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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013 NUMERO 452 CULT La copertina ROBERTO BRUNELLI e ALBERTO MANGUEL Perché è tornato il fascino dell’uomo per lo spazio Il libro IRENE BIGNARDI Le avventure di Sylvia Scarlett eroina vittoriana ma libertina All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Claudio Magris “Non mi piace come affrontiamo il dolore” Il teatro ANNA BANDETTINI Con Castellucci e Chiara Guidi l’attore diventa un’astrazione L’arte MELANIA MAZZUCCO Il Museo del mondo La metamorfosi della Valadon Frank Sinatra Jr. “Per me era Mister mai chiamato papà” Spettacoli GIUSEPPE VIDETTI Genio Wittgenstein la vita oltre la logica dentro i suoi cassetti L’inedito SIMONETTA FIORI I l figlio dice che la madre «ha fatto un bel regalo a tutti noi» lasciandoci queste pagine. Dentro ci sono i segni delle sue tante vite, prima e dopo il 19 luglio del 1992. E con tenero stupore ammette che neanche loro — lui, Manfredi, e le sue sorelle Lucia e Fiammetta — conoscevano certi detta- gli sul padre. Agnese non ha voluto tenerli solo per sé. Poi parla del libro, che non è una biografia e non è una raccolta di te- stimonianze ma «il tuo ultimo atto d’amore verso papà». Man- fredi lo chiama con il nome per intero, come ogni tanto piaceva chiamarlo anche a me sul giornale quando era vivo: Paolo Ema- nuele Borsellino. Quell’Emanuele che era riportato sulla carta d’identità e si palesava a sorpresa in qualche bigliettino di rin- graziamento e molto di rado sugli atti giudiziari che firmava, mi ha sempre incuriosito. Ma al giudice non ho mai chiesto nulla su quel suo secondo nome, che a volte c’era e tante altre volte inve- ce spariva. (segue nelle pagine successive) ATTILIO BOLZONI I n queigiorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante do- mande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fi- dava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellis- simi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano al- tro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascolta- vano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano. Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Vole- vano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei gior- ni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio mari- to mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si ri- fugiava, come per ricordare una sua parola ancora. (segue nelle pagine successive) AGNESE BORSELLINO DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI Borsellino Famiglia I segreti, gli scherzi, la paura, l’amore Nelle ultime parole di una moglie il ritratto privato di un giudice

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 3NOVEMBRE 2013

NUMERO 452

CULT

La copertina

ROBERTO BRUNELLI e ALBERTO MANGUEL

Perché è tornatoil fascinodell’uomoper lo spazio

Il libro

IRENE BIGNARDI

Le avventuredi Sylvia Scarletteroina vittorianama libertina

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Claudio Magris“Non mi piacecome affrontiamoil dolore”

Il teatro

ANNA BANDETTINI

Con Castelluccie Chiara Guidil’attore diventaun’astrazione

L’arte

MELANIA MAZZUCCO

Il Museodel mondoLa metamorfosidella Valadon

Frank Sinatra Jr.“Per me era Mistermai chiamato papà”

Spettacoli

GIUSEPPE VIDETTI

Genio Wittgensteinla vita oltre la logicadentro i suoi cassetti

L’inedito

SIMONETTA FIORI Il figlio dice che la madre «ha fatto un bel regalo a tutti noi»lasciandoci queste pagine. Dentro ci sono i segni delle suetante vite, prima e dopo il 19 luglio del 1992. E con tenerostupore ammette che neanche loro — lui, Manfredi, e lesue sorelle Lucia e Fiammetta — conoscevano certi detta-gli sul padre. Agnese non ha voluto tenerli solo per sé. Poi

parla del libro, che non è una biografia e non è una raccolta di te-stimonianze ma «il tuo ultimo atto d’amore verso papà». Man-fredi lo chiama con il nome per intero, come ogni tanto piacevachiamarlo anche a me sul giornale quando era vivo: Paolo Ema-nuele Borsellino. Quell’Emanuele che era riportato sulla cartad’identità e si palesava a sorpresa in qualche bigliettino di rin-graziamento e molto di rado sugli atti giudiziari che firmava, miha sempre incuriosito. Ma al giudice non ho mai chiesto nulla suquel suo secondo nome, che a volte c’era e tante altre volte inve-ce spariva.

(segue nelle pagine successive)

ATTILIO BOLZONI

In queigiorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponentidelle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante do-mande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fattodopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fi-dava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellis-simi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi

sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano al-tro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascolta-vano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.

Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Vole-vano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei gior-ni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio mari-to mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardarefra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato isuoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si ri-fugiava, come per ricordare una sua parola ancora.

(segue nelle pagine successive)

AGNESE BORSELLINO

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BorsellinoFamiglia

I segreti, gli scherzi,la paura, l’amoreNelle ultime paroledi una moglie il ritratto privato di un giudice

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(segue dalla copertina)

«Non ne so molto nemmeno io di quella sua firma che occa-sionalmente cambiava, però nella presentazione del libromi è venuto istintivo scrivere Paolo Emanuele Borselli-no… E poi avrei voluto chiamare Emanuele il mio secon-do figlio, ma è arrivata una bimba», racconta Manfredimentre esprime ancora meraviglia per «quelle confiden-

ze» che la madre, nei suoi ultimi giorni, ha voluto consegnare a Salvo Palazzolo.Manfredi Borsellino fa il poliziotto, commissario a Cefalù. In questi anni, ci sia-

mo ritrovati di tanto in tanto a conversare e soprattutto a ricordare. Di solito in viaCilea, a Palermo, nella casa dove abitavano il giudice, la signora Agnese e loro, i fi-gli. L’ultima volta nella primavera scorsa, un pomeriggio. In cucina c’era la madresulla sedia a rotelle, accudita amorevolmente da due infermieri. Manfredi le gira-va intorno, lei lo guardava e gli sorrideva. Sembrava fragile a vederla così, tormen-tata dalla malattia. Ma Agnese è sempre stata una donna siciliana di coraggio, nonsi arrendeva mai. «Mamma ha unavoglia di vivere incredibile», dicevaManfredi che intanto mi aveva giàtrascinato sul divano del saloneaprendo i cassetti più nascosti, quel-li dove conserva le foto di famiglia.

Il matrimonio di Agnese e Paolo aVilla Igiea, dicembre 1968. Papà eManfredi in vacanza a Tropea, estate1981. Papà e Fiammetta a Palermo,metà anni Settanta. Papà e Lucia alParco nazionale d’Abruzzo, fine anniSettanta. E poi tutti insieme all’Asi-nara, agosto 1985, quando Paolo Bor-sellino e Giovanni Falcone — con fi-gli e mogli — vengono deportati e rin-chiusi per venticinque lunghissimigiorni sull’isola sarda del supercarce-re. Motivi di sicurezza, dall’Ucciar-done era arrivata la soffiata che i bossavrebbero voluto uccidere i due giu-dici, «prima l’uno e poi l’altro». Comeè avvenuto sette anni dopo.

Via Cilea, una lunga fila di palazzitutti uguali, a metà strada la «zonarimozione auto» per il pericolo di at-tentati. La prima volta ci sono anda-to tanto tempo fa, nel 1986 o forsenel 1987, si stava ancora celebrandoil maxi processo a Cosa nostra. Erasera, molto tardi. Paolo Borsellinoha aperto la porta e sono entrato inuna stanza piena di fumo, una siga-retta che bruciava ancora nel posa-cenere e l’altra già fra le dita, i calen-dari dell’Arma dei carabinieri allepareti, i fascicoli — con dentro ap-punti dei suoi incontri e ritagli digiornale — tutti in ordine sulla pic-cola libreria a muro.

Della casa di via Cilea, per anni hoconosciuto soltanto quella stanza:lo studio del giudice. Geloso dellasua intimità familiare, Paolo Borsel-lino non mi ha mai fatto varcare lavetrata che divideva lo studio dal sa-lone. Ho sempre immaginato quel-la stanza come una casa nella casa,quasi fosse staccata dagli altri am-bienti. La signora Agnese e Manfre-di, molto tempo dopo, avrebberoconfermato la mia sensazione sve-landomi un piccolo segreto. Quellastanza — lo studio del giudice — ap-parteneva in origine alla casa ac-canto e i Borsellino, avendo la ne-cessità di allargare il loro apparta-mento, l’avevano successivamenteacquistata dai vicini.

Ma sono altri e più intensi, i ricor-di e i «segreti» che la signora Agneseha deciso di affidare a Palazzolo peril loro libro. Già il titolo, Ti raccon-terò tutte le storie che potrò, scoprein copertina chi era Paolo Emanue-le Borsellino.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA DOMENICA■ 26DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

“Con gli amici della Palermo bene che si vantavanouna sera sbottò: mio padre era un carrettiere disse,e fece il verso del cavallo”. La moglie del giudiceucciso dalla mafia ha lasciato scritto il suo testamento sentimentaleÈ diventato un libro a metà tra album e atto d’accusa

La copertinaFamiglia Borsellino

ATTILIO BOLZONI

AGNESE BORSELLINO

(segue dalla copertina)

Era il 1968. Una mattina,mentre andavo all’univer-sità, vidi Paolo che attra-versava la strada e mi veni-va incontro. «Ciao Agne-se», mi sussurrò. «Come

stai? Ti posso accompagnare? Gradi-sci?». Gli feci un grande sorriso. Quan-do parlava, il suo volto si muoveva tut-to. La bocca, gli occhi, la fronte. Avevauna mimica davvero particolare.

Quella mattina in riva al mare mi in-namorai di Paolo. E lui di me. Era comese ci fossimo innamorati per la primavolta, anche se avevamo già la nostraetà. Lui ventott’anni, io venticinque. Iogli raccontavo dei miei sogni. Lui miraccontava le sue storie. Mi ricordo, eravestito con degli abiti semplici, quasiumili direi. Un pantalone e una ma-glietta, niente altro. Non è mai cambia-to in questo. Il giorno che è morto glihanno trovato le scarpe bucate. Unasua collega mi sussurrò: «Prendi le scar-pe del matrimonio, mettiamo quelle».Lui le aveva conservate con cura in unascatola. Ma sono servite a poco, perchéPaolo non aveva più le gambe, e nean-che le braccia, il suo corpo era stato di-laniato dall’esplosione.

Pochi giorni dopo la passeggiata al

Foro Italico decidemmo di sposarci. Epure in fretta. Quella scelta scatenòperò un terremoto. Tutti ci presero permatti. “Forse ci fu cosa?”. Ovvero, forseAgnese aspetta un bambino e quello èun matrimonio riparatore? Natural-mente, allo scoccare dei nove mesi, tut-ti dovettero ricredersi. E in paese disse-ro: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.

* * *Amore mio, ogni giorno scendeva da

casa alle 4 del mattino, si faceva un belpo’ di strada a piedi e andava fino allastazione Lolli per prendere il treno di-retto a Mazara del Vallo. Alle 8 era giànella sua aula di pretore. Qualche volta,mentre era sul treno di ritorno verso Pa-lermo, telefonavano a casa perché c’e-ra stata un’emergenza a Mazara. Era laprima cosa che gli dicevo al suo rientro,dopo averlo abbracciato. Lui non bat-teva ciglio, non si lamentava. Beveva unbicchiere d’acqua senza neanche to-gliersi la giacca. Mi dava un bacio e misussurrava rammaricato: «Ci vediamodomani». E tornava alla stazione Lolli,di corsa, per prendere l’ultimo treno delpomeriggio.

Un giorno fummo invitati a casa delsenatore La Loggia. Gli amici chiac-chieravano e si vantavano: «Mio padre,il senatore»; «Mio padre, il principe»;«Mio padre, il professore di università».

L’ULTIMA FOTOSopra, Agnese Borsellino nel foyer del TeatroMassimo di Palermo, anni ’60. A destra dall’alto,Paolo si riposa a casa di amici, a Trapani, 1971;con la suocera; in Tunisia, capodanno ’90-’91;Paolo e Agnese con un’amica a Villagrazia,7 luglio 1992: è la loro ultima foto

SPOSIQui sopra, Agnese e Paolo escono dalla Chiesa della Magione, 22 dicembre 1968In copertina, i Borsellino ad Alfedena (Abruzzo) sul lago della Montagna Spaccatail 12 settembre 1976: è una delle pochissime fotodella famiglia al completo

Oltre quella portanon si andava mai

Mio marito Paoloche un giornomi portò al mare

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■ 27DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

Vedevo che Paolo era insofferente, erachiaro che non ne poteva più. Dopo unattimo di silenzio, disse: «Mio padre eracarrettiere, trasportava il fieno». E feceil verso del cavallo. Fui l’unica ad ac-cennare a un sorriso alla battuta di Pao-lo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li co-nosco quei ragazzi, molti sono statimiei colleghi di università». Erano que-gli stessi che l’avevano disprezzato per-ché magari aveva il cappotto rotto o lescarpe bucate.

Alle feste, guardavamo gli altri balla-re. Lui rideva come un matto, io prote-stavo. «Agnese, ma tu perché stai conme? Io non ti do niente di tutto questo.Non sono il tipo di marito che torna a ca-sa sempre allo stesso orario, si mette lepantofole, si siede davanti al telegior-nale e poi nel pomeriggio porta la mo-glie in giro per una passeggiata. Lo saiperché stai con me? Perché io ti raccon-to la lieta novella». La prima volta cheme lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi apiangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti

racconto la lieta novella che sta dentrotante storie di ogni giorno. Ti raccon-terò tutte le storie che potrò. Così il no-stro sarà un romanzo che non finiràmai, sino a quando io vivrò. La lieta no-vella manterrà sempre fresco il nostroamore. Perché l’amore ha bisogno dimantenersi fresco».

* * *Paolo era sempre il primo ad arrivare

in ufficio, di buon mattino, e prendevauna delle adorate papere della collezio-ne di Falcone. Poi aspettava che Gio-vanni se ne accorgesse. Magari, Paolo sidivertiva pure a fargli sorgere il dubbio:«Ma ci sono proprio tutte le tue pape-relle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzierano un modo per allentare la tensio-ne. A un certo punto, Paolo lasciava dinascosto un biglietto nella stanza diGiovanni: “Se vuoi riavere la tua paperacinquemila lire mi devi portare”.

* * *Ricordo le parole di Paolo: «Palermo

non mi piaceva, per questo ho impara-

to ad amarla. Perché il vero amore con-siste nell’amare ciò che non ci piace perpoterlo cambiare». Anche questa erauna buona novella che mio marito miannunciava ogni giorno. Perché a diffe-renza di tante altre persone lui credevanell’uomo, anche il più terribile all’ap-parenza, come appunto è il mafioso.Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputa-ti, persino agli uomini d’onore: «Voi sie-te come me, avete un’anima, come cel’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sen-timenti». Loro gli rispondevano: «Si-gnor giudice, si sbaglia, noi siamo dellebestie». Un giorno, mio marito con-vocò Leoluca Bagarella, il cognato diSalvatore Riina, che in quell’occasionesi trovava fuori dalla gabbia. Il capoma-fia era particolarmente nervoso, feceanche il gesto di sputare. La guardiacarceraria intervenne subito, prenden-do le manette. «Questo è oltraggio apubblico ufficiale». Ma Paolo interven-ne: «Aspetti». E rivolgendosi al capo-mafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?».E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva.Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senzale manette. Era un messaggio chiaro:non ho paura di te, e addirittura possoanche avere fiducia in te. Credo che inquell’occasione Bagarella, stizzito, eb-be a dire: «Il borsello è viscido».

* * *

L’ult imaoccasione incui ho vistov e r a m e n t esorridere Paoloè stato il Capo-danno 1991, adAndalo. Era par-ticolarmente felice perché ci aveva rag-giunto suo fratello Salvatore con la mo-glie e i figli. Fu una festa, l’ultima per lanostra famiglia. In quelle piacevoli se-rate, Paolo non si limitava a intrattene-re la sua famiglia, ogni tanto si allonta-nava per una sigaretta. E scompariva.Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo inmezzo a una comitiva di giovani sciato-ri mentre raccontava di Palermo e dellegesta del pool antimafia.

* * *Mi ricordo come fosse oggi quando il

primo luglio tornò da Roma e mi disse:«Ho respirato aria di morte». Il pome-riggio era stato al Viminale, per l’inse-diamento del nuovo ministro dell’In-terno Nicola Mancino. Quel giornoaveva anche ascoltato il nuovo pentitoGaspare Mutolo, che gli aveva parlatodei rapporti intrattenuti da alcuni uo-mini delle istituzioni con Cosa nostra.Sapeva che dopo Giovanni Falcone sa-rebbe toccato a lui. L’aveva capito. Alpunto da non voler essere baciato né da

CON GLI AMICISopra, Borsellino con l’amico GiuseppeLo Torto; a destra, Paolo con gli amicia Villagrazia, 1987

CON I FIGLIDa sinistra in sensoorario: Borsellinocon nipotina;con la gamba rottainsieme alla figliaFiammetta nel 1987 a Villagrazia;sempre Fiammettail giorno della primacomunione;tutta la famigliaalla cresima di Lucia,1984. Al centro, nel Parco nazionale d’Abruzzo, il giudice con Lucia e Manfredi

IL LIBROIn Ti racconterò tutte le storie che potrò(Feltrinelli Fuochi, 224 pagine, 18 euro)Agnese Borsellino(scomparsa lo scorsomaggio) confessa al giornalista di RepubblicaSalvo Palazzolo i ricordi di una vita

passata accanto al giudiceucciso a Palermo, in via D’Amelio,insieme ad alcuni uomini della scorta. In libreria da mercoledì

me, né dai suoi figli. Ci stava preparan-do al distacco. Due giorni prima di mo-rire, mio marito aveva un desiderio. Midisse: «Andiamo a Villagrazia, da soli,senza scorta». Non era un marinaioesperto, ma nuotava benissimo, perchésolo nel mare si sentiva libero. Incon-trammo un amico, che ci offrì una birra.Poi Paolo volle fare una passeggiata inriva al mare. E non c’erano sorrisi sulvolto di Paolo, solo tanta amarezza.«Per me è finita. Agnese, non facciamoprogrammi. Viviamo alla giornata». Midisse che non sarebbe stata la mafia adecidere la sua uccisione, ma sarebbe-ro stati alcuni suoi colleghi e altri a per-mettere che ciò potesse accadere.

Amore mio, eri rassegnato. Qualchegiorno prima, avevi chiamato al palaz-zo di giustizia padre Cesare Rattoballi,per confessarti. Poi, sabato, hai baciatouno a uno i colleghi a te più cari. Dome-nica, alle cinque, non c’eri più.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA DOMENICA■ 28DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

L’immagineUomini in trinceaUno scrittore cinquantenne in crisi di nervicerca la salvezza dalle sue angosce quotidianenelle vecchie lettere dal fronte del nonnoE così riscopre un perché. A cinque annidall’ultima graphic novelGipi torna con “Unastoria”che va dritta al cuore

IL LIBROCon Unastoria(Coconino Press -Fandango,128 pagine, 18 euro)Gipi (Gianni Pacinotti)torna al fumettodopo due filmda registaIn libreriada domani

Segui le rughee troveraila via d’uscita

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■ 29DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

Altriuomini, altra tempra, al-tri amori, esaltati dalla se-parazione e dalla speranzadi ritorno. I nostri nonni:non chini su Twitter, ma colviso avido di stelle. Gente

per la quale la felicità è una pagnotta, unafumata di pipa in trincea, una lettera da ca-sa, una bevuta di grappa, una coperta caldafra un assalto e l’altro. È tra quei giganti cheseppero masticare la vita a denti pieni per-ché vissuti accanto alla morte che SilvanoLandi, scrittore in crisi di nervi, trova la viad’uscita dalle masturbazioni intellettuali diuomo contemporaneo e dalla clinica in cuitentano di intrappolarlo con i farmaci. Lospiraglio è nella memoria, nelle lettere cheil nonno scrive dal fronte della GrandeGuerra; il nonno mitico, tornato vivo dopoun’avventura da incubo.

«Anche nel buio della notte oscura il cie-lo possiede una luce sua. Mi chiedo, amo-

re, da dove viene questo chiarore. Non dal-le stelle, troppo lontane. Non dalla luna,assente. Che siano i nostri cuori? Le spe-ranze? Le famiglie? Le loro preghiere? I no-stri bambini?».

C’è già tutto, in quelle parole ritrovate,in quella litania-esorcismo che diventa ar-ma decisiva contro la paura e la depressio-ne. E Landi esce, sfugge ai medici affaristiche tentano di usarlo, brancola anche luiin cerca del cielo, la luna, la bellezza deglialberi, e trova fuori di sé la risposta alloschifo di se stesso. I disagi motivati delnonno ridicolizzano i suoi, immotivati, enel fondo della disperazione, come dalbuco di una trincea, alza lo sguardo versole stelle e tenta la risalita, illuminato da unbarlume di speranza.

Non è una storia facile (come sempre)questa che Gianni Pacinotti, detto Gipi, cipropone nella sua ultima graphic novel,Unastoria, l’opera con cui torna a parlarcidopo cinque anni di astinenza dalle gran-di avventure librarie. Un libro che pare la

rappresentazione della sua stessa crisi edella terapia per uscirne: rimettersi difronte a situazioni estreme, barbariche,primordiali, per trovare negli abissi delproprio io il coraggio di uscire. Il “Fuori”guarisce, i viaggiatori lo sanno. Ed ecco ilviaggio di Landi, la memoria della sua vitadi successo ma affettivamente fallita, glischizzi in bianco e nero del presente, le tin-te anche violente degli acquarelli dedicatiai flash back, e soprattutto le immagini ver-de-marcio della trincea, belle come non sivedevano dal tempo degli schizzi a coloridi Paolo Caccia Dominioni.

Non troverete risposte facili qui dentro,Gipi ci prende contropelo, non vuole finaliconsolatori, non titilla il pubblico conmontaggi editoriali ruffiani, non indulgealla vanità, non accetta placebo, non cercala verosimiglianza, non rispetta nemmenole divise, perché rappresenta la guerra as-soluta così come rappresenta la tempestaassoluta di un’anima allo sbando. Cin-quant’anni di ricerca, riassunti in quella fir-

ma con le date della nascita e dell’oggi,1963-2013, messi lì come un epitaffio, ilriassunto di una vita, la conclusione di unciclo. Pagine forti dove ogni pagina è dise-gnata come fosse l’ultima, in stato febbrilee talvolta incosciente, un avvinghiarsi al“qui e ora” come il nonno del Landi chescrive a casa lettere che sono anche testa-mento. Se esiste un incitamento alla rivol-ta (“Indignatevi!”) contro una società in cri-si di nervi, contro un mondo costruito sul-la cosmesi, la rimozione e l’anestesia col-lettiva, eccola: ce l’abbiamo davanti. Nel li-bro si cerca l’esatto opposto di quanto ci of-fre le telecrazia — l’orrore, la memoria, ildolore — e in fondo a tutto c’è la nostra fac-cia senza lifting, con tutte le sue rughe. È lìche dobbiamo guardare, in quella perga-mena che riassume la cartografia del mon-do. Perché i visi della razza umana furonolisci, ai tempi della Creazione. A scolpirli,poi, furono le lacrime. Come i fiumi, sullesponde della montagna.

PAOLO RUMIZ

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

L’ineditoPensieri stupendi

vero e nel contempo naïf. L’aria trasandata, calzet-toni di lana spessa, il sandalo a penzoloni. E queldardo fulminante. È la sua ultima immagine nellaprimavera del 1950, un anno prima di andarsene.

Per la prima volta esce in Italia l’album privato diuna delle figure più affascinanti ed enigmatiche delNovecento. Un mistero destinato a riaccendersicon questa bellissima Biografia per immagini cu-rata da Michael Nedo, che ha raccolto foto, lettere,citazioni, taccuini, appunti e memorie di amici e fa-migliari, incluso l’album costruito con perfezionegeometrica dallo stesso Ludwig. Ne viene fuori ilgrande romanzo europeo nel passaggio tra due se-coli, tra le sinfonie di Brahms e la rivoluzione ato-nale di Schoenberg, tra i decori barocchi della Vien-na fin de siécle e la pulizia architettonica di AdolfLoos, tra il vecchio ordine asburgico e l’aristocraziainglese dei Russell e dei Keynes. Il romanzo della di-struzione e della rinascita. Con un protagonista chesembra capitato lì per caso.

Pur essendo di quel maremoto esemplare incar-nazione, Ludwig dà la sensazione di essere estra-

neo alla sua stessa storia. Piccolo di statura, piutto-sto bello, «il profilo affilato da uccello in volo». Ap-pare spaesato tra gli ori e gli specchi di “palazzoWittgenstein”, in Alleegasse, uno dei più sontuosidella Vienna asburgica: le sorelle riccamente ad-dobbate, gli uomini in marsina, lui in giacca di fla-nella stazzonata, inconsapevole emblema del No-vecento che avanza. Eccolo ancora con gli stivali digomma, tra i suoi scolari contadini della bassa Au-stria, mentre il mondo intellettuale sta già sco-prendo le novità del Tractatus. E poi di nuovo, sulfinire degli anni Venti a Vienna, in scarponi impol-verati nel cantiere di Kundmanngasse, dove avevacostruito la casa per la sorella Margarete. In quellostesso periodo Rudolf Carnap definisce «fonda-mentali» le sue riflessioni sulla logica, ma Ludwigpreferisce concentrarsi sul termosifone angolareper la stanza della colazione. «Era forse l’esempiopiù perfetto del genio così come lo si immagina»,avrebbe annotato di lì a poco Russell. «Appassio-nato e profondo, intenso e dispotico».

Dispotico anche nelle tante vite che scelse di abi-

Maestro di scuolae professore a Cambridge,ingegnere e soldato,giardiniere e filosofoEscono anche in Italiafotografie, lettere e appuntiche illuminano il profilo di un genio del Novecento

Gli ultimi scatti volle controllarli finnel dettaglio. Disse al fotografo chepreferiva essere ripreso di spalle,poi ci ripensò e decise di guardarel’obiettivo. Ma mancava il fondale.Si affrettò allora a casa dei von Wri-

ght a prendere un lenzuolo, Elizabeth gli offrì un te-lo fresco di stiratura ma andava benissimo quellospiegazzato tirato via dal letto. Lo appese davantialla veranda, accostò due sedie per far posto a unsoddisfatto Georg Henrick — suo successore in cat-tedra a Cambridge — e finalmente Ludwig Witt-genstein si accomodò davanti all’obiettivo. Losguardo diretto e teso, come una freccia da confic-care dentro la macchina. È la prima volta che suc-cede, in tutto l’album. Nelle altre sequenze sembraguardare sempre oltre la camera — o anche di sbie-co, talvolta spiritato — il sorriso beffardo di chi nonsi ferma alla realtà apparente delle cose. No, qui no.Pare proprio voler impallinare l’interlocutore, se-

VitaLogica

Laoltre

la

LUDWIG WITTGENSTEIN

SIMONETTA FIORI

IL LIBROLa copertina di LudwigWittgenstein. Biografiaper immagini (a cura di Michael Nedo,Carocci, 458 pp., 75 euro)Sopra dal basso, tre momentidella sua vita: a Cambridge,1929; in guerra,1914; al tornio a undici anni

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DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

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tare. Ingegnere aeronautico. Volontario nellaGrande Guerra. Maestro di scuola elementare.Giardiniere. Architetto. Professore nell’esclusivoclub di Cambridge. La vita è per Wittgenstein unacontinua mossa del cavallo. Fu l’inventore di unanuova filosofia che ruppe con ogni tradizione con-cettuale del passato — le sue elaborazioni sul lin-guaggio cambiarono la geografia mentale dellamodernità — ma non smise mai di contenere l’im-pulso teorico dentro la concretezza del lavoro ma-nuale. Già considerato un fenomeno negli am-bienti accademici, nel 1920 volle andarsene nel vil-laggio austriaco di Trattenbach per insegnare ai ra-gazzi delle campagne tutti i segreti del firmamen-to. Molti strumenti didattici se li fabbricò da solooppure con l’aiuto dei bambini. Modelli di mac-chine a vapore. Martelli di ferro. Scheletri di mam-miferi. «Un ridicolo spreco di energia e di intelli-genza», commentò sprezzante Ramsey, il suo tra-duttore inglese, in una conversazione con Keynes.Figlio di un magnate della metallurgia, Ludwig ave-va scelto di vivere in povertà. E quando la sorella

maggiore Hermine lo rimproverò per le sue scelteal ribasso, lui le raccontò di quel tale che si affannain tutti i modi per mantenersi in equilibrio durantel’infuriare della tempesta. «Ma allo sguardo di chinon sente la violenza del vento paiono movimentiprivi di senso». Lui la tempesta la sentiva fuori edentro. L’aveva sentita fin da quando era bambino.

Casa Wittgenstein era l’equivalente austriacodei Krupp e dei Rothschild, tra enormi flussi di de-naro, serate musicali e fervore d’arte. Brahms ave-va fatto da maestro di piano alla zia Anna. E nel “sa-lone rosso” era praticamente cresciuto lo Jugend-stil, generosamente finanziato dal padre Karl. Inuna foto è poggiato di lato un dipinto di Klimt conuna fanciulla bruna in un abito di voile color ghiac-cio: è la sorella Margarete, ritratta nel 1905 dall’ar-tista poco prima delle nozze. Tra le stanze di Allee-gasse si contano circa ventisei precettori privati perotto figli. Un’atmosfera di «nervoso splendore» cheperò non riesce a camuffare fino in fondo le tensio-ni e i laceranti conflitti propri di un’epoca ma an-che della facoltosissima famiglia. Tre dei fratelli de-cisero di farla finita. E anche Ludwig ha spesso lasensazione «di essere di troppo a questo mondo». Idecori barocchi gli si rivelano presto gusci vuoti,privi di senso, cui contrapporre il rigore estremo diun’assurda capanna da lui costruita vicino al lagoglaciale di Skjolden, Norvegia. Spoglia, essenziale,irraggiungibile su un dirupo. Siamo nel giugno del1914, poche settimane prima del grande botto.

La sua vita privata fu un continuo oscillare tra ilbisogno d’affetto e un’esigenza di quieta solitudi-ne. Nell’album si susseguono molti ritratti maschi-li — prima l’amico David Pinset, poi l’allievo Fran-cis Skinner, ed ancora il giovane operaio Keith Kirk— che riempirono le pagine bianche della sua vitaamorosa, ma senza mai romperne il solipsismosentimentale. Il fatto che queste persone lo ricam-biassero era forse del tutto irrilevante. Anzi, la loroindifferenza finiva per rassicurarlo nella sua splen-dida blindatura. Narra il biografo Ray Monk che l’u-nico a minacciarne l’isolamento fu il devoto Skin-ner, qui ritratto in pose eleganti durante una pas-seggiata a Cambridge. Nel 1935 prese a scriverglilettere turbate — «ti ho pensato un sacco da quan-do ci siamo visti», «ho sperato che ti facesse piace-re sapere quale felicità mi procura vederti» — conl’effetto di provocare il bisogno di lontananza. Nel1941 il ragazzo muore. Ai funerali Ludwig s’aggirasenza requie, come un animale disperato e selvag-gio. Nell’agenda solo un appunto: «Francis dies».

Qualche tempo dopo sarebbe toccato a un giova-nissimo medico incontrato in Inghilterra, Ben Ri-chards, rinnovargli le pene d’amore. Alto, prestan-te, decisamente sensuale. Ha quasi quarant’annimeno di lui, e forse è anche il solo che riesce a ren-derlo «highly inflammable». Per la prima voltaLudwig crede di essersi imbattuto nell’«amore giu-sto». Un’altra ragione per lasciare Cambridge.

«Vorrei una buona volta chiarire la mia vita a mestesso e agli altri», si legge in una pagina dei ma-noscritti. Non sappiamo se sia mai riuscito nelproposito. Michele Ranchetti, uno dei suoi mas-simi studiosi, ha trovato una chiave nel «doveredel genio». «È difficile trovare nella vita dei grandiun esercizio così assoluto di ricerca della perfe-zione». Nell’aprile del 1951, pochi istanti prima dimorire, Wittgenstein fa in tempo a sussurrare aun’incredula Mrs Bevan, moglie del medico che loospitava a Cambridge: «Dite loro che ho avuto unabellissima vita». Forse era anche quello che vole-va dirci nell’ultimo scatto.

L’ALLIEVOWittgenstein ritratto da K.E. Tranojnella primavera del 1950, cioè un annoprima di morire, con l’allievo e amicoGeorge Henrik von Wright,suo successore alla cattedra di Filosofiadell’Università di Cambridge

LE CASENel 1914 Wittgenstein scriveva a Russell:“Mi sto costruendo una piccola casadove poter vivere in solitudine...” Eccola qui sotto, a picco sul lago glacialedi Skjolden, Norvegia. Lontana anni lucedal palazzo di famiglia a Vienna (nella foto in basso uno dei saloni)

MISERIA E NOBILTÀWittgenstein tra i suoi scolari di un villaggioaustriaco nel 1920 e, sotto, il quadro di Klimt alla sorella Margarete, prima delle nozze (1905)

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IL TRACTATUSLa riflessione di Wittgenstein (Vienna 1889-Cambridge 1951) conosce due stagioni diverse. Nella prima,col Tractatus logico-philophicus(1922, qui sopra alcune pagine),lo studioso enuncia tesi ripresedal Circolo di Vienna: la mancanzadi senso della filosofia, l’attribuzionedi senso al linguaggio delle scienze,la logica come unico modello di linguaggio rigoroso. Tesi in parteabbandonate nelle Ricerche filosoficheuscite postume. Le lezioni di Cambridgefurono determinanti per lo sviluppodella filosofia analitica (nella foto in altoappunti per una di quelle lezioni,1935)

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SpettacoliFather and Son

SinatraJr.Frank

La disgraziadi chiamarsi

CONFRONTIFrank Sinatra padre nel 1943e, sotto, Frank Sinatra figlionel 1963: stesso abbigliamento,stessa pettinatura,identica gestualitàNel tondino piccoloSinatra Jr. com’è oggiIn questi giornista presentandola ristampa dei duetti(Duets e Duets II) incisi da suo padrevent’anni fa(in venditadal 19 novembre)

“Mai avuto nessun rapporto con lui se non professionale. Le fotografie sotto l’albero di Natale e tutto il resto? Marketing”Intervista al cantante settantenne che per tutti resta “il figlio di” E che chiamava “Mister” suo padre

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ginità, che la loro relazione è durata finoalla morte di lui e che il figlio Ronan nonè di Woody Allen ma dell’ex marito. «Seavessi dovuto fornire campioni di dnaogni volta che una donna ha dichiaratodi aver avuto un figlio da mio padre nonavrei più una stilla di sangue in corpo»,taglia corto. Fu proprio nel periodo incui nacque Ronan che il vecchio Frank— 72 anni, fisicamente provato e con lavoce sgranata — chiamò al telefono il fi-glio 44enne: «Che ne diresti di diventareil mio direttore d’orchestra?». «Rimasi distucco. “Perché io? Perché dopo tantianni?”, farfugliai, “hai musicisti meravi-gliosi a disposizione”. E lui: “Nessuno diloro capisce quel che sto facendo. Forseper un altro cantante è più facile”. Cosìlavorai per lui negli ultimi sette anni del-la sua carriera, dal 1988 in poi. Una rela-zione squisitamente professionale,troppo tardi per recuperare quella affet-tiva». Racconta dei loro frequenti viaggiin Italia, dei nonni genovesi, siciliani enapoletani, dell’emozione di riscoprirele sue radici, di incontrare il suo idoloEnzo Ferrari. E si commuove. «Se nonfosse stato per quegli anni non avreiavuto nessunissima relazione con lui»,mormora mentre la tazza del caffè tin-tinna nel piattino che ha in mano.

Alla fine, quanto è difficile essere fi-glio di un’icona pop? Si scuote, recupe-ra l’aplomb col quale ha sempre gestitoil suo ruolo di figlio di…: «Quel tanto chegli permetti di esserlo. Un tempo ne sof-frivo, mi sentivo trasparente, la gente miguardava attraverso sperando che dal-l’altra parte comparisse lui. Non impor-tava se avessi sentimenti, una persona-lità, capacità professionali. Ma ho quasisettant’anni, non c’è più tempo per ran-cori e rimpianti». Si congeda porgendouna copia di That Face!, il suo ultimo cd.Un crooner perfetto. Quasi come papà.

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no del destino. È elegantissimo nel suocompleto italiano, perfetto dalle scarpestringate alla regimental. A Londra hascelto lo stesso hotel dove scendeva suopadre, nello Strand, a due passi dai gran-di teatri. Che sia cresciuto a corte si ca-pisce da come si rivolge al suo assisten-te. «Chaaaaarles! Il caffè si è raffreddato,puoi fare in modo di averne dell’altro?».

Charles Pignon, che fu il giovanissi-mo segretario del vecchio Sinatra, oggicura gli interessi di Frank Jr. ed è a capodella Sinatra Music Society. «Era con noianche tutte le volte che io e Mr. Sinatrasiamo venuti in Italia», precisa. Non lochiama mai papà, non ci riesce, solo esempre mister, come fosse un estraneo,un superiore o semplicemente il boss.«Prima di lavorarci insieme, dalla finedegli anni Ottanta, non avevo mai avu-to alcun rapporto con lui. Dopotuttoavevo anche la mia carriera a cui pensa-re, ho il mio seguito, ho tenuto spettacoliin ottantuno paesi del mondo». Già lacarriera, una vita a duellare con quel co-gnome ingombrante. «Incominciai asuonare nei club nel 1962, a diciott’an-ni; fosse stato per me avrei evitato di di-re che ero suo figlio, come facevo a scuo-la», mormora l’artista, divorziato e conun figlio, Michael, che lavora in Giappo-ne. Ma lo sapevano tutti, anche perché iprimi ingaggi, inevitabilmente, arriva-rono dai casinò del Nevada, dove il RatPack aveva il monopolio dell’intratteni-mento. Lo sapevano bene anche i suoirapitori quando l’8 dicembre del 1963 —in quello che fu definito l’anno terribiledi The Voice (il suo amico fraterno JFKera stato assassinato a Dallas pochi gior-ni prima) — il ragazzo fu rapito nellastanza 417 dell’Harrah di Lake Tahoe. Diquei pochi giorni da sequestrato, primache suo padre pagasse un riscatto di240mila dollari (l’equivalente di 1,3 mi-

lioni di oggi), Frank Jr. non ha mai volu-to parlare, ma le illazioni della stampafurono pesantissime. Sebbene i respon-sabili fossero stati arrestati e condanna-ti, qualcuno azzardò che Sinatra avessearchitettato tutto per lanciare la carrie-ra di Frank Jr., o peggio che il ragazzo fos-se stato rapito dai suoi compari — un av-vertimento mafioso in piena regola.«Così crollò il mio castello di carte, l’illu-sione di andare avanti senza essere as-sociato a lui». Ma come avrebbe potutonasconderlo? Avevano gli stessi gusti.«Già», riflette, «anche se da ragazzino miinteressavo alla classica. Studiavo pia-noforte, volevo diventare concertista ecompositore. La prima volta che venni aRoma, l’anno dopo il rapimento, vollivedere tutti i luoghi che avevano ispira-to Ottorino Respighi, i pini del Gianico-lo e quelli dell’Appia Antica».

È arrivato a Londra in rappresentan-za di suo padre in occasione della ri-stampa dei due album di duetti (DuetseDuets II) con cui Sinatra nel 1993, cinqueanni prima di morire, sfidò le classifichepop swingando con Bono e ArethaFranklin, Barbra Streisand e Willie Nel-son. Le riedizioni sono zeppe di inediti,compresa una versione di My Way can-tata a due voci con Luciano Pavarotti.Frank Jr. cade dalle nuvole. «Chaaaar-les! Eri a conoscenza del fatto che Mr. Si-natra avesse incontrato Pavarotti?». Ti-mido e riservato, Frank Jr. omette di sot-tolineare che in quei dischi c’è anche lasua di voce, padre e figlio impegnati inuna versione di My Kind of Town. «Fusolo un’operazione di marketing», mi-nimizza. «Non fui neanche consultatoquando arrivò il momento di incidereDuets. Il duetto più strombazzato fuquello con Bono (I’ve Got You Under MySkin). In realtà lui odiava il rock, come loodio io: “C’è poco da essere fieri che sia

nato in America”, diceva. Non soppor-tava neanche Elvis, la loro apparizionetelevisiva negli anni Sessanta fu orche-strata per pure esigenze commerciali».

Nella giungla di biografie pubblicatedopo la morte di The Voice c’è sempre inbella mostra una foto scattata nel di-cembre del 1953 mentre padre e figliopasseggiano per la First Avenue, NewYork, in compagnia dell’ereditiera Glo-ria Vanderbilt. Stesse scarpe, stessi pan-taloni, stesso paletot, solo i cappelli so-no diversi — Frank Jr. non avrebbe po-tuto indossare un borsalino a nove an-ni. Ma tanti sono anche gli scatti di Sina-tra in famiglia, accanto all’albero di Na-tale, con la prima moglie e i tre figli (oltrea Frank Jr., Tina e Nancy, che negli anniSessanta ebbe una brillante carriera co-me cantante pop, ma su un registro to-talmente diverso da quello del padre).«Incideva quattro album, girava duefilm e teneva un’infinita serie di concer-ti all’anno. Avrebbe avuto bisogno ditrenta ore al giorno per occuparsi dinoi», dice Frank Jr. Forse davvero quellapasseggiata a tre fu un pretesto per svia-re i paparazzi. The Voice, che ostentauna risata gloriosa, aveva disperata-mente bisogno di rassicurare i fan. Il1953 era stato un altro anno terribile, ilpeggiore per un uomo che non era abi-tuato a perdere. Ava Gardner, la diva cheaveva mandato a rotoli il matrimoniocon Nancy Barbato, l’aveva abbando-nato. Si parlò di ripetuti tentativi di sui-cidio (la Vanderbilt, esibita come buonaamica, consolava il cuore infranto, enon solo a parole). Frank Jr. non ne vuolsapere di commentare le gesta del piùimpenitente Don Giovanni di Hol-lywood. Tanto meno le recenti dichia-razioni di Mia Farrow, sposa-bambina eterza moglie del padre, che ora va di-cendo di aver regalato a Frank la sua ver-

LONDRA

uando Nancy Barbato ri-mase incinta del secon-dogenito di Frank, NewYork era ostaggio dei “Si-natra riots”: ogni giorno

cinquemila ragazzine urlanti paralizza-vano Times Square in attesa delle ma-tinée del divo al Paramount Theater. «Èdai tempi di Rodolfo Valentino che ilpubblico femminile non dichiara aper-

tamente il proprio amore aun artista», scrisse il Ti-

me. Quando nac-que, il 10 gen-

naio del 1944,Francis Way-

ne Sinatra— Frank Si-natra Jr.per quelliche hannoseguito lasua carrie-

ra di can-tante e

bandleader— trovò ad ac-

cudirlo solo i non-ni. Suo padre era già

stato sequestrato dall’A-merica, assente («giustificato», gli

concede l’erede) per quasi mezzo seco-lo. Frank Jr. appartiene alla stirpe realedel pop, figlio del più venerato entertai-ner del Novecento, crooner dall’inimi-tabile fraseggio, primo sex symbol dellastoria del pop. Il piccolo Frank ha avutola disgrazia di aver ereditato i geni pa-terni, non solo per la somiglianza fisica,che è diventata impressionante ora cheè avanti con l’età, ma anche per la voca-zione artistica. Una beffa più che un do-

GIUSEPPE VIDETTI

DISCHI

Quattro copertine

di Frank Sinatra Jr.

Nella foto è al Patty Duke

Show (1963)

INSIEME

Padre e figlio nel 1960

A sinistra la notizia

del rilascio di Frank Jr.

(1963)

Q

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la Repubblica

NextRip

LA STORIA

Esequie in streaming, lapidi interattive, alberi jpegdel ricordo, hashtag del defunto e tombe web:

il lutto si addice all’elettronica. Perché la tecnologia risponde al bisognoantico di rendere sopportabile il vuoto incolmabile

e tenere sempre più vivo il legame col caro estinto. Anzi, il link

EGITTOI corpi dei faraoni venivanomummificati medianteimbalsamazione. Le primetestimonianze dell’impiegodi sostanze conservantirisalgono intorno al 3000 a. C.

MARINO NIOLA

era una volta l’anima immortale. Adesso a essere immortale è ilprofilo Facebook. L’Io immateriale che sopravvive a quello ma-teriale. Così la progressiva digitalizzazione della vita digitalizzaanche la morte. Siamo decisamente entrati nell’era del cordoglio2.0. Cimiteri virtuali, siti per ricordare i propri cari estinti, esequiein rete, funeral home immateriali, blog commemorativi, com-munity del dolore, hashtag in memoriam, video di compianto suYou Tube. L’aldilà bussa imperiosamente alla porta del Web e bu-ca con uno spillo quella illusoria bolla di eternità che sembravaavvolgere il giovane mondo di Internet. Che è contagiato dallamorte, ma la contagia a sua volta con la sua viralità incorporea.L’effetto è un folgorante cortocircuito tra l’assenza e la presenza,tra la scomparsa dell’individuo in carne e ossa e la sua sopravvi-venza tecnologica. Tra l’altra vita e la second life.

“The mourning becomes electric”, titolava qualche tempo fa ilquotidiano Usa Today parafrasando il celebre titolo del drammadi Eugene O’Neill, Mourning becomes Electra, Il lutto si addice aElettra. Ma ancora di più il lutto si addice all’elettronica. E questa,

a sua volta, sembra fatta apposta per tradurre in nuovi riti l’evolu-zione dell’homo digitalis. Che ricorre alla tecnologia per trovareforme nuove a bisogni antichi. Come quello di seppellire i proprimorti, di ricordarli, di rendere sopportabile il dolore di un vuoto in-colmabile. È questo il senso profondamente umano dell’elabora-zione culturale del lutto, il più antico e universale dei rituali. Gli uo-mini si distinguono dai bruti proprio perché assegnano ai defuntiuno spazio dove riposare in pace. E ai vivi un luogo fisico, ma an-che un tempo interiore, per farli rivivere nel loro cuore.

Oggi l’hi-tech riscrive le cartografie della realtà e cambiaprofondamente le coordinate della nostra esistenza. Lo spazio di-venta più congestionato e il tempo più accelerato. I nostri cimite-ri sono sovraffollati. Proprio come le nostre città e le nostre gior-nate sempre più zippate. È quasi fatale che questa mutazione an-tropologica che riguarda la vita, si rifletta negli atteggiamenti ecomportamenti relativi alla morte. Da un sondaggio del sito com-memorativo peoplememory.com risulta che le visite al cimiterosono in netta diminuzione e l’ottantacinque per cento degli in-tervistati ne attribuisce la causa alla distanza eccessiva e alla man-canza di tempo. E allora la rete viene in soccorso di un’umanitàche ha i minuti contati, ma non vuole rinunciare a mantenere unlegame con le persone care che non ci sono più.

Così nascono siti web che consentono visite digitali alle tom-be dei propri cari. Alcuni lo fanno in termini algidamente buro-cratici e trattano le persone in lutto come utenti di un servizio co-me un altro. Altri lo fanno invece con poetica delicatezza. Traquesti il francese comemo.org dove è possibile piantare un albe-ro jpeg da dedicare alla persona cara. E appendere ai rami unpensiero affettuoso, un ricordo emozionante, una foto commo-vente. O semplicemente un grazie che viene dal profondo delcuore. In questi giardini della memoria si coltiva insomma quel-la che Ugo Foscolo, nei Sepolcri, chiamava celeste corrispon-denza d’amorosi sensi. Ma tradotta in connessione permanen-te. Al punto da poter partecipare alle esequie in streaming. E neisiti made in China si può noleggiare una barca virtuale per spar-gere le ceneri nell’oceano. Ma adesso vanno in rete anche i cam-posanti veri e propri. L’idea è di una websociety di Avellino —puntoceleste.it — che ha messo online la pianta dei cimiteri dimolti comuni associati. L’iniziativa è appoggiata dai sindaci deipaesi ad alto tasso di emigrazione — Atripalda, Savignano Irpi-no, Castelverde e altri — per consentire a cittadini e comunità se-parate dall’oceano di confortare il riposo di familiari, amici, co-noscenti, sepolti a migliaia di chilometri di distanza. Accenden-do lumini votivi, postando frasi di compianto, mettendo fiori sul-la web-tomba. Ma c’è anche la possibilità di inviare fiori autenti-ci grazie a una convenzione con i fiorai locali. Costo per gli uten-ti, dai cinque ai quindici euro per accendere una lampada a LongIsland e farla brillare a Savignano. E al posto del vecchio registrodi condoglianze ci sono gli hashtag organizzati da parenti e ami-ci dove è possibile caricare una biografia dello scomparso, unagallery di immagini, clip audio e video, una sezione di materia-li che furono del caro estinto.

Ma la digitalizzazione ormai entra anche nelle tradiziona-li aree cimiteriali. E inaugura l’era della lapide interattiva. Nelcimitero danese di Roskilde e in quello americano di Seat-tle le tombe hanno il QR code. Basta inquadrare il codicecon lo smartphone per linkare la memoria dello scom-parso e accedere alla sintesi Web della sua vita. Le chia-mano anche living headstone, lapidi parlanti. Per-ché raccontano aneddoti bizzarri, episodi tristi,particolari teneri che formano il tessuto viven-te del ricordo. Quello che ci lega a chi non è piùcon noi. E adesso quel legame diventa lette-ralmente link. E ci apre il cuore come un popup. Ma qualche volta lo spezza. Quando Fa-cebook ci ricorda il compleanno di una per-sona cara che non c’è più. E in molti ri-spondono “buon compleanno in paradi-so”. Un’esperienza sempre più comune,visto che nel social network riposano or-mai venti milioni di anime. Una commu-nity che dialoga coi vivi come in una toc-cante Spoon River digitale.

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L’aldilà è onlinenei secoli dei secoli

ANTICA ROMASi praticavano sia cremazioneche inumazione, diffuseanche nella Grecia anticaLe prime catacombe cristianesaranno chiamate coemiterium,cioè dormitorio

C’

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MEDIOEVOIn città si diffonde la sepolturanelle chiese. Più il defuntoera illustre più la tomba era vicina all’altareI poveri venivano inumati in fossecomuni attorno alle mura

AZTECHISi seppellivano solo i mortiannegati o colpiti da determinatemalattie. Tutti gli altri venivanobruciati su cataste di legna,legati in posizione fetalee avvolti in pesanti coperte

OCCIDENTENel 1804 Napoleonecon l’Editto di Saint Cloudvietava le sepoltureall’interno dei centri abitatiInsorgono in tanti,Ugo Foscolo scriverà I sepolcri

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LA DOMENICA■ 36DOMENICA

la RepubblicaLA DOMENICA

■ 36DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

Buone, sane e maledettamente utili: perché frutta, verdurae legumi sono insostituibili agenti immunitari Difficile trovare una ricetta più semplice,ma attenzione a freschezza, cottura e condimentiÈ lì che si fa la differenza: solo così radicchi, verzao barbabietole possono entrare nei menù dei grandi chef

I saporiSupernatural

Il radicchio, per esempio, membro d’onore della famiglia delle ci-corie. Oppure la barbabietola, così dolce che da una varietà di betavulgaris si ricava lo zucchero. O la verza, campionessa delle brassi-cacee, vero tesoro di vitamina C e Beta-carotene. La tavola d’au-tunno manda in passerella le sue insalate, colorate e nutrientiquanto quelle primaverili. Buone, sane e maledettamente utili, vi-

sto che le settimane di novembre fungono da cuscinetto tra gli ultimi bri-vidi caldi d’estate e l’arrivo del freddo. Mai come in questi giorni, infatti, ilcorpo ha bisogno di attrezzarsi per combattere i primi virus vaganti. E se èvero che diete e prescrizioni devono essere necessariamente tailor made,essendo ogni corpo a suo modo unico, il mondo vegetale riesce come unafonte ubiquitaria e inesauribile di micronutrienti, urbi et orbi.

Gli ultimi studi di neuroimmunologia dicono senza ombra di dubbioche verdure, frutta e legumi sono i migliori cibi possibili per de-stressare

l’organismo e combattere l’ossidazione, mantenendo alti i livelli immu-nitari, né esistono supplementi alimentari che possano sostituirli. Altrodettaglio importante: la maggior parte delle vitamine è tremendamentetermolabile, ovvero patisce il caldo e il freddo. In più, le bolliture tendonoa dilavare sali minerali e oligoelementi. Tanti indizi per una soluzione fa-cile facile: l’insalata. Difficile trovare una ricetta più semplice. Si cuoce so-lo ciò che non si può mangiare crudo – patate, legumi, castagne – azzar-dando invece, con ottimi risultati, la declinazione cruda di verdure che abi-tualmente cuciniamo, come zucca, barbabietole, topinambur. Semplice,

non facile. Intanto, perché per sfruttare il loro poten-ziale massimo in termini di integrità, salubrità, sa-pore, verdura e frutta vanno scelte privilegiando pro-duzioni locali e naturali, ovvero km tendenti allo ze-ro e agricoltura biologica. Stesso discorso per la con-servazione: colto e mangiato, dovrebbe essere lo slo-gan, pratica lontanissima dalle superspese settima-nali o quindicinali, rito accessorio ai ritmi convulsidella quotidianità. E poi attenzione alle cotture – va-pore in primis – e ai condimenti (senape, semi di zuc-ca, maionese alleggerita col bianco d’uovo, patè d’o-

live, capperi, acciughe sciolte in poco extravergine...) capaci di accenderel’assemblaggio più scontato.

Così, le insalate stagionali sono entrate nei menù di molti grandi cuochiitaliani, a partire dal tristellato Enrico Crippa (Piazza Duomo, Alba), che hasaputo trasformare l’insalata – battezzata “21, 31, 41, 51” a seconda del nu-mero di ingredienti, tra erbe, fiori, foglie e semi – in magnifico piatto-firmadel ristorante. Una magìa resa possibile dalla dedizione con cui la brigatadi Crippa coltiva un super orto nella campagna langarola. Se il gusto ama-ricante del radicchio vi stuzzica, regalatevi un fine settimana nella cam-pagna trevigiana, punteggiata di appuntamenti che celebrano “i fiori d’in-verno”. E poi cominciate a zappettare i vasi sul balcone di casa, per prepa-rare la semina di cavoli, cipolle, aglio, lattuga e cicoria. L’insalata home ma-de vi renderà orgogliosi e immuni (o quasi) dall’influenza.

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Coltoe mangiato

FunghiDai pregiati ovuli serviti

in beata solitudine ai porcini con scaglie

di Parmigiano, fino agli champignon,

da irrobustire con speck e Montasio

FinocchiDolci e consistenti,ideali con i saporidelicati (pesci,formaggi freschi)Pepe nero macinato o vinagrette alla senapeper dare personalità

AgrumiProfumo e vitamine

in versione salata:arancia con finocchi

e olive, cedro concaprino e melograno,

clementine convaleriana e nocciole

NociPreziose per la qualitàdegli acidi grassi,passepartout golosoper supportare gustilievi (indivia belga) e addolcire quellirobusti (gorgonzola)

RadicchioCespi croccanti,

dal gusto amarognolo,da spendere

in versione terragna — frutta secca

e passa, formaggi — o con crostacei

LICIA GRANELLO

autunnoInsalated’

Barbabietole al forno con arance e melagranaInsalata speziata con zucca, feta e olive

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DOVE MANGIARE

LOCANDA SAN TOMASO (con cucina)Viale Burchiellati 5 TrevisoTel. 0422-541550Doppia da 95 eurocolazione inclusa

VILLA BUSTAVia Busta 39MontebellunaTel. 0423-289060Doppia da 90 eurocolazione inclusa

VILLAFOSCARINIVia Terraglio 4MoglianoTel. 041-590 6137Doppia da 85 eurocolazione inclusa

DOVE DORMIRE

HOSTARIA DELLE DUE TORRIVia Palestro 8TrevisoTel. 0422-541243Chiuso martedì,menù da 30 euro

EL PATIOVia Croce 35 PreganziolTel. 0422-633240Chiuso martedì e mercoledì a pranzo,menù da 30 euro

OSTERIAPIRONETOMOSCAVia Priuli 17 CastelfrancoTel. 0423-472751Chiuso lunedì e martedì, menù da 30 euro

DOVE COMPRARE

ZUCCHELLOEMPORIUMVia S. Pelaio 135 TrevisoTel. 0422-480004

AZIENDAAGRICOLAGRAZIOTTOVia Postumia 8Ponzano VenetoTel. 0422-301171

COOPERATIVASOCIALECAMPOVERDEVia Loreggia 36CastelfrancoTel. 0423-748258

LA RICETTA

■ 37DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

■ 37DOMENICA

la Repubblica

CavolfioreBollito e condito

con sott’aceti, olive e acciughe

nella napoletana ricetta“di rinforzo”, oppurecrudo con maionese

leggera e capperi

ZuccaInfornata o lessata (a bastoncini) ma anchecruda, in tandem con salame e noci, o Emmenthaler,barbabietola e pistacchi

PereDai proverbiali

formaggi (soprattuttoerborinati e stagionati)

ai salumi, di cuitemperano la sapiditàIn lamelle sottili anche

con noci e spinaci

CastagneBollite e sbriciolate in alternativa alle patate per darestruttura amidacea,insieme a radicchio,formaggi freschi, mele,semi di zucca tostati

Pomodorisecchi

Perfetti in compagnia di pesci conservati(acciughe, aringhe,

baccalà) e saporimediterranei (capperi,

origano, olive)

Gli indirizzi

Daniele Zenato è il cuoco del VecioFritolin di Irina Freguia, a pochi passi dal mercato di Rialto, dove rivisita piatti tradizionali veneziani, come la ricetta ideata per Repubblica

Insalata di tonno e finocchi con citronette

Tagliare la zucca a spicchi, metterli in una teglia con olio, sale, una spolverata di zucchero a velo e infornare mezz’ora a 180° . Incidere i marroni

e arrostirli in forno a 200°. Sbucciarli caldi. Pulire i carciofini e cuocere con olio e vino bianco. Cuocere le barbabietole in acqua, conservarneuna da tagliare a spicchi. Frullare le altre per ottenere una crema densaTagliare il cavolfiore a cimette, da cuocere in latte e acqua profumataalla vaniglia. Sbollentare le puntarelle in acqua salata. Dividere

il cuore del radicchio in piccoli ciuffi. Formare cinque righe sul piatto con la crema di barbabietola, come fosse un pentagramma. Posare

lo spicchio di zucca come chiave, poi gli ingredienti a mo’ di note musicali

Ingredienti per 4 persone300 g. di zucca200 g. di cavolfiore 200 g. di puntarelle 300 g. di radicchio tardivodi Treviso 6 carciofini 800 g. di barbabietole variegatetipo Chioggia

Insalata pentagramma 2013

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Treviso è un incanto, ma la linea piatta dell’orizzonte continua a lasciarmi sgomen-to. Sono un emiliano d’Appennino costretto in pianura, di tanto in tanto devo perforza cercare la sicurezza delle colline. Non è difficile, basta lasciarsi alle spalle le mu-

ra ricamate di leoni di San Marco — la Serenissima comandava anche qui — e prendereverso nord. Venite con me.

Non fatevi spaventare da una statale dritta, circondata da capannoni, villette modernee ville palladiane; nemmeno se tutto è incredibilmente piatto e, in questa stagione, am-mantato da nebbia. Quando finalmente si sale, noi montanari ricominciamo a respirare.Ci arrampichiamo tra Vidor e Guia, tra San Pietro di Barbozza, Santo Stefano, Col San Mar-tino e le capitali Conegliano e Valdobbiadene. La nebbia sfuma e, sopra, troviamo il sole.Ecco il mio nuovo Appennino, fatto di vigneti a perdita d’occhio, piantati su pendii ripidi,aspri. Le viti si avviano alla dormienza, per essere tagliate e plasmate dalle dita gelate deicontadini, sino a quando a primavera daranno i frutti che cambieranno colore d’estate,poi saranno raccolti e pigiati. E dopo due fermentazioni diventeranno Prosecco.

Fermiamoci in questo paesino. Si chiama Rolle, e richiama qualcosa che il poeta Zan-zotto ha definito «cartolina mandata dagli dei». Dietro l’angolo c’è un ristorante ricavatoin un vecchio monastero, un grande spiedo nel caminetto, in cucina radicchio e marronidi Combai. Andiamo poi a cercare la cantina di Loris Follador, e il suo profumato Prosec-co con il fondo, o sur lie alla francese. Dopo, la nebbia che inghiotte la vallata ci sembreràun oceano di silenzio e pace.

L’autore ha pubblicato Io sono lo straniero (Mondadori, 2013)

Marroni, prosecco e sole sopra la nebbiaSulla strada

GIULIANO PASINI

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400 g. di marroni 1 baccello di vaniglia latte fresco vino biancoextravergine gardesanofior di salepepe macinato fresco zucchero a velo

Page 14: DI REPUBBLICA DOMENICA NOVEMBRE NUMERO 452 CULT …download.repubblica.it/pdf/domenica/2013/03112013.pdf · 2013-11-03 · ni che precedettero la sua morte. E allora tante parole

LA DOMENICA■ 38DOMENICA 3 NOVEMBRE 2013

la Repubblica

Dall’alto dei suoi settantatré annie dei suoi tanti film, il grande regista si lascia andare solo quando può parlare di smartphone (“la più importante delle invenzioni”),

cocaina (“l’oro di oggi”)e di (soprattutto cattivo)cinema: “Che senso ha?È questa la domandache mi rincorre quandoficco il naso nei kolossal

del momento. C’è davvero genteche paga un bigliettoper vedere questa roba?”

MONTREAL

Cine-cultore di sdoppia-menti e voyeurismi,Brian De Palma nella vi-ta quotidiana capovol-

ge il suo cinema: si sottrae alla vistasparendo nella folla. Durante i festi-val, atteso ai riti d’obbligo, preferisceschivare il tapis rouge e mescolarsi alpubblico per assistere alle proiezioniin assoluto anonimato: unica ragio-ne, per lui, d’essere lì. Il regista delFantasma del palcoscenico è un fan-tasma della platea? «Che c’è di meglionelle cine-adunate che immergersinel buio e stare a guardare? Ogni festi-val è una vendemmia, prima che i filmvengano imbottigliati e spediti in gi-ro. Tante pellicole insieme sono un’e-splosione d’emozioni, concentrate inpochi giorni. Un delitto non approfit-tarne». Non s’è fatto sfuggire l’occa-sione a Cannes, che l’aveva invitatonel 2000 con Mission to Mars, né ognivolta che torna alla Mostra di Venezia,nel 2006 e 2007 con The Black Dahliae Redacted (Leone d’argento) o, l’an-no scorso, con Passion: «Venezia èuna città marziana, tutta cinema ma,per me, anche musica: quella dell’a-mico Pino Donaggio, autore delle co-lonne sonore di sette miei film». Ma èa Montreal, nelle sale infinite del Fe-

stival des Films du Monde, che il regi-sta americano ha messo radici. Pun-tuale, fedelissimo negli anni ’80-’90,ora più sporadico ma sempre curioso,mai sazio. Finisce quasi sempre pergirare, dentro o attorno ai festival a cuiè invitato il nuovo film: due anni dopoCannes, Femme fatale con il superboincipit di seduzione saffica e scambiodi collane nelle toilette o, nel 1998,nello stadio di Montreal, Omicidio indiretta con il sapiente piano sequen-za d’apertura di diciassette minuti(ma con tre “cuciture” elettroniche)che gareggia in vertigine con quellode L’infernale Quinlan di Orson Wel-les, mito massimo del regista.

A settantatré anni compiuti l’11 set-tembre, De Palma appare smagrito einfragilito, l’acidula barbetta sale-pe-pe, l’occhio tuttora vigile e pungente.Più piacevole, con lui, intrattenersi suincognite e memorie del cinema chesu quelle private, liquidate timida-mente e in fretta. Nascita a Newark,New Jersey, come si sa origini italianesia il padre chirurgo ortopedico che lamadre casalinga, scuole protestanti aFiladelfia, facoltà d’ingegneria aManhattan, tre mogli fugaci: NancyAllen, dal ’79 all’ ’83 (sua attrice in Car-rie, Home Movies, Vestito per uccideree Blow Out, tutti riproposti nell’omag-gio del Festival di Montpellier che s’èchiuso ieri), la produttrice Gale AnneHurd, dal ’91 al ’93, da cui ha avuto lafiglia Lolita, oggi ventiduenne e, dinuovo, un’attrice, Darnell Gregorio,dal ’95 al ’97, e seconda figlia, Piper, di-ciassette anni. Nel flashback autobio-grafico, brilla un entusiasmo inatteso,per le nuove tecnologie: «Una febbreche mi ha trasmesso da ragazzino miofratello maggiore Bruce, scomparsonel ’97, orgoglio di famiglia per l’acu-me scientifico. Al liceo lo emulavo: hovinto un concorso con lo studio suL’applicazione della cibernetica alleequazioni differenziali e ho fabbrica-to con lui computer primordiali. Perme gli smartphone sono la più impor-tante delle invenzioni recenti, perchéci modificano profondamente la vita.Perciò ne ho fatto un ingranaggio diPassion, la sua metafora chiave».

È al cinema che si sposano le confi-denze più intime del regista, quasiavesse incorporato il credo dell’altrosuo mito, Alfred Hitchcock, per cui “ilcinema è come la vita senza le sue par-ti noiose” (anche se, per la critica piùvelenosa, “De Palma riesce a rimette-

re nei film tutte le parti noiose della vi-ta”). Non a caso, quasi tutto il suo ci-nema è fatto di cinema. Remake,omaggi agli autori prediletti (in BodyDouble - Omicidio a luci rosse l’accu-mulo incrociato di rimandi a tre Hit-chcock), fino alla cine-copia ironica-mente corretta: ne Gli intoccabili, lacarrozzella che ripete, ma con happyend, il precipizio della scalinata nellaCorazzata Potemkin, sequenza diculto divenuta la Gioconda coi baffidel cinema. «Mi piace rimettere lemani sul cinema già fatto, sui perso-naggi ormai definiti, perché c’è sem-pre qualcosa che si può aggiungere,togliere, aggiornare. Il mio grande so-gno è una versione del Tesoro dellaSierra Madre di John Huston, con iprotagonisti premiati non da un gia-

cimento d’oro, ma di cocaina, oro delnostro tempo. Un’idea affiorata conScarface, appena tornato in sala, re-staurato: al remake del film diHoward Hawks, con cui trent’anni faho consacrato star Al Pacino, ero sta-to spinto dalla prospettiva di calarminella comunità cubana di Florida enell’universo della coca, che nellemontagne si raccoglie a costo zeroma, arrivata in città, vale milioni, do-po aver rimbambito strada facendo itrafficanti incapaci d’astenersene».

Sia nei thriller che nei fantasy uscitidal suo filtro cinefilo, non si è limitatoa manipolare immagini e storie pree-sistenti, ma ha prelevato «pezzi» origi-nali dei registi amati: di Hitchcock, ilmusicista Bernard Hermann e, di Or-son Welles, Orson Welles. Rara risatadi De Palma: «Li considero i miei dueOscar, io che non ho mai ricevutoneanche una nomination. A trenta-due anni ho diretto in Conosci il tuo co-niglio quel gigante di Welles, attoreformidabile, grande parlatore, genia-le regista nel 1940, anno della mia na-scita, del miglior film che sia mai statogirato, Quarto potere. Ero esaltato e inpena per lui: pieno di debiti, scartatoda Hollywood, aveva accettato di gira-re una quindicina di giorni per racco-gliere un po’ di soldi per il prossimofilm. Altro mio colpo di fortuna, l’an-no dopo, la colonna sonora di Sisterscomposta da Hermann, il mago musi-cale di Psycho, La donna che visse duevolte, Intrigo internazionale. Non homai visto la sua faccia: teneva semprela testa bassa quando parlava. Un vul-cano di collere improvvise, sua rea-zione alle decisioni sbagliate. ComeWelles. La differenza? Hermann so-steneva le sue ire fino al raggiungi-mento dell’obiettivo, mentre Welles,dopo il primo sfogo, lasciava perde-re». Anche Hermann è stato, comeWelles, un angelo caduto di Hol-lywood: «Fu irremovibile davanti alnuovo obbligo produttivo di scriverealmeno una canzone “di successo” afilm — tipo Mrs. Robinson de Il lau-reato o The Ballad di Easy Rider — im-posto a partire dagli anni Sessanta peril prevalere dell’industria discograficasu quella cinematografica. Hermannfu categorico: non scrivo canzonettema musica da film! Lasciò gli Usa perLondra, dove musicò due Truffaut,Fahrenheit 451e La sposa in nero». An-che lei si considera un esule di Hol-lywood? «No, piuttosto un rifugiato

economico. Mi ci sono trasferito a ini-zio carriera per racimolare dollari, im-parando subito la lezione di Allen:prendi i soldi e scappa. Hollywood èuna malattia troppo contagiosa: ci re-sti un minuto di più e ti ritrovi a girareil prossimo Schwarzenegger senzaneanche sapere com’è successo».

Scampato al peggio, ora le riusciràdi ritrovare in un terzo film, HappyValley, dopo Scarface e Carlito’s Way,Al Pacino e, insieme, gli amati-odiatiStudios: «M’ispiro a una storia vera,che ha scosso gli Usa: quella di Joe Pa-terno, allenatore modello d’una squa-dra universitaria di football america-no travolto da uno scandalo di pedofi-lia che ne ha distrutto quarant’anni dicarriera portandolo alla morte dueanni fa. È la discesa agli inferi d’un uo-mo dal passato esemplare: storia affa-scinante, degna di Ibsen o di ArthurMiller. Potrebbe portare aria nuovanella Hollywood d’oggi, occupata ascialacquare milioni in fumetti gran-de schermo, film-giocattolo e nuoveserie di Batman. Quando ho finitoMission to Mars, mi sono detto: “Haispeso cento milioni di dollari: polve-rizzati nello Spazio. Ma che sensoha?”. È la domanda che mi rincorrequando, per testarne l’assurdo, ficco ilnaso nei kolossal del momento: mac’è davvero gente che paga il bigliettoper vedere questa roba?».

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Hollywood è una malattiacontagiosa ti ritrovi a girare il prossimoSchwarzeneggersenza neppure sapere com’è successo

Brian De Palma

MARIO SERENELLINI

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