla propria testa, e in tal modo, a

suo avviso, si ottenne la frase: «Io sono il sindaco della città». Il persiano non capì

nulla, ma sorrise e disse:

«Biene, musié... beene...».

Mezz'ora dopo il sindaco andava battendo al persiano ora un ginocchio, ora una

spalla, e diceva: «Comprené? Vuì? Come lord-mer e munizipale... vi propongo di

fare un piccolo promenàz8 Cornprené? Un promenàz...».

Kutsin puntò un dito su Venezia e con due dita raffigurò delle gambe in cammino.

Rachat-Chelam, senza levar gli occhi dalle sue medaglie e indovinando, a quanto

pareva, ch'era il personaggio più importante della città, capì la parola promenàz e

scoprì i denti cortesemente.

Quindi i due indossarono il cappotto e usciron dalla camera. Giù, accosto all'uscio

che metteva nel ristorante Giappone, Kutsin pensò che non sarebbe stato male fare

un trattamento al persiano. Si fermò e, indicandogli le tavole, disse:

5 Cioè lord-nzaire, nome dato al capo dell'amministrazione municipale di Londra. 6 Così nel testo. 7 Storpiatura di: Oui? Coniprenez? Sì? Capite? 8 Per prontenade, passeggiata.

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«Secondo l'uso russo, non guasterebbe... piurè, antrecot... sciarnpagn9, eccetera...

Comprené?». L'insigne ospite capì e, dopo breve attesa, i due sedevano nella miglior

saletta del ristorante, bevevano sciampagna e mangiavano.

«Beviamo alla prosperità della Persia!» diceva Kutsin. «Noi russi amiamo i persiani.

Saremo di fede differente, ma i comuni interessi, le reciproche, per così dir,

simpatie... il progresso... i mercati asiatici... le conquiste pacifiche, per così dire...».

L'illustre persiano mangiava e beveva con grande appetito. Egli piantò la forchetta in

un filetto di storione e, scotendo entusiasticamente la testa, disse: «Biene! Bien!».

«Vi piace?» si rallegrò il sindaco. «Bien? Ecco, benissimo». E, rivolto al cameriere,

disse: «Lukà, fa' mandare, caro, a Sua Eccellenza in camera due dorsi di storione,

che sian dei migliori!».

Poi il sindaco della città e il dignitario persiano andarono a visitare il giardino

zoologico. Gli abitanti videro come il loro Stepàn Ivànovic', rosso dallo sciampagna,

allegro, molto soddisfatto, guidava il persiano per le vie principali e per il bazar,

mostrandogli le cose singolari della città, e lo conduceva anche in torre di vedetta.

Fra l'altro, gli abitanti videro com'egli si fermò presso il cancello di pietra con leoni e

additò al persiano dapprima un leone, poi, in alto, il sole, accennò a sé in petto, poi di

nuovo il leone e il sole, e il persiano prese a scuotere il capo, come in segno di

assenso, e, sorridendo, mise in mostra i suoi denti bianchi. A sera i due sedevano

all'albergo Londra e ascoltavano le arpiste, e dove furon la notte, non si sa.

Il giorno dopo, di mattina, il sindaco era in Giunta; gl'impiegati, evidentemente,

qualcosa già sapevano e indovinavano, poiché il segretario gli si accostò e disse,

sorridendo beffardo:

«I persiani hanno tale uso: se da voi viene un ospite illustre, dovete di propria mano

sgozzar per lui un montone».

E dopo breve attesa, recapitarono un plico, ricevuto per posta. Il sindaco dissigillò e

vi scorse una caricatura. Vi era disegnato Rachat-Chelam, e davanti a lui stava

ginocchioni lo stesso sindaco della città che, tendendogli le braccia, diceva:

Tra due reami d'amistade in segno,

Di Russia, dico, e d'Iran la nazione,

E in vostr'onore, ambasciator preclaro, 9 Cioè purée, entrecôte... champagne, passata, costata... sciampagna.

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Me stesso scannerei come un montone.

Scusatemi però: sono un somaro.

Il sindaco provò un senso spiacevole, simile a risucchio alla bocca dello stomaco,

ma non per lungo tempo. A mezzogiorno era già di nuovo dall'illustre persiano, di

nuovo gli faceva gli onori e, mostrandogli le cose notevoli della città, di nuovo lo

conduceva al cancello di pietra e di nuovo accennava ora il leone, ora il sole, ora il

proprio petto. Pranzarono al Giappone; dopo pranzo, coi sigari tra i denti, tutt'e due

rossi, beati, risalirono in torre, e il sindaco, evidentemente desiderando offrire

all'ospite uno spettacolo raro, gridò dall'alto alla sentinella, che passeggiava di sotto:

«Suona l'allarme!».

Ma allarme non ne seguì, giacché i pompieri in quel momento erano al bagno.

Cenarono al Londra, e dopo cena il persiano partì... Accompagnandolo, Stepàn

Ivànovic' scambiò tre baci con lui, all'uso russo, e versò perfino qualche lacrima. E

quando il treno si mosse, gridò:

«Salutate per noi la Persia. Ditele che noi l'amiamo!».

Passarono un anno e quattro mesi. Vi era un forte gelo, un trentacinque gradi sotto

zero, e spirava un vento tagliente. Stepàn Ivànovic' camminava per la via, con la

pelliccia aperta sul petto, ed era stizzito che nessuno s'imbattesse in lui e vedesse

sul suo petto il «Leone e Sole». Camminò così fino a sera, con la pelliccia aperta,

intirizzì ben bene, e la notte si girò sempre da un fianco sull'altro, senza potere in

alcun modo prender sonno. Si sentiva l'anima oppressa, dentro un bruciore, e il

cuore gli batteva inquieto: aveva voglia ora di ricevere l'ordine serbo del «Takovo».

Ne aveva una voglia appassionata, tormentosa.

03 - Lieto fine

Dal capotreno Stic'kin, in uno dei suoi giorni di franchigia, sedeva Liubòv

Grigòrievna, posata, fine signora sulla quarantina, che si occupava di matrimoni, e di

molti altri affari dei quali è uso parlare solo a bassa voce. Stic'kin, un po' turbato, ma

serio, positivo e austero, camminava per la stanza, fumando un sigaro, e diceva:

«Lietissimo di far conoscenza. Semiòn Ivànovic' vi ha raccomandata sotto

quest'aspetto, che voi potete aiutarmi in una faccenda delicata, importantissima,

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riguardante la felicità della mia vita. Io, Liubòv Grigòrievna, ho ormai cinquantadue

anni, cioè un'età in cui moltissimi hanno già figli grandi. Ho un impiego solido.

Sebbene non abbia un gran patrimonio, posso mantenere presso di me la creatura

amata e i figli. Vi dirò, fra di noi, che, oltre lo stipendio, ho altresì denari in banca, che

ho risparmiato in conseguenza del mio tenor di vita. Sono un uomo, io, positivo e

sobrio, meno una vita giudiziosa e conforme, talché posso pormi d'esempio a molti.

Ma una sola cosa mi manca: un mio proprio focolare domestico, la compagna della

vita, e conduco la mia esistenza come un qualsiasi ungherese nomade, da luogo a

luogo, senza soddisfazione alcuna, e senza nessuno con cui consigliarmi, e,

ammalandomi, non ho chi mi dia nemmeno un po' d'acqua, eccetera. Inoltre, Liubòv

Grigòrievna, l'ammogliato ha sempre più peso nella società che uno scapolo. Io sono

un uomo della classe istruita, con denari, ma a guardarmi da un certo punto di vista,

chi sono io? Un senzafamiglia, tal quale come un qualsiasi prete cattolico. E perciò

desidererei moltissimo unirmi coi vincoli d'Igumenèo10, cioè contrarre legittimo

matrimonio con qualche degna persona».

«È una buona cosa!» sospirò la mediatrice.

«Sono un uomo solitario, io, e in questa città non conosco nessuno. Dove andrò e a

chi mi rivolgerò, se per me tutti sono sconosciuti? Ecco perché Semiòn Ivànovic' mi

consigliò di rivolgermi a una persona che è specialista in questo ramo, e nel trattare

della felicità della gente ci ha la sua professione. E perciò vivissimamente pregovi,

Liubòv Grigòrievna, di dare con la vostra assistenza assetto al mio destino. Voi in

città conoscete tutte le ragazze da marito e vi è facile sistemarmi».

«Questo si può...».

«Bevete, prego umilissimamente...».

Con gesto abituale la mediatrice portò il bicchierino alla bocca e lo vuotò, senza

fare una smorfia. «Questo si può» ripeté. «E quale ragazza, Nikòlài Nikolaic', vi

garberebbe?».

«A me? Quella che il destino manderà».

«È questa, certo, cosa del destino, ma ognuno ha pure i suoi gusti. Una ama le

brune, un altro le bionde».

«Vedete, Liubòv Grigòrievna...» disse Stic'kin, sospirando con gravità. «Io sono un

uomo positivo e di carattere. Per me la bellezza e, in generale, l'apparenza ha una 10 Invece d'Imeneo, facendo così derivare la parola da igumeno, il superiore del monastero ortodosso.

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parte secondaria, perché, lo sapete voi stessa, la bellezza non si beve, e da una

moglie bella si hanno moltissimi fastidi. Io suppongo che in una donna l'importante

non sia il di fuori, ma quel che si trova dentro; cioè che abbia un'anima e tutte le

qualità. Bevete, vi prego umilissimamente. È certo quanto mai piacevole se la moglie

sarà pienotta della persona, ma questo per la reciproca fortuna non è cosa

essenziale; l'importante è l'intelligenza. Propriamente parlando, nella donna non ci

vuol neppure l'intelligenza, poiché a causa dell'intelligenza ella avrà un gran concetto

di sé e vagheggerà svariati ideali. Senza istruzione oggidì non si può, questo è certo,

ma vi è istruzione e istruzione. Fa piacere se la moglie parla francese e tedesco, e

canta diverse arie, fa molto piacere; ma che costrutto se n'ha, se non sa attaccarti,

mettiamo, un bottone? Io sono della classe istruita; col principe Kanitelin, posso dire,

sono tal quale come ora con voi; ma ho un carattere semplice. A me occorre una

ragazza piuttosto semplice. Più importante di tutto poi è che lei mi rispetti e senta

ch'io l'ho resa felice».

«È cosa nota».

«Be', ora, circa il sostantivo11... Ricca non mi occorre. lo non mi permetterò la

bassezza di sposare il denaro. Desidero che non sia io a mangiare il pane della

moglie, ma lei il mio, e che lo senta. Ma non mi occorre nemmeno una povera.

Anche se sono un uomo agiato, anche se mi sposo non per interesse, ma per amore,

non posso però prendere una povera, perché, lo sapete voi stessa, ora tutto è

rincarato e ci saranno dei figli».

«La si può trovare anche con dote» disse la mediatrice.

«Bevete, prego umilissimamente...».

Tacquero per un cinque minuti. La mediatrice sospirò, guardò in tralice il capotreno

e domandò: «Be', e così, bàtiuska... come scapolo, non ti ci vuol nulla? C'è della

buona merce. Una francese, e ve ne sarà un'altra greca. Di molto valore».

Il capotreno pensò un poco e disse:

«No, vi ringrazio. Vedendo da parte vostra così buona disposizione, permettete ora

di domandare: quanto prenderete per le vostre premure circa la fidanzata?».

«Non mi occorre molto. Darete un biglietto da venticinque e la stoffa per un vestito,

come usa, e grazie... E per la dote separatamente, quest'è un altro conto».

11 Il capotreno vuol dire: il sostanziale.

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Stic'kin incrociò le braccia sul petto e si mise a pensare in silenzio. Dopo aver

pensato, sospirò e disse:

«È caro...».

«E non è punto caro, Nikolài Nikolaic'! Prima, quando nozze ce n'eran molte, si

soleva prendere anche meno; ma al tempo d'oggi, quali sono i nostri guadagni? Se in

un mese grasso buscherai due biglietti da venticinque, sia ringraziato Iddio. E allora,

bàtiuska, non è sulle nozze che ci arricchiamo».

Stic'kin guardò dubbioso la mediatrice e alzò le spalle.

«Uhm! Ma forse che due biglietti da venticinque son poca cosa?» domandò.

«Certo, son poca cosa! Nei tempi andati accadeva che più di cento ne

guadagnassimo».

«Uhm!... Io non mi aspettavo punto che con simili affari si potesse guadagnare una

tal somma. Cinquanta rubli! Non ogni uomo riceve tanto! Bevete, prego

umilissimamente...».

La mediatrice bevve e non fece una smorfia. Stic'kin la sbirciò da capo a piedi e

disse: «Cinquanta rubli. Sono dunque seicento rubli all'anno... Bevete, prego

umilissimamente... Con simili dividendi, sapete, Liubòv Grigòrievna, non vi sarà

difficile trovare a voi stessa un buon partito».

«A me?» rise la mediatrice. «Io son vecchia».

«Nient'affatto... E ci avete anche una tal complessione, e un viso pienotto, bianco, e

tutto il resto». La mediatrice restò confusa. Stic'kin pure si confuse e sedette accanto

a lei.

«Voi potete ancora piacere moltissimo» disse. «Se vi capiterà un marito positivo,

serio, economo, col suo stipendio e col vostro guadagno potrete perfino piacergli

assai e vivrete a cuore a cuore...».

«Dio sa ciò che andate dicendo, Nikolài Nikolaic'...».

«Che cosa? Io nulla».

Seguì un silenzio. Stic'kin cominciò a soffiarsi il naso rumorosamente, e la

mediatrice si fece tutta rossa e, guardandolo vergognosa, domandò:

«E voi quanto ricevete, Nikolài Nikolaic'?».

«Io? Settantacinque rubli, gratificazioni a parte. Inoltre, abbiamo il reddito delle

steariche e delle lepri».

«Vi occupate di caccia?».

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«No, lepri da noi vengono chiamati i viaggiatori senza biglietto».

Trascorse ancora un minuto in silenzio. Stic'kin si alzò e in agitazione prese a

camminare per la stanza.

«A me non occorre una consorte giovane» disse. «Io sono un uomo maturo e mi ci

vuole una che sia... d'un genere come sarebbe il vostro... seria e posata... e d'una

complessione del vostro genere».

«Ih, Dio sa ciò che state dicendo...» ridacchiò la mediatrice, coprendosi col

fazzoletto il viso porporino.

«Che c'è qui da pensare a lungo? Voi mi andate a genio e mi convenite con le

vostre qualità. Io sono un uomo positivo, sobrio, e, se vi piaccio, allora... che c'è di

meglio? Permettete di farvi la proposta!». La mediatrice versò qualche lacrima, rise

e, in segno di consenso, toccò il bicchiere con Stic'kin. «Be'» disse il felice capotreno,

«ora permettete di spiegarvi quale condotta e modo di vivere io desidero da voi... Io

sono un uomo austero, posato, positivo, intendo tutto nobilmente, e desidero che mia

moglie sia del pari austera e capisca che per lei io sono un benefattore e il primo

degli uomini.

Egli sedette e, dato un profondo sospiro, prese ad esporre alla promessa sposa le

sue vedute sulla vita di famiglia e sui doveri della moglie.

04 - La lota

Mattino estivo. Nell'aria c'è silenzio; solo una cavalletta stride ogni tanto sulla riva e

in qualche posto timidamente brontola un aquilotto. Nel cielo stanno immobili delle

nubi piumose, simili a neve sparpagliata... Vicino al bagno in costruzione, sotto le

verdi fronde di un salcio, si dibatte nell'acqua il carpentiere Gherassim, un contadino

alto, scarno, dalla testa rossa ricciuta e il viso irto di peli. Egli sbuffa, riprende fiato e,

strizzando fortemente gli occhi, si sforza di tirar fuori qualcosa di sotto le radici del

salcio. La sua faccia è coperta di sudore. A una tesa da Gherassim, nell'acqua fino

alla gola, sta il carpentiere Liubìm, un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e

gli occhietti stretti, da cinese. Entrambi, Gherassim come Liubìm, sono in camicia e

mutande. Sono illividiti dal freddo, perché ormai da più d'un'ora stanno nell'acqua...

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«Ma tu perché tasti sempre con la mano?» grida il gobbo Liubìm, tremando come

nella febbre. «Testa di cavolo che sei! Tu tienla, tienla, se no scapperà, la maledetta!

Tienla, dico!».

«Non scapperà... Dove dovrebbe scappare? S'è cacciata sotto le radici...» dice

Gherassim con voce arrochita, sorda di basso, che viene non dalla laringe, ma dal

profondo del ventre. «È viscida, questa diavola, e non si sa per che cosa

acchiapparla».

«Tu chiappala per le branchie, per le branchie!».

«Non si vedon le branchie... Aspetta, l'ho acchiappata per qualche cosa... Per il

labbro l'ho acchiappata. Morde, questa diavola!».

«Non tirarla per il labbro, non tirarla: la lascerai andare! Per le branchie

acchiappala, per le branchie acchiappala! Di nuovo s'è messo a tastar con la mano!

Ma che contadino senza cervello, perdonami, Regina dei Cieli! Chiappala!».

«Chiappala» lo contraffà Gherassim. «Che comandante s'è trovato!... Dovresti

venire e acchiapparla tu stesso, diavolo gobbo... Perché stai lì?».

«Io l'avrei acchiappata, se fosse stato possibile... O che, con la mia bassa

corporatura, si può stare in piedi sotto la riva? Lì è profondo!».

«Non fa nulla che sia profondo... Tu a nuoto...». Il gobbo agita le braccia, nuota

verso Gherassim e si aggrappa ai rami. Ma al primo tentativo di mettersi in piedi, va

con la testa sott'acqua e manda fuori delle bolle d'aria.

«Lo dicevo ch'è profondo!» egli dice, rotando con ira il bianco degli occhi. «Monto

sul collo a te, eh?».

«E tu sali sopra una radice... Di radici ce n'è molte, come una scala...».

Il gobbo tasta col tallone una radice e, aggrappatosi saldamente ad alcuni rami ad

un tempo, ci sale sopra... Equilibratosi bene e consolidatosi nella nuova posizione, si

curva e, cercando di non ingerire acqua, comincia con la mano destra a frugare tra le

radici. Imbrogliandosi nelle erbe acquatiche, scivolando sul musco che riveste le

radici, la sua mano incontra le chele pungenti d'un gambero.

«Ci mancavi ancora tu qui, diavolo!» dice Liubìm e con rabbia scaglia il gambero

sulla riva.

Infine la sua mano trova a tastoni il braccio di Gherassim e, calando giù lungo

quello, arriva a qualcosa di lubrico, di freddo.

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«E-eccola...» sorride Liubìm. «È gro-ossa, la diavola... Allarga un po' le dita, io

subito... per le branchie... Aspetta, non urtarmi col gomito... io subito la... subito...

lascia solo che l'afferri... S'è cacciata lontano sotto la radice, questa diavola, non c'è

nemmeno dove aggrapparsi... Non si può arrivare alla testa... Si tocca soltanto la

pancia... Ammazzami sul collo una zanzara: mi punge! Io subito la... subito... lascia

solo che l'afferri... S'è cacciata di fianco, spingila, spingila! punzecchiala col dito!».

Il gobbo, gonfiate le guance, trattenuto il respiro, sgrana gli occhi e, a quanto pare,

già insinua le dita «sotto le branchie», ma a questo punto i rami a cui si abbranca la

sua mano sinistra si spezzano, ed egli, perduto l'equilibrio, capitombola nell'acqua!

Come spaventati, corron via dalla riva dei cerchi ondeggianti e nel punto della caduta

vengon su delle bolle. Il gobbo viene a galla a nuoto e, sbuffando, si afferra al rami.

«Affogherai ancora, diavolo, toccherà rispondere per te! ...» dice rauco Gherassim.

«Esci fuori, su, e vattene alla malora! Io stesso la tirerò via!».

Cominciano gl'improperi... E il sole brucia, brucia. Le ombre si fanno più brevi e

rientrano in se stesse, come le corna della lumaca... L'erba alta, scaldata dal sole,

comincia a emanare un odore denso, stucchevolmente dolciastro. Ben presto è

mezzogiorno, ma Gherassim e Liubìm tuttora si dibattono sotto il salcio. La voce

rauca di basso e quella tenorile infreddolita, stridula, rompono senza posa il silenzio

della giornata estiva.

«Tirala per le branchie, tirala! Aspetta, io la spingerò fuori! Ma dove ficchi il tuo

pugnaccio? Tu fa' col dito e non col pugno, grinta! Vieni di fianco! Da sinistra vieni,

da sinistra, ché a destra c'è una buca'! Servirai di cena al lupo mannaro! Tira per il

labbro! ».

Si sente lo schioccar d'una frusta... Per la riva in pendio si trascina pigramente

all'abbeveratoio un armento, cacciato avanti dal pastore Jefìm. Il pastore, un vecchio

decrepito con un occhio solo e la bocca storta, cammina a capo chino e si guarda

sotto i piedi. Per prime s'avvicinano all'acqua le pecore, dopo di esse i cavalli, dopo i

cavalli le vacche.

«Spingila un poco dal basso!» egli ode la voce di Liubìm. «Ficcaci un dito! Ma, sei

sordo, dia-vo-lo, o che? Poh! » .

«Ma chi è, fratelli?» grida Jefìm.

«Una lota! Non c'è verso di, tirarla fuori! Sotto una radice s'è cacciata! Vieni di

fianco! Vieni, vieni! ». Jefìm per un minuto strizza il suo occhio sui pescatori, poi si

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toglie i lapti12, getta giù dalle spalle un sacchetto e si leva la camicia. Di togliersi le

mutande non ha pazienza, segnatosi, bilanciando le braccia magre, scure, entra in

mutande nell'acqua... Per una cinquantina di passi procede sul fondo melmoso, ma

poi si butta a nuoto.

«Aspettate, ragazzi! » grida. «Aspettate! Non tiratela fuori a casaccio, la lascerete

scappare. Bisogna saper fare! ... ».

Jefìm si unisce ai carpentieri, e tutt'e tre, urtandosi l'un l'altro coi gomiti e coi

ginocchi, sbuffando e imprecando, si pigiano nello stesso punto...

Il gobbo Liubìm inghiotte acqua e l'aria echeggia di una tosse aspra, convulsa.

«Dov'è il pastore?» si sente un grido dalla riva. «Jefi-ìm! Pastore! Dove sei?

L'armento è entrato in giardino! Caccialo, caccialo dal giardino! Caccialo! Ma dov'è

dunque, il vecchio brigante?

Si odono voci maschili, poi una femminile... Di dietro il cancello del giardino

padronale si mostra il padrone Andréi Andreic' in veste da casa di seta persiana e

con un giornale in mano... Egli guarda interrogativamente dalla parte delle grida che

giungono dal fiume, e poi trotterella rapido verso il bagno...

«Che c'è qui? Chi bercia?» domanda severamente, avendo scorto attraverso i rami

del salcio le tre teste bagnate dei pescatori. «Perché vi affannate qui?».

«Un pe... un pesce acchiappiamo...» balbetta Jefìm, senz'alzare il capo.

«Te lo darò io il pesce! L'armento è entrato in giardino, e lui: un pesce!... Ma

quando sarà finito il bagno, diavoli? Son due giorni che lavorate, e dov'è il vostro

lavoro?».

«Sa... sarà finito...» gracchia Gherassim. «L'estate è lunga, farai ancora in tempo,

signoria, a lavarti... Brrr... In nessun modo qui possiamo venir a capo d'una lota... S'è

cacciata sotto una radice ed è come in una tana: non va né su né giù...».

«Una lota?» domanda il padrone e i suoi occhi si fanno lustri. «Allora tiratela fuori

alla svelta!».

«Poi ci darai un mezzo rubletto... Ti serviremo da amici se... Una lota enorme, che

la tua mercantessa... Vale, signoria, un mezzo rublo... per le fatiche... Non

brancicarla, Liubìm, non brancicarla, se no la farai morire! Spingi dal basso! Tira un

po' la radice all'insù, brav'uomo... come ti chiami? All'insù, e non all'ingiù, diavolo!

Non agitate le gambe!». 12 Calzature fatte con corteccia di betulla.

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Passano cinque minuti, dieci... Il padrone non ne può più dall'impazienza.

«Vassili» grida, voltandosi verso la casa padronale. «Vaska! Chiamatemi Vassili!».

Accorre il cocchiere Vassili. Sta masticando qualcosa e respira pesantemente.

«Scendi in acqua» gli ordina il padrone, «aiutali a tirar fuori la lota... Non posson

tirar fuori una lota!».

Vassili si spoglia rapidamente e scende in acqua. «Io subito...» borbotta. «Dov'è la

lota? Io subito... Faremo questo in un batter d'occhio! E tu dovresti andartene, Jefìm!

Qui vecchio, non hai da mischiarti negli affari altrui! Che lota c'è qui? Io subito...

Eccola! Lasciate andar le mani!».

«E perché: lasciate andare le mani? Lo sappiamo anche noi: lasciate andar le mani!

E tu tirala fuori! ».

«Ma è forse così che la tirerai fuori? Bisogna prenderla per la testa!».

«E la testa è sotto la radice! È cosa nota, stupido!».

«Be', non ingiuriare, se no ne vola una! Marmaglia!».

«In presenza del signor padrone e simili parole...» balbetta Jefim. «Non la tirerete

fuori, fratelli! Troppo destramente s'è ficcata lì!».

«Aspettate un momento, io subito... » dice il padrone e comincia frettoloso a

svestirsi. «Siete in quattro imbecilli; e non potete tirar fuori la lota! ».

Svestitosi, Andréi Andreic' si lascia freddare un poco ed entra in acqua. Ma anche il

suo intervento non approda a nulla.

«Bisogna tagliar la radice!» conclude infine Liubìm. «Gherassim, va' a prender la

scure! Date qui una scure!».

«Non tagliatevi le dita!» dice il padrone, quando si odono i colpi sott'acqua della

scure contro la radice. «Jefim, vattene di qua! Aspettate, io tirerò fuori la lota... Voi

non...».

La radice è stata tagliata dal disotto. La sforzano un poco, e Andréi Andreic', con

gran piacere sente che le sue dita penetrano sotto le branchie della lota.

«La sto tirando, fratelli! Non affollatevi... state fermi... la sto tirando!».

Alla superficie compare la grossa testa della lota e, dopo di essa, il corpo nero;

lungo un arscìn.

La lota rigira pesantemente la coda e cerca di sfuggire.

«Tu scherzi... Non ce la fai, cara. Ci sei cascata. Ah-ah!».

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Su tutte le facce si effonde un sorriso di miele. Un minuto trascorre in silenziosa

contemplazione. «Una lota coi fiocchi!» balbetta Jefim, grattandosi sotto le clavicole.

«Sarà, penso, una decina di libbre...».

«E già...» consente il padrone. «Il fegato le palpita addirittura. Come spinto dal

didentro. A... ah!». La lota a un tratto inaspettatamente fa con la coda un brusco

movimento all'insù e i pescatori sentono un forte tonfo... Tutti allargano le mani, ma è

troppo tardi: la lota, chi l'ha vista l'ha vista.

05 - Lo specchio curvo (Racconto di Natale)

Io e mia moglie entrammo in salotto. Vi odorava muffa e d'umidità. Milioni di ratti e

di sorci si precipitarono da tutte le parti, quando noi rischiarammo i muri che non

avevan visto la luce durante tutt'un secolo. Quando chiudemmo l'uscio dietro di noi,

soffiò una folata e smosse la carta giacente a mucchi negli angoli. La luce cadde su

questa carta e noi scorgemmo caratteri antichi e figurazioni medioevali. Alle pareti

inverdite dal tempo pendevano ritratti di antenati. Gli antenati guardavano altezzosi,

arcigni, come se volessero dire:

«Frustarti si dovrebbe, fratellino!».

I nostri passi risonavano per tutta la casa. Alla mia tosse rispondeva un'eco, la

stessa eco che un tempo aveva risposto ai miei antenati...

E il vento urlava e gemeva. Nella canna del camino qualcuno piangeva, e in questo

pianto si sentiva la disperazione. Grosse gocce di pioggia picchiavano sulle scure

finestre opache, e il loro picchiare dava angoscia.

«Oh, antenati, antenati!» diss'io, sospirando significativamente. «Se fossi scrittore,

mirando i loro ritratti scriverei un lungo romanzo. Ché ciascuno di questi vegliardi fu

giovane un dì, e ciascuno, o ciascuna, ebbe un romanzo... e che romanzo! Guarda,

per esempio, questa vecchina, mia bisavola. Vedi» domandai a mia moglie, «vedi tu

lo specchio che pende là nell'angolo?».

E additai a mia moglie un grande specchio in bronzea guarnitura nera, appeso in un

angolo accanto al ritratto della mia bisavola.

«Questo specchio possiede proprietà magiche: esso causò la rovina della mia

bisavola. Lo aveva pagato una somma enorme e non se ne separò fin proprio alla

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morte. Vi si guardava i giorni e le notti, senza posa, vi si guardava perfin quando

beveva e mangiava. Nel coricarsi, ogni volta lo metteva con sé in letto e, morendo,

pregò di deporlo con lei nella bara. Non soddisfecero il suo desiderio solo perché lo

specchio non capiva nel feretro».

«Era civetta?» domandò mia moglie. «Supponiamo. Ma non aveva forse altri

specchi? Perché amò talmente proprio questo specchio, e non un altro qualsiasi? E

forse non aveva specchi migliori? No, lì, cara mia, si cela un qualche tremendo

mistero. Non può essere altrimenti. La tradizione dice che nello specchio risiede il

diavolo e che la bisavola aveva un debole per i diavoli. Certo, è un'assurdità, ma è

indubbio che lo specchio in guarnitura di bronzo possiede una forza misteriosa».

Io scossi dallo specchio la polvere, vi guardai e diedi in una risata. Al mio riso

rispose sordamente l'eco. Lo specchio era curvo e contorceva la mia fisionomia da

tutte le parti: il naso venne a trovarsi sulla guancia sinistra, e il mento si sdoppiò e si

cacciò da un lato.

«Strano gusto quello della mia bisavola!» dissi. La moglie si accostò irresoluta allo

specchio, vi guardò dentro ella pure, e subito accadde qualcosa di terribile. Ella

impallidì, tremò in tutte le membra è mandò un grido. Il candeliere le cadde di mano,

rotolò sul pavimento e la candela si spense. Ci avvolsero le tenebre. Subito dopo

intesi la caduta sull'impiantito d'alcunché di pesante: mia moglie si era abbattuta

priva di sensi.

Il vento prese a gemere ancor più lamentosamente, presero a correre i ratti, nelle

carte frusciarono i sorci. I miei capelli si rizzarono e si mossero, quando da una

finestra si staccò l'imposta e volò da basso. Nel vano della finestra si mostrò la luna...

Io afferrai mia moglie, la cinsi e la portai fuori dalla dimora degli avi. Ella rinvenne

solo la sera del giorno dopo.

«Lo specchio! Datemi lo specchio!» disse, riavendosi. «Dov'è lo specchio?».

Tutt'una settimana dipoi ella non bevve, non mangiò, non dormì, e pregava di

continuo che le portassero lo specchio. Singhiozzava, si strappava i capelli in capo,

si agitava, e infine, quando il dottore ebbe dichiarato ch'ella poteva morire di

esaurimento e che il suo stato era in sommo grado pericoloso, io, vincendo il mio

terrore, ridiscesi giù e recai di là lo specchio della bisavola. Vedendolo, ella rise forte

dalla felicità, poi lo afferrò, lo baciò e vi fissò gli occhi.

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Ed ecco, son trascorsi ormai più di dieci anni, e lei tuttora si guarda nello specchio e

non se ne stacca un solo istante.

«Possibile che questa sia io?» bisbiglia, e sul suo viso, insieme col rossore, si

accende un'espressione di beatitudine e d'estasi. «Sì, son io! Tutto mentisce, fuorché

questo specchio! Mentiscono gli uomini, mentisce il marito! Oh, se mi fossi vista

prima, se avessi saputo quale sono realmente, non avrei sposato quest'uomo! Egli

non è degno di me! Ai miei piedi devon giacere i cavalieri più belli, più nobili!...».

Un giorno, stando dietro a mia moglie, guardai inavvertitamente nello specchio, e

scoprii il terribile segreto. Nello specchio scorsi una donna di accecante bellezza,

quale mai ho incontrato nella vita. Era un prodigio della natura, un'armonia di beltà, di

eleganza e d'amore. Ma di che si trattava? Che cos'era accaduto? Perché mia

moglie, brutta, sgraziata, nello specchio pareva così bella? Perché?

Ma perché lo specchio curvo aveva storto il brutto viso di mia moglie in tutti i sensi,

e per tale spostamento dei suoi tratti esso era diventato casualmente bellissimo.

Meno per meno dava più.

E ora noi due, io e mia moglie, stiamo davanti allo specchio e, senza staccarcene

un sol minuto, vi guardiamo dentro: il mio naso monta sulla guancia sinistra, il mento

s'è sdoppiato e spostato da una parte, ma il volto di mia moglie è incantevole, e una

passione furiosa, insensata s'impadronisce di me. «Ah-ah-ah!» sghignazzo io

selvaggiamente.

E mia moglie bisbiglia, in modo appena percettibile: «Come son bella!».

06 - Gli stivali

L'accordatore di pianoforti Murkin, un uomo dal viso giallo, il naso tabaccoso e

l'ovatta negli orecchi, uscì dalla sua stanza nel corridoio e con voce tintinnante gridò:

«Semiòn! Cameriere!».

E guardando la sua faccia spaventata, si poteva pensare che gli fosse cascato

addosso l'intonaco, o che in camera sua avesse visto allora allora uno spettro.

«Di grazia, Semiòn!» prese a gridare, scorgendo il cameriere che accorreva da lui.

«Che è ciò? Io sono un uomo reumatico, infermiccio, e tu mi costringi a uscire

scalzo! Perché non mi dai ancora gli stivali? Dove sono?».

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Semiòn entrò nella camera di Murkin, guardò nel posto dov'egli aveva l'abitudine di

porre gli stivali ripuliti, e si grattò la nuca: gli stivali non c'erano.

«Dove potrebbero essere, i maledetti?» disse Semiòn. «In serata, mi sembra, li pulii

e li misi qui... Uhm!... Ieri, confesso, avevo bevuto un po'... È da supporre che li abbia

messi in un'altra camera. È proprio così, Afanassi Jegoric', in un'altra camera! Stivali

ce n'è molti, e, in cimberli, li distinguerà il diavolo, se tu non hai la testa a segno.

Devo averli messi dalla signora che alloggia qui accanto... dall'attrice...».

«E ora per causa tua ho da andar dalla signora a disturbare! Eccomi per un'inezia a

dover svegliare una brava donna! ».

Sospirando e tossendo, Murkin si accostò all'uscio della camera attigua e bussò

cautamente.

«Chi è?» si sentì di lì a un minuto una voce femminile.

«Sono io!» cominciò con voce querula Murkin, mettendosi nella positura d'un

cavaliere che parla con una signora del gran mondo. «Scusate il disturbo, signora,

ma io sono un uomo malaticcio, reumatico... A me, signora, i dottori hanno ordinato

di tenere i piedi al caldo, tanto più che ora devo andar ad accordare un pianoforte

dalla generalessa Scevelitsin. Non posso mica andarci scalzo».

«Ma voi che volete? Che pianoforte?».

«Non un pianoforte, signora, ma riguardo agli stivali! Quell'ignorante di Semiòn ha

pulito i miei stivali e per sbaglio li ha messi nella vostra stanza. Siate così gentile,

signora, datemi i miei stivali!».

Si udì un fruscio, un salto dal letto e un ciabattare, dopo di che l'uscio si aprì un

poco, e una paffuta manina di donna gettò ai piedi di Murkin un paio di stivali.

L'accordatore ringraziò e si diresse in camera sua.

«È strano...» mormorò, calzando uno stivale. «Si direbbe che non è lo stivale

destro. Ma qui ci son due stivali di sinistra! Son tutt'e due sinistri! Ascolta, Semiòn,

ma questi non sono i miei stivali! I miei stivali sono con tiranti rossi e senza toppe, e

questi son certi cosi rotti, senza tiranti!».

Semiòn sollevò gli stivali, li rigirò più volte davanti ai propri occhi e corrugò la fronte.

«Questi son gli stivali di Pavel Aleksandric'...» borbottò, guardando di sbieco. Egli

era strabico dall'occhio sinistro.

«Che Pavel Aleksandric'?».

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«Un attore... viene qua ogni martedì... Dunque è lui che, invece dei suoi, ha calzato

i vostri... Vuol dire che in camera da lei ho messo le due paia: i suoi e i vostri. Un

bell'impiccio!».

«Allora va' e cambiali! ».

«Salute!» sorrise Semiòn. «Va' e cambiali... E dove ho da prenderlo adesso? È

ormai un'ora ch'è uscito... Va' a cercare il vento nei campi! ».

«Ma dove abita?».

«E chi lo sa? Viene qua ogni martedì, ma dove abiti, noi non si sa. Viene, pernotta,

e aspettalo fino a un altro martedì...».

«Ecco, vedi, porco, quel che hai combinato! Ebbene, che devo fare adesso? È ora

ch'io vada dalla generalessa Scevelitsin, maledetto che sei! I piedi mi si sono

intirizziti!».

«Cambiar di stivali non è cosa lunga. Calzate questi stivali, camminateci fino a sera,

e stasera a teatro... Là domandate dell'attore Blistanov... Se a teatro non volete

andare, toccherà aspettare quell'altro martedì. Solo i martedì viene qua...».

«Ma perché mai ci son qui due stivali sinistri?» domandò l'accordatore, prendendo

con schifiltà gli stivali.

«Come Dio li mandò, così li porta. Per povertà... Dove potrebbe prenderli,

l'attore?... "Ma gli stivali che avete" dico, "Pavel Aleksandric'! È pura vergogna!". E lui

dice: "Taci" dice, "e impallidisci! In questi stessi stivali" dice, "ho fatto le parti di conti

e principi!". Gente bizzarra! Artista, in una parola. S'io fossi governatore, o una

qualche autorità, prenderei tutti questi attori, e via in prigione!».

Gemendo e facendo smorfie senza fine, Murkin calzò a forza sulle proprie gambe i

due stivali sinistri e, zoppicando, si avviò dalla generalessa Scevelitsin. L'intera

giornata andò per la città, accordò pianoforti, e l'intera giornata gli parve che tutto il

mondo guardasse i suoi piedi e ci vedesse su degli stivali con le toppe e i tacchi

storti! Oltre alle torture morali, gli toccò sperimentare anche quelle fisiche: si buscò

un callo.

A sera era in teatro. Davano Barbablù13 Solo prima dell'ultimo atto, e anche ciò

grazie alla protezione d'un conoscente flautista, lo lasciarono passare dietro le

quinte. Entrato nel camerino degli uomini, vi trovò tutto il personale maschile. Gli uni

13 Opera buffa di Offenbach, rappresentata la prima volta in Francia nel 1866, su tema tratto dalla celebre fiaba di Perrault.

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si travestivano, altri si truccavano, i terzi fumavano. Barbablù stava con re Bobêche14

e gli mostrava una rivoltella.

«Comprala!» diceva Barbablù. «L'acquistai io stesso a Kursk d'occasione per otto,

ebbene te la lascerò per sei... Un tiro notevole!».

«Attenzione... È carica!».

«Potrei vedere il signor Blistanov?» domandò l'accordatore, ch'era entrato.

«Son proprio io!» si girò verso di lui Barbablù. «Che cosa desiderate?».

«Scusate, signore, il disturbo» cominciò l'accordatore con voce implorante, «ma,

credete... io sono un uomo malaticcio, reumatico... I dottori mi hanno ordinato di tenere i

piedi caldi...».

«Ma voi, propriamente parlando, che desiderate?».

«Vedete...» continuò l'accordatore, rivolgendosi a Barbablù.

«Già... questa notte voi siete stato nelle camere mobiliate del mercante Buchteiev...

al numero 64?...».

«Via, che ciance sono?» sogghignò re Bobêche. «Al numero 64 ci abita mia

moglie».

«Moglie? Molto piacere...» Murkin sorrise. «Lei proprio, la vostra consorte, mi ha

consegnato personalmente gli stivali del signore... Quando lui» l'accordatore indicò

Blistanov, «fu uscito dalla stanza di lei, io mi accorsi dei miei stivali... dò una voce,

sapete, al cameriere, e il cameriere dice: "Ma io, signore, i vostri stivali li ho messi al

numero attiguo!". Per sbaglio, essendo in stato di ubriachezza, aveva messo al

numero 64 i miei stivali e i vostri» si girò Murkin verso Blistanov, «e voi, lasciando,

ecco, la consorte del signore, avete calzato i miei...».

«Ma voi che cosa andate dicendo?» proferì Blistanov, e si accigliò. «O che siete

venuto qui a far pettegolezzi?».

«Nient'affatto! Dio mi guardi! Non mi avete capito... Di che sto parlando io? Degli

stivali! Avete pernottato, non è vero, al numero 64?».

«Quando?».

«Questa notte».

«E voi mi ci avete visto?».

14 Personaggio comico del teatro francese, dopo essere stato un guitto realmente vissuto a Parigi sotto l'Impero e la Restaurazione e divenuto celebre, il cui vero nome era Antoine Mardelard (o Mandelard).

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«No, non vi ho visto» rispose Murkin, in preda a vivo turbamento, sedendo e

cavandosi rapidamente gli stivali. «Io non vi ho visto, ma, ecco, la consorte di lui

m'ha gettato fuori i vostri stivali... Ciò invece dei miei».

«Ma che diritto avete, egregio signore, di affermare simili cose? Non parlo già di

me, ma voi offendete una donna, e per di più in presenza di suo marito! ».

Dietro le quinte si levò un tremendo baccano. Re Bobêche, il marito offeso, d'un

tratto s'imporporò e a tutta forza picchiò un pugno sulla tavola, talché nel camerino

attiguo due attrici si sentirono male.

«E tu credi?» gli gridava Barbablù «Tu credi a questo mascalzone? Oh! Lo

ammazzo come un cane, vuoi? Lo vuoi? Ne farò una bistecca! Lo frantumerò! ».

E tutti coloro che passeggiavan quella sera nel giardino comunale presso il teatro

estivo narrano ora d'aver visto come prima del quart'atto si precipitò dal teatro per il

viale principale un uomo scalzo dal viso giallo e gli occhi pieni di sgomento. Lo

rincorreva un individuo vestito da Barbablù e con una rivoltella in mano. Quel che

accadde ulteriormente, nessuno vide. Si sa soltanto che Murkin dipoi, dopo aver fatto

conoscenza con Blistanov, per due settimane giacque malato e alle parole: «Io sono

un uomo malaticcio, reumatico», prese ad aggiungere ancora: «Sono un uomo

ferito... ».

07 - Dalla padella nella brace15

Dal maestro di cappella della chiesa cattedrale Griàdussov era seduto l'avvocato

Kaliakin e, rigirando fra le mani un avviso del conciliatore intestato a Griàdussov,

diceva:

«Qualunque cosa diciate, Dossiféi Petrovic', siete in colpa. lo vi stimo, apprezzo la

vostra buona disposizione, ma con tutto ciò debbo con rammarico farvi osservare

che avete torto. Sissignore, torto. Voi avete insultato il mio cliente Dereviaskin... Be',

per che cosa l'avete insultato?».

«Ma chi diavolo l'ha insultato?» si scaldava Griàdussov, un vecchio alto dalla fronte

stretta, poco promettente, e le sopracciglia folte, con una medaglietta di bronzo

all'occhiello. «Gli ho soltanto fatto una predica morale, soltanto! Agl'imbecilli bisogna

insegnare! Se agl'imbecilli non s'insegna, non ti lascian più vivere». 15 In russo: dal fuoco nella fiamma.

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«Ma, Dossiféi Petrovic', voi non gli avete fatto un predicozzo. Voi, com'egli dichiara

nella sua istanza, l'avete pubblicamente segnato a dito, gli avete dato dell'asino, del

farabutto e simile... e una volta avete perfino alzato la mano, come se voleste

recargli offesa con atti».

«Ma come non picchiarlo, se lo merita? Non capisco! ».

«Ma capite dunque che non avete alcun diritto di far ciò! ».

«Io non ho diritto? Be', questo poi, scusate... Andate a raccontarlo a qualcun altro,

ma non infinocchiate me, di grazia. Lui da me, dopo che dal coro vescovile lo

invitarono a spintoni ad andarsene, dieci anni ha servito nel mio coro. Io sono il suo

benefattore, se volete saperlo. Se si arrabbia perché l'ho scacciato dal coro, lui

stesso ne ha colpa. Io l'ho scacciato per via della filosofia. Filosofeggiare può solo

una persona istruita, che ha terminato i corsi, ma se tu sei un imbecille, se sei di

poca intelligenza, stattene in un cantuccio e taci... Taci e ascolta come parlano le

persone intelligenti; lui invece, tanghero, spiava soltanto il destro di metter fuori

qualcosa del genere. Qui c'è prova di canto, o si dice una messa, e lui a parlare di

Bismarck e di non so quali Gladstone. Lo credete, un giornale, la canaglia, faceva

venire! E quante volte l'ho picchiato sui denti a motivo della guerra russo-turca, non

potete figurarvelo! Qui bisogna cantare, e lui s'è chinato verso i tenori, e avanti a

raccontar loro come i nostri han fatto saltare con la dinamite la corazzata turca Liufti-

Dzelil... O che questo è ordine? Certo, fa piacere che nostri abbian vinto, ma da ciò

non segue che non si debba cantare... Anche dopo la messa puoi discorrere. Un

porco, in una parola».

«Dunque voi lo insultavate anche prima?».

«Prima lui nemmeno s'offendeva. Sentiva ch'io facevo ciò per il suo stesso bene, lo

capiva!... Sapeva che i più anziani e i benefattori è peccato contraddirli, ma quando

andò nella polizia come scrivano, be', là fu finita, montò in superbia, smise di capire

"Io" dice, "non sono più un cantore adesso, ma un funzionario. Farò l'esame» dice,

"da registratore di collegio16. "Be', sei un imbecille" dico. "Dovresti" dico, "sciorinare

un po' meno filosofia e soffiarti un po' più spesso il naso, sarebbe meglio che

pensare ai gradi. A te, non i gradi s'addicono, ma la povertà». Non vuol neppure

ascoltare! Ma ecco, prendiamo anche solo questo caso: perché mi ha querelato

16 Il registratore di collegio era il primo, o infimo, grado (il quattordicesimo dall'alto), della vecchia gerarchia burocratica russa.

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davanti al conciliatore? Be', non è razza di beceri? Son seduto nella trattoria di

Samopliuiev e sto bevendo il tè col nostro fabbriciere. Di pubblico un buscherio, non

un sol posto libero... Guardo, e lui è seduto pure lì, tracanna birra coi suoi scrivani. È

così elegante, ha alzato il muso, bercia... agita le mani... Tendo l'orecchio: parla del

colera... Be', con lui che ci volete fare? Filosofeggia! Io, sapete, sto zitto, paziento...

«Chiacchiera» penso, "chiacchiera...". La lingua non ha osso... A un tratto, per

disgrazia, la macchina si mise a sonare... Lui s'intenerì, il becero, s'alzò e disse ai

suoi amici: "Beviamo" dice, "alla prosperità! Io" dice, "sono un figlio della mia patria e

uno slavofilo del mio paese! Espongo il mio unico petto! Venite fuori, nemici, a tu per

tu! Chi non è d'accordo con me, desidero vederlo!". E come picchia il pugno sulla

tavola! Qui non ressi più... M'avvicino a lui e dico delicatamente: "Ascolta, Ossip... Se

tu, porco, non capisci nulla, è meglio che taccia e non discuta. Una persona istruita

può filosofare, ma tu calmati. Tu sei un verme, sei cenere"... Io una parola a lui, lui

dieci a me... E via e via... Io, naturalmente, parlo per il suo bene, e lui per stupidità...

Si offese, ed ecco che reclamò al conciliatore».

«Sì» sospirò Kaliakin. «Male... Per qualche bazzecola il diavolo sa quel ch'è

successo. Voi siete un uomo di famiglia, stimato, e ora questo processo, discussioni,

chiacchiere, la detenzione... È necessario metter termine a questa faccenda, Dossiféi

Petrovic'. Avete una via d'uscita, alla quale consente anche Dereviaskin. Voi verrete

oggi con me alla trattoria di Samopliuiev alle sei, quando si riuniscon là scrivani,

attori e l'altro pubblico davanti a cui l'avete insultato, e vi scuserete con lui. Allora egli

ritirerà la sua istanza. Avete capito? Suppongo che acconsentirete, Dossiféi

Petrovic'... Vi parlo come ad amico... Voi avete insultato Dereviaskin, l'avete

infamato, e soprattutto avete gettato un sospetto sui suoi lodevoli sentimenti e avete

perfino... profanato quei sentimenti. Al nostro tempo, sapete, non si può far così.

Bisogna essere un po' più cauti. Alle vostre parole è stata attribuita una tale

sfumatura - come dirvi? - che al nostro tempo, insomma, non va... Ora son le sei

meno un quarto... Vi fa comodo venir con me?».

Griàdussov crollò il capo, ma quando Kaliakin gli ebbe dipinto a vive tinte la

"sfumatura" ch'era stata attribuita alle sue parole, e le conseguenze che da quella

sfumatura potevan derivare, Griàdussov si prese paura e acconsentì.

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«Voi, badate dunque, scusatevi come fa d'uopo, in piena regola» gl'insegnava

l'avvocato cammin facendo verso la trattoria. «Avvicinatevi a lui, dando del "voi"...

"Scusate... ritiro le mie parole e altrettali cose».

Giunti in trattoria, Griàdussov e Kaliakin vi trovarono tutt'un'accolta di gente. Lì eran

seduti mercanti, attori, pubblici impiegati, scrivani della polizia: in genere, tutta la

"schiuma" che aveva costume di riunirsi nella trattoria la sera a bere il tè e la birra.

Fra gli scrivani era seduto lo stesso Dereviaskin, un giovane d'età indefinita,

sbarbato, con grandi occhi che non battevan ciglio, naso schiacciato e capelli così

ispidi che, a guardarli, veniva voglia di pulirsi gli stivali... Il suo viso era così

felicemente conformato che, una volta datagli un'occhiata, si poteva riconoscer tutto:

ch'era un ubriacone, e cantava da basso, ed era sciocco, ma non tanto da non

considerarsi una persona molto intelligente. Veduto il maestro di cappella che

entrava, egli si sollevò e mosse i baffi come un gatto. L'assemblea, evidentemente

preavvisata che ci sarebbe stata pubblica ammenda, aguzzò gli orecchi.

«Ecco... Il signor Griàdussov è d'accordo!» disse Kaliakin, entrando.

Il maestro di cappella salutò qualcuno, si soffiò il naso rumorosamente, arrossì e

s'accostò a Dereviaskin.

«Scusate...» borbottò, senza guardarlo e ficcando in tasca il fazzoletto. «Davanti a

tutta la compagnia ritiro le mie parole».

«Vi scuso!» disse con voce di basso Dereviaskin e, gettato uno sguardo vittorioso a

tutto il pubblico, sedette. «Io sono soddisfatto! Signor avvocato, vi prego di chiudere

la faccenda!».

«Mi scuso» continuò Griàdussov. «Scusate... Non mi piacciono i dissapori... Vuoi

che ti dia del "voi", e sia, lo farò... Vuoi che ti stimi una persona intelligente, e sia... Ci

sputo su... Io, fratello, non serbo rancore. Che il diavolo t'assista...».

«Ma voi... permettete! Scusatevi, e non ingiuriate, invece!».

«Come? debbo ancora scusarmi? Io mi scuso! Soltanto ecco, se non vi ho dato del

"voi", è stato per dimenticanza. Non devo già mettermi in ginocchio... Mi scuso, e

ringrazio perfino Dio che hai avuto abbastanza senno per troncare questa faccenda.

Io non ho tempo di bighellonare per i tribunali... Non ho mai fatto cause, non ne farò,

e a te non consiglio... a voi cioè...».

«Certo! Non volete bere alla pace di Santo Stefano17?». 17 La pace che mise fine alla guerra russo-turca del 1877

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«Anche bere si può... Solo che tu, fratello, Ossip, sei un porco... Non già che io

t'insulti, ma così... per esempio... Un porco, fratello! Ricordi come ti buttavi ai miei

piedi, quando dal coro vescovile ti cacciarono a spintoni? Eh? E tu osi sporger

querela contro il tuo benefat…? Una grinta sei tu, una grinta! E non hai vergogna?

Signori avventori, non ha vergogna?».

«Permettete! Queste son di nuovo ingiurie!».

«Che ingiurie? Io ti parlo soltanto, ti faccio la morale... Ho fatto pace e lo dico per

l'ultima volta, non penso a ingiuriare... Sarò io ad aver rapporti con te, lupo mannaro,

dopo che hai sporto querela contro il tuo benefattore? Ma vattene al diavolo! Non

desidero nemmeno parlare con te! E se or ora impensatamente t'ho dato del porco,

un porco sei... Invece di pregar Dio in eterno per il tuo benefattore, perché durante

dieci anni t'ha nutrito e t'ha insegnato la musica, tu sporgi una stupida querela e

mandi da me vari diavoli di avvocati».

«Permettete, Dossiféi Petrovic'» s'offese Kaliakin. «Non dei diavoli sono stati da voi,

ma ci son stato io!... Un po' più cauto, vi prego!».

«Ma che io parlo di voi? Venite magari ogni giorno, siate il benvenuto. Mi fa

meraviglia soltanto che voi abbiate terminato i corsi, ricevuto un'istruzione, e invece

di far la morale a questo tacchino, gli tenete la mano. Ma io, al vostro posto, in

carcere lo farei marcire! E poi perché vi arrabbiate? Mi sono pure scusato! Che

dunque v'occorre ancora da me? Non capisco! Signori avventori, siate testimoni, io

mi sono scusato, ma di scusarmi un'altra volta con un imbecille qualunque non ho

intenzione!».

«Siete voi un imbecille!» chiocciò Ossip e, nell'indignazione, si batté il petto.

«Io un imbecille? Io? E tu puoi dirmi questo? ...». Griàdussov s'imporporò e fu preso

dal tremito... «E tu hai osato? Prenditi questo!... E oltre all'averti adesso, farabutto,

dato un ceffone, presenterò anche querela contro di te al conciliatore! Ti insegnerò io

a insultare! Signori, siate testimoni! Signor delegato, perché state lì a guardare?

M'insultano, e voi guardate? Pigliate uno stipendio, e quando s'ha da badare

all'ordine, allora non è affar vostro? Eh? Credete che anche per voi non ci sian

giudici?».

A Griàdussov s'avvicinò il delegato, e cominciò una storia.

Di lì a una settimana Griàdussov stava davanti al giudice conciliatore ed era

processato per ingiurie a Dereviaskin, all'avvocato e al delegato di sezione, a

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quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni. Sul principio non capiva se fosse

querelante o imputato, ma poi, quando il conciliatore lo condannò "cumulativamente"

a due mesi di detenzione, sorrise con amarezza e borbottò:

«M'hanno insultato, e son io che debbo anche star dentro... Fa meraviglia...

Bisogna, signor giudice conciliatore, giudicar secondo la legge, e non sofisticando.

La vostra mammina buon'anima, Varvara Serghéievna, che Dio le accordi il regno

dei cieli, quelli come Ossip ordinava di fustigarli, e voi li proteggete... Che mai ne

verrà? Voi li assolvete, i furfanti, un altro li assolve... Dove andare in tal caso a

reclamare?».

«Dalla sentenza si può appellare nel termine di due settimane... e prego di non

discutere! Potete andare!».

«Certo... Oggidì col solo stipendio non si vive» proferì Griàdussov e ammiccò

significativamente. «Per forza, se si vuol mangiare, si schiaffa l'innocente in

gattabuia.. È così... E non si può far colpa...».

«Che cosa?!».

«Nulla... Dicevo così... a proposito di chapen zi ghevesen18... Voi credete, perché

portate una catena d'oro, che per voi non ci sian giudici? Non datevi pensiero...

Scoprirò gli altarini!».

Si avviò un processo "per oltraggio al giudice"; ma intervenne l'arciprete della

cattedrale, e la faccenda in qualche modo fu soffocata.

Portando la sua causa davanti al collegio dei conciliatori19, Griàdussov era convinto

che non solo lo avrebbero assolto, ma avrebbero perfin messo in carcere Ossip.

Così pensava anche durante la stessa discussione della causa. Stando in piedi

davanti ai giudici, egli tenne un contegno pacifico, riservato, senza dir parole

superflue. Una volta soltanto, quando il presidente lo invitò a sedere, si offese e

disse:

«Forse che nelle leggi è scritto che il maestro di cappella debba sedere a fianco del

suo cantore?». E quando il collegio confermò la sentenza del conciliatore, strizzò gli

occhi...

18 Sforzata trascrizione fonetica russa del tedesco haben Sie gewesen? (è stato lei?), frase usata in modo burlesco, senza speciale significato, o, come qui, a scopo elusivo, per non dare una risposta diretta. 19 Magistratura collegiale che giudicava in grado dì appello le sentenze dei singoli conciliatori.

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«Come? Che cosa?» domandò. «Come volete che l'intenda? Voi a che proposito?

...».

«Il collegio ha confermato la sentenza del giudice conciliatore. Se non siete

soddisfatto, potete ricorrere in cassazione».

«Sissignore. Vi ringraziamo sentitamente, eccellenza, per il pronto e giusto giudizio.

Certo, col solo stipendio non si può vivere, questo lo capisco benissimo, ma scusate,

troveremo anche un tribunale incorruttibile».

Non starò a riferire tutto ciò che Griàdussov spiattellò al collegio... Presentemente è

sotto processo per "oltraggio al collegio" e non vuol ascoltare, quando i conoscenti

cercano di spiegargli che è colpevole... È convinto della sua innocenza e ha fede che

presto o tardi gli diranno grazie per gli abusi da lui scoperti!

«Con quest'imbecille non ci puoi far nulla!» dice il priore della cattedrale, agitando

sfiduciato la mano. «Non capisce!».

08 - Una natura enigmatica

Uno scompartimento di prima classe.

Sul divano, coperto di velluto cremisi, è semisdraiata una graziosa signora. Un

costoso ventaglio a frangia crepita nella sua mano convulsamente serrata; il pince-

nez di continuo cade dal suo bel nasino, la spilla in petto ora sale, ora scende, come

una navicella fra le onde. Ella è agitata... Di fronte a lei sul divanetto siede un

funzionario di governatorato addetto agl'incarichi speciali, un giovane scrittore

principiante, che pubblica nella gazzetta provinciale piccoli racconti o, com'egli

stesso le chiama, novelle di vita mondana... Egli la guarda in viso, la guarda fisso,

con aria d'intenditore. Osserva, studia, afferra quella bizzarra, enigmatica natura, la

comprende, la penetra... L'anima di lei, tutta la sua psicologia, egli l'ha come sul

palmo della mano.

«Oh, io vi comprendo!» dice il funzionario con incarichi speciali, baciandole la mano

presso il braccialetto. «La vostra anima delicata, sensibile, cerca un'uscita dal

labirinto... Sì! È una lotta terribile, mostruosa, ma... non scoraggiatevi! Voi sarete

vincitrice! Sì! ».

«Descrivetemi, Voldemàr!» dice la damina, sorridendo mestamente. «La vita mia è

così piena, così varia, così screziata... Ma soprattutto... io sono infelice! Sono una

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martire stile Dostoievski... Mostrate al mondo la mia anima, Voldemàr, mostrate

questa povera anima! Voi siete uno psicologo. Non è trascorsa un'ora dacché

sediamo nello scompartimento a discorrere, e voi m'avete bell'e capita, tutta, tutta!».

«Parlate! Vi scongiuro, parlate!».

«Ascoltate. Nacqui in una povera famiglia d'impiegati. Mio padre, un brav'uomo,

intelligente, ma... lo spirito del tempo e dell'ambiente... vous comprenez, io non

accuso il mio povero padre. Egli beveva, giocava a carte... prendeva sbruffi... La

mamma, poi... Ma che dire! Il bisogno, la lotta per il pezzo di pane, la

consapevolezza della nullità... Ah, non costringetemi a rammentare! Dovetti io stessa

aprirmi una via... La mostruosa educazione di collegio, la lettura di sciocchi romanzi,

errori di gioventù, primo timido amore... E la lotta con l'ambiente? Una cosa

tremenda! E i dubbi? E i tormenti della incipiente mancanza di fede nella vita, in

sé?... Ah! Voi siete uno scrittore e ci conoscete, noi donne. Voi capirete. Purtroppo,

io fui dotata d'un carattere aperto... Aspettavo la felicità, e quale! Bramavo essere

una persona umana! Sì! Essere una persona umana: in ciò scorgevo la mia felicità!».

«Meravigliosa!» balbetta lo scrittore, baciando la mano presso il braccialetto. «Non

voi bacio, mirabile creatura, ma l'umana sofferenza! Ricordate Raskòlnikov20? Egli

baciava così».

«Oh, Voldemàr! Mi occorreva la fama... il rumore, lo splendore, come ad ogni

(perché atteggiarsi a modesta?) natura non dozzinale. Io anelavo a qualcosa di non

comune... di non femminile! Ed ecco... Ed ecco... capitò sul mio cammino un vecchio

generale ricco... Capitemi, Voldemàr! Era il sacrificio di sé, la rinuncia a se stessa,

capite! Io non potevo agire altrimenti.

Feci ricca la famiglia, presi a viaggiare, a far del bene... E quanto soffersi, come

intollerabili, bassamente triviali furono per me gli amplessi di quel generale, sebbene,

bisogna rendergli giustizia, a suo tempo avesse valorosamente combattuto! Vi furono

momenti... momenti terribili! Ma mi rafforzava il pensiero che il vecchio dall'oggi al

domani sarebbe morto, che avrei preso a vivere come volevo, mi sarei abbandonata

all'uomo amato, sarei stata felice... E io ce l'ho un tal uomo, Voldemàr! Dio vede, ce

l'ho!».

La damina agita più intensamente il ventaglio. Il suo viso assume un'espressione di

pianto. 20 Il protagonista di Delitto e castigo di Dostoievski.

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«Ma ecco, il vecchio è morto... Egli mi ha lasciato qualcosa, io sono libera come un

uccello. Adesso potrei anche viver felice... Non è vero, Voldemàr? La felicità batte

alla mia finestra. Non c'è che da lasciarla entrare, ma... no! Voldemàr, ascoltate, vi

scongiuro! Adesso potrei anche abbandonarmi all'uomo amato, diventare l'amica,

l'aiuto, la banditrice dei suoi ideali, esser felice... riposare... Ma come tutto è volgare,

nauseante e sciocco a questo mondo! Come tutto è ignobile, Voldemàr! Io sono

infelice, infelice, infelice! Sul mio cammino di nuovo si trova un ostacolo! Di nuovo

sento che la felicità mia è lontana, lontana! Ah, quanti tormenti, se sapeste! Quanti

tormenti!».

«Ma che è? Che cosa s'è messo sul vostro cammino? Vi supplico, parlate!

Ebbene?».

«Un altro vecchio ricco... ».

Il ventaglio spezzato ricopre il bel visetto. Lo scrittore puntella col pugno la sua testa

gravida di pensiero, sospira e, con aria d'intenditore psicologo, si fa meditabondo. La

locomotiva fischia e ansima, si arrossano dal sole al tramonto le tendine dei

finestrini...

09 - Dal diario d'un aiuto contabile

11 maggio 1863. Il nostro sessantenne contabile Glotkin ha bevuto latte con

cognac a cagion della tosse e si è ammalato in quest'occasione di delirium tremens. I

dottori, con la sicumera loro propria, assicurano che domani sarà morto. E così sarò

finalmente contabile! Questo posto mi è stato promesso ormai da un pezzo.

Il segretario Kles'ciòv andrà sotto giudizio per percosse inferte a un postulante che

l'aveva chiamato burocrate. A quanto sembra, è cosa decisa.

Ho preso un decotto contro il catarro di stomaco.

3 agosto 1865. Il contabile Glotkin si è nuovamente ammalato di petto. Ha preso a

tossire e beve latte con cognac. Se morirà, il posto resterà a me. Nutro una

speranza, ma debole, poiché, a quel che pare, il delirium tremens non sempre è

mortale!

Kles'ciòv ha strappato via ad un armeno una cambiale e l'ha stracciata. La cosa

andrà magari a finire in tribunale.

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Una vecchietta (la Gùrievna) diceva ieri ch'io non ho il catarro, ma un'emorroide

interna. Può esser benissimo!

30 giugno 1867. In Arabia, scrivono, c'è il colera. Può darsi che venga in Russia,

e allora si faranno molti posti vacanti. Forse il vecchio Glotkin morirà, e io avrò il

posto di contabile. É ben vitale costui! Vivere così a lungo, secondo me, è perfin

riprovevole.

Che cosa prendere contro il catarro? Non dovrei prendere della santonina?

2 gennaio 1870. Nella corte di Glotkin tutta la notte ha ululato un cane. La mia

cuoca Pelagheia dice che questo è un segno sicuro, e io e lei fino alle due di notte

abbiamo parlato di come, diventato contabile, mi comprerò la pelliccia di procione e

la veste da camera. E magari prenderò moglie. Certo non una ragazza - ciò non si

confà ai miei anni - ma una vedova.

Ieri Kles'ciòv è stato scacciato dal circolo per aver narrato ad alta voce un aneddoto

indecente e aver riso del patriottismo di un membro della Deputazione Commerciale,

Poniuchòv. Quest'ultimo, come si sente dire, sporgerà querela.

Voglio, per il catarro, andare dal dottore Botkin. Dicono che cura bene...

4 giugno 1878. A Vetlianka, scrivono, c'è la peste. La gente cade a mucchi,

scrivono. Glotkin beve in quest'occasione acquavite al pepe. Be', a un vecchio così,

difficilmente l'acquavite al pepe gioverà. Se verrà la peste, sarò contabile di sicuro.

4 giugno 1883. Glotkin è moribondo. Sono stato da lui e in lacrime ho domandato

perdono d'aver atteso con impazienza la sua morte. Ha perdonato fra le lacrime

generosamente e mi ha consigliato di far uso contro il catarro del caffè di ghiande.

E Kles'ciòv di nuovo per poco non è capitato sotto giudizio: aveva impegnato da un

ebreo un pianoforte preso a nolo. E, nonostante tutto ciò, ha già la croce di Stanislao

e il grado di Assessore di Collegio. È sorprendente ciò che si fa in questo mondo!

Zenzero, 2 dramme; galanga, dr. 1/2; vodka forte, dr. 1; sangue dei sette frati, dr. 5;

mischiato il tutto, fare un infuso in una bottiglietta di vodka e prendere contro il

catarro un bicchierino a digiuno.

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Lo stesso anno, 7 giugno. Ieri hanno seppellito Glotkin. Ahimè! Non m'ha giovato

la morte di questo vegliardo! Mi appare in sogno le notti in clamide bianca e mi fa

segno col dito. E, oh sventura, sventura a me, maledetto, il contabile non sono io, ma

Ciàlikov. Non io ho avuto questo posto, ma un giovanotto che ha la protezione di una

zia generalessa. Son perdute tutte le mie speranze!

10 giugno 1886. A Ciàlikov è scappata la moglie. Si accora, il poveretto. Forse dal

dispiacere attenterà ai suoi giorni. Se lo farà, io sarò contabile. Già se ne parla.

Dunque la speranza non è ancora perduta, si può vivere e magari non si è più lontani

dalla pelliccia di procione. In quanto poi al matrimonio, non ne sono alieno. Perché

non sposarsi, se si presenta una buona occasione? Bisogna solo consigliarsi con

qualcuno; è un passo serio.

Kles'ciòv ha scambiato le soprascarpe col Consigliere Segreto Lirmans. Uno

scandalo!

Il guardaportone Paissi ha consigliato contro il catarro di usare il sublimato.

Proverò.

10 - Matrimonio di calcolo (Romanzo in due parti)

Parte prima

In casa della vedova Mimrin, sita nel vicolo Piatisobaci, v'è cena di nozze. A cenare

son ventitré, di cui otto non mangiano nulla, bezzicano col naso e si lagnano di

sentirsi "disturbati". Candele, lampade e un lampadario zoppo, preso a nolo alla

trattoria, ardono così vivamente che uno degli ospiti seduti a tavola, un telegrafista,

strizza gli occhi civettuolo e non fa altro che parlare d'illuminazione elettrica, per dritto

e per traverso. A quest'illuminazione e in generale all'elettricità egli predice un

brillante avvenire, ma nondimeno i commensali lo ascoltano con un certo disdegno.

«L'elettricità...» borbotta il padrino di nozze, guardando ottusamente nel suo piatto.

«Ma, a mio modo di vedere, la luce elettrica non è che una birbonata. Ficcano là un

carboncino e credono di sviare gli occhi! No, fratello, una volta che mi dài la luce,

dammi non un carboncino, ma qualcosa di sostanziale, un qualcosa da accendere,

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che ci sia da appigliarcisi! Dammi del fuoco, capisci?, del fuoco, ch'è naturale e non

astratto».

«Se vedeste una batteria elettrica di che è composta» dice il telegrafista dandosi

delle arie, «ragionereste altrimenti».

«Né manco voglio vederla. Una birbonata... Gabbano la gente semplice...

Spremono l'ultimo succo. Li conosciamo, costoro... E voi, signor giovanotto (non ho

l'onore di sapere il vostro patronimico), invece di parteggiare per una birberia, fareste

meglio a bere e a versarne agli altri».

«Con voi, babbo, io son pienamente d'accordo» dice con voce rauca di tenore lo

sposo Aplombov, un giovane dal collo lungo e dai capelli ispidi. «A che pro attaccar

discorsi sapienti? Non rifuggo io stesso dal parlare di ogni possibile scoperta in

senso scientifico, ma per queste cose vi son altri momenti! Tu di che avviso sei,

mascèr21?» si rivolge lo sposo alla sposina che gli siede accanto.

La sposa Dàscenka, a cui son scritte in viso tutte le virtù, tranne una: la facoltà di

pensare, si fa di fuoco e risponde:

«Voglion mostrare la loro istruzione e parlan sempre di cose incomprensibili».

«Lodando Dio, abbiam vissuto la nostra vita senza istruzione, ed ecco che, grazie a

Dio, sposiamo la terza figliuola a un brav'uomo» disse dall'altro capo della tavola la

madre di Dàscenka, sospirando e rivolgendosi al telegrafista. «E se noi, a parer

vostro, facciam figura d'ignoranti, perché venite da noi? Dovreste andarvene dalle

vostre persone istruite».

Segue un silenzio. Il telegrafista è confuso. Egli non si aspettava punto che la

conversazione sulla elettricità avrebbe preso una così strana piega. Il silenzio

sopraggiunto ha un carattere ostile, gli sembra sintomo d'uno scontento generale, ed

egli stima necessario giustificarsi.

«Io, Tatiana Petrovna, ho sempre stimato la vostra famiglia» dice, «e se ho parlato

della luce elettrica, ciò non vuole ancora dire che l'abbia fatto per superbia. Ecco,

posso perfino bere... Ho sempre con ogni sentimento augurato a Daria Ivànovna un

buon partito. Ai nostri tempi, Tatiana Petrovna, è difficile sposare un brav'uomo. Oggi

ognuno spia l'occasione di contrarre un matrimonio d'interesse, per il denaro...» .

«Questa è un'allusione!» dice lo sposo, facendosi di porpora e sbattendo gli occhi.

21 Ma chère (mia cara).

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«Non c'è alcun'allusione» afferma il telegrafista, alquanto intimorito... «Io non parlo

dei presenti. L'ho detto così... in generale... Per carità!... Tutti sanno che voi è per

amore... Una dote da nulla...».

«No, non da nulla!» si risente la madre di Dàscenka. «Tu parla, signor mio, ma non

divagare! Oltre che mille rubli, diamo tre mantelli, il letto, ed ecco, tutta questa

mobilia! Vammi a trovare in un altro posto una dote così!».

«Io nulla... Sono effettivamente dei mobili... ma io dico nel senso che, ecco, si

offendono come se avessi alluso...».

«E voi non fate allusioni» dice la madre della sposa. «Noi vi usiamo riguardo per i

vostri genitori e vi abbiamo invitato alle nozze, e voi dite e questo e quello. E se

sapevate che Jegòr Fiòdoric' si sposava per interesse, perché prima siete stato zitto?

Avreste dovuto venire a dirlo da parente: è così e così, s'è strusciato per interesse...

E tu, bàtiuska, fai peccato!» si rivolge d'un tratto la madre della sposina allo sposo,

battendo lacrimosa gli occhi. «Io, forse, l'ho allattata e allevata... l'ho custodita più di

un diamante smeraldino, la figlietta mia, e tu... tu per interesse...».

«E voi avete prestato fede a una calunnia?» chiede Aplombov, levandosi da tavola

e tirandosi nervosamente gli ispidi capelli. «Vi ringrazio umilissimamente! Mersì22 di

tale opinione! E voi, signor Blìncikov» si rivolge al telegrafista, «sebbene mi siate

conoscente, non vi permetterò di combinare simili infamie in casa altrui! Favorite

uscirvene!».

«Come sarebbe a dire?».

«Favorite uscirvene! Vi auguro di essere anche voi un galantuomo come me! In una

parola, favorite uscirvene! ».

«Ma smettila! Basta! » gli amici dello sposo lo fanno sedere. «Be', ne mette conto?

Siedi! Smettila!».

«No, desidero mostrare ch'egli non ha alcun diritto! Io per amore ho contratto

legittimo matrimonio. Perché mai restiate a sedere non capisco! Favorite uscir

fuori!».

«Io, nulla... Io, già...» balbetta lo sbalordito telegrafista, levandosi da tavola. «Non

capisco nemmeno... Va bene, me n'andrò. Solo restituitemi prima i tre rubli che mi

chiedeste in prestito per il panciotto di piccato. Vuoterò, ecco, ancora il bicchiere e...

me ne andrò; soltanto, voi prima pagate il debito». 22 Merci (grazie).

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Lo sposo bisbiglia a lungo coi suoi amici. Quelli gli danno tre rubli in spiccioli, egli li

getta con indignazione al telegrafista, e quest'ultimo, dopo lunghe ricerche del suo

berretto di servizio, saluta e se ne va. Così a volte può finire un'innocente

conversazione sull'elettricità! Ma ecco, termina la cena... Viene la notte. L'autore ben

educato mette alla propria fantasia una solida briglia e getta sugli avvenimenti in

corso il cupo velo del mistero.

L'Aurora dalle rosee dita trova ancora Imeneo al vicolo Piatisobaci, ma ecco che

giunge il grigio mattino e fornisce all'autore ricca materia per la

Parte seconda e ultima

Una grigia mattina d'autunno. Neanche son le otto e al vicolo Piatisobaci v'è un

movimento insolito. Per i marciapiedi corrono agitati guardie e portinai; al portone fan

ressa cuoche intirizzite con un'espressione di estrema perplessità sui visi... Da tutte

le finestre guardano gli abitanti. Dalla finestra aperta della lavanderia, premendosi

tempia a tempia, mento a mento, occhieggiano teste di donne.

«Non è neve, non è... neppur ti ci raccapezzi che sia» si odono voci.

Nell'aria da terra fino ai tetti volteggia un che di bianco, molto simile a neve. Il

selciato è bianco, i lampioni della via, i tetti, le panchine dei portieri presso i portoni,

le spalle e i berretti dei passanti... tutto è bianco.

«Che è successo?» domandano le lavandaie ai portinai che corrono.

Quelli in risposta agitano le mani e corrono oltre... Essi stessi non sanno di che si

tratti. Ma ecco, giunge infine lentamente. un portiere e, discorrendo tra sé, gesticola

con le braccia. Evidentemente è stato sul luogo dell'accaduto e sa tutto. «Che è

successo, caro?» gli domandano le lavandaie dalla finestra.

«Uno screzio» risponde lui. «In casa della Mimrin, che ieri ci furon le nozze, hanno

ingannato lo sposo nei conti. Invece di mille, glien'han dati novecento».

«Be', e lui che ha fatto?».

«È andato in furia. Io, dice, già, dice... Ha scucito nella collera il materasso di piume

e ha buttato il piumino dalla finestra... Ve', quanto piumino! Come neve!».

«Lo conducono! Lo conducono! » si senton delle voci. «Lo conducono!».

Dalla casa della vedova Mimrin avanza un corteo. Dinanzi vengono due guardie

con facce impensierite... Dietro a loro cammina Aplombov in cappotto di tricot e

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cilindro. In viso gli sta scritto: «Sono un galantuomo, ma non permetto che mi si

gabbi! ».

«Ora la giustizia vi farà vedere che uomo son io! » borbotta, voltandosi di continuo.

Lo seguono piangenti Tatiana Petrovna e Dàscenka. La processione è chiusa dal

portiere con un libro e da una torma di ragazzini.

«Di che piangi, sposina?» si rivolgono le lavandaie a Dàscenka.

«Rincresce dello strapunto!» risponde per lei la madre. «Tre pudì23, colombelle! E il

piumino, poi, che era! Peluria schietta; non una pennuccia! Dio ci ha castigati sul

declinar degli anni!».

Il corteo svolta dietro l'angolo, e il vicolo Piatisobaci si placa. Il piumino svolazza

fino a sera.

11 - Il romanzo del contrabbasso

Il musicante Smic'kòv si recava dalla città alla villa del principe Bibulov, dove, in

occasione d'un fidanzamento, «aveva luogo» una serata con musica e danze. Sul

suo dorso posava un enorme contrabbasso in custodia di pelle. Andava Smic'kòv per

la riva del fiume, rotolante le sue fredde acque, anche se non maestosamente, in

guisa però assai poetica.

«Non converrebbe far un bagno?» pensò.

Senza riflettere a lungo, egli si svestì e immerse il corpo nei freschi flutti. Era una

serata splendida. La poetica anima di Smic'kòv prese ad accordarsi in conformità

dell'armonia di ciò ch'era intorno. Ma qual dolce sentimento gli avvolse l'anima,

quando, nuotato un centinaio di passi da un lato, scorse una bella fanciulla seduta

sull'erta ripida a pescar con la lenza. Egli trattenne il fiato e si sentì mancare per un

fiotto di sentimenti di varia natura: ricordi dell'infanzia, nostalgia del passato, amore

che si destava... Dio; e lui che pensava di non esser più in grado d'amare! Dopo che

aveva perduto la fede nell'umanità (sua moglie, ardentemente amata, era fuggita con

un amico di lui, il sonatore di fagotto Sobakin), il suo petto si era colmato d'un senso

di vuoto, ed egli s'era fatto misantropo.

«Che è la vita?», più di una volta s'era fatta la domanda. «Per che cosa viviamo?

La vita è un mito, un sogno... un ventriloquio...». 23 Il pud equivale a poco più di sedici chili.

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Ma stando davanti alla bella addormentata (non era difficile osservare ch'ella

dormiva), egli d'un tratto, contro la sua volontà, sentì in petto alcunché di simile

all'amore. A lungo ristette dinanzi a lei, divorandola con gli occhi...

«Ma basta...» pensò, mandando un profondo sospiro. «Addio, miracolosa visione! È

ormai l'ora per me d'andare al ballo di sua eccellenza... ».

E, dato ancora uno sguardo alla bella, stava già per nuotare indietro, quando nella

sua testa balenò un'idea.

«Bisogna che le lasci un mio ricordo!» pensò. «Le aggancerò qualcosa all'amo.

Sarà una sorpresa da parte d'un ignoto».

Smic'kòv nuotò piano verso la sponda, colse un grosso mazzo di fiori di campo e

acquatici e, legatolo con uno stelo di atrepice, lo attaccò all'amo.

Il mazzo andò a fondo e si tirò dietro il grazioso galleggiante.

La saggezza, le leggi di natura e la condizione sociale del mio eroe esigono che il

romanzo finisca in questo punto, ma - ahimè! -, il fato di un autore è inesorabile: per

circostanze indipendenti dall'autore, il romanzo non finì col mazzo di fiori. A dispetto

del buon senso e della natura delle cose, il povero e oscuro sonatore di

contrabbasso doveva rappresentare nella vita d'una illustre e ricca beltà una parte

importante.

Giunto a nuoto alla riva, Smic'kòv fu sbalordito: egli non scorse i suoi panni. Li

avevan rubati... Ignoti malfattori, mentr'egli contemplava la bella, avevan portato via

tutto, tranne il contrabbasso e il cilindro.

«Maledetti!» esclamò Smic'kòv. «Oh, progenie di arpie! Non tanto mi conturba la

perdita del vestito (ché un vestito è perituro), quanto il pensiero che mi toccherà

andarmene tutto nudo e con ciò mancare contro la pubblica moralità».

Egli sedette sulla custodia del contrabbasso e si diede a cercare una via d'uscita

dalla sua orribile situazione.

«Non posso mica andar nudo dal principe Bibulov! » pensava. «Vi saran delle

dame! E per di più i ladri han rubato coi calzoni anche la colofonia che vi si trovava

dentro! ».

Egli pensò a lungo, tormentosamente, fino ad averne dolor di tempie.

«Ah!» si rammentò infine. «Non lungi dalla riva fra i cespugli v'è un ponticello...

Mentre si farà scuro, potrò starmene sotto quel ponticello, e a sera, al buio,

raggiungerò la prima isba...».

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Fermatosi a questo pensiero, Smic'kòv mise il cilindro, si gettò sul dorso il

contrabbasso e si trascinò fino ai cespugli. Nudo, con lo strumento musicale sul

dorso, egli rammentava qualche mitico semidio dell'antichità.

Adesso, lettore, mentre il mio eroe se ne sta sotto il ponte e si abbandona al suo

cruccio, lasciamolo per qualche tempo e volgiamoci alla fanciulla in atto di pescare.

Che n'è di lei? La bella, svegliatasi e non avendo scorto sull'acqua il galleggiante, si

affrettò a tirare la lenza. La lenza si tese, ma l'uncino e il galleggiante non apparvero

fuori dell'acqua. Il mazzo di Smic'kòv, è evidente, si era ammollito nell'acqua,

gonfiandosi, e s'era appesantito.

«O s'è acchiappato un grosso pesce» pensò la fanciulla, «oppure s'è impigliato

l'amo».

Dopo aver tirato ancora un po' la lenza, la fanciulla concluse che l'uncino s'era

impigliato.

«Che peccato!» pensò. «La sera abboccano così bene! Che fare?».

E senza pensarci a lungo, la bizzarra fanciulla gettò da sé le eteree vesti e immerse

il bellissimo corpo nei flutti fino alle marmoree spalle. Non fu facile liberare l'uncino

dal mazzo, nel quale si era aggrovigliata la lenza, ma pazienza e fatica ebbero il

sopravvento. Di lì a circa un quarto d'ora la bella, raggiante e felice, usciva

dall'acque, tenendo in mano l'uncino.

Ma la sorte maligna la guatava. I malviventi che avevano rubato il vestito di

Smic'kòv, avevano trafugato anche le sue vesti, non lasciandole se non il barattolo

coi vermi.

«Che posso fare?» si mise a piangere. «Forse andare in tal guisa? No, mai! Meglio

la morte! Aspetterò che imbrunisca; allora, al buio, arriverò da zia Agafia e la

manderò a casa a prendere una veste... E intanto andrò a nascondermi sotto il

ponticello». La mia eroina, scegliendo i tratti dove l'erba era più alta e chinandosi,

corse verso il ponticello. Nell'infilarsi sotto il ponte, scorse là un uomo nudo con una

criniera da musicista e il petto villoso, mandò un grido e perdette i sensi.

Smic'kòv pure s'era spaventato. Dapprima scambiò la fanciulla per una naiade.

«Non sarà una sirena fluviale, venuta a sedurmi?» pensò, e questa supposizione lo

lusingò, giacché aveva sempre avuto un alto concetto del suo esteriore. «Se poi non

è una sirena, ma un essere umano, come spiegare questa strana metamorfosi?

Perché è qui, sotto il ponte? E che ha?».

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Mentr'egli risolveva questi quesiti, la bella tornava in sé.

«Non uccidetemi!» mormorò. «Sono la principessina Bibulov. Vi scongiuro! Vi si

darà molto denaro! Or ora stavo sganciando nell'acqua l'uncino, e dei ladri mi hanno

rubato il mio vestito nuovo, gli stivaletti e tutto!».

«Signorina!» rispose Smic'kòv con voce supplice. «Anche a me han del pari rubato

il mio vestito. Inoltre coi calzoni hanno portato via anche la colofonia che v'era

dentro! ».

Tutti coloro che suonano contrabbassi e tromboni per lo più son di poca inventiva;

Smic'kòv invece era una piacevole eccezione.

«Signorina!» diss'egli, dopo aver atteso un poco. «Vi turba, lo vedo, il mio aspetto.

Ma, convenitene, a me non è possibile uscir di qui per le stesse ragioni che a voi.

Ecco che cosa ho ideato: non vi andrebbe di adagiarvi nella custodia del mio

contrabbasso e coprirvi col coperchio? Ciò mi nasconderà alla vostra vista...».

Ciò detto, Smic'kòv cavò fuori dall'astuccio il contrabbasso. Per un minuto gli parve,

cedendo la custodia, di profanar la sacra arte, ma l'esitazione fu di breve durata. La

bella si adagiò nella custodia e si acciambellò, e lui strinse le cinghie e prese ad

allietarsi che la natura lo avesse dotato di tanto ingegno.

«Ora, signorina, voi non mi vedete» disse. «Riposate qui e state tranquilla. Quando

farà buio, vi porterò a casa dei vostri genitori. A prendere il contrabbasso posso

venirci anche dopo».

Al sopraggiungere dell'oscurità Smic'kòv si caricò sulle spalle la custodia con la

bella e si trascinò verso la villa di Bibulov. Il suo piano era questo: da principio

avrebbe raggiunto la prima isba e si sarebbe rifornito di vestiario, poi avrebbe

proseguito... «Non v'è male senza bene» pensava, sollevando la polvere coi piedi

nudi e chinandosi sotto il carico. «Del caloroso interesse che io ho preso alla sorte

della principessina, Bibulov mi compenserà certo generosamente».

«Signorina, state comoda?» domandava poi col tono del cavalier galant che invita a

una quadriglia. «Di grazia, non fate complimenti e disponete della mia custodia come

se foste in casa vostra! ».

D'un tratto al galante Smic'kòv parve che davanti a lui, avvolte nell'oscurità,

camminassero due figure d'uomo. Scrutando più attentamente, si convinse che non

era un'illusione ottica: le figure effettivamente camminavano, anzi recavano in mano

certi fagotti...

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«Non saranno i ladri?» gli balenò in testa. «Portano qualche cosa! Sono

probabilmente i nostri vestiti! ».

Smic'kòv posò la custodia al margine della strada e rincorse le figure.

«Alto là! » gridò. «Alt! Fermi! ».

Le figure si volsero e, accortesi dell'inseguimento, se la diedero a gambe... La

principessina ancora a lungo intese rapidi passi e grida di «alto là!». Infine tutto

tacque.

Smic'kòv si era lasciato trascinare dall'inseguimento e, probabilmente, alla bella

sarebbe toccato giacere ancora a lungo nel campo accosto alla strada, se non era un

fortunato gioco del caso. Accadde che in quel mentre percorressero la stessa strada

per la villa di Bibulov i colleghi di Smic'kòv, il flautista Zuc'kòv e il clarinetto

Razmachaikin. Inciampati nella custodia, i due si guardarono meravigliati e

spalancarono le braccia.

«Il contrabbasso!» disse Zuc'kòv. «Ah, ma questo è il contrabbasso del nostro

Smic'kòv! Ma com'è capitato qui?».

«Probabilmente, qualcosa è accaduto a Smic'kòv» concluse Razmachaikin. «O ha

preso la sbornia, oppure l'hanno derubato... In ogni caso, lasciar qui il contrabbasso

non va. Prendiamolo con noi».

Zuc'kòv si gettò sul dorso la custodia, e i musicanti proseguirono.

«Lo sa il diavolo, che peso è!» brontolò per tutta la strada il flautista. «Per nulla al

mondo acconsentirei a sonare una tal cariatide... Uff!».

Giunti alla villa del conte Bibulov, i sonatori deposero la custodia nel posto riservato

all'orchestra e si diressero al ristoro.

In quel mentre nella villa già accendevano i lampadari e i bracci. Il fidanzato,

consigliere di Corte Lakeic' funzionario bello e simpatico del dicastero delle vie di

comunicazione, stava in mezzo alla sala e, con le mani in tasca, discorreva col conte

Skàlikov. Parlavano di musica.

«Io, conte» diceva Lakeic', «a Napoli conoscevo di persona un violinista che

operava letteralmente prodigi. Voi non crederete! Sul contrabbasso... su un comune

contrabbasso egli cavava trilli così indiavolati da far paura, semplicemente! Sonava i

valzer di Strauss!».

«Finitela, codesto non è possibile...» mise in dubbio il conte.

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«Vi assicuro! Perfin la rapsodia di Liszt eseguiva! Io abitavo con lui nella stessa

camera, anzi, non avendo da fare, appresi da lui a sonare sul contrabbasso la

rapsodia di Liszt».

«La rapsodia di Liszt... Uhm!... voi scherzate...». «Non credete?» fece Lakeic'.

«Allora ve lo proverò subito! Andiamo in orchestra!».

Il fidanzato e il conte si diressero all'orchestra. Accostatisi al contrabbasso, presero

lesti a scioglier le cinghie... e - oh, spavento!

Ma a questo punto, mentre il lettore, dando libero corso alla sua immaginazione,

delinea l'esito della disputa musicale, torniamo a Smic'kòv... Il povero sonatore, non

avendo raggiunto i ladri ed essendo tornato al luogo dove aveva lasciato la custodia,

più non vide il prezioso carico. Perdendosi in congetture, egli fece più volte la strada

su e giù e, non avendo trovato l'astuccio, concluse che egli non aveva imbroccato la

strada giusta...

«È orribile!» pensava, afferrandosi per i capelli e rabbrividendo. «Lei soffocherà

nell'astuccio! Sono un assassino! ».

Fino a mezzanotte in punto Smic'kòv vagò per le strade e cercò l'astuccio, ma alla

fine, stremato di forze, se n'andò sotto il ponticello.

«Cercherò all'alba» stabilì.

Le ricerche all'alba diedero lo stesso risultato, e Smic'kòv risolse di aspettar sotto il

ponte la notte... «La troverò! » mormorava, togliendosi il cilindro e afferrandosi i

capelli. «Dovessi cercare un anno, la troverò! ».

E tuttora i contadini che abitano i luoghi descritti narrano che le notti presso il

ponticello si può vedere un uomo nudo, coperto dai capelli e in cilindro. Ogni tanto da

sotto il ponticello si sente il rantolo d'un contrabbasso.

12 - L'oratore

Un bel mattino seppellivano l'assessore di collegio Kirill Ivànovic' Vavilonov, morto

per due malanni tanto diffusi nella nostra patria: una cattiva moglie e l'alcolismo.

Quando il corteo funebre si mosse dalla chiesa verso il cimitero, un collega del

defunto, certo Poplavski, salì in una carrozzella e galoppò dal suo amico Grigori

Petrovic' Zapoikin, uomo giovane, ma già abbastanza popolare. Zapoikin, com'è noto

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a molti lettori, possiede la rara capacità d'improvvisare discorsi matrimoniali, di

giubileo e funebri. Egli può parlare quando gli garba: tra veglia e sonno, a digiuno,

ubriaco fradicio, con la febbre ardente: il suo discorso scorre liscio, eguale, come

acqua da gronda, e copioso; parole di rimpianto nel suo dizionario oratorio ve n'è

assai più che di scarafaggi in qualsivoglia trattoria. Parla sempre con eloquenza e a

lungo, cosicché a volte, specie a nozze di mercanti, per fermarlo tocca ricorrere

all'aiuto della polizia.

«E io, fratellino, son venuto da te! » cominciò Poplavski, avendolo trovato in casa.

«Vèstiti sull'istante, e andiamo. È morto uno dei nostri, lo spediamo subito all'altro

mondo, così bisogna, fratellino, dire a commiato qualche frottola... In te ogni

speranza. Se fosse morto qualcuno dei piccoli, non staremmo a disturbarti, ma sai, è

un segretario... una colonna della cancelleria, in certo qual modo. Non sta bene un

tal pezzo grosso seppellirlo senza discorso».

«Ah il segretario!» sbadigliò Zapoikin. «È quell'ubriacone?».

«Sì, l'ubriacone. Ci saranno i blinì24, gli antipasti... riceverai i soldi della carrozzella.

Andiamo, anima mia! Metti fuori là, sulla tomba, una qualche concione più

ciceroniana che puoi, e che grazie riceverai! ».

Zapoikin acconsentì volentieri. Egli si scarruffò i capelli, atteggiò il volto a

malinconia e uscì con Poplavski sulla strada.

«Conosco il vostro segretario» disse, salendo in carrozzella. «Scroccone e birba, si

abbia il regno dei cieli, come ce n'è pochi».

«Via, non sta bene, Griscia, insultare i morti».

«Quest'è certo, aut mortuis nihil bene25, ma tuttavia era un mariuolo».

Gli amici raggiunsero il corteo funebre e vi si unirono. Il defunto lo portavan

lentamente, talché fino al cimitero ebbero tempo di dare un tre capatine in trattoria e

di mandar giù per il riposo dell'anima un bicchierino ogni volta.

Al cimitero fu detto il requiem. Suocera, moglie e cognata, lige alla consuetudine,

piansero molto. Quando calarono la bara nella fossa, la moglie gridò: «Lasciatemi

andar da lui!», ma nella fossa dietro al marito non andò, probabilmente essendosi

rammentata della pensione. Dopo aver atteso che tutto si fosse calmato, Zapoikin si

fece avanti, girò gli occhi su tutti e cominciò: 24 Sorta di frittelle tonde e sottili, fatte con pasta semiliquida di frumento, o altri cereali, che si mangiavano in varie occasioni, specialmente nozze e funerali. 25 Storpiatura del latino: nihil de mortuis nisi bene, nulla (dicasi) dei morti, se non in bene.

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«Si ha da credere agli occhi e agli orecchi? Non sono un sogno pauroso questa

bara, questi visi di pianto, gemiti e lamenti? Ahimè, non è un sogno, e la vista non

c'inganna! Colui che, ancor non è molto, noi vedevamo così baldo, così

giovanilmente fresco e puro, che, ancor non è molto, sotto i nostri occhi, a

somiglianza d'infaticabile ape, recava il suo miele alla comune arnia del buon ordine

statale, colui che... quello stesso è ora volto in cenere, in material parvenza. La

morte inesorabile ha posto su di lui la mano irrigidita, mentr'egli, nonostante la sua

avanzata età, era ancor pieno di forze in sboccio e di radiose speranze. Incolmabile

perdita! Chi ce lo sostituirà? Di buoni funzionari ne abbiam molti, ma Prokofi Osipyc'

era unico. Egli sino in fondo all'anima era dedito al suo onesto dovere, non

risparmiava forze, non dormiva le notti, era disinteressato, incorruttibile... Come

disprezzava coloro che cercavano, a danno dei comuni interessi, di corromperlo, che

con gli allettevoli beni della vita tentavano di farlo venir meno al suo dovere! Sì, sotto

i nostri occhi Prokofi Osipyc' distribuiva il suo modesto stipendio ai colleghi più

poveri, e voi stessi avete udito or ora i lamenti delle vedove e degli orfani che

vivevano delle sue donazioni. Dedito al dovere d'ufficio e alle buone opere, egli non

conobbe gioie nella vita e si negò perfino la felicità dell'esistenza familiare; vi è noto

che fino al termine dei giorni suoi egli fu celibe! E chi ce lo sostituirà come camerata?

Come fosse ora, vedo il suo volto raso, intenerito, a noi rivolto con un buon sorriso;

come fosse ora, sento la sua voce dolce, teneramente amichevole. Pace alle ceneri

tue, Prokofi Osipyc'! Riposa, onesto, nobile lavoratore!».

Zapoikin continuò, e gli ascoltatori presero a bisbigliarsi a vicenda. Il discorso

piacque a tutti, spremé alquante lacrime, ma molto in esso parve strano. In primo

luogo rimase incomprensibile perché l'oratore chiamasse il defunto Prokofi Osipyc',

mentre si chiamava Kirill Ivànovic'. Secondariamente, era a tutti noto che il defunto

tutta la vita aveva guerreggiato con la sua legittima moglie, e quindi non poteva dirsi

scapolo; terzo, aveva una folta barba rossiccia, dalla nascita non si era sbarbato, e

perciò riusciva incomprensibile per qual ragione l'oratore avesse detto raso il suo

volto. Gli uditori erano perplessi, si scambiavano occhiate e alzavan le spalle.

«Prokofi Osipyc'!» continuò l'oratore, guardando ispirato nella fossa: «Il tuo viso era

brutto, persin deforme, tu eri arcigno e rude, ma noi tutti sapevamo che sotto codesto

apparente involucro batteva un cuore onesto, amico!».

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Ben presto gli ascoltatori presero ad osservare un che di strano anche nell'oratore

medesimo. Egli fissò gli occhi in un punto, si mosse inquieto e prese egli stesso a

stringersi nelle spalle. D'un tratto ammutolì, spalancò stupito la bocca e si girò verso

Poplavski.

«Senti un po', ma è vivo!» disse, guardando con sgomento.

«Chi è vivo? ».

«Ma Prokofi Osipyc'! Eccolo in piedi accanto al monumento!».

«Lui non era mica morto! È morto Kirìll Ivànovic'! ».

«Ma se tu stesso mi hai detto che vi era mancato il segretario!».

«E KirìlI Ivànovic' era il segretario. Tu, stravagante, hai fatto confusione! Prokofi

Osipyc', è esatto, era prima segretario da noi; ma due anni fa lo passarono capufficio

al secondo reparto».

«Ah, vi capisce il diavolo!».

«Perché ti sei fermato? Continua, ché si è a disagio».

Zapoikin si voltò verso la fossa e con la primitiva eloquenza riprese il discorso

interrotto. Presso un monumento stava effettivamente Prokofi Osipyc', un vecchio

funzionario dalla faccia sbarbata. Egli guardava l'oratore e si accigliava, iroso.

«E come t'è saltato in capo?» ridevano i funzionari, quando con Zapoikin tornavano

dalle esequie. «Hai sotterrato un vivo».

«Male, giovanotto!» brontolava Prokofi Osipyc'. «Il vostro discorso va forse per un

morto, ma riguardo a un vivo, è una canzonatura sola! Per carità, che avete detto?

Disinteressato, incorruttibile, non prende sbruffi! Ma d'un vivo codesto si può dire

solo per canzonatura. E nessuno vi ha pregato, signor mio, di diffondervi sul mio

viso. Brutto, deforme, sia pure, ma perché mettere in piazza la mia fisionomia? È

offensivo! ».

13 - La sirena

Dopo una seduta del collegio dei giudici conciliatori26 di N., i giudici si riunirono in

camera di consiglio, per togliersi le divise, riposarsi un momentino e recarsi a casa a

pranzare. Il presidente del collegio, un gran bell'uomo dalle fedine lanuginose, 26 Autorità giudiziaria collegiale (istituita con le riforme amministrative di Alessandro 11 nel 1864) che giudicava in sede di appello dalle sentenze dei singoli conciliatori.

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rimasto, in una delle cause dianzi esaminate, di «opinione particolare», stava seduto

davanti alla tavola e si affrettava ad annotare la sua opinione. Il conciliatore

mandamentale Milkin, un giovane dal languido viso malinconico, che passava per un

filosofo, insoddisfatto dell'ambiente, che andasse cercando lo scopo della vita, stava

a una finestra e guardava tristemente nel cortile. Un altro mandamentale e uno degli

onorari se n'eran già andati. Il giudice onorario rimasto, un grassone floscio che

respirava con stento, e il sostituto procuratore, un giovane tedesco dal viso catarrale,

sedevano su un divanetto e aspettavano che il presidente finisse di scrivere, per

andarsene insieme a pranzare. Davanti a loro stava il segretario del collegio Zilin, un

ometto piccino dalle fedine attorno agli orecchi e con un'espressione di dolcezza in

viso. Sorridendo mellifluo e guardando il grassone, egli diceva sottovoce:

«Noi tutti ora vogliamo mangiare, perché ci siamo stancati e son le tre passate; ma

questo, anima mia, Grigori Savvic', non è vero appetito. La vera fame, la fame da

lupo, quando sembra che ti mangeresti il tuo proprio padre, si ha solo dopo il moto

fisico, per esempio dopo una caccia coi cani da corsa, o quando ti fai con cavalli

presi a nolo da privati un centinaio di verste27 senza riprender fiato. Molto pure vuol

dire l'immaginazione. Se, mettiamo, tornate a casa dalla caccia e desiderate

pranzare con appetito, non bisogna mai pensare a cose intellettuali; le cose

intellettuali e dotte scacciano sempre l'appetito. Lo saprete voi stesso, filosofi e dotti

in fatto di mangiare son gli ultimi degli uomini, e peggio di loro, scusate, non

mangiano nemmeno i porci. Rincasando, bisogna sforzarsi a che la testa pensi solo

al caraffino e allo spuntino. Io una volta, strada facendo, chiusi gli occhi e

m'immaginai un porcellino col rafano, tanto che, dall'appetito, mi venne una crisi di

nervi. Be', e quando entrate nel cortile di casa vostra, bisogna che intanto la cucina

odori di un certo che, sapete...».

«Le oche arrosto son maestre in odori» disse il conciliatore onorario, respirando a

fatica.

«Non parlate, anima mia, Grigori Savvic'; l'anatra o la beccaccia possono dare dieci

punti all'oca. Nel profumo dell'oca non c'è soavità e delicatezza. La fragranza più

inebriante è quella della cipollina giovane, quando, sapete, comincia a rosolare e,

capite, sfrigola, la canaglia, per tutta la casa. Be', quando entrate in casa, la tavola

27 La versta corrisponde a poco più di un chilometro.

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già deve essere apparecchiata, e quando vi mettete a sedere, subito il tovagliolo al

collo, e senza fretta stendete la mano al caraffino della vodka.

Ma lei, la piccola nutrice nostra, la versate non in un bicchierino, ma in qualche

antidiluviano boccalino di argento del nonno, o in uno panciutello così, con la scritta:

"Lo bevon pure i monaci", e bevete non tutto d'un fiato, ma prima farete un sospiro, vi

stropiccerete le mani, darete un'occhiata indifferente al soffitto, poi, così,

senz'affrettarvi, la porterete, la vodkuccia dico, alle labbra e... subito in voi, dallo

stomaco per tutto il corpo, faville...».

Il segretario espresse sul suo dolce viso la beatitudine.

«Faville... » ripeté, strizzando gli occhi. «Appena bevuto, subito bisogna far lo

spuntino».

«Sentite» disse il presidente alzando gli occhi sul segretario, «parlate più piano! È il

secondo foglio che sciupo per causa vostra».

«Ah, domando scusa, Piotr Nikolaic'! Parlerò piano» disse il segretario e continuò in

un bisbiglio. «Già, e lo spuntino, anima mia, Grigori Savvic', bisogna pure saperlo

fare. Occorre sapere che cosa mangiare. Il miglior antipasto, se volete saperlo, è

l'aringa. Quando ne avete mangiato un pezzetto con cipollina e mostarda, là per là,

benefattore mio, mentre ancora sentite nel ventre le scintille, mangiate del caviale a

solo, oppure, se volete, col limoncino, poi semplici ravanelli con sale, poi di nuovo

aringa, ma meglio di tutto, benefattore mio, agarici salati, se sminuzzati, come il

caviale, e, capite, con cipolla e olio d'oliva... una ghiottoneria! Ma i fegatini di lasca,

quelli, sono un poema!».

«M... sì ...» convenne il conciliatore onorario, socchiudendo gli occhi. «Per antipasto

son buoni parimente... i funghi bianchi marinati».

«Sì, sì, sì, con la cipolla, sapete, con una foglia di lauro e ogni sorta di spezie.

Scoperchi la casseruola, e ne vien fuori un vapore, un odor di funghi... perfino una

lacrima ci scappa, qualche volta! Ebbene, appena dalla cucina han portato il

pasticcio di pesce, subito, senza indugio, s'ha da bere il secondo».

«Ivàn Guric'!» disse con voce di pianto il presidente. «Per causa vostra ho sciupato

il terzo foglio».

«Lo sa il diavolo, non pensa che al mangiare!» borbottò il filosofo Milkin, facendo

una smorfia sprezzante. «Possibile che, fuori dei funghi e del pasticcio di pesce, non

vi siano altri interessi nella vita?».

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«Già, bere prima del pasticcio di pesce» continuò il segretario piano piano; egli era

ormai così trascinato che, come l'usignolo che canta, non udiva nulla, tranne la

propria voce. «Il pasticcio di pesce dev'essere appetitoso, lo svergognato, in tutta la

sua nudità, perché sia una tentazione. Ci strizzerai su un occhio, ne taglierai un

pezzettone così, e ci moverai sopra le dita, ecco, a questo modo, per la piena dei

sentimenti. Ti metterai a mangiarlo, e ne colerà burro, come lacrime, il ripieno

grosso, succulento, con uova, con frattaglie, con cipolla...».

Il segretario stralunò gli occhi e storse la bocca fin proprio all'orecchio. Il conciliatore

onorario fece un raschio e, figurandosi probabilmente il pasticcio di pesce, mosse le

dita.

«Lo sa il diavolo quel ch'è...» brontolò il conciliatore mandamentale, scostandosi

verso un'altra finestra.

«Due bocconi li hai mangiati, e il terzo l'hai serbato per le s'ci28» continuò il

segretario con ispirazione. «Appena avrete finito col pasticcio di pesce, là per là, per

non spezzare l'appetito, fate portare le s'ci... Le s'ci devono esser calde, bollenti. Ma

meglio di tutto, benefattore mio, un bel borsc'29 di barbabietole alla maniera dei

ciuffi30, con prosciutto e salsicce. In aggiunta si servono panna acida e prezzemolino

fresco con finocchio. Magnifica parimente la minestra di cetrioli salati, trippa e

rognoni teneri; ma se vi piace la zuppa, delle zuppe la meglio è quella di radici e

verdura: carotine, asparagi, cavolfiore e ogni consimile giurisprudenza».

«Sì, è una cosa magnifica...» sospirò il presidente, staccando gli occhi dalla carta;

ma subito si riprese e gemé: «Abbiate timor di Dio! In tal modo prima di sera non

avrò scritto l'opinione particolare! È il quarto foglio che sciupo!».

«Non lo farò più, non lo farò! Ho torto! » si scusò il segretario, e proseguì in un

bisbiglio: «Appena avrete mangiato il borsc' o la zuppa, subito fate servire il pesce,

benefattore mio. Dei pesci mutoli31 il migliore è il coracino arrosto in panna acida;

soltanto, perché non sappia di limo e abbia finezza, bisogna tenerlo vivo nel latte

ventiquattr'ore sane».

«Buono pure lo storioncino acciambellato» disse il conciliatore onorario chiudendo

gli occhi; ma subito dopo, in modo inatteso per tutti, balzò via dal posto, fece un viso 28 Minestra, magra o grassa, di cavoli tritati e inaciditi. 29 Minestra simile alla precedente, ma con aggiunta di pomodori e panna acida, oppure fatta con barbabietole e carne. Entrambe sono piatti nazionali russi. 30 Così i russi del nord chiamavano i piccoli-russi, o ucraini, dal ciuffo che portavano in capo. 31 Si dice in russo: «muto come un pesce senza favella».

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feroce e ruggì dalla parte del presidente: «Piotr Nikolaic', finirete presto? Non posso

aspettare oltre! Non posso! ».

«Lasciatemi finire!».

«Be', allora me ne vado io! Che il diavolo vi porti!». Il grassone agitò la mano,

afferrò il cappello e, senza salutare, corse fuori della stanza. Il segretario sospirò e,

chinatosi all'orecchio del sostituto procuratore, continuò a bassa voce:

«Buona anche la lucioperca o la carpa con sugo di pomodori e funghetti. Ma col

pesce non ci si sazia, Stepan Frantsic', non è un mangiare sostanziale; l'importante

in un pranzo non è il pesce, non le salse, ma l'arrosto. Voi che volatile amate

maggiormente? ».

Il sostituto procuratore fece un viso agro e disse con un sospiro:

«Purtroppo non posso simpatizzare con voi: ho il catarro di stomaco».

«Via, via, signore! Il catarro di stomaco l'hanno inventato i dottori! Questa malattia

proviene soprattutto dal libero pensiero e dall'orgoglio. Voi non badateci. Non avete

voglia di mangiare, poniamo, o avete nausea, e voi non fateci caso e mangiate lo

stesso. Se, mettiamo, serviranno coll'arrosto un palo di beccaccini, e se vi si

aggiungerà un perniciotto, o una coppia di quagliette grassottelle, allora

dimenticherete qualsiasi catarro, parola d'onore di galantuomo. E il tacchino arrosto?

Bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa come una ninfa...».

«Sì, probabilmente è una cosa saporita» ammise il procuratore, sorridendo

tristemente. «Il tacchino, magari, lo mangerei».

«Signore Iddio, e l'anatra? Se si piglia un'anatra giovane, che giusto giusto al primi

geli abbia beccato un po' di ghiaccio, e la si arrostisce in una leccarda con patate, ma

che le patate sian tagliate fino, e abbian preso colore, e che si siano imbevute del

grasso d'anatra, e che...».

Il filosofo Milkin fece un viso feroce e parve voler dire qualcosa, ma d'un tratto

schioccò le labbra, probabilmente raffigurandosi l'anatra arrosto, e, senza dir

neanche una parola, attratto da una forza ignota, afferrò il cappello e corse via.

«Sì, mangerei magari anche dell'anatra» sospirò il sostituto procuratore.

Il presidente si alzò, fece alcuni passi e tornò a sedere.

«Dopo l'arrosto l'uomo è sazio e cade in un dolce offuscamento» continuò il

segretario. «In questo mentre, e il corpo si sente bene, e l'anima s'intenerisce. Per

addolcimento potete bere un tre bicchierini di acquavite aromatica».

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Il presidente raschiò in gola e cancellò con un sol tratto il foglio.

«È il sesto foglio che sciupo» esclamò stizzito. «È mancanza di coscienza,

questa!».

«Scrivete, scrivete, benefattore!» bisbigliò il segretario. «Non lo farò più! Parlerò

piano. Ve lo dico in coscienza, Stepàn Frantsic'» continuò con un sussurro appena

percettibile; «l'acquavite aromatica fatta in casa è meglio di ogni sciampagna. Già

dopo il primo bicchierino l'olfatto si prende tutta l'anima vostra; è un miraggio siffatto,

e vi sembra di essere non già in poltrona a casa vostra, ma da qualche parte in

Australia, su qualche morbidissimo struzzo...».

«Ah, ma andiamocene, Piotr Nikolaic'! » disse il procuratore, movendo impaziente

un piede.

«Sissignore» proseguì il segretario. «Al momento dell'acquavite aromatica è buona

cosa fumare un sigaruccio e mandare in aria dei cerchietti, e nel frattempo vi

vengono in testa certi pensieri fantastici, come di essere generalissimo, o sposato

con la primissima beltà del mondo, e che questa beltà nuoti tutto il giorno davanti alle

vostre finestre in una di quelle vasche coi pesciolini dorati. Ella nuota, e voi a lei:

"Cuoricino, vieni a darmi un bacio!"».

«Piotr Nikolaic'! » gemette il sostituto procuratore.

«Sissignore» continuò il segretario. «Dopo aver fumato, raccogliete le falde della

veste da camera, e via verso il lettuccio! E così vi mettete a giacere sul dorso, con la

pancetta in su, e prendete il giornaluccio in mano. Quando gli occhi si chiudono e

tutto il corpo è pieno di sopore, fa piacere legger di politica: là, guardi, l'Austria ha

fatto un passo falso, laggiù la Francia non è andata a genio a qualcuno, là il papa di

Roma è corso ai ripari: leggi, e fa piacere».

Il presidente si alzò di scatto, sbatté la penna da una parte e con tutt'e due le mani

agguantò il cappello. Il sostituto procuratore, scordato il suo catarro e struggendosi

d'impazienza, balzò su egli pure. «Andiamo!» gridò.

«Piotr Nikolaic,' e l'opinione particolare?» si sgomentò il segretario. «Quando poi,

benefattore, la scriverete? Alle sei dovete pur recarvi in città!».

Il presidente scosse la mano e si precipitò alla porta. Il sostituto procuratore agitò la

mano anche lui e, afferrata la sua busta, scomparve col presidente. Il segretario

sospirò, guardò loro dietro con aria di riprovazione e si mise a ordinare le carte.

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14 - Una calunnia

L'insegnante di calligrafia Serghéi Kapitonic Achineiev dava in sposa la sua figliuola

Natalia all'insegnante di storia e geografia Ivàn Petrovic' Losciadinich. Il trattenimento

nuziale filava liscio come un olio. In sala si cantava, si sonava, si danzava. Per le

stanze, come invasati, correvano avanti e indietro i domestici presi a nolo al circolo,

in marsine nere e cravatte bianche sudice. C'era chiasso e vocìo. L'insegnante di

matematica Taràntulov, il francese Padekuà e il più giovane revisore della corte dei

conti Jegòr Venediktic Mzda, seduti in fila sul divano, affrettandosi e interrompendosi

a vicenda, raccontavano agli ospiti dei casi di seppellimento di vivi ed esprimevano la

loro opinione sullo spiritismo. Tutti e tre non credevano nello spiritismo, ma

ammettevano che in questo mondo ci son molte cose che la mente umana non

penetrerà mai. In un'altra stanza l'insegnante di letteratura Dodonski spiegava agli

ospiti i casi in cui la sentinella ha il diritto di sparare su chi passa. Le conversazioni

erano, come vedete, paurose, ma assai piacevoli. Dal cortile curiosavano alle

finestre delle persone, che, per la loro condizione sociale, non avevano il diritto di

entrar dentro.

A mezzanotte in punto il padron di casa Achineiev andò in cucina a vedere se tutto

fosse pronto per la cena. In cucina dal pavimento al soffitto era sospeso un fumo

costituito dagli effluvi d'oca, d'anatra e numerosi altri. Su due tavole eran distribuiti e

disposti in artistico disordine gli attributi del servizio d'antipasti e aperitivi. Intorno alle

tavole si affaccendava la cuoca Marfa, una donna rossa con doppio ventre serrato

alla cintola.

«Fammi un po' vedere lo storione, màtuska!» disse Achineiev, fregandosi le mani e

leccandosi le labbra. «Ma che odore, che zaffata! Mi mangerei addirittura tutta la

cucina! Su dunque, fa' vedere lo storione!».

Marfa s'avvicinò a un panchetto e cautamente sollevò un foglio di giornale unto.

Sotto questo foglio, in un piatto enorme, riposava un grosso storione in gelatina,

screziato di capperi, olive e carotine. Achineiev guardò lo storione e fece un «ah!». Il

viso gli raggiò, gli occhi si strabuzzarono. Egli si chinò ed emise con le labbra il

suono d'una ruota non lubrificata. Dopo un po' di sosta, schioccò le dita dal piacere e

fece un altro schiocco con le labbra.

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«Oibò! Il suono di un ardente bacio... Con chi ti stai baciando, Marfuscia?» s'udì

una voce dalla stanza attigua, e sull'uscio comparve la testa rapata dell'aiuto dei

sorveglianti di classe, Vankin. «Con chi facevi questo? A-a-ah... molto piacere! Con

Serghéi Kapitonic'! Bel nonno, non c'è che dire! Un téte-à-téte con una «polacca32»

da donna!».

«Io non ho baciato nessuno» si confuse Achineiev, «chi te l'ha detto, stupido? Son

io che... ho schioccato le labbra riguardo... a proposito del piacere... Alla vista del

pesce...».

«Raccontalo ad altri! ».

La faccia di Vankin fece un largo sorriso e scomparve dietro l'uscio. Achineiev

arrossì.

«Il diavolo sa quel che è!» pensò. «Ora andrà, il mascalzone, a far pettegolezzi.

M'infamerà per tutta la città, l'animale...».

Achineiev entrò timidamente in sala e guardò in tralice da un lato: dov'era Vankin?

Vankin era accanto al pianoforte e, piegatosi con bravura, bisbigliava qualcosa alla

cognata dell'ispettore che rideva.

«Di me sta parlando!» pensò Achineiev. «Di me, che possa scoppiare! E quella ci

crede... ci crede! Ride! O Dio mio! No, così non si può lasciar la cosa... no... Bisogna

fare in modo che non gli credano... Parlerò con tutti loro e gli farò far la figura

dell'imbecille pettegolo».

Achineiev si grattò e, senza cessar di confondersi, si avvicinò a Padekuà.

«Dianzi ero in cucina e davo disposizioni riguardo alla cena» diss'egli al francese.

«A voi, lo so, piace il pesce, e io ci ho, bàtenka, un certo storione! Lungo due arscini!

Eh-eh-eh!... Sì, a proposito... già me ne dimenticavo... In cucina poco fa, con quello

storione... un vero aneddoto! Entro poco fa in cucina e voglio osservar le vivande...

Guardo lo storione e dal piacere... per l'odore piccante faccio uno schiocco con le

labbra! Ma in quel momento entra a un tratto quest'imbecille di Vankin e dice... ah-

ahah!... e dice: "O-o-oh... vi baciate qui?". Con Marfa, con la cuoca! Che cosa è

andato a pensare, lo sciocco! Quella donna non né ha grazia né garbo, somiglia a

ogni sorta d'animali, e lui... baciarla! Stravagante!».

«Chi stravagante?» domandò Taràntulov che s'era avvicinato.

32 Sopraveste alla polacca, da uomo o da donna; molto vistosa e marziale, con colletto rigido e alamari.

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«Ma eccolo lì, Vankin! Entro in cucina...». E raccontò di Vankin.

«M'ha fatto ridere lo stravagante! Ma secondo me è più piacevole baciare un can

barbone che Marfa» soggiunse Achineiev, che si voltò a guardare e vide dietro a sé

Mzda.

«Stiamo parlando di Vankin» gli disse. «Uno strambo! Entra in cucina, mi vede al

fianco di Marfa, e avanti a immaginare varie facezie. "Che cosa?" dice, "vi baciate?".

Ubriaco com'è, gli era parso. E io, dico, bacerò piuttosto un tacchino che Marfa. E poi

ho anche moglie, dico, imbecille che sei. M'ha fatto ridere! ».

«Chi vi ha fatto ridere?» domandò il prete insegnante di religione, avvicinatosi ad

Achineiev.

«Vankin. Me ne sto, sapete, in cucina e guardo lo storione... ».

E così via. Di lì a forse mezz'ora tutti gli ospiti già sapevano della storia di Vankin e

dello storione. «Adesso glielo racconti pure!» pensava Achineiev, fregandosi le mani.

«Racconti pure! Lui comincerà a raccontare, e io subito: "Smettila, imbecille, di dir

scempiaggini! Sappiamo già tutto!"». E Achineiev si tranquillizzò al punto che, dalla

gioia, vuotò quattro bicchierini di troppo. Accompagnati dopo cena i giovani sposi

nella loro camera, egli si ritirò e s'addormentò, come un bimbo di nulla colpevole, e il

giorno dopo più non ricordava la faccenda dello storione. Ma, ahimè! L'uomo

propone e Dio dispone. La mala lingua aveva fatto la mala opera sua, e nulla giovò

ad Achineiev la sua astuzia! Dopo una settimana giusta, e precisamente il mercoledì

dopo la terza lezione, mentre Achineiev stava in mezzo alla sala degli insegnanti e

parlava delle viziose tendenze dell'allievo Vissekin, gli si avvicinò il direttore e lo

chiamò in disparte.

«Ecco che c'è, Serghéi Kapitonic'» disse il direttore. «Scusate... Non è affar mio,

ma tuttavia devo farvi capire... È mio dovere... Vedete, corrono voci che voi vivete

con quella... con la cuoca... Non è affar mio, ma... Vivete con lei, baciatevela... fate

quel che volete, soltanto, per favore, non così, pubblicamente! Vi prego! Non

dimenticate che siete un educatore!».

Achineiev si sentì gelare e restò di stucco. Come punto da tutto uno sciame d'api ad

un tempo e come annaffiato con acqua bollente, andò a casa. Andava a casa e gli

pareva che l'intera città lo guardasse, come se fosse spalmato di catrame... A casa lo

attendeva un nuovo guaio.

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«Come va che non ingozzi niente?» gli domandò a pranzo la moglie. «A che cosa ti

sei messo a pensare? Pensi agli amoretti? Senti la mancanza di Marfuska? Tutto mi

è noto, maometto33! Della brava gente mi ha aperto gli occhi! U-u-uh... bbbarbaro!».

E giù un ceffone sulla sua guancia!... Egli s'alzò da tavola e, senza sentirsi la terra

sotto i piedi, senza berretto né pastrano, si trascinò dà Vankin. Lo trovò in casa.

«Sei un farabutto tu!» si rivolse Achineiev a Vankin. «Per che cosa m'hai infangato

davanti a tutto il mondo? Per che cosa m'hai lanciato una calunnia?».

«Che calunnia? Che andate a inventare?».

«E chi ha spettegolato dicendo che ho baciato Marfa? Non sei tu, mi dirai? Non sei

tu, brigante?».

Vankin prese a batter gli occhi e ad ammiccare con tutte le fibre del suo viso frusto,

alzò gli occhi all'immagine e proferì:

«Che Dio mi castighi! Che i miei occhi possano scoppiare e io restare stecchito, se

ho detto anche solo una parola di voi! Che io non abbia più né letto né tetto! Sarebbe

poco il colera!...».

La sincerità di Vankin era fuori di dubbio. Evidentemente, non era stato lui a

spettegolare.

«Ma chi è dunque? Chi?» si diede a pensare Achineiev, passando in rassegna nella

sua memoria tutti i propri conoscenti e battendosi in petto. «Chi dunque?».

«Chi dunque?» domanderemo anche noi al lettore...

15 - Il punto esclamativo (Racconto di Natale)

La notte prima di Natale Jefim Fomìc' Perekladin, segretario di collegio, si coricò

impermalito e persino offeso.

«Spicciati, demonio!» ruggì con ira contro la moglie, allorché questa domandò

perché fosse così accigliato.

Il fatto è ch'egli era appena tornato da una serata dov'erano state dette molte cose

sgradevoli ed offensive per lui. Dapprima s'eran messi a parlare dei vantaggi

dell'istruzione in genere, poi inavvertitamente eran passati al grado culturale dei

33 Il nome di Maometto è divenuto in Russia, nella forma machamèt, appellativo popolare ingiurioso.

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signori impiegati, al qual proposito erano state formulate molte lamentele, rimproveri

e perfin derisioni circa il suo basso livello. E qui, come usa in tutte le brigate russe,

dagli argomenti generali eran passati ai casi personali.

«Prendiamo, per esempio, non fosse che voi, Jefim Fomìc'» si era rivolto a

Perekladin un giovinetto. «Voi occupate un posto decoroso... ma che istruzione avete

ricevuto?».

«Nessuna. Né da noi si esige istruzione» aveva risposto con dolcezza Perekladin.

«Scrivi correttamente, ed ecco tutto...».

«Ma dove mai imparaste a scrivere correttamente?».

«Mi ci abituai... In quarant'anni di servizio ci si può far la mano... Certo sul principio

era difficile, facevo degli sbagli, ma poi mi abituai... e non c'è male...».

«E i segni d'interpunzione?».

«Anche per i segni d'interpunzione non c'è male... Li colloco correttamente».

«Uhm...» si confuse il giovinetto. «Ma l'abitudine è tutt'altra cosa dall'istruzione. Non

basta che i segni d'interpunzione li poniate correttamente... non basta! Bisogna porli

consapevolmente! Voi mettete una virgola e dovete aver coscienza del perché la

mettete... sissignore! E questa vostra ortografia incosciente... di carattere riflesso non

val nemmeno un centesimo. È produzione meccanica e nulla più».

Perekladin aveva taciuto e perfin sorriso mansuetamente (il giovinetto era figlio d'un

consigliere di Stato e aveva diritto lui stesso al grado della decima classe34), ma

adesso, coricandosi, egli s'era fatto tutto sdegno e rabbia.

«Ho servito per quarant'anni» pensava, «e nessuno mai mi ha dato dell'imbecille, e

lì guarda un po' che critici si son trovati! Incoscientemente!... In modo riflesso!

Produzione meccanica... Ah, che il diavolo ti porti! Ma io forse ci capisco anche più di

te, per quanto non sia stato nelle tue università!».

Dopo avere mentalmente riversato sul critico tutte le contumelie a lui note ed

essersi scaldato sotto la coperta, Perekladin cominciò a calmarsi.

«Io so... capisco...» pensava, addormentandosi. «Non metterò i due punti là dove ci

vuole la virgola, dunque son consapevole, capisco. Sì... Proprio così, giovanotto...

Prima bisogna vivere un poco, far servizio un poco, e solo poi giudicare i vecchi...».

Negli occhi chiusi di Perekladin che si stava addormentando, attraverso una massa

di scure nuvole sorridenti, passò a volo come una meteora una virgola infocata. 34 Quello cioè, contando dall'alto, di segretario di collegio.

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Dopo di essa un'altra, una terza, e ben presto tutto lo sfondo buio, illimitato, che si

stendeva davanti alla sua immaginazione si coprì di fitte schiere di virgole volanti...

«Prendiamo magari queste virgole...» pensava Perekladin, sentendo le sue

membra dolcemente intorpidirsi a causa del sonno sopravveniente. «Io le capisco

benissimo... Per ciascuna posso trovare il posto, se vuoi... e... e consapevolmente, e

non a casaccio... Esaminami, e vedrai... Le virgole si mettono in vari posti, dove

occorre, e anche dove non occorre. Quanto più imbrogliata riesce la carta, tante più

virgole ci vogliono. Si mettono davanti a "il quale" e davanti al "che". Se nella carta si

devono enumerare degli impiegati, ciascuno di essi va separato con virgola... Lo

so!».

Le virgole dorate presero a girare e fuggirono in disparte. Al posto loro giunsero a

volo dei punti infocati...

«E il punto si colloca alla fine della carta... Dove è necessario fare una grande

pausa e gettare un'occhiata all'ascoltatore, là pure ci vuole il punto, affinché il

segretario, quando leggerà, non resti senza saliva. In nessun altro posto si mette il

punto...». Tornano a piombar le virgole... Si mescolano coi punti, turbinano, e

Perekladin vede tutta una schiera di punti e virgole e di due punti...

«Conosco anche questi...» egli pensa. «Dove la virgola non basta e il punto è

troppo; là ci vuole il punto e virgola. Davanti al "ma" e al "conseguentemente" metto

sempre il punto e virgola... Ebbene, e i due punti? I due punti si mettono dopo le

parole: "abbiamo stabilito", "abbiamo deciso" ...».

I punti e virgola e i due punti si spensero. Venne la volta dei punti interrogativi.

Questi balzarono fuori dalle nuvole e si misero a ballare il cancan...

«Che rarità: il punto interrogativo! Ma fossero anche mille per tutti troverei il posto.

Si collocan sempre quando c'è da fare una richiesta o, poniamo, informarsi di un

documento... "Dove è stato riportato il residuo delle somme per il tale anno?",

oppure: "Non riterrebbe possibile la direzione di polizia che la detta Ivànova

eccetera?"...».

I punti interrogativi presero ad accennare in segno di approvazione coi loro uncini e

istantaneamente, come a un comando, si allungarono in punti esclamativi...

«Uhm!... Questo segno d'interpunzione nelle lettere si colloca spesso. "Mio egregio

signore!"; oppure: "Eccellenza, padre e benefattore! »... Ma nelle carte, quando?».

I punti interrogativi si allungarono anche più e si fermarono in attesa...

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«Nelle carte si mettono, quando... cioè... questo... come sarebbe? Uhm!... In realtà,

quando mai si mettono nelle carte? Un momento... Dio, fammi ricordare. Uhm!».

Perekladin apri gli occhi e si girò sull'altro fianco. Ma non fece in tempo a richiuder

gli occhi, che sul fondo scuro comparvero nuovamente i punti esclamativi.

«Il diavolo li porti... Quando mai bisogna metterli?» pensò, cercando di scacciare

dalla sua immaginazione i non richiesti ospiti. «Possibile che l'abbia dimenticato? O

l'ho dimenticato, oppure... non ne ho mai messi... ».

Perekladin prese a rammentarsi il contenuto di tutte le carte ch'egli aveva scritto

durante i quarant'anni del suo servizio; ma per quanto pensasse, per quanto

corrugasse la fronte, non trovò nel suo passato nemmeno un punto esclamativo.

«Che disdetta! Ho scritto per quarant'anni e neppure una volta ho collocato un

punto esclamativo... Uhm!... Ma quando dunque si colloca, quel diavolo lungo?».

Di dietro la fila degl'infocati punti esclamativi si mostrò il grugno perfidamente

ridente del giovane critico. Gli stessi punti sorrisero e si fusero in un solo grande

punto esclamativo.

Perekladin scosse il capo e aprì gli occhi.

«Il diavolo sa quel che è...» pensò. «Domani, bisogna alzarsi per il mattutino, e a

me non esce di capo questa diavoleria... Poh! Ma... quando mai si mette? Eccoti

l'abitudine! Ecco come ti sei fatto la mano! In quarant'anni nemmeno un punto

esclamativo! Eh?».

Perekladin si fece il segno di croce e chiuse gli occhi, ma subito li riaprì; sul fondo

scuro stava tuttora il grosso punto esclamativo...

«Poh! A questo modo non ti addormenterai in tutta la notte. Marfuscia! » si rivolse a

sua moglie, che spesso si vantava con lui d'aver terminato i corsi in collegio. «Non

sai tu, anima mia, quando si colloca nelle carte il punto esclamativo?

«E come non saperlo! Non per nulla studiai sette anni in collegio. So a memoria

tutta la grammatica. Questo segno si colloca nelle apostrofi, nelle esclamazioni e

nelle espressioni di entusiasmo, di sdegno, di gioia, di collera e di altri sentimenti».

«Ah, così...» pensò Perekladin. «Entusiasmo, sdegno, gioia, collera e altri

sentimenti...».

Il segretario di collegio si fece pensoso... Per quarant'anni aveva scritto carte, ne

aveva scritto delle migliaia, decine di migliaia, ma non ricordava nemmeno un rigo

che esprimesse entusiasmo, sdegno o qualcosa del genere.

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«E altri sentimenti...» pensava. «Ma forse che nelle carte son necessari i

sentimenti? Può scriverle anche una persona insensibile...».

Il grugno del giovane critico tornò ad affacciarsi di dietro al punto infocato e sorrise

perfidamente. Perekladin si sollevò a sedere sul letto. La testa gli doleva, sulla fronte

gli era spuntato un sudore freddo... In un canto ardeva tenue, carezzevole, il lumino

dell'icona, i mobili avevano una aria festiva, linda, da ogni cosa addirittura spirava

calore e presenza d'una mano femminile, ma il povero impiegatuccio sentiva freddo,

sconforto, come se si fosse ammalato di tifo. Il punto esclamativo non si drizzava più

nei suoi occhi chiusi, ma davanti a lui, nella camera, presso la specchiera della

moglie, egli ammiccava beffardamente...

«Macchina scrivente! Macchina!» sussurrava il fantasma, soffiando sull'impiegato

un freddo secco. «Pezzo di legno insensibile!».

L'impiegato si coprì con la coperta, ma anche sotto la coperta vide il fantasma;

appoggiò il viso alla spalla della moglie, e anche di dietro quella spalla spuntava la

stessa cosa... Tutta la notte si tormentò il povero Perekladin, ma anche di giorno il

fantasma non lo lasciò. Egli lo vedeva dappertutto: negli stivali che infilava, nel

piattino del tè, nella croce di Stanislao...

«E altri sentimenti...» pensava. «È vero che non ci fu mai alcun sentimento... Ora

andrò dai superiori a metter la firma... forse che ciò si fa con sentimento? Così, a

casaccio... Macchina da far gli auguri...».

Quando Perekladin uscì in strada e chiamò una vettura, gli parve che, in luogo della

vettura, gli rotolasse incontro il punto esclamativo.

Giunto nell'anticamera del superiore, invece dello svizzero vide quello stesso

segno... E tutto ciò gli parlava di entusiasmo, di sdegno, di collera... Il portapenne col

pennino aveva pure l'aspetto di un punto esclamativo. Perekladin lo prese, intinse il

pennino nell'inchiostro e firmò:

«Segretario di collegio Jefim Perekladin! ! ! ».

E, collocando questi tre segni, egli provava entusiasmo, indignazione, gioia e

ribolliva di collera. «To' questo! To' questo! » mormorava, premendo sul pennino.

Il segno infocato fu pago e scomparve.

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16 - Il camaleonte

Attraverso la piazza del mercato va il commissario rionale di polizia Ociumielov in

cappotto nuovo e con un fagottino in mano. Dietro a lui cammina una guardia dai

capelli rossicci con un setaccio colmo fino all'orlo di uva spina sequestrata. All'ingiro

silenzio... Sulla piazza non un'anima... Le porte aperte delle botteghe e delle bettole

guardano tristemente il mondo creato, come fauci affamate; accanto ad esse non ci

sono neppur mendicanti.

«E così tu mordi, maledetto! » ode a un tratto Ociumielov. «Ragazzi, non, lasciatelo

scappare! Oggidì è proibito mordere! Tienlo! A... ah! ».

Si sente uno strillo canino. Ociumielov guarda da un lato e vede che dal deposito di

legna del mercante Piciughin, saltando su tre zampe e voltandosi indietro, corre via

un cane. Lo rincorre un uomo in camicia di percalle inamidata e panciotto sbottonato.

Gli corre dietro e, sporgendosi col corpo in avanti, cade a terra e afferra il cane per le

zampe posteriori. Si sente un secondo guaito e il grido: «Non lasciarlo andare!».

Dalle botteghe si affacciano fisionomie assonnate e ben presto vicino al deposito di

legna, come spuntata di sotterra, si raduna una folla.

«Qualche disordine, pare, signoria!...» dice la guardia.

Ociumielov fa un mezzo giro a sinistra e va verso l'assembramento. Proprio vicino

al portone del deposito vede che sta l'uomo sopra descritto e, levando in alto la mano

destra, mostra alla folla un dito insanguinato. Sulla sua faccia semiebbra par che sia

scritto: «Ora ti stronco furfante!» e anche il dito stesso ha l'aspetto d'un segno di

vittoria. In quest'uomo Ociumielov riconosce l'orefice Chriukin. Al centro della folla,

con le zampe anteriori divaricate e tremante in tutto il corpo, è accovacciato al suolo

l'autore dello scandalo in persona: un cucciolo bianco di levriero dal muso aguzzo e

con una macchia gialla sul dorso. Nei suoi occhi lacrimosi è un'espressione

d'angoscia e di sgomento.

«Che cosa succede qui?» domanda Ociumielov, fendendo la folla. «Perché questo?

Perché mostri il dito?... Chi ha gridato?».

«Io vado, signoria, e non tocco nessuno...» comincia Chriukin, tossendo nella

mano, «sto parlando della legna con Mitri Mitric', e tutt'a un tratto questo vigliacco,

che è che non è, mi morde il dito... Voi mi scuserete, io sono un uomo che lavora... Il

mio è un lavoro minuto. Bisogna che mi indennizzino, perché io con questo dito forse

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per una settimana non farò un movimento... Anche nella legge, signoria, non sta

scritto che da una bestia si debba tollerare... Se ognuno potrà mordere, sarà meglio

neppur vivere al mondo...».

«Uhm!... Bene...» dice Ociumielov severamente, tossendo e movendo i sopraccigli.

«Bene... Di chi è il cane? Io non la lascerò così.. V'insegnerò a lasciar liberi i cani! È

ora di rivolger l'attenzione a simili signori che non vogliono sottostare alle

disposizioni! Quando gli daranno una multa, al mascalzone, imparerà da me che

cosa voglion dire i cani e le altre bestie randagie! Gli farò veder io!... Eldirin» si

rivolge il commissario alla guardia, «cerca di sapere di chi è il cane e stendi il

verbale! E il cane va soppresso. Senza indugio! Di sicuro è arrabbiato. Di chi è il

cane, domando?».

«A quanto pare è del generale Zigalov! » dice qualcuno della folla.

«Del generale Zigalov? Uhm!... toglimi un po' il cappotto, Eldirin... Fa un caldo

terribile! S'ha da supporre che stia per piovere... Una sola cosa non capisco: come

ha potuto morderti?» si rivolge Ociumielov a Chriukin. «Forse che può arrivarti al

dito? È piccolo, e tu guarda li che uomo grande e grosso sei! Tu probabilmente ti sei

graffiato il dito con un chiodino, e poi t'è venuta in testa l'idea di spillar quattrini. Tu,

già... che gente siete si sa! Vi conosco, diavoli! ».

«Lui, signoria, gli ha premuto il sigaro sul naso per divertirsi, e lui, non essendo

stupido, zaff... Un attaccabrighe, signoria!».

«Mentisci, guercio! Non hai visto, e quindi perché mentire? Sua signoria è un

signore intelligente e capisce chi dice bugia e chi parla in coscienza, come davanti a

Dio... E se io mentisco, ne giudichi il conciliatore. Da lui, nella legge è detto... Oggidì

tutti sono uguali... Io stesso ho un fratello nei gendarmi... se volete sapere...».

«Non discutete!».

«No, non è del generale...» osserva significativamente la guardia. «Il generale di

così non ne ha. Lui ha soprattutto dei cani da fermo...».

«Lo sai di sicuro?».

«Di sicuro, signoria...».

«Lo so anch'io. Il generale ha dei cani di prezzo, di razza, e questo lo sa il diavolo

che cos'è! Né pelo né figura... una cosa ignobile, nient'altro... E tenere un simile

cane?!... Ma dove ce l'avete l'intelligenza? Se s'incontrasse un cane simile a

Pietroburgo o a Mosca, sapete che avverrebbe? Là non guarderebbero nella legge,

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ma sul momento: muori! Tu, Chriukin, hai patito un danno e non lasciar questa

faccenda così... È necessario, dare una lezione! È ora...».

«Ma fors'anche è del generale... » pensa ad alta voce la guardia. «Sul muso non ce

l'ha scritto... Giorni fa nel suo cortile ne vidi uno, così».

«Si sa, è del generale!» dice una voce dalla folla. «Uhm!... Mettimi addosso, caro

Eldirin, il cappotto... Tira un po' di vento... Ho dei brividi... Tu lo porterai dal generale

e là domanderai. Dirai che l'ho trovato e mandato io... È di' che non lo lascino andar

sulla strada... Forse è di prezzo, e se ogni porco gli premerà il sigaro sul naso, ci

vorrà molto a rovinarlo? Il cane è una bestia delicata... E tu, tanghero, abbassa la

mano! Non hai da mettere in mostra il tuo stupido dito! Tu stesso ci hai colpa!...».

«Viene il cuoco del generale, gli domanderemo... Ehi, Prochor! Vieni un po' qua,

caro! Da' un'occhiata al cane... È vostro?».

«Che idea! Di simili da noi non ce ne sono stati mai».

«E qui non c'è da far tante domande» dice Ociumielov. «È un cane randagio! Non

c'è da far lunghi discorsi... Se ho detto ch'è randagio, vuol dire ch'è randagio...

Sopprimerlo, ecco tutto».

«Non è nostro» continua Prochor. «È del fratello del generale, ch'è arrivato l'altro

giorno. Il nostro non è amante dei levrieri. Suo fratello ci ha passione...».

«Ma che è arrivato suo fratello? Vladimir Ivanic'? » domanda Ociumielov, e tutta la

sua faccia s'inonda d'un sorriso d'intenerimento. «Guarda un po', Signore! E io che

non lo sapevo! È venuto in visita per un po' di tempo?».

«In visita...».

«Guarda un po', Signore!... Sentiva la mancanza del fratello... E io nemmeno lo

sapevo! Così questo è il suo cagnolino? Molto piacere... Prendilo... Il cagnuzzo non è

male... È così vispo... Ha dato un morso a costui nel dito! Ah-ah-ah!... Su via, perché

tremi? Rrr... Rr... Si arrabbia il briccone... è un tal cagnetto...».

Prochor chiama il cane e s'allontana con esso dal deposito di legna... La folla ride

forte di Chriukin. «Arriverò ancora fino a te!» lo minaccia Ociumielov e, chiudendosi

nel cappotto, continua il suo cammino per la piazza del mercato.

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17 - Non c'è fuoco senza fumo35

Con una troica privata, per strade vicinali, osservando il più rigoroso incognito, Piotr

Pàvlovic' Possudin s'affrettava verso la cittaduzza distrettuale di N., dove lo

chiamava una lettera anonima da lui ricevuta.

«Sorprenderli... Come tegola sul capo» pensava egli, nascondendo il suo viso nel

bavero. «Han fatto un mucchio d'infamie, gli sporcaccioni, e trionfano, scommetto, si

immaginano d'aver fatto sparire ogni traccia... Ah-ah!... Immagino il loro sgomento e

la loro meraviglia quando, sul più bello del trionfo, si udrà: "Si faccia venir qui

Tiapkin-Liapkin!". Sì che succederà uno scompiglio! Ah-ah!...».

Dopo aver fantasticato a sazietà, Possudin entrò in discorso col suo guidatore. Da

uomo bramoso di popolarità, innanzi tutto gli domandò di sé:

«E Possudin lo conosci?».

«Come non conoscerlo!» fece un sorrisetto il guidatore. «Lo conosciamo!».

«Ma perché ridi?».

«Che bizzarria! Conosco fin l'ultimo scrivano, e non dovrei conoscere Possudin!

Appunto è stato messo qui perché tutti lo conoscano».

«È così... Ebbene? Com'è, secondo te? Bravo?».

«Non c'è male...» sbadigliò il guidatore. «Un bravo signore, sa il fatto suo... Non

sono ancora due anni che lo mandarono qua, e già ha fatto un mucchio di cose».

«E che ha fatto di tanto speciale?».

«Molto di bene ha fatto, che Dio lo conservi in salute. La ferrovia ci ha procurato,

nel nostro distretto ha mandato via Chochriukòv... Non c'eran limiti per questo

Chochriukòv... Era un briccone, uno scroccone, tutti quelli di prima gli tenevan mano,

ma arrivò Possudin, e Chochriukòv se n'andò al diavolo, come se mai ci fosse stato...

Ecco, fratello! Possudin, fratello, non lo comprerai, no-o! Dagliene magari cento,

magari mille, ma lui non si prenderà un peccato sulla coscienza... No-o!».

«Sia lode a Dio, almeno da questo lato m'hanno capito» pensò Possudin,

esultando. «Ciò è bene».

«Un signore istruito...» continuò il guidatore, «non superbo... I nostri andarono da

lui, a lagnarsi, li trattò come i signori: la mano a tutti: "Voi, sedete"... Così impetuoso,

35 Traduzione libera del titolo russo: «La lesina nel sacco», sottinteso: «non la nasconderai». È questo un proverbio che corrisponde al nostro, con cui l'abbiamo pertanto sostituito nel titolo.

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pronto... Una parola sensata non te la dirà, ma sempre: uff! uff! Che ti vada al passo,

o altrimenti, Dio mio, non c'è verso, ma tira a far tutto di corsa, tutto di corsa! I nostri

non fecero in tempo a dirgli una parola, che lui: "I cavalli!", e difilato qua... Arrivò e

regolò tutto... nemmeno una copeca prese. Quanto meglio del precedente! Certo,

anche il precedente era bravo. Di così bella apparenza, grave, nessuno gridava più

sonoramente di lui in tutta la provincia... Quando veniva, lo si poteva sentire da dieci

verste lontano; ma, se si tratta di rapporti esteriori, o di faccende interne, quello di

adesso quanto è più abile! Quello di adesso di cervello in testa ne ha cento volte di

più... Un sol guaio... È in tutto un brav'uomo, ma c'è una disgrazia: è beone! ».

«Eccoti il contentino! » pensò Possudin.

«Come sai» domandò, «che io... ch'è un beone?».

«Certo, signoria, io personalmente non l'ho mai visto ubriaco, non starò a mentire,

ma la gente lo diceva. Anche la gente ubriaco non l'ha visto, ma sul conto suo corre

tale voce... In pubblico, o dove va in visita, al ballo o in società, non beve mai. A casa

alza il gomito... Si leva al mattino, si frega gli occhi e per prima cosa: della vodka! Il

cameriere gliene porta un bicchiere, e lui ne chiede già un altro... E così tracanna

tutto il giorno. E dimmi di grazia: beve, e non un occhio lo vede! Dunque sa

dominarsi. Quando si metteva a bere il nostro Chochriukòv, non soltanto gli uomini,

ma perfino i cani urlavano. Possudin invece... almeno gli si arrossasse il naso! Si

chiude nel suo studio e lappa... Perché la gente non se n'accorgesse, s'è fatto

adattare nella scrivania un certo cassetto, con una cannuccia. In quel cassetto c'è

sempre della vodka... Si china sulla cannuccia, succhia un poco, ed è ubriaco... In

carrozza pure, nella borsa delle carte...».

«Come lo sanno?» si sbigottì Possudin. «Dio mio, perfin questo è noto! Che

schifezza...».

«E anche per quanto riguarda il sesso femminile, ecco... Un briccone!» il guidatore

si mise a ridere e crollò il capo. «Uno sconcio, e basta! Ne ha una decina di quelle...

girandole... Due gli abitano in casa... Una, quella Nastassia Ivànovna, è da lui come

a dire in luogo di amministratrice, l'altra, come si chiama, diavolo?, Liudmila

Semiònovna, a mo' di scritturale... Più importante di tutte è Nastassia. Ciò che questa

vuole, lui lo fa sempre... Lo fa girare come la volpe la coda. Grandi poteri le furon

dati. E non hanno tanta paura di lui come di lei... Ah-ah!... E una terza girandola abita

in via Kaciàlnaia... Uno scandalo! ».

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«Perfin di nome le conosce» pensò Possudin, arrossendo. «E chi poi le conosce?

Un contadino, un vetturale... che non è neanche mai stato in città!... Che infamia... è

una schifezza... una trivialità!».

«Ma tu come sai tutto questo?» domandò con voce irritata.

«La gente lo diceva... Io stesso non ho visto, ma ho sentito dalla gente. Ma che è

difficile saperlo? A un cameriere o a un cocchiere non taglierai la lingua... E poi,

penso, la stessa Nastassia se ne va per tutti i chiassuoli e si vanta della sua fortuna

di donna. Agli occhi della gente non ci si nasconde... Ecco, ha preso anche il vezzo

questo Possudin di andare in ispezione alla chetichella... Quello di prima, quando

voleva andare in qualche posto, lo faceva sapere un mese avanti, e quando

viaggiava, tanto di quel chiasso, fracasso e scampanio... ce ne preservi il Creatore!

Davanti a lui si galoppava, dietro a lui si galoppava, ai fianchi si galoppava. Giunto

sul posto, faceva una buona dormita, mangiava e beveva a sazietà, e avanti a

sbraitare per le cose di servizio. Sbraitava un poco, pestava un po' i piedi, faceva

un'altra dormita e con lo stesso sistema tornava indietro... Quello di adesso invece,

come sente dire qualcosa, cerca di partire di soppiatto, in fretta, perché nessuno

veda né sappia... È uno spa-as-so! Esce inosservato di casa, in maniera che

gl'impiegati non lo vedano, e via in treno... Arriva alla stazione che gli occorre, e non

già dei cavalli di posta, o qualcosa di meglio, ma un contadino cerca di noleggiare.

S'avviluppa tutto, come una donna, e per tutta la strada borbotta rauco, come un

vecchio cane, perché non riconoscano la sua voce. C'è semplicemente da strapparsi

le budella dal ridere, quando la gente racconta. Viaggia il babbeo e crede che sia

impossibile riconoscerlo. E riconoscerlo, per uno che se n'intende, poh!, è come

sputare una volta!...».

«Ma come fanno a riconoscerlo?».

«È semplice assai. Prima, quando viaggiava alla chetichella il nostro Chochriukòv,

noi lo riconoscevamo dalle sue mani pesanti. Se il passeggero ti picchia sui denti,

vuol dire che quello è Chochriukòv. Ma Possudin lo si può scoprir subito... Un

semplice passeggero si comporta anche semplicemente, ma Possudin non è fatto

per osservare la semplicità. Arriva, mettiamo, a una stazione di posta, e comincia!...

Per lui c'è puzzo, e si soffoca, ed è freddo... A lui servi pure pollastrini, e frutta, e

conserve d'ogni sorta... Così alle stazioni lo sanno: se qualcuno d'inverno chiede

pollastrini e frutta, quello è Possudin. Se qualcuno dice al mastro di posta:

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"Carissimo", e fa correr la gente per varie bazzecole, si può giurare ch'è Possudin. E

non manda l'odore dell'altra gente, e si corica alla sua maniera... Si stende alla

stazione su un divano, intorno a sé spruzza profumi e ordina di porre accanto al

guanciale tre candele. Sta coricato e legge delle carte... Qui poi non solo il mastro di

posta, ma anche un gatto raccapezzerà che uomo è quello».

«È vero, è vero...» pensò Possudin. «E come mai prima non lo sapevo?».

«Ma quello a cui occorre lo riconoscerà anche senza frutta e senza pollastrini. Per

telegrafo tutto è noto... Comunque t'imbacucchi il grugno, comunque ti nasconda, qui

tutti già sanno che vieni. Aspettano... Possudin non è ancora uscito di casa sua, e

qui ormai: favorisci, tutto è pronto! Lui arriva per coglierli sul fatto, mandarli sotto

processo, o sostituire qualcuno, e son loro a farsi beffe di lui. Anche se tu,

eccellenza, dicono, sei arrivato alla chetichella, guarda pure: da noi tutto è pulito!...

Lui si rigira, si rigira, poi se ne va come è venuto... E li loda anche, stringe le mani a

tutti, chiede scusa per il disturbo... Ecco com'è! E tu che cosa credevi? Oh-oh,

signoria! La gente qui è furba, uno più furbo dell'altro!... Fa piacere veder che razza

di diavoli! Sì, ecco, prendiamo anche solo il caso odierno... Me ne vado stamane

senza carico, e dalla stazione mi vola incontro un giudeo, il credenziere. "Dove, va"

domando, "vossignoria giudaica?". E lui dice: "Porto vino e antipasti nella città di N.

Là oggi aspettano Possudin". Furbi, eh? Possudin forse si prepara ancor soltanto a

partire, o s'avviluppa la faccia perché non lo riconoscano. Forse già è in viaggio e

pensa che nessuno sa ch'egli viene, e già per lui, dimmi di grazia, son pronti e vino, e

salmone, e formaggio, e antipasti svariati... Eh? Lui viaggia e pensa: "Va male per

voi, ragazzi!", e i ragazzi se n'infischiano. Venga, pure! Da un pezzo ormai hanno

nascosto tutto!»

«Indietro!» gridò rauco Possudin. «Torna indietro, bbbestione! ».

E il guidatore meravigliato voltò indietro.

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18 - La maschera del riso di Caterina Graziadei

Di che ridete? Di voi stessi ridete!

Gogol': Il Revisore

Il travestimento letterario vanta in Russia una propria genealogia che dal

celebre Koz'ma Prutkov - scudo sonoro che dava protezione a ben tre autori di

brillanti aforismi nella seconda metà dell'Ottocento - giunge vitale al binomio

satirico di Il'f e Petrov nel periodo della Nep. Allo pseudonimo è applicata la

prima legge del comico verbale: l'abbassamento di grado, di stile, ottenuto con la

storpiatura fonetica, lo slittamento semantico, l'accento caricaturale.

Cifrando la propria identità di studente di medicina e poi di medico sotto

altrettante maschere verbali o sciarade in forma di bisticci logici, Čechov firma

«scenette», racconti brevi, a volte didascalie per vignette con «Il fratello di mio

fratello», «Un giovane vegliardo», «L'uomo senza milza», «Ulisse». Più spesso

compare l'anagramma Antoša Čechonte, appena una variazione sul vero nome

del medico di Taganrog che comincia ad affermarsi a Mosca.

Le riviste umoristiche, come già all'epoca di Caterina II i giornali satirici,

esibivano nomi sonanti, bizzarri e allusivi che rinnoveranno ancora negli anni

Venti di questo secolo la tradizione letteraria del comico. Così Anton Čechov, agli

esordi, pubblica su «La libellula», «La sveglia», «Il grillo», fino all'incontro con

Nikolaj Lejkin, direttore del prestigioso periodico di Pietroburgo «Schegge», che

pagherà il giovane collaboratore otto copeche a riga, contro le cinque fino ad

allora percepite, lasciando tuttavia inalterate le regole del «genere»: brevità,

leggerezza, comicità, nessuna allusione politica.

Apprezzati dagli assidui lettori dei supplementi letterari, e soprattutto dei fogli

umoristici che negli anni Ottanta si erano guadagnati un ampio pubblico, i

racconti di Antoša Čechonte cominciarono ad apparire anche ai critici della

letteratura alta come un'opera dotata di coerenza interna, costruita seguendo

precise e riconoscibili leggi.

La «briciola», la scenetta, il racconto umoristico, il racconto lirico, il romanzo-

feuilleton e il vaudeville - ovvero il variegato spettro della bul'varnaja literatura

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dell'epoca - offrono materiale a Cechov che «tranne il romanzo, la poesia e la

denuncia» dichiarava di aver «sperimentato tutto», «ogni sciocchezza».

«Briciola», facezia, aforisma, dialogo breve, aneddoto rappresentano quasi

un'analogia prosastica dell'epigramma. E i racconti di questo primo periodo

conservano evidente il sigillo originario dell'aneddoto, il suo nucleo paradossale,

la condensazione del tempo, l'intento comico. Quando dagli anni Novanta

prenderà forma il racconto lungo, con la complicazione dell'intreccio e lo sviluppo

dell'analisi psicologica, l'aneddoto vi rimarrà incluso come una «scheggia». Del

resto l'aneddoto è tuttora una delle forme più diffuse di folclore urbano e ad esso

si rifanno i soggetti di molti classici della letteratura russa, dal Conte Nulin alla

Tesoreria di Tambov, dalle Anime morte alle Dodici sedie.

Con sicuro intuito delle leggi della composizione e una rara capacità di

sviluppare l'intreccio (sjužet)36, Čechov scriveva al fratello Aleksandr l'11 aprile

1889: «Si può anche fare a meno della fabula, ma l'intreccio deve essere

nuovo». E la ricerca dei «soggetti» narrativi, lo scambio di spunti, se non

addirittura il loro furto letterario, costituisce un capitolo esilarante e curioso della

letteratura russa. Čechov sembrava dare poca importanza alle storie da scrivere,

era sempre alla ricerca di materiale grezzo, ne chiedeva agli amici, ai letterati:

«Merci per i soggetti. Ah! come mi occorrono! Ho detto tutto quel che avevo da

dire e sono a secco... Altri cinque o sei anni, e non sarò più in grado di produrre

nemmeno un racconto all'anno» dichiarava all'idolo dei feuilletonistes russi Viktor

Bilibin (lettera del 28 febbraio 1886). Parimenti manifesta noncuranza verso il

proprio lavoro letterario e confessa a Dmitrij Grigorovič, che si farà un vanto di

averlo scoperto, - «non ricordo d'aver lavorato più di una giornata a nessun

racconto; e quanto al Cacciatore, che vi è piaciuto, l'ho scritto in una cabina di

bagni. Come i cronisti scrivono i loro trafiletti sugli incendi, così io buttavo giù i

miei racconti: macchinalmente, quasi inconsciamente, senza darmi pensiero né

del lettore, né di me stesso... » (lettera del 28 marzo 1886).

Tra i numerosi autori di bozzetti, scenette, racconti comici, Antoša Čechonte

venne presto riconosciuto come uno fra i più promettenti e il pubblico, così

spesso tacciato di aver gusti volgari, percepì in lui l'innovatore di cui ormai aveva

bisogno.

36 V.B. ŠkIovskij, Una teoria della prosa, De Donato 1966, p. 79.

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Poiché Čechov insegna la distanza, il gusto letterario, ostenta il tono della

modestia del narratore. Possedeva con le parole di Mirskij «il nobile dono del

paradosso che avvicina l'uomo agli dei», in lui c'erano «spirito, controllo,

grazia»37, mentre i giornali umoristici del tempo esibivano una notevole gamma

di volgarità, cattivo gusto, banalità letteraria, ospitando il più delle volte una

produzione di infimo livello. Accanto alla caricatura, la via più spiccia del riso

elementare, l'umorismo significa invece controllo dei mezzi espressivi, voluto

denudamento del ridicolo che smaschera i difetti, percepiti come infrazione di

una norma, o spirituale o fisica38, che Čehov chiamava «denuncia del costume».

Come avviene per il Witz, esso si vale della complicità di un terzo, in questo caso

il lettore, a cui di frequente Čechov si rivolge, con una mimica che scomparirà

dopo gli anni Novanta39.

Intrecciata all'umorismo, fa la sua comparsa la parodia letteraria, quale

consapevole forma di analisi stilistica che organizza la materia di molti racconti.

Essa dirige soprattutto verso la produzione della letteratura bassa, avidamente

consumata dal vasto pubblico delle riviste umoristiche e dei feuilletons.

Letteratura ai margini, eppure dotata anche essa di proprie regole, interdizioni,

idoli. Prestando fede all'affermazione di Viktor Šklovskij che la letteratura

prolifichi non in linea retta, ma «di sghembo», trasmettendo l'eredità genetica in

diagonale, ovvero «da zio a nipote», la parodia diviene allora un genere

statutario di superamento. Si direbbe che un autore riesca a liberarsi da un

tema, a superarlo, distanziarlo fino a renderlo inattivo, servendosi dello

spostamento parodistico. Così Puškin degrada la statua terrifica del Cavaliere di

bronzo, miniaturizzata nel Galletto d'oro, sostituendo al sovrano-taumaturgo,

all'autocrate Pietro, un pigro, lascivo, vecchio re da burla40, e Dostoevskij si

sbarazza dell'ingombrante eredità del riso gogoliano che riappare alterato nella

sua opera41. Altrettanto (Čechov utilizza il materiale, i clichés della letteratura

contemporanea, distruggendo stereotipi e consuetudini di gusto attraverso un

37 D.S. Mirskij, Storia della letteratura russa, Garzanti 1965, p. 382. 38 Cfr. V. Propp, Comicità e riso, Einaudi 1988, pp. 167-168. 39 Cfr. A. Čudakov, Poetika Čechova, Moskva 1971, pp. 23-31. 40 Cfr. R. Jakobson, La statua niella simbologia di Puškin, in Poetica e poesia, Einaudi 1985, pp. 80-99. 41 Cfr. J. Tynjanov, Dostoevskij e Gogol'. Per una teoria della parodia, in Avanguardia e tradizione, Dedalo 1968, pp. 135-171.

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calcolato impiego della parodia, ottenuta con i minimi pesi dello speziale. Talora

si cimenta nella stilizzazione, che vive come la parodia una doppia vita: dietro il

piano dell'opera s'intravede sempre il piano stilizzato, in Čechov spesso di

ascendenza gogoliana, come per i deliri ossessivi dei piccoli impiegati nel Diario

di un aiuto contabile, Il punto esclamativo o nel Leone e il Sole.

Scorrendo le lettere degli anni Ottanta-Novanta, soprattutto quelle indirizzate ai

famigliari, sembra talora di essere capitati tra le sue migliori righe umoristiche:

soprattutto la provincia, l'odiata, polverosa Taganrog dell'infanzia, deserta come

una Pompei, diviene fondaco inesauribile di vignette esilaranti, personaggi,

notazioni aneddotiche. Colpisce il carattere gogoliano di certi ceffi come quel tal

Pochlebin, «un individuo con le fedine e una testa che pare un ramolaccio con la

coda in su» oppure «quello spermatozoo, quel bacherozzolo poliziesco di Anisin

Vasilevič».

A Gogol' rinvia l'attenzione per la moda, per il dettaglio dell'abbigliamento:

«A.F. Djakontov continua a essere sottile come una viperetta; porta certe

brachettine di calicò e un padellino a guisa di berretto». A volte diventa un

esercizio di stilizzazione, come nella veduta di Via Bol’šaja, un'inequivocabile

Prospettiva della Neva: «A sinistra passeggiano gli aristocratici, a destra i

democratici. Un profluvio di signorine: capelli color stoppa, musetti scuri, greche,

russe, polacche (...) Sono di moda gli abiti color oliva, con la camicetta» (lettera

del 7-19 aprile 1887 alla sorella Maša). Tema costante dell'epistolario l'ironico

motivo corporale del rendiconto sul «catarro intestinale» o «le emorroidi» che

sovente intercala la narrazione sugli abitanti della provincia, le loro consuetudini,

i tic, le liste dei cibi offerti nei vari pranzi, gli ultimi pettegolezzi. Molti dei temi e

alcuni ritratti, lo stile di queste lettere, con le digressioni liriche del paesaggio e

la beffarda ironia, sono materiale proprio della scrittura čechoviana.

La perizia di Čechov, nel complicare il tema aneddotico - muovere da un nucleo

minimale, quasi un germe comico, e costellarlo di altrettante situazioni -

dinamizza il racconto breve, sospingendolo a volte verso la farsa, a volte verso la

satira. Nella strategia dell'umorismo da lui impiegata possono convergere in uno

stesso racconto più procedimenti, con un effetto inusuale di compressione: la

sorpresa, il contrasto, l'accostamento inatteso di fenomeni dissimili, il principio

della doppia azione, ovvero l'universo della duplicità che è all'origine del comico.

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E i titoli dei primi racconti, con un adagio, un motto, quando sembrano

anticipare l'azione narrativa o la caratteristica dell'eroe, segnalare per sintesi il

focus, denominando una professione o un oggetto, alla lettura rivelano invece

un'ambivalenza. La parola del comico mostra allora la propria duplicità: essa

significa altro, se non il contrario, da quel che annunciava, così il titolo si trova

sovente in posizione di contrasto con il contenuto del racconto, secondo una

doppia prospettiva, un punto di vista insolito sulla realtà, che si apre al lettore

come il corpo ambiguo del Sileno di Alcibiade. Anche quando la contrapposizione

non è marcata, il titolo conserva tuttavia un lieve slittamento semantico.

Altrettanto conflittuale risulta lo svolgersi dell'intreccio, sicché l'esordio lirico o

drammatico risolve in comico improvviso o viceversa il riso si va complicando di

sfumature psicologiche, assumendo la maschera del «serio». Allo stesso modo la

conclusione riserva uno scioglimento a sorpresa, accentua «l'attesa delusa» che

prepara il riso, e più tardi rinvierà a un oltre temporale, al di là dei margini della

narrazione.

A ben, guardare, i primi personaggi čechoviani difficilmente si distinguono,

usufruiscono di una forma di anonimato, sono più tipi che personaggi, poiché la

loro individualità emerge solo nella situazione42. Essi vivono ancora dei retaggi

letterari della provincia russa o dell'usad'ba (la proprietà di campagna) oppure

s'inseriscono nell'indistinto brulichio della grande città, portatori di un grado o di

una professione.

Dai racconti degli anni Ottanta si potrebbe con agio trarre un catalogo, quasi un

prontuario di situazioni e procedimenti, che poggiano su una forte

consapevolezza stilistica. Prenderà forma una specie di emboîtement del comico,

una concatenazione assai ritmata di unità minime, «briciole» di riso che si

compongono in una macrostruttura.

Ed ecco l'equivoco, il calembour, lo scandalo, la parodia letteraria, la gag

clownesca, la burla, l'alogismo, la «maschera verbale» e la «maschera cosale», e

ancora una serie di sottogruppi, tecniche ausiliarie del riso. Come ad esempio i

«nomi parlanti», che hanno sempre avuto largo impiego nelle commedie e nelle

opere comiche, con riferimento al carattere o alla funzione dei personaggi. In

Čechov i nomi sono connessi alle caratteristiche o alla posizione sociale di chi li

porta; ad esempio: lo sposo Epaminond Maksimovič Aplombov, il bettoliere

42 L. Ginzburg, O literatumom geroe, Leningrad 1979, p. 72.

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Samopljuev (Sispùta; dalla radice di sé e sputo), l'ospite straniero Padekuà, il

protagonista del Camaleonte Ociumielov (Appestato), l'ispettore Possudin

(Inquisito, un neologismo composto dal prefisso sotto e dal sostantivo giudizio),

il suonatore di contrabbasso Smic'kòv (Archetti), l'aiuto contabile Glotkin

(Ingolla) e così per un lungo catalogo parlante che suscita complicità immediata

nel lettore russo. Altrettanto evidente risulta la gamma della screziatura

linguistica, che muove al riso per la maldestrezza con cui il sempliciotto cerca di

complicare il proprio linguaggio, infiorettandolo di locuzioni o singole parole

preziose, solitamente storpiate e adoprate a sproposito, o per l’enfasi, altrettanto

risibile, del burocrate che si gonfia le gote di espressioni curiali e citazioni,

anch’esse in contrasto comico con la situazione.

Il cognome cavallino designa così sin dal titolo l'ambito del riso: il nome

parlante, la «maschera verbale» accompagna il dilagare della trovata comica che

procede per cumulazione, principio diffuso nelle fiabe di magia, che qui s'ingegna

nell'inesauribile onomastica, uno stemma lessicale fiorito attorno alla parola

cavallo.

Il crescendo dei rimedi, quasi un'eco delle «grida» nella piazza medievale43,

ricorda l'affannarsi attorno al Malato immaginario. La fulminea risoluzione lega

questo schema al racconto della Lota, dove più sonoro echeggia il riso del folclore

con lo sdoppiamento fisico dei due personaggi iniziali: il carpentiere Gherassim,

«un contadino alto, scarno, dalla testa rossa, ricciuta e il viso irto di peli» e il

basso carpentiere Ljubim, «un giovane contadino gobbo dal viso triangolare e gli

occhietti stretti da cinese». Presto raggiunti da una teoria variegata di «buffi»,

parade clownesca cui ultimo tiene dietro il pastore Efim, «vecchio decrepito con

un occhio solo e la bocca storta», seguito dalle «pecore, dopo di esse i cavalli,

dopo i cavalli le vacche». Si forma un corteo, si accumulano le persone attorno a

qualcosa che perde di senso e d'importanza: un capriccioso incantesimo - il

pesce ha sempre una connotazione magica nelle fiabe russe - annulla distanze

sociali, ranghi, imponendo a tutti una simbolica nudità, per poi di colpo

volatilizzarsi secondo il modello del «molto rumore per nulla».

43 Cfr. M. Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi 1979, pp. 202-204.

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Il racconto Gli stivali dà riprova di quanto tenace sia la tradizione dello «stolto»

del folclore russo, colui che inconsapevolmente svela l'inganno, palesa

l'ingiustizia, mettendo a soqquadro la «norma» dei ruoli sociali con un

comportamento alogico44, condotto per assurdo sino ai toni della pochade.

Murkin, l’accordatore di pianoforte, il babbeo con il «viso giallo, il naso

tabaccoso, la voce tintinnante», appare una variante russificata dell'ostinato, del

pedante Manfùrio beffato nel Candelaio di Bruno, sicché il racconto di Čechov

potrebbe quasi illustrare la massima di Erasmo - «non v'è sciocchezza maggiore

del senno intempestivo e così non v'è imprudenza maggiore della prudenza

intesa a rovescio».

Al motivo dell'equivoco, dello scambio d'abito si intreccia qui il motivo della

finzione teatrale, della maschera, nell'ambiente del teatro di provincia, che tanta

parte avrà nell'opera di Čechov. Nella categoria degli inopportuni, suscitatori di

scandali inattesi, si dovrà annoverare anche l'ignaro invitato alle nozze, il

telegrafista Blincikov (Frittellini) che parla a sproposito, «per dritto e per

traverso», scompigliando le regole di vita del Vicolo Piatisobaci (Cinquebotoli) nel

Matrimonio di calcolo.

Analogo effetto di comicità è prodotto dall'ottusa, violenta ostinazione del

maestro di cappella (forse un riferimento autobiografico allo stolido autoritarismo

del padre, Pavel Egorovič Čechov) nel racconto del 1884 Dalla padella nella

brace. La canonica lite per contumelie, valendosi della ripetizione e di un

assommarsi di coinvolgimenti lungo una «scala comica» in crescendo, giunge

all'esito estremo della «esclusione dal gruppo». Chi deve scusarsi offende e

nell'offesa trascina l'intera gerarchia giudiziaria: dallo scrivano della polizia

all'avvocato, dal delegato di sezione al giudice conciliatore.

Molti racconti potrebbero ancora raggrupparsi entro l'ampia genealogia del

cacciatore cacciato o del burlatore burlato, quando lo scioglimento contraddice

l'inizio e la narrazione, quasi dalla sua metà, procede simmetricamente a ritroso,

invertendo l'intenzione dell'esordio. Così la sensale di matrimoni nel Lieto fine si

troverà soppesata e «sposata» con un effetto parodistico sulle regole del buon

governo della casa e sulla norma del buon senso comune. Oppure Non c'è fuoco

senza fumo, dove il viaggio dell'ispettore Possudin non ha luogo nella realtà,

44 Cfr. D. Lichačëv-A. Pančenko, Smechovoj mir drevnei Rusi, Leningrad 1976, pp. 150-152.

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bensì unicamente nella narrazione «rovesciata» del vetturale. La particolare

coloritura gogoliana poggia non solo sulla situazione, ma anche su espliciti

riferimenti, come il nome del vanesio giudice Liapkin-Tiapkin (Ciaccola-ciarla) del

Revisore, qui capovolto in Tiapkin-Liapkin. Gogoliana è inoltre l'amplificazione

involontaria della Calunnia, che si potrebbe annoverare tra i casi di «perversa

prudentia nihil imprudentius», oppure tra quelli del «chi la fa l'aspetti».

L'elenco si allunga con il principio dell'abbassamento irriverente, con

l'attribuzione di termini alti a contenuti bassi nella costante parodia dei luoghi

comuni, del filosofare a buon mercato: «che è la vita? per che viviamo? La vita è

un mito, un sogno... un ventriloquio» (Romanzo del contrabbasso). E ancora, se

la donna viene spesso paragonata a cibi saporosi - come motteggiando scrive lo

stesso Cechov alla sorella Masa da Taganrog - all'inverso un tacchino arrosto è

«bianco, grasso, così sugoso, sapete, qualcosa come una ninfa...» nella Sirena,

dove le ragioni del ventre, nella tradizione del riso carnascialesco, sono

contrapposte ai ranghi sociali dei ghiottoni e alla loro funzione di pubblici ufficiali.

Se in molti testi è ridicolizzato il discorso incoerente o inappropriato, generatore

di equivoci e involontarie incongruità, in altri si fa più intenzionale la direzione

satirica. Iperbole e caricatura, inseparabili complici del comico, giungono in

alcuni perfetti racconti alla soglia del grottesco. Incastrando l'uno nell'altro una

pluralità di effetti, Čechov colpisce e smaschera la parola falsa, la svuota di

contenuto, anzi la riempie di significati opposti, ne mostra l'ambivalenza

paradossale come nel discorso del Camaleonte e dell'Oratore.

Nel Camaleonte si mima quasi il numero canonico dei due clown circensi, il

Rossiccio e il Bianco, che realizzano il modello della sopraffazione burlesca: nel

circo a suon di busse la «vittima» cambia di continuo enunciato, così come esige

immotivatamente, il «persecutore». Mentre in Gogol, nella pièce All'uscita del

teatro, la piaggeria gerarchica fa mutar d'avviso l'impiegato di fronte al

superiore, in Cechov lo stesso schema si prolunga con effetto intensificato. Il

camaleonte esercita il proprio potere su una vittima doppiamente indifesa,

perché priva di parola: un cane. A sua volta il commissario rionale di polizia

Ociumielov riproduce il modello del servilismo di fronte a una presunta autorità.

Il mutamento d'opinione è scandito dal mutamento di «pelle», egli si infila o sfila

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la giacca, raddoppiando, con un gesto metaforico, il significato del titolo. Il

comico si carica qui della smorfia del grottesco, mira alla satira, denunciando il

sopruso commesso in nome della giustizia. Sottinteso e negato ne risulta il

monito - «la giustizia è uguale per tutti».

Tra i luoghi prescelti è accordata una preferenza a quelli che determinano un

incontro simultaneo di più personaggi, i luoghi classici del teatro e del riso

buffonesco: alla più tradizionale piazza si sostituiscono come luoghi chiusi il

tribunale, il teatro, l'albergo, l'osteria, là ove convengono «mercanti, attori,

pubblici impiegati, scrivani della polizia: in genere tutta la "schiuma" che aveva

costume di riunirsi nella trattoria la sera» (Dalla padella nella brace). All'aperto

incontriamo il lago o lo stagno, il ponte, la proprietà di campagna, presto

accompagnati dalla strada, dalla ferrovia, cui si aggiungono la celebre carrozza e

il vagone ferroviario.

Le situazioni estreme che accompagnano il riso rituale sollecitano anche una

parola rituale, altresì smascherata nella sua nocività retorica, autoreferente. Così

avviene nelle nozze, situazione costante in Čechov, ancora nel teatro fino

all'ultima pièce, e pretesto canonico nella letteratura russa, dall'Aneddoto

scabroso di Dostoevskij fino alla travolgente scena di trivialità nella Cimice di

Majakovskij. E non solo alle nozze, come recita l'encomio dell'Oratore, il Cicerone

di provincia «può parlare quando gli garba: tra veglia e sonno, a digiuno, ubriaco

fradicio, con la fèbbre ardente» e indifferentemente «a matrimoni, giubilei,

funerali». Una straordinaria parodia del discorso d'occasione che «scorre liscio»,

si scatena con la forza di «acqua da gronda e copioso», quasi un dialogo dei

morti rovesciato, condotto là ove si danno raduno morti e vivi, nell'inopinato

scambio delle parti, mentre la parola si impadronisce della scena negando

l'azione, ambivalente parola contraddetta.

Il riso è un demone veloce e inafferrabile, «è difficile riuscire ad acchiappare per

la coda l'umorismo» - ha scritto Čechov e con Jean Paul potrebbe ripetere «la

brevità è l'anima e il corpo dell'arguzia, anzi si identifica con essa», poiché il riso

ci deve cogliere di sorpresa, inatteso. Eppure, anche se imposta da regole

contrattuali o da esigenze di «genere», la laconicità dei primi testi čechoviani

diviene nel tempo segnacolo d'uno stile; un ascetismo di mezzi espressivi che

contrasta l'effusione romantica e collima con un'estetica del pudore, del riserbo.

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Possiamo leggere la lettera al fratello Nikolaj (il pittore alcolista che morrà di tifò)

come un compendio di etica, un trattatello sulle passioni che schiva il sussiego

del moralista, attenua anche nel lessico il registro alto della retorica predicatoria,

non s'impanca a giudice, non sermoneggia. Preferisce porre la «buona

educazione» a norma del vivere sociale. «Si ride soltanto di ciò che è ridicolo o di

ciò che non si comprende...» scrive al fratello. «Sei un semplice mortale e tutti

noi mortali siamo enigmatici solamente quando siamo sciocchi, e siamo ridicoli

quarantotto settimane all'anno... Non è così?» (lettera del marzo 1886). E i suoi

personaggi, annota Mirskij, sono tutti simili, tutti dello stesso materiale, della

«stoffa comune dell'umanità».

Fissando la sua attenzione «sull'infinitesimale, sulle lesioni microscopiche

dell'anima», Čechov appare una singolare figura di moralista, piuttosto un

melanconico contemporaneo, capace di studiare i «differenziali della mente, le

sue forze minori inconsce, involontarie, distruttive, dissolventi»45. Il suo universo

è traversato dal comico in una duplice, opposta direzione. L'ironia, il paradosso

conservano ancora in lui la qualità di antidoto alle passioni violente, all'eccesso

romantico, le pause dei suoi dialoghi teatrali assolvono la funzione disgiuntiva,

disgregatrice che nei racconti umoristici era riservata alla chiusa inattesa.

Sviluppando l'ordine contraddittorio del discorso, Čechov esalta il nonsense del

quotidiano, l'incoerenza dei «buoni propositi» e la loro stasi ineffettuale. Il

fraintendimento della parola, che agisce come molla compressa del riso, assume

in questa scrittura un valore ontologico, una noesi del tragico, che a sua volta

genera malinteso, ribaltamento di senso. «Se, nei racconti comici, il riso nasceva

insieme a un brivido freddo, anche nei racconti non più comici la commozione e il

dolore nascevano in un'aria aspra, fredda al respiro come un'aria di neve»46.

Sono note le peripezie dei testi teatrali di Anton Pavlovič, il primo fiasco del

Gabbiano, frainteso come pièce comica, e viceversa l'interpretazione di tragico

esasperato che Stanislavskij imporrà al Giardino dei ciliegi, nelle intenzioni

dell'autore «un'allegra commedia, quasi un vaudeville».

Saggio fu allora, per questo tragico controvoglia, indossare la maschera dello

sciocco socratico, il sapiente che per primo ride di sé, mescolandosi agli attori del

45 D. Mirskij, Storia della letteratura russa, cit., p. 386. 46 N. Ginzburg, Profilo biografico, in Anton Čechov, Vita attraverso le lettere, Einaudi 1989, p. XIX.

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teatro del mondo, con la speranza che forse un giorno, «fra due o trecento anni

la vita su questa terra sarà meravigliosa, fantastica».

Caterina Graziadei

Roma, febbraio 1991

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Indice Traccia – racconto pagina

01 - Un cognome cavallino 1

02 - Il Leone e il Sole 4

03 - Lieto fine 8

04 - La lota 12

05 - Lo specchio curvo (racconto di Natale) 17

06 - Gli stivali 19

07 - Dalla padella nella brace 23

08 - Una natura enigmatica 29

09 - Dal diario di un aiuto contabile 31

10 - Matrimonio di calcolo (romanzo in due parti) 33

11 - Il romanzo del contrabbasso 37

12 - L'oratore 42

13 - La sirena 45

14 - Una calunnia 51

15 - Il punto esclamativo (racconto di Natale) 54

16 - Il camaleonte 59

17 - Non c'è fuoco senza fumo 62

18 - La maschera del riso di Caterina Graziadei 66

Traduzione dal russo di Alfredo Polledro Postfazione di Caterina Graziadei Edizioni e/o Avvertenza: Nel decidere di usare la traduzione di Alfredo Polledro - ormai divenuta un classico – abbiamo scelto di lasciare invariati sia la translitterazione che gli eventuali termini arcaici. © Copyright 1991 by Edizioni e/o - Via Camozzi, 1 - 00195 Roma