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L’OSSERVATORE ROMANO novembre 2015 numero 40 Sua madre confrontava tutte queste cose nel suo cuore donne chiesa mondo Il lungo cammino delle donne africane In Africa la bipolarità maschio-femmina si vive in un rapporto di tensione dialettica tuttora irrisolta: nella concezione africana, a parte qualche eccezione incoraggiante, la donna sembra, per alcuni versi, contare poco. Metaforicamente viene vista come “una goccia d’acqua della pioggia” che non sa dove va a cadere. Per le africane le tre parole che Benedetto XVI aveva usato per pensare al futuro del continente nell’esortazione apostolica Africae munus — cioè giustizia, riconciliazione e pace — non sono ancora una realtà. Troppe sono le tradizioni familiari che non ammettono la parità fra donne e uomini, troppe le situazioni conflittuali nelle quali le donne sono le vittime predestinate della violenza. Soprattutto là dove lo stupro viene usato come vera e propria arma di guerra. Ma proprio in un panorama così desolante emerge la forza delle donne africane, capaci — anche con poche forze e pochissimi mezzi — di combattere per difendere i deboli. Questo perché la donna africana rappresenta un modello di coraggio, intelligenza, sopportazione e responsabilità: benché socialmente relegate al terzo posto, dopo gli uomini e i bambini, le donne africane sono sempre le prime al lavoro e le ultime al riposo. Esse traggono dalla fede la forza per affrontare tragedie spaventose, per farsi mediatrici di pace, per opporsi all’ingiustizia e allo sfruttamento, per assumere ruoli importanti nella Chiesa. Ma sono anche capaci di parlare con ironia e saggezza africane, perché fortemente radicate in una cultura che, volente o nolente, deve riconoscere la loro forza, indispensabile alla sopravvivenza e al progresso delle società del continente. Le donne africane possono andare avanti prendendo il meglio delle due culture nelle quali vivono: quella tradizionale che, se pure per vari versi le mortifica, riconosce loro valore sociale e religioso, e quella cristiana, che difende la loro parità e il loro diritto a essere riconosciute con dignità. Occorre, quindi, rimuovere dalla mentalità delle ragazze il complesso di inferiorità che le blocca psicologicamente, e nel contempo istruirle e abituarle a contare più sul loro cervello perché il Vangelo di libertà e la conformità con Cristo annullano ogni discriminazione tra gli esseri umani (cfr. Galati 3, 28). Ciò che gli uomini hanno codificato nel passato oggi potrebbe cambiare, perché i tempi lo esigono, e aprire così la possibilità per una testimonianza forte nel mondo. Dopo queste considerazioni, possiamo suggerire e auspicare che la donna africana assuma pienamente la sua condizione naturale senza cercare di atteggiarsi da uomo, e anche l’uomo, nel contempo, deve fare la stessa cosa: proprio perché essere maschio o femmina sta nell’essenza stessa dell’essere umano, abbandonare la propria natura di donna è alla morte, alla morte dell’umano. Bisogna inoltre promuovere in Africa quella cultura del rispetto e della reciprocità che si dà unicamente laddove due esseri esistono pienamente, cioè dove si dà l’alterità. Ci si deve impegnare quindi per difendere e promuovere i diritti e la dignità della donna africana. (rita mboshu kongo) La sentinella di Bukavu Clotilde Bikafuluka e la sua fondazione che accoglie e cura le donne stuprate Subito dopo la professione temporanea mi sono ammalata Per questo non mi è stato permesso di prendere i voti perpetui donne chiesa mondo Clotilde Bikafuluka (nelle due fotografie sopra) insieme alle donne e ai bambini che accoglie di SANDRA ISETTA Al tempo in cui Gesù operava il miracolo sull’emorroissa, la condizione femminile non era molto differente da quella attuale nella Repubblica Democratica del Congo, dove a una religiosa affetta da gravi emor- ragie non è consentito prendere i voti per- petui: «Una donna malata è considerata un fardello inutile, una croce. Per accedere al monastero la vocazione passa in secon- do piano, contano solo la salute e la forza fisica, la forza lavoro che una monaca de- ve avere per allevare il bestiame e per le altre mansioni di fatica». Chi racconta è Clotilde Bikafuluka, laica consacrata, nata nel piccolo villaggio di Bunyakiri, un an- golo del sud est del Congo, dove ha tro- vato il grande universo di Dio. Di lei mi aveva parlato Denis Mukwe- ge, noto come il medico che “ripara” le donne vittime di stupro collettivo, una delle orribili piaghe che dal 1996 affligge il Paese africano. Mukwege allora mi disse che grazie all’aiuto di donne come Clotil- de ha potuto condurre la sua lotta contro le violences sexuelles et basées sur le genre fi- no a creare la Cité de la Joie de la Fonda- tion Panzi a Bukavu, l’ospedale in cui ha operato quarantamila donne devastate dal- le violenze per poi accoglierle nell’annesso centro di assistenza e di riabilitazione. Queste donne, molte delle quali sono reli- giose, mettono a repentaglio la loro vita, prelevando le vittime di nascosto e rice- vendo minacce per l’aiuto che danno. Sfi- dando il rischio di esporsi pubblicamente, Clotilde ha accettato di partecipare al se- minario internazionale organizzato da «donne chiesa mondo», svoltosi in Vatica- no a fine maggio 2015. Clotilde era inti- morita di aller au Vatican, lei da sempre vissuta nei villaggi congolesi ma il suo de- siderio di rencontrer le Pape era fortissimo, emorragia uterina. Intanto, nell’ottobre del 1996 era iniziata la guerra — detta «di liberazione», in realtà di invasione del Congo da parte del Rwanda — e in questo periodo è avvenuto l’incontro con padre Simone Vavassori, missionario saveriano che ha segnato profondamente la mia vita. Si è fatto carico della mia salute ed è stato lui a farmi conoscere Denis Mukwege all’ospedale locale dove mi aveva condotta per farmi curare. Tutti i giorni padre Si- mone mi dava un dollaro per comprare le medicine prescritte da Mukwege. Sono stata ammalata per sei anni e per questo motivo le suore non mi hanno permesso di prendere i voti perpetui. Secondo loro, la mia invalidità non mi rendeva degna di diventare monaca perché non potevo svol- gere lavori di fatica. La legge della soprav- vivenza in Africa è molto crudele, talora si accanisce ingiustamente, anche contro una vocazione di fede come è successo a me. Dio ha posto sul mio cammino padre Si- mone, grazie a lui sono guarita e la mia vocazione si è infine realizzata. Che ruolo ha avuto padre Simone nella tua scelta di consacrare la vita alle vittime di stupro? È la fede a farmi dire che è stato padre Simone a guarirmi. Non posso non vedere i segni evangelici che si sono mostrati nel corso della mia malattia e poi della mia guarigione. Padre Simone aveva fatto ve- nire dall’Italia tre medici, tre francescani, padre Emilio e altri due per operare le donne. Mi hanno operata il giorno in cui padre Simone è morto: il giorno dopo ero guarita. Cinquanta giorni dopo la sua morte, padre Simone in sogno mi ha do- mandato di continuare il suo lavoro a Bu- nyakiri in aiuto delle vittime di stupro e mi ha dettato tutto quello che lui aveva fatto, di buono e di cattivo, chiedendomi di portare lo scritto alla casa provinciale di Bunyakiri. Ho scritto dalle due alle cin- que del mattino: quella notte padre Simo- ne mi ha eletta sua erede spirituale. D’al- tronde mi trovavo insieme a lui quando ho vissuto quella tragica esperienza che ha determinato il mio arruolamento per la causa delle donne vittime di violenze. Un venerdì in cui padre Simone e io, come di consueto, andavamo a Bunyakiri per pre- parare la messa della domenica percorren- do il parco nazionale di Kahuzi-bwega ci trovammo davanti una scena terribile: cor- pi senza vita che giacevano per terra, teste decapitate appese agli alberi, donne con gli organi intimi mutilati. Poi, arrivati alla parrocchia di Bunyakiri, un’anziana ottan- tacinquenne ci venne incontro avvolta da una nuvola di mosche. Provai repulsione e avrei voluto scappare, ma la donna mi dis- se: «Figlia mia, vieni a vedere che cosa mi hanno fatto». Mi feci forza, la feci spo- gliare e vidi l’orrore. Era massacrata, le mosche addensate su masse di sangue pu- rulento che continuava a fuoriuscire. Un numero indefinito di carnefici si era acca- nito su quel corpo, morì dopo due giorni. Quel giorno si è aperta una ferita profon- da, non solo in me ma in tutte le donne, insieme dobbiamo urlare rabbia e dolore. Le persone che vedono ciò che continuo a fare senza posa mi chiedono se anch’io so- no stata violentata; la mia risposta è diret- ta e semplice: il dolore fisico è meno cru- dele di quello morale. Ciò che ho visto e che continuo a vivere accanto a queste donne per me è più di una violenza ses- suale. Chi di noi resisterebbe a un’espe- rienza del genere? La pratica delle violen- ze sessuali va oltre la nostra comprensio- ne, poiché da alcuni viene utilizzata come arma da guerra, da altri come un commer- cio. Quello che ho visto è lo stupro che anch’io ho subito: quarantaquattro bambi- ne alle quali è stato strappato l’utero, cor- de con cui sono state strozzate le donne vendute come cimeli. E poi hai fondato la Fsv, Fondation Simone Vavassori... Per onorare la memoria di padre Simo- ne ho deciso di consacrare la mia vita al servizio dei sopravvissuti alle violenze ses- suali e delle persone indifese. Ora sono una consacrata della Fraternità di suore di santa Dorotea di Cemmo. L’arcivescovo Munzihrwa, assassinato nel 1996 dalle truppe dell’Alliance des Forces démocrati- conseguenza più devastante dello stupro di massa è la demolizione della famiglia, perché la donna stuprata è vissuta dai fa- miliari come un oltraggio e respinta. Tut- tavia siamo riusciti a riconciliare quasi set- tecento nuclei familiari. Altre donne ripu- diate dai mariti, circa centocinquanta, so- no ospitate nelle strutture della fondazio- ne e centoventicinque ragazze madri sono state educate tramite l’alfabetizzazione e la formazione ad attività che producono reddito. Della nostra “famiglia” fanno par- te anche gli orfani di guerra, più di quat- trocento, di cui quasi la metà sono figli di donne stuprate, il più piccolo ha sei mesi. Questi orfani sono affidati alle cure di an- ziani perché avvertano il calore umano, al- tri sono seguiti dal centro Sos, altri ancora nelle case di accoglienza a Bukavu e Go- ma. Li assistiamo e cerchiamo di dare loro una formazione scolastica. Sviluppiamo anche una rete di assistenza multisettoriale (assistenza olistica) per le vittime: medica, psicosociale, giuridica, socioeconomica e/o scolastica. Il reinserimento socioeconomi- co è il bisogno più grande. Alcune donne, rifiutate dai mariti, non fanno altro che gi- rovagare in mancanza di un’occupazione, altre cadono nella prostituzione, altre an- cora praticano le unioni libere per soppe- rire ai bisogni primari. E così si assiste a casi di gravidanze indesiderate, aborti e diffusione di infezioni sessualmente tra- smissibili e Hiv. Siamo partiti dal nulla. La Fao, ad esempio, ci ha donato semi e macchine macinatrici del manioc per rica- vare la farina. Abbiamo ricevuto vecchie macchine Singer e insegniamo alle donne a cucire. Altre attività in cui indirizziamo le vittime per il reinserimento sono quelle di parrucchiere, lavoro a maglia, arte culi- naria, allevamento e agricoltura, campi scuola di agricoltura. La tua fede ti costringe a essere concreta ed esigente: è importante far sentire la tua voce. Il mondo è governato da leadership economiche, che sono quelle che scatena- no le guerre, che vendono armi in cambio delle nostre materie prime: il coltan e la cassiterite per fabbricare computer e cellu- lari sono macchiati del nostro sangue. La leadership morale spetta alla Chiesa, che deve impegnarsi, denunciando tutti i casi di violenze alla giustizia. Il compito della Chiesa è quello della pressione morale sui governi coinvolti nel conflitto, affinché cessi questo imbarbarimento dell’uomo. A questo punto Clotilde mi mostra un progetto che mi lascia interdetta per la precisione e la perizia della stesura. Anno per anno e mese per mese, voce per voce, voleva raccontargli la sofferenza della sua gente e della sua terra. Subito dopo il convegno incontro que- sta giovane donna dal passo deciso, armo- nioso come il sorriso; solo lo sguardo a tratti corre lontano e tradisce il pianto an- tico di generazioni di donne. Indossa un abito colorato che ha confezionato da so- la, espressamente per il colloque; i soldi per comprare la stoffa se li è procurati donan- do il sangue. Colpisce la spontaneità con cui parla di sé, senza quelle reticenze a cui noi siamo abituate. Procediamo con ordi- ne, le dico: vuoi raccontarci la tua storia? «Sono nata il 18 agosto 1972 a Bunyaki- ri. Siamo nove fratelli, cinque ragazze e quattro maschi. Mio padre era direttore della scuola cattolica: è stato lui a costrui- re la cappella dei cristiani su una parte del proprio terreno. È morto quando avevo quattro anni, così mia madre ha cresciuto tutti i nove figli da sola. Ci ha fatto stu- diare tutti, e i miei fratelli sono tutti spo- sati. Da lei ho appreso la legge dell’amo- re. Il suo esempio mi ha fatto comprende- re che nella donna la famiglia trova quella forza straordinaria per sopportare e supe- rare gli ostacoli. Qual è stata la reazione di tua madre quando le hai parlato della tua vocazione? «È una grande gioia per me — mi ha risposto mia madre — avere una fi- glia che si mette al servi- zio del Signore». Ho fre- quentato la scuola prima- ria di Bunyakiri, ma dopo la morte di papà ho la- sciato gli studi. Sono quindi entrata nel conven- to delle Figlie della Re- surrezione nel 1987, dove ho fatto la professione di fede temporanea, fino al 1995. Mi occupavo dell’al- levamento del bestiame e facevo una scuola di me- ditazione. Subito dopo la professione temporanea mi sono ammalata di ques pour la Libération du Congo, diceva che so- no una sentinella, qui a Bukavu. Mi rendo conto che anche la nostra fonda- zione, di cui sono la coor- dinatrice, è una goccia nel mare, poiché la violenza continua a dilagare nella parte orientale del Congo. La Fsv è ora operativa in tre province dell’est del Paese, cioè il Sud Kivu, il Nord Kivu e il Maniema. Non ci risparmiamo: i da- ti nazionali di casi di stu- pri negli ultimi cinque an- ni riferiscono che è stata fornita assistenza a quasi centomila donne soprav- vissute alla violenza, e noi della Fsv ne abbiamo assi- stito più di seimila. La Materie prime come il coltan e la cassiterite per fabbricare pc e cellulari sono macchiati del nostro sangue sono registrati gli acquisti e le spese effet- tuati per la fondazione, i risultati raggiun- ti e quelli in sospeso. Il bilancio annuale è incredibile: Clotilde riesce a far funzionare il suo centro con cifre per noi irrisorie. È evidente però che ora le uscite hanno su- perato le entrate, che i lavori delle piccole abitazioni sono abbandonati e che diventa sempre più difficile provvedere al fabbiso- gno.

donne chiesa mondo tutte queste cose nel suo cuore · Ma sono anche capaci di parlare con ironia e saggezza africane, perché fortemente radicate in una ... propria natura di donna

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L’OSSERVATORE ROMANO novembre 2015 numero 40

Sua madre confrontavatutte queste cose nel suo cuoredonne chiesa mondo

Il lungo cammino delle donne africane

In Africa la bipolarità maschio-femmina si vive in un rapporto di tensione dialettica tuttora irrisolta:nella concezione africana, a parte qualche eccezione incoraggiante, la donna sembra, per alcuniversi, contare poco. Metaforicamente viene vista come “una goccia d’acqua della pioggia” chenon sa dove va a cadere. Per le africane le tre parole che Benedetto XVI aveva usato perpensare al futuro del continente nell’esortazione apostolica Africae munus — cioè giustizia,riconciliazione e pace — non sono ancora una realtà. Troppe sono le tradizioni familiari che nonammettono la parità fra donne e uomini, troppe le situazioni conflittuali nelle quali le donnesono le vittime predestinate della violenza. Soprattutto là dove lo stupro viene usato comevera e propria arma di guerra. Ma proprio in un panorama così desolante emerge la forzadelle donne africane, capaci — anche con poche forze e pochissimi mezzi — di combattereper difendere i deboli. Questo perché la donna africana rappresenta un modello di coraggio,intelligenza, sopportazione e responsabilità: benché socialmente relegate al terzo posto, dopogli uomini e i bambini, le donne africane sono sempre le prime al lavoro e le ultime al riposo.Esse traggono dalla fede la forza per affrontare tragedie spaventose, per farsi mediatrici dipace, per opporsi all’ingiustizia e allo sfruttamento, per assumere ruoli importanti nella Chiesa.Ma sono anche capaci di parlare con ironia e saggezza africane, perché fortemente radicate in unacultura che, volente o nolente, deve riconoscere la loro forza, indispensabile alla sopravvivenzae al progresso delle società del continente. Le donne africane possono andare avantiprendendo il meglio delle due culture nelle quali vivono: quella tradizionale che, se pureper vari versi le mortifica, riconosce loro valore sociale e religioso, e quella cristiana,che difende la loro parità e il loro diritto a essere riconosciute con dignità. Occorre,quindi, rimuovere dalla mentalità delle ragazze il complesso di inferiorità che leblocca psicologicamente, e nel contempo istruirle e abituarle a contare più sul lorocervello perché il Vangelo di libertà e la conformità con Cristo annullano ognidiscriminazione tra gli esseri umani (cfr. Galati 3, 28). Ciò che gli uomini hannocodificato nel passato oggi potrebbe cambiare, perché i tempi lo esigono, e a p r i recosì la possibilità per una testimonianza forte nel mondo. Dopo questeconsiderazioni, possiamo suggerire e auspicare che la donna africana assumapienamente la sua condizione naturale senza cercare di atteggiarsi da uomo, eanche l’uomo, nel contempo, deve fare la stessa cosa: proprio perché esseremaschio o femmina sta nell’essenza stessa dell’essere umano, abbandonare lapropria natura di donna è alla morte, alla morte dell’umano. Bisogna inoltrepromuovere in Africa quella cultura del rispetto e della reciprocità che si dàunicamente laddove due esseri esistono pienamente, cioè dove si dà l’alterità. Cisi deve impegnare quindi per difendere e promuovere i diritti e la dignità delladonna africana. (rita mboshu kongo)

La sentinella di BukavuClotilde Bikafuluka e la sua fondazione che accoglie e cura le donne stuprate

Subito dopo la professione temporaneami sono ammalataPer questo non mi è stato permessodi prendere i voti perpetui

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Clotilde Bikafuluka (nelle due fotografie sopra) insieme alle donne e ai bambini che accoglie

di SANDRA IS E T TA

Al tempo in cui Gesù operava il miracolosull’emorroissa, la condizione femminilenon era molto differente da quella attualenella Repubblica Democratica del Congo,dove a una religiosa affetta da gravi emor-ragie non è consentito prendere i voti per-petui: «Una donna malata è considerataun fardello inutile, una croce. Per accedereal monastero la vocazione passa in secon-do piano, contano solo la salute e la forzafisica, la forza lavoro che una monaca de-ve avere per allevare il bestiame e per lealtre mansioni di fatica». Chi racconta èClotilde Bikafuluka, laica consacrata, natanel piccolo villaggio di Bunyakiri, un an-golo del sud est del Congo, dove ha tro-vato il grande universo di Dio.

Di lei mi aveva parlato Denis Mukwe-ge, noto come il medico che “ripara” ledonne vittime di stupro collettivo, unadelle orribili piaghe che dal 1996 affliggeil Paese africano. Mukwege allora mi disseche grazie all’aiuto di donne come Clotil-de ha potuto condurre la sua lotta controle violences sexuelles et basées sur le genre fi-no a creare la Cité de la Joie de la Fonda-tion Panzi a Bukavu, l’ospedale in cui haoperato quarantamila donne devastate dal-le violenze per poi accoglierle nell’annessocentro di assistenza e di riabilitazione.Queste donne, molte delle quali sono reli-giose, mettono a repentaglio la loro vita,prelevando le vittime di nascosto e rice-vendo minacce per l’aiuto che danno. Sfi-dando il rischio di esporsi pubblicamente,Clotilde ha accettato di partecipare al se-minario internazionale organizzato da«donne chiesa mondo», svoltosi in Vatica-no a fine maggio 2015. Clotilde era inti-morita di aller au Vatican, lei da semprevissuta nei villaggi congolesi ma il suo de-siderio di rencontrer le Pape era fortissimo,

emorragia uterina. Intanto, nell’o t t o b redel 1996 era iniziata la guerra — detta «diliberazione», in realtà di invasione delCongo da parte del Rwanda — e in questoperiodo è avvenuto l’incontro con padreSimone Vavassori, missionario saverianoche ha segnato profondamente la mia vita.Si è fatto carico della mia salute ed è statolui a farmi conoscere Denis Mukwegeall’ospedale locale dove mi aveva condottaper farmi curare. Tutti i giorni padre Si-mone mi dava un dollaro per comprare lemedicine prescritte da Mukwege. Sonostata ammalata per sei anni e per questomotivo le suore non mi hanno permessodi prendere i voti perpetui. Secondo loro,la mia invalidità non mi rendeva degna didiventare monaca perché non potevo svol-gere lavori di fatica. La legge della soprav-vivenza in Africa è molto crudele, talora siaccanisce ingiustamente, anche contro unavocazione di fede come è successo a me.Dio ha posto sul mio cammino padre Si-mone, grazie a lui sono guarita e la miavocazione si è infine realizzata.

Che ruolo ha avuto padre Simone nella tuascelta di consacrare la vita alle vittime dis t u p ro ?

È la fede a farmi dire che è stato padreSimone a guarirmi. Non posso non vederei segni evangelici che si sono mostrati nelcorso della mia malattia e poi della miaguarigione. Padre Simone aveva fatto ve-nire dall’Italia tre medici, tre francescani,padre Emilio e altri due per operare ledonne. Mi hanno operata il giorno in cuipadre Simone è morto: il giorno dopo eroguarita. Cinquanta giorni dopo la suamorte, padre Simone in sogno mi ha do-mandato di continuare il suo lavoro a Bu-nyakiri in aiuto delle vittime di stupro emi ha dettato tutto quello che lui avevafatto, di buono e di cattivo, chiedendomidi portare lo scritto alla casa provincialedi Bunyakiri. Ho scritto dalle due alle cin-que del mattino: quella notte padre Simo-ne mi ha eletta sua erede spirituale. D’al-tronde mi trovavo insieme a lui quandoho vissuto quella tragica esperienza che hadeterminato il mio arruolamento per la

causa delle donne vittime di violenze. Unvenerdì in cui padre Simone e io, come diconsueto, andavamo a Bunyakiri per pre-parare la messa della domenica percorren-do il parco nazionale di Kahuzi-bwega citrovammo davanti una scena terribile: cor-pi senza vita che giacevano per terra, testedecapitate appese agli alberi, donne congli organi intimi mutilati. Poi, arrivati allaparrocchia di Bunyakiri, un’anziana ottan-tacinquenne ci venne incontro avvolta dauna nuvola di mosche. Provai repulsione eavrei voluto scappare, ma la donna mi dis-se: «Figlia mia, vieni a vedere che cosa mihanno fatto». Mi feci forza, la feci spo-gliare e vidi l’orrore. Era massacrata, lemosche addensate su masse di sangue pu-rulento che continuava a fuoriuscire. Unnumero indefinito di carnefici si era acca-nito su quel corpo, morì dopo due giorni.Quel giorno si è aperta una ferita profon-da, non solo in me ma in tutte le donne,insieme dobbiamo urlare rabbia e dolore.Le persone che vedono ciò che continuo afare senza posa mi chiedono se anch’io so-no stata violentata; la mia risposta è diret-ta e semplice: il dolore fisico è meno cru-dele di quello morale. Ciò che ho visto eche continuo a vivere accanto a questedonne per me è più di una violenza ses-suale. Chi di noi resisterebbe a un’esp e-rienza del genere? La pratica delle violen-ze sessuali va oltre la nostra comprensio-ne, poiché da alcuni viene utilizzata comearma da guerra, da altri come un commer-cio. Quello che ho visto è lo stupro cheanch’io ho subito: quarantaquattro bambi-ne alle quali è stato strappato l’utero, cor-de con cui sono state strozzate le donnevendute come cimeli.

E poi hai fondato la Fsv, Fondation SimoneVa v a s s o r i . . .

Per onorare la memoria di padre Simo-ne ho deciso di consacrare la mia vita alservizio dei sopravvissuti alle violenze ses-suali e delle persone indifese. Ora sonouna consacrata della Fraternità di suore disanta Dorotea di Cemmo. L’a rc i v e s c o v oMunzihrwa, assassinato nel 1996 dalletruppe dell’Alliance des Forces démocrati-

conseguenza più devastante dello stuprodi massa è la demolizione della famiglia,perché la donna stuprata è vissuta dai fa-miliari come un oltraggio e respinta. Tut-tavia siamo riusciti a riconciliare quasi set-tecento nuclei familiari. Altre donne ripu-diate dai mariti, circa centocinquanta, so-no ospitate nelle strutture della fondazio-ne e centoventicinque ragazze madri sonostate educate tramite l’alfabetizzazione ela formazione ad attività che produconoreddito. Della nostra “famiglia” fanno par-te anche gli orfani di guerra, più di quat-trocento, di cui quasi la metà sono figli didonne stuprate, il più piccolo ha sei mesi.Questi orfani sono affidati alle cure di an-ziani perché avvertano il calore umano, al-tri sono seguiti dal centro Sos, altri ancoranelle case di accoglienza a Bukavu e Go-ma. Li assistiamo e cerchiamo di dare lorouna formazione scolastica. Sviluppiamoanche una rete di assistenza multisettoriale(assistenza olistica) per le vittime: medica,psicosociale, giuridica, socioeconomica e/oscolastica. Il reinserimento socioeconomi-co è il bisogno più grande. Alcune donne,

rifiutate dai mariti, non fanno altro che gi-rovagare in mancanza di un’o ccupazione,altre cadono nella prostituzione, altre an-cora praticano le unioni libere per soppe-rire ai bisogni primari. E così si assiste acasi di gravidanze indesiderate, aborti ediffusione di infezioni sessualmente tra-smissibili e Hiv. Siamo partiti dal nulla.La Fao, ad esempio, ci ha donato semi emacchine macinatrici del manioc per rica-vare la farina. Abbiamo ricevuto vecchiemacchine Singer e insegniamo alle donnea cucire. Altre attività in cui indirizziamole vittime per il reinserimento sono quelledi parrucchiere, lavoro a maglia, arte culi-naria, allevamento e agricoltura, campiscuola di agricoltura.

La tua fede ti costringe a essere concreta edesigente: è importante far sentire la tua voce.

Il mondo è governato da leadershipeconomiche, che sono quelle che scatena-no le guerre, che vendono armi in cambiodelle nostre materie prime: il coltan e lacassiterite per fabbricare computer e cellu-lari sono macchiati del nostro sangue. Laleadership morale spetta alla Chiesa, chedeve impegnarsi, denunciando tutti i casidi violenze alla giustizia. Il compito dellaChiesa è quello della pressione morale suigoverni coinvolti nel conflitto, affinchécessi questo imbarbarimento dell’uomo.

A questo punto Clotilde mi mostra unprogetto che mi lascia interdetta per laprecisione e la perizia della stesura. Annoper anno e mese per mese, voce per voce,

voleva raccontargli la sofferenza della suagente e della sua terra.

Subito dopo il convegno incontro que-sta giovane donna dal passo deciso, armo-nioso come il sorriso; solo lo sguardo atratti corre lontano e tradisce il pianto an-tico di generazioni di donne. Indossa unabito colorato che ha confezionato da so-la, espressamente per il colloque; i soldi percomprare la stoffa se li è procurati donan-do il sangue. Colpisce la spontaneità concui parla di sé, senza quelle reticenze a cuinoi siamo abituate. Procediamo con ordi-ne, le dico: vuoi raccontarci la tua storia?

«Sono nata il 18 agosto 1972 a Bunyaki-ri. Siamo nove fratelli, cinque ragazze equattro maschi. Mio padre era direttoredella scuola cattolica: è stato lui a costrui-re la cappella dei cristiani su una parte delproprio terreno. È morto quando avevoquattro anni, così mia madre ha cresciutotutti i nove figli da sola. Ci ha fatto stu-diare tutti, e i miei fratelli sono tutti spo-sati. Da lei ho appreso la legge dell’amo-re. Il suo esempio mi ha fatto comprende-re che nella donna la famiglia trova quellaforza straordinaria per sopportare e supe-rare gli ostacoli.

Qual è stata la reazione ditua madre quando le haiparlato della tua vocazione?

«È una grande gioiaper me — mi ha rispostomia madre — avere una fi-glia che si mette al servi-zio del Signore». Ho fre-quentato la scuola prima-ria di Bunyakiri, ma dopola morte di papà ho la-sciato gli studi. Sonoquindi entrata nel conven-to delle Figlie della Re-surrezione nel 1987, doveho fatto la professione difede temporanea, fino al1995. Mi occupavo dell’al-levamento del bestiame efacevo una scuola di me-ditazione. Subito dopo laprofessione temporaneami sono ammalata di

ques pour la Libérationdu Congo, diceva che so-no una sentinella, qui aBukavu. Mi rendo contoche anche la nostra fonda-zione, di cui sono la coor-dinatrice, è una goccia nelmare, poiché la violenzacontinua a dilagare nellaparte orientale del Congo.La Fsv è ora operativa intre province dell’est delPaese, cioè il Sud Kivu, ilNord Kivu e il Maniema.Non ci risparmiamo: i da-ti nazionali di casi di stu-pri negli ultimi cinque an-ni riferiscono che è statafornita assistenza a quasicentomila donne soprav-vissute alla violenza, e noidella Fsv ne abbiamo assi-stito più di seimila. La

Materie primecome il coltan e la cassiteriteper fabbricare pc e cellularisono macchiatidel nostro sangue

sono registrati gli acquisti e le spese effet-tuati per la fondazione, i risultati raggiun-ti e quelli in sospeso. Il bilancio annuale èincredibile: Clotilde riesce a far funzionareil suo centro con cifre per noi irrisorie. Èevidente però che ora le uscite hanno su-perato le entrate, che i lavori delle piccoleabitazioni sono abbandonati e che diventasempre più difficile provvedere al fabbiso-gno.

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Mensile dell’Osservatore Romanonovembre 2015 numero 40

A cura di LU C E T TA SCARAFFIA (coordinatrice) e GIULIA GALEOTTIRedazione: RI TA N N A ARMENI, CAT H E R I N E AUBIN, RI TA MBOSHU KO N G O, SI LV I N A PÉREZ

(www.osservatoreromano.va, per abbonamenti: [email protected])

Una strada da illuminareLa crisi esistenziale e spirituale delle religiose africane

di ELENA BUIA RUTT

Dal marzo 2012, il segretario ge-nerale della Conferenza episco-pale del Sud Africa è suor Her-menegild Makoro: rarissimo ca-so di una donna eletta da un

collegio maschile e di questo al comando.Energica e determinata, Hermenegild riper-corre la propria storia privata e pubblica, sot-tolineando immediatamente come, fin dall’in-fanzia, sia stata abituata a essere “in mino-ranza”, poiché cresciuta in una famiglia pre-valentemente maschile.

Nata il 7 dicembre 1951 a Koeqana, localitàrurale nel distretto di Mount Fletcher, nellaprovincia del Capo Orientale, Hermenegild èla seconda di quattro figli, unica femminacon tre fratelli maschi e, come se non bastas-se, «anche i miei cugini erano maschi: erodunque circondata da ragazzi», aggiunge iro-nica. Eppure, durante la sua crescita non hasubito alcuna disparità di trattamento, perché«siamo stati tutti allevati in un’atmosfera dilibertà, in cui ognuno di noi è sempre statoincoraggiato a essere se stesso».

Una famiglia molto religiosa, quella diHermenegild, in cui «c’era fiducia, nel sensoche i nostri genitori si fidavano di noi». Il re-galo più grande e più difficile che un genito-re possa fare al proprio figlio è quello discommettere su di lui, accettandolo cosìcom’è, amando la sua unicità, sostenendo efacendo fiorire la sua diversità: «L’atteggia-mento dei miei genitori ha instillato in mequesto stesso spirito perfino nelle personecon cui lavoro», commenta fiera suor Mako-ro, individuando proprio nell’infanzia il pe-riodo decisivo per la formazione del suo sen-so di libertà e indipendenza.

Cambiare le persone, responsabilizzarle,renderle consapevoli dei propri diritti è ciòche viene richiesto a una Chiesa come quellaafricana le cui parole d’ordine, secondo leparole dell’Africae munus di Benedetto XVIsono giustizia, riconciliazione e pace: tutto

sa attività pastorale e accademica, culminatanella laurea in educazione e formazioneall’università del Transkei e nel diploma inteologia all’università di Natal-Pietermaritz-burg. Suor Makoro ha poi insegnato allascuola superiore di Mariazell e per anni èstata coordinatrice del gruppo pastorale perla catechesi: ha lavorato come responsabiledel gruppo diocesano per l’animazione nelladiocesi di Umtata. Per un periodo ha presta-to servizio anche come superiore provincialedelle Sorelle Missionarie del PreziosissimoSangue. Insomma, una vita attiva con impe-gni a pieno ritmo e responsabilità concrete eincalzanti.

Prima del conferimento dell’incarico di se-gretario generale della Conferenza episcopa-le, suor Hermenegild ha lavorato nella Con-ferenza episcopale per sei anni. Per questomotivo, valuta in modo pragmatico le moti-vazioni delle sua nomina: «Credo che i ve-scovi mi abbiano nominata perché credevanoin me e sapevano cosa ero capace di fare.Hanno riconosciuto le mie qualità come per-sona». Nonostante il riconoscimento dellesue qualità e dei suoi meriti come persona,suor Makoro ci tiene, però, a sottolineare ilsuo apporto specifico in quanto donna.«Credo che la specificità che una donna pos-sa apportare a un’organizzazione gestita es-senzialmente da uomini sia quella della com-passione, della comprensione, del sentimen-

to. Un agire dettato dal cuore e non dallatesta».

Ma anche gli uomini hanno fatto la loroparte, in questo caso aprendo con coraggiostrade nuove. Secondo suor Makoro, la suanomina infatti è da attribuire «al progressi-smo dei vescovi della nostra conferenza, con-sapevoli che alla Chiesa non basta unosguardo basato su una visione di genere. Sela Chiesa vuole andare avanti deve cambiareatteggiamento. E questo risultato deve essereun messaggio molto forte perfino nei movi-menti ecumenici».

L’esempio della Chiesa africana, con la fi-ducia e il riconoscimento accordati a energienuove, in cui le donne giocano finalmente unruolo di primo piano, potrebbe servire da fa-ro alla Chiesa di tutto il mondo: «Al nostromeeting del Secam (Simposio delle Confe-renze episcopali di Africa e Madagascar) so-no stata accettata come un uguale tra tuttiuomini» continua suor Makoro. «È impor-tante che le donne accettino la sfida quandosi presenta e spero che entro la fine del miomandato, che scade tra due anni, qualche al-tra conferenza abbia imparato dalla Confe-renza sudafricana dei vescovi cattolici».

Accettare la sfida significa essere pronti adagire in modo rapido e diretto in una società«che è diventata egoista a tal punto che l’al-tra persona non conta fintanto che io sonofelice». Perciò la missione fondamentale della

Chiesa rimane quella «di evangelizzare glo-balmente o localmente», precisa suor Mako-ro, proprio là dove emergono i nodi critici,costituiti da «individualismo, vuoto spiritua-le, materialismo, dissolvimento dei legami fa-miliari, povertà economica e spirituale, pro-blemi riguardanti l’ambiente, i migranti, i ri-fugiati».

Raccogliere così la sfida lanciata da PapaFrancesco che ha auspicato una Chiesa inuscita, una comunità di credenti esortata auscire in senso geografico ed esistenziale in-sieme. Un andare verso l’altro, verso altreculture, popoli diversi, verso le periferie geo-grafiche ed esistenziali: ovvero i poveri, gliscartati, i disperati, i falliti, abbandonandoogni riferimento autoreferenziale che impedi-sce l’annuncio autentico.

Nel marzo 2014 suor Makoro ha ricevutoinoltre un’altra nomina in un’altra trincea, laPontificia commissione per la tutela dei mi-nori, dove la Chiesa di Papa Francesco inten-de combattere una battaglia dolorosa e dove-rosa nello stesso tempo. La commissione,guidata dal cardinale statunitense SeanO’Malley, sta svolgendo un ruolo di consu-lenza per gli episcopati nazionali al fine diprevenire gli abusi sessuali sui minori da par-te di ecclesiastici.

«La Commissione lavora divisa in gruppidiversi», spiega suor Makoro. «Il nostro in-carico è di consigliare il Papa, i suoi collabo-ratori e le Chiese locali riguardo alla tuteladei minori. I gruppi lavorano su diverse te-matiche che la commissione ritiene cruciali».L’effettiva tutela dei minori e l’impegno pergarantire loro lo sviluppo umano e spiritualeconsono alla dignità della persona umanafanno parte integrante del messaggio evange-lico della Chiesa. «I gruppi di lavoro copro-no le seguenti aree: linee-guida per la salva-guardia e la protezione dei minori; guarire ecurare le vittime, i sopravvissuti e le loro fa-miglie; formazione dei candidati al sacerdo-zio e alla vita religiosa, educazione dei verticiecclesiali; educazione delle famiglie e dellecomunità; teologia e spiritualità; norme cano-niche e civili. Io sono personalmente impe-gnata nel gruppo per l’educazione alle fami-glie e alle comunità».

Una vita di servizio e in prima linea, quel-la di suor Hermenegild che, con docile mo-destia, oltre a lamentare l’impegno in «troppimeeting che hanno poi poco impatto sul miolavoro», inaspettatamente confessa una suapeculiare sfida personale: «Sono una personatimida e il mio lavoro mi pone sempre allaribalta. Questa è una sfida, dato che preferi-rei lavorare dietro le quinte».

La testimonianza

M a d redi diecimila figli

Nata in una famiglia della minoranzatutsi, nel 1994 Margherite Barankitse hafondato nel suo Burundi dilaniato dallaguerra civile la Maison Shalom, casa diaccoglienza che da allora ha ospitato oltrediecimila bimbi di ogni etnia e religione,vittime di guerra, povertà e Aids. Laincontrammo qualche anno fa, quandovenne in Italia per presentare il libroMadre di diecimila figli (Piemme 2007)scritto con Christel Martin: al centro, ibimbi incontrati, ognuno con la propriastoria di sofferenze e sorrisi inattesi. Tuttiugualmente vittime di odio e violenza, ipiccoli non costituiscono un gruppoomogeneo: alcuni hanno visto i lorofamiliari massacrati, altri, figli deicarnefici, portano addosso il peso dellabarbarie dei genitori; ci sono poi i bimbi-soldato, i bimbi malati e quelli violentati.Maggy rifiuta di definire la MaisonShalom un orfanotrofio, istituzioneanonima che non si preoccupadell’avvenire dei piccoli, e che in Burundi— essendo gestito con fondi occidentali —crea nei bimbi bisogni fasulli ed estranei.Maggy è invece convinta che a unbambino privato dei genitori, ciò che piùmanca è la famiglia: ricreare e ricostruirequesto legame, ridargli la dignità diappartenenza è dunque il suo scopoprincipale. Se alla Maison Shalom ladiversità dei piccoli diventa un valore èperché ognuno vede, oltre alla propriasofferenza, anche quella dell’altro: ilconfronto li aiuta vicendevolmente acrescere. Ascoltare il dolore del bimbodell’etnia che ti ha sterminato la famiglia,aiuta a superare l’odio. E a far crescere lagenerazione del perdono. (@GiuliGaleotti)

Il documentario

Afrikais a woman’s name

Tre donne, tre Paesi, tre società e uncontinente: è questo il succo deldocumentario delle registe Ingrid Sinclair,

Bridget Pickering eWanjiru KinyanjuiAfrika is a Woman’sName (2008) cheracconta le storie diNjoki, Phuti eAmai, tutte e tresignificative per losviluppo dellapropria terra. Ilviaggio inizia conNjokiNgung’u, unaprocuratrice delKenya, impegnatacontro le violenze egli abusi sessuali;continua con PhutiRagaphala,

direttrice di una scuola elementare in unpiccolo villaggio della provincia diLimpopo, una delle regioni piùsvantaggiate del Sud Africa; e termina conAmai Rosie, casalinga di un villaggio inZimbabwe capace di divenire, grazie allatenacia e al coraggio, donna d’affari. Sonotre figure che, pur provenienti daorizzonti differenti, vivono e lavorano inrealtà controllate dagli uomini,chiedendosi, però, come poter cambiare lecose. Perché sanno bene che la società, iloro figli e le altre donne hanno bisognodel loro esempio e del loroaiuto. (@GiuliGaleotti)

UNA D ONNA AL SINOD O DÀ VO CE ALLE D ONNE«La Chiesa ha contribuito in modo determinante adefinire e a disciplinare la famiglia; si trova quindi in unacondizione privilegiata per proporre modelli di famiglianuovi e adatti ai nostri tempi, fedeli alla vocazionecristiana. Per farlo, però, ha bisogno di ascoltare la realtàe i soggetti reali dalla famiglia, cioè gli uomini e ledonne: uomini e donne veri ma specialmente donne chehanno vissuto e riflettuto sul grande cambiamento delruolo femminile nell’ultimo secolo, una delle ragionifondamentali della crisi della famiglia». Così, in unapplauditissimo intervento, Lucetta Scaraffia, uditrice alsinodo sulla famiglia, intervenuta il 16 ottobre nel corsodella dodicesima congregazione generale. «La Chiesa habisogno di ascoltare le donne, di ascoltare cosa ritengonodi avere perso e cosa guadagnato nel grandecambiamento, di ascoltare quale famiglia vorrebbero oggi.Perché solo nell’ascolto reciproco si opera il verodiscernimento. Le donne sono le grandi esperte difamiglia: se usciamo dalle teorie astratte, specialmente aloro ci si può rivolgere per capire cosa bisogna fare, comesi possono porre le fondamenta per una nuova famigliaaperta al rispetto di tutti i suoi membri, non più fondatasullo sfruttamento della capacità di sacrificio della donna,ma che assicuri a tutti un alimento affettivo, solidale.

Invece, sia nel testo che nei dibattiti, di donne, di noi, siparla pochissimo. Come se le madri, le figlie, le nonne, lemogli, cioè il cuore delle famiglie, non facessero partedella Chiesa, di quella Chiesa che comprende il mondo,che pensa, che decide. Come se si potesse continuare,perfino a proposito della famiglia, a far finta che ledonne non esistono. Come se si potesse continuare adimenticare lo sguardo nuovo, il rapporto inedito erivoluzionario che Gesù ha avuto nei confronti delledonne. Molto diverse sono le famiglie nel mondo, ma intutte sono le donne a svolgere il ruolo più importante edecisivo per garantirne solidità e durata. E quando siparla di famiglie non si dovrebbe parlare sempre e solo dimatrimonio: sta crescendo il numero di famiglie composteda una madre sola e dai suoi figli. Sono le donne, infatti,a rimanere sempre accanto ai figli, anche se malati, sedisabili, se frutto di violenza. Queste donne, queste madriquasi mai hanno seguito corsi di teologia, spesso nonsono neppure sposate, ma danno un esempio mirabile dicomportamento cristiano. Se voi padri sinodali nonrivolgete loro attenzione, se non le ascoltate, rischiate difarle sentire ancora più disgraziate perché la loro famigliaè così diversa da quella di cui parlate. Ancora più sole.Voi, infatti, troppo spesso parlate di una famiglia astratta,una famiglia perfetta che però non esiste, una famiglia

che non ha niente a che vedere con le famiglie vere cheGesù incontra o di cui parla. Una famiglia così perfettache sembra quasi non aver bisogno della sua misericordiané della sua parola: “Non sono venuto per i sani ma per imalati, non per i giusti ma per i peccatori”».

DUE SUORE IRACHENE TRA I PROFUGHI CRISTIANI A ERBIL

Si chiamano Afnan e Alice le due Piccole Sorelle diCharles de Foucauld che, da alcune settimane, hannoscelto di vivere in un accampamento di Ankawa, allaperiferia di Erbil, dove hanno trovato precariasistemazione migliaia di cristiani della Piana di Ninivefuggiti davanti all’offensiva dell’Is. La scelta delle duereligiose, raccontata ai microfoni di Radio Sawa, è dicondividere concretamente le condizioni di difficoltà esradicamento sofferte dalle migliaia di famiglie che,costrette a lasciare le proprie case, si stanno ormairassegnando a dover vivere in questo stato ancora permolto tempo. Afnan e Alice stanno coinvolgendo anchealtre religiose nell’assistenza a bimbi e giovani che vivononegli accampamenti tra tende e container. L’intento èquello di preservarli dal senso di vuoto e dall’assenza diattività formative che, col tempo, possono degenerare finoa innescare derive di degrado psicologico e morale.

IL MESSAGGIO DI LIVIA AL COND OMINIOIl 7 ottobre, su «la Repubblica», Antonio Caramassi, unlettore di Follonica, ha raccontato la storia di Livia,collaboratrice familiare rumena che, nel suo condominio,assisteva un anziano. Prima di andarsene, morto ilsignore, la donna ha lasciato nella bacheca dell’a n d ro n euna lettera. «Ringraziamento. Ho avuto la fortuna diconoscere una piccola comunità che si chiamaCondominio via Pio La Torre 3. Vi ringrazio! La vostraaccoglienza è stata magnifica per me, una semplicebadante. Vi ringrazio per tutti i “buongiorno” o “salve”che mi avete dato con tanta cortesia, senza pregiudizi.Ringrazio tutti coloro che mi hanno aperto la porta delleloro case e specialmente coloro che mi hanno aperto leloro anime e mi hanno accolto con dolcezza e gentilezza.Auguro a tutti voi, dal più piccolo fino al più grande(come età) tanta salute e di non aver mai bisogno di unabadante. Con rispetto Livia».

UN CORRID OIO PROTETTO DALLE D ONNE IN KE N YASu Combonifem, Michela Trevisan ha raccontato una bellastoria di riscatto al femminile in Kenya, grazie a unprogramma contro la deforestazione e a 550 donne che sisono riunite in microcooperative per riprendersi futuro,terra e dignità. «Jenliza Mwikamba ha 39 anni e due figli.

Cinque anni fa i suoi bambini dormivano per terra e nonc’era denaro per pagare gli studi. Oggi i bimbi dormonosu un letto e frequentano regolarmente la scuola»: Jenlizaproduce e vende cesti colorati. La sua storia è comune adaltre donne che vivono nel Kasigau Corridor Project,un’area protetta di foreste vasta oltre duemila chilometriquadrati nel distretto di Taita Taveta, nel sudovest delKenya. Un’ampia fascia di territorio che separa i dueparchi nazionali Tsavo Est e Tsavo Ovest, salvata dalladeforestazione e dal degrado grazie al programma delleNazioni Unite per la conservazione delle foreste, iniziatonel 1997. Così come avviene in Africa e in moltissime zonepovere del pianeta, anche qui, a partire dalla seconda metàdel Novecento, per ottenere guadagni rapidi, le comunitàlocali iniziarono ad attaccare il territorio. Estensioni semprepiù ampie di foresta furono bruciate per produrre carbonedestinato al mercato illegale. I terreni disboscati furonoutilizzati per coltivare mais, ma la scarsità di acquacostrinse la popolazione a spostarsi continuamente,abbattendo sempre nuove porzioni di bosco per cercareterreni migliori. Ciò trascinò le comunità locali nel baratrodella povertà: gli uomini si abbandonavano all’alcol emolte donne, per sostenere la famiglia, iniziarono aprostituirsi. Ma proprio dalle donne è cominciata larinascita, che ha presto contagiato l’intera comunità.

Il saggio

Desert ChildrenÈ nata in Somalia, in mezzo al deserto,Waris Dirie. E da lì, dopo aver subito dabambina il traumatico rito dellamutilazione genitale, è fuggita,ribellandosi a una realtà che faceva delsuo essere femmina una condanna.Trasferitasi a Londra, è diventata una trale modelle più richieste del mondo.Madre di due figli, non ha maidimenticato la tragedia della sua infanzia,memoria che l’ha portata a essere laportavoce di Face to Face, la campagnadell’Onu contro le mutilazioni genitalifemminili. La sua battaglia contro questatortura che segna ancora un numeroaltissimo di bambine Dirie l’ha, tra l’a l t ro ,raccontata nel volume Desert Children(2005) in cui, dando voce alle donne,spiega come la pratica non sia seguitasolo in qualche sperduto villaggio arabo odell’Africa subsahariana, ma sia ormaidiffusa anche nelle più moderne metropolioccidentali. «Non importa quali e quanteargomentazioni si possano portare asostegno della tradizione, il problema difondo è sempre il potere e il controllo».(@GiuliGaleotti)

Qui, di fronte a trentacinquemila pretie tremilacinquecento missionari,le suore sono più di sessantamilaEppure la Chiesa non si è mai moltoimpegnata nella loro formazione

Raccontare questo continente non è sempliceTutto è doppio, nel raccontoTutto si specchia nel suo riflessoLa terra più ricca e povera del mondoè la culla della civiltà e delle contraddizioni

Testa e cuoreSuor Hermenegild Makoro, dal 2012 segretario della Conferenza episcopale del Sud Africa

È importanteche le donne accettino la sfidaquando si presenta

Nella mia famiglia sono cresciutain un’atmosfera di libertàOgnuno è sempre stato incoraggiatoa essere se stesso

Fiume sacro, Nigeria (Reuters)

ciò, nella storia di Hermenegild Makoro, èstato appreso tra le mura domestiche, intrisedi un cattolicesimo autentico e sentito.

Il suo avvicinamento a Dio, dunque, è av-venuto in modo assolutamente personale,senza forzature esterne: «Ho scoperto in mo-do graduale quello che stavo cercando nellamia vita. Un giorno, poi, ho partecipato allaprofessione di fede di una suora ed è diven-tato molto chiaro in me il fatto che volevoseguire la vita religiosa. Da quel momento inpoi, non mi sono più guardata indietro». An-che in questo caso, la famiglia ha appoggiatola scelta della figlia, seppure «il supportomaggiore è arrivato da mia madre, mentremio padre voleva che stessi a casa e studias-si». Non a caso Hermengild sottolinea comesua madre e sua nonna «fossero persone digrande spiritualità e sani principi, che prega-vano ogni giorno per una vocazione al sacer-dozio o alla vita religiosa per i componentidella famiglia».

La scelta di prendere il velo è sbocciatadunque quasi esclusivamente in questo fertilehumus familiare. «In modo sorprendentenon ho mai avuto contatti con nessuna suoradella mia parrocchia, tranne che con le suoreche mi hanno preparato per la prima comu-nione e la cresima. Ricordo comunque cheuna suora aveva fatto su di me grande im-pressione e questo può avermi influenzataanche se indirettamente». Sono state quindidue donne, la nonna e la mamma di Herme-negild, le persone decisive per la sua decisio-ne di prendere il velo, culminata del 1976,con la professione di vita religiosa presso leSorelle Missionarie del Preziosissimo San-gue: una spiritualità corroborata da un’inten-

di SI LV I N A PÉREZ

In Africa le giornate sono scandite dallaparabola del sole. Ci si sveglia all’albae si va a dormire poco dopo il tramon-to. Nelle strade di terra rossa che sol-cano il paesaggio ci si imbatte in una

umanità in cammino, spesso scalza. Basta ve-dere al mattino, quando le strade sono pienedi donne che camminano velocemente sul ci-glio. L’Africa ha un volto: quello delle donne.Sono loro che, senza far rumore, senza accam-pare diritti, riproducono ogni giorno il mira-colo della sopravvivenza. In un continente do-ve è davvero difficile vivere.

Per queste donne straordinarie è normalecamminare ogni giorno per quindici chilome-tri per raggiungere il pozzo più vicino, è nor-male fare trenta chilometri a piedi per vendereuna cipolla oppure essere picchiate dal maritoo fare l’ottanta per cento dei lavori nei campima non essere proprietarie della terra. Se chie-di a una donna: “p erché?”, lei ti risponderàsemplicemente che per lei quella è la normali-tà.

Pur essendo circondate da uomini assenti eda società con tratti maschilisti qualcosa stacambiando. Ci sono donne che hanno rag-giunto cariche politiche cruciali, posizioni rile-vanti nel mondo professionale o un ruolochiave all’interno della propria società.

Un’emancipazione inimmaginabile fino a po-co tempo fa, a cui anche la Chiesa ha contri-buito.

Raccontare l’Africa non è semplice. Tutto èdoppio, nel racconto. Tutto si specchia nelsuo riflesso. La terra più ricca e povera delmondo è la culla della civiltà e delle contrad-dizioni. Qui, il tempo non si ferma. Casomaitorna su se stesso in un doppio binario traconquiste e passi indietro.

E proprio di quest’ultimi ci hanno parlatoAmina, Zelam e Rhanda, tre suore africaneche hanno descritto la dolorosa subordinazio-ne a cui vengono costrette gran parte delledonne africane, in ragione di una cultura chevuole l’uomo capo e padrone. Ciò produce

mento domestico e sociale della religiosa afri-cana, a differenza di ciò che accade nelle con-gregazioni maschili.

Le religiose vengono esaltate per i lavorifatti: cucinano bene per amore di Gesù, inse-gnano il catechismo ai bambini, decorano lechiese parrocchiali, puliscono, rammendano ecuciono vestiti, accudiscono i prelati e gli an-ziani, si prendono cura dei bambini in diffi-coltà. Ma tutto ciò esclude le religiose africanedalle funzioni principali, quelle della gestione,dell’amministrazione e della decisione.

La situazione adesso è ancora peggiorata acausa dell’aumento del numero di piccole fon-dazioni di tipo diocesano, fondate dai vescovie preti africani, donne scelte per essere a loroservizio. Quando i prelati finiscono il loromandato o muoiono, queste opere falliscono.Di conseguenza nascono altri problemi ancoraper le suore coinvolte.

Talvolta le religiose africane vengono man-date in Europa come missionarie nelle diocesi,ma questa cooperazione missionaria spesso fi-

prete, spesso, viene solamente trasferito inun’altra parrocchia o inviato a studiare.

Sono molte le suore che conoscono questarealtà — sottolineano le religiose — anche senon ne parlano per paura. Fino a che non ca-pita che rimangano incinte e allora la congre-gazione le manda via dal convento perché «èuna vergogna». È una situazione «abituale inAfrica», dove istituti o congregazioni di altriPaesi accorrono per cercare vocazioni, ma noncercano «persone interessate alla vita religiosada formare», bensì solo una sorta di manova-lanza «per risolvere i loro problemi: hanno bi-sogno di personale che lavori nelle scuole onegli asili che gestiscono».

Nei Paesi dove l’aids è molto diffuso — de-nunciano le suore — le suore vengono conside-rate più “s i c u re ” per evitare il contagio neirapporti sessuali. Non sono casi isolati, chiari-scono: è quasi impossibile quantificare il nu-mero di suore che subiscono abusi dai loro“b enefattori” e poi sono state abbandonatedalla loro congregazione. Questo costituisceuno scandalo per tutta la Chiesa, perché que-ste religiose, prima che entrassero in questecongregazioni diocesane, erano delle ragazzenormali, intelligenti, spesso le migliori dellasocietà a cui appartenevano.

Quasi fin dall’inizio, la Chiesa ha promossola realizzazione femminile. Sarebbe difficiletrovare un’altra istituzione nel pianeta che —come un fatto la Chiesa cattolica — abbia per-messo semplicemente alle donne di pensarecon la propria testa, di essere quello che eranonate per essere e di realizzare grandi cose.

Invece uno strano contrasto sembra caratte-rizzare oggigiorno lo status delle donne nelcattolicesimo africano. Se per ipotesi dovessevenir meno il loro contributo nella catechesi,nell’animazione liturgica e nelle attività carita-tive, è facile immaginare che le comunità par-rocchiali collasserebbero. Diceva VirginiaWoolf che «una storia non esiste finché nonviene raccontata» e il silenzio sulla crisi diidentità delle religiose africane è durato forsetroppo a lungo. Bisogna aiutarle: questo è

Jesus Mafa, «La visitazione»(XX secolo)

gravi distorsioni anche in se-no alla Chiesa, genera pro-blemi legati sia al carismache alle vocazioni religiose erende più attuale che mai ilmonito di Papa Francescosul servizio delle donne alla

l’appello che lanciano le religiose africane.Ascoltiamole ancora: «Sono sparse per ilmondo, chi mai si è interessato a loro? Dovesono? Cosa fanno?. La Chiesa deve affrontarele sofferenze delle religiose africane in partico-lare ma più in generale la situazione delledonne al suo interno proprio perché le donne,e le religiose in particolare, sono il volto dellaChiesa che più frequentemente e più facilmen-te raggiunge i poveri». Parole dure piene did o l o re .

Chiesa: un servizio che nondeve mai diventare servitù.

In Africa, di fronte a tren-tacinquemila preti e tremila-cinquecento missionari, lesuore sono più di sessanta-mila. Eppure «la Chiesa nonsi è mai molto impegnatanella loro formazione». Lereligiose di solito vengonoformate solo e soltanto perl’apostolato, quindi, per lacatechesi e l’insegnamentonella scuola elementare.Cioè, per rispondere alle esi-genze sociali e non per capi-re e approfondire il carismae la spiritualità della congre-gazione a cui appartengono.La Chiesa non si è impegna-ta molto per la formazionedi queste religiose. Religioseche si ritrovano sempre adapplicare decisioni già preseda altri e per altre.

La religiosa virtuosa veni-va e viene incensata comeperno tra il mondo visibile einvisibile, la rivelazionedell’amore e della grazia,l’essere più naturalmente re-ligioso che Dio abbia creato.Ma poi tutto questo sfociain una condizione di asservi-

che mandano le religiose a studiare senza for-nire loro alcun sostegno economico», tantoche esse si trovano spesso a dover chiederel’elemosina. Un fatto che di per sé provoca unforte sentimento di vulnerabilità.

In alcuni casi, non rari, la situazione diqueste religiose impreparate a servizio dellegerarchie ecclesiastiche è ancora più umiliante.Lo ha denunciato, nel 2001, l’importante pe-riodico cattolico americano «National Catho-lic Reporter», pubblicando il rapporto chesuor Maria Marie McDonald, superiora gene-rale delle Missionarie di Nostra Signorad’Africa, nel novembre 1998 inviò a un grup-po di delegati dell’Unione dei superiori gene-rali (congregazioni maschili), dell’Unione in-ternazionale delle superiore generali (congre-gazioni femminili) e della congregazione vati-cana per gli istituti di vita consacrata e le so-cietà di vita apostolica che si stavano occu-pando della questione.

Suor McDonald scrive infatti che il proble-ma non è circoscritto all’Africa, anche se ilgruppo che ha preparato il rapporto ha fattoriferimento all’esperienza africana. «È precisa-mente a causa del nostro amore per la Chiesae per l’Africa che ci sentiamo tanto afflitti dalproblema che vi presentiamo».

La denuncia spiegava nello specifico il cir-colo vizioso che si innesca in questi casi par-tendo dall’esistenza di molestie sessuali e per-fino di stupri da parte di ecclesiastici nei con-fronti delle suore. Di solito poi la suora vieneallontanata dalla sua congregazione mentre il

nisce male per man-canza di progettichiari e di prepara-zione e le religiosenon di rado finiscononelle strade, diven-tando senza fissa di-mora. Data la penu-ria di risorse — ci di-ce suor Anne — «cisono molte congrega-zioni africane povere

Page 3: donne chiesa mondo tutte queste cose nel suo cuore · Ma sono anche capaci di parlare con ironia e saggezza africane, perché fortemente radicate in una ... propria natura di donna

donne chiesa mondo women church world mujeres iglesia mundo femmes église monde donne

A partire dal saggio della giovane nigeriana Adichie

La maternitànel femminismo

di GIULIA GALEOTTI

Come mai la società occidentale di oggi, figlia della generazio-ne di donne che ha fatto il femminismo degli anni Settanta, èancora così maschilista? Certo, non lo è a livello legislativo —

in occidente almeno — e certo, a livello sociale, lo è sicuramente me-no di vari decenni fa, ma che la strada per una effettiva parità sia an-cora in salita è un dato di fatto. Perché siamo ancora a questo pun-to? La domanda è complessa, le risposte si intrecciano. Ma probabil-mente alla base di questo fallimento vi è anche il difficile rapportoche il femminismo degli anni Settanta ebbe con la maternità.

Uno dei grandi temi con cui si è relazionato quel movimento in oc-cidente — sia nella fase ottocentesca, che in quella, più nota e recente,del secolo scorso — è stato il rapporto con la maternità. Nel tempo, lesoluzioni sono state diametralmente opposte: mentre per le femministedell’Ottocento l’idea di fondo era quella di una sorta di superioritàmorale della donna in virtù della maternità, per le loro pronipoti — oalmeno per buona parte di loro — l’essere madri era l’incarnazionedell’handicap che, da secoli, inchiodava le donne nelle retrovie, unasorta di diminuzione dell’essere donna.

Non capivo molto di questa posizione da piccola: percepivo che erauna visione che relegava le donne ai margini della loro natura. La lorospecificità diventava un ostacolo: non era, forse, una brutta teoria che,su basi nuove, riproponeva antiche gabbie, capaci di asservirle ancorae ancora? Non che ci piaccia la retorica di chi, compiendo il processoinverso, schiaccia tutto l’essere donna sulla maternità — e qui, parolelimpidissime le ha scritte il cardinale Ratzinger: «Anche se la materni-tà è un elemento chiave dell’identità femminile, ciò non autorizza af-fatto a considerare la donna soltanto sotto il profilo della procreazionebiologica. Vi possono essere in questo senso gravi esagerazioni cheesaltano una fecondità biologica in termini vitalistici e che si accompa-gnano spesso a un pericoloso disprezzo della donna» — ma il proble-ma del rapporto tra maternità e femminismo resta.

Proprio per questo ci ha colpite il recente pamphlet che Chima-manda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana (classe 1977), ha pubblica-to riscuotendo un successo mondiale. Scritto con verve, tra autobio-grafia e la netta presa di distanza con chi ritiene il femminismo uningombrante retaggio del secolo scorso, We Should All Be Feminists,uscito per la prima volta nel 2012 (in Italia, Einaudi lo ha tradottoquest’anno, con il titolo Dovremmo essere tutti femministi), non solo ri-vendica il diritto di portare avanti la battaglia su tacchi a spillo sen-za odiare i maschi, ma auspica un mondo più giusto fatto di maschie femmine tutti parimenti davvero fedeli a se stessi. E alle loro speci-ficità («Uomini e donne sono diversi, abbiamo ormoni diversi, orga-ni sessuali diversi e capacità biologiche diverse: le donne possonoavere figli, gli uomini no»).

In questo scritto, frutto dell’adattamento di quanto pronunciatonel corso di una conferenza, Adichie traccia un ritratto impietoso — elucido — della società attuale. Noi donne siamo ancora invisibili, nelsenso che non veniamo considerate in quanto persone che portanouno sguardo difforme da quello maschile; ancora «passiamo troppotempo a insegnare alle ragazze a preoccuparsi di cosa pensano i ra-gazzi», mentre «il contrarionon succede. Non inse-gniamo ai ragazzi asforzarsi di piacere»; anoi donne, sin da pic-cole, viene suggeritodi nascondere la rab-bia, perché ancora unadonna arrabbiata e chesi scandalizza per le in-giustizie verso il suosesso è considerataun’isterica noiosa.

Se tutto questo èvero, senza lamen-tarsi e con grandeironia Adichie rivolge il suo sguardo sulle nostre responsabilità dimadri. «Facciamo un grave torto ai maschi educandoli come li edu-chiamo. Soffochiamo la loro umanità. Diamo della virilità una defi-nizione molto ristretta. La virilità è una gabbia piccola e rigida den-tro cui rinchiudiamo i maschi. Insegniamo loro ad aver paura dellapaura, della debolezza, della vulnerabilità. Insegniamo loro a ma-scherare chi sono davvero, perché devono essere, per usare un’e s p re s -sione nigeriana, “uomini duri” (...). Ma la cosa peggiore che faccia-mo ai maschi — spingendoli a credere di dover essere dei duri — èche li rendiamo estremamente fragili. Più un uomo si sente costrettoa essere un duro e più la sua autostima sarà fragile. E poi facciamoun torto ben più grave alle femmine, perché insegniamo loro a pren-dersi cura dell’ego fragile dei maschi».

Dobbiamo dunque rivedere, innanzitutto noi donne giacché siamoancora noi a occuparci primariamente dei piccoli, tutto il nostro si-stema educativo, cambiando quello che insegniamo alle nostre figliee ai nostri figli. Se vogliamo arrivare a un mondo che sia davveropiù femminista — cioè «un mondo più giusto, un mondo di uomini edonne più felici e più fedeli a se stessi» — dobbiamo passare per lamaternità. Ce lo ricorda una giovane donna, figlia del continenteanagraficamente più giovane al mondo.

Centro di ascolto ante litteramGiuliana di Norwich raccontata da Ferdinando Cancelli

Nato a Torino nel 1969, dopo gli studiclassici ha esitato tra lettere, storia emedicina. Diventato medico, ha ottenuto ildiploma post laurea in medicina palliativaall’Università Claude Bernard di Lione(Francia) e il perfezionamento in bioeticaall’Università Cattolica del Sacro Cuore.Dopo aver trascorso un periodo di lavorocome Chef de clinique all’Hôpital deBellerive (Ginevra), esercita la professionedi medico palliativista a Torino per laFondazione F.A.R.O. onlus. Sposato conClara dal 1997, ha condiviso con lei ilcammino per divenire oblato secolaredell’abbazia Mater Ecclesiae sull’isola diSan Giulio e deve moltissimo alla suafamiglia monastica.

Giulianae il suo libro «The Revelations of Divine Love»

Dalla sua cellal’eremita parlava ai contemporaneidell’amore e della paternitàma anche della maternitàdi Dio

Per chi visita la cittadina medie-vale di Norwich, nella regionesudorientale dell’Inghiletrranota come East Anglia nonlontano dalle coste del mare

del Nord, il luogo non è sicuramente diimmediata visibilità: nessun cartello turi-stico lo indica e sulle guide comuni vi èdedicata al più una riga a fondo pagina.

Ci arriviamo a piedi partendo dalla ma-gnifica cattedrale che domina il centrocittadino: una ventina di minuti attraversouna periferia moderna e poco attraente,molto diversa dalle zone residenziali allequali il turista in Inghilterra rapidamentesi abitua.

Eppure il luogo, benché modesto e ri-costruito dopo le devastazioni della Rifor-ma prima e dell’ultima guerra mondialepoi, è ancora oggi molto visitato. Che co-sa cercano i turisti di oggi fermando ipropri passi dinanzi a una piccola finestradi quella che sembra essere una chiesettain King Street ?

Molto probabilmente, anche se a voltea loro insaputa, quello che cercavano ipellegrini che seicento anni fa qui giunge-vano da ogni dove: essere ascoltati da unadonna semplice e coraggiosa, solitaria ep-pure aperta sul mondo proprio come lafinestrina che la rendeva discretamente ac-cessibile.

Di Giuliana di Norwich sappiamo po-chissimo e ignoriamo persino il vero no-me. Nacque forse nel 1342, morì forse nel1429, soggiornò per lunghi anni come ere-mita in una cella annessa alla chiesa diSan Giuliano nei dintorni di Norwich escrisse un libro nell’inglese del suo tem-po, un libro talmente diffuso e letto neisecoli successivi nel Regno Unito da ac-compagnare una delle infermiere che han-no fatto la storia, Florence Nightingale,quando curava i feriti della guerra di Cri-mea.

Una sua biografa moderna, Sheila Up-john, sottolinea come la Norwich di Giu-liana non fosse ai tempi di secondaria im-portanza ma fosse divenuta la secondacittà d’Inghilterra per la ricchezzadell’agricoltura e il commercio della lanacontando circa diecimila abitanti.

intimamente legati tra loro da rendere im-possibile la comprensione dell’uno esclu-dendo l’altro. La sua visione, nonostantela coloritura del tempo, è serena: l’unicaira che possiamo trovare in Dio — scriveGiuliana — è la proiezione della nostragiacché in lui vi è solo amore.

Qualcuno scrisse che forse Giuliana fuuna vedova alla quale morirono i figli,qualcuno che ricevette un’educazione dal-le benedettine del luogo nel monastero diCarrow, altri che si fece aiutare a scrivereil suo libro poiché completamente illette-rata. Non sono mai state trovate le sue re-liquie, nessuna tomba certa ospita il suocorpo. È forse questa impalpabilità a ren-dere Giuliana di Norwich a noi così vici-na; «in termini spirituali lei è ovunque»scrive Sheila Upjohn.

Una donna semplice e profondissimache si affaccia a una piccola finestra diperiferia per donarci il suo segreto.

Sarebbe quindi errato pensare a Giulia-na — scrive ancora Upjohn — come a unafigura relegata nella pace contemplativadi una campagna medievale ideale: la suacella è piuttosto da immaginare come uncentro di ascolto, quasi un consultorio an-te litteram, di una delle nostre modernecittà.

Pellegrini, donne sole, uomini feritinell’anima e nel corpo, mercanti in diffi-coltà, religiosi: da dove prendeva Giulia-na la forza di ascoltare e di consigliaretutti? La forza, stando alla testimonianzadi Margery Kempe che la incontrò nel1413 e che di quell’incontro lasciò una te-stimonianza scritta ritrovata negli anniTrenta del secolo scorso, la attingeva datre finestre. La prima si apriva sulla chiesae da questa poteva ascoltare la messa e ri-cevere i sacramenti, la seconda su unastanza interna dalla quale probabilmentericeveva il cibo per il sostentamento fisicodel corpo e la terza era quella che la met-teva appunto in grado di dare al mondoil suo sostegno.

Epidemie di peste (la peste nera rag-giunse Norwich nel gennaio 1349 e nuo-vamente in una seconda epidemia nel1349), infezioni del bestiame e carestie (ilraccolto del 1369 fu il peggiore dei cin-quant’anni precedenti) segnarono a più ri-prese quel tempo la regione di Norwich,eppure Giuliana conservava una visionepiena di speranza.

L’8 maggio 1373, giunta in punto dimorte per un’affezione misteriosa dallaquale poi altrettanto misteriosamente gua-rì, ebbe le visioni che la confermarononella sua fede e che sono alla base delsuo libro, The Revelations of Divine Love,oggi tradotto in molte lingue. Ebbe unavisione realistica della passione di Cristo,ricca di particolari anche fisici della soffe-renza di Nostro Signore. Vide con certez-za Dio che «crea, ama e cura» le suecreature con amore paterno e, cosa mo-dernissima per i tempi, materno; compre-se che quaggiù «noi cerchiamo riposo incose così insignificanti che mai ce lo po-tranno dare» e che uomo e Dio sono così

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I

donne chiesa mondo novembre 2015

Teologa congolese, nata nel1966 a Luebo, pedagogista,Rita Mboshu Kongo ha stu-diato medicina all’università diKinshasa. Trasferitasi a Ro-ma, è entrata tra le Figlie diMaria Santissima Corredentri-ce. Dopo la licenza in teologiaspirituale, consegue il dottoratopresso il Pontificio Istituto diSpiritualità Teresianum di Ro-ma. Insegna nella PontificiaUniversità Urbaniana e faparte della redazione di «don-ne chiesa mondo».

Fa m i g l i acome ambiente naturale

di RI TA MBOSHU KONGO

n Africa si può diventare membro di unafamiglia attraverso varie modalità: oltrealla nascita biologica, l’alleanza, il patto disangue, il matrimonio e così via. Inognuno di questi casi si diventa membrireali di una determinata famiglia. Percapire le sfumature del concetto difamiglia africana occorre prima di tuttoanalizzare la concezione della personaumana che si ha in Africa. Secondo lavisione africana, l’uomo èfondamentalmente fascio di relazioni, diesse vive e a esse è proteso. Vieneconcepito non come un individuo isolato,

ma come appartenente a una comunità, unafamiglia, i cui membri sono sempre incomunione con quelli del mondo ultraterreno,invisibile, col quale formano un’unicaidentità, un mondo che, secondo laconcezione africana, è come un’immensaragnatela di cui non si può toccare un filosenza fare vibrare tutta la comunità. Dalpunto di vista sociale, pertanto, il giovane sipercepisce come un “m e m b ro ” vitale della suacomunità, vale a dire che sente di essere“figlia o figlio di”, di far parte di tale o talaltra famiglia, di appartenere a questo o aquell’altro clan, a questa o a quell’altra tribù ea un determinato villaggio. Questaappartenenza a qualcosa di più grande fascaturire nel suo intimo un forte senso didipendenza e di relazione con Dio, con glialtri e con il mondo. Perciò, la grandezza e larealizzazione dell’essere umano africanoconsistono non solo nella sua razionalità, maanche nella sua relazionalità che lo fa vivere erealizzarsi. Per lui la famiglia è l’ambientenaturale in cui nasce, agisce, trova laprotezione e la sicurezza di cui ha bisogno edove, infine, anche dopo la vita terrena, gli èassicurata la continuità attraverso la suadiscendenza. L’africano, nell’esercizio diquesta relazione, trova anche la sua libertà,perché l’esperienza della relazionalità, sevissuta armonicamente, non dovrebbesoffocare la libertà. La famiglia africanaproduce quindi nel giovane un fortesentimento del “noi”, al punto che può legarsia essa rinunciando persino alla sua capacità digiudicare personalmente e di intraprenderequalsiasi cosa di nuovo nella sua vita e lìcrede di trovare ordine, sicurezza e felicitànell’appartenenza assoluta. Così chel’abbandono di essa è percepito come unadisgrazia. L’alleanza matrimoniale quindi nonè un atto che riguarda solamente laresponsabilità di un uomo e di una donna,ma un’alleanza tra due famiglie, quella dellosposo e quella della sposa. Questa dimensionecomunitaria costituisce una difesa e permettedi consolidare il legame matrimoniale in casodi difficoltà in seno alla coppia. Ognibambino che nasce, anche se educatoprincipalmente dai genitori, appartiene difatto a tutta la famiglia, alla comunità e alvillaggio, per cui si può dire che tutti sonoresponsabili della sua formazione. Unproverbio africano dice che quando ilbambino o la bambina è nel ventre materno,appartiene alla famiglia, ma dopo la sua

nascita appartiene a tutto il villaggio. Lafamiglia continua a esercitare la sua autoritàsul giovane anche quando diventa adulto,perché le decisioni prese dalla comunità,anche se sono a scapito della personainteressata, vanno rispettate e messe in atto datutti. Questo atteggiamento, se da un latofacilita l’esercizio dell’autorità, in molti casirende le persone irresponsabili: per agire, esseattendono la parola, la decisione del capo odegli anziani al punto che, per esempio,anche quando devono sposarsi i giovanidevono lasciare agli anziani la scelta delconiuge, come se non fossero i direttiinteressati. Come conseguenza di ciò,l’esistenza stessa del giovane viene concepita evissuta da tutti come un progetto dellacomunità, per cui essa risulta la sintesi deivalori naturali, culturali e spirituali di tutta lafamiglia, clan e villaggio: cioè esiste non perse stessa, ma per e nella famiglia. Nel clan enella tribù l’individuo è assorbito nella e dallacollettività, perché è questa che provvede atutti i suoi bisogni e fin dalla nascita netraccia il cammino per il suo domani. Ilgiovane, pertanto, viene progressivamenteformato e guidato dalla famiglia, attraversouna serie di passaggi che conferiscono manmano dei ruoli sempre più impegnativi eampi, fino a quando egli giunge ad assumereil ruolo più pieno, quello al quale è statodestinato: essere sposo o sposa e padre omadre, per dare continuità alla famiglia per lasopravvivenza del clan. Sia il ragazzo che laragazza infatti hanno l’obbligo di sposarsi perperpetuare la stirpe, per cui a nessuno che siasano di mente in Africa può venire l’idea dinon sposarsi o di rifiutarsi di avere figli. Ifigli infatti rappresentano un valore cosìimportante che è considerato un crimineimpedir loro di nascere. Quindi il matrimonioè, per ogni individuo, un dovere sociale, unfattore di sopravvivenza individuale e

collettiva, un segno di equilibrio sociale emorale. Ciò che rende valido il matrimonioafricano non è solo il consenso, il fatto diessere rato e consumato, ma l’osservanza delletappe che la tradizione africana prevede: laconoscenza e l’accettazione di ambedue glisposi, l’alleanza tra le loro famiglie, sigillatadallo scambio della dote. Quindi possiamoaffermare che il matrimonio africano è atappe. Poiché, come si è visto, uno degliscopi fondamentali dell’esistenza dellapersona africana è la procreazione, quando

una coppia è sterile si ritiene che sia statacolpita da una maledizione e, per cercare dieliminarla, si prova a consultare gli indovini osi fa ricorso sempre più frequente allaprocreazione medicalmente assistita e a rimediterapeutici. Nonostante l’attaccamento che gliafricani sentono nei confronti dei loro valoriculturali, non deve quindi far meraviglia seuna ragazza o un ragazzo africano sonodisposti a scegliere liberamente il celibato peril Regno, per rispondere alla chiamatapersonale di Cristo che invita a seguirlo nellavia della castità consacrata. La castità religiosaè un impegno che pone dei problemi in tuttele culture del mondo, anche perchérappresenta una sfida alla natura umana erichiede un faticoso processo di ascesi e didisciplina che dura tutta la vita. Nella societàtradizionale africana, la donna era considerataguardiano della tradizione, educatrice, madree soprattutto svolgeva un ruolo religiosoeffettivo riconosciuto dai maschi e la doteaveva solo carattere simbolico. Oggi lasituazione femminile, che per molti versi stamigliorando — grazie all’evangelizzazione,all’accesso allo studio e all’indip endenzaeconomica — per altri sta peggiorando: ladote è diventata un’occasione di commercioper alcune famiglie senza scrupoli ed è inespansione il fenomeno detto b u re a u (ufficio),cioè una sorta di prostituzione di alto bordo,che coinvolge spesso anche donne istruite,mascherata da luoghi di incontro e ristoranti.Una sorta di poligamia non istituzionalizzata,che non rispetta la dignità della donna,ancora peggio della poligamia riconosciuta.Sono le stesse donne africane che devonoimporre alla società il loro diritto di essereconsiderate con dignità e rispetto. Le donnenon possono aspettare che la società africanasi converta: la libertà non si chiede mai, ma siprende. Un altro stato in cui le donne vivonoancora situazioni di oppressione è la

vedovanza. Se la dimensione comunitariacostituisce senza dubbio un vantaggio per lasolitudine, in molti casi si applicanoprescrizioni rituali che non rispettano né lafede né la dignità umana delle donne a cuimuore il marito. Ogni bene della famigliainfatti viene ereditato dal ramo paterno, e allavedova, costretta per di più a mesi diisolamento, silenzio e sporcizia, può esseretolto tutto. Per gli uomini, invece, ciò nonaccade e comincia subito la ricerca di unanuova moglie. La Chiesa, impegnata nellasalvaguardia della dignità della personaumana, deve combattere fermamente questepratiche che non onorano né le tradizioniculturali africane autentiche né il Vangelo.Essa deve allo stesso modo interpellare ipoteri pubblici e i garanti della tradizioneancestrale (i capi di famiglia) per combatterele pratiche rituali che conducono a maltrattarele vedove e gli orfani o a privarli di tutti ibeni in favore della famiglia d’origine delmarito defunto. Sono quindi evidenti i limitiin un sistema familiare basato essenzialmentesu una forte concezione di solidarietà,condivisione e ospitalità, che certe voltefinisce col favorire il fenomeno delparassitismo. Non di rado, infatti, personeche hanno conseguito una buona sistemazioneproprio grazie all’aiuto dei propri familiari,anziché cercare di ripagarli con il propriolavoro, si impigriscono e rifiutano diimpegnarsi in ciò che sono chiamati a fare,proprio perché sono convinte di poter semprecontinuare a contare sul loro aiuto. In talcaso, l’unico aiuto da dare a persone diquesto tipo è quello di rifiutare loro ognisostegno materiale, per metterle in condizionedi provvedere da sole a se stesse (cfr. 2Te s s a l o n i c e s i , 3, 6-12). Per evitare quanto piùpossibile questo genere di deviazioni, bisognaeducare i giovani a comprendere la solidarietàe la condivisione nel loro vero valore,insistendo sul fatto che la condivisione non èfatta per favorire pretese personali, ma ha loscopo di aiutare chi, nonostante la sua buonavolontà, si trova in condizione di miseria.Richiede da ogni individuo impegno non soloper provvedere ai propri bisogni, ma ancheper poter mettere da parte qualcosa da donarea chi è realmente in situazione di necessità.Un altro effetto negativo che può derivare dalsistema culturale africano, basato su un fortelegame familiare e tribale, si manifesta nelcaso in cui la solidarietà viene esercitata soloverso i membri del proprio parentado, perchéciò spesso genera un forte conflitto fra levarie tribù, che può facilmente degenerare neltribalismo. È da sottolineare pure che inAfrica la supremazia della classe degli anzianiporta, a volte, a un abuso di essa da partedegli adulti, che diventano eccessivamenteesigenti e prepotenti, fino ad arrivare asfruttare i giovani per i loro interessipersonali. Nella loro intransigenza nel volerperpetuare gli antichi imperativi morali, nonsi rendono conto, o non vogliono riconoscere,i cambiamenti epocali che si vannoverificando nella società, anche in quellaafricana, e obbligano i giovani a mantenere levecchie tradizioni, anche quelle ormaisorpassate, e a trasmetterle ai loro discendenti.In tal modo, però, ci si limita a far imitare eseguire pedissequamente la via tracciata dagli

anziani e dagli antenati. Così, anzichéincoraggiare il cambiamento e il progressofavorendo l’iniziativa personale, li si ostacola,con la conseguenza che le nuove generazioninon hanno l’audacia di uscire dal passato percreare qualcosa di nuovo. Il giovane africano,che prima veniva educato nella famiglia e perla famiglia, adesso, frequentando le scuolemoderne in città, aspira a diventareindipendente dalla famiglia e non ha piùalcuna intenzione di integrarsi totalmentenella sua comunità, ma piuttosto aspira asviluppare al massimo le proprie qualità e lapropria personalità per potersi pienamenterealizzare nella sua femminilità o mascolinità.Tra le numerose forze che mirano adistogliere i giovani dalle tradizioni familiarisono da denunciare soprattutto i programmi

detti di sviluppo e di formazione alla salutedella riproduzione, che diffondono spesso inAfrica “la cultura della morte”. Sonoall’origine del libertinaggio edell’individualismo legato alla banalizzazionedei rapporti sessuali e istigano a fuggire dagliimpegni stabili e duraturi nel matrimonio.Queste attitudini, rese più rigide dalledifficoltà economiche, stanno diffondendoanche in Africa una cultura di denatalità.L’annuncio del Vangelo della famiglia nonpuò lasciare l’Africa a questa situazioneantinatalista e d’imitazione servile di pratichealienanti. La Chiesa dovrà promuovere condeterminazione un’evangelizzazione cheapporti una soluzione alla forte diffusione diuna cultura della morte attraverso l’ab ortovolontario e la sterilizzazione, contrari alletradizioni religiose. Per questa strada l’Africarischia di perdere completamente la suacultura, e di trovarsi di fronte a unadisgregazione grave della famiglia.l’a

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