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PONTIFICIA FACOLTA‘ TEOLOGICA DELL’ITALIA MERIDIONALE
Istituto Superiore Interdiocesano di Scienze Religiose „G. Duns Scoto“ Nola – Acerra
(ISSR)
Didattica Generale a cura del prof. Michele Montella
1
DIDATTICA GENERALE
Le problematiche dell’apprendimento
Teorie e significati
2^lezione
Giovedì 18 – venerdì 19 – giovedì 25 ottobre 2018
Il tema della didattica e la sua collocazione scientifica. Quando parliamo di didattica
a cosa ci riferiamo? La Didattica presenta ancora la fisionomia di una scienza ancella
della Pedagogia, talché ne forma una specie di parte pratica, meno nobile o presenta una
sua epistemologia precisa? Infine la didattica si presenta come un monolite strutturato o
al suo interno possiamo parlare di una metateoria della didattica e, ancora, possiamo
affrontare, come per tutte le scienze, l’argomento dei principi epistemici su cui si
fondano le varie teorie didattiche?
Come si vede già ad uno sguardo immediato il tema della didattica non si presenta
facile, né lineare il suo percorso teoretico. Conviene quindi fermarsi su alcune questioni
che ci aiutano a collocare il discorso in un quadro culturale adeguato alla polivalenza
pedagogica dell’argomento.
Sebbene l’etimologia della parola sia semplice e comprensibile, didattica vuol dire
insegnare, non sempre il significato è condiviso dagli studiosi. Per esempio il concetto
di insegnare è estensibile a quello di educare? Una domanda del genere oggi ci sembra
incomprensibile, eppure ad essa si rivolgevano i filosofi antichi e lo stesso Comenio che
pure ha scritto la fondamentale opera Didactica Magna, nella quale si occupava del
contatto con le cose come strumento necessario alla crescita del bambino. Il pedagogista
e teologo, introducendo un pensiero completamente nuovo, riguardante l’applicazione
dell’insegnamento informato all’istruzione e all’evoluzione graduale della
rappresentazione che abbiamo del mondo, non ha mai fatto mistero di una scienza
didattica che avesse il compito di educare e quindi a quest’ultimo concetto assimilabile.
Solo intorno alla metà dell’Ottocento abbiamo i primi tentativi di analizzare la didattica
come scienza dei processi del sapere distinguendola dal contesto dell’educazione.
Istituzioni di didattica. La didattica, intesa dunque come scienza, ha sviluppato una
serie di aspetti teoretici che ne approfondiscono le sue caratteristiche, i cui elementi si
collocano in un ampio quadro interdisciplinare tale da permetterne un’articolazione
compatta e coerente. Ad uno sguardo essenziale potremmo dividere le istituzioni
didattiche, cioè i vari aspetti scientifici, secondo tre focus a loro volta policentrici.
Il primo polo riguarda il rapporto Insegnamento – apprendimento a cui afferiscono le
teorie della didattica e dell’apprendimento, della conoscenza e della mente. Un secondo
polo riguarda la progettualità, tipico e caratterizzante aspetto della Didattica, a cui
afferiscono quegli elementi che ne affrontano i fondamenti: metateoria della didattica
(modelli), i rapporti tra didattica e scienze umane e tra didattica e scienze
dell’educazione, didattica e valutazione. Un terzo focus può essere centrato sulla
processualità, che intende sviluppare quegli aspetti che studiano l’interazione didattica,
il curricolo, il rapporto tra scuola ed extrascuola, la metodologia, la pratica didattica, a
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sua volta composta dalle sperimentazioni, dalla ricerca, dagli aspetti inerenti alla mente
e alla cultura.
Epistemologia della Didattica. L’epistemologia ci mette in contatto con le conoscenze
e più generalmente con i saperi scientifici riguardanti il funzionamento gnoseologico dei
singoli e le leggi su cui si basa. In tal modo il funzionamento delle conoscenze, il modo
per stabilire la loro validità si apre al problema di come dovranno essere insegnate e di
come affrontare il tema del modo di apprenderle.
Il sapere inteso come il patrimonio delle conoscenze e dei meccanismi per ricercarle e
padroneggiarle, acquisito attraverso lo studio formale o l’esperienza, si poggia su alcune
procedure, sui metodi, sui concetti che formano il campo di studio della didattica.
Inoltre quando parliamo di epistemologia dobbiamo considerare il processo di
interiorizzazione delle conoscenze, che avviene attraverso l’auto riflessione e la
memorizzazione metacognitiva e strumentale, che hanno lo scopo di collegare i processi
interiori psico cognitivi dell’applicazione e dello studio con quelli dell’esperienza.
L’apprendimento come attività del pensiero. Apprendere è un’attività che configura
gli essere umani come particolari soggetti, necessitati da bisogni educativi, nell’ambito
degli esseri viventi tutti, che si sviluppano apprendendo i meccanismi dell’adattività e
della modificabilità.
Una tale prospettiva olistica, che tiene conto di un sistema educativo globale,
contribuisce a collocare il tema dell’apprendimento in un vasto insieme di connessioni,
di livelli mentali e psicologici e di comportamenti sociali.
Per questo motivo sono molte le scienze, cosiddette umane, che si occupano di questa
prospettiva e la studiano analizzandone le leggi e le stratificazioni: la psicologia
innanzitutto, la pedagogia, la didattica, l’antropologia, la sociologia.
La psicologia studia quali sono i meccanismi adattativi grazie ai quali l’essere umano si
sviluppa e apprende a vivere. Essa è attenta allo studio dei cambiamenti
tendenzialmente permanenti del comportamento, dovuti all’esperienza, all’ambiente
individuale per esempio. Sua caratteristica è quella di rappresentare e descrivere i
processi di condizionamento sociale o quelli imitativi
La pedagogia studia il rapporto tra l’apprendimento e l’insegnamento in quanto
entrambi hanno la finalità di progettare il cammino di evoluzione umana nella comunità
sociale di appartenenza e nel contesto culturale, valoriale e politico dell’orizzonte civile
in cui ciascuno di noi è immerso. Essa si chiede se esiste un apprendimento naturale e
spontaneo e, nel caso di risposta affermativa, in quali rapporti si trovi con un
apprendimento di natura “artificiale” o, per così dire, di carattere più meccanico e
curricolare. L’efficacia di un apprendimento mirato è direttamente proporzionale alle
competenze di adattamento e alla possibilità di modificare le caratteristiche ambientali
per migliorare il benessere e la vivibilità dei rapporti sociali. Le teorie
dell’apprendimento, inoltre, sono fondamentali per comprendere come la pedagogia
valuta l’impatto delle pratiche educative sullo sviluppo dell’individuo. Infine il modo in
cui si coniuga l’apprendimento con l’insegnamento può offrire molte indicazioni per
promuovere una proficua relazione pedagogica e offre un ventaglio ampio di scelta di
una visione globale per affrontare i problemi connessi con la relazione interpersonale tra
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docenti e alunni/studenti; infatti ciascuna teoria dell’apprendimento presenta modelli in
grado di valorizzare i meccanismi che si producono nella pratica pedagogica.
La didattica, partendo dalla rilevazione del bisogno di apprendere dell’allievo, si occupa
di organizzare i percorsi per facilitare l’apprendimento e realizzarlo in maniera efficace
negli ambienti istituzionali formali o informali, di usare i meccanismi
dell’apprendimento per una maggiore consapevolezza dello studio. Essa è poi
fondamentale per affrontare lo studio metacognitivo dei processi di apprendimento,
grazie al quale i soggetti in formazione possono acquisire competenze e tecniche adatta
a controllare, selezionare, verificare ed orientare lo studio e più generalmente la capacità
di esprimere gli apprendimenti, applicandoli nelle sequenze vitali ed esistenziali.
Se consideriamo poi altre scienze e altri punti di vista ermeneutici, possiamo affermare
che l’apprendimento umano ha sempre un fondamento antropologico, in quanto si
chiede quale sia la natura profonda della necessità di apprendere e come essa viene
declinata nelle società di appartenenza. L’antropologia culturale studia, quindi, in quale
misura l’evoluzione umana dipenda dalla cultura e dalla sua codificazione delle
conoscenze. Bruner per esempio, facendo in qualche modo eco a Vygotskij, sostiene
che buona parte dell’apprendimento è legato alla costruzione delle conoscenze, operata
dalle generazioni passate e che le nuove generazioni, entrando in contatto con tali
conoscenze, ne interiorizzano i punti di vista. Inoltre l’antropologia, occupandosi dei
fenomeni culturali e delle profonde modificazioni del tessuto umano dovute agli scambi
etnici, resi così importanti dalle epocali migrazioni e dai conseguenti meticciamenti a
cui stiamo assistendo in questi ultimi cinquant’anni, come ambienti comunicativi
interdipendenti, incrocia la sua ricerca con la rete di significati che gli individui
comunicano fra loro.
Strettamente legati ai panorami antropologici poi sono quelli sociologici. Questi ultimi
infatti descrivono le caratteristiche delle inculturazioni, ampliando gli ambiti nei quali si
rende possibile analizzare i processi di apprendimento e gli itinerari educativi, in senso
generale, individuandone i concetti e i significati. Sia nei contesti sociali informali,
come la famiglia, il gruppo dei pari, le aree di pervasività dei mass media e dei social
media, le nuove caratteristiche del mondo del lavoro, sia nei contesti sociali fortemente
formalizzati come la scuola, l’educazione religiosa, le organizzazioni di volontariato è
fondamentale porsi interrogativi circa le caratteristiche dei processi di insegnamento
/apprendimento, perché essi si coniugano con i bisogni di sviluppare relazioni con
l’ambiente sociale considerandone i conflitti, le risorse, le modalità organizzative e le
risposte in termini di modificazioni delle esperienze e di miglioramento delle
interpretazioni, che a livello culturale, si forniscono. Infine la sociologia tiene conto dei
processi dotati di formalizzazione delle regole e dei saperi, tipici degli ambiti scolastici
e quindi pedagogici, perché essi coinvolgono apprendimenti che, a livello non esplicito,
sviluppano norme e strategie di azioni sull’ambiente e sul territorio.
Come possiamo intendere l’apprendimento? L’apprendimento è una condizione o un
processo? Rappresenta una delle attività umane oppure il proprio dell’uomo? Esso
riguarda la mente o il comportamento, la psiche o la relazionalità, la sensorialità o il
movimento? L’apprendimento inteso come accrescimento delle conoscenze possiede le
caratteristiche della riproduttività, che viene alimentata da alcune abilità come la
memorizzazione, la classificazione delle informazioni, la loro selezione. Tali abilità, che
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a loro volta si apprendono, segnalano come i processi sottesi alla crescita della persona
umana agiscono, mettendo in sequenza una serie di informazioni, che derivano
dall’esperienza, dalla memoria dell’esperienza e dalla rilettura dell’esperienza, secondo
chiavi interpretative diverse. La direzione apprenditiva agisce quindi dall’esterno verso
l’interno, ma gode poi di una rielaborazione interna che ricrea la conoscenza e la riporta
fuori.
L’apprendimento può essere inteso anche come intenzione di senso, volontà della
persona umana di attribuire un significato per sé o per un gruppo alle informazioni o
alle conoscenze. In tal modo il concetto di apprendimento si evolve verso concezioni
più legate alla relazionalità, ai contesti sociali, affettivi, alle capacità di creare
interconnessioni ed incroci rispetto alla pura esperienza. Ciò accade quando la
capitalizzazione delle conoscenze viene integrata, grazie ad un fatto nuovo, ad
un’interpretazione, allo studio o viene semplicemente collocata in un contesto diverso,
tale che propone una prospettiva nuova di uso o di applicazione. In questi casi la
caratteristica principale dell’apprendimento è la costruzione di un sistema e il fatto che,
grazie ad esso, venga individuata una modificabilità del comportamento di una persona.
E’ così che l’apprendimento smette di essere un meccanismo immobile e fine a se stesso
per trasformarsi in una processualità.
Aspetto accrescitivo e aspetto trasformativo possono, a loro volta, essere analizzati
fissando l’attenzione sulle zone di coincidenza delle due caratteristiche, riguardanti
l’acquisizione di un patrimonio di conoscenze e di comprensioni e la capacità di
sviluppare un significato a partire da quelle acquisizioni rispetto alla propria vita e alla
vita sociale; quello che si chiama apprendimento di competenze. L’adattamento
all’ambiente, che l’antropologia attribuisce all’apprendimento, si coniuga con il
superamento della semplice fase di sopravvivenza sociale e civile per diventare
intenzionalità culturale in grado di creare sistema, porsi problemi, argomentare discorsi,
innovare le pratiche e sviluppare visioni e pensieri non per forza legati ad una fattualità,
ma in grado di porsi nei sentieri della gratuità, dell’arte e della metafisica.
L’apprendimento secondo le concezioni psicologiche. Le teorie sull’apprendimento
cognitivo discendono dalle elaborazioni riguardanti le acquisizioni scientifiche dovute
alla varie teorie psicologiche dell’apprendimento, che qui andiamo a sintetizzare. Dal
punto di vista psicologico l’apprendimento è condizionato da alcuni fattori sia
dipendenti dall’individuo, sia dipendenti dalla comunità sociale di riferimento. Ai primi
appartiene per esempio la modalità di ricevimento e di elaborazione cognitiva delle
informazioni, attraverso anche le strategie cognitive, a loro volta apprese; la speciale
esperienza emotiva nell’ambito della quale apprendiamo. Ai secondi appartengono le
modalità di trasmissione delle informazioni dall’esterno, il grado di intensità, il livello
di semplicità – complessità, i vissuti di piacevolezza – spiacevolezza; i modelli
educativi da cui ricaviamo le informazioni e, infine, le condizioni entro le quali
avvengono gli scambi comunicativi.1
1 Un testo facile da leggere e assai interessante per gli studenti universitari è: Alessandro
Antonietti, Manuela Cantoia, Come si impara. Teorie, costrutti e procedure nella psicologia
dell'apprendimento, ed. Mondadori Università, Milano 2010
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Le teorie comportamentiste. Le teorie che si richiamano all’associazionismo,
valorizzano il comportamento come chiave di volta per capire il sistema apprenditivo,
lasciando in secondo piano la funzione dell’esperienza cosciente e affidandosi ad una
formalizzazione, che insiste molto sul condizionamento classico della sequenza coerente
di stimolo – risposta (Watson). All’inizio del Novecento lo studio del comportamento
nei suoi rapporti con gli stimoli ambientali, secondo la teoria dei riflessi condizionati di
Ivan Pavlov, premio Nobel per la medicina nel 1904, dimostra che si possono indurre
modificazioni comportamentali associandoli a stimoli ambientali. Come per gli animali
così anche per l’uomo si possono condizionare i comportamenti prescindendo dal
ragionamento e, talvolta dal linguaggio. La grossolanità e la pericolosità di una tale
teoria fu smussata da Burrhus Frederic Skinner il quale rielaborò le teorie
comportamentiste affermando che il comportamento rispondente è quasi sempre
sostituito dal comportamento operativo, che affida all’individuo e all’ambiente la
particolare funzione di operare, di elaborare cioè gli stimoli in maniera da definire
un’azione. A questo tipo di teoria corrisponde una tipologia didattica trasmissiva nella
quale l’insegnante ha il ruolo imprescindibile del protagonista dell’apprendimento.
Watson e Skinner. La teoria comportamentista afferma che è oggetto dell’indagine
psicologica l’osservazione del comportamento, dell’emozione e dell’emotività, delle
consuetudine acquisite, delle modalità con cui si esprime e si afferma nel sociale la
personalità. Tali idee nascono quando Watson, rigettando l’idea che la psicologia
studiasse solo la coscienza, condusse ad un indubbio cambio di prospettiva gli studiosi
dell’apprendimento, apportando una ventata nuova negli studi di psicologia e aprendo
gli studi ad una maggiore libertà sperimentale. Infatti se impariamo ad usare mezzi più
oggettivi per studiare l’adattamento dell’organismo all’ambiente, riusciremo anche a
verificare quali sono quei comportamenti che, se attivati, conducono il soggetto a
conoscere e dunque ad apprendere. L’associazione di uno stimolo ad una risposta più è
frequente e maggiormente si verificherà nel futuro; quindi condizionando un aspetto del
comportamento si otterrà come un meccanismo la reazione a quel comportamento. Più è
complesso è un comportamento più lunga è la sequenza di condizionamenti che esso ha
ricevuto. La centralità per John Watson dell’idea del condizionamento è la chiave di
volta della teoria apprenditiva, che egli stesso aveva ripreso dagli esperimenti di Pavlov;
infatti il soggetto già a partire dalla sua infanzia, grazie al sistema di stimoli ricevuti,
impara a innescare una serie di comportamenti verbali, posturali, motori, tratti
dall’esperienza viva che costituiranno la sua personalità formata e matura.
Il comportamentismo come lo intendeva Watson fu presto sostituito con una forma più
raffinata di associazionismo, anche in relazione allo svilupparsi del cognitivismo, a tal
punto che alcuni esponenti comportamentisti cominciarono ad occuparsi dello studio
della mente e dei suoi processi. Edward Tolman, attento al modello mentalistico che si
andava affermando fu il primo a parlare di apprendimento latente, della capacità cioè di
acquisire la conoscenza mediante un adattamento dovuto all’acquisizione di impulsi
cognitivi che dirigono il soggetto verso uno scopo. Accettò quindi l’idea che ci sia
un’intenzionalità nell’apprendimento che si connette allo stimolo, ma non ne dipende.
Questa posizione offriva ai comportamentisti la possibilità di non rimanere prigionieri
di un associazionismo rigido e troppo meccanico.
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Con Skinner le teorie comportamentiste classiche acquisirono nuove vigore, sebbene
l’idea che l’apprendimento avvenisse solo attraverso una risposta ad uno stimolo fosse
stata abbandonata come troppo semplicistica. Di contro quindi ad una teoria del
condizionamento puramente rispondente egli parlò di comportamento operante nel
quale il soggetto identifica e controlla tutti gli elementi del suo comportamento e può
così intervenire sull’ambiente. Il protagonismo del soggetto che apprende in Skinner è
molto forte, infatti lo stimolo non è ritenuto all’origine del comportamento, ma solo
elemento che induce a distinguere le situazioni e quindi a scegliere quella più
conveniente e che conduce allo scopo previsto. Nel suo concetto di apprendimento è
quindi implicita la capacità di usare stimoli diversi per raggiungere scopi diversi
(funzionalismo). Tali contesti sono evidenti anche nel comportamentismo verbale che
diventa uno stimolo potente per la vita sociale; la comunicazione umana per Skinner
costruisce l’individuo e questo fa capire quanto sia importante per lui il fattore
ambientale e relazionale. Quando un essere umano parla o chiede qualcosa o afferma un
disagio non sta facendo altro che dare voce ad uno stimolo interno la cui intenzionalità è
diretta al soddisfacimento dell’esigenza o del bisogno. Se esprimo un desiderio o
espongo un disagio veicolo attraverso il linguaggio un “operante” che mette in contatto
il bisogno con il suo soddisfacimento. Dai concetti espressi si comprende la ragione
delle critiche feroci che Skinner ricevette dai suoi detrattori, ma anche da chi
condivideva le idee comportamentiste, sebbene non accettava il suo radicalismo.
Se approfondiamo la teoria comportamentista la vediamo operante in molte didattiche e
pratiche diffuse nella scuola ancora oggi, per esempio il sistema della formazione a
distanza, organizzata intorno ad una tipologia di istruzione programmata, attraverso un
itinerario formato da una serie di obiettivi di apprendimento che il soggetto deve
raggiungere prima di passare ad altri più complessi traduce un convincimento
tipicamente comportamentista, perché inserisce nel rapporto apprenditivo l’importanza
del feedback che, come sappiamo assume un ruolo di grande importanza
nell’apprendimento per obiettivi, con l’uso dei dispositivi online, come le piattaforme
formative e gli ambienti e-learning. Anche gli apprendimenti nelle fasce d’età più
infantili trova nel comportamentismo terreno fertile; basti pensare a quei comportamenti
che si acquisiscono per iterazione ed imitazione che spesso sono frutto di una serie di
stimoli ripetuti in un contesto facilitante come quello scolastico (per esempio le routine
della scuola dell’infanzia). Il rinforzo durante un apprendimento, per esempio il
valorizzare il bambino quando svolge un’azione giusta, gli facilita la consapevolezza
che quell’azione è giusta e lo aiuta ad apprenderla in maniera definitiva.
Se queste applicazioni didattiche le allarghiamo alle pratiche con i soggetti disabili,
comprendiamo maggiormente l’attualità di queste teorie. Nel 1968, a partire da queste
sollecitazioni, nasce il metodo ABA (Applied Behavior Analysis – Analisi del
Comportamento Applicata), didattica altamente individualizzata che modifica i
comportamenti, per esempio dello spettro autistico, attraverso un sistema di stimoli
artificiali in quei casi in cui il soggetto non reagisce a stimoli naturali. In questa maniera
si possono richiamare, attraverso gli stimoli, una serie di competenze utili alla vita
sociale, soprattutto nei bambini molto piccoli o in quegli alunni che non riescono a
dominarsi oppure hanno comportamenti compulsivi.
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Le teorie cognitiviste. Le teorie che si richiamano al cognitivismo, valorizzano il
processo cognitivo grazie al quale il reale viene conosciuto e formalizzato. La mente
umana centrata sull’elaborazione delle informazioni provenienti sia dall’interno
dell’organismo sia dal suo esterno, mediante l’esperienza, esamina i processi conoscitivi
organizzando le funzioni mentali. In questa teoria l’ambiente e i suoi segnali assumono
un rilievo notevole, a tal punto che a volte questo sistema viene criticato in quanto
riduce il ruolo del soggetto ad un’eccessiva passività. L’apprendimento cognitivista si
esercita su molti aspetti umani, in particolare sull’apprendimento del linguaggio e sulla
risoluzione dei problemi e afferma che non sempre sia sufficiente spiegare un
apprendimento raffinato, quale può essere l’attività di studio o di ricerca solo attraverso
il rinforzo o l’imitazione. La mente non può essere estranea ad un processo di
consapevolezza della conoscenza, né i comportamenti possono essere spiegati senza
porre attenzione ad una interpretazione dei dati che acquisiamo dall’esterno. Possiamo
dire che l’apprendimento è sempre un meccanismo che attiene ad un insieme di
relazioni e quasi mai si apprende per singole sensazioni o singoli elementi.
La mente e le sue elaborazioni sono il riferimento obbligato per una serie di studiosi,
che pur nella varietà delle speculazioni e nella diversità di approcci sono accomunati
dall’idea che l’esperienza del reale è organizzata secondo una serie di strutture e di
relazioni che forniscono al soggetto la congruità e la coerenza apprenditiva: al filosofo e
pedagogista John Dewey si può assegnare il merito di aver parlato tra i primi di attività
operazionali della mente nei rapporti con i fatti osservati. Altri cognitivisti come
Edward Tolman (comportamentista, ma fautore della mappa cognitiva, rappresentazione
mentale della meta), Albert Bandura (apprendimento sociale, teoria sociale cognitiva),
Avram Noam Chomsky (soprattutto linguista) e gli psicologi Lev Vygotskij, Jean
Piaget, Jerome Seymour Bruner, Howard Gardner, Kurt Lewin hanno declinato con
accenti diversi l’idea che l’apprendimento utilizza sempre una serie di strutture che
creano dei modelli di processi per l’acquisizione delle conoscenze. In fondo il
cognitivismo ritiene che l’approccio più efficace per trattare l’apprendimento sia quello
dell’elaborazione delle informazioni, della memoria del pensiero creativo e in
particolare alla capacità di risoluzione dei problemi. Come si formano nella mente le
cognizioni, come vengono depositate e strutturate nella memoria, come vengono
modificate dalla mente per essere riutilizzate? Queste sono le domande tipiche dei
cognitivisti. A questo tipo di teoria corrisponde una tipologia didattica applicativa, che
affida cioè ai modelli mentali, misurati e adottati in base alla loro efficacia interpretativa
ed operativa.
Noam Chomsky. Di fronte ad alcuni segnali relativi all’apprendimento come la
possibile sequenzialità, la rapidità delle risposte, la connessione fra informazioni, il
linguista Chomsky pensò che il linguaggio fosse al centro di una particolare
elaborazione di dati, opponendosi ad una concezione comportamentista del linguaggio
secondo cui l’apprendimento della parola è del tutto simile all’apprendimento di ogni
altro costrutto e cioè attraverso una interrelazione tra gli stimoli ambientali, i rinforzi e
l’acquisizione delle risposte. Secondo Skinner infatti sono i rinforzi dei genitori di
fronte ai primi suoni simili a quelli del linguaggio umano, che emette il bambino, a
preparare la strada allo sviluppo fonetico. E’ come se il piccolo imparasse gradualmente
ad escludere dalla sua esperienza ciò che non fa piacere ai genitori o agli adulti che
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circondano il bambino per assumere solo le fonazioni e il sistema sillabico che sono
ammessi. Ora Chomsky, pur concordando che alcune parole possono anche essere
acquisite secondo questo sistema, si convince che il comportamentismo non riesce a
spiegare le variazioni del linguaggio, la complessità delle risposte, l’originalità dei
costrutti sintattici, che spesso anche nei più piccoli, sono veri e propri discorsi articolati.
Per esempio si può imparare subito il nome di un oggetto, ma non è così facile imparare
a criticarne la funzione o a spiegare perché possa essere preferito ad un altro. Così egli
pensa a delle regole che sono innate nella mente umane in conformità delle quali la
produzione linguistica avviene. La grammatica perciò si chiamerà generativo –
trasformazionale: generativo perché è depositata nel patrimonio genetico
dell’organismo, dipende da strutture fondamentali della mente, trasformazionale perché
il soggetto riesce una volta acquisite tali strutture ad elaborare personalmente i pensieri
verbalizzandoli e acquisendo così quella che egli chiama competenza linguistica, che
definisce come la capacità di generare ed utilizzare insiemi infiniti di discorsi, formati
da frasi semplici e da frasi via via più complesse. E’ come se ci fosse una specie di
percorso apprenditivo che si avvia grazie ad un dispositivo di acquisizione di
linguaggio, come un vero e proprio programma biologico: competenze, strutture uguali
per tutte le lingue naturali, regole grammaticali grazie alle quali si generano le parole
che dalla finitezza di quelle usate in occasione dell’esperienza diventano infinite, in
quanto le variazioni e le combinazioni linguistiche sono disponibili in maniera illimitata
al soggetto. Il cervello umano è finalizzato al linguaggio e lo determina
spontaneamente. Chomsky fa molti esempi per dimostrare il suo assunto; egli sostiene
che alcune strutture di uso storico sono insegnate dalla scuola come il verbo al
congiuntivo in quanto deve essere formalizzato, ma gli usi del pronome in forma di
complemento vengono utilizzate da subito e senza particolari insegnamenti, “dammi il
pane” “non dargli retta” ecc. Solo in un secondo momento si avvia la metalinguistica e
cioè la riflessione sulle forme del linguaggio. Prima che l’allievo acquisisca la
consapevolezza del linguaggio e delle forme che usa ha già un patrimonio di
competenze notevole; ciò fa supporre che la padronanza del linguaggio non sia sempre
cosciente nel bambino. L’alunno dispone di una grammatica universale, come una
specie di grande contenitore all’interno del quale vengono scelte le strutture sintattiche
che danno luogo poi alle varie combinazioni.2
Sebbene questa teoria non sempre riesca a spiegare quale ruolo abbia il contesto sociale
che circonda il bambino, la sua stessa personalità, la capacità di memoria, risulta assai
interessante per la didattica perché fornisce all’insegnante il sistema per arricchire in
maniera spontanea il bagaglio linguistico ed interpretativo dell’alunno.
Chomsky non è stato solo un linguista, ma ha espresso in maniera assai polivalente la
sua genialità, assumendo un ruolo mondiale nella lotta alla violenza e per la libertà dei
popoli. Famosa la sua coraggiosa opposizione alla guerra nel Vietnam, la sua azione a
favore del popolo palestinese, proprio lui che è uno dei più importanti esponenti della
cultura ebraica americana, il suo impegno nell’approfondire il ruolo dei mass media
2 Il libro forse che maggiormente può interessare chi vuole avvicinarsi alla figura di Chomsky è
proprio l’ultimo in ordine di tempo, nel quale il linguista, partendo dai suoi studi e dalla sua
esperienza, ripercorre le sue teorie, aggiornandole o attualizzandole. Noam Chomsky, Il mistero
del linguaggio. Nuove prospettive, ed. Cortina 2018
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nella civiltà del capitalismo consumista. E’ ritenuto uno dei principali riferimenti
umanistici di tutti i tempi.
Kurt Lewin. Lo psicologo tedesco di origini ebraiche, il cui pensiero si è maturato
negli anni terribili dei totalitarismo (20-40) e tra il primo dopoguerra della I guerra
mondiale e la seconda guerra mondiale, nell’atroce consapevolezza dei campi di
annientamento nazisti, partendo da una critica alle semplificazioni del
comportamentismo che, a suo parere, non tengono conto di una serie di variabili come i
legami tra le sollecitazioni e il contesto in cui esse si svolgono, introduce il concetto di
“campo”, legato oltre che ad un epistemologia cognitivista, anche alle particolare
esperienza di quegli anni difficili e all’anelito ad una didattica democratica che potesse
arginare nel campo educativo i danni delle caratteristiche violente e individualiste del
contesto sociale in cui ha vissuto. L’intuizione di come un soggetto possa avere delle
differenti cognizioni di un paesaggio direttamente dipendenti dalla percezione del
paesaggio stesso sono maturate proprio nel fronte di guerra negli anni cruciali del
1914/’15. Già negli anni Trenta, poi, del Novecento egli sposa una modalità di ricerca
vicina agli ideali induttivi di Galilei e critica le caratteristiche descrittive della
psicologia a lui coeva3. La teoria del campo si colloca nel contesto della corrente
psicologica denominata gestalt4, ma la supera per alcuni aspetti, in particolare per i
rapporti stretti che si instaurano tra gli organismi e gli ambienti, tali da risultare
reciproci. Quando si apprende, sostiene Lewin, mettiamo in moto un sistema e non solo
alcuni elementi. Gli elementi, gli aspetti dai quali siamo colpiti sono appresi in maniera
globale, sono collegati fra loro in relazioni mutevoli, rispetto alla nostra esperienza, allo
scopo della nostra ricerca, a volte dallo stato d’animo. Quando guardo un film, per
esempio, non colgo un elemento alla volta, ma una serie di elementi collegati fra loro
che richiamano in me un insieme dinamico e significativo: la musica mi riporta ad una
certa atmosfera triste o gioiosa, i paesaggi, le voci, i personaggi hanno mille echi in me
che dipendono dai contesti in cui io collego quegli elementi. Questo è il campo.
L’apprendimento è determinato dalla totalità, dall’organicità del sistema e non dalle
parti che lo costituiscono. I comportamenti in definitiva sono il risultato (funzione) dei
rapporti che si instaurano tra le persone e gli ambienti (Lewin rappresenta questo
concetto con una formula logica).
3 Un volume antologico che espone in maniera chiara le principali concezioni di Kurt Lewin è:
Kurt Lewin, La teoria, la ricerca, l'intervento, Il Mulino Bologna, 2005. 4 Gestalt è un termine tedesco che significa “forma”; "mettere in forma" vuol dire dare una
struttura significante alle esperienze, ma anche all’apprendimento. La forma è intesa come una
struttura dinamica, che organizza le percezioni e promuove così una selezione significativa, che
argina l’infinita esposizione del soggetto agli stimoli che gli vengono dall’esterno. Ciascuno di
noi si percepisce come un insieme, come il risultato di una serie di elementi che ci provengono
dal contesto culturale e valoriale nel quale siamo collocati, dalla memoria delle esperienze
passate e dall’ambiente in cui esercitiamo la nostra intelligenza. Lo psicologo a cui più
frequentemente si fa riferimento quando si parla di teoria della gestalt è Max Wertheimer. Egli
asserisce che la realtà da noi percepita è una pura “rappresentazione” (forma) della realtà che
sperimentiamo, perché frammista al nostro background e alle percezioni filtrate dalle strutture.
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In una definizione scientifica possiamo dire che il campo è un’estensione della
coscienza nella quale si crea un sistema che tiene insieme, quasi interdipendenti, tutti gli
elementi. Si conosce per relazioni e non per singolo elemento. Questa famosa teoria,
nata intorno agli anni, ribalta completamente la didattica dell’apprendimento, in quanto
ne valorizza la capacità che dovrebbe avere di sollecitare le relazioni, la vista di insieme
di un argomento o di un problema. Il comportamento apprenditivo dipende quindi dalla
qualità degli stimoli fra di loro interdipendenti che la persona riceve nel campo, di cui
essa stessa fa parte.
La predisposizione a individuare le relazioni fa della teoria di Kurt Lewin un’occasione
importante per discutere del carattere sociale dell’educazione e delle modalità con cui si
apprende; infatti si deve a lui il termine di ricerca – azione che è stato a lungo uno dei
leit motiv dalla scuola nel ventennio Settanta – Ottanta del Novecento. Da un’azione
progettata si passa, attraverso la ricerca dello studioso, del docente, dello studente ad
una analisi delle conseguenze che quell’azione può condurre. Lo studio di questi effetti
rappresenta il corpo della ricerca, intesa come una vera sequenza da sperimentare, che si
alimenta così da due fonti: la prima riguarda i saperi, le conoscenze incardinate nella
concreta esperienza e la seconda è rappresentata dal concreto intervento nella realtà che
si sta studiando. Una volta formato un gruppo di lavoro e individuato il problema, si
passa a considerare quali possano essere gli itinerari metodologici affinché la questione
o l’argomento possano essere analizzati, prima di passare al vero e proprio intervento.
Tali caratteristiche, come si evince chiaramente, presuppongono una processualità di
gruppo, una reciprocità di saperi per cui la RA, proveniente dal contesto teorico del
“campo” è un esempio chiaro di come l’apprendimento significativo sia sempre
cooperativo, di ordine sociale e quasi mai legato ad un solo individuo. L’apprendimento
servizio (service learning) in qualche misura si avvicina a questa concezione di ricerca;
infatti nella RA i ricercatori del gruppo di fronte ai problemi sociali devono imparare ad
attraversare la problematica e in qualche modo a caricarsene se la vogliono studiare in
maniera autentica, per cui lo stesso studioso ricercatore diventa attore di cambiamento.
Caricarsene non sempre vuol dire risolvere; infatti il cambiamento può avvenire anche
quando non c’è una immediata e spontanea ricaduta nel sociale della risoluzione del
problema, ma solo una riflessione operativa sui dati, una sperimentazione riguardo alla
capacità risolutrice del problema, alla verifica degli esiti che il procedimento può avere
sull’intervento pratico.
Un esempio di didattica di ricerca-azione può essere quella che studia l’impatto della
didattica della matematica nei gruppi – classe. In molte scuole gli esiti delle prove
Invalsi sono negativi rispetto agli standard nazionali, pertanto il problema di una diffusa
disaffezione alla logica matematica e allo sviluppo di una competenza operatori occupa
la progettazione scolastica delle istituzioni. Partendo da un contesto in cui il passaggio
dall’esperienza concreta alla sua formalizzazione diventa complesso, in cui c’è una
diffuso disinteresse per la scienza matematica, in cui non c’è l’abitudine all’uso del
problem solving né si riesce ad individuare nella realtà questioni di ordine matematico
conduce i ricercatori ad ipotizzare la modificazione del contesto di apprendimento per
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migliorare l’esperienza di problemi matematici da individuare e poi analizzare a diretto
contatto con la realtà circostante.5
Le teorie costruttiviste. Le teorie che si richiamano al costruttivismo, valorizzano il
soggetto che conosce, ponendo nella capacità di costruire un significato la dimensione
più importante dell’apprendimento. Tale costruzione avviene attraverso una complessa
operazione di trasformazione e di ristrutturazione di sensazioni, conoscenze ed
emozioni, operata grazie al linguaggio e dal contesto culturale nel quale il soggetto vive.
In questa maniera l’oggettività dell’osservazione cede il passo alla definizione di
proprietà e di relazioni costruite attraverso la operatività organizzante del soggetto e
della comunità che interpreta la realtà. Gli esponenti del costruttivismo, che non ha le
caratteristiche di una corrente sistematica, sono accomunati dall’idea che ogni
conoscenza non nasce solo dall’ambiente, ma è sempre frutto di un’elaborazione del
soggetto e da uno scambio di conoscenze fra di loro.
Un aspetto del costruttivismo, che potremmo definire puro, afferma che la realtà esterna
non sia rappresentabile in sé, in quanto è sempre mediata dai nostri concetti. Gli stessi
eventi del nostro passato acquisiscono rilevanza a partire dai concetti presenti, grazie ai
quali costruiamo significati, così come affermava Giambattista Vico nella Scienza
Nuova6. Tale tendenza viene denominata assimilazione, cioè capacità di ricostruire un
tessuto storico, lontano nel tempo, mediante ragionamenti del presente. La stessa
comunicazione tra un emittente ed un destinatario, per esempio nel linguaggio, è
realizzata dai segnali significanti e non dai significati. In tal modo ciascun comunicante
sceglie tra un repertorio di concetti che sono stati costruiti durante le esperienze
relazionali quelli che gli permettono di comprendere e di apprendere la situazione
comunicata.
Anche Piaget, già indicato come cognitivista può a ben diritto dirsi costruttivista a causa
dei suoi studi sulla costruzione della realtà nel bambino, il suo modello infatti si basa
sulla costruzione di più concetti come oggetto, spazio, tempo, integrati fra loro come
presupposto dell’esperienza.
La conoscenza, secondo i costruttivisti, viene costruita dal soggetto in formazione e non
trasmessa; dipende quindi dalla creatività e dal protagonismo attivo del discente. Uno
dei concetti più affascinanti del costruttivismo è il concetto di rappresentazione della
conoscenze e della cultura, che si forma grazie all’interazione con l’esperienza, con i
5 L’esempio riportato è debitore di una suggestione relativa ad un progetto di ricerca – azione
della Rete Matematica della città dell’Aquila che ha analizzato le problematiche indicate nel
testo svolgendo un lavoro di didattica partecipata di grande spessore qualitativo. Cfr.
http://www.amiternum-scuola.gov.it/images/indicazioni_nazionali/progetto_ricerca-azione.pdf 6 “E’ alta proprietà della mente umana ch’ove gli uomini delle cose lontane e conosciute non
possono fare niuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e presenti. Questa degnità addita
il fonte inesausto di tutti gli errori presi dall’intiere nazioni e da tutt’i dotti d’intorno a’ principi
dell’umanità; perocché da’ loro tempi illuminati, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono
quelle ad avvertirle, questi a ragionarle, hanno stimato l’origini dell’umanità, le quali
dovettero per natura essere picciole, rozze, scurissime.” G. Vico, La scienza nuova, II Degli
elementi, II p.80 in Opere a cura di P. Rossi, Milano 1959
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vissuti della comunità, con la percezione dei mondi esterni. La rappresentazione spesso
trova concretezza nella narrazione degli apprendimenti e nella capacità di esprimerne la
carica storica e migliorativa civile. Bruner esprime questo pensiero dicendo che “E’
nella natura delle culture umane formare comunità in cui l’apprendimento è frutto di
uno scambio reciproco”.7 Il grande impulso che questa prospettiva ha offerto allo studio
delle modalità in cui avviene l’apprendimento ha valorizzato l’approccio cooperativo in
quanto la condivisione degli esiti dell’elaborazione e la stessa struttura dell’elaborazione
promuovono uno scambio reciproco tale che l’accrescimento conoscitivo diventa quasi
automatico e va ad aiutare lo stesso apprendimento individuale, perché gli fornisce
spunti e risultati. Se impariamo a considerare gli alunni come soggetti sociali, in grado
di partecipare all’evoluzione della conoscenza, riusciremo ad ipotizzare processi di
cambiamento culturale reali che sono promossi dagli stessi soggetti che ne sono i
destinatari.
In questo contesto l’insegnamento assume il ruolo di un percorso guidato verso la
consapevolezza e la ricerca di senso dell’allievo; a questo tipo di teoria corrisponde una
tipologia didattica creativa, che fonda sulle capacità di intervento dell’educando il
successo dell’apprendimento. Quando un allievo impara a ripercorrere una sequenza
apprenditiva che gli è stata trasmessa, non ha ancora raggiunto un’acquisizione
conoscitiva, quando però riesce a deviare, a cambiare direzione esplorando un altro
modo per acquisire la stessa conoscenza, magari cambiando un elemento della sequenza
o aggiungendo qualcosa secondo la sua spontanea ipotesi, allora l’apprendimento
diventa creativo e assume una significatività notevole.
Creativi si diventa. Il tema della creatività, a cui si sta accennando nel contesto
dell’apprendimento costruttivista, nasce dall’idea che l’apprendimento non è mai qualcosa di
meccanico, di contro al comportamentismo, ma si presenta sempre come un’elaborazione
personale di esperienze. Per questo motivo la frontalità ha uno scarso ruolo nella promozione
delle conoscenze. Come Piaget ci ha insegnato, noi apprendiamo, costruendo un adattamento
alla realtà e non solo rappresentando la realtà; ciò dimostra come la nostra mente abbia un ruolo
operativo nel dare significato alla propria esperienza e non assorba passivamente dall’esterno
strutture e concetti. Il costruttivismo spinge nella direzione di un protagonismo intellettuale
dell’alunno, il quale organizza il proprio sapere secondo i problemi che deve risolvere e non
secondo le ricette che deve imparare per risolverli. E’ chiaro che questo processo avviene
parallelamente allo sviluppo metacognitivo, in coerenza con la capacità di controllare e di
organizzare le abilità di studio e, anzi, avvenga spesso che proprio l’attività di costruzione del
sapere si riverberi nell’attività metacognitiva, giacché le due dimensioni mentali sono
reciproche e complementari.
Già i primi filosofi affrontavano il problema della conoscenza cercando di far corrispondere alla
realtà oggettuale esterna la visione intellettiva delle cose e chiamavano questa corrispondenza la
“verità”. Eppure in questo periodo del pensiero occidentale non pochi filosofi notavano come
questo schema fosse poco proponibile in un ambito in cui fluttuano continuamente i rapporti tra
mente che conosce e realtà che si sperimenta con i sensi. Non a caso il problema gnoseologico,
che cerca di rispondere al quesito di come dimostrare che ogni conoscenza sia tale quando
rappresenta una parte della realtà, caratterizza di sé gran parte della storia del pensiero antico.
Se le attività mentali sono strumenti per l’adattamento e quindi per attribuire significato alla
realtà nella quale viviamo, allora le categorie del pensiero come la causalità o la temporalità o la
7 Bruner J. La cultura dell’educazione, Milano Feltrinelli, 1977 p. 8
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modalità e la relazione sono funzioni che ordinano e unificano la nostra esperienza, come
pensava Kant. Da queste poche note capiamo quanto la creatività abbia a che fare con le
operazioni della mente e acquisisca un’importanza fondamentale per l’apprendimento. Ciò non
vuol dire però che nel concetto di creatività non entrino le dimensioni dell’intuitività, della
poeticità e della affettività. Queste dimensioni infatti ci permettono di rimanere legati alla storia
di ciascun uomo e alla Storia dei popoli, in quanto essa è l’unica verità attingibile, perché è
l’unica scienza che apprendiamo facendola, così come ci ha insegnato Giambattista Vico,
secondo cui l’uomo pensa anche attraverso l’immaginazione e la visione poetica, essendo questi
due fattori necessari all’evoluzione umana: “i primi sapienti furono i poeti teologi” (La Scienza
Nuova, Libro II, Della sapienza poetica, ed. Einaudi 1959 p. 143).
C’è anche un altro aspetto da considerare quando si parla di creatività, che attiene più
direttamente all’ambito pedagogico e riguarda il fatto che essa non è data all’uomo come dono,
ma solo come potenza. Per i Padri della Chiesa, per esempio, è netta la distinzione tra la
capacità di creare di Dio e quella dell’uomo. Infatti solo Dio crea dal nulla, mentre l’uomo crea
da ciò che c’è.
Pervenire a questo concetto non è stato facile, se si pensa che la creatività nell’uomo era ritenuta
inspiegabile nell’antichità e all’uomo creativo si attribuiva una specie di forza spirituale
misteriosa e occulta, chiamata daimon (piccolo dio o demone, ma non nell’accezione cristiana).
Perfino Platone riteneva i poeti persone agenti sotto una specie di pazzia divina e che quindi
vivevano terribilmente una parte di se stessi come divina.
Per Tommaso d’Aquino, invece, proprio perché Dio è il creatore, può generare le cose senza
utilizzare una materia preesistente, mentre l’uomo ha la possibilità di trasmutare in quanto la
sua creatività presuppone sempre un oggetto su cui agire. Ora lasciando ai teologi creazionisti le
loro dimostrazioni, questo concetto tomistico ci aiuta a capire bene come per gli esseri umani
creare qualcosa vuol dire imparare ad elaborare, a ricavare, da ciò che già si sa, prospettive
nuove e soluzioni diverse. E se questo è vero diventa automatico che la creatività si apprende,
non è una scienza infusa e, di conseguenza, che non esistono privilegi naturali, ma solo spiccate
attitudini, coltivate in contesti particolarmente favorevoli alla divergenza.
La didattica quindi assume una funzione fondamentale nel rendere percorribile questo percorso
di apprendimento, in particolare quando essa s’incrocia con le altre scienze come la psicologia,
la pedagogia, l’antropologia e la sociologia. Creare le condizioni perché in ciascun alunno si
sprigioni la possibilità di essere padrone assoluto della propria conoscenza diventa, come si
vede, un obiettivo morale prima ancora che tecnico, da cui discende la particolare identità di una
relazione didattica, che privilegia la problematizzazione sul già detto, la ricerca sulla descrizione
delle soluzioni, la sperimentazione di diversi punti di vista sulla percorrenza iterativa di uno
stesso modo di vedere, magari frutto di un convincimento retrogrado e trasmissivo del docente.
Del resto studi molto recenti hanno dimostrato come il concetto di intelligenza non sia univoco
e che più forme di intelligenza, fra esse autonome, coesistono nell’essere umano. Ora se questo
è vero ne risulta di conseguenza che ciascun bambino potrà agire sul proprio mondo in vari
modi e secondo meccanismi plurimi, da cui guardare e quindi esercitare una sorta di creativo
approccio alla realtà interiore ed esteriore.
Un ultimo aspetto della creatività ci viene dagli studi di Joy Paul Guiford, psicologo americano,
secondo cui bisogna distinguere la modalità del pensiero convergente dalla modalità del
pensiero divergente. Il pensiero convergente ci permette di ripetere un certo iter conoscitivo
consolidato e verificato per risolvere una serie di problemi; si presenta quindi connotato da forte
linearità e logica deduttiva o algoritmica, come afferma anche Bruner. Il pensiero divergente è
invece più flessibile, interessato a più soluzioni e meno agli schemi, come sostiene Bruner esso
è di tipo olistico, sistemico cioè, legato alla globalità degli elementi che lo costituiscono.
Nel passato si attribuiva al primo tipo di logica la primarietà, ritenendolo più adatto alla scienza;
successivamente, nel secolo scorso, grazie anche al cambiamento radicale avvenuto nella storia
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dell’educazione con l’avvento delle pedagogie attivistiche, si è valorizzato il secondo. Le due
tipologie di pensiero non sono fra loro contrapposte, delineano, però, due diversi atteggiamenti
nei confronti della questione – creatività. Infatti, mentre la prima, la convergente, tende a
valorizzare la sequenzialità e quindi lo sforzo di seguire una traccia, la seconda valorizza la
creatività e quindi quegli aspetti dell’intelletto e dell’approccio alla realtà più legate
all’originalità di vedute.
In entrambi i casi sviluppare l’abitudine ad interrogarsi, a chiedersi se i risultati raggiunti
possono essere guardati anche da altri punti di vista vuol dire esprimere l’innata propensione a
porsi domande, ad evitare le banalità, a potenziare la disposizione, essenziale della mente
umana, ad esprimere se stessi, meta ultima a cui tutto il nostro lavoro di docenti tende.
La creatività ha infine un privilegiato rapporto non solo con la metacognizione, ma anche con
l’attività cooperativa. Infatti l’essere umano non è mai depositario di una verità inamovibile, e
quando ciò è successo, abbiamo dovuto vivere tragedie come i nazionalismi e i totalitarismi.
Anche lì dove parliamo di geni, come Einstein o Michelangelo, non possiamo tacere che la loro
intelligenza fuori dal comune è stata preparata da un contesto favorevole e motivante. In
generale le più grandi idee e le risposte originali agli interrogativi più complessi nascono da un
lavorio quotidiano di ricerca, ma anche di confronto, di dialogo, di sperimentazione condivisa e
coinvolgente, a tal punto che si può ben parlare di creatività collettiva. Nel 2013 tra le prove
scritte per l’esame di Stato, c’era la proposta di redigere un saggio breve su queste parole di
Fritjof Capra, che bene esprimono questo nesso. L’autore afferma: “Tutti gli organismi
macroscopici, compresi noi stessi, sono prove viventi del fatto che le pratiche distruttive a
lungo andare falliscono. Alla fine gli aggressori distruggono sempre se stessi, lasciando il posto
ad altri individui che sanno come cooperare e progredire. La vita non è quindi solo una lotta di
competizione, ma anche un trionfo di cooperazione e creatività. Di fatto, dalla creazione delle
prime cellule nucleate, l’evoluzione ha proceduto attraverso accordi di cooperazione e di
coevoluzione sempre più intricati”. Il pensiero dello scrittore si snoda sulla teoria sistemica
secondo cui l’isolamento dell’individuo è un fatto banale, mentre l’interdipendenza rappresenta
una realtà complessa, che si misura con tutte le più importanti innovazioni nel mondo della
natura e che può essere raccontata come una metafora, esprimente la necessità delle relazioni e
la prefigurazione di una realtà definita come rete della vita (Fritjof Capra, La rete della vita,
Rizzoli, Milano 1997).
Il discorso sul costruttivismo ha implicazioni assai importanti in didattica, soprattutto se si
valorizza l’idea che gli alunni sono i soggetti che creano il loro apprendimento e che le
cognizioni, le affezioni, le emozioni, le esperienze vengono ricomposte in conoscenze dagli
stessi soggetti che diventano così responsabili del loro apprendimento. La didattica costruttivista
parte dall’idea che è importante fornire allo studente gli strumenti e le strutture mentali per
imparare, più che i contenuti di studio, così come sosteneva Piaget e lo stesso Vygotskij, ed
inoltre afferma che la capacità di elaborare conoscenza discende direttamente dalla gestione
formalizzata dell’ambiente nel quale la conoscenza viene costruita; l’insegnante facilitatore è
soprattutto attento a preparare e a gestire questo ambiente, che spesso coincide con il gruppo
classe e con l’implementazione di un clima apprenditivo cooperativo. Le mappe concettuali, le
operazioni di schematizzazione, le analisi dei processi cognitivi sono solo alcuni degli strumenti
utilizzati per realizzare questo tipo di apprendimento.