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ETHICA MORE GEOMETRICO DEMONSTRATA Caratteri generali L’Etica è l’opera principale di Spinoza, alla quale il filosofo inizia a lavorare a partire dal 1662 e alla quale lavorerà per tutta la vita. Informazioni relative all’opera possiamo trarle dall’Epistolario e, in particolare, nelle seguenti lettere: Lettera 8 di Simon De Vries (pp. 18391843) Lettera 28 a Johannes Bouwmeester (pp. 19751977) Lettera 62 di Henry Oldenburg (pp. 21232125) Lettera 68 a Henry Oldenburg (p. 2165) A. Lettera 8 di Simon De Vries del 24 febbraio 1663 (pp. 18391843) 1) A questa lettera si e già accennato in precedenza in riferimento a Caesarius. Essa offre un’importante testimonianza relativa alle modalità di elaborazione della propria filosofia da parte di Spinoza. Sappiamo, infatti, che mentre Spinoza era in vita si era formato ad Amsterdam un vero e proprio circolo spinozista nel quale venivano discusse le proposizioni e le definizioni dell’Etica: «Per quanto concerne il circolo, è organizzato in questo modo seguente: uno (ma a turno) legge, spiega secondo quanto ha capito, e poi dimostra tutto secondo la serie e l’ordine delle tue proposizioni. Quando accade che l’uno non possa soddisfare l’altro, abbiamo ritenuto importante annotare la questione e scriverti, affinché, se possibile, ci sia resa più chiara, e sotto la tua guida ci sia possibile difendere la verità contro chi è religioso o cristiano per superstizione, di modo che possiamo resistere all’assalto del mondo intero». Veniamo così a sapere quale era lo scopo che si proponeva la cerchia degli amici di Spinoza: combattere la superstizione. L’obiettivo, che di certo ci può sembrare riduttivo dopo un più accurato esame non solo della produzione filosofica di Spinoza, ma anche degli scritti dei suoi amici, corrisponde però certamente al nucleo centrale delle preoccupazioni di Spinoza stesso, se solo teniamo a mente due elementi. Da un lato, infatti, egli si è sempre difeso dalle accuse di ateismo; dall’altro la lotta contro la superstizione racchiude in potenza tutta la sua filosofia, sia sotto l’aspetto teoreticomorale (la conoscenza della vera essenza di Dio ci permette di liberarci dalle passioni e di condurre saggiamente la nostra vita), sia sotto quello politico (al potere statale sta il compito di far sì che anche chi non può avere una conoscenza vera di Dio, viva tuttavia in modo se non conforme, per lo meno non contrario a ragione). 2) Il prosieguo della lettera mostra come la discussione sulle prime proposizioni dell’Ethica comunicate ai suoi amici si incentra subito sul problema di che cosa sia una definizione. De Vries racconta a Spinoza che, per comprenderne meglio la natura, hanno consultato testi di Borelli, Taquet, e Clavius. Proprio Taquet affermava che era possibile dedurre una conclusione vera da una premessa falsa: questa posizione non viene presa nemmeno in considerazione da Spinoza nella sua risposta. Che una conoscenza certa possa derivare solo da un’altra conoscenza certa è dunque un’affermazione solo apparentemente ovvia. Spinoza tratta della definizione in due luoghi del suo Epistolario.

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ETHICA  MORE  GEOMETRICO  DEMONSTRATA      

Caratteri  generali    L’Etica  è  l’opera  principale  di  Spinoza,  alla  quale  il  filosofo  inizia  a  lavorare  a  partire  dal  1662  e  alla  quale  lavorerà  per  tutta  la  vita.    Informazioni  relative  all’opera  possiamo  trarle  dall’Epistolario  e,  in  particolare,  nelle  seguenti  lettere:  

-­‐ Lettera  8  di  Simon  De  Vries  (pp.  1839-­‐1843)  -­‐ Lettera  28  a  Johannes  Bouwmeester  (pp.  1975-­‐1977)  -­‐ Lettera  62  di  Henry  Oldenburg  (pp.  2123-­‐2125)  -­‐ Lettera  68  a  Henry  Oldenburg  (p.  2165)  

   A.  Lettera  8  di  Simon  De  Vries  del  24  febbraio  1663  (pp.  1839-­‐1843)      1)   A   questa   lettera   si   e   già   accennato   in   precedenza   in   riferimento   a   Caesarius.   Essa   offre  un’importante   testimonianza  relativa  alle  modalità  di  elaborazione  della  propria   filosofia  da  parte   di   Spinoza.   Sappiamo,   infatti,   che   mentre   Spinoza   era   in   vita   si   era   formato   ad  Amsterdam  un  vero  e  proprio  circolo  spinozista  nel  quale  venivano  discusse  le  proposizioni  e  le  definizioni  dell’Etica:      «Per   quanto   concerne   il   circolo,   è   organizzato   in   questo  modo   seguente:   uno   (ma   a   turno)  legge,  spiega  secondo  quanto  ha  capito,  e  poi  dimostra  tutto  secondo  la  serie  e  l’ordine  delle  tue   proposizioni.   Quando   accade   che   l’uno   non   possa   soddisfare   l’altro,   abbiamo   ritenuto  importante   annotare   la   questione   e   scriverti,   affinché,   se   possibile,   ci   sia   resa   più   chiara,   e  sotto   la   tua   guida   ci   sia   possibile   difendere   la   verità   contro   chi   è   religioso   o   cristiano   per  superstizione,  di  modo  che  possiamo  resistere  all’assalto  del  mondo  intero».    Veniamo  così  a  sapere  quale  era  lo  scopo  che  si  proponeva  la  cerchia  degli  amici  di  Spinoza:  combattere   la   superstizione.  L’obiettivo,   che  di   certo   ci  può  sembrare   riduttivo  dopo  un  più  accurato  esame  non  solo  della  produzione  filosofica  di  Spinoza,  ma  anche  degli  scritti  dei  suoi  amici,  corrisponde  però  certamente  al  nucleo  centrale  delle  preoccupazioni  di  Spinoza  stesso,  se  solo  teniamo  a  mente  due  elementi.  Da  un  lato,  infatti,  egli  si  è  sempre  difeso  dalle  accuse  di  ateismo;  dall’altro   la   lotta  contro   la  superstizione  racchiude   in  potenza  tutta   la  sua   filosofia,  sia   sotto   l’aspetto   teoretico-­‐morale   (la   conoscenza   della   vera   essenza   di   Dio   ci   permette   di  liberarci  dalle  passioni  e  di  condurre  saggiamente  la  nostra  vita),  sia  sotto  quello  politico  (al  potere  statale  sta  il  compito  di  far  sì  che  anche  chi  non  può  avere  una  conoscenza  vera  di  Dio,  viva  tuttavia  in  modo  se  non  conforme,  per  lo  meno  non  contrario  a  ragione).    2)   Il  prosieguo  della   lettera  mostra  come   la  discussione  sulle  prime  proposizioni  dell’Ethica  comunicate  ai  suoi  amici  si   incentra  subito  sul  problema  di  che  cosa  sia  una  definizione.  De  Vries   racconta  a  Spinoza  che,  per  comprenderne  meglio   la  natura,  hanno  consultato   testi  di  Borelli,  Taquet,  e  Clavius.  Proprio  Taquet  affermava  che  era  possibile  dedurre  una  conclusione  vera  da  una  premessa  falsa:  questa  posizione  non  viene  presa  nemmeno  in  considerazione  da  Spinoza   nella   sua   risposta.   Che   una   conoscenza   certa   possa   derivare   solo   da   un’altra  conoscenza  certa  è  dunque  un’affermazione  solo  apparentemente  ovvia.  Spinoza  tratta  della  definizione  in  due  luoghi  del  suo  Epistolario.      

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B.  Lettera  28  a  Johannes  Bouwmeester  del    1665  (pp.  1975-­‐1977)      Per  quanto  riguarda  la  terza  parte  della  mia  Filosofia,  te  ne  manderò  presto  qualcosa,  o  a  te,  se  vorrai  tradurla,  o  all’amico  De  Vries.  E  benché  avessi  stabilito  di  non  mandarla  prima  di  averla  completata,   tuttavia,  visto  che  va  per   le   lunghe,  non  voglio  che  attendiate  oltre:  vi  manderò  fino  all’ottantesima  proposizione  circa.    Da  notare  qui  che  allo  stato  attuale  la  terza  parte  dell’Etica  consta  di  59  proposizioni.  Spinoza  dunque  fa  riferimento  ad  una  prima  redazione  dell’opera,  probabilmente  tripartita.      C.  Lettera  62  di  Henry  Oldenburg  (pp.  2123-­‐2125)    Grazie  alla  tua  risposta  del  5   luglio  ho  appreso  che  hai   il   fermo  proposito  di  pubblicare  quel  tuo  trattato  in  cinque  parti.  Permettimi,  ti  prego,  per  l’affetto  sincero  che  mi  porti,  di  darti  un  consiglio:   non   inserirvi   niente   che   sembri   sminuire,   come   che   sia,   l’esercizio   della   virtù  religiosa,   soprattutto   perché   questa   età   di   decadenza   e   di   infamie,   di   nulla   va   a   caccia   più  avidamente  che  di  dogmi,  le  cui  conclusioni  servono  a  difendere  l’imperversare  dei  vizi.  Per  il  resto  non  rinuncerò  a  ricevere  alcuni  esemplari  di  questo  trattato.    Commento  La   lettera   del   5   luglio   non   ci   è   pervenuta.   In   essa   evidentemente   Spinoza   annunciava   la  pubblicazione  dell’Ethica.  Da  notare,  inoltre,  che  rispetto  alla  versione  tripartita  cui  si  allude  nella  lettera  28,  il  testo  dell’Ethica  risulta  essere  ora  diviso  in  5  parti.  Si  noti,  quindi,  che  se  la  lettera   28   risale   al   1665,   l’elaborazione   dell’Ethica   ha   impegnato   Spinoza   almeno   per   un  decennio.    D.  Lettera  68  a  Henry  Oldenburg  del  settembre-­‐ottobre  1675  (p.  2165)    […]   nello   stesso   momento   in   cui   ho   ricevuto   la   tua   lettera   del   22   luglio,   sono   partito   per  Amsterdam,  col  proposito  di  mandare  in  stampa  il  libro  di  cui  ti  avevo  scritto.      Commento  Il  manoscritto  dell’Etica  rimase  nel  cassetto.    Conclusivamente  possiamo  dire  che  la  vicenda  redazionale  dell’Etica  si  è  svolta  in  un  periodo  di   circa   tredici   anni   dal   1662   al   1675,   inframmezzata   dalla   composizione   dei   Principi   della  Filosofia   di   Cartesio,   del   Trattato   teologico-­‐politico   e   del   Compendio   di   grammatica   della  lingua  ebraica.    Si   possono   in   particolare   distinguere   due   periodi:   1662-­‐1665   e   1670-­‐1675.   Il   primo   e  caratterizzato   dalla   redazione   dell’Etica   tripartita   fino   a   circa   la   proposizione   80  dell’originaria   terza   parte;   il   secondo   dal   completamento   delle   ultime   tre   parti   e   dalla  revisione  di  tutta  l’opera.  L’Ethica  è  divisa  in  5  parti  (non  libri).  

I. Dio:  non  ha  alcuna  premessa  né  prefazione.  In  essa  l’autore  intende  dimostrare  che  al   tradizionale   termine   Dio   corrisponde   una   sostanza   assolutamente   infinita   e  unica,  costituita  da  una  infinità  di  attributi  o  perfezioni  essenziali,  causa  di  se  e,  con  il  medesimo  atto  e  con  la  medesima  potenza  con  cui  è  causa  di  se,  è  causa  di  tutto  ciò  che  è  implicato  nella  sua  natura,  ossia  di  infinite  modificazioni.  Esistono  dunque  soltanto   due   generi   di   "cose":   1)   La   sostanza   assolutamente   infinita,   natura  naturante   o   Dio.   2)   I   modi   che   ad   essa   necessariamente   e   immanentemente  

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ineriscono.  La  prima  parte  è  costituita  da  8  definizioni,  7  assiomi,  36  proposizioni  correlate  da  15  corollari  e  14  scoli;   si   conclude  con  una  appendice  riguardante   la  natura  e  l'origine  dei  pregiudizi,  in  particolare  di  quello  finalistico.  

II. Natura   e   origine   della   mente:   intende   dimostrare   che   l’uomo   è   un   modo   della  sostanza,  ossia  una  sola  e  medesima  cosa  che  si  esprime  simultaneamente  sotto  gli  attributi  del  pensiero  e  dell'estensione.  La  mente  umana  è  idea  di  un  corpo  umano  determinato,   di   cui   ha   consapevolezza   percependo   le   affezioni   da   cui   il   corpo   è  modificato  da  parte  di  altri  corpi.  Ogni  conoscenza  che  la  mente  ha  del  corpo  e  di  se  stessa   mediante   la   percezione   delle   affezioni   del   corpo   (ossia   mediante  l'immaginazione)  è  inadeguata.  Ma  poiché  tutti   i  corpi  hanno  qualcosa  in  comune,  essendo  modi  del  medesimo  attributo  dell'estensione,  la  rappresentazione  o  idea  di  ciò   che   e   comune   a   tutti   i   corpi   e   alle   loro   affezioni   e   conosciuta   dalla  mente   in  modo   adeguato   e   costituisce   il   fondamento   della   ragione,   secondo   genere   di  conoscenza.   Infine   l'autore   mostra   che   la   mente   ha   anche   la   possibilità   di  rappresentare  le  cose  singole  (in  quanto  singole)  in  modo  adeguato,  conoscendo  la  loro  essenza  mediante   l'essenza  dell’attributo  a  cui   ineriscono:  è  questo   il   terzo  e  supremo  genere  di  conoscenza,  denominato  anche  intelletto  o  scienza  intuitiva.  La  seconda  parte  si  apre  con  una  breve  introduzione  ed  è  costituita  da  7  definizioni,  5  assiomi,  49  proposizioni  corredate  da  18  corollari  e  2  2  scoli;  tra  le  P13  e  14  c’è  un  intermezzo  concernente  la  fisica  e  la  natura  del  corpo.  

III. Natura   e   origine   degli   affetti:   intende   dimostrare   che   l’essenza   dell'uomo   -­‐   ma  anche   di   tutte   le   altre   cose   -­‐   è   affectus,  ossia   una   forza   o   tentativo   (conatus)  di  autoconservazione.   Se   il   conatus   esprime   la   natura   propria   dell'uomo,   esso   si  manifesta   in   un   affetto   attivo   o   azione;   se   esprime   invece   di   più   la   forza   e   la  determinazione  delle  cause  esterne,   si  manifesta   in  un  affetto  passivo  o  passione.  Dunque   il   primo   e   fondamentale   affetto   umano   è   la   cupiditas,  ossia   il   conatus  di  autoconservazione   accompagnato   dalla   consapevolezza   di   se.   Se   la   cupiditas  consegue   un   perfezionamento   della   propria   potenza,   si  manifesta   come  gioia.  Se,  invece,  subisce  una  diminuzione  della  propria  potenza,  si  manifesta  come  tristezza.  E   poiché   la   cupiditas  non   è   altro   che   tentativo   di   autoconservazione  mediante   la  relazione   con   oggetti   esterni,   se   l’unione   con   questi   è   accompagnata   da   gioia,   si  prova  amore  per  essi;  se  invece  è  accompagnata  da  tristezza,  si  prova  odio.  Tutti  gli  altri   affetti   non   sono   che   determinazioni   o   composizioni   particolari   dei   primi  cinque   affetti,   riconducibili   al   movimento   fondamentale   della   cupiditas.   La   terza  parte  si  apre  con  una  prefazione  ed  è  costituita  da  3  definizioni,  2  postulati  (non  vi  sono   assiomi),   59   proposizioni   corredate   da   14   corollari   e   37   scoli;   comprende  inoltre   una   sezione   finale   dedicata   a   49   definizioni   degli   affetti,   27   delle   quali  seguite  da  una  spiegazione.  

IV. La   schiavitù   umana,   ossia   la   forza   degli   affetti:   intende   presentare   una  fenomenologia  delle  passioni  umane,  ossia  della  forza  con  cui  esse  si  connettono  e  si   organizzano,   sotto   la   spinta   delle   cause   esterne.   Tale   ricognizione   delle   cause  delle   passioni,   necessaria   per   approntare   i   loro   rimedi,   fondata   su   di   un   solo  assioma  ed  è  orientata  dalla  P3,  secondo  la  quale  la  potenza  con  cui  l'uomo  cerca  di  perseverare  nell'essere  a  infinitamente  superata  dalla  forza  delle  cause  esterne.  La  quarta   parte   è   aperta   da   una   prefazione   ed   è   costituita   da   8   definizioni,   da   un  assioma  unico  e  da  73  proposizioni  corredate  da  17  corollari  e  39  scoli;  è  conclusa  da  una  breve  appendice   in  cui  sono  riassunte,   in  22  capitoli,   le  cose  essenziali  sul  retto  modo  di  vivere,  insegnate  nella  stessa  parte.  

V. La   potenza   dell’intelletto,   ossia   la   liberta   umana   (intende   dimostrare   quale   sia   la  potenza   che   la   ragione   e   l’intelletto   possono   esplicare   nel  moderare   e   vincere   le  

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passioni.   In  essa  si   intende  anche  dimostrare  che  quel  potere  è   fondato,   in  ultima  istanza,  sull’eternità  della  mente.  Questa  parte  è  introdotta  da  una  prefazione  ed  è  costituita  da  2  assiomi  e  42  proposizioni,  corredate  da  8  corollari  e  17  scoli.    

     

Sul  metodo  more  geometrico  Una   prima   osservazione:   il   titolo   completo   è   Ethica   more   geometrico   demonstrata   (Etica  dimostrata   con  metodo   geometrico).   Si   tratta   di   un’Ethica,   dunque,  dimostrata   con   metodo  geometrico.   In   cosa   consiste   questo   metodo   geometrico?   Nel   disporre   i   contenuti   trattati  secondo  una  struttura  che  riprende  formalmente   la  struttura  degli  Elementi  di  Euclide:  ogni  libro   (al   quale   Spinoza,   ad   eccezione   del   primo,   premette   una   prefazione),   si   apre   con   una  serie   di   definizioni   e   di   assiomi   (o   postulati)   dei   quali   Spinoza   si   serve   per   derivare  proposizioni,  dimostrazioni,  scolii  e  corollari.    La  caratteristica  più  rilevante  dell'Etica,  sotto  il  profilo  materiale  e  formale,  è  la  sua  redazione  more   geometrico.  Descartes   aveva   composto   una   seconda   redazione   delle   Seconde   Risposte  seguendo   tale   metodo;   lo   stesso   Spinoza   aveva   composto   una   prima   appendice   al   Breve  trattato   in   forma   geometrica   e   aveva   esposto   geometricamente   i   Principi   della   filosofia   di  Cartesio.  Quali  sono  state  le  ragioni  che  hanno  indotto  Spinoza  a  impiegare  tale  metodo  e  quali  ne  sono  gli  elementi  principali?  Quando  il  filosofo  detta  geometricamente  i  Principi  della  filosofia  di  Cartesio,  ha  già  iniziato  la  composizione  dell’Ethica.  Possiamo  dunque  assumere  che  le  ragioni  e   le  spiegazioni  addotte  da   L.   Meyer   nella   prefazione   ai   Principi,  per   incarico   e   a   nome   di   Spinoza,   possano   valere  anche  per  il  metodo  geometrico  dell’Ethica.  Meyer  definisce  matematico  «quel  metodo  con  il  quale  le  conclusioni  sono  dimostrate  a  partite  da  definizioni,  postulati  e  assiomi.  Esso  consiste  nel  dedurre  senza  pericolo  di  errore  nozioni  ancora  ignote  da  nozioni  conosciute  con  certezza  e   predisposte   a   fondamento   dell'edificio   della   conoscenza.   Le   definizioni,   infatti,   non   sono  altro  che  spiegazioni  molto  chiare  dei  termini  e  dei  nomi  con  cui  vengono  designati  gli  oggetti  della   trattazione;  quanto  ai  postulati  e  agli  assiomi,  o  nozioni  comuni  della  mente,  essi  sono  enunciati   cosi   chiari   e   perspicui,   che   nessuno   può   negare   loro   l’assenso,   purché   abbia  compreso   correttamente   il   senso   delle   parole.   Meyer   aggiunge   che   tale   metodo   «è   la   via  migliore  e  più  sicura  nella  ricerca  e  nell'insegnamento  della  verità».  Descartes   aveva   sostenuto   che   il   metodo   sintetico   era   la   via   migliore   soltanto  nell'insegnamento   della   verità,   mentre   nella   ricerca   di   questa   era   preferibile   il   metodo  analitico.   Meyer   auspica   infine   che   tutte   le   scienze   possano   essere   formulate   con   metodo  geometrico.    Ricapitolando:  il  metodo  utilizzato  da  Spinoza  è  il  metodo  della  sintesi  (o  composizione)  che  si  differenzia   dal   metodo   dell’analisi   (o   scomposizione),   prediletto   da   Descartes.   È   lo   stesso  Descartes   a   spiegare   la   differenza   tra  metodo   sintetico   e  metodo   analitico   nell’ultima  parte  delle  risposte  alle  II  Obiezioni  del  Padre  Mersenne.  Scrive  Descartes:      La   maniera   di   dimostrare,   invece,   è   duplice:   una   è   per   analisi,   l’altra   per   sintesi.   L’analisi  mostra  la  vera  via  attraverso  la  quale  la  cosa  è  stata  scoperta  metodicamente  e  per  così  dire  a  priori,   di   modo   che,   se   il   lettore   vuole   seguirla   e   prestare   a   tutto   la   dovuta   attenzione,   la  intenderebbe  e  la  farebbe  propria  non  meno  perfettamente  che  se  l’avesse  scoperta  lui.  Essa,  però,   non   contiene   nulla   che   |   convinca   un   lettore  meno   attento   o   recalcitrante   a   credervi:  infatti,   se   non   si   osserva   anche   la   pur   minima   delle   sue   premesse,   la   necessità   delle   sue  

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conclusioni   non   emerge;   e   spesso,   poi,   essa   tocca   appena,   in   quanto   sono   perspicue   a   chi  presti  ad  esse  la  dovuta  attenzione,  molte  cose  che  occorrerebbe  tuttavia  rimarcare  in  modo  particolare.   La   sintesi,   al   contrario,   attraverso   una   via   opposta,   e   indagata   per   così   dire   a  posteriori  (sebbene,  spesso,  nella  sintesi,   la  prova  come  tale  sia  più  a  priori  che  nell’analisi),  dimostra   bensì   chiaramente   le   sue   conclusioni   e   si   serve   di   una   lunga   serie   di   definizioni,  petizioni,   assiomi,   teoremi   e   problemi   in  modo   da  mostrare   subito,   nel   caso   in   cui   venisse  negata   una   delle   sue   conseguenze,   che   essa   è   contenuta   negli   antecedenti   e,   così,   estorcere  l’assenso   del   lettore,   per   quanto   recalcitrante   e   pertinace;   ma   non   è   soddisfacente   quanto  l’altra,  né  appaga  l’animo  di  coloro  che  hanno  voglia  di  imparare,  poiché  non  insegna  il  modo  in   cui   la   cosa   è   stata   scoperta.   Di   questa   soltanto   erano   soliti   servirsi,   nei   propri   scritti,   gli  antichi  geometri,  non  perché  ignorassero  del  tutto  l’altra,  ma,  almeno  a  mio  giudizio,  perché  ne   avevano   una   considerazione   tanto   alta   da   riservarla   sol-­‐   tanto   per   sé,   come   qualcosa  d’arcano.  Io,  invece,  nelle  mie  Meditazioni,  ho  seguito  la  sola  analisi,  che  per  insegnare  è  la  via  vera  e  la  migliore;  ma,  quanto  alla  sintesi,  che  senza  dubbio  è  quella  che  voi  qui  mi  chiedete,  sebbene  nelle  cose  geometriche  sia  assai  opportuno  porla  dopo  l’analisi,  essa  non  può  tuttavia  venire  applicata  altrettanto   facilmente  alle   cose  metafisiche.   Infatti,   c’è  questa  differenza:   le  nozioni   prime   presupposte   alle   dimostrazioni   delle   cose   geometriche   sono   ammesse  facilmente   da   tutti,   in   quanto   si   accordano   con   l’uso   dei   sensi.   E,   perciò,   lì   non   c’è   alcuna  difficoltà,   se   non  nel   dedurre  per   bene   le   conseguenze;   cosa   che  possono   fare   tutti,   anche   i  meno  attenti,  a  patto  soltanto  che  si  ricordino  di  quel  che  precede;  e  a  tale  scopo  è  approntata  una   minuziosa   distinzione   fra   le   proposizioni,   affinché   queste   possano   essere   facilmente  richiamate  e,  in  tal  modo,  riportate  alla  memoria  anche  in  chi  non  vuole.  Al  contrario,  invece,  qui,   nelle   cose   metafisiche,   nulla   richiede   più   impegno   del   percepire   chiaramente   e  distintamente  le  prime  nozioni»  (R.  Descartes,  Meditazioni  Metafisiche,  II  Risposte,  B  Op  I  885-­‐887).  

 L’uomo  come  parte  della  natura  e  la  sostanza  (Ethica,  I)  

La   condizione   esistenziale   dell’uomo,   la   sua   specifica   limitatezza,   e   quindi   il   suo   essere  soggetto  alle  passioni,  per  Spinoza  è,  in  primo  luogo  una  condizione  ontologica,  vale  a  dire  una  condizione   che   deriva   dalla   specifica   natura   dell’essere   umano,   il   quale   non   è   l’infinita  sostanza  o  natura,  ma   solo  un  modo  di   questa,   una  parte   finita   tra   un’infinità   di   altre  parti  finite.  Questa  sua  condizione  di  finitudine  è  la  chiave  di  tutta  la  ricerca  etica  spinoziana  ed  il  motivo   stesso   per   il   quale   egli   è   continuamente   in   cerca   di   una   condizione   di   stabilità  esistenziale  ed  il  motivo  per  il  quale  la  desidera.  Le   Proposizioni   II   e   IV   della   IV   parte   dell’Etica   dichiarano   la   finitezza   dell’uomo   ed   il   suo  essere  parte  della  natura  in  maniera  inequivocabile:  è  nel  primo  libro  che  Spinoza  definisce  la  struttura  della  sostanza  e  le  sue  articolazioni  interne,  tra  le  quali,  l’uomo  che  è  un  modo  finito  perché  è  costituito  da  un  corpo  e  da  una  mente  singolari.    Per  comprendere  tutto  questo  dobbiamo  rifarci  alle  definizioni  del  I   libro  dell’Etica,   laddove  Spinoza   definisce   la   sostanza   (definizione   III),   gli   attributi   (definizione   IV),   e   i   modi  (definizione  V).  La  sostanza  è  l’assolutamente  infinito  e  si  esprime  mediante  infiniti  attributi,  ognuno  dei  quali  è   infinito  nel  suo  genere:  dagli  attributi  discendono  i  modi   infiniti,  dai  quali  poi  dipendono  i  modi   finiti.   Questa   articolazione   fa   in   modo   che   Spinoza   divida   la   natura   in   una   natura  naturans  e  in  una  natura  naturata:  alla  prima  appartengono  sostanza  e  attributi,  alla  seconda  modi  infiniti  e  modi  finiti.  (Eth.  I,  pr.  XXIX,  Schol.).    Quindi:  l’essere  è  unico,  infinito  ed  indivisibile  ed  è  chiamato  sostanza.  La  sostanza  è  causa  di  se  stessa,  quindi  causa  prima  e  non  può  essere  generata  da  altro  (Eth.  I,  def.  3).  La  sostanza  si  esprime  in  infiniti  attributi  ognuno  dei  quali  è  infinito:  anche  questi  sono  in  sé,  vale  a  dire  non  

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dipendono  da  altro  e  non  sono  causati  da  altro  che  da  se  stessi.  Sostanza  e  attributi    fondano  e  sorreggono   i  modi   infiniti   e   finiti   che   sono   in  alio;   infatti   essi   hanno   bisogno   di   sostanza   e  attributi  nei  quali  si  trova  il  loro  fondamento.  Alcune  considerazioni:  il  Dio  di  Spinoza  non  è  il  Dio  delle  religioni  rivelate,  è  piuttosto  il  Dio-­‐Sostanza,   la   necessaria   universalità   costituita   dalle   leggi   immutabili   che   regolano   i   rapporti  eterni  di  causa-­‐effetto.   In  questo  si  esprime  la  critica  all’antropomorfismo  e  al   finalismo  che  costituisce  una  delle  maggiori  radicalità  del  pensiero  spinoziano  e  che  ha  anche  una  valenza  fortemente  etica.  Tutto  ciò  è  espresso  nell’Appendice  al  primo  Libro:  «tutti  gli  uomini  nascono  ignari  delle  cause  delle  cose,  mentre  tutti  appetiscono  la  ricerca  del  proprio  utile,  cosa  della  quale  sono  consapevoli.  [...]  gli  uomini  fanno  tutto  in  vista  di  un  fine,  è  cioè  in  vista  dell’utile  che  appetiscono;  per  cui  avviene  che  aspirano  a  conoscere  soltanto  le  cause  finali  delle  cose  e  che   si   acquietano   appena   le   hanno   apprese   [...];   è   accaduto   che   considerano   tutte   le   cose  naturali   come  mezzi   per   raggiungere   il   proprio   utile;   e   poiché   sanno   di   avere   trovato   quei  mezzi,  ma  non  di  averli  essi  stessi  predisposti,  hanno  avuto  motivo  di  credere  che  sia  stato  un  altro  a  predisporre  quei  mezzi  per  il  loro  uso.  Infatti,  poiché  avevano  considerato  le  cose  come  mezzi,  non  hanno  potuto  credere  di  averle   fatte  essi  stessi;  ma  in  analogia  ai  mezzi  che  essi  sono  soliti  procurare  a  se  stessi,  hanno  dovuto  concludere  che  esistono  uno  o  alcuni   rettori  della  natura,   forniti  di   libertà  umana,  che  hanno  curato  ogni  cosa  per   loro  e  che  hanno  fatto  ogni  cosa  per  il  loto  uso;  [...]  Per  cui  avvenne  che  ciascuno,  a  seconda  della  propria  indole,  ha  escogitato   diversi  modi   di   onorare  Dio,   affinché  Dio   lo   prediligesse   al   di   sopra   degli   altri   e  dirigesse  tutta  la  natura  a  vantaggio  della  sua  cieca  cupidità  e  della  sua  insaziabile  avidità.  [...]  Per  mostrare  adesso  d’altra  parte  che   la  natura  non  ha  alcun  fine  prestabilito,  e  che  tutte   le  cause  finali  non  sono  altro  che  umane  finzioni,  non  occorre  molto»    

L’uomo:  mente  e  corpo  (Ethica,  II)  L’uomo  è  una  parte  della  natura,  della  Sostanza,  di  Dio,  di  cui  Spinoza  ha  trattato  nel  primo  libro   dell’Etica,   dal   quale   si   apprende   che   la   Sostanza   è   unica,   infinita,   in   essa   essenza   e  esistenza  coincidono,  che  quindi  da  essa  seguono  infinite  cose  in  infinti  modi,  che  agisce  per  le  sole  leggi  della  sua  natura  e  non  costretta  da  alcunché,  che  è  causa  immanente,  che  è  eterna,  che   l’essenza  delle  cose  prodotte  da  essa  non   implica   l’esistenza,  che   le  cose  non  avrebbero  potuto  essere  prodotte  in  altro  modo  dalla  Sostanza,  quindi  in  Dio  non  si  dà  volontà  libera,  o,  meglio,  libero  arbitrio.  Cos’è  l’uomo  all’interno  di  quest’infinità?  Si  tratta  di  scoprire  quale  è  l’origine  della  sua  mente.  Il   problema   dell’origine   della   mente   è   fondamentale   per   poter   comprendere   come   si  determinano   le   affezioni   delle   cose   e   le   idee   di   queste   affezioni   dalle   quali   poi   sorgono   gli  affetti  e  le  passioni.      Il  problema  dell’origine  della  mente  è  discusso  da  Spinoza  nel  II  libro  dell’Etica  si  apre  con  7  definizioni  e  5  assiomi;  nelle  definizioni  vengono  fissati  i  concetti  di  corpo,  essenza,  idea,  l’idea  adeguata,  durata,  realtà  e  cose  singolari,  mentre  gli  assiomi  hanno  ad  oggetto  l’uomo.  Quindi  le  prime  9  proposizioni  di  Eth.   II,   passano  a  dimostrare   come  pensiero  ed  estensione   siano  attributi  di  Dio  e  sono  gli  unici  due  attributi  che  l’uomo  può  conoscere,  ma  perché?  La  risposta  è  semplice:  l’uomo  ha  un  corpo  ed  una  mente  e,  dunque,  ha  il  suo  fondamento  negli  attributi  infiniti  del  pensiero  e  dell’estensione.    Dalla  pr.  11  alla  pr.  13  di  Eth.   II,   Spinoza  definisce   la  mente  come   idea  del   corpo:   in  questo  modo   non   solo   Spinoza   spiega   le   affezioni   degli   oggetti   sul   corpo   (l’azione   che   gli   oggetti  esercitano  sui  nostri  sensi),  ma  anche  le  idee  che  l’uomo  si  fa  di  queste  affezioni.  Ancora  una  volta  è  palese  l’anticartesianesimo  di  Spinoza,  il  quale  critica  aspramente  la  concezione  della  ghiandola  pineale,   con   la  quale  Cartesio  aveva   tentato  di   spiegare   l’unione  dell’anima  con   il  corpo  (si  veda  la  prefazione  alla  parte  V  dell’Etica).    

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 Rapporto  mente-­‐corpo  (Ethica,  II,  Proposizione  13,  Corollario)  

Spinoza   sostiene   che   la   mente   è   l’idea   del   corpo   e   nel   Corollario   della   pr.   XIII   del   II   libro  dell’Etica  è  scritto:  “Ne  segue  che  l’uomo  consta  di  mente  e  di  corpo  e  che  il  Corpo  umano,  in  quanto   lo   sentiamo,   esiste”.   Per   comprendere   quanto   affermato   da   Spinoza   è   necessario  considerare  la  dottrina  del  parallelismo  degli  attributi  (Etica  II,  pr.  7:  “l’ordine  e  la  connessione  delle   idee  è   lo  stesso  che   l’ordine  e   la  connessione  delle  cose).  Questa   teoria  è  ben  espressa  dallo  scolio  della  stessa  pr.  7  in  cui  si  legge  che  pensiero  ed  estensione  sono  la  stessa  sostanza  che  si  esprime  ora  sotto  questo,  ora  sotto  quell’attributo.  Grazie  al  parallelismo  degli  attributi  si  crea  un’intima  connessione  tra  le  cose  estese  e  le  idee  di  queste  cose.  Se  riferiamo  la  teoria  del  parallelismo  degli  attributi  al  rapporto  mente  corpo  avremo  che  nulla  accade  nel  corpo  di  cui  nella  mente  umana  non  si  dia  la  corrispondente  modificazione.  Spinoza  affermando  che  in  quanto  sentiamo  il  corpo  umano,  esso  esiste,   intende  sostenere  che  in  quanto  percepiamo  il  nostro   corpo   mediante   impressioni   e   sensazioni   (caldo,   freddo,   ma   anche   dolore,   piacere,  pressione   che   altri   corpi   esercitano   sul   nostro)   abbiamo   le   idee   di   queste   sensazioni   ed  impressioni.    Solo  la  giusta  conoscenza  può  trasformare  in  conoscenze  adeguate  le  idee  delle  affezioni   e   delle   impressioni   che   sorgono   nella   mente   in   quanto   idea   del   corpo.   Questo   il  motivo  per  il  quale  tra  la  pr.  XIII  e  la  XIV  del  II   libro  dell’Etica,  Spinoza  introduce  un  piccolo  trattatello   di   fisica   dei   corpi   che   si   conclude   con   6   postulati   che   riguardano   in   maniera  specifica   le   peculiarità   del   corpo   umano:   così   come   il   corpo   umano   è   composto   da   molti  elementi  e  sta  in  rapporto,  nella  complessità  che  gli  è  specifica,  con  tutti  gli  altri  corpi  esterni,  così   anche   la   mente   può   avere   idee   di   grande   complessità   che   altro   non   sono   se   non   il  corrispettivo  ideale,  del  pensiero,  delle  modificazioni  del  corpo.  Il  corpo  umano,  per  Spinoza,  esprime  la  sua  complessità  per  la  ricchezza  di  relazioni  che  può  intrattenere  con  l’ambiente  circostante.  Proprio   questa   dinamica   e   complessa   relazione   del   corpo   umano   con   altri   corpi   e   con  l’ambiente,   relazione  di  cui   la  mente  conserva  memoria,  causa   il  problema  del  conoscere:   la  mente,  infatti,  non  solo  “percepisce”  le  affezioni  del  corpo,  ma  si  forma  anche  le  idee  di  queste  affezioni  (Eth.  II,  pr.  XXII):  questo  significa  che  in  relazione  alle  affezioni  del  corpo,   la  mente  umana   si   forma   anche   delle   conoscenze.   Ecco   il   punto   centrale   dell’etica   spinoziana:   le  affezioni   corporee,   e   le   idee   di   queste   affezioni,   se   non   vengono   inserite   in   un   quadro  conoscitivo  che  le  fonda  razionalmente  agiscono  in  maniera  disordinata  e  frammentaria  sulla  mente  dell’uomo,  causando  conoscenze  inadeguate.    Questo  il  motivo  per  il  quale  divengono  fondamentali  i  diversi  modi  di  conoscere  dell’essere  umano:   essi   devono   essere   passati   in   rassegna   da   Spinoza   per   poi   poter   scegliere   quello  capace  di  procurare,  mediante  la  conoscenza  più  certa,  la  beatitudo  che  caratterizza  la  vita  del  saggio.    

La  teoria  della  conoscenza  Spinoza   in   Eth.   II,   pr.   40,   scolio   II,   elenca   3   generi   di   conoscenza:   la   conoscenza   di   primo  genere,  o  immaginazione  (opinio  vel  imaginatio),  la  conoscenza  di  secondo  genere  o  ratio  e  la  conoscenza   di   terzo   genere   o   scientia   intuitiva.   Passiamo   ora   in   rassegna   questi   modi   del  conoscere  e  cerchiamo  di  esplicitarne  gli  effetti.  Immaginazione    1)   Immaginazione:   l’immaginazione  è  un  genere  di   conoscenza  che  Spinoza  specifica   in  due  ulteriori  modalità:  la  conoscenza  per  esperienza  vaga,  che  sorge  quando  l’uomo  si  rappresenta  singolarmente  ciò  che  i  sensi  gli  fanno  conoscere  in  maniera  mutila  e  confusa,  e  la  conoscenza  per   segni  o  per   sentito  dire,   la   quale   consiste   nell’assolutizzare   ed   accettare   per   vere   quelle  nozioni  che  provengono  da  segni  (scrittura  o  simboli)  o  da  ciò  che  viene  detto  o  tramandato  

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da  altri.  Va  detto  che  per  Spinoza  la  conoscenza  immaginativa  è  l’unica  causa  d’errore  (Eth.  II,  pr.  41)  e  che  l’errore  o  la  falsità  consistono  in  una  privazione  di  conoscenza  causata  da  idee  inadeguate,  parziali,  incomplete  (Eth.  II,  pr.  XXXV).    Ma   cosa   accade   all’uomo   che   si   affida   all’immaginazione?   In   primo   luogo   l’uomo   immagina  perché  ha  un  corpo  ed  è  mediante  il  corpo  che  la  mente  percepisce  le  affezioni  delle  cose  (Eth.  II,   pr.   17,   schol):   il   problema   dell’errore   non   sta   nell’affezione   in   quanto   tale,   o   nella  conoscenza  sensibile  e  frammentaria,  ma  nell’assenso  acritico  che  l’uomo  dà  a  questo  genere  di  conoscenza.  Facciamo  un  esempio  per  l’esperienza  vaga  ed  uno  per  la  conoscenza  per  segni  e  sentito  dire:  a)   esperienza   vaga   (quella   che   si   fonda   sulla   conoscenza   che   deriva   dai   sensi   e   dalle  impressioni  corporee):  esempio  del  legnetto  nell’acqua  acqua  che  appare  spezzato.  Non  sono  i  sensi  ad  ingannarci,  piuttosto  l’inganno  deriva  dall’ignoranza  delle  vere  cause  che  provocano  quel  fenomeno  di  ottica  per  cui  il  legnetto  ci  sembra  spezzato.    b)   esperienza   per   segni   e   sentito   dire:   l’uomo   che   si   affida   al   sentito   dire   conosce   in  modo  simile  a  quello  che  si  affida  all’esperienza  vaga,  ma  questa  volta   l’assolutizzazione  concerne  ciò  che  è  tramandato  o  scritto,  oppure  ogni  forma  di  segno.  Esempio  del  modello  astronomico  aristotelico-­‐tolemaico   (geocentrico)   tramandato   come   indiscutibile   e   adottato   dalla   Chiesa,  fino  a  quando  Copernico,  Galileo,  Keplero  e  Newton  non  scoprirono  le  leggi,  gli  strumenti  ed  i  rapporti  tra  i  pianeti  e  gli  astri.    Ma  in  che  modo  e  perché  l’immaginazione,  è  fonte  delle  cattive  passioni?  Per  comprendere  il  motivo  del  legame  tra  l’immaginazione  e  le  passioni  è  necessario  far  riferimento  al  III  e  al  IV  libro  dell’Etica,  quello  sulla  natura  e  l’origine  degli  affetti  e  quello  sulla  schiavitù  umana.  La  pr.  7   del   III   libro   afferma:   “Le   azioni   della   Mente   hanno   origine   dalle   sole   idee   adeguate,   le  passioni  dalle  sole  idee  inadeguate”.    Il  III  libro  dell’Etica  fa  derivare  tutte  la  passioni  da  tre  affetti  fondamentali:  la  gioia,  la  tristezza  e   la   cupidità   (Eth.   III,   pr.   11,   scho.):   così,   per   fare   un   esempio,   l’affetto   della   gioia   unito  simultaneamente  all’idea  della  mente  e  del  corpo  origina   l’eccitazione  piacevole,  quello  della  tristezza,  invece,  Dolore  o  Melanconia.  Nello  stesso  modo  sono  definiti  l’amore  e  l’odio  (Eth.III,  pr.  30,  schol.):  ’amore  è  Gioia  concomitante  con  l’idea  di  una  causa  esterna,  e  l’odio  è  tristezza  anch’essa  concomitante  con  l’idea  di  una  causa  esterna).      2)  Ratio.  La  ratio,  tenendo  sempre  presente  lo  Scolio  II  di  Eth.  II,  pr.  40,  è  quel  genere  di  conoscenza  che  conosce   mediante   le   notiones   communes,   ossia   ciò   che   è   comune   a   più   cose.   Per   “nozioni  comuni”   Spinoza   intende   l’attributo   dell’estensione   con   i   suoi   modi   infiniti   (la   quiete   ed   il  moto)   e   l’attributo   del   pensiero   con   il   suo   modo   infinito,   l’intelletto.   Per   nozioni   comuni  possono  anche  intendersi  (è  lo  stesso  Spinoza  a  farlo  in  Eth.  I,  pr.  VIII,  Schol.  II)  i  postulati  e  gli  assiomi   della   geometria:   il   comune   sarebbe   la   validità   universale   dei   postulati   euclidei.   I  postulati  e  gli  assiomi,  infatti,  non  enunciano  mai  verità  particolari,  ma  sempre  universali,  ed  inoltre   non   sono   derivati   dall’esperienza,   ma   sono   certi   ed   evidenti   per   sé.   E’   questa   la  conoscenza  che  conduce  alla  beatitudine?  Dalla  pr.  41  alla  pr.  44  di  Eth.   II,  Spinoza  sostiene  che   l’immaginazione   è   l’unica   causa   di   falsità,   mentre   la   ratio   e   la   scienza   intuitiva   sono  sempre  vere.  Inoltre  egli  sostiene  che  la  ratio  conosce  le  cose  sotto  una  certe  specie  di  eternità.      3)  Scienza  intuitiva  La   scienza   intuitiva   è   immediata   conoscenza   delle   cose   in   Dio,   nella   loro   eterna   e   viva  necessità.  Quindi  non  si   tratta  di   conoscere   la  validità  universale  e  necessaria  di  postulati  e  assiomi,   ma   piuttosto   di   un   guardare   intellettuale   dentro   la   sostanza   per   cogliere   i   legami  causa-­‐effetto   che   si   fondano   nella   stessa   struttura   sostanziale   (per   la   def.   della   Scienza  

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Intuitiva,   si   torni  a  Eth.   II,  pr.  40,  Schol.   II  e  si   legga   il  V   libro  dell'Etica,  dalla  pr.  24   in  poi).  Nella  scienza   intuitiva  permane   l’idea  del  corpo.  La  pr.  XXX  di  Eth.  V   lega  scienza   intuitiva  e  idea  del  corpo  che  è  colto  nel  suo  rapporto  eterno  con  l’attributo  dell’estensione.  Il  fatto  che  la  scienza   intuitiva   si   relazioni   all’idea   del   corpo   indica   che   Spinoza   non   rinuncia   all’aspetto  affettivo  umano,  ma  anzi   lo  recupera  nel  genere  sommo  di  conoscenza:  per  provare   l’amore  che  unisce  l’uomo  a  Dio,  l’uomo  ha  bisogno  della  corporeità.  Solo  recuperando  il  corpo,  quella  corporeità   che   manca   alla   conoscenza   di   secondo   genere   (la   ratio),   “sentiamo   e  sperimentiamo   di   essere   eterni”.   Scrive   Spinoza   in   Eth.   V,   pr.   22,   schol:   “Tuttavia,   però,  sentiamo   e   sperimentiamo   di   essere   eterni.   Sebbene,   dunque,   non   ci   ricordiamo   di   essere  esistiti  prima  del   corpo,   sentiamo,   tuttavia,   che   la  nostra  mente,   in  quanto   implica   l’essenza  del  corpo  sotto  una  certa  specie  di  eternità,  è  eterna[...]”.  Allora  la  scienza  intuitiva  libera  dalle  passioni  perché  genera   l’amore   intellettuale  di  Dio,  del  quale  Spinoza  comincia  a  parlare  da  Eth.  V,  pr.  XXXII,   schol.   in  poi,   e   che  consiste   in  un  affetto   che  Spinoza  definisce   come  Gioia  accompagnata  dall’idea  di  Dio  come  causa.  Proprio  quando  l’uomo  con  la  scienza  intuitiva  si  riconosce   come   parte   della   totalità,   ritrova   il   fondamento,   la   causa   che   lo   ha   generato.   Le  passioni  allora  per  Spinoza  non  possono  essere  represse,  ma  solo  superate  o  canalizzate  da  affetti  più  potenti:  l’affetto  più  grande,  la  somma  virtù  della  mente,  consiste  nell’amare  Dio  ed  è   nel   conoscerlo   e   nell’amarlo   mediante   la   scienza   intuitiva   che   l’uomo   può   arginare   e  comprendere  le  passioni.  La  conoscenza  è  allora  veicolo  della  beatitudine:  “La  beatitudine  non  è   premio   alla   virtù,  ma   la   virtù   stessa;   e   noi   non   ne   godiamo   perché   reprimiamo   le   nostre  voglie;  ma,  viceversa,  perché  ne  godiamo,  possiamo  reprimere  le  nostre  voglie”  (Eth.  V,  pr.42).      

Ethica,  III    Dopo  aver  analizzato  come  la  mente  conosce,  Spinoza  analizza  la  sfera  dell’emotività  umana.  Nella  Prefazione  Spinoza  afferma  che  tutte   le  passioni  possono  essere  ricondotte  alla  spinta,  propria  di  ogni  uomo,  all’autoconservazione,  dunque  all’egoismo.  La  Prefazione  serve  dunque  a   prendere   le   distanze   da   tutti   coloro   che   “piangono,   deridono,   disprezzano   o   detestano   le  passioni,  che  ritengono  essere  un  vizio  della  natura  umana”.  Spinoza,  invece,  intende  mostrare  che  l’affettività  umana  segue  dalle  leggi  della  natura  come  qualunque  altro  evento.    Dunque  il  carattere  irrazionale  delle  passioni  non  impedisce  che  possano  essere  fatte  oggetto  di  studio  scientifico.    In  questo  senso,   come  vedremo,  Spinoza  si  distaccherà  notevolmente  dalla   lunga   tradizione  che  lo  ha  preceduto  che  ha  visto  nelle  passioni  (o,  almeno,   in  alcune  di  esse)  il  segno  di  una  natura  decaduta  e  corrotta  dalla  quale  l’uomo  deve  rigenerarsi.    Per  Spinoza  tutto  segue  necessariamente  in  natura,  in  natura  non  si  dà  male  o  bene  (come  del  resto  era  già  apparso  chiaro  dall’Appendice  alla  I  parte).      Da  questo  punto  di  vista  Spinoza  sembrerebbe  allinearsi  alla  posizione  di  Descartes  che  nelle  Passioni  dell’Anima   aveva   inteso   trattare   le  passioni  non  da  oratore  o  da   filosofo  morale  ma  semplicemente   da   fisico   e   aveva   liquidato   come   insufficienti   le   posizioni   degli   antichi  relativamente  alle  passioni  (I,  art.  I).  Spinoza,  tuttavia,  riprendendo  la  critica  cartesiana  agli  antichi,  finisce  per  includere  lo  stesso  Descartes   nel   suo   giudizio   negativo.   Infatti,   dopo  un   generico   riconoscimento   ad   autori   che  hanno   scritto   cose   molto   giuste   sul   corretto   modo   di   vivere   pur   non   essendo   riusciti   a  descrivere   la   natura   e   la   forza   degli   affetti,   Spinoza   prosegue   con   un   attacco   a   Descartes,  colpevole  di  aver  rovinato   la  propria  analisi  degli  affetti  con  una   ingegnosa  ma   implausibile  ipotesi  su  come  la  mente  possa  ottenere  un  dominio  pieno  sull’emotività:    

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“So   bensì   che   il   celeberrimo   Cartesio,   benché   abbia   egli   pure   creduto   che   la   mente   ha   un  potere  assoluto  sulle  azioni,  ha  cercato,  tuttavia,  di  spiegare  gli  affetti  umani  mediante  le  loro  cause   prime,   e,   insieme,   di   mostrare   la   via   per   la   quale   la   mente   può   avere   un   dominio  assoluto   sugli   affetti;   ma,   almeno   secondo   la   mia   opinione,   non   ha   mostrato   altro   se   non  l’acume  del  suo  grande  ingegno,  come  dimostrerò  a  suo  luogo”  (Ethica,  III,  Prefazione).    In  effetti  la  critica  a  Descartes  non  appare  pertinente  a  questo  livello  dell’Ethica  dal  momento  che  scopo  di  questa  III  parte  è  solo  analizzare  gli  affetti  senza  occuparsi  ancora  del  dominio  che  su  di  essi  è  possibile  raggiungere.    La  III  parte  dell’Ethica  presenta  anch’essa  un’esposizione  more  geometrico  e  si  conclude  con  un’Appendice   in   cui   tutto   quanto   è   stato   dedotto   nel   corso   delle   dimostrazioni   precedenti  viene  sistemato  “con  ordine”.  L’Appendice  ha  per  titolo  Definizione  degli  affetti”  e  qui,   infatti,  gli  affetti  vengono  definiti  uno  per  uno  (sono  in  tutto  48)  e  non  dedotti  dai  loro  fondamenti  e  Spinoza  coglie  l’occasione  per  aggiungere  alcune  osservazioni  sulle  caratteristiche  di  alcuni  di  essi.  Ma  prima  di  vedere  questi  affetti  (di  cui,  per  ovvie  ragioni,  ci  limiteremo  ad  esaminarne  solo  i  principali)  è  necessario  procedere  con  ordine.  L’analisi  degli  affetti  si  apre  con  2  definizioni:  

-­‐ Nella   prima   Spinoza   definisce   la   causa   adeguata.   Causa   adeguata   è   quella   causa   per  mezzo   della   quale   l’effetto   può   essere   concepito   chiaramente   e   distintamente;   causa  inadeguata   è   il   suo   opposto:   “Chiamo   causa   adeguata   quella   il   cui   effetto   può   essere  percepito   chiaramente   e   distintamente   per   mezzo   di   essa.   Chiamo,   invece,   causa  inadeguata,   o   parziale,   quella   il   cui   effetto   non   può   essere   inteso   per  mezzo   di   essa  soltanto”  .  

-­‐ Nella   seconda   Spinoza   aggiunge   che   “agiamo   quando   accade   in   noi   o   fuori   di   noi  qualche   cosa   della   quale   noi   siamo   la   causa   adeguata,   cioè   (per   D1)   quando   dalla  nostra   natura   segue   in   noi   o   fuori   di   noi   qualche   cosa   che   può   essere   intesa  chiaramente   e   distintamente   solo   per  mezzo   di   essa.   Dico,   invece,   che   siamo   passivi  quando  in  noi  accade  qualche  cosa,  o  quando  dalla  nostra  natura  segue  in  noi  o  fuori  di  noi  qualche  cosa  della  quale  noi  non  siamo  se  non  una  causa  parziale”  .  

Come   è   possibile   tutto   questo?   L’uomo  può   essere   causa   adeguata   di   qualche   cosa?   Se   cosi  fosse,  l’uomo  nelle  sue  azioni  potrebbe  essere  libero  come  lo  è  Dio,  che  non  è  determinato  da  altro   ad   agire.  Ma  nella   I   parte   abbiamo   visto   che   l’uomo,  modo   finito   dell’estensione   e   del  pensiero,   è   sempre   determinato   da   altri   modi   finiti   ad   agire   e   che   solo   Dio   è   causa   libera  (Ethica,  I,  prop.  17,  coroll.  2).  Segue   poi   la   definizione   di   affetto:   “Intendo   per   affetto   le   affezioni   del   corpo,   dalle   quali   la  potenza  d’agire  del  corpo  stesso  è  accresciuta  o  diminuita,  assecondata  o  impedita,  e  insieme  le   idee   di   queste   affezioni”.   Aggiunge   poi   Spinoza:   “Se   noi   dunque   possiamo   essere   causa  adeguata   di   queste   affezioni,   allora   per   affetto   intendo   un’azione;   altrimenti   intendo   una  passione”  .  Spinoza  si  chiede  appunto  “se  possiamo  essere”,  ma  possiamo  esserlo?  Per  dare  una  risposta  esaustiva  a  questa  domanda,  Spinoza  avrà  bisogno  di  tutta  la  parte  IV  e  V  dell’Ethica.  Per  il  momento  rivolgiamo  la  nostra  attenzione  alla  scelta  terminologica  fatta  da  Spinoza:  di  passioni   si   parlerà   solo  nel   caso   in   cui   la   nostra  mente  non   sia   causa   adeguata   e   si   parlerà  genericamente  di  affetti,  comprendendo  in  questa  categoria  più  ampia  sia   le  emozioni  di  cui  siamo  causa  adeguata  sia  quelle  di  cui  siamo  causa  inadeguata.  In  ogni  caso  il  motivo  per  cui  Spinoza  decide  di  parlare  di   affetti   e  non  di  passioni   è  dato  dalla  possibilità  di   essere  attivi  nella  vita  emotiva.  Quindi,  poiché  la  passione  indica  passività,  questo  nome  sarà  riservato  agli  affetti   la   cui   causa   è   esterna   alla   nostra  mente   e   che   la  mente   subisce.   Del   resto   lo   stesso  

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Descartes   aveva   commentato   nello   stesso   modo   il   termine   passione   all’inizio   del   trattato  (Passioni,   I,   art.   I:   “E,   per   cominciare,   considero   che   tutto   quello   che   di   nuovo   si   produce   o  accade  è   in  genere  chiamato  dai   filosofi  una  passione  rispetto  al   soggetto  al  quale  accade,  e  un’azione  rispetto  a  colui  che  fa  in  modo  che  accada.  In  tal  modo,  benché  l’agente  e  il  paziente  siano   spesso   molto   differenti,   l’azione   e   la   passione   non   cessano   di   essere   sempre   una  medesima  cosa,  che  ha  questi  due  nomi,  in  ragione  dei  due  diversi  soggetti  ai  quali  è  possibile  riferirla).    Se  Spinoza  è  riuscito  a  dimostrare  che  la  mente  può  raggiungere  idee  adeguate,  la  possibilità  di  produrre  azioni  di  cui  la  mente  stessa  è  causa  adeguata,  ne  deriva  necessariamente.    Il  collegamento  fra  causalità  adeguata  e  possesso  di  idee  adeguate  è  esplicito  sin  dalla  prima  proposizione  secondo  la  quale  la  mente  è  attiva  quando  ha  idee  adeguate  e  passiva  quando  ha  idee  inadeguate:  “La  nostra  mente  è  attiva  in  certe  cose,  e  passiva  in  altre;  cioè  in  quanto  ha  idee   adeguate   è   necessariamente   attiva   in   certe   cose,   e   in   quanto   ha   idee   inadeguate   è  necessariamente  passiva  in  certe  cose”  .  La  dimostrazione  si  fonda  su  quel  che  già  sapevamo  a  proposito  delle  idee  adeguate:  quando  la   mente   ha   un’idea   adeguata,   ha   la   stessa   idea   che   è   adeguata   in   Dio   e   che   dunque   non  dipende  da  altre  idee  per  essere  adeguata;  la  causa  della  sua  adeguatezza  è  nell’idea  stessa  e  non  in  altro.  Da  ogni  idea  adeguata,  poi,  seguono  delle  conseguenze  (come,  per  esempio,  dalla  definizione  adeguata  di  cerchio  seguono  le  sue  proprietà).  La  mente,  dunque,  può  essere  causa  adeguata   in   quanto   ha   idee   adeguate   (e,   di   fatto,   come   visto,   può   averne).   La   mente   sarà  passiva  in  quanto  avrà  idee  inadeguate,  ossia  in  quanto  le  sue  idee  sono  adeguate  in  Dio  solo  perché  nella  mente  infinita  si  trovano  idee  che  la  mente  finita  non  possiede.    Come   viene   ribadito   nello   scolio   alla   proposizione   3   (che   afferma:   “Le   azioni   della   mente  nascono  solo  da  idee  adeguate;  le  passioni  invece  dipendono  soltanto  da  idee  inadeguate”)  la  mente  prova  passioni  solo  in  quanto  si  considera  come  parte  della  natura  che  per  se,  senza  le  altre  parti,  non  può  essere  percepita  chiaramente  e  distintamente.  Quindi  quel  che  si  era  visto  nella  II  parte  a  proposito  del  rapporto  tra  la  mente  umana  e  la  mente  divina  per  individuare  la  presenza   o   meno   di   idee   adeguate   nella   mente   finita,   è   interamente   trasposto   sul   piano  dell’azione:  la  mente  agisce  quando  essa  è  sufficiente  a  spiegare  ciò  che  segue  dalle  sue  idee,  mentre  subisce  l’azione  della  cause  esterne  quando,  per  avere  conoscenza  adeguata  dei  suoi  pensieri,  e  necessario  conoscere  le  altre  parti  della  natura.    I  postulati  e   l’ampio  scolio  della   II  proposizione  di  cui  abbiamo  già  parlato  quando  abbiamo  fatto  riferimento  al  parallelismo  hanno  una  estrema   importanza  per  ricordare  che  gli  affetti  sono  nella  mente  quel  che  nel  corpo  sono  le  modificazioni  fisiche  e  cerebrali.  Anzi,  come  detto,  la  trattazione  più  ampia  del  parallelismo  avviene  proprio  in  questo  scolio.  È  la  conoscenza,  la  sua   frammentarietà   o   la   sua   completezza,   a   determinare   il   potere   delle   passioni   sulla   vita  dell’uomo  e  l’immaginazione,  in  quando  produce  conoscenza  parcellare,  non  è  mai  foriera  di  stabilità  esistenziale  perché  le  conoscenze  che  da  essa  derivano,  mutano  di  continuo  e  senza  regola,  in  maniera  del  tutto  occasionale,  a  seconda  delle  affezioni  del  corpo,  delle  immagini  e  delle  idee  di  queste  affezioni.      La   III   parte   dell’Etica   fa   derivare   tutte   la   passioni   da   tre   affetti   fondamentali:   la   gioia,   la  tristezza  e  la  cupidità.  Ma  procediamo  con  ordine  e  vediamo  adesso  le  proposizioni  dalla  4  alla  13  (che  trattano  del  conatus   e   degli   affetti   primitivi   che,   come   accennato,   Spinoza   riduce   a   3:   gioia,   tristezza,  cupidità).  Spinoza   afferma   che   ciascun   ente   tende   alla   propria   autoconservazione   dunque   la   sua  distruzione   può   provenire   soltanto   da   una   causa   esterna.   Si   tratta,   come   è   evidente,   del  

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principio   di   inerzia,   secondo   il   quale   ogni   ente   permane   nel   proprio   stato   finche   questa  condizione   non   viene   modificata   da   un   agente   esterno.   Negli   individui,   dunque,   questa  tendenza   all’autoconservazione   (dunque   alla   conservazione   del   proprio   stato)   si   esprime  attraverso   la   resistenza   che   essi   oppongono   alle   modificazioni   che   vengono   imposte  dall’esterno.  Questa   tendenza  all’autoconservazione  viene  chiamata  da  Spinoza  conatus  ed  è  qualcosa  di  intrinseco  alle  cose  stesse  o,  meglio,  coincide  con  la  loro  stessa  natura:  infatti  non  esiste  alcuna  cosa  che,  per  sua  natura,  non  opponga  resistenza  alla  propria  dissoluzione,  cosi  come  leggiamo  nella  proposizione  4  e  nella  proposizione  8:  Proposizione  4:  “Nessuna  cosa  può  essere  distrutta  se  non  da  una  causa  esterna”.  Proposizione  8:  “Lo  sforzo,  col  quale  ciascuna  cosa  si  sforza  di  perseverare  nel  suo  essere,  non  implica  alcun  tempo  finito,  ma  un  tempo  indefinito”.  Il  conatus   dunque  è   l’impulso   che   spinge  alle   azioni  nelle  quali   si   esprime   la  natura  di   ogni  individuo.   Esso   è   presente   anche   nella   mente   e   questo   perché   anche   la   mente   è   una   cosa  singolare   e   quindi   tende   a   conservarsi   sia   che   abbia   idee   adeguate,   sia   che   abbia   idee  inadeguate.   Lo   sforzo   di   autoconservarsi,   nella   mente   considerata   in   se   sola,   è   ciò   che   si  chiama  volontà;  se  riferito  alla  mente  e  al  corpo  è  ciò  che  si  chiama  appetito  e  poiché  l’uomo  è  sia  mente  che  corpo,  l’appetito  “non  è    altro  che  la  stessa  essenza  dell’uomo,  dalla  cui  natura  seguono   necessariamente   le   cose   che   servono   alla   sua   conservazione;   e   perciò   l’uomo   è    determinato  a  fare  tali  cose”;  infine  la  consapevolezza  di  questo  appetito  è  ciò  che  si  chiama  cupidità,  come  Spinoza  afferma  nello  scolio  alla  Proposizione  9  [“  La  mente,  sia  in  quanto  ha  idee  chiare  e  distinte,  sia  in  quanto  ha  idee  confuse,  si  sforza  di  perseverare  nel  suo  essere  per  una   durata   indefinita,   ed   è   consapevole   di   questo   suo   sforzo”]:   “Questo   sforzo,   quando   è  riferito  soltanto  alla  mente,   si   chiama  volontà;  ma  quando  è   riferito   insieme  alla  mente  e  al  corpo,  si  chiama  appetito,  il  quale,  quindi,  non  è  altro  se  non  la  stessa  essenza  dell’uomo,  dalla  cui   natura   segue   necessariamente   ciò   che   serve   alla   sua   conservazione;   e   quindi   l’uomo   è  determinato  a  farlo;  non  c’  è  poi  nessuna  differenza  tra  l’appetito  e  la  cupidità,  tranne  che  la  cupidità   si   riferisce   per   lo   più   agli   uomini   in   quanto   sono   consapevoli   del   loro   appetito,   e  perciò  si  può  definire  cosi:  la  cupidità  è  l’appetito  con  coscienza  di  se  stesso  […]”.    Ora  poiché  l’appetito,  secondo  quanto  appena  detto,  è  tutt’uno  con  l’individuo,  non  dipende  né  può  dipendere  da  altro  che  non  sia  l’individuo  stesso.  Per  questo  motivo  il  giudizio  sulla  bontà  delle  cose  che  appetiamo  non  può  precederlo  ma  necessariamente  lo  segue.  Leggiamo  infatti  ancora  nello  scolio  alla  Proposizione  9:  “Risulta  dunque  da  tutto  ciò  che  verso  nessuna  cosa  noi   ci   sforziamo,   nessuna   cosa   vogliamo,   appetiamo   o   desideriamo   perché   la   giudichiamo  buona;  ma,  al  contrario,  che  noi  giudichiamo  buona  qualche  cosa  perché  ci  sforziamo  verso  di  essa,  la  vogliamo,  l’appetiamo  e  la  desideriamo”.  L’impulso   ad   autoconservarsi   è   dunque   intrinseco   all’individuo   che   può   avere   successo   nel  suo  sforzo  di  autoconservarsi  (e  in  questo  caso  la  sua  potenza  di  agire  aumenterà)  oppure  può  subire  l’azione  di  cause  esterne  (e  in  questo  caso  la  sua  potenza  diminuirà).  Il   primo   postulato   avverte   che   alcune   affezioni   del   corpo   aumentano   o   diminuiscono   la  potenza  di  agire  del  corpo,  mentre  altre  non  hanno  alcuna  influenza  in  questo  senso.  Solo  le  prime  modificazioni   hanno  nella  mente   un   corrispettivo   emotivo,   essendo   le   altre   del   tutto  indifferenti.  Il  mondo  delle  emozioni  è  dunque  più  ristretto  rispetto  al  mondo  delle  percezioni.  Un   aumento  della   potenza  del   corpo   si   riflette   sulla  mente  nell’affetto  della   gioia,  mentre   il  riflesso  psichico  della  diminuzione  di  potenza  nel  corpo  è  l’affetto  della  tristezza.  Assieme  alla  cupidità,  gioia  e  tristezza  costituiscono  i  tre  affetti  primitivi,  dai  quali  tutti  gli  altri  derivano,  come  afferma  Spinoza  nello  scolio  alla  proposizione  11.    Quindi,  a  differenza  di  Descartes  che  aveva  elencato  6  passioni  primitive,  Spinoza  riduce  gli  affetti   primitivi   a   3   e,   soprattutto,   a   differenza   di   Descartes   che   aveva   considerato   la  meraviglia   come   la   prima   tra   le   passioni   primitive,   Spinoza   non   la   considera   neppure   un  affetto  perché  essa  indica  solo  la  concentrazione  della  mente  su  una  sola  idea,  in  mancanza  di  

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altre  idee  ad  essa  associate,  ed  è  quindi  solo  un  fenomeno  cognitivo,  privo  di  per  se  di  ricadute  emotive,  che  si  verifica  quando  un’immagine  si  presenta  isolatamente  e  per  la  prima  volta.  È  quello  che  Spinoza  afferma  nell’Appendice  ricordata  in  precedenza  (Definizione  degli  affetti,  IV  spiegazione):  “Considerata  dunque  in  se  stessa  l’immaginazione  di  una  cosa  nuova  è  della  medesima   natura   che   le   altre   immaginazioni;   e   per   questa   ragione   io   non   annovero  l’ammirazione  tra  gli  affetti,  ne  vedo  alcun  motivo  per  farlo,  giacche  questa  distrazione  della  mente  non  nasce  da  alcuna  causa  positiva  che  distragga   la  mente  dalle  altre   immaginazioni,  ma   solo   dal   fatto   che   manca   la   causa   dalla   quale   la   mente   è   determinata,   attraverso   la  considerazione  di  una  cosa,  a  pensare  ad  altre  cose”.    Nelle  proposizioni  12   e  13  Spinoza   spiega   come   tristezza   e   gioia   generino  amore   e  odio:   lo  sforzo  di  autoconservarsi  fa  si  che  la  mente  si  sforzi  di  pensare  alle  cose  che  aumentano  la  sua  potenza  di  agire  e  di  scacciare  il  pensiero  di  ciò  che  la  diminuisce.  Quando  la  mente  immagina  qualcosa   il   corpo   viene   modificato   come   se   quel   qualcosa   fosse   presente   (Ethica,   II,  proposizione   17)   e   questo   spiega   perché   la   mente   cerchi   di   perpetuare   gli   effetti   benefici  dell’incontro   con   ciò   che   ha   provocato   un   aumento   di   potenza   sforzandosi   di   pensarlo   e  perché  al  contrario  cerchi  di  allontanare  il  pensiero  di  ciò  che  ha  diminuito  la  sua  potenza  di  agire,   ovvero   che   ha   provocato   tristezza.   A   questo   duplice   sforzo   della   mente   (positivo   e  negativo)  corrispondono  gli  affetti  dell’amore,  con  il  quale  la  mente  si  sforza  di  prolungare  la  gioia   che   una   causa   esterna   ha   provocato   e   dell’odio,   con   il   quale   la   mente   si   sforza   di  allontanare   il   pensiero   della   causa   esterna   che   ha   provocato   tristezza.   L’amore   e   l’odio   si  ottengono  dunque  aggiungendo  alla  gioia  e  alla  tristezza  il  pensiero  di  una  causa  esterna  che  ha   provocato   quegli   affetti   e   prolungando   nel   tempo   lo   sforzo   di   pensare   a   ciò   che   ha  provocato   gioia   e   di   allontanare   il   pensiero   di   ciò   che   ha   provocato   tristezza.   Deduciamo  dunque   che   si   può   anche   dare   una   gioia   senza   amore   quando   l’aumento   del   benessere   del  nostro  corpo  non  è  determinato  da  una  causa  esterna  individuabile,  quando  ci  sentiamo  bene  e   di   buonumore   senza   che   siamo   consapevoli   che   qualcosa   abbia   determinato   questo  buonumore  o  tristi  senza  che  qualcosa  di  esterno  a  noi  noto  giustifichi   la  nostra  malinconia.  Amore  e  odio,  invece,  hanno  sempre  un  oggetto.      L’associazione  degli  affetti  (proposizioni  14-­‐17)  Il   fenomeno   dell’associazione   degli   affetti   è   all’origine   della   simpatia   e   dell’antipatia   che   si  producono  quando  un’affezione  della  mente  che  di  per  se  non  causerebbe  né  gioia  né  tristezza  è  associata  a  un’affezione  che  invece  ha  prodotto  in  passato  gioia  o  tristezza,  anche  quando  di  quest’ultima   affezione   non   serbiamo   un   ricordo   consapevole,   come   leggiamo   nella  proposizione  15:  “Una  cosa  qualunque  può  essere  per  accidente  causa  di  letizia,  di  tristezza,  o  di  cupidità”.  Lo  scolio  alla  proposizione  15  sembrerebbe  chiamare  in  causa  Descartes  che  già  a  suo  tempo  si  era  accorto  del   fenomeno  dell’associazione  degli  affetti:  egli  aveva   infatti  avuto  un  amore  infantile  per  una  bambina  strabica  e  in  seguito  aveva  sempre  provato  simpatia  per  le  persone  strabiche   (A   Chanut,   6   giugno   1647,   B   624,   p.   2473:   “Per   esempio,   quando   ero   bambino,  amavo  una  ragazza  della  mia  età  che  era  un  po’   strabica;   così,   l’impressione  che  si   riceveva  attraverso  la  vista  nel  mio  cervello  quando  guardavo  i  suoi  occhi  storti  si  congiungeva  a  quella  che  vi  si  produceva  per  muovere  in  me  la  passione  dell’amore  al  punto  che,  molto  tempo  dopo,  guardando  le  persone  strabiche,  mi  sentivo  incline  ad  amarle  più  di  altre,  per  il  solo  fatto  che  avevano  questo  difetto;  e  non  sapevo  tuttavia  che  ciò  avvenisse  per  questo.  Al  contrario,  da  quando   vi   ho   riflettuto   e   ho   riconosciuto   che   ciò   era   un   difetto,   non   ne   sono   più   stato  emozionato.   Così,   quando   siamo   portati   ad   amare   qualcuno   senza   conoscerne   la   causa,  possiamo  credere  che  questo  derivi  dal  fatto  che  in  lui  ci  sia  qualche  cosa  di  simile  a  ciò  che  era  in  un  altro  oggetto  che  abbiamo  amato  in  precedenza,  ancorché  non  sappiamo  cosa  sia.  E  benché  di  solito  sia  più  una  perfezione  che  un  difetto  ad  attirarci  così  verso  l’amore;  tuttavia,  

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poiché  talvolta  può  essere  un  difetto,  come  nell’esempio  che  ho  riportato,  un  uomo  saggio  non  deve  lasciarsi  andare  interamente  a  questa  passione,  prima  di  aver  considerato  il  merito  della  persona  per  la  quale  ci  emozioniamo).  Stessa   origine   ha   l’incertezza   emotiva   (l’oscillazione   tra   simpatia   e   antipatia)   che   proviamo  quando  un  evento  che  solitamente  ci  provoca  tristezza  ha  qualche  somiglianza  con  un  evento  che  normalmente  ci  procura  gioia.  Spinoza  chiama  questo  fenomeno  fluttuazione  dell’animo,  fenomeno  che  avviene  tanto  a  livello  cognitivo  (dubbio,  scolio  alla  proposizione  17)  quanto  a  livello  emotivo.  Sempre   dall’associazione   degli   affetti   nascono   i   pregiudizi   che   ci   fanno   amare   o   provare  avversione  per  una  categoria  di  persone  solo  perché  hanno  qualcosa  in  comune  con  qualcuno  che   in   passato   ci   ha   fatto   del  male   o   del   bene,   anche   se   quel   che   queste   persone   hanno   in  comune   con   la   persona   amata   o   odiata   non   è   ciò   che   in   passato   ci   ha   provocato   gioia   o  tristezza  (proposizione  16).    Anche   la   superstizione  e   la   credenza  nei  buoni  e  nei   cattivi  presagi  hanno   la   stessa  origine,  ossia   l’associazione   di   eventi   privi   di   per   se   di   efficacia   emotiva   con   eventi   che   in   passato  hanno  provocato  gioia  o  dolore  (proposizione  50).    Gli  affetti  riflessi  (proposizioni  19-­‐26)  Ci  sono  poi  dice  Spinoza  una  serie  di  affetti  che  hanno  origine   in  conseguenza  di  eventi  che  non   ci   toccano   direttamente  ma   coinvolgono   persone   verso   le   quali   siamo   legati   da   vincoli  affettivi  provocando  in  queste  sentimenti  di  odio  o  di  amore.  Anche  in  questo  caso,  sebbene  gli  affetti  siano  mediati  da  affetti  altrui,  la  dinamica  è  la  stessa:  si  tratta  di  un  aumento  o  di  una  diminuzione   della   nostra   potenza   causati,   nel   caso   specifico,   da   un   aumento   o   da   una  diminuzione  della  potenza  di  persone  che  aumentano  o  diminuiscono  direttamente  la  nostra  potenza  e  alle  quali  siamo  legati  quindi  da  amore  o  da  odio.    Quindi:    

-­‐ la   diminuzione   della   potenza   di   colui   che   amiamo   e   la   cui   esistenza   provoca   un  aumento   della   nostra   potenza,   provocherà   una   diminuzione   della   nostra   potenza   e  quindi  ci  farà  provare  tristezza;  la  diminuzione  o  distruzione  della  potenza  di  colui  che  odiamo  e  la  cui  esistenza  provoca  una  diminuzione  della  nostra  potenza,  provocherà  in  noi  un  aumento  di  potenza  e  quindi  gioia  (proposizioni  19  e  20).  

-­‐ L’aumento  di  potenza,  cioè  la  gioia,  della  persona  amata  provocherà  gioia  nell’amante  poiché  anche  la  potenza  dell’amante  sarà  aumentata  (proposizione  21).  

   L’imitazione  degli  affetti  (proposizioni  27-­‐36)      Gli  affetti  attivi  (proposizioni  58  e  59)  Finora   la   III   parte   si   è   occupata   degli   affetti   passivi.   Queste   due   ultime   proposizioni   sono  invece  dedicate  agli  affetti  attivi,  cioè  quegli  affetti  che  sono  manifestazioni  delle  attività  della  mente.  Gli  affetti  attivi  possono  essere  solo  la  cupidità  e  la  gioia  e  i  loro  derivati,  come  si  legge  nella  proposizione  59  (p.  1403):  “Tra  tutti  gli  affetti  che  si  riferiscono  alla  mente  in  quanto  è  attiva,  non  c’  è  alcuno  che  non  si  riduca  alla  letizia  o  alla  cupidità”.  Ma  se  solo  la  cupidità  e  la  gioia  sono  affetti  attivi,  non  ogni  cupidità  ed  ogni  gioia  sono  tali:  gli  affetti  attivi,  infatti,  derivano  dalle  idee  adeguate  della  ragione  e  portano  a  desiderare  quel  che  veramente  incrementa  la  potenza  del  corpo.  Particolarmente   importante   è   la   proposizione   58   che   collega   esplicitamente   l’attivita   della  mente  al  possesso  di  idee  adeguate.  Abbiamo  visto  che  la  mente,  quando  ha  un’idea  adeguata,  sa  di  averla,  dal  momento  che  l’idea  adeguata  non  richiede  alto,  per  essere  percepita,  se  non  la  

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mente   che   la  possiede   (Ethica   II,   proposizione  43).  Quindi   la  mente   che  ha   idee   adeguate   è  consapevole  di  se,  ovvero  “contempla  se  stessa”.  La  contemplazione  di  se  è  sempre  un  indizio  di   aumento   di   potenza,   in   quanto   è   resa   possibile   da   un   dominio   sugli   agenti   esterni.  (proposizione  53),  quindi   il  possesso  delle  idee  adeguate  che  come  abbiamo  visto  sulla  base  della   proposizione   I   equivale   ad   un’azione,   produce   sempre   gioia.   Importante   quindi   non   è  solo  che  la  mente  è  detta  agire  quando  è  in  possesso  di  idee  adeguate,  ma  che  il  possesso  di  idee   adeguate   è   sempre   accompagnato   da   un   affetto,   la   gioia   e   i   suoi   derivati.   La   ragione,  quindi,   non   è  mai   solo   speculativa  ma   è   sempre   fonte   anche   di   emozioni,   cosa   questa   che,  come  vedremo  nella  parte  IV,  ha  delle  profonde  ricadute  nell’azione  morale.  Nello   scolio   alla   proposizione   59   Spinoza   fornisce   poi   il   ritratto   dell’uomo   che   ha   idee  adeguate:  egli  non  prova  tristezza  e  sperimenta  quindi  solo  gli  affetti  attivi  che  seguono  dalle  idee  adeguate.  Essi  si  dividono  in  2  categorie:  la  cura  del  proprio  interesse  sotto  la  guida  della  ragione,  cioe  la  cupidita  ragionevole  (che  Spinoza  chiama  coraggio)  e  la  cupoidita  di  aiutare  gli  altri   uomini   e   di   unirsi   a   loro   sotto   la   guida   della   ragione,   ed   è   questo   il   sentimento   che  Spinoza  chiama  generosita.    Concludendo:  lo  studio  scientifico  sulle  passioni  cosi  come  annunciato  nella  Prefazione  è  stato  portato   a   termine   e   Spinoza   ha   infatti  mostrato   come   tutti   gli   affetti   (sia   quelli   che   ci   sono  favorevoli,  sia  quelli  che  ci  sono  sfavorevoli)  derivano  dallo  sforzo  di  autoconservarsi  e  sono  quindi  tutti  ugualmente  necessari.  La  vera  differenza  tra  gli  affetti  sta  tra  quelli   innescati  da  idee  inadeguate  e  quelli  prodotti  da  idee  adeguate.    

 La  schiavitu  umana,  ossia  le  forze  degli  affetti  (Ethica,  IV)  

 Nella  parte  IV  Spinoza  espone  gli  elementi  fondamentali  della  sua  morale.  E’  una  parte  molto  densa,   dall’andamento   complicato   di   cui   lo   stesso   Spinoza   si   rese   conto   se   decise   di  aggiungere  un’Appendice  nella  quale  cercò  di  esporre  sinteticamente,  per  brevissimi  capitoli,  i  punti  principali  della  sua  teoria.  La  morale  spinoziana,  come  visto,  si  fonda  sul  principio  di  autoconservazione  ed  è  quindi  una  morale  egoistica.  Al  contrario  dell’immaginazione,  la  ragione  è  in  grado  di  individuare  ciò  che  è   veramente   utile   alla   conservazione   dell’individuo,   tuttavia   solo   gli   affetti   e   i   desideri  riescono  a  trasformare  le  informazioni  della  ragione  in  valori  morali,  in  beni  da  perseguire.    Perché   si   parla   di   schiavitù   umana?   Perché   i   desideri   che   trasformano   le   indicazioni   della  ragione   in   valori   che   l’individuo   si   prefigge   nel   suo   operare   sono   deboli   al   confronto   dei  desideri  eccitati  dalla  conoscenza  immaginativa  e  da  questi  sono  facilmente  vinti.    Il   titolo  preannuncia  l’analisi  delle  ragioni  per  le  quali  gli  uomini,  pur  conoscendo  cosa  sia  il  vero  bene,  cedono  alle  passioni  e  ne  diventano,  appunto,  schiavi.  Nella   Prefazione   Spinoza   annuncia   di   voler   mostrare   cosa   hanno   di   buono   e   di   cattivo   gli  affetti.  Se  nella  parte  III  gli  affetti  erano  stati  studiati  come  eventi  naturali,  come  figure  e  linee  geometriche   e,   in   quanto   tali,   sfuggivano   ad   ogni   valutazione   morale,   ora   Spinoza   intende  stabilire   una   differenza   di   valori   tra   gli   affetti,   dividendoli   in   buoni   e   cattivi,   vale   a   dire   in  affetti  che  aumentano  e  in  affetti  che  diminuiscono  la  potenza  di  agire  dell’individuo.      Le   definizioni   che   aprono   la   parte   IV   ci   portano   nel   cuore   della   morale   e   ne   definiscono   i  concetti  fondamentali:  bene,  male,  virtu.  La  proposizioni  dalla  1  alla  18  sono  dedicata  ad  indagare  le  cause  dell’impotenza  della  ragione  nei   confronti   della   potenza   degli   affetti.   Spinoza   ritiene   che   la   ragione   in   quanto   produce  conoscenze   puramente   speculative   non   abbia   alcun   potere   sulle   azioni   e   sugli   affetti.   Se   la  ragione,  cioe,  si   limitasse  a  conoscere  che  una  certa  azione  o  un  certo  comportamento  sono  

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veramente   utili,   questa   sua   conoscenza   non   inciderebbe   in   alcun   modo   sugli   affetti   ne  potrebbe  combatterli  (proposizione  14).    L’Etica  di   Spinoza,   benché   si   fondi   sulla   conoscenza   e   sull’ontologia,   è   un’etica   che   intende  incentrarsi   sulla   possibilità   di   determinarsi   ad   agire,   vale   dire,   sulla   possibilità   di   essere  “causa   adeguata”  delle   proprie   azioni,   quindi,   sulla   possibilità   di   avere   idee   adeguate  di   cui  l’uomo  è  causa  e  sulle  quali  fondare  la  sicurezza  esistenziale  della  vita  stessa.  (Eth.  III,  Def.  I,  II,  III   e   pr.   1).   Appare   subito   chiaro   che   l’uomo   che   conosce   con   l’immaginazione   non   è   causa  adeguata  di  quelle  conoscenze:  esse  derivano,  come  detto,  dalle  affezioni  occasionali  corporee  ed  il  subirle  equivale  ad  essere  passivi  nei  loro  confronti,  quindi,  equivale  a  non  relazionarle  e  a  non  completarle  nell’eterna  e   stabile   trama  delle   relazioni   che  costituiscono   il  perfetto  ed  unitario   tessuto   delle   leggi   della   sostanza,   ove   non   si   dà   né   frammentarietà   (il   frammento  isolato  contraddice  l'unità),  né  la  contingenza  (la  contingenza  prevede  la  possibilità  di  essere  diversamente,   e  questa  possibilità  non   si  dà  nella   eterna  necessità  dei   rapporti   sostanziali).  Prendiamo  come  esempio  Eth.  IV,  pr.  47:  “Gli  affetti  della  Speranza  e  della  Paura  non  possono  essere  di  per   sé  buoni”:   speranza  e  paura  sono  passioni  nocive  perché,   sostiene   lo   scolio  di  questa   stessa   proposizione,   esse   “indicano   un   difetto   di   conoscenza   e   un’impotenza   della  Mente,  e  per  questa  ragione  anche  la  Sicurezza,   la  Disperazione,  il  Gaudio,  e  il  Rimorso  sono  segni  di  animo  impotente.  Infatti  sebbene  la  Sicurezza  ed  il  Gaudio,  siano  sentimenti  di  Gioia,  suppongono  tuttavia  che  li  abbia  preceduti  la  Tristezza,  e  cioè,  la  Speranza  e  la  Paura.[...]”.  Le  affezioni   corporee,   da   cui   si   formano   idee   e   immagini   delle   cose,   proprio   per   la   loro  frammentarietà  sono  incomplete  e   l’incompletezza,   la  non  adeguatezza  conoscitiva,  mette   in  tensione  esistenziale  l’uomo  verso  ciò  che  potrebbe  verificarsi  con  esisto  positivo  (speranza)  oppure   con   l’idea  di   ciò   che  potrebbe  verificarsi   con  esisto  negativo   (timore):   in  entrambi   i  casi,  tutto  deriva  da  un  difetto  di  conoscenza,  da  una  mancanza  che  genera  nell’animo  attesa  e  preoccupazione.  Quante  volte  ci  accade  di  essere  in  balia  di  eventi  o  di  notizie  esterne  che  ci  lasciano   indecisi   perché   ne   attendiamo   l’esito.   E   quante   volte   in   queste   situazioni  l’immaginazione  costruisce  gli  scenari  più  impensati  che  creano  insicurezza  e  indecisione?