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Diritto Penale
Principi Generali
penale
A cura di
Roberto Garofoli
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DIRITTO PENALE
Principi generali
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Dottrina
Il principio di offensività
SOMMARIO
1. Il principio di offensività. – 2. Il fondamento costituzionale Il principio di offensività. – 3. La concezione realistica del
reato. – 4. Il reato impossibile. – 5. L’inidoneità dell’azione. – 6. L'inesistenza dell’oggetto. – 7. La rilevanza penale del
falso grossolano, innocuo e inutile. – 8. La predisposizione della forza pubblica e l’agente provocatore.
1. Il principio di offensività
Alla stregua del principio di offensività, per la sussistenza
di un reato non basta la realizzazione di un
comportamento materiale corrispondente al fatto
descritto dalla norma incriminatrice, ma occorre che lo
stesso leda o ponga in pericolo il bene protetto
dall’ordinamento.
Nel nostro sistema normativo é principio consolidato
quello secondo cui l’offesa rileva se effettivamente subita
dal bene giuridico anche se solo a livello di pericolo.
Pertanto, come osservato da autorevole dottrina, il
principio di offensività del reato si contrappone a quello
volto a concepire il reato come mera violazione del
dovere e, più precisamente, quale inosservanza di un
mero dovere di ubbidienza alle norme dello Stato.
Se si sanzionasse la semplice violazione di un dovere,
prescindendo dall’esistenza di un’offesa ad un concreto
interesse, si sarebbe in presenza di “un diritto penale a
sfondo soggettivistico-sintomatico o meramente
preventivo, tipico dei sistemi totalitari, per cui il reato é
anzitutto violazione di un dovere di fedeltà incompatibile
con i principi fondamentali del nostro sistema normativo.
Quest’ultimo, é imperniato sul principio di offensività; ciò
scongiura la possibilità del manifestarsi di forme di
responsabilità di puro pensiero all’evidenza confliggenti
non solo con l’art. 25, comma 2, della Costituzione, ma
anche con un principio di più ampia portata desumibile
dall’intero sistema costituzionale.
La Carta fondamentale, infatti, eleva il principio della
libertà morale al rango di bene costituzionale.
Il principio di offensività impone la ricostruzione del reato
come offesa di un bene giuridico, in conformità al
brocardo nullum crimen sine iniuria; presuppone e
integra, inoltre, il principio della materialità del fatto posto
che mentre quest’ultimo assicura contro le incriminazioni
di meri atteggiamenti interni, l’offensività assume
un’ulteriore funzione di delimitazione dell’illecito penale
escludendo che possano essere incriminati fatti materiali
non offensivi.
Si è al cospetto, quindi, di un vincolo riguardante
innanzitutto il legislatore; questi sarà tenuto a delineare
le fattispecie incriminatici in modo tale che il giudice
debba accertare l’esistenza in concreto non solo di un
fatto scindibile dal suo autore – in ossequio al cosiddetto
principio di materialità – ma anche l’esistenza dell’offesa
ad un bene giuridico.
Acuta dottrina (FIORELLA) ha così illustrato il
meccanismo dell’offensività: un fatto diviene punibile solo
in quanto si perfezioni un complessivo giudizio di
disvalore “specificamente penalistico” implicante
l’idoneità del fatto ad incidere “nel modo esterno (al
soggetto agente) in modo tale da pregiudicare (a livello
di danno o di pericolo) un quid cui il contesto sociale ed il
diritto penale attribuiscano un significato di valore; e che
viene tecnicamente chiamato “bene giuridico”.
Non è mancato chi ha osservato che l’assenza di
offensività determina il venir meno della stessa tipicità
del fatto: un comportamento che non sia capace di
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offendere il bene tutelato dalla norma sarebbe solo
apparentemente conforme al tipo di reato così come
delineato dal legislatore.
Secondo i fautori di tale indirizzo, la contrapposizione tra
tipicità e offensività è illusoria ed ha il deleterio effetto “di
spingere a ricercare una sfera di offensività al di fuori
dell’unico ambito possibile”, quello cioè
dell’incriminazione” (PAGLIARO; FIORE).
Quanto al fondamento positivo del principio di offensività,
la dottrina prevalente lo rinviene non solo nella legge
ordinaria – il riferimento è all’art. 49 cod. pen. – ma,
prima ancora, nella stessa Carta costituzionale.
Anche se alcuni Autori (ZUCCALÀ; VASSALLI) non
concordano con tale ricostruzione, non vi è dubbio che
attribuire alla offensività il valore di un principio di rango
costituzionale determina la duplice conseguenza di
imporre al legislatore di formulare le norme attenendosi
al precetto nullum crimen sine iniuria e all’interprete di
ricostruire le fattispecie criminose secondo il modello del
reato inteso come offesa ai beni giuridici.
Ciò vale non solo allorché il legislatore intenda creare
nuove figure criminose ma anche, e con maggior
frequenza, quando provvede alla eliminazione della
rilevanza penale di talune condotte tramite lo strumento
della decriminalizzazione o della depenalizzazione.
Autorevole dottrina (MANTOVANI) ritiene, infatti, che la
scelta di depenalizzazione debba conformarsi “alla
gerarchia dei valori costituzionalmente orientata sempre
attenta alla offensività insita nel comportamento
incriminato”; al riguardo, non è mancato chi, di recente,
in occasione della ampia depenalizzazione attuata con il
d. Lgs. n. 507 del 30 dicembre 1999, ha osservato che,
nell’eliminare la rilevanza penale di una serie di condotte,
il legislatore ha utilizzato come parametro fondamentale
quello della offensività sottesa ai comportamenti, così
recependo le indicazioni precedentemente offerte dalla
Consulta (de GIOIA-GARGIULO-GRAZIANO).
La necessità che il legislatore assuma l’offensività quale
criterio guida da seguire in sede di eliminazione della
rilevanza penale di alcune condotte criminose è peraltro
da tempo sostenuta da altra dottrina (FIORELLA)
secondo cui “é stata proprio l’esiguità del disvalore di
evento un criterio-guida stroricamente fondamentale per
giustificare la trasformazione di molti illeciti penali in
illeciti amministrativi, nel senso di considerare obbligata
o almeno indicata la depenalizzazione degli illeciti privi di
un sufficiente disvalore di evento”.
2. Il fondamento costituzionale Il principio di
offensività.
Parte della dottrina ha sostenuto che per escludere il
reato ove manchi l'offesa al bene protetto non occorre
richiamare necessariamente la disciplina stabilita dall’art.
49, comma 2 cod. pen., ma è sufficiente interpretare le
norme incriminatrici in conformità alla Costituzione
(MARINUCCI-DOLCINI).
Al contempo, è stata subito colta l’importanza che il
principio di necessaria offensività può svolgere ai fini
dell’adeguamento dell’oggettività giuridica dei singoli
reati alla sfera dei valori e degli interessi tutelati dalla
Carta costituzionale
Esaminando i molteplici apporti dottrinali sul punto è dato
rilevare che la tesi della costituzionalizzazione del
principio di offensività trae origine dall’interpretazione di
una pluralità di norme:
- dall’art. 13 Cost. secondo cui “ogni diritto
costituzionalmente garantito non può subire limitazioni se
non per la tutela di un altro interesse, e, quindi, anche il
diritto supremo della libertà personale, che non può
subire sacrifici ad opera della sanzione penale, che non
sia imposta dalla esigenza di tutelare qualche concreto
interesse“ (MANTOVANI);
- dall'art. 27, comma 3, Cost., nella parte in cui
attribuisce alla pena una duplice funzione, quella
retributiva e quella rieducativa (MUSCO); in assenza
dell’offensività si punirebbe l’autore per una mera
disubbidienza in contrasto con la finalità tendenzialmente
rieducativa della pena (MANTOVANI);
- dall'art. 25, comma 2, Cost. in quanto l’impiego del
termine “fatto” trova una sua giustificazione solo alla luce
della scelta, da parte del legislatore costituzionale, di una
nozione di reato come illecito tipico, conformemente a
quell’indirizzo di pensiero secondo cui l’offesa al bene
tutelato assurge ad elemento indispensabile al fine della
stessa tipicità del reato, al pari di tutti gli altri elementi
costitutivi (BRICOLA; MANTOVANI);
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- dagli artt. 25 e 27 Cost. che, distinguendo le funzioni
della pena e della misura di sicurezza, escludono
l’incriminazione dei fatti di mera disubbidienza; in caso
contrario la pena verrebbe trasformata in una misura
esclusivamente preventiva tale da usurpare le funzioni
proprie della misura di sicurezza (MANTOVANI);
- da tutti quei principi costituzionali che concorrono a
formare il quadro generale tipico di uno Stato di diritto: la
libertà morale, la tolleranza ideologica ed il rispetto della
dignità delle persone (MUSCO).
La dottrina si è sempre preoccupata di delimitare la
categoria dei beni giuridici la cui lesione o esposizione
viene considerata dal principio di offensività.
A fronte di un orientamento prevalente (MANTOVANI;
NUVOLONE; PADOVANI) volto a ravvisarli in tutti quelli
non incompatibili con la Costituzione, altri (BRICOLA;
ANGIONI) delimitano la categoria ai “beni
costituzionalmente significativi”: risulterà esaustiva, in
assenza di questo connotato, una tutela di tipo
amministrativo.
L’argomento forte su cui poggia tale ultima tesi è quello
in forza del quale la legge ordinaria non può limitare diritti
costituzionalmente rilevanti se non per tutelare interessi
parimenti rilevanti.
Viene così enucleato il “principio di proporzione” in base
al quale la pena, comportando una limitazione della
libertà personale garantita dell’art. 13 Cost. (BRICOLA;
PAGLIARO), può essere utilizzata unicamente per la
tutela di valori parimenti degni a livello costituzionale.
Si tratta, tuttavia, di assunto non da tutti condiviso:
mentre alcuni lo ritengono eccessivamente restrittivo,
constatando, sul piano effettuale, che finirebbe per
privare della tutela penale beni costituzionalmente non
rilevanti (ad es. riservatezza personale; beni ambientali);
altri, invece, ne sottolineano l’eccessiva ampiezza
allorché estende la categoria dei beni costituzionalmente
rilevanti anche a quelli impliciti, a quelli strumentali e a
quelli costituzionalizzabili per analogia con il risultato di
vanificare la stessa finalità dichiaratamente perseguita
(MANTOVANI).
Dal canto suo la Corte costituzionale ha optato per la
prima delle tesi esposte; pur essendosi mostrata cauta
nell'accogliere la costituzionalizzazione del principio di
offensività, ha comunque sottolineato che tale principio
deve reggere ogni interpretazione delle norme penali.
Ha inoltre aggiunto che è compito del giudice di merito
determinare in concreto ciò che, non raggiungendo la
soglia dell'offensività dei beni protetti, non si può far
rientrare nell’ambito del penalmente rilevante (Corte
Cost. n. 62 del 1986; n. 333 del 1991).
3. La concezione realistica del reato.
La più recente dottrina appare ormai unanimemente
attestata nel condividere la tesi secondo cui il principio
della necessaria offensività del reato trova il suo
riconoscimento nel codice penale: l’art. 49, comma 2,
costituirebbe il punto di partenza per la ricostruzione di un
principio generale destinato, a sua volta, ad assurgere a
criterio ispiratore della concezione per la quale non può
esservi reato senza una lesione o messa in pericolo
effettiva del bene protetto.
Si tratta della c.d. concezione realistica del reato forgiata
da quella dottrina (BRICOLA; FIORE; M. GALLO;
GRANDE; L’INNOCENTE; MANTOVANI; NEPPI
MODONA; VASSALLI) secondo cui l’art. 49, comma 2,
laddove esclude la punibilità quando “per l’inidoneità
dell’azione … è impossibile l’evento dannoso o
pericoloso”, non deve essere inteso come un mero
doppione del delitto tentato, un tentativo cioè inidoneo e
non riuscito.
La disposizione in esame sarebbe chiamata ad assolvere
ad una più degna funzione, confermando il principio
generale in base al quale non vi può essere reato in
assenza di una offesa del bene giuridico protetto.
Si è sostenuto che “l’art. 49 ribadisce al livello della legge
ordinaria il principio costituzionale della offensività del
reato” (MANTOVANI).
Già prima dell’entrata in vigore del codice penale altra
dottrina (DELITALA) aveva colto la reale portata dell’art.
49 cod. pen. come espressione del principio realistico in
contrasto con l’indirizzo di pensiero all’epoca maggioritario
che, per almeno un trentennio dopo la promulgazione del
codice penale, aveva continuato a costruire l’istituto come
un’anticipazione contraria e negativa del delitto tentato.
Per completezza deve accennarsi ad altre due tesi che
rifuggivano dalle predette ricostruzioni: da un lato quella
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che interpretava l’art. 49, comma 2, come una sottospecie
di delitto putativo; dall’altro quella che lo riconduceva nello
schema della più ampia categoria del “reato apparente”
(NEPPI-MODONA).
É stato brillantemente osservato che nell’art. 49 cod. pen.
il legislatore ha voluto “avvertire che a realizzare l’offesa
non è sufficiente per il nostro ordinamento che il
comportamento umano realizzi le note descrittive del
modello di una certa figura criminosa, ma è necessario
altresì che l’azione possieda sufficiente idoneità all’offesa”
(E. GALLO).
Le principali argomentazioni poste a sostegno della
concezione realistica del reato muovono dal rilievo delle
profonde differenze esistenti tra la formulazione del
secondo comma dell’art. 49, comma 2 e l'art. 56 cod. pen.;
in primo luogo, laddove la norma sul tentativo fa
riferimento ai solo delitti, l’art. 49, comma 2, cod. pen.
richiama genericamente i reati.
Accogliere la tesi che riduce la norma sul reato impossibile
a mero doppione della norma sul tentativo non
spiegherebbe perché gli atti diretti in modo non equivoco a
commettere una contravvenzione rimangono impuniti se
idonei a produrre l’evento mentre possono portare
all’applicazione della misura di sicurezza di cui al quarto
comma dell’art. 49 cod. pen.
Tra le altre differenze, inoltre, viene fatto notare che la
inidoneità di cui all'art. 49 non è riferita, come nell'art. 56
cod. pen., agli atti bensì all'azione; il reato impossibile
perciò presuppone che tutta l’azione sia stata posta in
essere ma che la sua inidoneità offensiva renda
impossibile il verificarsi dell’offesa dell’interesse tutelato
(MANTOVANI).
Un’ulteriore distinzione tra la disposizione sul reato
impossibile e quella sul tentativo è stata ravvisata nella
mancata previsione, da parte di quest’ultima, dell’ipotesi di
“inesistenza dell'oggetto” posta, invece, alla base della
formulazione del secondo comma dell’art. 49 comma 2.
Infine, soggiunge altra parte della dottrina (M. GALLO;
NEPPI MODONA), un altro argomento forte a favore della
concezione realistica del reato è dato dalla evidente
incongruità in cui sarebbe incorso il legislatore
nell’anticipare in negativo quanto poi stabilito dall'art. 56 in
forma positiva.
Tutte queste considerazioni, a detta dei fautori della
concezione realistica, inducono univocamente alla
conclusione per cui il reato impossibile, lungi dal
rappresentare un tentativo impossibile, deve essere inteso
come la conferma che per la punibilità di una condotta
occorre che la stessa sia non solo conforme al modello
legale ma anche offensiva dell’interesse tutelato.
Un’attenta dottrina ha rilevato che ciò non significa la
cancellazione dal sistema del principio di antigiuridicità
formale; se certo il giudice, accertato nel fatto storico la
presenza di tutti gli elementi essenziali della fattispecie,
dovrà ritenere integrato il reato, si ritiene che vada
accertata la concreta idoneità dell’azione “se sorge il
dubbio ragionevole che, in quel certo caso concreto,
l’offesa ciononostante possa non essersi verificata ” (E.
GALLO).
Non sono mancate forti reazioni avverso tale ricostruzione
dovute alla sua assolutezza e ambiguità di formulazione
(MANTOVANI).
É stato innanzitutto osservato che le questioni letterali, da
cui sarebbe desumibile la netta differenza tra la norma sul
tentativo e quella sul reato impossibile, sono facilmente
superabili.
Ad esempio, un’esigenza di coordinamento indurrebbe ad
estendere l'ambito dell'art. 49 comma 4, cod. pen.
coordinandolo alle previsioni dell'art. 56 stesso codice di
modo che la misura di sicurezza potrà essere riferita ai soli
delitti e non anche alle contravvenzioni; inoltre, l’impiego
del termine azione, in luogo del termine atti - di cui all'art.
56 - deve essere inteso nel senso che nell’ipotesi del reato
impossibile la condotta dell'agente è stata compiuta nella
sua interezza.
L’argomentazione di maggior spessore utilizzata al fine di
smentire la validità della concezione realistica del reato e
la desumibilità, quindi dall’art. 49 cod. pen. del principio di
necessaria lesività del reato, viene individuata nella
oggettiva impossibilità di distinguere i fatti offensivi dai fatti
conformi al modello legale privi, però, il carattere di
lesività.
Si contesta, cioè, che un sistema basato sul principio di
legalità possa ammettere l’esistenza di un fatto tipico non
punibile perché inoffensivo; se tutti gli elementi del reato
concorrono ad individuare il bene giuridico, ogni fatto tipico
è per ciò solo necessariamente offensivo del bene
tutelato.
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É proprio questa considerazione logica prima che
giuridica, fa notare la dottrina, che induce ad escludere la
possibilità di individuare fatti che sono tipici ma non
offensivi (FIANDACA-MUSCO; MARINUCCI; PULITANÒ;
STELLA).
Quest’ultimo assunto è stato smentito dalla stessa
giurisprudenza di legittimità che più volte ha escluso la
punibilità di fatti che, seppure conformi al tipo, non
risultavano portatori di un apprezzabile significato lesivo.
La Corte di cassazione in un caso ha affermato che
“l'inidoneità dell'azione che rende impossibile il verificarsi
dell'evento dannoso o pericoloso va accertata alla stregua
delle circostanze obiettive del caso concreto, secondo un
giudizio ex post, poiché l'art. 49, comma secondo, cod.
pen. afferma il principio dell'offensività del reato per cui
non è punibile, il comportamento conforme alla fattispecie
legale penale che tuttavia non manifesti obiettivamente,
nel caso concreto, l'attitudine causale a ledere o porre in
pericolo il bene giuridico protetto” (Cass. Sez. I, 15 maggio
1989, n. 8527).
Il principio appena esposto si incardina in un orientamento
già espresso dalla giurisprudenza di legittimità che, in
precedenza, aveva perentoriamente rilevato che “il
requisito della idoneità di cui all'art. 49 cod. pen. si correla
al principio di legalità, dovendo accertarsi non la semplice
ed esteriore conformità del fatto al modello legale, ma la
sua conformità sostanziale” (Cass. Sez. I, 30 settembre
1981, n. 10132).
A favore di quest’ultimo indirizzo milita la posizione
assunta dalla stessa Consulta che – anche se con
riferimento al alcune ipotesi residuali – ha ammesso la
possibilità di una divergenza tra tipicità ed offesa (Corte
cost. n. 333 del 1991).
4. Il reato impossibile.
Il secondo comma dell'art. 49 cod. pen. – disciplinante
l'ipotesi in cui per l'inidoneità dell'azione o per l'inesistenza
dell'oggetto l'evento dannoso o pericoloso risulta
impossibile – ha rappresentato una novità nel nostro
sistema normativo.
La disposizione esprime la regola secondo cui un’azione,
che in astratto costituirebbe reato, non può essere
sanzionata qualora sia inidonea a raggiungere il suo
scopo, o per un suo difetto intrinseco oppure perché
indirizzata avverso un bene che nella realtà non esiste.
É stato correttamente notato che tale figura di reato è
ineliminabile in un sistema misto come il nostro e che “non
avrebbe ragione di esistere in un sistema penale
oggettivo, in un sistema penale soggettivo non di
differenzierebbe dal reato perfetto, tentato, putativo,
identificandosi essi tutti sotto il profilo della volontà
malvagia o sintomatologico” (MANTOVANI).
Va da subito evidenziato che il reato impossibile pertanto
avrà maggiore possibilità di verificarsi nella fattispecie a
forma aperta; in questo caso, infatti, è proprio l’eccessiva
genericità descrittiva che determina l’inclusione nella
norma di fatti in realtà inoffensivi.
Per questa ragione, la norma sul reato impossibile
consente “la possibilità di riplasmare in chiave sociale e
costituzionale il contenuto dell’offesa, e di raccordare ad
esso la conformità al tipo …” (BRICOLA).
Si è molto discusso in giurisprudenza e in dottrina sulla
portata di tale norma; a fronte di una posizione restrittiva
assunta da parte della scienza giuridica, la giurisprudenza
ha accolto una nozione ampia dell’ambito di applicazione
rilevando che l'impossibilità ha rilevanza sia con
riferimento ai reati materiali, e cioè di danno o di pericolo,
che ai reati di mera condotta, nei quali l'evento è giuridico.
(Cass. Sez. III, 23 settembre 1983, n. 7576).
Problemi particolari sono sorti con riguardo all’elemento
soggettivo.
L'indirizzo di pensiero che configura l'art. 49, comma 2,
cod. pen. quale doppione negativo del reato tentato
intende il reato impossibile come necessariamente doloso;
l’autore, cioè, deve agire con la consapevolezza e volontà
dell'evento giuridico-contenuto del reato (FROSALI).
Accogliendo la tesi intesa a ravvisare nel reato impossibile
un reato autonomo, si deve ammettere la sua ipotizzabilità
nelle forme della colpa ancorché nella sola “di inidoneità
della condotta e non della inesistenza dell’oggetto
ponendosi, questa seconda ipotesi, come limite al delitto
tentato che, per sua natura, è soltanto doloso”
(MANTOVANI).
5. L’inidoneità dell’azione
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La figura del reato impossibile per inidoneità dell'azione è
stata oggetto di notevoli controversie in seno alla dottrina.
Secondo l'interpretazione dottrinaria tradizionale, l'art. 49,
comma 2, cod. pen. avrebbe riguardo a fattispecie
destinata a costituire un doppione del tentativo di cui
rifletterebbe in negativo i medesimi requisiti previsti per la
punibilità.
Il reato impossibile, pertanto, “costituirebbe un tentativo
impossibile, cioè un tentativo rimasto senza successo”
(ANTOLISEI).
Accedendo a tale tesi, l'inidoneità dell'azione di cui al
secondo comma dell’art. 49 cod. pen. dovrebbe valutarsi
sulla base degli stessi criteri necessari per verificare
l'idoneità degli atti nel tentativo: un giudizio ex ante che
guardi al momento in cui il soggetto ha posto in essere la
sua attività ed in concreto, valutando, cioè, la condotta nel
contesto della specifica situazione in cui si è verificata.
Altra parte della dottrina a ciò aggiunge che l’indagine
deve essere condotta a base parziale, ossia con
riferimento alle circostanze conoscibili dall'uomo normale
(ANTOLISEI; PAGLIARO; ROMANO).
All’esposto orientamento interpretativo se ne contrappone
un altro che attribuisce al reato impossibile per inidoneità
dell'azione una assoluta autonomia rispetto alla previsione
propria dell’art. 56 cod. pen.
L’adesione a tale tesi implica come conseguenza
immediata che l'inidoneità dell'azione – nello schema del
reato impossibile – dovrà essere valutata secondo un
giudizio ex post che tenga conto della realtà obiettiva: solo
dopo aver vagliato la corrispondenza del fatto
concretamente posto in essere al modello legale descritto
dalla norma sanzionatoria, il giudice dovrà accertare - con
riguardo alla situazione effettivamente verificatasi – se
l'azione ha realmente determinato una lesione del bene
protetto.
Se a seguito di tale valutazione il fatto risulta carente di un
risultato lesivo si sarà in presenza di un reato impossibile,
in caso contrario saremo al cospetto di un reato
consumato (NEPPI-MODONA).
Non sono mancate opinioni dottrinarie (FIANDACA-
MUSCO; PANNAIN) che, attribuendo maggior rilievo
all’analisi storica dell'art. 49, comma 2, cod. pen. hanno
sostenuto che tale disposizione si riferisca al tentativo
assolutamente inidoneo in concreto a mettere in pericolo il
bene protetto; pertanto, il tentativo esulerebbe quando un
fatto astrattamente idoneo, al momento dell’azione, a
raggiungere l’obiettivo criminoso perseguito, sia tale da
non poter in ogni caso sfociare in un delitto consumato per
la presenza di circostanze che ne rendono in concreto
impossibile la realizzazione.
Una attenta verifica circa l’avvenuta esposizione del bene
ad un reale pericolo, in questo caso, imporrebbe l’impiego
dello stesso strumento del giudizio prognostico utilizzato
per l’accertamento del tentativo punibile ma, questa volta,
non solo nell’ottica del soggetto agente, bensì anche dal
punto di vista della vittima (titolare del bene posto in
pericolo).
La più recente dottrina ha aggiunto che, nell’effettuare
questo tipo di verifica, si deve tener conto non solo delle
circostanze conosciute o conoscibili dall'agente al
momento dell'azione, ma di ogni altra circostanza
presente indipendentemente dal momento in cui vengano
conosciute (FIANDACA-MUSCO; MARINUCCI).
In giurisprudenza è prevalente l’indirizzo che ravvisa nel
reato impossibile per inidoneità dell'azione un tentativo
impossibile in adesione, perciò, alla tesi secondo cui
l'inidoneità deve essere accertata dal giudice secondo un
giudizio ex ante e in concreto tenendo conto delle
circostanze conoscibili dall'agente.
In tale giudizio, precisa la Cassazione, non avrebbero
alcuna rilevanza le eventuali cautele poste in essere dalla
persona offesa.
Affrontando il caso di una falsa attestazione di un medico
specialista di U.S.L. relativa alla propria presenza in
ambulatorio in una certa data, la Suprema Corte ha
spiegato, in applicazione del suesposto principio, che
l’accertamento, in tema di falso ideologico, va riferito al
significato ed al valore dell'atto di cui si tratta, e non alla
verifica dell'effettiva realizzazione di un inganno, che non è
elemento della fattispecie (Cass. Sez. V, 22 ottobre 1993,
n. 9934; in senso conforme, Cass. Sez. V, 2 ottobre 1990,
n. 15193).
In un’altra occasione, la Corte ha precisato che
l’incapacità a produrre l'evento deve essere assoluta,
intrinseca e originaria, secondo una valutazione effettiva
da compiersi risalendo al momento iniziale dell'azione
(Cass. Sez. I, 31 marzo 1992, n. 5450).
Nel corso degli anni ottanta si è assistito ad una tendenza
9
giurisprudenziale volta a valorizzare l’accertamento della
l'inidoneità secondo un giudizio ex ante e in astratto
(Cass. Sez. II, 22 aprile 1983, n. 5364).
Orbene, nonostante l’intervento delle Sezioni Unite (Cass.
S.U., 30 aprile 1983, n. 6218) che, nel tentativo di
armonizzare i diversi indirizzi registratisi sul punto, aveva
chiarito che l’inidoneità dell'azione dovesse essere
valutata in rapporto alla condotta originaria dell'agente
(segnalando inoltre che l'accertamento non potesse
prescindere dalla considerazione del caso concreto),
l’anno seguente la I sezione della Corte di Cassazione
tornava sui propri passi affermando che “per aversi reato
impossibile, la inidoneità degli atti in rapporto all'evento
deve essere assoluta, con valutazione astratta della
inefficienza strutturale e strumentale, la quale non deve
essere in grado di consentire neppure una attuazione
eccezionale del proposito criminoso“ (Cass. Sez. I, 5
dicembre 1984, n. 4734).
Non sono tuttavia mancate pronunce che hanno invece
aderito totalmente alla concezione realistica del reato.
La prima di queste, in origine isolata (Cass. Sez. I, 30
settembre 1981, n. 10132), è stata successivamente
valorizzata dalla giurisprudenza di legittimità che, oltre a
riaffermare che l'inidoneità dell'azione – destinata a
rendere impossibile il verificarsi dell'evento dannoso o
pericoloso – va accertata alla stregua delle circostanze
obiettive del caso concreto, secondo un giudizio ex post,
ha anche sostenuto che l'art. 49, comma secondo, cod.
pen., afferma il principio dell'offensività del reato.
É questa la ragione, aggiunge la Suprema Corte, per cui
“non è punibile, ma eventualmente può dar luogo alla
misura di sicurezza, il comportamento conforme alla
fattispecie legale penale che tuttavia non manifesti
obiettivamente, nel caso concreto, l'attitudine causale a
ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto” (Cass.
Sez. I, 15 maggio 1989, n. 8527).
Le maggiori questioni applicative dei criteri sinora esposti
si sono avute con riferimento al delitto determinato
all’agente provocatore: mentre la giurisprudenza ha quasi
sempre escluso l'applicabilità dell'art. 49 cod. pen. (Cass.
Sez. V, 22 ottobre 1997, n. 11890; Cass. Sez. VI, 17
giugno 1993, n. 8267, in tema di sollecitazione alla vendita
di stupefacenti da parte di agente della polizia
nell'esercizio delle funzioni di istituto volte alla repressione
del traffico di droga; Cass. Sez. I, 17 novembre 1989, n.
2922; Cass. Sez. VI, 28 gennaio 1986, n. 4431) in dottrina
si è assistito ad un netto contrasto di vedute.
L’orientamento prevalente si è mostrato concorde con
l'impostazione giurisprudenziale (ANTOLISEI;
DELL’ANDRO; MALINVERNI) scalzando, in tal modo, un
indirizzo minoritario meno recente che aveva preso
posizione nel senso che l'intervento della polizia e
dell'agente provocatore darebbe sempre luogo ad
un'ipotesi di reato impossibile per inidoneità dell'azione
(VANNINI).
6. L'inesistenza dell’oggetto
L’altra situazione in presenza della quale l’art. 49, comma
2, cod. pen. esclude la punibilità dell’agente è
rappresentata dal caso in cui l'evento dannoso o
pericoloso risulti impossibile per inesistenza dell'oggetto
dell'azione stessa.
Ancora una volta, per la dottrina tradizionale, questa
ipotesi costituisce il rovescio negativo del tentativo
punibile.
In particolare, si è ritenuto che la menzione
dell’inesistenza dell’oggetto operata nell’art. 49 cod. pen.
sia stata fatta ad abundantiam per fugare ogni dubbio in
ordine al giudizio sull’idoneità dell’azione (ANTOLISEI).
Attesa la generica formulazione della norma, occorre in
primo luogo chiarire cosa si deve intendere per oggetto;
per la quasi unanime dottrina, si tratta dell'oggetto
materiale dell'azione, cioè, la cosa o la persona su cui
deve incidere l'azione criminosa (ANTOLISEI; FIORE;
PAGLIARO).
Proseguendo nella analisi della disposizione, deve
segnalarsi la summa divisio operata da parte della dottrina
tra inesistenza assoluta dell’oggetto, perché in rerum
natura mai esistito o estintosi, ed inesistenza relativa,
perché, pur esistendo in natura, l’oggetto manca nel
tempo e nel luogo in cui si realizza la condotta criminosa
(MANTOVANI).
Non è mancato chi (ANTOLISEI), al riguardo, ha preferito
operate la distinzione tra inesistenza e mancanza
occasionale.
Più in generale, sono state elaborate diverse tesi dirette
ad enucleare i criteri alla stregua dei quali stabilire se
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l’inesistenza dell’oggetto sia ancora compatibile con il
tentativo o dia luogo, invece, alla figura del reato
impossibile.
Secondo l'opinione dottrinale prevalente l’inesistenza
dell'oggetto considerata dall’art. 49 cod. pen. è solo quella
assoluta, originaria, in rerum natura, il cui accertamento
non può che avvenire con un giudizio ex post, basato su
tutte le circostanze presenti nella situazione data anche se
conosciute successivamente. In tal modo assumerebbe
quasi la funzione di correttivo del giudizio – da effettuare
ex ante – normalmente effettuato con riferimento al delitto
tentato.
Per l’indirizzo di pensiero maggioritario, la mancanza
meramente occasionale, o l’inesistenza relativa,
comporterebbe in ogni caso la sanzionabilità della
condotta dell’agente (MANZINI; MAGGIORE;
SINISCALCO; in senso contrario NUVOLONE).
Altra parte della dottrina ha invece tentato di far rientrare
queste ipotesi nell’ambito del reato impossibile utilizzando
un giudizio ex ante; il tentativo, pertanto, dovrebbe
ritenersi impossibile allorché la presenza dell'oggetto, e
quindi la consumazione del reato, appaia improbabile nel
momento in cui il soggetto agente si accinge ad attuare il
suo piano (ROMANO).
Si è tuttavia ribattuto che, ricorrendo al criterio della
prognosi postuma, si ”finisce per ammettere il tentativo
punibile quando, al momento della condotta, la presenza
dell’oggetto appariva verosimile, pur essendo inesistente
in natura; In tal caso, infatti, non poteva insorgere alcun
pericolo per il bene protetto” (MANTOVANI).
Peculiare, ma con un certo riscontro in dottrina, è la tesi
volta a distinguere a seconda che la mancanza
dell’oggetto sia antecedente o contestuale rispetto all’inizio
dell’azione (FIORE) giungendo ad affermare che non
ricorre il reato impossibile quando l’oggetto materiale sia
venuto meno durante il corso dell’attività criminosa
(PANNAIN; MARCIANO).
Tesi, questa, condivisa in giurisprudenza, laddove ha
affermato che ricorre la figura del reato impossibile
allorquando sussiste un'assoluta assenza del bene
aggredito, ossia quando quest'ultimo risulti inesistente sin
da prima che l'agente intraprenda la sua opera delittuosa.
(Cass. Sez. I, 26 aprile 1983, n. 3568).
Tra le diverse tesi elaborate sul punto, diffuse appaiono,
quindi, quelle che ravvisano la fattispecie tentata nei casi
in cui la mancanza dell’oggetto sia meramente accidentale
o temporanea (colpo di fucile sparato in direzione del letto
da quale la vittima designata si è allontanata poco prima)
ovvero soltanto successiva all’inizio della condotta: si
sarebbe, dunque, al cospetto della fattispecie impossibile
in tutte le altre ipotesi di inesistenza non solo assoluta, ma
anche relativa dell’oggetto, sempre che, in quest’ultimo
caso, si tratti di mancanza duratura o anteriore alla
condotta.
Si tratta di opzioni ricostruttive non condivise dalla più
recente dottrina secondo cui i suesposti criteri di
perimetrazione della linea di confine tra reato impossibile e
delitto tentato, si fondano su accertamenti ex post, come
tali idonei ad escludere l’integrazione del delitto tentato
anche nei casi in cui l’oggetto appariva ex ante
verosimilmente presente, presentando, dunque, la
condotta un elevato tasso di pericolosità.
La più recente dottrina, quindi, ha ritenuto che “a) il reato
impossibile riguarda le sole ipotesi di inesistenza assoluta
dell’oggetto (accertabile perciò ex post, tenendo conto
cioè di tutte le circostanze esistenti, anche se non
conosciute o non verosimili ex ante)” sull’assunto che
integrerebbe una manifesta violazione del principio di
offensività punire nonostante sia già a priori certa
l’assenza del benché minimo pericolo di perfezione del
delitto “b) il tentativo punibile riguarda, invece, le ipotesi di
inesistenza relativa, sempre che al momento della
condotta apparisse verosimile l’esistenza dell’oggetto”
(MANTOVANI).
In tal modo, la figura del reato impossibile, svolgendo
un’autonoma funzione di delimitazione della punibilità del
tentativo in ossequio al principio di offensività,
consentirebbe di escludere l’assoggettamento a
trattamento sanzionatorio delle ipotesi che, pur connotate
dall’inesistenza in rerum natura dell’oggetto, sarebbero
comunque punibili in base all’art. 56 cod. pen. per essere
la condotta ex ante idonea, apparendo verosimile al
momento in cui la stessa è posta in essere la presenza
dell’oggetto medesimo.
Una completa rassegna delle tesi dottrinarie sul punto
impone un cenno ad un recente indirizzo di pensiero
secondo cui si è in presenza di inesistenza rilevante ex
art. 49, comma 2, cod. pen., oltre che nel caso di
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inesistenza in rerum natura, allorché l’oggetto materiale
sia carente delle connotazioni “normative” necessarie per
la realizzazione del delitto consumato. Una simile
situazione – da valutare al momento in cui l’azione
raggiunge la soglia di punibilità quantomeno a titolo di
tentativo – porterebbe ad escludere una concreta messa
in pericolo del bene protetto (GRANDE).
In giurisprudenza, è da lungo tempo prevalente la tesi
secondo cui l'inesistenza dell'oggetto idonea ad escludere
la punibilità dell’agente è quella in rerum natura, assoluta
e originaria, irrilevante essendo il dato della mancanza
semplicemente temporanea o accidentale dello stesso.
Il principio è stato di recente ribadito dalla Corte di
cassazione laddove ha sostenuto che “l'inesistenza
dell'oggetto del reato acquista rilevanza giuridica ed
esclude la sussistenza del reato stesso soltanto quando
esso sia inesistente "in rerum natura" oppure sia assoluta
ed originaria, e non anche quando si sia in presenza di
una mancanza accidentale o temporanea. Il giudizio, circa
l'inesistenza dell'oggetto, al di fuori dell'ipotesi
dell'inesistenza "in rerum natura" dell'oggetto del reato,
deve essere accertata con giudizio "ex ante" – cosiddetta
prognosi postuma - nel senso che il giudice deve porsi
nella stessa condizione in cui era l'agente ed escludere, in
relazione alle concrete circostanze ed alle maggiori
conoscenze dell'agente stesso, la sussistenza del reato,
soltanto quando l'esistenza dell'oggetto appariva
improbabile al momento dell'azione” (Cass. Sez. VI, 11
marzo 1996, n. 8171).
La pronuncia appena esaminata, inoltre, assume una
particolare rilevanza nella parte in cui chiarisce che
l’accertamento deve avvenire con un giudizio ex ante e
che deve essere esclusa la sussistenza del reato soltanto
quando l'esistenza dell'oggetto appaia improbabile nel
momento in cui veniva posta in essere l'azione.
In un’altra occasione – sempre in applicazione di tale
principio – la Suprema Corte ha ritenuto tentativo punibile
e non reato impossibile il comportamento di chi si
introduce in una vettura per commettere un furto di cose
nella stessa contenute posto che, con valutazione "ex
ante", nella vettura sono normalmente contenute cose che
possono essere oggetto di furto (Cass. Sez. V, 9 dicembre
1996, n. 84; in senso conforme, Cass. Sez. I, 26
novembre 1991, n. 3405).
Deve però evidenziarsi che tale posizione
giurisprudenziale non è stata condivisa da una parte della
dottrina sul rilievo che il ricondurre al tentativo punibile le
ipotesi di mancanza accidentale o temporanea
dell’oggetto presenta il duplice difetto di peccare per
difetto e, inoltre, di risultare di incerta applicazione pratica
(MANTOVANI).
7. La rilevanza penale del falso grossolano,
innocuo e inutile.
Il campo in cui si sono avute le maggiori applicazioni
giurisprudenziali della norma sul reato impossibile è quello
delle falsità; diversamente dal previgente codice del 1889
che collegava la punibilità nei reati di falso in atti pubblici al
possibile verificarsi di un danno potenziale, l’attuale nulla
dice al riguardo.
Ciò ha fatto sorgere in dottrina il problema di distinguere le
ipotesi di falsità veramente meritevoli di punizione dai casi
di falsità c.d. tollerabile, cioè penalmente irrilevanti,
normalmente catalogate ricorrendo alla distinzione tra
falso grossolano, innocuo o inutile. (FIANDACA-MUSCO)
Il falso grossolano si ha allorché la falsità è così
immediatamente riconoscibile da non poter far cadere in
errore alcuna persona (FIANDACA-MUSCO); si tratta,
precisa altra dottrina, “di una contraffazione o alterazione
facilmente avvertibile da chiunque (così che sia
impossibile e non soltanto improbabile l’offesa alla
pubblica fede)” (ANTOLISEI).
Caso tipico è il documento falsificato con una tale
imperizia e cattiva destrezza che nessuno dei destinatari
dell’atto potrebbe mai scambiarlo per vero.
A fronte di una posizione di apertura della dottrina nel
riconoscere l’irrilevanza penale di un falso di tal fatta, fa
riscontro una giurisprudenza molto rigorosa
nell’ammettere l’operatività di tale figura; la Cassazione ha
più volte affermato, sul punto, che la grossolanità “per
escludere la punibilità, deve essere così evidente da far
venire meno la stessa possibilità, e non soltanto la
probabilità, dell’inganno“ (Cass., sez. V, 24 gennaio 1979,
n. 2615; Cass. sez. V, 7 febbraio 1992, 189789).
Alla stessa soluzione è pervenuta affrontando la tematica
del falso nummario laddove ha sostenuto che “il reato
deve ritenersi configurato tutte le volte in cui determinate
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persone, in particolari momenti di fiducia o di superficiale
attenzione determinati dall’ambiente o dalla situazione
contingente, possono essere ingannate dalle monete
falsificate” (Cass., sez. V, 10 maggio 1971, n. 738; Cass.
sez. V, 14 ottobre 1986, 174410).
Parte della dottrina – pur non condividendo un così
rigoroso orientamento – ha comunque mostrato di capire
le ragioni ad esso sottese, accedendo ad una tesi
mediana che richiede per la sanzionabilità del
comportamento “l’idoneità del prodotto falso a trarre in
inganno la generalità media dei cittadini” (MANZINI).
Altro indirizzo – volto a temperare i risultati applicativi
dell’opinione appena esposta – ha aggiunto, con
riferimento ai valori di bollo e ai biglietti delle imprese di
trasporto, che l’idoneità del falso va valutata con maggiore
attenzione, perché si tratta di oggetti destinati al controllo
da parte di personale qualificato (NEPPI MODONA).
Qualora il falso venga scoperto sorge il problema di
valutare se esso sia così grossolano da dover essere
riconoscibile ictu oculi per la generalità delle persone,
ovvero se sia stato portato alla luce solo per effetto di una
particolare diligenza propria di determinati soggetti.
In dottrina e giurisprudenza è pacificamente ammesso che
la valutazione da effettuare – in sede di accertamento
dell’inidoneità dell'azione – va fatta ex ante, sulla scorta
delle circostanze di fatto conosciute al momento in cui
l'azione è stata posta in essere, indipendentemente dai
risultati.
Più semplice, secondo la giurisprudenza, è l’accertamento
nel caso in cui il falso abbia raggiunto l'effetto di
ingannare; la realizzazione dell'evento giuridico
escluderebbe in radice l'impossibilità dell'evento dannoso
o pericoloso di cui all'art. 49 cod. pen. (Cass. Sez. V, 1
febbraio 1992, n. 2629).
Ad ogni modo, per la giurisprudenza di legittimità, la
grossolanità non deve essere confusa con la semplice
facilità di ravvisare il falso da parte di persone
particolarmente attente o competenti, ma va individuata
con riferimento alle possibilità di riconoscimento ad opera
di qualsiasi persona dotata di normale diligenza e capacità
intellettiva (Cass. Sez. VI, 9 aprile 1992, n. 7227).
Sul punto occorre richiamare una recente sentenza della
Corte di cassazione secondo cui “In tema di falso, la
grossolanità della contraffazione, che dà luogo al reato
impossibile, non va giudicata alla stregua delle
conoscenze e delle conclusioni di un esperto del settore.
Invero la punibilità è esclusa solo quando il falso sia "ictu
oculi" riconoscibile da qualsiasi persona di comune
discernimento ed avvedutezza e non si deve far
riferimento né alle particolari cognizioni ed alla
competenza specifica di soggetti qualificati, né alla
straordinaria diligenza di cui alcune persone possono
esser dotate”. (Cass. Sez. V, 9 marzo 1999, 4254).
Si parla di falso innocuo qualora la contraffazione o
alterazione risulti inoffensiva per la sua concreta inidoneità
ad aggredire gli interessi potenzialmente minacciati.
Secondo la più recente dottrina l’innocuità deve desumersi
“da un accertamento concreto in ordine ai possibili effetti
del falso su una data situazione giuridica” (FIANDACA-
MUSCO).
Va precisato che tale tipologia di falso non punibile –
sovente confuso con quello inutile – è quello perpetrato
per scopi ininfluenti per la pubblica fede; esempio classico
è quello della donna che per mera vanità falsifichi un
documento indicando in esso un’età inferiore a quella
reale senza però che tale attività falsificatoria pregiudichi
l’andamento di pubbliche o private attività.
Si può pacificamente affermare che si tratta di un falso
connotato da una pericolosità minore rispetto a quello
inutile e di ciò dovrà tener conto il giudice al fine della
applicazione della misura di sicurezza.
La giurisprudenza si è tuttavia mostrata molto cauta nel
riconoscerne la totale inoffensività di questa figura di falso.
Non sono mancati, per vero, recenti segnali di apertura: la
Suprema Corte, infatti, in tema di falso documentale, ha
statuito la non punibilità, per inidoneità dell'azione, della
falsità che si riveli in concreto inidonea a ledere l'interesse
tutelato dalla genuinità del documento, privo, quindi,
dell’idoneità a conseguire uno scopo antigiuridico.
Nella specie, il Collegio ha ritenuto non punibile, per
inidoneità dell'azione, la falsa attestazione - attuata
mediante l'apposizione della firma di alcuni docenti
universitari, componenti le commissioni esaminatrici, sui
verbali di vari esami - che detti esami si erano svolti
regolarmente con la partecipazione di tre commissari,
essendo stati in realtà gli esami svolti da un solo
professore.
La Suprema Corte, in proposito, ha ritenuto esenti da
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censura le argomentazioni della Corte di merito secondo
cui, né la prova d'esame, né il voto, potevano essere
messi in discussione anche in presenza di un unico
esaminatore o di commissioni formate da due, anziché da
tre docenti, essendo quest'ultima composizione prevista, e
neanche a pena di nullità, solo da norme regolamentari
secondarie. (Cass. Sez. I, 13 novembre 1997, n. 3134).
Quanto al falso inutile, si tratta della la falsità che investe
“un documento irrilevante o ininfluente ai fini della
decisione da emettere in rapporto alla situazione giuridica
che viene in questione” (FIANDACA-MUSCO).
Altro indirizzo di pensiero, con una definizione
maggiormente tecnica, qualifica inutile il falso “dopo la cui
perpetrazione non rimangono alterati i passaggi
decisionali fondati sulla documentazione falsificata”
(CERASE).
A questo punto può operarsi una prima classificazione
metodologica: partendo dalla distinzione tra reato
impossibile per inidoneità dell’azione e reato impossibile
per inesistenza dell’oggetto, può affermarsi che mentre il
falso grossolano integra un’ipotesi di inidoneità dell’azione
nel falso inutile ricorre, invece, un caso di inesistenza
dell’oggetto sempre che la falsificazione cada su un atto, o
su una parte di esso, assolutamente privo di rilevanza
probatoria.
Secondo altra opinione dottrinale, inutile è il falso che
ricade su un atto non richiesto dalle legge o
assolutamente incapace di influire su una decisione
processuale o extraprocessuale in ciò si distinguendosi
dal falso innocuo il cui accertamento richiede una concreta
valutazione della sua efficacia in rapporto alla situazione
da decidere.
Con riguardo a quest’ultima precisazione, giova rilevare
che a livello giurisprudenziale si è ritenuto sussistere il
reato di falsità ideologica in atto pubblico anche quando il
pubblico ufficiale attesti, contrariamente al vero, fatti di cui
la legge non prescrive espressamente la menzione, con la
precisazione che l'attestazione non deve essere superflua
nell'economia dell'atto e deve essere comunque rilevante
ai fini dell'emissione dell'atto finale del procedimento
(Cass. Sez. V, 19 novembre 1992, n. 865).
In conclusione la dottrina è quasi unanimemente orientata
nell’escludere la rilevanza penale delle appena elencate
fattispecie di falsità sia pure con i limiti esaminati.
Per concludere, va rilevato che l’art. 49 cpv. cod. pen.,
invocabile in relazione ai reati di falso documentale solo
entro i limiti suesposti, non trova applicazione alcuna nelle
falsità personali; in giurisprudenza è stato più volte rilevato
che il bene giuridico della certezza dell’identità delle
persone è tale che non vi può essere alcuno scarto tra la
tipicità della condotta e la sua portata ingannatoria
(CERASE).
8. La predisposizione della forza pubblica e
l’agente provocatore.
Altra questione dibattuta è l’operatività della disciplina del
reato impossibile nel caso di reato commesso dall’agente
provocatore o in presenza di un servizio di polizia.
Sul rilievo per cui a seguito dei contatti tra l’agente
provocatore e le forze dell’ordine tutto il contesto in cui
matura la condotta delittuosa è controllato, si è sostenuto
che il reo non ha alcuna concreta possibilità di portare a
termine il suo progetto e che il reato dunque è da
qualificare come impossibile.
A livello giurisprudenziale, invece, predomina
l’orientamento secondo cui la preventiva predisposizione
della forza pubblica ed il suo intervento non sono in grado
di determinare l’inidoneità dell’azione.
La predisposizione della polizia, cioè, non avrebbe alcun
rilievo sulle intrinseche capacità offensive dell’azione e,
conseguentemente, l’autore del reato dovrà rispondere
quantomeno ex art. 56 cod. pen.
L’argomentazione forte da cui muove questo indirizzo
giurisprudenziale è che la fattispecie del reato impossibile
– nella specie per inidoneità dell'azione – è configurabile
soltanto quando la condotta dell'agente, per la sua
intrinseca natura ed in sé considerata, è inidonea a
cagionare l'evento dal quale dipende l'esistenza del reato,
non anche quando, nell'iter criminis, intervengano fattori
esterni che incidono sulla realizzazione del risultato voluto.
Ne deriva, pertanto, che “l'attività dell'agente provocatore,
al pari della predisposizione della forza pubblica,
costituendo una causa esterna, estrinseca ed
indipendente dalla condotta del reo, non elide l'originaria
capacità degli atti compiuti, i quali - valutati ex ante ed in
concreto - possono portare a configurare la sussistenza
della fattispecie tentata o consumata, prevista dalla norma
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incriminatrice”. (Cass. Sez. I, 27 maggio 1986, n. 14251).
Quanto esposto deve essere raccordato con una
precedente pronuncia secondo cui “nel reato impossibile
l'azione è inidonea, quando è assolutamente inadeguata
ed inefficiente ai fini della realizzazione del proposito
criminoso; se invece sussiste la possibilità, anche solo
eccezionale, che l'evento si verifichi, non può trovare
applicazione l'art. 49 cod. pen.. Alla inidoneità del mezzo
non può essere equiparata la insufficienza di esso, la
quale, denotando difetto di forza sufficiente a conseguire
lo scopo nel caso concreto, impedisce la piena
consumazione del reato, ma non il tentativo dello stesso”.
(Cass. Sez. II, 28 settembre 1981, n. 964).
A conferma che il discrimen tra reato impossibile e tentato
discenda dalla assoluta o solo relativa inefficienza causale
dell’azione posta in essere (valutata ex ante e a parte
subjecti) soccorre un’altra pronuncia della Suprema Corte
secondo cui “in tema di reato impossibile deve ritenersi
azione inidonea ai sensi dell'art. 49 cod. pen. soltanto
quella che inerisce alla condotta del reo e non quella
determinata da una causa esterna, come l'attività di un
agente di polizia, in funzione di agente provocatore, che
potrebbe addirittura assumere la qualifica di concorrente
ove non fosse scriminato ai sensi dell'art. 51 cod. pen..
L'inidoneità dell'azione, inoltre, va valutata oggettivamente
con giudizio ex ante, nel suo valore assoluto e non di
relazione con la collaterale azione del provocatore, e va
quindi intesa come inefficacia ontologica e strutturale del
mezzo intrapreso, indipendentemente dalle concause
estrinseche che l’accompagnano” (Cass. Sez. VI, 22
dicembre 1989, n. 17758).
Anche la giurisprudenza di merito, solitamente più proclive
alle sollecitazioni della dottrina in tema di concezione
realistica del reato, è apparsa uniformarsi ai dicta appena
esposti.
Va segnalata, al riguardo, una sentenza che ha chiarito la
portata applicativa della norma sul reato impossibile in
presenza di una pluralità di condotte atte a scongiurare la
verificazione della fattispecie di reato. L'esclusione della
punibilità, sancita nel primo capoverso dell'art. 49 cod.
pen., per l'ipotesi della presenza del cosiddetto agente
provocatore, a detta del Collegio, deve necessariamente
supporre la derivazione assoluta ed esclusiva dell'azione
delittuosa dallo stimolo istigatore dello stesso soggetto. Di
conseguenza non può ritenersi ammissibile quando si
tratta di determinazione proveniente anche da attività di
soggetti diversi dall'agente provocatore (Cass. Sez. I, 31
maggio 1996, n. 9370).
Il reato, quindi, non può essere considerato a priori
impossibile in ragione della mancata conoscenza – da
parte dell’agente diverso dal provocatore – della
predisposizione della forza pubblica; la condotta, pertanto,
dovrà essere valutata per la sua intrinseca capacità
offensiva.
Parimenti rigorosa è la posizione di quella parte della
dottrina che attribuisce un rilievo determinante
all’intervento preordinato della polizia e dell’agente
provocatore solo allorquando, sulla base di una
valutazione ex post e a base universale, venga assicurata
la concreta assenza di lesione o messa in pericolo per
bene protetto.
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