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P SICOIGIENE E P SICOLOGIA I STITUZIONALE Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni JOSÉ BLEGER

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PSICOIGIENE EPSICOLOGIAISTITUZIONALE

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Psicoanalisi applicata agli individui,ai gruppi e alle istituzioni

Euro 40,00 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-190-1

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JOSÉ BLEGER

José Bleger è, nonostante gli anni, di sorprendente attualità.La seconda edizione italiana viene oggi ripresentata da Ariele Psicoterapia che, attraversoil training della scuola di Psicoterapia Coirag, porta avanti la diffusione, la ricerca el’attualizzazione del pensiero psicoanalitico di questo autore.Nella prima parte José Bleger, muovendo da un’ottica psicoanalitica, accompagna illettore nella complessa dinamica dei gruppi e delle istituzioni come rete tra gruppi.Per il pensiero psicosocioanalitico, messo a punto da Luigi Pagliarani fondatore diAriele, è sempre stato di particolare interesse il concetto di “psicoigiene”, inteso comequel ramo dell’igiene mentale costituito dall’applicazione delle conoscenze psicoanalitichealla Polis.La cura dell’individuo, dei gruppi e delle istituzioni, anche in chiave preventiva, trovainfatti nel pensiero di Bleger un punto di riferimento imprescindibile.Nella seconda parte dell’opera di Bleger i testi mettono a fuoco la tecnica che sostieneil lavoro dello psicoterapeuta che incontra i pazienti, ma anche che opera nella selezionedel personale o nella valutazione degli studenti o ancora in ambito associativo.A partire dal colloquio clinico l’Autore accompagna il lettore nella stanza d’analisi,ma non solo, per prendere in considerazione la diagnosi intesa come interrogativosui propri obiettivi e il trattamento come disvelamento della struttura narcisistica cheprovoca un doloroso isolamento.

José Bleger (1922-1972), psichiatra e psicoanalista argentino animato dall’interessedi estendere la ricerca psicoanalitica e psicologica al campo sociale, presta una particolareattenzione alle istituzioni pubbliche delegate a occuparsi della salute mentale e fisicadelle persone. Si occupa quindi dello studio dei piccoli gruppi e del funzionamentodelle istituzioni sanitarie, sociali e scolastiche costruendo una vera e propria teoria peroperare nel campo della prevenzione e della cura del disagio psichico.Nel 1967 i suoi studi sulla psicosi danno il via ad una autonoma scuola di pensierorispetto ai filoni kleiniani e freudiani precedenti. Bleger infatti li rivede, attraverso ilconcetto di socialità sincretica, sia per quanto riguarda l’analisi delle organizzazioniumane sia per quanto afferisce alla diagnosi e al trattamento della psicopatologiaportando la ricerca verso inesplorate frontiere.

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PSICOIGIENE E PSICOLOGIA ISTITUZIONALE

Psicoanalisi applicata agli individui, ai gruppi e alle istituzioni

José Bleger

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Presentazione di Aurelia Galletti ................................................... 7

Introduzione alla seconda edizione italiana ................................ 15di Paola Scalari

PARTE I – Gruppi operativi

Introduzione alla prima edizione italiana (1989) ....................... 30di Maria Elena Petrilli

1. Psicoigiene e psicologia istituzionale ........................................ 452. Gruppi e istituzioni ................................................................. 157

PARTE II – La relazione clinica

Introduzione alla prima edizione italiana (1989) ........................ 211di Mauro Rossetti

3. Il colloquio psicologico ........................................................... 2194. Criteri di diagnosi ................................................................... 2495. Schizofrenia, autismo e simbiosi. Impostazione psicoanalitica.. 2616. Conversione isterica e ipocondria ............................................ 2697. Perversioni di José Bleger, Natalio Cvik, Beatriz Grunfeld .......... 2838. Criteri di cura e obiettivi della psicoanalisi .............................. 297

APPENDICEBiografia di José Bleger di Leopoldo Bleger .................................... 321Elenco cronologico delle opere pubblicate in questa raccolta ........ 329Bibliografia .................................................................................. 331

Indice

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Presentazione

L’INCONTRO TRA LA PSICOSOCIOANALISI

ITALIANA E IL PENSIERO E L’OPERA DI

JOSÉ BLEGER

È con grande orgoglio che l’Associazione Ariele Psicoterapia(Associazione Italiana di Psicoterapia Psicosocioanalitica), suproposta della dott.ssa Maria Elena Petrilli e col consenso deldott. Leopoldo Bleger, si è assunta il compito di promuovere lariedizione del testo di José Bleger Psicoigiene e Psicologia istituzio-nale, già pubblicato in Italia nel 1989 dalla Libreria EditriceLauretana.L’opera di Bleger ha accompagnato la formazione dei nostri socida quando, nel 19831, Luigi Pagliarani “ha scoperto” l’importan-za del lavoro teorico e clinico di Bleger, leggendo in franceseSimbiosi e ambiguità, riedito ora in italiano da Armando, e "Psi-coanalisi dell’inquadramento psicoanalitico" apparso allora sul-l’International Journal e che ora è contenuto sia in Simbiosi eambiguità sia nel testo di Genovese Setting di Cortina.In quegli anni Pagliarani – che ha lavorato con Fornari alla fon-dazione del Gruppo Anti-H e dell’Istituto di Polemologia – haintrodotto in Italia e tradotto Lavoro, creatività e giustizia socialedi Elliot Jaques ed è fortemente interessato alla ricerca di Bionsui gruppi e sul trattamento delle psicosi. La socioanalisi ingleseche gli consente di coniugare le due grandi passioni della suavita, la psicoanalisi e l’interesse per la polis, lo conduce all’elabo-razione di una mappa applicativa di quella che successivamente,e grazie anche all’apporto teorico di Bleger, verrà definita psico-socio-analisi. Questa mappa schematizzata nella cosiddetta “Fi-nestra psicosocioanalitica” definisce quattro aree d’interventodello psicosocioanalista, quella della terapia individuale, dellaterapia di gruppo, della consulenza al ruolo e dell’intervento nel-le istituzioni e nella polis: le prime due aree come dominio prin-cipale della psicoanalisi e le ultime due della socioanalisi. A questo punto Pagliarani legge Bleger, felice, come sempre gli

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accadeva in questi incontri, di scoprire in lui un’assoluta coinci-denza d’interessi professionali, teorici e politici e, per suo trami-te, il pensiero di Bleger si integra in modo assolutamente deter-minante nella psicosocioanalisi italiana promuovendo, nellanostra Associazione, il desiderio di studiare Bleger e gli autoriargentini. In seguito a questi studi scompare dentro Ariele ladivisione tra psicoanalisi e socioanalisi e viene adottato il termi-ne unificante di psicosocioanalisi come l’insieme delle diverseottiche che formano un unico cannocchiale col quale guardare alcampo più esteso dell’intervento clinico. È così che il pensiero diBleger ha “ibridato” (termine caro a Pagliarani) lo sviluppo delpensiero e della ricerca nella nostra Associazione attraverso l’in-tegrazione e la ricontestualizzazione di tante idee.Abbiamo fatto nostri numerosi concetti che in questo libro sonoaffrontati da Bleger con tanta acutezza e chiarezza, ma qui evi-denzierò solo quelli che, dal mio punto di vista, maggiormentehanno inciso sul nostro modo di lavorare e d’intendere la profes-sione dello psicologo clinico (un’esegesi più puntuale e comple-ta della prima parte di questo testo che affronta queste temati-che, è quella fatta dalla dott.ssa Petrilli).Il primo riguarda l’estensione degli ambiti d’interesse della psi-cologia, dallo “studio di parti astratte e considerate separatamen-te dell’essere umano (attenzione, memoria, discernimento,ecc.)”, fino al campo istituzionale e comunitario. Dice infatti Bleger che, nella storia della psicologia, l’allargamen-to degli ambiti d’interesse del lavoro clinico, dalla psicologiaindividuale a quella di comunità, ha comportato “un’estensionedei modelli della psicologia individuale a tutti gli altri ambiti”.Ma, osserva l’autore, gli ambiti diversi non sono isomorfi e nel-la pratica poi è necessario adattare i modelli e integrarli con leteorie e le discipline proprie dello studio di quell’ambito e congli strumenti d’intervento a esso più adeguati. Questo processocostringe a una revisione continua dei modelli teorici di riferi-mento sia in avanti (estensione dei modelli riferiti a ambiti piùristretti verso quelli più ampi), sia all’indietro perché ad ogniampliamento di contesto siamo costretti a rivedere le teorie diriferimento del contesto più ristretto, quelle da cui eravamo par-titi, e quindi a rivedere lo studio degli individui alla luce delleteorie di gruppo, quelle dei gruppi alla luce della psicologia isti-tuzionale e le istituzioni alla luce della psicologia di comunità.

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In questo senso, dice Bleger, “è possibile studiare la psicologiadel gruppo (ambito sociodinamico) secondo un modello dellapsicologia individuale, allo stesso modo in cui si può studiarel’individuo (ambito psicosociale) in base a un modello della psi-cologia sociale”. Ambiti d’intervento e modelli utilizzati per affrontarli non coin-cidono ed è nostro compito, quando intendiamo affrontare uncaso, qualunque esso sia (individuale, di gruppo o istituzionale),capire bene qual è il punto di vista da cui intendiamo guardarlo,in quali contesti s’inserisce, quali sono i modelli più adeguati peril compito che ci siamo prefissati e come ci collochiamo noi psi-cologi clinici rispetto all’uno e rispetto agli altri. Questa per noiè la caratteristica fondamentale di un intervento psicosocioana-litico profondamente ispirato alla psicoanalisi operativa. Questoè l’esito e il punto di partenza di una ricerca continua che ènecessario portare avanti ora più che mai, date le prospettive del-la nostra professione e le esigenze della società in cui viviamo, equesto ci dice quanto sia ancora attuale il pensiero di Bleger.Una volta adottata questa lente, o meglio questo cannocchiale,non possiamo non vedere quello che esso ci presenta.La dialettica tra teoria e prassi, che abbiamo visto esemplificatain modo così importante nel rapporto tra campi d’intervento emodelli teorici, è l’altro grande fondamento blegeriano che ciobbliga a mettere sempre alla prova la teoria nella prassi che a suavolta corregge la teoria, pena la perdita (e questo può avvenireanche a carico di un’istituzione come quella psicoanalitica) diquel “senso di realtà” su cui basiamo le nostre diagnosi di salutee di malattia.Da quanto detto risulta chiaro come, per Bleger, il nostro siaessenzialmente un lavoro di ricerca non solo nell’ambito dellaterapia con i pazienti, siano essi individui, gruppi, istituzioni ocomunità, ma anche nella direzione della teoria stessa che inquesta ricerca, di volta in volta, utilizziamo.Se seguiamo questo percorso esso ci porta inevitabilmente versoun tipo di conoscenza all’interno della quale “l’etica coincidecon la tecnica” nel senso che “l’etica fa parte dell’inquadramen-to del compito” e le scelte relative al lavoro dello psicologo clini-co non possono non fare i conti con l’interesse della polis. È un percorso a tappe che parte dalla cura della sofferenza men-tale, passa per la riabilitazione, per la prevenzione, e approda alla

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promozione della salute. Quest’ultima ha come sua base d’azio-ne la qualità della vita di una comunità e implica perciò una scel-ta che è politica nel senso più alto del termine. Nella difficoltà di tracciare una netta linea divisoria tra salute emalattia mentale e nella difficoltà da parte delle istituzioni asvolgere un compito di prevenzione di cui è sempre più chiara lanecessità ma per cui spesso mancano gli strumenti per tradurlain azioni efficaci, lo psicologo clinico, attento ai processi istitu-zionali e in grado di leggere le dinamiche dell’istituzione, puòdiventare il promotore e il responsabile di progetti di prevenzio-ne, attraverso una valutazione degli snodi istituzionali nei qualispesso, soprattutto i giovani colleghi, si trovano a dover operare.Non è un compito facile.La psicoanalisi operativa che si applica al lavoro psicoanaliticocon le istituzioni spesso viene vista dagli psicologi clinici comeun lavoro meno qualificato e qualificante, dove la “vera clinica”(quella della psicoterapia individuale o, al massimo di gruppo) avolte non può essere utilizzata con gli assetti e con le modalitàtecniche per cui il professionista si è formato.In realtà l’applicazione e la modulazione degli strumenti psicoa-nalitici nei diversi assetti istituzionali, in contrasto con quel chespesso si sente affermare, richiede un bagaglio di competenze digran lunga superiore a quello di chi lavora solo nella stanza d’a-nalisi, senza porsi problemi di psicoigiene; necessita di un’otticacomplessa capace di coniugare le conoscenze psicoanalitiche,quelle della psicologia sociale e della sociologia in generale, del-la ricerca e della ricerca-azione, con la conoscenza del territorioe delle politiche della salute. Il programma del Corso di IgieneMentale, contenuto in questo libro, che Bleger redasse nel 1965in qualità di docente ordinario per il corso di laurea in Psicolo-gia (orientamento clinico) dell’Università di Buenos Aires, rap-presenta il complesso quadro scientifico, tecnico ed epistemolo-gico entro cui si deve muovere lo psicologo clinico delle istitu-zioni. Il lavoro con le istituzioni comporta la possibilità di con-siderarle come organismi individuali che richiedono strumenti eottiche più complessi per approcciarsi a essi. Il rischio, in questolavoro, è quello di essere attratti nel campo delle diverse discipli-ne che utilizziamo, perdendo di vista il compito e venendo menoalla funzione analitica, tanto da non distinguere più il nostrointervento da quello di qualunque altro professionista che solo a

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quelle discipline fa riferimento. L’ottica psicoanalitica applicataall’istituzione considerata come un organismo complesso, impli-ca la conoscenza degli strumenti psicoanalitici e la conoscenzadel funzionamento delle istituzioni dal punto di vista della loroorganizzazione intesa qui non nel senso della struttura organiz-zativa, ma nel senso che il termine “organizzazione” ha assuntoall’interno della teoria della complessità e cioè quel sistema direlazioni e funzioni che costituiscono l’identità del sistema. Èall’interno dell’organizzazione che si annida la sofferenza dell’i-stituzione che spesso riproduce nel suo organigramma i sintomiche intende combattere e a essa si può accedere con gli strumen-ti psicoanalitici in grado di cogliere “l’inconscio organizzativo” edi compiere l’“analisi del controtransfert istituzionale”2.Se nelle istituzioni è depositata la parte psicotica degli individuiche la abitano, tanto che, dice Bleger, “ogni istituzione è unaparte della personalità dell’individuo e una parte tanto impor-tante che l’identità è sempre – parzialmente o totalmente – un’i-dentità di gruppo o istituzionale”3 questo significa che l’apparte-nenza alle istituzioni diviene determinante per la formazionedell’identità, che “le strutture individuali create dalle istituzioniaiutano a conservarle” e che le istituzioni “oltre ad interagire congli individui […] funzionano sempre (a livelli diversi) come ilimiti dello schema corporeo e il nucleo fondamentale dell’iden-tità”4.

In questo campo tanto complesso e affascinante, su cui – a par-tire da Bleger – stiamo ancora ricercando, non ci sono modelliteorici ben definiti con tecniche d’intervento codificate. Il lavo-ro con le istituzioni è un mestiere che, ancor più della psicotera-pia individuale o di gruppo, s’impara a bottega, facendo e ricer-cando mentre lo si fa, meglio se non da soli ma in un ambito diconfronto con altri che portano avanti lo stesso discorso.Per questo è assolutamente imprescindibile, per chi oggi si occu-pa di organizzazioni, istituzioni e comunità, questo testo di Ble-ger che oltre a offrire una quantità incredibile, sia di chiarimen-ti teorici che di indicazioni relative alla tecnica dell’interventoistituzionale, offre la possibilità di orientarsi in un ambito cosìcomplesso e impervio. Questo è un compito sul quale si devono comunque cimentareoggi i giovani psicoterapeuti e qualsiasi scuola di formazione alla

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psicoterapia psicoanalitica, in particolare se si occupa di gruppie di istituzioni come la Scuola COIRAG (Confederazione delleOrganizzazioni Italiane per la Ricerca Analitica di Gruppo),dovrebbe avere questo tra i testi fondamentali su cui formare igiovani allievi. Senza questo tipo di formazione è in gioco ilfuturo stesso della professione psicoterapeutica, soprattuttoquella di tipo psicoanalitico, dal momento che gli sviluppi dellasocietà attuale stanno creando uno iato sempre più ampio tra unmalessere psichico molto diffuso in tutti gli strati della società ela possibilità di accedere a forme di terapia la cui capacità d’in-cidenza rischia di diventare sempre più limitata, sia per la dura-ta e il tempo che richiedono, che per il costo e il numero di per-sone su cui, anche per i motivi precedenti, possono esercitare laloro influenza.

La seconda parte del testo, alla luce anche di tutti gli amplia-menti teorici della prima, obbliga a un approfondimento e a un“reinquadramento” del lavoro clinico nei diversi momenti che locaratterizzano. Bleger analizza alcuni aspetti fondamentali delcolloquio psicologico, dalla definizione dei suoi obiettivi all’ana-lisi di tutte le componenti in gioco evidenziandone l’interdipen-denza all’interno di un quadro complesso di cui l’autore sottoli-nea il carattere di “campo”. La necessità di “inquadrare” semprel’azione psicoterapeutica e l’interrogarsi sugli obiettivi di taleazione aiuta a darsi dei confini entro cui muoversi e degli stru-menti utili per i fini che ci si prefigge.Nei “criteri di diagnosi” l’autore pone una serie d’interrogativi(perché si fa una diagnosi, per quale tipo di terapia, con qualiobiettivi) che aiutano a definire il compito della diagnosi stessa;mette in guardia sia contro il pericolo di “considerare la malattiacome una cosa e descriverla come se avesse delle proprietà”, siacontro chi afferma che la diagnosi non è necessaria. Egli ritieneinfatti necessario elaborare “diagnosi funzionali impostate in ter-mini di parametri ed indicatori” in grado di fornire quadri arti-colati di quanto emerso dal colloquio, alla cui analisi e studioBleger dice può essere necessario dedicare molto tempo. Nei capitoli successivi in cui entra nel merito di alcune patolo-gie come la schizofrenia, l’autismo e la simbiosi, la conversioneisterica, l’ipocondria e le perversioni, Bleger esplicita – attraver-so l’esame e il confronto con altri autori sulle problematiche trat-

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tate – il suo riferimento di fondo sullo sviluppo psichico.Egli infatti, ritiene che l’individuo venga alla luce in una situa-zione d’indifferenziazione tra sè e il resto del mondo, tra internoed esterno e il suo sviluppo altro non è che una progressiva dif-ferenziazione, mai interamente raggiunta, nella quale si passa dauna posizione glischrocarica (del nucleo agglutinato), alla posi-zione schizoparanoide a quella depressiva. Perché ci sia lo svilup-po è necessario che una parte del nucleo agglutinato vengaimmobilizzata e clivata (cioè ben separata) e andrà a costituire laparte psicotica della personalità (PPP) che in diversa misura èpresente in tutti, pertanto anche nelle persone sane. Questaimmobilizzazione e clivaggio consentiranno lo sviluppo dellaparte nevrotica della personalità (PNP) e la formazione dell’i-dentità dell’individuo. Dal tipo d’immobilizzazione e di clivag-gio della PPP dipenderanno le diverse vicende del nucleo agglu-tinato, la sua necessità o meno di un deposito simbiotico e levicissitudini conseguenti alla perdita del depositario o alla pauradi tale perdita che stanno alla base di tutte le patologie preceden-temente elencate. L’introduzione di concetti nuovi e la nuovaterminologia per indicarli creano ulteriori difficoltà rispetto alfatto di applicare la psicoanalisi al trattamento delle psicosi.L’introduzione alla seconda parte del dott. Rossetti viene in aiu-to al lettore e lo guida alla comprensione del quadro teorico diriferimento dell’autore di cui colpisce il rigore nel cercare di col-legare teoria e prassi e soprattutto nella ricerca di una chiarezzalinguistica che è sempre il risultato di un grande lavoro dellamente volto a distinguere e a differenziare per rendere quantopiù chiaro possibile il suo pensiero. Nell’ultimo capitolo “Criteri di cura e obiettivi della psicoanali-si”, ancora una volta, Bleger opera una chiarificazione sull’usodel linguaggio per definire, distinguendo, cosa intende per“cura”, per “guarigione”, per risultati terapeutici e risultati anali-tici, con riferimento alla distinzione di Jones, per arrivare dinuovo a ribadire l’importanza del contesto e la particolarità diogni intervento psicoterapeutico tanto da dire che quello che perqualcuno è il punto di partenza, può essere il punto di arrivo perun altro e soprattutto sottolineando come il percorso terapeuti-co sia un percorso di apprendimento dall’esperienza e cioè dicambiamento.A differenza di altri, infatti Bleger è contrario a considerare la

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psicoterapia come un’arte, ma la considera piuttosto un lavororigoroso di tipo scientifico, continuamente soggetto a verifica ecome tale controllabile e soprattutto trasmissibile.A questi principi si è ispirata l’associazione Ariele Psicoterapiacercando di applicare il pensiero di Bleger nel proprio trainingall’interno della scuola di psicoterapia della COIRAG (Confede-razione delle Organizzazioni Italiane per la Ricerca Analitica suiGruppi). Il gruppo operativo nella scuola, con gli specializzandi,è stato lo strumento fondamentale per la rielaborazione dellaparte emotiva che ogni informazione suscita. Questa continua aessere la lente con cui guardiamo e analizziamo i casi che gli allie-vi portano in supervisione perché riteniamo con Bleger che laconoscenza del campo in cui ci muoviamo, le domande circa gliobiettivi e il compito che, col nostro intervento ci proponiamo,le calibrazioni dei mezzi e degli strumenti ai bisogni dei pazien-ti individuali, gruppali e istituzionali, e agli obiettivi che insiemea loro si perseguono, insieme alla manutenzione delle teorie edelle tecniche cui facciamo riferimento, siano il compito impre-scindibile per ogni psicoanalista che operi nei campi della psi-coanalisi operativa o, come diciamo noi, per ogni psicosocioana-lista.

aprile 2011Aurelia Galletti,

presidente dell’Associazione Ariele Psicoterapia Brescia

NOTE

1. Pagliarani parla di questo incontro con Bleger in una nota delsaggio “Metempsicotico il gruppo?”, 1983.2. Bortoloso, 1993.3. Bleger, 2010.4. Ibidem.

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LO PSICOLOGO CLINICO E

L’IGIENE MENTALE

La creazione della Facoltà di Psicologia in diverse università delPaese e il fatto di contare già su un certo numero di laureati,numero che andrà progressivamente aumentando, pongono pro-blemi di varia natura. Uno di questi riguarda il ruolo dello psi-cologo nel campo della salute pubblica e, più particolarmente,dell’igiene mentale.A una corretta collocazione – operata fin dall’inizio – degli psi-cologi clinici come professionisti nella società e nel contestoattuale, è subordinata in gran parte la possibilità di evitare inseguito problemi molto gravi. Per chiarire meglio quello chevoglio dire, citerò sommariamente come esempio ciò che avvie-ne oggi nel campo della medicina. Sappiamo che la medicina ideale sarebbe quella i cui professio-nisti dedicassero i loro sforzi alla salute pubblica, cioè agisseronell’ambito di un’organizzazione che incanalasse e dirigesse glisforzi collettivi verso la tutela, la promozione e il recupero dellasalute. Tuttavia, il medico professionista, è preparato a esercitaree di fatto esercita in forma individuale una medicina fondamen-talmente assistenziale. Così, in pratica, fra gli altri mali del siste-ma vi è anche questo: noi speriamo che la gente si ammali percurarla, anziché evitare la malattia e promuovere un livellomigliore di salute. Modificare tale stato di cose è diventato, oracome ora, estremamente difficile, come sempre avviene quandosi devono introdurre cambiamenti radicali; a questo si aggiungail fatto che nel medico stesso permane, tuttora in misura accen-tuata, una dicotomia o dissociazione fra salute pubblica e medi-cina assistenziale, e che proprio i medici mostrano una notevoleresistenza al cambiamento e a un’organizzazione più razionaledella medicina. È anche vero che questo cambiamento nondipende unicamente dalla volontà dei medici, ma per raggiunge-re tale fine non possiamo nemmeno fare affidamento su di essi,né sulla piena coscienza del problema e delle sue soluzioni. Biso-gna tenere conto che attualmente sono le condizioni sociali edeconomiche a rendere più agevole – per il professionista – la pra-tica della medicina privata, assistenziale e individualistica. È assaiprobabile, tuttavia, che questo stato di cose cambi molto rapida-

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mente nel nostro Paese, o che tale mutamento sia forse già inatto.I campi d’intervento dello psicologo clinico sono vari, ma sequesti è interessato per lo più ai problemi psicologici della salu-te, deve cercare la sua corretta collocazione nel campo finora maldefinito dell’igiene mentale, e nella misura in cui lo farà talecampo si andrà delineando in modo più netto. Voglio chiarire esottolineare che, a mio giudizio, lo psicologo clinico, che abbia unapreparazione sufficiente in tal senso, deve essere pienamente abilita-to a svolgere un’attività psicoterapeutica, perché – fra le altre ragio-ni – è attualmente il professionista meglio preparato, sotto l’aspettotecnico e scientifico, per assolvere questo compito. Ma al tempo stesso credo che si dovrà considerare la Facoltà diPsicologia un fallimento dal punto di vista sociale se gli psicolo-gi si limiteranno, nella maggior parte dei casi, alla psicoterapiaindividuale. La funzione sociale dello psicologo non deve essereessenzialmente quella di praticare la terapia, bensì di occuparsidella salute pubblica e, nell’ambito di questa, dell’igiene menta-le. Lo psicologo deve intervenire attivamente in tutti gli aspettie le questioni riguardanti la psicoigiene e non aspettare che lagente si ammali per poter intervenire. È questo il problema a cui ho fatto cenno all’inizio, e la sua cor-retta impostazione deve essere affrontata tempestivamente. Que-ste sono verità che teoricamente non vengono poste in dubbio,ma che ancora non trovano un’applicazione pratica nella misuranecessaria.

1.1.1 Igiene mentale e psicoigiene

Una volta accettata la premessa che ho posto precedentementerestano numerosi problemi di fondo da impostare e risolvere.Quando si vuole insegnare igiene mentale, quello che si fa disolito è, semplicemente, insegnare psicologia e psicopatologia;ne sono prova i testi più correnti d’igiene mentale che, in sinte-si, non sono altro che trattati abbreviati di psicologia dell’etàevolutiva, psicopatologia e psichiatria. Il primo problema che ciponiamo è, dunque, quello del contenuto della materia che dob-biamo trattare in questo seminario. Se ci atteniamo alle indica-zioni fornite dalle pubblicazioni di uso corrente sulla materia, ci

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troviamo a dover ripetere nozioni che lo psicologo ha già acqui-sito durante il corso, cosa che ci lascia ovviamente molto insod-disfatti, benché non consideriamo mai la ripetizione veramentetale, ma piuttosto come un’applicazione e un approfondimento.Tuttavia conoscere la psicologia e la psicopatologia non equivaleancora a conoscere l’igiene mentale, anche se quest’ultima pre-suppone la conoscenza delle prime due.In tal senso, ritengo che ciò che realmente si deve fare in unseminario d’igiene mentale sia studiare la gestione delle cono-scenze, delle attività, delle tecniche e delle risorse psicologicheche già sono state acquisite, per affrontare gli aspetti psicologicidella salute e della malattia come fenomeni sociali collettivi.Dobbiamo considerare la funzione sociale della professione del-lo psicologo e prendere coscienza, in questo modo, del posto cheessa occupa nell’ambito della salute pubblica e della società.Desidero provocare un cambiamento nell’attuale atteggiamentodello studente, così come in quello dello psicologo professioni-sta, spostando il loro interesse fondamentale dal campo dellamalattia e della terapia a quello della salute della comunità. Desi-dero evitare che gli psicologi prendano come modello per l’eser-cizio della loro professione l’attuale organizzazione della medici-na, nell’errata convinzione che questa possa essere l’organizzazio-ne ideale o necessaria.L’estesa bibliografia che esiste sull’argomento non chiarisce suf-ficientemente tale prospettiva, che riteniamo l’unica corretta.Condividiamo in pieno l’opinione di Silvadon e Duchene, per iquali la maggior parte delle pubblicazioni sull’igiene mentale èirritante e deludente.

1.1.2 Obiettivi dell’igiene mentale

Uno dei primi obiettivi che l’igiene mentale, storicamente, si èposta figura fra i propositi del movimento che promosse il librodi C.W. Beers, pubblicato nel 1908: fare qualcosa per il malatomentale, nel senso di modificare l’assistenza psichiatrica, facendoin modo che sia praticata in condizioni più umane (miglioriospedali e miglior trattamento) e rendendo possibile pertanto unmaggior numero di guarigioni.Una seconda tappa storica di capitale importanza è quella in cui

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ci si pone essenzialmente come obiettivo, oltre al proposito pre-cedente, la diagnosi precoce delle malattie mentali, che rende pos-sibile non soltanto una percentuale più elevata di guarigioni, maanche una diminuzione delle sofferenze e una riduzione del tem-po di ricovero necessario, al punto che questo diventi, in talunicasi, superfluo. Ciò implica che, una volta soddisfatte le minimenecessità fondamentali di posti letto, si tenda a una migliore uti-lizzazione di questi ultimi in base a un criterio funzionale e dina-mico del ricovero, mediante la diagnosi precoce, fase in cui ilricovero può essere evitato o ridotto nella durata. Questo rima-ne tuttora per noi un obiettivo di primaria importanza tenutoconto del livello in cui viene praticata l’assistenza psichiatrica nelnostro Paese. In generale, infatti, la diagnosi viene fatta ancoramolto in ritardo e la malattia mentale è diagnosticata in una fasecorrispondente a quella di cachessia e di metastasi nel caso diuna diagnosi di cancro. Nell’evitare questo atteggiamento lo psi-cologo clinico può collaborare in maniera determinante, ma laresponsabilità del problema ricade prevalentemente sullo psi-chiatra.Un terzo obiettivo, che si è andato delineando in modo semprepiù chiaro e netto, non riguarda più unicamente la possibilità diuna diagnosi precoce, ma essenzialmente la profilassi o preven-zione delle malattie mentali, mediante un’azione esercitata primadella loro comparsa e che consenta, quindi, di evitarle.Una volta raggiunti, in una certa misura, gli obiettivi preceden-ti, appare indispensabile nell’igiene mentale prendere in conside-razione la riabilitazione, sia del paziente guarito che deve reinse-rirsi nella vita attiva, sia del paziente curato nel quale tuttaviapermangono carenze o strascichi, che di quello, infine, per cui lamedicina curativa non ha potuto far nulla.L’obiettivo dell’igiene mentale – storicamente più recente – nonconcerne più soltanto la malattia e la sua profilassi, ma anche lapromozione di un maggior equilibrio, di un migliore livello disalute nella popolazione. Quel che conta dunque non è solamen-te l’assenza di malattie, ma lo sviluppo pieno degli individui edell’intera comunità.L’igiene mentale concentra così la sua attenzione non più sullamalattia, ma sulla salute e, in tal modo, sulla vita quotidiana degliesseri umani.E questo è per noi di importanza e d’interesse capitali.

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Questi cinque obiettivi dell’igiene mentale non si succedonocronologicamente e in maniera rigorosa per quanto riguarda laloro applicazione, né si escludono, e i limiti fra l’uno e l’altronon sono ben definiti. La terapia, ad esempio, apporta beneficidiretti alla profilassi, dato che curare un soggetto può significareche egli non peserà, patologicamente, sui suoi figli e, d’altra par-te, un’azione di profilassi comporta necessariamente un miglio-ramento del livello di salute nella comunità. Inoltre, è altrettan-to vero che le conoscenze necessarie per esercitare un’azione diprofilassi, di riabilitazione e di promozione della salute proven-gono, per buona parte, dal campo della patologia e della psico-terapia. La profilassi, come possibilità concreta, approda moltotardi al campo della psichiatria in quanto, per praticarla è indi-spensabile conoscere la causa di una malattia, il che, sotto unprofilo scientifico rigoroso, appare tuttora come una prospettivadel futuro. In tal modo, la profilassi specifica – che consiste nelcombattere la causa di una data malattia per evitare che insorga– appare possibile, oggi come oggi, soltanto in rarissimi casi (diparalisi generale progressiva, ad esempio). La nostra arma pre-ventiva più potente per ora non ha, quindi, un carattere specifi-co. Essa infatti riguarda la tutela della salute e perciò la promo-zione di migliori condizioni di vita.Nemmeno la scelta dell’obiettivo da raggiungere in un determi-nato momento può essere un fatto meccanico perché, se è veroche dobbiamo tendere all’ultimo dei fini elencati – la promozio-ne della salute – è altrettanto vero che in diverse comunità i pro-blemi, con la loro specifica urgenza, possono richiedere di dareattenzione, in uno specifico momento, all’aspetto assistenziale oa quello preventivo. Dobbiamo stabilire, se non proprio una sca-la, almeno dei criteri di priorità per decidere riguardo all’urgen-za dei problemi e alle possibilità d’intervenire su di essi e sulleloro diverse implicazioni. E questa decisione è un problema nonsoltanto teorico, ma eminentemente pratico, benché sorrettodalla teoria utilizzata in maniera flessibile e duttile, così comedeve essere utilizzata ogni teoria.Lo psicologo clinico deve essere inserito in ogni équipe che sioccupi della salute pubblica, in ogni programma d’igiene men-tale, nei quali ha delle funzioni specifiche da svolgere, quellerelative alla psicoigiene.

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1.2.2 Obiettivi dell’istituzione e obiettivi dello psicologo

Ogni istituzione ha i suoi obiettivi specifici e la sua propria orga-nizzazione, mediante la quale tende a soddisfare tali obiettivi. Lopsicologo o gli psicologi devono avere una perfetta conoscenzasia degli uni (fini e mezzi), che dell’altra come punto di parten-za per decidere il proprio inserimento in qualità di professionistinell’istituzione.Ogni istituzione ha i suoi obiettivi espliciti e impliciti, cioè, inaltre parole, dei contenuti manifesti e dei contenuti latenti. Que-sti devono essere valutati indipendentemente dagli effetti colla-terali che possono prodursi in un’istituzione. La creazione diun’industria, ad esempio, ha come scopo manifesto la produzio-ne di una determinata merce o materia prima, ma il suo conte-nuto latente può essere il proposito di popolare una regione perragioni politiche o militari; diverso è il caso in cui la creazione ditale industria abbia come effetto collaterale l’insediamento stabi-le e l’aumento della popolazione nelle zone vicine. Anche se èvero che l’effetto collaterale può trasformarsi in seguito in con-tenuto latente, fintanto che ciò non avviene la sua portata è deltutto diversa. Può capitare che coesistono contenuti latenti econtenuti manifesti che si controbilancino e arrivino addiritturaa entrare in antitesi; come può succedere che il contenuto laten-te abbia maggior forza di quello esplicito. Così, per fare un esem-pio molto semplice, nel reparto di un ospedale il motivo dellaconsultazione, che era in quel caso la disorganizzazione cronicae l’omissione di assistenza ai malati, celava in realtà una situazio-ne conflittuale di questo tipo. Il problema consisteva in parte nelfatto che l’équipe di specialisti, interamente composta da perso-ne molto giovani, aveva innanzitutto obiettivi o propositi diapprendimento, che erano stati totalmente frustati. Lo psicolo-go deve sapere che il motivo di una consultazione non è mai ilvero problema, ma un sintomo di esso.Se è vero che è di grande utilità per lo psicologo conoscere gliobiettivi espliciti e impliciti di un’istituzione per definire e por-tare a termine il suo compito professionale, è altrettanto vero chegli obiettivi latenti o impliciti a volte appaiono unicamentecome conseguenza dello studio diagnostico compiuto dallo psi-cologo stesso.Oltre a esaminare questi obiettivi, la loro dinamica e le loro con-

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seguenze, si devono valutare anche le finalità che l’istituzionepersegue quando richiede la collaborazione professionale di unopsicologo, e a questo proposito sono rilevanti tanto gli obiettiviapertamente espressi quanto quelli che rimangono latenti nellefantasie dell’istituzione, che possono essere d’altronde del tuttoinconsci. Un servizio ospedaliero richiede l’assistenza di uno psi-cologo, ma la sua attività s’inceppa completamente e in modopermanente; l’esame della situazione rivela che ciò che principal-mente interessa all’istituzione è ostentare un’organizzazione pro-gressista e scientifica di fronte ai servizi ospedalieri rivali, ma l’at-tività dello psicologo è in realtà temuta.Questi fatti non invalidano né ostacolano la funzione dello psi-cologo, ma è proprio in circostanze del genere che è necessariointervenire. Lo psicologo deve sapere che la sua presenza all’in-terno di un’istituzione provoca ansie di diverso tipo e grado, eche il controllo delle resistenze, delle contraddizioni e delleambiguità fa parte necessariamente del suo compito. Deve tenerepresente, inoltre, che incontrerà simili resistenze anche in quellaparte o in quel settore dell’istituzione che promuove o incorag-gia la sua assunzione o il suo inserimento. Quando lo psicologosi trova di fronte a gruppi opposti, uno che lo accetta e un altroche lo respinge, deve sapere che fanno parte entrambi di unavisione schizoide e non deve parteggiare per nessuno dei due. Un gruppo di psicologi venne assunto da un club, che offrì loroogni possibilità di lavoro, e organizzò una cena in loro onore nel-la sede sociale. Gli psicologi furono licenziati “casualmente” inseguito alle elezioni per il rinnovo della commissione direttiva: ilricevimento augurale aveva fatto inconsciamente parte di unastrategia elettorale7.Perché un’istituzione richieda e accetti la consulenza di uno psi-cologo istituzionale, deve aver raggiunto un certo grado di matu-rità e di insight riguardo ai suoi problemi o alla sua situazioneconflittuale, ma la funzione dello psicologo è anche quella di far-le acquisire maggiore consapevolezza delle sue necessità.Gli obiettivi dell’istituzione che abbiamo considerato presenta-no, dunque, due diversi aspetti: da un lato ci sono i suoi obiet-tivi propri (espliciti o impliciti), dall’altro i fini per i quali vienerichiesta o accettata l’attività dello psicologo. Oltre a ciò si devo-no anche valutare gli obiettivi di quest’ultimo e quelli della psi-cologia istituzionale. Sappiamo che la finalità che si desidera rag-

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giungere orienta l’azione, rientrando nell’inquadramento delcompito. Quanto allo psicologo e ai suoi obiettivi particolari,questi deve decidere riguardo a:

a. definizione degli obiettivi generali o indiretti del suo compito;b. accettazione o meno, da parte sua, degli obiettivi dell’istitu-zione e/o dei mezzi che questa utilizza per raggiungerli;c. diagnosi degli obiettivi particolari, immediati o specifici.

La definizione degli obiettivi indiretti o generali del compito coin-cide pienamente con gli obiettivi della psicologia istituzionaleche lo psicologo deve avere perfettamente chiari e riguardo aiquali non deve ammettere nessun tipo di equivoco. In qualun-que caso, l’obiettivo dello psicologo nel campo istituzionale è unobiettivo di psicoigiene: il conseguimento di una migliore organiz-zazione e di condizioni volte a promuovere la salute e il benesse-re di quanti fanno parte dell’istituzione.Lo psicologo istituzionale si può definire, in questo senso, comeun tecnico della relazione interpersonale, cioè come un tecnicodei vincoli umani e – in base a quanto vedremo in seguito – sipuò anche dire che è il tecnico dell’esplicitazione dell’implicito.Aiuta a comprendere i problemi e tutte le loro possibili variabi-li, ma non è lui a decidere, a risolvere o a eseguire. Il ruolo di assi-stente o consulente deve essere rigorosamente mantenuto, men-tre la soluzione e l’esecuzione vanno lasciate nelle mani degliorganismi propri dell’istituzione: lo psicologo non deve fungerein nessun caso né da amministratore, né da direttivo, né da ese-cutivo, e non deve neppure sovrapporsi all’istituzione come unnuovo organismo.Lo psicologo non è lo specialista dell’alienazione o dello sfrutta-mento, della sottomissione o della coercizione, e neppure delladisumanizzazione.L’essere umano, la sua salute, la sua integrazione e la sua pienez-za costituiscono il fine della sua attività professionale, fine alquale non deve rinunciare in nessun caso. La sua funzione nondeve nemmeno essere confusa con quella educativa, nel sensocomunemente attribuito a questo termine.Uno psicologo fu chiamato a lavorare in un’istituzione sociale(un club) con i membri più giovani di quest’ultima (un gruppodi ragazzi di età inferiore ai dodici anni), per far sì che essi

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“migliorassero il loro comportamento”: l’esame diagnostico rive-lò che verso questo settore convergevano situazioni di conflittoesistenti nel corpo direttivo, per cui lo psicologo fece in modoche in quella lamentela s’individuasse un sintomo e si prendessein considerazione la vera situazione conflittuale. Agendo altri-menti, lo psicologo avrebbe operato come agente di coercizione,come strumento degli adulti e come fattore di rafforzamento diun sintomo; egli non deve mai fungere da agente di coercizioni,neppure se utilizza mezzi psicologici. L’educazione si avvale qui,essenzialmente, dell’apprendimento (learning) che l’istituzioneacquisisce su come vanno affrontate certe situazioni per poteravviare una riflessione su di esse come primo passo verso qualun-que soluzione. Lo schema che inizialmente si offre allo psicolo-go come causa di un problema non è nient’altro, in generale, cheun pregiudizio.Il secondo punto, quello relativo all’accettazione da parte dello psi-cologo degli obiettivi dell’istituzione, pone problemi professionalied etici di primaria importanza e di estrema gravità. In primoluogo, lo psicologo non deve in nessun caso accettare di lavora-re in un’istituzione con i cui obiettivi non si trovi d’accordo oentri in conflitto, e questo sia che si tratti degli obiettivi che deimezzi di cui dispone l’istituzione per conseguirli. In psicologia,l’etica coincide con la tecnica o, in altre parole, l’etica fa parte del-l’inquadramento del compito, giacché nessun incarico può essereportato a termine correttamente se lo psicologo rifiuta l’istituzio-ne (sia nei suoi obiettivi che nei suoi mezzi o procedimenti). Seuno psicologo, ad esempio, viene chiamato a esercitare le suefunzioni in un’istituzione cooperativa, egli non deve accettare ilcompito se rifiuta, per qualunque motivo, il movimento coope-rativo. In secondo luogo, lo psicologo non può nemmeno accet-tare un compito professionale se è troppo coinvolto nell’organiz-zazione o nel movimento ideologico dell’istituzione. Un’affinitào un’identità ideologica non deve tuttavia essere considerata, inse stessa, una controindicazione assoluta, e la decisione su que-sto punto dipende dalla capacità dello psicologo di stabilire unacerta distanza operativa o strumentale nell’attività professionale,in modo da poterla svolgere operando come psicologo e noncome proselitista o come politico (in qualunque dei suoi signifi-cati venga inteso questo termine). Non è che gli sia vietato unintervento attivo in qualsiasi movimento ideologico o politico,

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ma in questo caso egli non deve operare professionalmente inquel settore. Bisogna capire chiaramente che non ha motivo diimporre a se stesso neutralità o passività, ma nel suo compitoprofessionale deve imporsi un inquadramento che gli permettadi lavorare e di operare come psicologo. In terzo luogo, egli nonpuò né deve accettare di lavorare in un’istituzione che rifiuta,con il proposito occulto di distorcere i suoi obiettivi o i suoi pro-cedimenti.Come terzo punto – e non il meno importante – bisogna tenerpresente che accettare, insieme al lavoro, gli obiettivi di un’isti-tuzione non è che una condizione per l’inquadramento del com-pito, ma gli obiettivi dell’istituzione non sono i propri obiettiviprofessionali. Lo psicologo ha degli obiettivi ai quali non deve innessun caso rinunciare. Gli obiettivi particolari, immediati ospecifici riguardano determinati aspetti del problema principale,ma studiati e trattati in funzione dell’istituzione intesa nella suaglobalità e unitarietà. Lo psicologo non può lavorare contempo-raneamente con tutti gli organismi dell’istituzione o con tuttiquanti ne fanno parte, e del resto ciò non sarebbe auspicabile;per questo si devono esaminare i “punti d’urgenza” sui qualiintervenire in quanto obiettivi immediati. Questa puntualizza-zione riguardo agli obiettivi permette di differenziare nettamen-te, sin dal punto di partenza, lo psicologo che lavora in un’isti-tuzione dallo psicologo che opera nell’ambito della psicologiaistituzionale. Il primo svolge un compito di cui è stato incarica-to; il secondo analizza la situazione e si propone di agire su queilivelli o quei fattori sui quali ritiene realmente indispensabile perl’istituzione intervenire. Il primo agisce spesso come fattore tran-quillizzante (“c’è uno psicologo che lavora qui”), mentre ilsecondo non accetta tale ruolo ed è fondamentalmente un agen-te di cambiamento. Il primo è un impiegato; il secondo è unassistente o un consulente che dispone di una totale indipenden-za professionale.Come si può comprendere facilmente, nemmeno gli obiettiviindiretti sono fissi e immutabili, ma possono e devono cambia-re man mano che si svolge il compito.

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1.2.8 L’ospedale come istituzione

L’istituzione ospedaliera ha dimostrato di essere, finora, uno deicampi in cui risulta utilissimo il ricorso alla psicologia istituzio-nale, ma ciò può essere dovuto semplicemente al fatto che l’o-spedale è l’istituzione più direttamente connessa, ora come ora,con una parte dell’attività dello psicologo, e che è uno degliorganismi più accessibili a quest’ultimo (benché non sia comun-que di facile accesso). Gli obiettivi della psicologia istituzionale,inoltre, appaiono più chiari in ospedale, dato che questa istitu-zione è per lo psicologo meno conflittuale, per quanto riguardala sua ideologia e i suoi obiettivi. Sta di fatto che la psicologiaistituzionale applicata negli ospedali risulta essere, in realtà,un’arma terapeutica molto efficace, nel senso che l’ospedale nelsuo complesso (la sua struttura) diviene di per sé un agente psi-coterapeutico estremamente valido quanto a profondità e adampiezza. E in questo senso si riesce a organizzare la psicoterapiaa livello istituzionale e non a livello individuale o di gruppo.Un compito molto ansiogeno, qual è il quotidiano contatto coni problemi della malattia e della morte, crea necessariamente nel-l’équipe medica e nel personale ausiliario comportamenti difen-sivi di vario tipo, fra i quali rivestono per noi particolare interes-se quelli che lo psicologo deve affrontare quando svolge il suocompito nell’ambito della psicologia istituzionale.Uno di questi comportamenti si sviluppa secondo le seguentimodalità: molte tensioni esistenti nell’équipe medica, che nonvengono esplicitate e risolte a questo livello, sono spostate versoil personale ausiliario o si ripercuotono sui rapporti dei pazientifra loro e con il personale. Il medico tende ad assumere – comecomportamento difensivo – un atteggiamento onnipotente, ris-chiando di cadere nella tentazione di “fare la parte” del mago.Un tale atteggiamento crea difficoltà di comunicazione fra glistessi medici e fra questi e il personale ausiliario e i pazienti; vie-ne ad aggiungersi, inoltre, a un’esigenza implicita di dipendenzada parte dei pazienti, rafforzata dalla regressione a cui porta lastessa malattia. Ma nella misura in cui si favorisce la dipendenzaaumentano anche le esigenze e le conseguenti frustrazioni, gliatti d’ingratitudine o le situazioni persecutorie che si ripercuoto-no sui rapporti dei pazienti fra loro e con il personale ausiliario.Una delle richieste implicite che si fanno al paziente è quella di

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“comportarsi bene” e con essa si intende in realtà incoraggiare lasua dipendenza.Una situazione del genere, estremamente ansiogena, si accompa-gna a volte all’impiego alienante ed eccessivo di farmaci, soprat-tutto sedativi e ipnotici, con cui non si fa nient’altro che masche-rare la situazione di conflitto, provocando frustrazioni in tuttiquanti.Un altro problema istituzionale, come quello del ritmo con cuivengono dimessi i pazienti e utilizzati i posti letto, si ricollega aun bisogno inconscio da parte del medico di trattenere il suopaziente e da parte di quest’ultimo, in rapporto alla sua dipen-denza, di essere trattenuto. Si crea una vera e propria simbiosiospedaliera, dato che la dimissione di ogni paziente costringe ilmedico a reintroiettare tutto quello che aveva proiettato o depo-sitato in lui12, con la conseguente mobilizzazione delle ansie. Elo stesso avviene con il paziente che, nelle sue condizioni diregressione, si trova ad affrontare tale mobilizzazione quandodeve reinserirsi nella vita extraospedaliera e addossarsi obblighi econflitti da cui si era temporaneamente separato nel periodo delricovero. A questo punto, poter intervenire sui pazienti e sul lororapporto con la famiglia e con i medici appare di vitale impor-tanza per interrompere questo circuito chiuso.In risposta alle esigenze sociali, le istituzioni tendono ad adottarela stessa struttura dei problemi che devono affrontare. Per questaragione, nell’ospedale civile, la dissociazione corpo-mente cheesiste nei pazienti è presente anche nell’istituzione, cosa chericordiamo qui perché costituisce una delle fonti della resistenzanei confronti dello psicologo e del suo compito che, in questocontesto, non comporta nient’altro se non un ritorno del rimos-so con la conseguente mobilizzazione delle ansie.Nelle istituzioni in cui si assistono i malati mentali questi pro-blemi si acuiscono ulteriormente. Una delle problematiche sem-pre presenti, almeno finora, riguarda la forte dissociazione esi-stente fra gli obiettivi espliciti e quelli impliciti dell’istituzione;fra i primi troviamo, evidentemente, il proposito di curare imalati mentali, ma in contraddizione con tale intento l’istitutopsichiatrico tende a difendere la società dall’alienato segregando-lo, ed è in questo senso che l’istituzione ha la tendenza, nella suaorganizzazione globale, a consolidare l’alienazione e la segrega-zione del malato mentale. In questo caso, come in nessun altro,

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è del tutto evidente che l’istituzione è portata ad acquisire la stes-sa struttura e lo stesso significato del problema che si propone dirisolvere. L’ospedale psichiatrico presenta nella sua organizzazionela stessa alienazione dei suoi pazienti: tende a trattare i malaticome cose, con la conseguenza che questi perdono completa-mente la loro identità, i contatti sociali s’impoveriscono, fino adarrivare a un’uniformità caratterizzata da una forte deprivazionesensoriale, che rafforza e consolida l’alienazione dei pazienti.I pazzi, le prostitute e i delinquenti sono i sintomi di una socie-tà perturbata che le istituzioni tendono a reprimere e a segrega-re tanto quanto fa la società stessa. Assumere un atteggiamentodiverso significa prendere coscienza o insight dei problemi e deiconflitti che, per il fatto stesso di esistere, costituiscono unadenuncia nei confronti della società che crea gli alienati, le pro-stitute e i delinquenti. Si comprende ancora meglio tutto questose si tiene conto di una delle funzioni fondamentali delle istitu-zioni sociali: quella di servire da protezione o deposito della per-sonalità sincretica. Mobilizzare l’organizzazione di un’istituzionesignifica dunque mobilizzare le ansie psicotiche che in essa sonoconcentrate e tenute sotto controllo. Il paziente stesso opponeuna notevole resistenza, dato che in un ambito circoscritto e rigi-do può depositare e controllare meglio la sua personalità sincre-tica di quanto non possa fare nel mondo più mutevole e dinami-co della realtà.Il fenomeno della deprivazione sensoriale non è, del resto, esclu-sivo delle istituzioni psichiatriche; lo si troverà con maggiore ominore intensità e sotto varie forme o sembianze in tutte le isti-tuzioni. La burocratizzazione deriva dalle stesse cause e dallastessa dinamica sociale e psicologica. È il fenomeno che, nellesue linee generali, si può definire, come fanno Bettelheim eSylvester, “istituzionalismo psicologico”, e del quale l’ospedaliz-zazione e la burocratizzazione sono soltanto due aspetti. Questi,in ultima analisi, portano l’individuo all’alienazione o al conso-lidamento di quest’ultima, all’impoverimento e alla deprivazio-ne di vincoli umani, e privano di ogni significato la sua condi-zione di uomo.

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GRUPPI OPERATIVI NELL’INSEGNAMENTO*

Il gruppo operativo, secondo la definizione che ne ha dato l’ini-ziatore del metodo, Enrique J. Pichon-Rivière, “è un insieme dipersone con un obiettivo comune”, che tentano di raggiungereoperando in équipe. A una struttura di équipe si arriva soltantoattraverso un’attività costante: gran parte del lavoro di un grup-po operativo consiste, in sintesi, nell’imparare a operare comeéquipe.Nel campo dell’insegnamento, il gruppo si esercita all’apprendi-mento, cosa che ottiene soltanto cercando di imparare, cioè ope-rando. Il gruppo operativo ha propositi, problemi, istanze e con-flitti che devono essere presi in considerazione e analizzati dalgruppo stesso, a mano a mano che emergono; verranno esamina-ti in rapporto al compito e agli obiettivi che ci si è prefissi. Attra-verso la loro attività, gli esseri umani entrano in determinaterelazioni fra loro e con le cose, relazioni che vanno al di là delsemplice vincolo tecnico che li lega al compito da svolgere, equesto insieme di elementi, soggettivi e relazionali, costituisce ilfattore umano più specifico del compito stesso.Nell’insegnamento il gruppo operativo lavora su un argomentogenerico di studio scelto in precedenza ma, nel trattarlo, svisceraanche i diversi aspetti del fattore umano. Benché il gruppo siapplichi concretamente a una data attività, il fattore umano rive-ste un’importanza fondamentale, poiché costituisce lo “strumen-to per eccellenza”. Non vi è infatti nessuno strumento che fun-zioni senza l’uomo.Noi ci opponiamo alla vecchia illusione, tanto diffusa, secondola quale si svolge meglio un compito quando si prescinde daicosiddetti fattori soggettivi e lo si considera unicamente da un

Gruppi e istituzioni

2.

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punto di vista “oggettivo”. Al contrario, sosteniamo, e non soloa parole ma anche con la nostra attività pratica, che si può por-tare a termine un compito con la massima efficacia soltanto se visi include sistematicamente l’essere umano nella sua interezza.D’altronde, in questo modo non si fa altro che accettare i fatticosì come sono: si include l’essere umano nella teoria e nellagestione operativa del compito perché in effetti ne faceva già par-te. Ma questa posizione è “disalienante”, nel senso che miraall’integrazione fra le varie parti e a fare in modo che il compitonon comporti l’alienazione. Nella sfera dell’umano si raggiungela massima obiettività soltanto se si prende in considerazionel’individuo (compresi i fattori soggettivi), cioè se si osservano lecose nella loro realtà, per comprenderle e riuscire a far sì che sisvolgano nella maniera migliore. Queste considerazioni nonsono affatto estranee al tema che stiamo trattando: basti pensareche fra gli strumenti sociali di alienazione figura ai primi postil’insegnamento e il modo, disumanizzato e disumanizzante, incui generalmente viene impartito.Ho redatto la presente relazione sulla base dell’“ExperienciaRosario” e dell’attività realizzata dai gruppi operativi della Scuo-la Privata di Psichiatria (che funziona ormai da tre anni) e nel-l’ambito delle cattedre di diverse facoltà1.

Gli argomenti che cercherò di sviluppare, sebbene non necessa-riamente in quest’ordine, sono i seguenti:- come avviene l’apprendimento nei gruppi operativi;- perché si procede in questo modo;- l’esperienza fatta a tale proposito;- che cosa si può dire, in generale, sull’apprendimento in rappor-to all’esperienza compiuta con i gruppi operativi.

Stiamo parlando di gruppi d’insegnamento o di gruppi diapprendimento? In realtà, di entrambe le cose, e questo è unodei punti fondamentali della nostra concezione. Insegnamento eapprendimento costituiscono due momenti dialettici inseparabi-li, parti integranti di un unico processo in perenne movimento,e ciò non soltanto per il fatto che quando c’è qualcuno cheimpara deve necessariamente esserci qualcun altro che insegna,ma anche in base al principio secondo il quale non è possibileinsegnare correttamente se non si apprende nel momento stessoin cui si insegna. Questo processo d’interazione deve ristabilirsi

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pienamente nell’attività del gruppo operativo.Nell’impostazione tradizionale, vi è un individuo o un gruppoche insegna e un altro che impara. Tale dissociazione deve essereeliminata, benché questo crei per forza di cose una certa ansia,provocata dal cambiamento e dall’abbandono di un comporta-mento stereotipato. Per gli esseri umani le norme sono, di fatto,delle regole di condotta e ogni tipo di comportamento corri-sponde sempre a un ruolo. Il fatto di mantenere e ripetere glistessi comportamenti e le stesse norme, in modo rituale, permet-te di non dover affrontare cambiamenti o cose nuove e, in talmodo, di evitare l’ansia. Ma il prezzo che si paga per questa sicu-rezza e questa tranquillità è la paralisi dell’insegnamento e del-l’apprendimento, e la trasformazione di questi strumenti nell’e-satto contrario di ciò che dovrebbero essere, ossia in un mezzo dialienazione dell’essere umano.Nell’ambito di una cattedra o di un’équipe di lavoro, il semplicefatto di considerare la necessità di un’interazione fra insegna-mento e apprendimento minaccia di rompere gli stereotipi eprovoca l’insorgenza di ansie. Lo stesso accade quando si tenta diapportare qualche cambiamento in certe classi magistrali stereo-tipate e in quei corsi in cui “tutto va bene” e si ripetono semprele stesse cose. La reazione che ne deriva porta a un blocco, a unavera e propria nevrosi del learning e, di conseguenza, a una di-storsione dell’apprendimento da parte degli studenti. Non si puòpensare di organizzare l’insegnamento in gruppi operativi senzache il personale docente rientri nello stesso processo dialetticodegli studenti, senza dinamizzare e relativizzare i ruoli e senzarendere possibile un reale e costruttivo scambio fra insegnanti estudenti. Il corpo docente teme la perdita della propria funzionee il caos che ne conseguirebbe, ed è in questo senso che va ana-lizzata la sua ansia di rimanere “spogliato”, senza ruolo, di fron-te allo studente, che appare allora temibile come un vero e pro-prio oggetto persecutorio. È necessario dunque far capire che lamiglior “difesa” consiste nel conoscere ciò che si insegnerà e nelvalutare onestamente quello che si sa e quello che si ignora.Un momento culminante di questo processo è quello in cui chiinsegna è in grado di dire “non so” e di ammettere in tal modoche in realtà non conosce un determinato argomento o una par-te di esso. È questo un momento estremamente importante, per-ché comporta, fra l’altro, l’abbandono dell’atteggiamento di on-

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nipotenza, la riduzione del narcisismo, l’adozione di atteggia-menti appropriati nelle relazioni interpersonali, la ricerca e l’ap-prendimento, nonché la capacità di porsi come essere umano difronte agli altri esseri umani e alle cose così come sono.Il livello del “non so” si raggiunge quando vi è la possibilità disollevare dei problemi e si posseggono strumenti adeguati perrisolverli. Non sto affatto cercando di difendere l’ignoranza o direnderla bene accetta, ma sottolineando la necessità di situare lecose entro i limiti dell’umano e la possibilità di raggiungere unmaggior grado d’integrazione e perfezionamento nello svolgi-mento del proprio compito. L’immagine idealizzata del professo-re onnipotente e onnisciente disturba l’apprendimento, in pri-mo luogo quello dell’insegnante stesso. La cosa più importante,in qualsiasi campo della conoscenza, non è tanto disporre diun’informazione completa, quanto possedere gli strumenti atti arisolvere i problemi inerenti al settore considerato. Chi si ritieneil depositario di un’informazione con queste caratteristiche haesaurito le sue possibilità di imparare e di insegnare in mododavvero proficuo.Insegnare e apprendere nell’ambito di gruppi operativi nonsignifica soltanto trasmettere delle informazioni, ma condurrecoloro che ne fanno parte all’assimilazione e all’uso appropriatodegli strumenti di indagine. E si può raggiungere questo risulta-to soltanto quando vi è già riuscito il corpo docente. Insisto nel-l’affermare che ciò che conta, in campo scientifico, è non giàl’accumulo delle nozioni acquisite, bensì la capacità di utilizzarequeste come strumenti per indagare la realtà e agire su di essa. Viè una grande differenza fra il sapere accumulato e quello utiliz-zato: il primo aliena (perfino chi ne è il depositario), il secondoarricchisce sia il compito che l’essere umano. Possiamo dire, rifacendoci in parte a Montesquieu, che riempiredelle teste non significa formarle, e men che meno formarne tan-te da far sì che ognuno abbia la propria. Non vi è essere umano che non possa insegnare qualcosa, se nonaltro per il fatto che ha una certa esperienza di vita. Desideriamochiarire, inoltre, che apprendere non vuol dire semplicementeraccogliere informazioni già assodate, ma piuttosto trasformarein insegnamento e in apprendimento qualsiasi comportamentoo esperienza, qualsiasi relazione o attività. Apprendimento einsegnamento sono così intimamente legati che spesso, nei grup-

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pi operativi che si occupano di questo tema, è stato adottato unneologismo, che in un primo momento è apparso come un lap-sus, derivante dalla fusione di questi due termini: “enseñaje”2.Il coordinatore di un gruppo operativo e il direttore di un corsoorganizzato operativamente devono lavorare, o meglio “co-lavo-rare”e “co-pensare” (come sostiene E. Pichon-Rivière) con i lorostudenti e assistenti. Quando nacque questo progetto in seno aun gruppo operativo di assistenti di una cattedra, alcuni obietta-rono che se si fosse lavorato a quel modo gli studenti avrebberopotuto pensare che vi sono cose che non conosciamo. Gli furisposto che in effetti è così e che gli studenti avrebbero ragionea pensarlo, ma che in ogni caso noi dovremmo ammetterlo.Per organizzare l’insegnamento in gruppi operativi è necessarioprima smantellare e rompere un buon numero di stereotipi, chevengono reiterati e servono come difesa contro l’ansia, ma ched’altro canto paralizzano il processo dialettico dell’insegnamen-to e dell’apprendimento. Si dovrebbe evitare di alimentare unafalsa immagine, per quanto riguarda i professori o gli studenti, etrasmettere invece le informazioni al livello in cui le possediamo,senza omettere di presentare anche i fatti dubbi, contraddittorio irrisolti. Gran parte delle semplificazioni operate con finalitàdidattiche, come pure buona parte dei libri di testo, fornisconole informazioni come se si trattasse di un alimento predigerito, eservono per riempire teste e non già per formarle. I sistemi edu-cativi e pedagogici sono, d’altronde, istituzioni modellate sullalotta di interessi fra classi sociali, e i metodi antiquati d’insegna-mento sono strumenti di conservazione e di controllo perfetta-mente adatti, se intesi in questo senso, a soddisfare gli obiettivipolitici, sociali e ideologici propri di queste classi.Come si possono trasmettere agli studenti gli strumenti di criti-ca e d’indagine? Vi è un unico modo per riuscirvi, ed è quello diutilizzarli trasformando gli studenti da ricettori passivi in coau-tori dei risultati ottenuti, rendendoli consapevoli delle loropotenzialità in quanto esseri umani e mettendoli in condizionedi servirsene. In altri termini, bisogna potenziare l’energia e ildinamismo sia degli studenti che del corpo docente.

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2.1.7 L’apprendimento come processo all’interno del gruppo

L’apprendimento è un processo costituito da momenti che sisuccedono o si alternano, ma che possono anche rimanere isola-ti o stereotipati, nel qual caso insorgono dei disturbi. Ognimomento di questo processo implica l’adozione di determinaticomportamenti o ruoli da parte dei componenti del gruppo.Questo problema venne studiato in modo particolare utilizzan-do dei questionari che furono distribuiti fra gli studenti iscritti aun corso di Introduzione alla Psicologia presso la Facoltà di Let-tere e Filosofia di Buenos Aires. Il questionario mirava a mette-re in luce l’attitudine degli studenti nei confronti della psicolo-gia come oggetto di conoscenza. Si ottennero così risposte tipi-che. Tutti gli atteggiamenti studiati o rilevati compaiono nor-malmente – come momenti – nel processo di apprendimento;ogni momento di tale processo implica l’assunzione, da parte delgruppo o di alcuni dei suoi membri, di una struttura di compor-tamento o di un ruolo. Questi ruoli possono essere ridotti, nelleloro forme tipiche, a otto:

1) Momento paranoide: in esso si percepisce l’oggetto della cono-scenza come pericoloso e si adotta un’attitudine di sfiducia o diostilità, oppure si reagisce direttamente con la relativa ansia.2) Momento fobico: si evita l’oggetto della conoscenza, ponendosi auna certa distanza da esso ed eludendone il contatto o la vicinanza.3) Momento contro fobico: ci si oppone all’oggetto della cono-scenza in maniera compulsiva o aggressiva, attaccandolo o ridi-colizzandolo.4) Momento ossessivo: si tenta di controllare e immobilizzare l’og-getto della conoscenza e di regolare la distanza da esso medianteun rituale, una stereotipia dello schema di riferimento, o facen-do delle domande che tendono al controllo. 5) Momento confusionale: viene a cadere ogni difesa (una qualsia-si di quelle precedenti) e si entra in uno stato di confusione fral’Io e l’oggetto e i suoi diversi aspetti, che non si è in grado didiscriminare.6) Momento schizoide: costituisce un’organizzazione relativamentefissa dell’evitamento fobico; stabilizza la distanza dall’oggettomediante l’allontanamento e il ripiegamento sugli oggetti interni.7) Momento depressivo: dopo aver introiettato diversi aspetti del-

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l’oggetto di conoscenza, si procede alla sua elaborazione (o alme-no si cerca di farlo).8) Momento epilettoide: si reagisce contro l’oggetto per distrug-gerlo.

Se questi distinti momenti compaiono isolati o stereotipati in unindividuo o nel gruppo, questo è indice di un’alterazione o di unblocco del processo di apprendimento. Ciascun membro delgruppo è portato a fare proprio un determinato momento di que-sto processo; quello che, nell’evoluzione individuale, costituisceun difetto dell’apprendimento si trasforma in una virtù, nel con-testo del lavoro di gruppo, se ognuno vi svolge il ruolo che glicompete. In altri termini, grazie ai ruoli individuali si rifà nelgruppo il processo globale dell’apprendimento, dato che ciascuncomponente può assumere funzionalmente ruoli diversi a secon-da del tema, del momento o del livello dell’apprendimento.L’allenamento del gruppo a operare come équipe dipende dal-l’opportuno inserimento di ogni ruolo (di ogni momento del-l’apprendimento) nel processo globale, in maniera da arrivare,come insieme, a una forma di apprendimento e di elaborazionedi alto livello e di sicura efficacia.Prendiamo ad esempio il caso del ruolo schizoide: l’individuoche lo assume ha il pregio di essere un ottimo osservatore, macomunica con difficoltà i suoi dati e li elabora in misura insuffi-ciente. Considerato individualmente, presenta, a causa della ste-reotipia del ruolo, un disturbo dell’apprendimento, dato che rea-lizza soltanto un momento di quest’ultimo. Ma collocato nel-l’ambito del lavoro di équipe, proprio grazie al suo inserimentonel contesto del compito, diventa un momento importante ealtamente produttivo del processo globale. È complementare, adesempio, al ruolo (momento) depressivo, che è quello in cui ci sioccupa del conseguimento di obiettivi concreti e ci si può appli-care quindi più facilmente all’elaborazione dei dati. È comple-mentare anche al ruolo (momento) ossessivo, quello in cui ci si“specializza” nella selezione degli opportuni mezzi da impiegare,ma d’altro canto ci si fossilizza in tale ruolo perdendo di vista gliobiettivi. Se esso viene inserito nel contesto globale del compitodi gruppo, questa carenza è compensata dai ruoli degli altri e lasua caratteristica fondamentale si trasforma da disturbo indivi-duale in un’operazione di elevato rendimento per il lavoro di

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gruppo.Se il compito del gruppo operativo si riducesse a questo, in real-tà non si farebbe altro che alienare degli esseri umani e trasfor-marli in strumenti, in “rotelle” di un unico ingranaggio. Ma gra-zie al processo della comunicazione, nell’attività del gruppo, cia-scuno incorpora in sé ciò che G. Mead, definendo l’introiezionedei ruoli degli altri membri, ha denominato l’“altro generalizza-to”. In tal modo, ciascuno assimila momenti degli altri e correg-ge così, a poco a poco, la propria stereotipia, il che permette diottenere non solo un elevato rendimento del gruppo, ma ancheun’integrazione dell’informazione, dell’apprendimento e dell’Iodi ciascun membro. Questo trova riscontro nel fatto che ognu-no di essi, progressivamente, alterna il proprio ruolo con quellodegli altri, “gioca” un ruolo non suo, assimila in tal modo i diver-si momenti dell’apprendimento e raggiunge una maggiore inte-grazione dell’Io. In qualche caso l’alternanza dei ruoli è partico-larmente intensa e si producono “totali inversioni di tendenza”,che un poco per volta vengono corrette.

2.1.8 Informazione e azione

Sebbene si sia già fatto brevemente cenno a questo argomento,la sua importanza è tale da indurci ad approfondirlo. La quanti-tà d’informazioni che un gruppo riceve è maggiore di quella cheesso è in grado di verbalizzare, e questo vale anche per i suoimembri considerati singolarmente. In altri termini, si apprendesempre più di quanto si creda, di quanto si possa dimostrare ver-balmente o percepire a livello conscio.Se l’informazione crea un’ansia eccessiva, è molto più probabileche appaia una drammatizzazione o un acting out dell’informa-zione, che può così essere considerato, benché manchi il neces-sario distacco, una prima introiezione del tema, di modo che siarrivi a una vera e propria identificazione introiettiva, ma soltan-to a livello fisico. Da un punto di vista genetico, questa è la for-ma di apprendimento più primitiva, perché tutto inizia e tuttofinisce nel corpo e con il corpo. In un primo tempo tutto è azio-ne. A questo livello, quando l’informazione ricevuta crea moltaansia, si produce la regressione.Nell’acting out viene drammatizzata non soltanto l’informazione

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ricevuta, ma anche, molto spesso, la reazione all’ansia che taleinformazione provoca: spersonalizzazione, reazioni fobiche, pa-ranoidi, ossessive, ecc. Questo costituisce l’esperienza diretta evissuta di cui ci avvaliamo nella Scuola Privata di Psichiatria perinsegnare psichiatria e medicina psicosomatica; a ciò si aggiungel’aspetto fenomenologico, il vissuto che determina, con la com-prensione dinamica del comportamento, in rapporto al vincolodi gruppo e al fattore scatenante. Sulla base della ben nota ipo-tesi della continuità tra i fenomeni normali e quelli patologiciaggiungiamo al bagaglio di conoscenze dello studente un’espe-rienza che difficilmente avrebbe modo di vivere altrimenti.Fra il pensiero e l’azione vi sono relazioni molto strette, ed en-trambi devono intervenire nel processo di apprendimento, mamolto spesso accade che si dissocino, che l’uno escluda o sosti-tuisca l’altra. Così, ad esempio, nel ruolo ossessivo all’azione sisostituisce il pensiero, a cui il soggetto rimane costantementeattaccato senza poter passare all’azione, mentre in quello istericoil pensiero viene frequentemente sostituito con l’azione (dram-matizzazione). Nel gruppo operativo, ciascuno agisce in misuraconforme alla propria natura, in base al suo personale “reperto-rio” di comportamenti e nella sua maniera caratteristica. Il coor-dinatore non deve aspettarsi nulla di particolare da nessuno: èsufficiente quello che ognuno dà e nessuno può fare a meno didare qualcosa. Ogni modalità individuale d’azione deve dina-mizzarsi e trovare posto nel processo e nel contesto globale. Lasola drammatizzazione o il solo pensare, presi separatamente,sono momenti parziali che non completano l’indagine, né arric-chiscono l’apprendimento; nello scambio dei ruoli, invece,ognuno impara che ciò che egli fa in un modo, un altro può far-lo diversamente e, di conseguenza, apprezza quello che possiedee quello che possiedono gli altri. Il lavoro in un gruppo operati-vo valorizza l’apporto di ciascuno e quello di tutti, ma richiedemodestia e umiltà nella conoscenza e consapevolezza dei proprilimiti di fronte al noto e all’ignoto. La capacità di parlare è un’altra manifestazione di estremaimportanza all’interno del gruppo operativo, e rappresenta lacomunicazione al suo livello di maggiore integrazione ed effica-cia. Tuttavia, il linguaggio può essere un modo di agire che para-lizza una comunicazione più efficace e piena. Fra il dialogo, l’e-loquenza e l’oratoria vi sono differenze fondamentali che è

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necessario porre in rilievo, in funzione della comunicazione ches’instaura fra i componenti del gruppo. Il “parlare” può essere ilruolo specifico di uno di essi e può sia facilitare la comunicazio-ne all’interno del gruppo che bloccarla o inibirla. Questo secon-do caso si verifica, ad esempio, quando ci sono persone che par-lano e non dicono nulla, o che lo fanno soltanto per “avere l’ul-tima parola”, in un dispiegamento narcisistico totale o facendoun uso nevrotico dell’informazione e della bibliografia. In tuttiquesti casi si è in presenza di disturbi della comunicazione, diuna degradazione del livello simbolico del linguaggio e di unaconseguente perturbazione dell’apprendimento, che devonoessere corretti nell’ambito del compito di gruppo e trasformati inprocessi utili nel lavoro d’insieme.Anche in questo caso, come in quello dei momenti dell’appren-dimento, il pensare, il parlare e l’agire, se considerati indipen-dentemente l’uno dagli altri, rappresentano delle difficoltà del-l’apprendimento, ma inseriti nel gruppo operativo coesistono, sisuccedono e si potenziano a vicenda.Si osserva con una certa frequenza che esistono degli “esperti”dotati di una particolare sensibilità nel percepire determinatiaspetti dell’informazione o nell’individuare un certo tipo dicomportamento, conflitto o malattia, così come vi è chi ricorrea luoghi comuni per bloccare, scotomizzare o distorcere l’infor-mazione. Pur avendo una certa esperienza, non si finisce mai distupirsi di fronte alla distorsione cui un’informazione è soggettae alla differenza fra quanto si è detto o voluto dire e quanto hacolto l’auditorio, tenuto conto che nemmeno quest’ultimo costi-tuisce un insieme uniforme, ma è eterogeneo e poliedrico.

2.1.9 Funzionamento del gruppo operativo

Ogni gruppo scrive la propria storia; se ne devono perciò rispet-tare le caratteristiche particolari, senza pretendere di forzare la suaoperatività e il suo rendimento, in quanto esso lavora al migliorlivello che gli è consentito, come gruppo, in ogni momento.Il coordinatore del gruppo opera con la propria tecnica nell’am-bito del tema trattato e in accordo con gli obiettivi che il grupposi propone di raggiungere, ma il suo compito deve essere incen-trato sugli esseri umani che ne fanno parte. Il modo in cui il tema

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Introduzione alla primaedizione italiana*

Come abbiamo posto in evidenza nell’introduzione alla primaparte di questo libro, la formulazione della teoria istituzionale edei gruppi di Bleger, nella sua metodologia e nella sua prassi,presuppone uno sviluppo teorico-clinico estremamente appro-fondito. Bleger non è semplicemente colui che estende le cono-scenze psicoanalitiche dall’individuale al sociale, come puòapparire dalle descrizioni un po’ superficiali di alcuni suoi con-temporanei. Il suo principale obiettivo è l’elaborazione di unsistema concettuale che gli permetta di passare attraverso i diver-si ambiti del comportamento umano (mente, corpo, società)1

senza estrapolazioni teoriche o sovrapposizione di campi. La sua ricerca parte dal concetto di uno stato di indifferenziazio-ne dell’individuo, visto come nucleo indiscriminato, come strut-tura sincretica (anteriore alla posizione schizo-paranoide descrit-ta da M. Klein), come organizzazione primitiva in cui sono loca-lizzate ansie devastanti, e che nel corso del suo sviluppo presen-ta due fenomeni significativi: la simbiosi e l’ambiguità.

Gli studi sulla simbiosi che riguardano i primi stadi dello sviluppo della per-sonalità […] sono di estrema importanza per una migliore comprensionetanto dei problemi della psicologia normale che della psicopatologia, sia diquelli della psicologia individuale che della psicologia di gruppo, istituzio-nale e della comunità2.

Iniziamo questa seconda parte con Il colloquio3 scritto da Blegernel 1964. È un lavoro che presenta caratteristiche tali che, oltre afarne un prezioso strumento per la ricerca scientifica, lo rendonoappropriato sia alla clinica individuale che all’analisi di gruppo eistituzionale. Applicato ai diversi ambiti del comportamentoumano di cui parlavamo prima, consente di unificare l’indaginenelle tre aree che avevamo richiamato (in proposito, per “società”intendiamo la famiglia, i gruppi secondari e le istituzioni).Questo testo, in cui si sostiene una concezione contraria a quel-la della clinica come “arte” o come pura tecnologia, espone in unlinguaggio semplice un sistema rigoroso di approccio all’oggettodi studio e di intervento clinico. Grazie alla sua struttura artico-

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lata, solida ed efficace, esso resiste a diverse riletture, proponen-do sempre nuovi stimoli e indicazioni a chi approfondisce, annodopo anno, la propria esperienza professionale.A esso segue Criteri di diagnosi (1971), che è il risultato dell’ap-plicazione clinica di tale strumento, soprattutto in seno al Cen-tro di Orientamento e di Ricerca E. Racker dell’AssociazionePsicoanalitica Argentina, del quale Bleger fu direttore per alcunianni (prima di lui lo erano stati David Liberman e Marie Lan-ger). In questo articolo, così come nei successivi, si può osservare conparticolare chiarezza come il suo accostamento alla clinica, alladiagnosi, alle indicazioni terapeutiche si accompagni a un’inces-sante preoccupazione per la precisione dei quadri e delle descri-zioni psicopatologiche e a una meticolosa verifica della necessa-ria corrispondenza tra l’ambito teorico e gli sviluppi tecnico-cli-nici raggiunti. Egli stesso sosteneva che spesso trovava opportu-no dedicare più ore di studio alla comprensione di un solo col-loquio. Il percorso che proponiamo di seguire parte dallo strumento diapproccio al problema (il colloquio con il paziente) per poi pas-sare alla lettura del materiale raccolto (criteri di diagnosi) e a unsuccessivo approfondimento attraverso la discussione e i nuovicontributi apportati da Bleger sulla schizofrenia, l’isteria, l’ipo-condria e le perversioni; questo percorso, dicevamo, tocca il suopunto più elevato con l’ultimo saggio Criteri di cura e obiettividella Psicoanalisi (1973) nel quale la discussione verte sugli effet-ti terapeutici e su quelli maieutici del trattamento psicoanalitico.Il corpo teorico applicato in questi scritti era stato elaborato daBleger in diversi articoli clinici, che culminarono nel libro Sim-biosis y ambigüedad (1971)4. Già nei saggi sui gruppi compare ilconcetto di discriminazione-indiscriminazione, processo checorrisponde per buona parte ai fenomeni descritti da Lévy Bruhlnel “gruppo di partecipazione”5, in cui predomina l’identifica-zione proiettiva incrociata e molteplice fra i suoi membri. Talefenomeno, che si manifesta in tutti i gruppi e costituisce la carat-teristica dominante di quelli primari, trova il suo corrispettivonel “nucleo sincretico” che forma la parte psicotica della perso-nalità di ogni individuo. Bleger, dunque, parte dall’idea di “per-sonalità psicotica” di Bion6 e dal “sincretismo primitivo” di Wal-lon7, intendendo per parte psicotica della personalità quella par-

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te del soggetto che è rimasta bloccata ai livelli più immaturi eregressivi del suo sviluppo psichico. È in questi livelli che preva-le l’identificazione primaria (Fairbairn)8 e la mancanza di discri-minazione fra Io e non-Io, fra oggetto interno e depositario.Per spiegare tutto ciò Bleger sostiene che corrisponde a una posi-zione idealistico-individualistica presupporre che l’individuonasca isolato e un po’ per volta entri in relazione con altri esseriumani e con la cultura. Il punto di partenza – dice – è uno sta-to di indifferenziazione primitiva, una struttura e organizzazioneche comprende il soggetto e il suo ambiente ma non come enti-tà differenziate.

Questo significa – tra l’altro – che non dobbiamo più cercare di scoprire eindagare come il bambino, nel corso del suo sviluppo, si ponga in relazio-ne con il mondo esterno, ma piuttosto come si modifichi un determinatotipo di rapporto (indifferenziato) fino a raggiungere, nel migliore dei casi,uno sviluppo della sua identità e del senso della realtà9.

Nella personalità “matura” è il residuo dei nuclei di indifferenzia-zione primitiva a determinare il persistere della simbiosi che simanifesta sia nello sviluppo normale che nella patologia. In que-sto modo, si potrà stabilire una gradualità che va dalla normalità(dove comunque troveremo residui di indiscriminazione e di sim-biosi primitiva) a episodi o quadri patologici conclamati. Se unaparte della personalità è strutturata su alcune modalità di questaindifferenziazione primitiva, ci troviamo in presenza di quella cheBleger definisce “personalità ambigua” o, nella migliore delle ipo-tesi, di una personalità con tratti del carattere ambigui.Egli continua la sua indagine confutando una seconda ipotesi dalui considerata un prodotto dell’influenza dell’idealismo sullescienze psicologiche: la diffusa credenza secondo la quale il feno-meno psicologico è innanzitutto mentale e quando non compa-re in forma manifesta deve necessariamente preesistere a livelloinconscio.Il fenomeno mentale, secondo Bleger, è una delle modalità delcomportamento umano10: le prime strutture indifferenziate, sin-cretiche, sono essenzialmente corporee e solo successivamente siformeranno, su questa matrice, i fenomeni mentali. Fin dalperiodo prenatale vi è una fusione, una mancanza di discrimina-zione fra soggetto e oggetto, che l’autore denomina “strutturasinciziale” e della quale la struttura sincretica è la continuazio-ne11: “Da questa struttura sinciziale si sprigionano dei fenomeni

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che passano da uno stadio di indifferenziazione alla discrimina-zione della posizione schizo-paranoide, ma gran parte di essa simantiene tale”12.La parte psicotica della personalità, che nella seduta si manifestanella relazione transferale simbiotica, comprende – come abbia-mo visto – la dinamica di un “oggetto” con caratteristiche mol-to complesse, chiamato “nucleo agglutinato” (e non “oggettoagglutinato”, in quanto non è ancora differenziato); non essen-do né delimitato né discriminato, la sua mobilizzazione avverràin blocco provocando ansie estreme e massive. Di fronte a que-ste ansie devastanti e annichilenti entreranno in azione in manie-ra violenta e massiccia le difese più primitive: la scissione, laproiezione e l’immobilizzazione. Tali difese corrispondono a unaposizione – che Bleger chiama “glischro-càrica” – che si estendedalla vita intrauterina a quella extrauterina, è anteriore alla posi-zione schizo-paranoide e costituisce un punto di fissazione perl’epilessia, l’ipocondria, la schizofrenia, le malattie psicosomati-che, ecc. Il termine “glischro-càrica”deriva dalle parole grecheglàscρoj (viscoso) e καρν’ν (nucleo), che egli riprende ispi-randosi agli studi sull’epilessia di F. Minkowski, che ha coniatonel 1937 il vocabolo “glischroidia”, per denominare la persona-lità epilettoide13.A partire da questa posizione si arriverà, per mezzo di una gra-duale discriminazione in piccoli frammenti del “nucleo aggluti-nato”, alla formazione della posizione schizo-paranoide; tale dis-criminazione avverrà in seguito alla diversificazione dei contatticon lo stesso oggetto e dei rapporti con altri oggetti, e alla pro-gressiva differenziazione che si opererà in questo modo fra inuclei dell’Io e gli oggetti parziali.

Un residuo di questa primitiva formazione agglutinata sussiste in tutti e dal-la sua entità dipendono le carenze della personificazione, del senso dellarealtà, del senso di identità e dello schema corporeo, processi che sonosempre in connessione tra loro.14

Perché le parti sane e nevrotiche della personalità abbiano la pos-sibilità di svilupparsi è necessario controllare e immobilizzare il“nucleo agglutinato” in quanto, date le sue caratteristiche, la suareintroiezione non sarebbe graduale e frazionata, ma massiva edirompente (con l’irruzione di ansie catastrofiche e confusiona-li).

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Bleger individua diverse tecniche, normali e patologiche, atte acontrollare la parte psicotica della personalità, a sviluppare laparte nevrotica e a preservare l’integrità dell’Io. Una di queste èla simbiosi, che egli definisce nel modo seguente: “È una strettainterdipendenza fra due o più persone che esplicano un’azionecomplementare per controllare, immobilizzare e soddisfare leesigenze delle parti più immature della personalità”15. Da unpunto di vista clinico la simbiosi acquisisce così un’importanzasempre maggiore, insieme all’autismo, che l’autore considera lasua controparte inscindibile: “L’autismo è […] una difesa, unanegazione onnipotente della dipendenza simbiotica”16, “Lo sfor-zo tecnico non deve essere volto a penetrare l’autismo del pazien-te, ma ad uscire dalla simbiosi. Procedendo in questo modo, simobilizza tutta l’organizzazione narcisistica del paziente (com-preso l’autismo)”17 18.La rilevanza clinica assunta da queste indagini porterà Bleger adapprofondire alcuni grandi temi di teoria della tecnica, cometestimoniano i suoi studi sul setting psicoanalitico19 o sulla inter-pretazione “clivata” (discriminativa). Con “clivaggio” l’autore vuole indicare la separazione che si èinstaurata tra la parte psicotica e quella nevrotica della persona-lità, fra l’Io e il non-Io, fra il mondo interno e il mondo esterno,ecc., separazione che può essere instabile, rigida, mobile oincompleta20. In base alle caratteristiche e alle vicissitudini diquest’ultima, sarà possibile diagnosticare una serie di comporta-menti normali o patologici e dedurre un insieme di indici utiliper stabilire la prognosi e il tipo di terapia da prescrivere. Vi sono ancora due aspetti che desideriamo segnalare prima diconcludere questa presentazione: il ruolo di “organizzatore” cheassume la sessualità nella conversione isterica e nelle perversionial fine di mantenere controllato e immobilizzato il nucleo indi-scriminato; l’insistenza dell’Autore sul predominio di un altrosenso della realtà e non soltanto della disorganizzazione nellaparte psicotica della personalità. Ma c’è di più: gran parte dellapatologia degli aspetti indiscriminati della personalità nondipende dall’identificazione proiettiva21: quello che emerge nellosplitting patologico (nella simbiosi quando improvvisamente siperde il depositario simbiotico) è il persistere di residui di indi-scriminazione primitiva. Questa, dunque, costituisce potenzial-mente una fonte di chiarezza per il soggetto se viene a poco a

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poco discriminata e integrata nella personalità (splitting norma-le del nucleo indiscriminato); in tal caso – dice Bleger – l’obiet-tivo maieutico e quello della cura non consistono soltanto in unarricchimento della personalità, ottenuto tramite l’inserimento,il recupero, di ciò che era stato segregato nei sintomi (nevrosi),bensì nella formazione di strutture nuove e diverse da quelle cheil paziente possedeva: “Una vera e propria modifica, attraverso ladiscriminazione, con l’acquisizione di possibilità, attitudini, sen-timenti che nel paziente non sono mai esistiti in quanto tali”22.L’interazione di questi tre fattori (parte psicotica della personali-tà, parte nevrotica, clivaggio) e delle loro caratteristiche costitui-sce l’armamentario che Bleger utilizza per un processo di revisio-ne dei quadri, della tecnica di interpretazione e dei criteri di dia-gnosi e di prognosi (nonché per una nuova visione della dinami-ca dei rapporti fra salute e malattia) al fine di fondare una psi-chiatria psicoanalitica con nuovi contributi ed elaborazioni. Questa raccolta rappresenta solo l’avvio di un progetto di lavoroche avrebbe dovuto confluire in due libri: Psicopatologia e aliena-zione e Temi per una psichiatria psicoanalitica23.La morte prematura di José Bleger lascia incompiuta la sua ope-ra, di cui ci rimane questa serie di lavori (alcuni dei quali inedi-ti al momento della sua morte) che costituiscono una testimo-nianza dello sforzo di elaborazione da lui compiuto e che ci invi-tano alla discussione e a nuovi apporti clinici e teorici.

Venezia, maggio 1989Mauro Rossetti

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Il colloquio è uno strumento fondamentale del metodo clinico ecostituisce quindi una tecnica d’indagine scientifica della psico-logia. In quanto tecnica, ha i suoi propri procedimenti o le sueregole empiriche che permettono non soltanto l’ampliamento ela verifica della conoscenza scientifica, ma anche la sua applica-zione. Come vedremo, questo duplice aspetto della tecnica rive-ste un’importanza particolare nel caso del colloquio poiché, fral’altro, identifica o fa confluire nello psicologo le funzioni delricercatore e dell’operatore, in quanto la tecnica è il punto d’in-terazione fra la scienza e le esigenze di carattere pratico. In talmodo, il colloquio consente di applicare le conoscenze scientifi-che e nel contempo di portare la vita quotidiana dell’essere uma-no sul piano della conoscenza e dell’elaborazione scientifica, equesto in un processo ininterrotto d’interazione.Il colloquio è uno strumento molto diffuso, e dobbiamo delimi-tarne la portata, oltre a definire l’ambito del nostro discorso. Ilcolloquio può avere, nelle sue molteplici utilizzazioni, svariatiobiettivi, come nel caso del giornalista, del dirigente d’azienda,del direttore didattico, dell’insegnante elementare, del giudice,ecc. Noi ci occuperemo qui del colloquio psicologico, intenden-do come tale quello in cui si perseguono obiettivi di caratterepsicologico (indagine, diagnosi, terapia, ecc.). Ci limiteremodunque, in questo lavoro, allo studio del colloquio psicologico,e non soltanto al fine d’indicare alcune delle regole pratiche chepermettono una sua efficace e corretta utilizzazione, ma ancheper sviluppare in qualche misura questo tipo di studio partendoda una prospettiva psicologica.In questo senso, buona parte di quanto diremo qui potrà essereutilizzata o applicata in ogni tipo di colloquio, poiché in ogni

Il colloquio psicologico*

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colloquio intervengono necessariamente fattori o dinamiche psi-cologiche. Il colloquio psicologico dunque, trae la propria deno-minazione esclusivamente dai suoi obiettivi o dalle sue finalità,come abbiamo rilevato in precedenza.Se lo consideriamo come tecnica prendiamo in esame, quindi,due aspetti: il primo riguarda le regole o le indicazioni praticheper la sua realizzazione, il secondo la psicologia del colloquio psi-cologico che sta alla base di tali regole. Prendiamo in considera-zione, in altri termini, la tecnica e la teoria della tecnica del col-loquio psicologico.Circoscritto in questo modo, esso costituisce lo strumento dilavoro essenziale non soltanto per lo psicologo, ma anche peraltri operatori (psichiatri, assistenti, operatori sociali, sociologi,ecc.).Il colloquio può essere di due tipi fondamentali: aperto o chiu-so. Nel secondo caso, le domande sono già state predisposte,come anche l’ordine e le modalità della loro formulazione, chel’esaminatore non può alterare. Nel colloquio aperto, invece,questi ha ampia libertà per quanto riguarda le domande o gliinterventi e si concede tutta la flessibilità necessaria in ogni casoparticolare. Il colloquio chiuso è in realtà un questionario che hauna stretta relazione con il colloquio, in quanto l’utilizzazione dicerti principi e regole che stanno alla base di quest’ultimo con-sente e facilita l’applicazione del questionario stesso. Tuttavia, ilcolloquio aperto non è essenzialmente caratterizzato dalla liber-tà di porre le domande, poiché, come vedremo più avanti, ilnucleo essenziale del colloquio psicologico non sono le doman-de e neppure il proposito di raccogliere dati sulla storia dell’esa-minando.Anche se i presupposti di tutto ciò verranno chiariti più avanti,teniamo a sottolineare fin d’ora che la libertà dell’esaminatore,nel caso del colloquio aperto, consiste in una flessibilità suffi-ciente a permettere all’esaminando, per quanto possibile, di con-figurare l’ambito del colloquio secondo la sua particolare strut-tura psicologica o, in altri termini, di far sì che il campo del col-loquio si configuri il più possibile in base alle variabili che dipen-dono dalla personalità del soggetto esaminato. Considerato in questo modo, il colloquio aperto permette dicompiere un’indagine più ampia e approfondita sulla personali-tà dell’esaminando, mentre il colloquio chiuso può consentire

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una migliore comparazione sistematica dei dati, oltre a presenta-re altri vantaggi propri di ogni metodo standardizzato. Partendoda un’altra prospettiva, che tenga conto del numero dei parteci-panti, si distingue il colloquio in individuale e di gruppo, aseconda che gli esaminatori e/o gli esaminandi siano uno o piùdi uno. In realtà, il colloquio psicologico è sempre, in ogni caso,un fenomeno di gruppo poiché, anche quando vi partecipa unsolo esaminando, la sua relazione con l’esaminatore deve essereconsiderata in funzione della psicologia e della dinamica digruppo.Un’altra distinzione che si può operare fra i diversi tipi di collo-quio è quella fondata sul beneficiario del risultato; in base ad essapossiamo individuare:

- il colloquio realizzato a beneficio dell’esaminando, come nelcaso della consultazione psicologica o psichiatrica;- il colloquio condotto con obiettivi di ricerca, nel quale quelloche conta sono i risultati scientifici;- il colloquio effettuato nell’interesse di un terzo (un’istituzione).

Ognuno di essi comprende variabili diverse di cui si dovrà tene-re conto, poiché modificano o condizionano l’atteggiamento siadell’esaminando che dell’esaminatore, nonché il campo globaledel colloquio. Il primo tipo di colloquio si differenzia inoltredagli altri due per il fatto che in questi ultimi è indispensabileche l’esaminatore stimoli l’interesse e la partecipazione dell’esa-minando (che lo “motivi”).

3.1 Colloqui, consultazione e anamnesi

Sia il metodo clinico che la tecnica del colloquio provengono dalcampo della medicina, ma i procedimenti della pratica medica –seppure simili – non vanno confusi con il colloquio psicologico,né sovrapposti a esso. La consultazione consiste in una richiesta di assistenza tecnica oprofessionale che può essere soddisfatta in molti modi, uno deiquali è il colloquio. Consultazione non è sinonimo di colloquio,giacché quest’ultimo è soltanto uno dei procedimenti con cui iltecnico o l’operatore, psicologo o medico, può rispondere alla

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saminando – e che dipende dal livello e dal tipo di organizzazio-ne della sua personalità – per affrontare i propri conflitti e risol-verli.

3.9 L’esaminatore

Per l’esaminatore lo strumento di lavoro è egli stesso, la sua per-sonalità, che immancabilmente entra in gioco nel rapportointerpersonale. A complicare le cose vi è il fatto che l’oggetto distudio è un altro essere umano. Questo implica che, nell’esami-nare la vita degli altri, l’esaminatore riveda e riesamini la sua esi-stenza, la sua personalità, i suoi conflitti e le sue frustrazioni. La vita e la vocazione dello psicologo, del medico e dello psichia-tra meriterebbero, in se stesse, uno studio dettagliato, che quinon affronterò; desidero comunque ricordare che essi sono deitecnici incaricati professionalmente di stare tutti i giorni a stret-to e diretto contatto con il mondo sotterraneo della malattia, deiconflitti, della distruzione e della morte. Per lo sviluppo e l’eser-cizio della psicologia e della medicina si è dovuto ricorrere a unaspecie di finzione e di dissociazione, che consiste nell’occuparsidegli esseri umani come se non fossero tali. Nel tirocinio delmedico vi è la tendenza, di carattere inconscio e difensivo, a ini-ziare la preparazione a contatto con il cadavere. Quando voglia-mo occuparci della malattia degli esseri umani considerati cometali, le nostre ansie aumentano, ma siamo costretti nello stessotempo a liberarci dei blocchi e delle difese. Per tutte questeragioni la psicologia ha impiegato tanto tempo prima di svilup-parsi e d’inserirsi nell’ambito della medicina e della psichiatria.Il che apparirebbe paradossale se non tenessimo conto dei pro-cessi difensivi; ma proprio il medico, la cui professione è curarei malati, tende, in proporzione più di altri, a non vedere o anegare le sue malattie o quelle dei suoi familiari. In psichiatria,medicina psicosomatica e psicologia, tutto questo non è più pos-sibile. Il contatto diretto con esseri umani considerati come talipone il tecnico di fronte alla sua vita, alla sua salute o alla suamalattia, ai suoi conflitti e alle sue frustrazioni. Se non fa inmodo che questo impatto sia graduale, il suo compito diventaimpossibile. Egli infatti o prova un’ansia eccessiva che gli impe-disce di agire oppure blocca l’ansia rendendo sterile il suo lavoro.

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L’esaminatore deve agire mantenendosi dissociato, cioè operarein parte attraverso un’identificazione proiettiva con l’esaminandoe in parte rimanendo al di fuori di tale identificazione, osservan-do e controllando quello che succede, in maniera da rendere gra-duale l’impatto emozionale e la disorganizzazione ansiosa. Sareb-be allora necessario sviluppare la psicologia e la psicopatologiadello psichiatra e dello psicologo per affrontare il problema dellaloro formazione professionale e del loro equilibrio mentale.La dissociazione sulla base della quale deve operare l’esaminato-re è nello stesso tempo funzionale e dinamica – nel senso chedevono intervenire costantemente la proiezione e l’introiezione– e sufficientemente plastica o “porosa” da consentirgli di rima-nere entro i limiti di un atteggiamento professionale. Nel corsodel suo lavoro, lo psicologo può oscillare facilmente fra l’ansia eil blocco senza che questo disturbi il suo compito, sempre che siain grado di risolvere ambedue i fenomeni man mano che com-paiono. Il passaggio, nel colloquio, dalla normalità alla patologia divieneimpercettibile. Una cattiva dissociazione, accompagnata da ansiaintensa e persistente, conduce lo psicologo a sviluppare nei con-fronti dei suoi esaminandi comportamenti fobici oppure ossessi-vi che lo inducono a evitare il colloquio o a interporvi strumen-ti e test per sfuggire il contatto personale e l’ansia che ne deriva.La classica fretta del medico, che tanto spesso ricorre nella sati-ra, è una costante fuga fobica dai malati. La difesa ossessiva simanifesta, invece, in colloqui stereotipati durante i quali tutto èregolato e previsto attraverso l’elaborazione abitudinaria di sto-rie cliniche. In questo caso lo strumento di lavoro, il colloquiostesso, si trasforma in un rituale. Troviamo anche il blocco, pereffetto del quale l’esaminatore mette in atto, dice e vede semprele stesse cose, applica quello che sa e che lo fa sentire sicuro. L’ur-genza di fare diagnosi e la compulsione a utilizzare farmaci sonoaltri elementi di questa fuga e di questo rituale del medico difronte al malato. Tutto ciò provoca l’alienazione dello psicologoe dello psichiatra, oltre a quella del paziente, e di conseguenzal’intera struttura ospedaliera e sanitaria diventa un ulteriore fat-tore di alienazione. Vi è anche il rischio di una proiezione deipropri conflitti sull’esaminando e di una certa compulsione agravitare, e a ricercare o individuare dei disturbi nella sfera incui, dentro di sé, ci si rifiuta di riconoscerli. La rigidità e la proie-

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zione portano a trovare soltanto quello che si cerca e di cui si habisogno e a condizionare tanto ciò che si trova quanto ciò chenon si trova. Un esempio molto significativo e piuttosto comu-ne, è quello di un giovane medico che all’inizio del suo tirocinioin psichiatria, assistendo a un colloquio e alla diagnosi di unafobia, disse che non era così, che quello di cui soffriva il pazien-te non era né una fobia né una malattia, dal momento che eglistesso ne soffriva. Quando la proiezione attraverso la quale opera il tecnico è trop-po intensa compare una reazione fobica nel campo stesso dilavoro. Se, al contrario, questa proiezione subisce un bloccoeccessivo, l’esaminatore si allontana e non è più in grado di capi-re quello che accade. Tipi diversi di persone possono provocarenell’esaminatore reazioni controtransferali tipiche, che egli deveessere costantemente in condizione di osservare e risolvere perutilizzarle come informazioni e strumenti nel corso del colloquiostesso.Si può descrivere in un altro modo la dissociazione mediante laquale deve lavorare l’esaminatore, dicendo che questi deve soste-nere i ruoli che gli vengono assegnati dall’esaminando, senza tut-tavia assumerli interamente. Se ad esempio avverte un rifiuto,assumere il ruolo significa mostrare e agire il rifiuto respingendoeffettivamente l’esaminando in forma verbale, con un particola-re atteggiamento o in qualsiasi altro modo. Giocare il ruolosignifica invece percepire il rifiuto, comprenderlo, trovare gli ele-menti che ne sono la causa, le motivazioni che spingono l’esami-nando a provocarlo, e utilizzare infine l’insieme di informazionidi cui si è in possesso per chiarire il problema o comunquemodificarlo. Quanto più psicopatico è l’esaminando, tanto più èpossibile che l’esaminatore assuma e agisca i ruoli. L’assunzionedel ruolo comporta la rottura dell’inquadramento del colloquio.Fastidio, stanchezza, sonno, irritazione, blocco, pena, affetto,rifiuto, seduzione, ecc., sono tutti indizi di controtransfert. Manmano che questi vissuti compaiono l’esaminatore deve percepir-li come tali e risolverli analizzandoli fra sé e sé sia in funzionedella personalità dell’esaminando che della propria, nonché delcontesto e del momento in cui si manifestano nella comunica-zione.Lo psichiatra insicuro o poco esperto non sa che fare con tuttiquesti dati e, per non sentirsi oppresso, ricorre di frequente alla

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ricetta, interponendo i farmaci fra sé e il paziente. In queste con-dizioni, la farmacologia diventa un fattore alienante perché ali-menta le fantasie magiche nel paziente e nel medico e fa in modoche essi si dissocino nuovamente dai rispettivi conflitti. Qualco-sa di molto simile lo psicologo, spesso, lo fa con i test. Per con-trastare questa tendenza è importante – se non addirittura indi-spensabile – che lo psichiatra e lo psicologo non operino isolata-mente, ma formino per lo meno dei gruppi di studio e di discus-sione nei quali si riveda il lavoro svolto. Nessun clima megliodell’isolamento professionale può favorire la stereotipia, perchénell’isolamento si finiscono per mascherare le difficoltà con l’on-nipotenza.

3.10 L’esaminando

Esaminare le circostanze di un colloquio significherebbe passarein rassegna tutta la psicologia, la psichiatria e la psicopatologia,per cui mi limiterò a citare qui soltanto alcune situazioni tipichenel campo della psicologia clinica, in particolare quelle che nor-malmente non vengono prese in considerazione, ma che rivesto-no una grande importanza.In linea generale, perché una persona si sottoponga a un collo-quio deve avere la percezione o l’insight che qualcosa non va, chequalcosa è cambiato, oppure deve percepire se stessa con ansia otimore. Questi sentimenti possono essere talmente intensi eintollerabili da spingere il soggetto a ricorrere, durante il collo-quio, a una negazione e a una resistenza sistematica, con cuiovviamente cerca di assicurarsi che non succeda nulla, facendoin modo che il tecnico non riconosca in lui niente di anomalo.In qualche caso si definisce come malato chiunque chieda unaconsultazione; a prescindere dal fatto che una definizione di que-sto tipo è priva di significato, è anche vero che l’esaminatoredeve accettare tale criterio, se non altro come incentivo per inda-gare dettagliatamente al di là delle rimozioni, negazioni o scoto-mizzazioni dell’esaminando.Schilder ha suddiviso in cinque gruppi gli individui che consul-tano il medico, o perché soffrono o perché fanno soffrire gli altri,in base al tipo di problemi di cui si lamentano, che possono esse-re: a) fisici; b) mentali; c) legati alla mancanza di successo;

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d) inerenti alle difficoltà della vita quotidiana; e) recriminazionidi altri nei loro confronti.Se invece seguiamo la ripartizione delle aree di comportamentofatta da E. Pichon-Rivière, possiamo considerare tre gruppi, aseconda che il predominio di inibizioni, sintomi, lamentele oproteste si ripercuota maggiormente nell’area della mente, delcorpo o del mondo esterno. Il paziente può esprimere lamenteleo accuse: nel primo caso predomina l’ansia depressiva, nel secon-do quella paranoide.Queste suddivisioni tendono a non differenziare i malati organi-ci dai malati mentali, né le malattie organiche da quelle funzio-nali o psicogenetiche. Esse vengono applicate a qualunque tipodi esaminando che vada da qualsiasi specialista e tendono piut-tosto a dare un orientamento sulla personalità del soggetto, sulmodo in cui cerca di ridurre le sue tensioni, di sopportare o risol-vere i suoi conflitti.Possiamo fare una distinzione fra l’esaminando che viene a con-sultarci di propria iniziativa e quello che ci viene condotto daaltri perché “è stato mandato”. Questi diversi atteggiamenti pos-sono già fornirci una prima importante indicazione, che tuttaviaè lungi dall’essere sistematica o patognomonica. Chi viene dasolo ha un certo insight o una certa percezione della propriamalattia e corrisponde al paziente nevrotico, mentre lo psicoticoha bisogno che qualcun altro prenda l’iniziativa per lui. Chi nonha motivi per sottoporsi al colloquio, ma ci viene perché lo han-no mandato, rientra nell’area della psicopatia: è qualcuno che faagire gli altri al posto suo e delega loro le proprie preoccupazio-ni e il proprio malessere.Vi è anche il caso di chi ci consulta per un suo famigliare. In cir-costanze del genere, sottoponiamo al colloquio la persona che èvenuta da noi, indagando sulla sua personalità e sul suo compor-tamento. In questo modo, estendiamo già la nostra ricerca dal-l’esaminando al gruppo familiare. Se l’esaminando è precedutoda qualcuno che viene a darci informazioni sul suo conto, que-sti deve essere avvertito che ciò che dirà verrà comunicato alpaziente. Questo contribuisce a “sgombrare il campo” e a farcievitare delle scissioni molto difficili da gestire in seguito. Chi vie-ne a consultarci è sempre un emergente dei conflitti del gruppofamiliare; distinguiamo inoltre fra le persone che si presentanoda sole e quelle che arrivano accompagnate, che sono rappresen-

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tative di gruppi familiari diversi.Chi viene da solo è il rappresentante di un gruppo familiare schi-zoide, nel quale la comunicazione fra i membri è estremamenteprecaria: essi vivono dispersi o separati e presentano un bloccoaffettivo di un certo rilievo. Spesso, di fronte a persone di que-sto tipo, il tecnico tende a domandarsi con chi può parlare e chideve informare. Un altro gruppo familiare, di carattere oppostoal primo, è quello a cui appartengono coloro che si presentanoal colloquio in diversi, tanto che il tecnico è costretto a chieder-si chi è l’esaminando o per chi sono venuti: è il gruppo epilettoi-de, vischioso o agglutinato, nel quale vi è un’assenza o una caren-za di personificazione dei membri, con un alto grado di simbio-si o di interdipendenza. Come nel caso precedente il malato èisolato e abbandonato, così in questo è circondato da una solle-citudine esagerata e asfissiante.Questi due tipi opposti di gruppo familiare possiamo trovarlinelle loro forme estreme, oppure in altre meno accentuate, omiste. Vi è anche chi viene al colloquio accompagnato da qual-cuno, da un familiare o un amico: è il caso del fobico che habisogno di un accompagnatore. Quella delle coppie i cui com-ponenti si accusano a vicenda di nevrosi, di infedeltà, ecc., èun’altra situazione in cui, come in quelle precedenti, si sottopon-gono al colloquio tutte le persone presenti, che vengono trattatecome un gruppo diagnostico che – come vedremo – è sempre, inqualche misura, anche terapeutico. Il tecnico agisce qui comeosservatore partecipante, intervenendo nei momenti di tensione,o quando la comunicazione s’interrompe, o per segnalare gliincroci proiettivi.Quando viene consultato da gruppi, lo psicologo non deveaccettare il criterio della famiglia per determinare chi è il mala-to, ma prendere in considerazione tutti i suoi membri e operarecome se il gruppo stesso fosse il malato. In questi casi, l’incrociodei ruoli e la dinamica del gruppo sono gli elementi che servonocome orientamento per far acquisire insight della situazioneall’intero gruppo. L’oscillazione della malattia in un gruppo familiare è un altro fat-tore di estrema importanza. Ad esempio, in una coppia in cuiuno è fobico e l’altro è il suo accompagnatore, quando il primomigliora o guarisce, compare la fobia nel secondo. L’accompa-gnatore del fobico è dunque anch’egli fobico, ma i ruoli vengo-

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no ripartiti all’interno della coppia. Altre volte, la famiglia si presenta allo psicologo soltanto quan-do il trattamento è già a buon punto e il paziente ha avuto o èin procinto di avere un miglioramento; la sua normalizzazione fasì che la tensione del gruppo familiare non possa più “scaricarsi”attraverso di lui, ed ecco manifestarsi allora lo squilibrio o lamalattia nel gruppo familiare.Tutto questo spiega ampiamente un fenomeno di cui si devesempre considerare la presenza nella famiglia di un malato: i sen-si di colpa, di cui bisogna tenere conto per valutarli e utilizzarlinel modo più opportuno. Questo fenomeno si manifesta conmaggiore evidenza nel caso di malattie mentali in bambini o ininsufficienti mentali. Ciò è connesso anche con il cosiddettofenomeno del “bambino sbagliato”. Questi genitori vengono aconsultarci portando il bambino più sano e soltanto dopo esser-si assicurati che il tecnico non li incolpi o non li accusi riesconoa parlare o a chiedere consiglio sul figlio malato.In tale ambito, e in relazione con tutti questi fenomeni, la psico-logia di gruppo – la sua conoscenza e la sua corretta utilizzazio-ne – riveste un’importanza fondamentale, non soltanto ai finidei colloqui diagnostici e terapeutici, ma anche della valutazio-ne delle cure, o quando si tratti di decidere l’interruzione di unricovero, ecc.

3.11 Funzionamento del colloquio

Ho insistito sul fatto che il campo del colloquio deve essere con-figurato fondamentalmente dalle variabili relative alla personali-tà dell’esaminando. Quest’attenzione implica che quello chepropone l’esaminatore sia sufficientemente ambiguo da permet-tere all’esaminando di mettere in gioco il più possibile la propriapersonalità.Per quanto questi presupposti siano veri, esiste tuttavia un ambi-to o un’area in cui l’ambiguità non deve esistere, ma il cui con-fine, al contrario, deve essere mantenuto e a volte difeso dall’e-saminatore. In quest’ambito rientrano tutti i fattori che fannoparte dell’inquadramento del colloquio: tempo, luogo e ruolotecnico dell’operatore. Il tempo si riferisce a un orario e a unlimite posto all’estensione del colloquio; lo spazio corrisponde

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Il concetto di perversione è strettamente legato ad altri duemodelli concettuali che caratterizzano le perversioni in quantoaberrazioni o deviazioni il cui numero e tipo è in relazione agliistinti di cui si riconosce l’esistenza e che possono deviare o sco-starsi dalla norma. Quegli autori che ammettono una pluralitàd’istinti intendono la perversione in un senso ampio che inclu-de, per esempio, la perversione dell’“istinto di conservazione”,del “senso morale” (delinquenza), degli “istinti sociali” (prosse-netismo), dell’“istinto di nutrizione” (bulimia, dipsomania); sidefinisce anche come perverso un carattere o un comportamen-to crudele o maligno. A questo proposito Laplanche e Pontalis1

segnalano che l’aggettivo “perverso” è ambiguo in quanto corri-sponde a due sostantivi: “perversità” e “perversione”. Con il pri-mo termine si designano la malignità, la crudeltà o la tendenzadistruttiva proprie di determinati comportamenti. In psicoanali-si si parla di perversione soltanto in relazione alla sessualità: purriconoscendo che esistono due istinti fondamentali, si ammettel’“aberrazione” per uno solo di essi, sia in base alla prima teoriadegli istinti (sessuale-Io) che a quella posteriore (Eros-Thanatos).Non si conoscono finora “perversioni dell’Io” o “perversioni del-l’istinto di morte”.In ogni caso, sia che si riconosca una pluralità di istinti sia che sivogliano limitare le perversioni a quelle sessuali (ammettendoper tutte come punto focale unicamente l’istinto sessuale), in talisistemi la perversione è sempre concepita come deviazione oaberrazione dell’istinto. È questa la corrente di pensiero seguitasistematicamente anche da Freud, il quale considera la perversio-ne una forma di sessualità deviata, rispetto al suo oggetto o alsuo fine, a causa della fissazione o della regressione dell’istintoagli stadi precedenti l’organizzazione genitale della sessualità.

Perversioni*Di José Bleger - Natalio Cvik - Beatriz Grunfeld

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José Bleger

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In Freud2 la perversione è sempre esclusivamente sessuale e vie-ne studiata per se stessa: la perversione sessuale si ricollega a unistinto sessuale parziale. Essa si configura a sua volta come il fat-tore a cui si fanno risalire altri fenomeni patologici e come unparametro privilegiato della teoria psicoanalitica. Non presente-remo qui una sintesi delle successive elaborazioni di Freud sulruolo delle identificazioni o della “scissione dell’Io” nel fetici-smo, tema che verrà trattato separatamente3.Quando in seguito si include l’istinto di morte nello schema psi-coanalitico delle perversioni (in particolare in M. Klein) il qua-dro si complica ulteriormente, poiché allora i comportamentidistruttivi (perversità) e le perversioni non sarebbero più soltan-to deviazioni o aberrazioni della sessualità, ma in essi interver-rebbe anche l’istinto di morte (o la sua espressione, cioè il sadi-smo). È vero che secondo M. Klein le perversioni sessuali sonolegate più all’aggressività e all’ansia che all’istinto sessuale; sipotrebbe anzi affermare che nella concezione di questa autriceesse si caratterizzano come perversità.Un’altra corrente di pensiero ha posto in relazione le perversionicon le psicopatie; autori come Kraft Ebing o Von Schrenk-Not-zin le consideravano infatti come tali e anche secondo Fenichel4

i perversi e i nevrotici impulsivi non sono dei nevrotici, ma deglipsicopatici; tuttavia tale caratterizzazione, corretta a nostro giu-dizio, è stata in seguito abbandonata e si sono costituiti due qua-dri rigorosamente separati che comprendono l’uno le perversio-ni e l’altro le psicopatie. In precedenza, anche quelle che oggichiamiamo personalità psicopatiche erano considerate “perver-sioni del senso morale” (moral insanity).Attualmente si tende sempre più a includere le perversioni (o“deviazioni”, come preferiscono denominarle altri autori) fra le“sociopatie”.In psicoanalisi, il panorama clinico e teorico delle perversioni èben lungi dall’essere chiarito o risolto; così, ad esempio, Sachs5

segnala che la perversione è una figura teorica di incerta com-prensione e indica le dipendenze come l’anello di congiunzionefra la gratificazione perversa e il sintomo nevrotico. M. Schmi-deberg6 afferma che gli atti delittuosi sono perversioni.

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BIOGRAFIA DI JOSÉ BLEGERDi Leopoldo Bleger

Un’unica tensione

Leggendo i testi di José Bleger, dalle tematiche in apparenza cosìdiversificate, si resta meravigliati, malgrado tutto, dall’omoge-neità del tono. Non solo perché si può ritrovare quasi dappertut-to la stessa problematica, ma di più, perché si riscontra in cam-pi molto diversi lo stesso tipo di approccio. Tutti coloro chel’hanno conosciuto evocano nel loro ricordo il particolare mododi venire in contatto, che ha come comun denominatore un suocaratteristico modo di pensare. Nei suoi testi si ritrova questastessa impostazione? Io penso di sì. La singolarità del suo pensie-ro si profila nonostante i limiti di un certo linguaggio, d’obbli-go nell’ambiente analitico. Poiché il leitmotiv di José Bleger, l’in-differenziazione primitiva, connota l’opera di molti altri analisti,non è dunque tanto il pensiero in se stesso che caratterizza la suaopera quanto piuttosto il modo di pensare. Non bisogna mera-vigliarsi di ritrovare qui ciò che rappresenta una delle chiavi del-la storia della filosofia. È il pensiero che interroga se stesso, ilprocesso è inseparabile dall’oggetto. È così che si ritorna allequestioni originarie, sempre le più pertinenti. Durante gli anniCinquanta l’ipotesi dell’indifferenziazione primitiva era lungidall’essere un’idea scontata, ma è diventata poi nozione passepar-tout buona a nascondere la mancanza di rigore e l’eccessiva fidu-cia nell’intuizione, propria di una certa tendenza degli anniOttanta. Penso che lo sforzo di José Bleger, più intenso verso lafine della propria vita, tendeva a ben inquadrare il posto dell’in-differenziazione primitiva, per poter così trarne le conseguenze.Se l’intuizione non è da rifiutare, resta malgrado tutto incapacedi spiegare e in tal modo di lasciarsi trasmettere. Del resto l’in-tuizione è spesso appropriazione d’un elemento della struttura: èciò che le conferisce talvolta il suo carattere folgorante. Ho fattoriferimento prima al comun denominatore del suo pensiero.Tuttavia credo che si darebbe una falsa immagine presentandoquesto pensiero come una concezione “blegeriana” della psicoa-nalisi e della psicologia. Non si tratta tanto di elencare i contri-buti di Bleger alla salute mentale, quanto di spiegare come si tro-

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José Bleger

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vi lo stesso filo conduttore in campi in apparenza tanto lontani.Proprio come nella pianta la cui struttura si ritrova in ogni suoelemento.

Anni di formazione

Poiché si tratta di far conoscere José Bleger a un pubblico chesuppongo poco al corrente del suo percorso e del contesto,occorre dare in questa sede alcuni elementi biografici. Non tan-to per soddisfare la curiosità dei lettori di sapere chi fosse JoséBleger, curiosità fra l’altro naturale, quanto perché la sua traiet-toria, il suo interrogarsi, persino le sue incertezze riflettono lastoria di una generazione, la storia tout court di un periodo del-l’Argentina. Bleger è nato in Argentina nel 1922 da genitoriebrei immigrati. Il suo impegno nella professione e nell’attivitàpolitica si sono sviluppati in parallelo al momento in cui il Pae-se faceva l’esperienza del populismo peronista: la spinta di unaborghesia che trascinava dietro di sé i ceti popolari e le lororivendicazioni. A quell’epoca, la maggior parte degli intellettua-li era più preoccupata per il dibattito sul fascismo il cui epicen-tro era l’Europa. L’adesione al Partito Comunista e le inquietu-dini esistenziali erano per essi due aspetti inscindibili di una stes-sa militanza. Terminati gli studi di medicina nel 1946 a Rosario,a circa 500 km da Buenos Aires, inizia a esercitare la libera pro-fessione di neurologo e di psichiatra più a nord ancora, a Santia-go del Estero là dove sono nati i suoi figli, mia sorella e io. È quiche, avendo un impiego che prevedeva l’obbligo di residenza,prende la decisione d’intraprendere un’analisi con EnriquePichon-Rivière. Egli era un personaggio d’una sorprendente per-spicacia che ha consolidato il campo della ricerca in psichiatria,psicoanalisi, psicologia dei gruppi e delle istituzioni. Se si puòparlare di una scuola argentina di psicologia e di psicoanalisi,allora una parte di questa scuola trova la propria ispirazione nelsuo insegnamento. Poiché Pichon-Rivière è un autore poco pro-lifico, fautore di un insegnamento orale, i conoscitori del suo sti-le ritroveranno facilmente nei testi di Bleger i riferimenti impli-citi a lui e al suo modo di pensare. Nessuna accentuazionepotrebbe essere troppo forte per sottolineare l’impatto e la por-tata del pensiero di Pichon-Rivière su quello di Bleger. Fu pro-

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prio Pichon che indicò una via intersoggettiva e situazionalepiuttosto che storico-genetica, un punto di vista concreto edrammatico – nel significato che Politzer dava a questi termini –piuttosto che pulsionale, come era inteso all’epoca. Quando JoséBleger inizia la sua formazione nella “Asociacion PsicoanaliticaArgentina” aderente all’IPA, questo era un gruppo giovane difronte a un ambiente della salute mentale quasi interamentemanicomiale e a una psicologia puramente accademica.Un territorio inesplorato si presentava davanti ai primi analistiargentini; il loro ruolo sarà determinante. Bisogna collocare aquesto punto l’influenza di Georges Politzer, quello primamaniera, quello della critica del sostanzialismo dell’ipotesi del-l’inconscio, un rischio probabilmente inerente a ogni ipotesi. Sisa che, a un certo punto, la critica di Politzer si è rivolta controdi sé per diventare ciò che si può definire critica stalinista. Illavoro di mio padre segue, sebbene solamente in parte, la criticadella metapsicologia freudiana. Questo legame con l’elaborazio-ne di Politzer non deve nascondere una differenza sostanzialequando la suddetta elaborazione viene ripresa in mano da Ble-ger. Secondo quest’ultimo non si può negare alla psicoanalisi unposto assai particolare nella storia della psicologia. La critica èper Bleger una necessità interna alla stessa teoria e alla stessa pra-tica, e non un’arma per distruggere. Più avanti prenderemo inesame la fonte di un’altra critica alla metapsicologia, fonte dallaquale Bleger attingerà. Già installato a Buenos Aires in manieradefinitiva dal 1954, pubblica nel 1957 Psicoanalisi e dialetticamaterialista. Non si tratta di una sintesi freudo-marxista sullascia di un Reich o di un Marcuse. È una serie di studi sugli sche-mi di riferimento di Freud così come un primo tentativo per darcorpo a un utilizzo della dialettica che Bleger pensa di ritrovarenella stessa pratica psicoanalitica. Alcuni anni più tardi, conti-nua questa stessa linea di lavoro con la pubblicazione delle ope-re psicologiche complete di Politzer in spagnolo con una lungaprefazione e parecchi saggi annessi. Nel 1962 fa un viaggio inUnione Sovietica. Al ritorno può soltanto testimoniare dell’anti-semitismo ufficializzato. Bleger, che parla correntemente l’yid-dish, non ha potuto che constatare ciò che molti altri avevanovisto prima di lui. Un articolo e un dibattito su questa questio-ne faranno precipitare la rottura con il Partito, epilogo inattesodelle dispute sulla psicoanalisi di alcuni anni prima. Molto rapi-

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damente ha potuto sottrarsi al fatalismo della “vecchia guardiadel Partito”, mescolanza d’acredine, rimpianto lancinante e sta-ticità del pensiero nella denuncia della propria delusione. L’im-pegno politico di Bleger era di dominio pubblico in Argentina.Le sue idee di sinistra resteranno le stesse. In un paese dove lapolitica è, per forza di cose, al primo posto da decenni, il pren-dere posizione non è percepito come una stonatura. Nel caso diJosé Bleger bisognerebbe ricordare che era un uomo che tenevaai suoi impegni.

Campi d’azione

È durante gli anni Sessanta che si definiranno i suoi vari campid’attività. Dapprima all’Associación Psicoanalitica dove, oltrealla sua funzione didattica e al suo insegnamento nei seminari diformazione, propone la creazione di un centro d’assistenza. Il“Centro Racker” – dal nome d’un analista – proponeva un per-corso analitico a coloro che attraverso il proprio lavoro erano incontatto con una vasta popolazione. Benché ciò evochi le “clini-che” dei vari gruppi analitici, a cominciare dalla prima, quella diBerlino del 1920, il “Centro Racker” era per Bleger il progettod’un centro di ricerca. Prima a Rosario e poi a Buenos Aires, miopadre faceva parte di quel gruppo di psicoanalisti che hanno fon-dato il Corso di Psicologia all’Università Argentina. Sarà ancheprofessore alla scuola di Psichiatria Sociale di Pichon-Rivière. Ècon lui che avrà luogo la prima esperienza secondo la tecnica dei“gruppi operativi”, quella metodologia cioè che permette l’ela-borazione di tutto ciò che ostacola un obiettivo che lo stessogruppo s’è posto all’inizio. Il suo insegnamento alla Facoltà èall’origine di Psicologia de la Conducta (Psicologia del Compor-tamento). Strano destino quello di questo libro che ha probabil-mente cambiato molto l’orientamento della psicologia in Argen-tina. Questo libro rappresentava un piano di lavoro per tuttiquelli che hanno dovuto far fronte agli esponenti della vecchiaguardia, ma è anche diventato un manuale, il libro di testo chesi impara a memoria nella scuola secondaria. Il suo scopo è chia-ramente espresso da Bleger: proporre un procedimento riunifi-catore di fronte a delle conoscenze parcellizzate e alla pretesa diogni corrente della psicologia di essere la sola nel “vero”. Non è

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un caso se l’opera porta questa dedica “Al mio maestro DottorEnrique Pichon-Rivière”1. La vita latino-americana permetteva,incitava quasi a tentare l’estensione della sfera della psicoanalisial campo dell’istituzione e dei gruppi.Due libri riuniscono una buona parte di questa riflessione e del-la sua esperienza: Psicohigiene y Psicologia Institucional e Temas dePsicología.

La prassi in se stessa

Possiamo ora tornare al tentativo di comunicare ciò che è statoil singolare punto d’arrivo di Bleger. Ho affermato prima chesupponevo di scrivere per un pubblico che conosce poco più chel’eco del peso che il suo nome ha potuto avere in Argentina. Inquesto senso i lettori che mi sono attribuito – a torto o a ragio-ne – fanno parte del testo. Ora noto e riscontro l’apparente evi-denza con la quale certe idee che lo riguardano mi vengono inmente. Il modello concettuale di Bleger corrisponde molto benealla situazione nella quale si trova ciò che cerco di comunicare inquesto momento. Si tratta degli aspetti muti della situazione eche tuttavia sono quelli che la strutturano. Si potrebbe credere,nel caso di questo Autore, a una sensibilità particolare a questiaspetti muti; si tratta piuttosto di considerare questa ipotesi alcentro della problematica stessa. In uno stile per niente brillantema che mi colpisce per la passione, José Bleger voleva trarre leconseguenze di questa determinazione. Trovo sorprendente ladescrizione fatta in termini di aspetti muti così come lo stessoBleger l’utilizza. Tanto più sorprendente se si ricorda che uno deipochi modi che trova Freud per descrivere la pulsione di morteè stato giustamente di definirla muta2. Ora se impiegherò termi-ni come determinazione, ipotesi, modello concettuale (anche seè alla maniera di Pichon-Rivière e del suo “schema concettuale,di riferimento e operativo” in spagnolo “ECRO”) per definirel’indifferenziazione primitiva, in questo modo ci ritroveremo nelpiù puro stile freudiano. Restando su questo piano l’equivocosarà al suo zenit. Il pensare in termini d’indifferenziazione primi-tiva permette di notare immediatamente l’intensità di ciò cheBleger chiamava la dipendenza, termine che mutua da Fairbairn.Diciamo la sottomissione, la soggezione, la costrizione della

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struttura. Se questo termine sembra oggi fortemente connotato,bisognerà ricordarne l’impiego fatto un tempo da Daniel Laga-che. L’utilizzazione del termine dipendenza comporta secondome un duplice rischio. Da una parte quello di collocare il suoopposto, l’indipendenza a un livello ideale, l’utilizzazione dell’u-no che evoca quella dell’altro, d’altronde questa cosa presuppo-ne un certo tipo di comportamento esteriore. Cioè di far crede-re che in un qualsiasi momento possiamo sfuggire alla situazio-ne in ciò che essa ha di costrittivo e di muto. In Simbiosi e Ambi-guità pubblicato nel 1967, ma che è una raccolta di testi attornoallo stesso filo conduttore, testi che vanno dal 1957 al 1966, cisi può accorgere del lento abbandono di questo schema. Contra-riamente al modo di pensare centrato su di un ideale, Blegergiunge a riformulare le strutture psicopatologiche non comedeviazioni da una norma, ma come organizzazioni con una loropropria logica. Simbiosi e Ambiguità si presenta come una seriedi molteplici riorganizzazioni d’uno stesso elemento ordinatore,cambiando nome, portata, conseguenze. C’è in questo libro dalprimo all’ultimo capitolo un continuo slittamento. Vera rifonda-zione terminologica che non si riduce al cambiamento di ciascuntermine. Quando un termine cambia, è il significato dell’insie-me che muta. La prefazione di Bleger lo dice apertamente. Sia-mo davanti a una ricerca e non davanti all’esposizione di unadottrina. Negli anni Sessanta Melanie Klein esercitava sulla psi-coanalisi argentina un dominio assoluto. Non so se possa susci-tare sorpresa o rappresentare una qualche banalità il dire ai let-tori a proposito di Simbiosi e Ambiguità che è in Klein che JoséBleger ha trovato un altro punto d’appoggio per la critica dellametapsicologia freudiana. La critica in Klein è implicita, pocoimportano qui le ragioni per cui è così. Il pensiero kleiniano èstato per José Bleger, la fonte più immediata ma anche una mor-sa che lo costringeva a trascrivere molte esperienze in termini tal-volta assai poco appropriati. Fino a un certo punto questo desti-no è comune a tutto il pensiero analitico. Ho già citato Fair-bairn. La sua influenza su Bleger mi sembra più del tipo dell’at-trazione per qualcuno che, come Fairbairn, era abituato a direciò che pensava, e a pensare abbastanza liberamente. Anche senel caso di Fairbairn il suo cammino l’abbia condotto, quasiinvolontariamente, verso una visione morale. In ogni caso que-sto risultato è agli antipodi della posizione di Bleger. Ma lo stile

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di Fairbairn, per quanto indefinibile, è nondimeno una calami-ta. Esiste lungo l’opera di mio padre un tentativo di affrontaregli elementi concreti della prassi psicoanalitica. D’altronde unodei suoi ultimi testi porta questo titolo. Se si prendono i proble-mi della teoria e della pratica della psicoanalisi, Bleger pensa chec’è una differenza tra ciò che gli analisti fanno e ciò che essiammettono di fare, uno scarto tra la teoria enunciata formal-mente e quella implicita nella pratica. Questa idea, un altro suoLeitmotiv, è una radice piena di ramificazioni. Ora, seguendo ilsuo modo di pensare, che era di non dire come la cosa dovrebbeessere, ma come è, la psicoanalisi appare legata a due altri aspet-ti, a parte quelli della teoria e della pratica. L’istituzione e l’inse-gnamento della psicoanalisi saranno presi non come due proble-mi isolati, ma come facenti parte di questa stessa prassi analitica.È forse questo punto d’arrivo che dà una punta mordace alla suapenna quando parla dell’istituzione psicoanalitica, ma senza eri-gere per questo barricate o indicarla come fonte del male. Comesu molti altri punti, anche qui potrei ritornare al parallelo con ilpensiero di Freud. Ciò avrebbe almeno il vantaggio di mostrareil carattere della critica di Bleger. O forse servirebbe a mettere inevidenza l’impronta del pensiero freudiano nella sua opera.Curioso incontro mancato con l’elaborazione freudiana: miopadre non cessava d’incrociarla lungo il corso del suo cammino.Non si tratta in Bleger dell’applicazione di certe idee al campoistituzionale. Mi sembra che con fortuna crescente, mio padremostrava, nelle formulazioni successive, che l’istituzione non èesterna alla problematica stessa della psicoanalisi. La qual cosaandava ugualmente contro tutta una corrente della sua propria“comunità psicoanalitica” per la quale l’istituzione era un qual-cosa di esterno alla psicoanalisi. Inevitabilmente prestava il fian-co a che si prendessero quelli che erano i punti di riferimento delsuo pensiero per una critica morale. Credo che la linea da luitracciata non potesse che separarsi radicalmente da ogni morale,fosse anche di sinistra. Il suo interesse per il problema dell’istitu-zione si coglie da questa stessa idea. Disegnare il rilievo, diciamol’orografia di una situazione implica anche capire in che cosa eperché è così e non diversamente. José Bleger voleva mostrareche l’istituzione non è un aggregato della relazione umana, maparte essenziale della stessa. Una volta ancora Bleger si ponecome un filo a piombo, quello che indica la direzione della gra-

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vità e del suo peso. C’è in un buon numero dei suoi testi unalibertà di pensiero che indica, sotto l’apparenza della semplicità,i contorni del problema. Il filo a piombo cade in modo inesora-bile. Bleger è morto nel 1972 d’una complicazione cardiaca sen-za aver raggiunto la cinquantina. È un’opera considerevole peruna vita, dopo tutto abbastanza corta. Ma come per ogni mortesi può dire avvenuta prima del tempo, si resta con l’impressioned’un enigma, o, in ogni caso, davanti a questioni aperte.

Parigi, agosto 1989

NOTE

1. Quasi 30 anni dopo (precisamente nel 1962) un aneddoto glidarà forse un’altra dimensione. Verso gli anni più neri della repres-sione politica in America Latina, una donna aveva tenuto a parlar-mi di suo marito, prigioniero in Uruguay. Quest’uomo si era sempremostrato “contrario alla psicologia” in modo molto accanito, comela maggior parte dei suoi compagni di militanza. Contava solamen-te la lotta popolare. Poi un giorno gli capita tra le mani Psicologia

de la Conducta. Lo legge, lo rilegge e un’altra dimensione del pro-prio interrogarsi gli appare. Nelle lettere che scrive alla moglie, rac-conta che Bleger era diventato per lui un personaggio vivo, chel’accompagna come un interlocutore fantasma che arricchisce dialtri significati intere parti della sua vita. Penso che se Bleger aves-se udito questa storia, sarebbe stato più fiero di questa lode chedegli omaggi accademici.2. Verso la fine di “Al di là del principio di piacere”, S.A. III, 271; ver-so la fine del quarto capitolo di “L’Io e l’Es”, S.A. III, 313 e nell’ulti-ma frase di questo stesso libro. In Bleger si ritrova impiegata que-sta parola, fra le altre, nel testo sul setting psicoanalitico, capitoloVI di Simbiosi e Ambiguità.

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PSICOIGIENE EPSICOLOGIAISTITUZIONALE

JOSÉ

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Psicoanalisi applicata agli individui,ai gruppi e alle istituzioni

Euro 40,00 (I.i.)

ISBN 978-88-6153-190-1

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José Bleger è, nonostante gli anni, di sorprendente attualità.La seconda edizione italiana viene oggi ripresentata da Ariele Psicoterapia che, attraversoil training della scuola di Psicoterapia Coirag, porta avanti la diffusione, la ricerca el’attualizzazione del pensiero psicoanalitico di questo autore.Nella prima parte José Bleger, muovendo da un’ottica psicoanalitica, accompagna illettore nella complessa dinamica dei gruppi e delle istituzioni come rete tra gruppi.Per il pensiero psicosocioanalitico, messo a punto da Luigi Pagliarani fondatore diAriele, è sempre stato di particolare interesse il concetto di “psicoigiene”, inteso comequel ramo dell’igiene mentale costituito dall’applicazione delle conoscenze psicoanalitichealla Polis.La cura dell’individuo, dei gruppi e delle istituzioni, anche in chiave preventiva, trovainfatti nel pensiero di Bleger un punto di riferimento imprescindibile.Nella seconda parte dell’opera di Bleger i testi mettono a fuoco la tecnica che sostieneil lavoro dello psicoterapeuta che incontra i pazienti, ma anche che opera nella selezionedel personale o nella valutazione degli studenti o ancora in ambito associativo.A partire dal colloquio clinico l’Autore accompagna il lettore nella stanza d’analisi,ma non solo, per prendere in considerazione la diagnosi intesa come interrogativosui propri obiettivi e il trattamento come disvelamento della struttura narcisistica cheprovoca un doloroso isolamento.

José Bleger (1922-1972), psichiatra e psicoanalista argentino animato dall’interessedi estendere la ricerca psicoanalitica e psicologica al campo sociale, presta una particolareattenzione alle istituzioni pubbliche delegate a occuparsi della salute mentale e fisicadelle persone. Si occupa quindi dello studio dei piccoli gruppi e del funzionamentodelle istituzioni sanitarie, sociali e scolastiche costruendo una vera e propria teoria peroperare nel campo della prevenzione e della cura del disagio psichico.Nel 1967 i suoi studi sulla psicosi danno il via ad una autonoma scuola di pensierorispetto ai filoni kleiniani e freudiani precedenti. Bleger infatti li rivede, attraverso ilconcetto di socialità sincretica, sia per quanto riguarda l’analisi delle organizzazioniumane sia per quanto afferisce alla diagnosi e al trattamento della psicopatologiaportando la ricerca verso inesplorate frontiere.