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Fiabe Del Popolo Tuareg

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antologia di fiabe tuareghe

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Fiabe del popolo Tuareg

e dei Berberi del Nordafrica

A cura di: Vermondo Brugnatelli

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Titolo originale: Màrchen der Berber

a cura di Uwe Topper

© 1986 by Eugen Diederichs Verlag GmbH & Co. KG, Kòln © 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

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Fiabe del popolo Tuareg

A Enrico, Takfarinas e Lydia, grandi esperti di fiabe.

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Introduzione

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I Berberi

No, io non sono Arabo! Così suona il titolo di un libro pubblicato di recente in Algeria da un Algerino. Non si tratta di un paradosso, ma della pura e semplice realtà: sono infatti milioni i nordafricani di madrelingua di-versa dall'arabo, che rivendicano la propria autonomia linguistica e culturale rispetto al mondo arabo con cui fin dall 'indipendenza i governi dei loro paesi hanno cercato di identificarsi, e con cui il mondo occidentale di fatto li identifica.

Il peccato capitale dei Berberi - gli indigeni del Nor-dafrica - è quello di non avere praticamente mai costi-tuito, dai tempi di Massinissa e Giugurta a oggi, un'en-tità politica unita e autonoma (uno "Stato nazionale"), accontentandosi di difendere l'indipendenza delle pro-prie tribù o dei propri villaggi arroccati sui monti o in mezzo al deserto, anche a costo di cedere le città costie-re e le regioni più fertili ai conquistatori che, nel corso dei millenni, si sono succeduti sul loro territorio (Fenici, Greci, Romani, Vandali, Arabi, Turchi, Europei).

Dal canto loro, i conquistatori, sempre numerica-mente assai inferiori alle popolazioni locali, hanno di solito finito per fondersi con esse, assorbendone usi, costumi, tradizioni e dando vita a una cultura origina-le, che ha mantenuto sempre una caratteristica im-pronta nordafricana.

La stessa lingua araba, che oggi è parlata dalla mag-gioranza della popolazione di questi paesi, è assai mo-

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dificata rispetto alla lingua classica e ai dialetti orienta-li, e ciò proprio in seguito al lungo contatto con la lin-gua berbera. Gli "Arabi" del Nordafrica sono in mag-gioranza Berberi che hanno adottato la lingua araba.

Quanto al berbero, esso è ancora oggi parlato da di-versi milioni di persone disseminate su una vasta area che va dai confini occidentali dell'Egitto (l'oasi di Siwa) fino all'Oceano Atlantico, e dal mar Mediterraneo fino ai margini meridionali del Sahara. La distribuzione di questi parlanti è assai diseguale dal punto di vista nu-merico. Vi sono piccole comunità berberofone isolate costituite da poche centinaia o migliaia di persone (per esempio in alcune oasi del deserto libico o in qualche piccolo centro nel sud della Tunisia), mentre altrove capita che il berbero sia la lingua di un insieme di vil-laggi (per esempio sulle alture del Gebel Nefusa in Tri-politania o nella regione algerina dello Mzab) e addirit-tura di intere regioni. In quest'ultimo caso i parlanti possono essere addirittura centinaia di migliaia o an-che milioni, come in Cabilia (una regione montuosa a poca distanza da Algeri) o nella zona centrale e meri-dionale del Marocco.

Nel cuore del Sahara la lingua dei Tuareg rappresen-ta uno dei dialetti berberi meno contaminati dall'im-patto con la lingua araba, e anche se il numero dei par-lanti non è in assoluto elevatissimo (si calcola che raggiunga a stento il milione), la conoscenza di queste popolazioni è estremamente importante sia ai fini lin-guistici sia a quelli etnografici.

Per il loro carattere fiero e la capacità di convivere da secoli con l 'ambiente ostile del deserto, i Tuareg hanno sempre colpito l'immaginazione degli europei, che ammirano ancora in essi i nobili "uomini blu" dall'enigmatico velo sul volto (la tagelmust). Purtroppo questa visione romantica rischia di rimanere un lonta-no ricordo, dal momento che la cultura dei Tuareg è oggi seriamente minacciata ed è concreto il pericolo di

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una totale scomparsa degli uomini velati, con la sola eccezione forse di pochi "esemplari" mantenuti dai tours-operators a Djanet o a Tamanrasset per le video-camere dei turisti in cerca di emozioni. Infatti l'eredità coloniale ha lasciato il deserto diviso da confini trac-ciati a tavolino, diventati altrettante barriere per que-sto popolo nomade che ha visto il proprio territorio frammentato tra Algeria, Libia, Mali e Niger. La conse-guente forte limitazione alla libertà di spostamento, commercio e pascolo porta oggi con sé il grave rischio di minare i fondamenti stessi della cultura dei Tuareg e di annullarne l'identità.

Proprio in virtù del loro aspetto pittoresco e dell'im-maginario avventuroso a essi collegato, le pubblicazioni esistenti sui Tuareg sono numerose, ma si tratta perlo-più di albi fotografici, tesi a cogliere l'aspetto estetico-folkloristico di questa popolazione. Un recente libro di Attilio Gaudio (1993) provvede invece a una corretta informazione sia sulla storia antica e remota della regio-ne (il Sahara è ricco di incisioni rupestri preistoriche e protostoriche) sia sui problemi attuali della sua popola-zione.

La letteratura berbera

Fin dall 'antichità i Berberi possiedono una propria scrittura, nella quale vennero redatte molte iscrizioni libiche e numidiche, come, per esempio, l'iscrizione di Massinissa a Dougga (Tunisia) del 139 a.C. Questo alfa-beto (la cosiddetta scrittura tifinagh) viene tuttora im-piegato dai Tuareg, che però se ne servono solo per scopi pratici, e non per tramandare opere letterarie.

Così, la maggior parte della letteratura berbera è una letteratura orale, tramandata di bocca in bocca nel cor-so dei secoli per opera di una catena di amusnaw ("co-loro che sanno"), depositari del patrimonio culturale

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orale della propria tribù. Questa vasta cultura orale comprendeva le opere più disparate: poesie religiose o epiche; sentenze, detti e proverbi; testi in prosa di vario tipo (fiabe, racconti storici, miti e leggende relativi a determinati luoghi e personaggi).

Solo in Marocco esiste già da qualche secolo l'uso di mettere per iscritto testi di particolare importanza ser-vendosi dell'alfabeto arabo con qualche segno speciale per i suoni tipici del berbero. Le opere così raccolte so-no in genere poemi religiosi, come quello di Awzali, ri-pubblicato (con traduzione francese) a Leida nel 1960.

Nelle altre regioni di lingua berbera si dovette atten-dere la fine del secolo scorso e l'inizio del Novecento perché si cominciasse a raccogliere e mettere per iscrit-to qualche testo di poesia per mano di studiosi europei e indigeni (raccolte del generale Hanoteau, di Belka-cem Ben Sedira, di Boulifa per la Cabilia, e soprattutto i due volumi di poesie tuareg del missionario Ch. de Foucauld).

Negli ultimi decenni, però, parallelamente all'acqui-sizione della consapevolezza dell'originalità e del valo-re della propria lingua e della propria cultura, si sono moltiplicati studi e pubblicazioni, soprattutto da parte di Berberi, riguardanti in particolare la poesia, ma an-che altri generi particolari come i proverbi (per esem-pio i recenti lavori curati da Ouahmi Ould Braham sul-la rivista «Etudes et Documents Berbères» nn. 5, 6 e 10 tra il 1989 e il 1993), oppure gli indovinelli (i tre volumi di Bentolila 1986 nonché Allioui 1990), o la narrazione storica (Alojali 1975).

Così di questi generi "maggiori" esistono ormai di-verse raccolte particolarmente significative. La più em-blematica di questo movimento di riscoperta della pro-pria cultura è quella di M. Mammeri sulle poesie antiche della Cabilia, che comprende testi risalenti an-che al XVI secolo. A causa del divieto imposto dalle au-torità algerine a una conferenza di presentazione del li-

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bro da parte dell 'autore all'università di Tizi Ouzou scoppiarono gli incidenti ormai noti come tafsut , "la primavera" (del 1980), in cui per la prima volta si ma-nifestò pubblicamente l'esigenza dei Berberi di tutelare la propria lingua e la propria cultura. Una panoramica di queste composizioni è ora accessibile in italiano gra-zie a un'antologia elaborata dallo stesso M. Mammeri e da T. Yacine, tradotta e curata da Domenico Canciani (1991).

Ma la massa della cultura orale berbera è indubbia-mente costituita da fiabe e racconti, di cui ogni tribù, ogni villaggio, ogni famiglia possiede un vastissimo re-pertorio.

Già nel Medio Evo il più grande storico arabo, Ibn Khaldun, nato e vissuto a lungo nel Nordafrica, era im-pressionato dalla ingente mole del patrimonio favolisti-co berbero: "I Berberi raccontano un così gran numero di storie che, se ci si desse la pena di metterle per iscrit-to, se ne potrebbero riempire volumi interi".

Più di recente un grande studioso tedesco, Leo Fro-benius, instancabile raccoglitore di tradizioni africane, riconosceva che ai Cabili spetta "il primo posto tra gli Africani nell'arte di fabbricare racconti". E a conferma di questo giudizio raccoglieva e pubblicava ben tre vo-lumi di fiabe di questa regione (1921-22).

Fin dai primissimi studi sul berbero ogni descrizione grammaticale conteneva una maggiore o minore quan-tità di "testi", e si trattava perlopiù di fiabe. E nel corso degli ultimi decenni, con l'estendersi delle conoscenze sui diversi dialetti, si sono andate moltiplicando le rac-colte di fiabe dalle zone più disparate, per esempio l'oa-si di Ouargla (Delheure 1989), o l'Alto Atlante (Leguil 1985); inoltre nuovi racconti compaiono in quasi ogni numero delle riviste «Etudes et Documents Berbères» e «Awal». Così oggi il materiale pubblicato è veramente imponente.

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Le fiabe

«Eravamo tutti seduti intorno al fuoco, con i cugini, le cugine, le zie e il vecchio zio malconcio e ripiegato nella sua lunga jallaba rappezzata. Le braci del focolare libera-vano il loro ultimo calore, esauste per lo sforzo costante imposto dalle donne. Questo calore serviva per cucinare i nostri pasti ma anche per il conforto di tutti noi.

«La sera, dopo cena, mia zia ci distribuiva una man-ciata di fichi che ci asciugavano sulle labbra il gusto del pasto. (...) Col lembo del vestito la zia ripuliva i resti di sugo sui visetti rotondi e spensierati dei bimbi, i quali at-tendevano che la sua voce si levasse nel silenzio e nella quiete della veglia.

«Allora la voce faceva risonare alta la formula iniziale: "Amashaho!... ". Sapevamo che a partire da quel momen-to ci si sarebbero spalancate le porte di un mondo imma-ginario e fatato. I nostri corpi si stringevano l'uno all'al-tro, perché l'abitudine ci aveva insegnato che un 'orchessa poteva saltar fuori in ogni momento, in questi racconti, abitati dallo strano e dal meraviglioso, e in cui gli uomini e gli animali parlano la stessa lingua e si contendono il po-sto migliore.

«Il racconto della Mucca degli orfanelli ci strappava le lacrime, tanto erano tesi i fili della loro avventura. Juhà, per la sua furbizia era ai nostri occhi non solo l'eroe della leggenda ma un vero eroe nazionale, a tal punto lo consideravamo parte del mondo reale. Ne ap-prezzavamo la sfacciataggine, l'astuzia e l'intelligen-za....»

« "C'era una volta un inverno molto freddo, la neve ca-deva a larghe falde. .."eia famigliola si ritrovava intorno al focolare dove ardeva la fiamma, e tutti in silenzio pen-devano dalle labbra della vecchia. E i bimbi più piccoli, uno alla volta, si addormentavano... »

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In queste rievocazioni, a prima vista sdolcinate e no-stalgiche, ma indubbiamente sincere, di due Berberi di oggi sta tutto il rimpianto per una cultura tradizionale minacciata, in cui le fiabe, i racconti, svolgevano un ruolo di primo piano (Mouzaia 1986 e Chemime 1991).

Come ha dimostrato l'etnologa Camille Lacoste-Dujardin in quello che è finora un insuperato saggio sulle fiabe berbere della Cabilia (1982), i racconti costi-tuiscono un insostituibile archivio di usi, costumi, va-lori, visioni del mondo di una società, sedimentati nel tempo ma non immutabili, e spesso rideterminati con il mutare dei tempi e delle situazioni.

Lungi dall'essere un semplice intrattenimento disim-pegnato in un'epoca in cui non esistevano ancora radio e televisione, le fiabe svolgevano innanzitutto una fun-zione di identificazione sociale, di trasmissione di valo-ri e di ruoli, di istruzione dei giovani, di edificazione religiosa. Non dimentichiamo che quella che noi oggi pomposamente chiamiamo "mitologia classica" in ori-gine non era altro che il contenuto delle "fiabe" che nu-trivano i cuori e le menti degli antichi greci e latini.

Certo, esistono molti generi a seconda del contesto narrativo, e ognuno tende a esaltare determinate fun-zioni. Nelle compagnie di giovanotti prevarranno i rac-conti faceti a fondo misogino, e viceversa in quelle di sole donne non mancheranno le prese in giro dei ma-schi (funzione gratificante di identificazione nel grup-po); d'altro canto nelle confraternite religiose prevar-ranno i racconti edificanti e moraleggianti (questi ultimi non mancheranno anche nelle narrazioni mater-ne ai figli); la tipica fiaba di incantesimo, in cui oltre al resto vi è una forte componente ricreativa, sarà perlo-più appannaggio di un pubblico infantile, e così via.

Data questa varietà non è possibile tratteggiare una fiaba-tipo. Esistono tuttavia alcune costanti. Infatti, la fiaba, in quanto evocatrice di immagini le più dispara-

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te, è assai prossima a un rito magico, e come tale deve rispettare determinate norme.

Il tempo: di norma non si possono raccontare fiabe di giorno. Il momento più indicato è la sera dopo cena. E ai bambini che insistono per farsene raccontare in orari non ammessi viene detto che in tal caso prende-rebbero la tigna.

Il modo: occorre delimitare con apposite frasi di "apertura" e di "chiusura" lo spazio magico del raccon-to. Può trattarsi di qualcosa di assai breve (il nostro "C'era una volta..."), oppure di vere e proprie formule, a volte relativamente lunghe. Si tratta perlopiù di brevi rime senza senso, parole misteriose (l'oscuro termine cabilo Amashaho/u!...) assai affini alle formule magi-che. Delle fiabe tradotte in questa raccolta solo quelle della seconda parte contenevano sistematicamente for-mule del tipo:

Amashahù! Tellemshahù! A-ts-yessighzef Rebbi am-musarù. Che Dio lo renda lungo come una cintura variopinta.

e:

Ha-ts-an tmashahuts-iu! Bbwigh-ts-idd Iwad Iwad, i warraw llejwad. Eccolo, il mio racconto! L'ho portato lungo il torrente, per i figli dei nobili.

Anche le fiabe della prima parte dovevano prevedere formule analoghe, che però sono state tralasciate dall'autore che le ha pubblicate. In un solo caso è stato serbato un simpatico ritornello di uscita:

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Sottil guscio han le teiere ogni cruccio si dilegui! Se hai scolato già il bicchiere, va', il cammino tuo prosegui!

Sembra invece che i Tuareg tendano a tralasciare ogni convenevole prima di iniziare il racconto. Comun-que anche nei loro racconti la conclusione è quasi sem-pre accompagnata da qualche battuta che ricorda que-sto genere di formule.

Per venire poi al contenuto, oltre ai caratteristici temi orientali dei racconti delle Mille e una notte (che sono comunque meno diffusi di quanto si potrebbe pensare), e a quelli "universali" come la rivalità tra matrigne e fi-gliastri o tra suocere e nuore, molti spunti appaiono ori-ginali o condivisi piuttosto con tradizioni europee come quelle dei fratelli Grimm. Relativamente cospicua è an-che la quantità di temi e - a volte - di intere fiabe in co-mune con tradizioni ebraiche, sia orientali sia yiddish, soprattutto nelle fiabe di argomento mistico e allegori-co. Nei brevi commenti che si sono fatti seguire alle fia-be sarà possibile verificare questi fenomeni più nel det-taglio.

Pur avendo diversi spunti in comune con le fiabe dei Berberi del nord, quelle tuareg si distinguono per molti aspetti, strettamente connessi con le condizioni di vita di questo popolo. In particolare, sono quasi del tutto assenti lo sfarzo e la magnificenza delle fiabe di incan-tesimo: qui i "principi azzurri" sono al massimo figli di capitribù e gli splendidi palazzi sono sovente ancora delle tende di nomadi. Inoltre, la natura selvaggia an-cora ben presente nella vita di tutti i giorni fa sì che as-sai numerosi e sentiti siano i racconti di animali, in cui vengono messe alla berlina le fiere più temute, la iena e lo sciacallo.

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Le fiabe contenute nella presente opera

Nell'impossibilità di presentare un quadro completo ed esauriente delle innumerevoli tradizioni favolistiche berbere, nella presente opera ci si limita a raccogliere materiale rappresentativo di tre delle principali aree in cui oggi viene ancora parlato il berbero: il Marocco, la Cabilia (nel nord dell'Algeria), e il territorio tuareg nel Sahara (Algeria, Mali, Niger).

Per il Marocco viene qui tradotta una raccolta di fia-be pubblicata in Germania da Uwe Topper (Màrchen der Berber, Colonia, Eugen Diederichs Verlag, 1986), che comprende sia materiali nuovi, sia la traduzione di testi berberi già pubblicati (in quest'ultimo caso, anche la presente traduzione è stata condotta sull'originale berbero). Tale raccolta contiene brani di diverso argo-mento ed è parsa quindi particolarmente adatta a offri-re un campione significativo delle fiabe marocchine. Tutti i generi vi sono rappresentati: fiabe di incantesi-mo, racconti buffi, satirici e di astuzie (tra cui un breve saggio di racconti di Juhà), storie di animali, leggende di santi, miti delle origini ed escatologici. Questa va-rietà è stata resa possibile, tra l'altro, dalla diversa estrazione dei narratori: da vecchi pescatori della costa atlantica a cantastorie di professione che si esibivano nelle piazze delle città; da un'anziana donna residente in città a membri di tribù nomadi che si esibivano nelle loro tende; da gruppi di giovani spensierati a membri di confraternite sufi.

E' abbastanza completo anche il panorama geografi-co. Infatti, per quel che riguarda le zone di provenienza dei singoli racconti, sono rappresentate un po' tutte le zone di lingua berbera del Marocco: il sud, in cui si parlano dialetti della tashelhit, il centro (dialetti tama-zight) e la regione costiera del nord, il cosiddetto Rif (dialetti tarifìt).

Per l'Algeria, nel vastissimo panorama di opere esi-

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stenti, sia in berbero sia in traduzione, si è pensato di tradurre una raccolta particolare, opera di Taos Am-rouche. Questa autrice (1913-1976), pur avendo scritto soprattutto in francese, viene considerata una figura di primo piano della cultura berbera, che contribuì a diffondere in occidente, anche in qualità di interprete canora di numerosi canti tradizionali della Cabilia. Marguerite era sorella di un altro scrittore di primo piano (sia in lingua francese sia in berbero), Jean Am-rouche, e figlia di quella Fadhma Ait Mansour Amrou-che (1888-1967) la cui autobiografia, Histoire de ma vie, è un ineguagliabile affresco della vita dei Berberi d'Algeria nella prima metà del secolo. La raccolta di fiabe qui tradotta (Marguerite-Taos Amrouche, Le grain magique. Contes, poèmes, proverbes berbères de Kabylie, Paris, Maspéro, 1966) è considerata ormai un "classico". Essa rappresenta la trascrizione in francese dei racconti appresi in cabilo dalla madre, e il debito nei suoi confronti è testimoniato dal nome cristiano di quest 'ultima, Marguerite, preposto a quello di Taos (che era invece battezzata col nome di Marie-Louise).

La più genuina tradizione berbera vuole che alla nar-razione dei brani favolistici vengano intercalate canzon-cine, ninne-nanne, proverbi e modi di dire, e Taos Am-rouche aveva conservato questo procedimento anche nel testo scritto. Purtroppo per motivi editoriali non è stato possibile mantenere tali intermezzi ricreativo/edu-cativi caratteristici del contesto narrativo. Questa tradu-zione sarà quindi limitata ai testi dei racconti. In com-penso, tali racconti presentano diverse caratteristiche che li rendono particolarmente interessanti: innanzitut-to essi sono stati concepiti già dall'autrice per essere pubblicati, e quindi non danno quell'impressione di "in-completezza" che è tipica dei racconti orali trascritti tali e quali con perdita di tutti gli elementi mimici, gestuali e allusivi che rendono perfettamente comprensibile la trama agli ascoltatori; inoltre, abbiamo qui una narra-

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zione da parte di donne, che sono le vere depositarie del patrimonio favolistico berbero, con le quali però è raro che gli studiosi (perlopiù maschi) riescano ad avere con-tatti diretti, data la rigida separatezza dei sessi nella so-cietà tradizionale. Questa provenienza femminile è par-ticolarmente notevole in alcune fiabe, come nella Storia della rana o in Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme!: qui i mestieri di casa vengono descritti con una minuzia e una precisione quali solo le donne, le dirette interessate, potrebbero avere.

Quanto alle fiabe dell'area tuareg, è stata qui tradot-ta - direttamente dal tuareg - una serie di testi pubbli-cati a scopo perlopiù di studio linguistico. I primi nove si trovano in: Dominique Casajus, Peau d'àne et autres contes Touaregs, (Parigi, L'Harmattan,1985); i ventidue successivi (dal 10 al 31 della presente raccolta) sono contenuti in: Petites soeurs de Jésus, Contes touaregs de l'Air, (Parigi, SELAF, 1974); gli ultimi quattro, infine, sono riportati nella grammatica di Adolphe Hanoteau, Essai de grammaire tamachek', (Algeri, 1859). A parte, quindi, qualche racconto della regione dell'Azger (Tua-reg del Nord), si tratta fondamentalmente di due rac-colte relative alla regione dell'Air (in Niger, nei presi di Agadez), composte in un dialetto particolarmente ar-caizzante e fino a qualche anno fa poco studiato.

Delle tre parti della raccolta quella tuareg è indubbia-mente quella che più risente di uno stile "orale", in quan-to non è, come le prime due, mediata, vuoi dall'autrice francese, vuoi dal curatore tedesco. Nella traduzione si è cercato di evitare una rigida versione letterale quando ciò potesse creare difficoltà di comprensione al lettore europeo, e si sono ridotte al minimo le lunghe ripetizioni che abbondavano nel testo originale. Questo fenomeno delle ripetizioni è particolarmente caratteristico dei rac-conti tuareg. Si pensi che, mentre un lettore italiano è abituato al massimo a imbattersi in qualche formula del tipo "Cammina, cammina...", nei racconti tuareg non è

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raro incontrare, in un contesto analogo, qualcosa come "Andò, andò, andò, andò...", ripetuto anche dieci volte.

Purtroppo, non di tutti i racconti conosciamo esatta-mente le circostanze della narrazione e l'esatta origine del parlante. Quando vi è una indicazione (la raccolta di Casajus), si vede che si tratta generalmente di racconti fatti da inaden "artigiani" o "fabbri", una categoria di persone considerate razzialmente esterne alle tribù tua-reg presso le quali risiedono (tant'è che contraggono matrimoni solo tra loro), ma che di fatto sono assai inte-grate, al punto di essere considerate dallo studioso fran-cese "i veri depositari della letteratura orale del gruppo".

Il secondo gruppo di testi è stato invece raccolto da suore missionarie, in località anche distanti da quelle di origine degli informatori, che vengono citati solo per nome senza ulteriori specificazioni circa la loro tribù e la loro posizione sociale.

Viceversa, gli ultimi racconti furono raccolti nel seco-lo scorso dalla viva voce di alcuni nobili, parenti dei capi-tribù degli Ifoghas nell'Azger, a oriente dell'Ahaggar, che ne fornirono anche una versione scritta in tifìnagh. Rap-presentano quindi un frammento autentico di quel mon-do eroico, allora quasi incontaminato.

Nota sulle trascrizioni

Nelle trascrizioni di termini berberi e arabi si è cercato di mantenere una certa omogeneità e precisione senza sovraccaricare il testo di simboli diacritici. Per questo mancano i punti sottoscritti delle "enfatiche" e di una particolare h, e si è ricorso a digrammi per: sh (se di sce-na); kh (un suono analogo al tedesco eh di brauchen); gh (il corrispettivo sonoro: ghayin arabo); th (come th in-glese in three) e dh (come th inglese in this). In qualche rara occasione il segno ' rende il suono 'ayin dell'arabo, ma perlopiù si è evitato di trascriverlo.

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Abdullah ibn Asad al-YAFI'I, Il giardino dei fiorì odorosi, a cura di Sergio Noja, trad. di Virginia Vacca, Vene-zia (Marsilio) 1993.

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Glossario

agersemmi Frutti selvatici di montagna (Grewia vil-losa). amico di Allah Resa italiana del termine wali "vicino, amico", che indica quelle persone che per devozione e santità sono ritenute particolarmente vicine a Dio e in grado di intercedere presso di Lui. Di qui un culto po-polare corrispondente a quello dei nostri santi, burnus Caratteristico capo dell 'abbigliamento ma-schile in Nordafrica. Consiste in un ampio mantello con cappuccio. cadì È colui che amministra la legge islamica su inca-rico dell'autorità politica. Per questo suo legame col potere è spesso visto con sospetto dalla gente semplice, co-sposa Traduco così il termine berbero takna, che indica la "parentela" tra due donne, spose dello stesso uomo. cuscussiera Stoviglia apposita per la cottura del cu-scus, che deve essere effettuata a vapore, darwish "Derviscio". Persona dedita a pratiche asceti-co-mistiche. Fàtiha Letteralmente "La Aprente". È il nome della prima sura del Corano, assai usata nelle preghiere e per suggellare contratti e cerimonie. Festa del Sacrificio Detta anche "Grande festa" (con-trapposta alla "Piccola festa" della rottura del digiuno di Ramadan): festività in cui si commemora il sacrifi-cio del primogenito di Abramo. In tale occasione ogni

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capofamiglia è tenuto - se appena i mezzi glielo con-sentono - a sacrificare un montone o, all'occorrenza, altri animali. gandura Semplice vestito maschile costituito da una tunica scollata, senza maniche né cappuccio, hadith Racconti di detti o fatti della vita di Maometto, utilizzati, insieme al Corano, come fonte del diritto islamico. Hajj Titolo onorifico che viene aggiunto al nome di chi ha effettuato il pellegrinaggio alla Mecca, henné Sostanza ricavata da una pianta (lawsonia iner-mis) e utilizzata per tingere di rosso i capelli o parti del corpo (viso, mani, piedi) con disegni simili a tatuaggi in occasione di determinate cerimonie, in particolare nei matrimoni. ifrit Jinn particolarmente imponente e, spesso, mal-vagio. imam Letteralmente "colui che sta davanti", cioè chi guida la preghiera. jallaba Sinonimo di gandura. jinn Misteriose creature nominate spesso nel Corano e al centro di particolari credenze in tutto il mondo mu-sulmano. Sarebbero stati creati di pura fiamma e sa-rebbero perlopiù invisibili. Ve ne sarebbero di buoni e di cattivi, di musulmani e di infedeli, jinniya Femmi ile di jinn. kif Denominazione locale della canapa indiana, il cui uso è ancora relativamente diffuso in Marocco, kohl Polvere di solfuro di antimonio che, stemperata in acqua, viene usata per tingere di nero ciglia e so-pracciglia. luigi Moneta d'oro, un tempo diffusa in tutto il Norda-frica. Oggi il termine designa, per antonomasia, qua-lunque moneta d'oro. Mahdi Personaggio dell'escatologia islamica, la cui ve-nuta, alla fine del mondo, farà rifiorire la giustizia e l'equità. marabutto Si definiscono così quei pii personaggi ap-

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partenenti a un movimento di rinnovamento religioso che si diffuse intorno al XV secolo, a partire da Seguia El Hamra, località nel sud del Marocco. I marabutti ri-vendicavano una discendenza dal Profeta e diedero vita a intere tribù "marabùttiche", i cui membri sono anco-ra oggi trattati con venerazione. muezzin La persona addetta ali'adhan, cioè al richia-mo ad alta voce dei fedeli alla preghiera dall'alto dei minareti. Oggi è sovente sostituito da un altoparlante, reale Antica moneta spagnola, un tempo diffusa in tutto il Nordafrica. Era la moneta di minor valore del sistema. ribat Costruzione fortificata adibita a luogo di ritiro spirituale e sede di comunità religiose islamiche. Vi si addestravano i marabutti. sheikh Letteralmente "anziano". Vale anche "persona degna di rispetto", "capo" di una tribù (il nostro sceic-co) o di una comunità religiosa. sufi Letteralmente "l'uomo vestito di suf, di lana grez-za". Era la divisa dei poveri religiosi, dediti a pratiche mistiche e ascetiche. Da qui il termine "sufismo", che designa l'ascetico-mistica dei musulmani, sura Ciascuno dei "capitoli" in cui è diviso il Corano, libro sacro dell'Islam. taghoda Cyperus bulbosus, varietà di ciperacea. tajin Una sorta di spezzatino; ragù. Taleb Letteralmente "studente" (di scuola coranica). Può designare, in generale, una persona particolar-mente istruita nel campo della religione, tallero Moneta d'argento di origine europea ma anco-ra usata in Nordafrica fino agli inizi del secolo, trilli (lanciare) Tipica espressione (solitamente collet-tiva) di gioia o di dolore delle donne del Nordafrica. tuwila Sclerocarya birrea, albero dal legno pregiato per la fabbricazione di oggetti d'artigianato, visir Primo ministro e consigliere privato del re. wajjag Cenchrus biflorus, varietà di graminacea nota anche come "cram cram".

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Fiabe del popolo Tuareg

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Parte I

Fiabe dei Berberi del Marocco

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Fiabe di incantesimo

1 . I L M O S T R O

Una giovane donna era rimasta sola col padre anzia-no. Quando, un giorno, questi cadde inanimato, ven-ne creduto morto e deposto nella tomba. Sua figlia gli portava tutti i giorni del cibo, e gli domandava: «Come posso venire da te, caro babbo?». Ed egli le diceva: «Figlia mia, fa' t intinnare i tuoi braccialetti ed entrerai da me». La donna eseguiva e poteva così raggiungerlo e portargli del cibo.

Un giorno, uscita la figlia, ecco una iena bussare con le zampe alla tomba dell 'uomo e chiedere: «Co-me posso venire da te, caro babbo?». E l 'uomo rispo-se: «Fa' t intinnare i tuoi braccialetti!». Allora la iena fece un rumore simile con le zanne e si intrufolò nel-la tomba. A questo punto chiese: «Dove devo comin-ciare a mangiare? Dai piedi o dalla testa?». «Comin-cia dai piedi» disse l 'uomo.

Più tardi arrivò la figlia e chiese: «Come posso ve-nire da te, caro babbo?». E l 'uomo: «Figlia mia, il nostro Signore ti dia forza. C'è un animale selvatico che mi sta divorando!». «Fino a che punto ti è arriva-ta la sensibilità?» chiese la figlia. «Fino alle caviglie» rispose il padre.

Quando la figlia venne la volta successiva, chiese: «Caro babbo, fino a che punto ti è arrivata la sensi-bilità?» e questi rispose: «La bestia è arrivata a divo-ra rmi f ino alle ginocchia». Quando to rnò la volta

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successiva: «Fino all'inguine». E poi: «Fino all'ombe-lico». E quando arrivò al torace, il padre disse: «Fi-glia mia, che il Signore ti aiuti, la fiera ti persegui-terà per divorare te».

Allora la donna andò nel l 'accampamento e trovò una canna di palude. La sollevò ed ecco un uccellino posarvisi sopra cantando. «O uccellino della canna, che vedi, che scorgi?» chiese la donna . «Vedo una cosa grande come un chicco di miglio e sta venendo qui!» E dopo un po' tornò a chiedergli: «O uccellino della canna, cosa vedi?». E l'uccellino rispose: «Vedo una cosa grande come un chicco di frumento». E la volta successiva: «Grande come un chicco di gran-turco». E la quarta volta: «Grande come un monto-ne. Più viene vicino più diventa grosso». La quinta volta era già grosso come un toro e la sesta come un cammello. Allora la donna gettò via la canna e fuggì da un contadino che in quel momento stava arando con una coppia di muli.

«Amico,» gli disse «la tua protezione è la protezio-ne di Dio. Aiutami e mi potrai sposare!»

«Cosa posso fare io contro il mostro! L'unica spe-ranza è che ti aiutino i miei animali. Mettiti in mez-zo alle due mule aggiogate. Ora, se il mos t ro cari-cherà da davanti, i miei animali lo afferreranno coi loro denti, mentre se attaccherà da dietro, lo colpi-ranno coi loro zoccoli.» Il mostro infatti non riuscì a divorare la donna e le disse: «Ehi, tu, apri la bocca e parliamo!». E lei di r imando: «Che cosa abbiamo in comune di cui io possa parlarti?». Allora egli le gettò un pezzo di brace, colpendola su un dente e anne-rendoglielo. Dopodiché le disse: «Adesso ti posso ri-conoscere! Andrò in giro per il paese travestito da ta-glialegna o da mercante, vendendo cucchiai o merci varie, e ti ritroverò». «Tu non hai un bel niente da poter vendere» rispose la donna.

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Dopo che il mostro se ne fu scappato, il padrone dei muli prese in casa la donna e la sposò. Essa gli partorì un figlio. Il mostro si era t rasformato in un mercante e in questa veste attraversava gli accampa-menti e i villaggi delle montagne alla ricerca della donna. Tutte le donne che volevano comperare qual-cosa dovevano togliersi il velo davanti a lui, altrimen-ti egli non vendeva loro nulla. Così il mercante anda-va in giro finché non giunse nell 'accampamento di quella donna. Essa gli si presentò velata ma egli le disse: «Non vendo nulla a chi porta il velo!». Allora es-sa si tolse il velo ed egli la riconobbe subito. Le disse: «Se questa notte mi fai pernottare da te ti darò quello che vorrai della mia mercanzia senza farti pagare».

«Volentieri!» disse la donna. «Sii il benvenuto!» Nella tenda il mercante tirò fuori le sue merci e le

regalò tutto quello di cui essa aveva bisogno. Quando poi venne la sera e giunse l'ora della mun-

gitura, essa diede il figlioletto alla donna anz iana che era nella tenda e andò a mungere le pecore. Allo-ra il mercante si avvicinò alla vecchia e le disse: «Da' qua il bambino che te lo tengo!». La vecchia glielo diede ed egli lo prese e lo inghiottì in un batter d'oc-chio. Poi macchiò di sangue il petto della vecchia e le appese al collo la manina del bimbo. Quando la donna tornò dalla mungi tura e richiese il bambino alla vecchia, questa disse: «Non ce l'ho. L'ho dato al mercante».

«Lei non mi ha dato niente» disse questi alla ma-dre del bimbo. Allora la madre si graffiò le guance dal dolore e gridò: «Che cosa mi hai fatto?». E la vec-chia: «Che cosa ti ho fatto? È stato il tuo mercante che se l'è divorato!». Allora essa si graffiò le guance in segno di lutto fino a sfinirsi.

Il matt ino successivo venne deciso di trasferire l 'accampamento. Il mercante si offrì di pascolare i

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cammelli mentre la gente preparava i bagagli. Egli sospinse i cammelli nel bosco, divorò il più grosso e si infilò nella sua pelle, e poi ricondusse indietro i rima-nenti. La gente pose i propri carichi sui cammelli, e sul più grosso fu sistemata la tenda grande. Poi la ca-rovana si mise in marcia. Il cammello grosso, che portava la tenda pesante, fece un paio di passi e poi crollò. Venne scaricato il suo fardello, il cammello venne fatto inginocchiare come si deve e fu caricato di nuovo. Sulla sponda di una f iumara il cammello cadde di nuovo e il carico finì in fondo all'avvalla-mento. Allora il mostro uscì dal travestimento e balzò sulla donna gridando: «Ti divorerò! Divorerò tutto, perfino la terra su cui cammini!».

«Per Allah,» disse la donna «permett imi solo di chiamare qui un cane per dargli l'addio.»

«Fa' pure!» rispose il mostro. Allora essa si mise a gridare: «Padrone dei cavalli,

padrone delle pastoie!». Allora suo marito accorse e si rese conto di quello che stava succedendo. Si pre-parò alla lotta e disse alla moglie: «Se vedrai sangui-nare me per primo, allora lancia trilli di gioia, ma se è il mostro che sanguinerà per primo, allora gambe in spalla e mettiti in salvo!».

L'uomo lottò col mostro, e questi staccò via il mi-gnolo all'uomo; allora la donna lanciò trilli di gioia. Quindi fu l 'uomo che staccò una testa al mostro, e poi ancora un'altra, poi la terza, la quarta, la quinta e anche la sesta, ma non l'ultima. Allora il gigante gli disse: «Staccami anche la settima!». Ma l 'uomo non lo fece, e invece gli disse: «Solo un vecchio setaccio lascia passare tutto!». Infatti egli sapeva bene di non potergli staccare anche l 'ultima testa, perché altri-menti sarebbero ricresciute da capo tutte e sette. Co-sì il mostro dovette morire.

Allora la gente recuperò la tenda dal letto della

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fiumara, la caricò su un cavallo e continuò il trasfe-rimento fino al nuovo posto dove collocare l'accam-pamento . Qui t rovarono u n a mula che pascolava. «Guarda!» disse il marito. «È di sicuro Allah che ci fa dono di ques ta mula in sost i tuzione del nos t ro cammello.» Presero la mula e la legarono a un palet-to davanti alla loro tenda. Allora la mula disse alla donna: «Guarda i miei denti, con cui ti divorerò!».

La donna fu colpita dalla paura e fuggì da suo ma-rito. «Guarda che la mula adesso vuole mangiarmi!»

«Leghiamo stretta la bestia!» disse il contadino. E così fecero.

Dopo cena la donna chiamò il suo cane, se ne andò fino all'acacia che si trovava nelle vicinanze e vi si na-scose. Nel f ra t tempo la mula rosicchiò i suoi legacci, si avventò sull 'uomo e lo uccise. Lo inghiottì, poi si slanciò sulla tenda e se la divorò tutta. Quindi, furi-bonda, si mise a cercare la donna, ma non la trovò. All'alba comparvero dei cavalieri e videro la donna sull'albero. La aiutarono a scendere e le chiesero: «Che cosa è successo?». «È stata quella mula laggiù» rispose la donna. «Ha divorato la nostra tenda e in-ghiottito mio marito.» Con le sciabole sguainate i ca-valieri si gettarono contro la mula gridando: «Resti-tuisci Ali come era!». Allora la mula lo restituì vivo. La povera donna tuttavia morì dallo spavento, il suo fegato era spezzato.

2 . L ' A C Q U A C H E N O N C A D E D A L C I E L O E N O N S G O R G A D A L L A T E R R A

Nei tempi antichi viveva una volta un uomo anziano che aveva un solo figlio di nome Yasin. Yasin crebbe fino a diventare un giovanotto, ma non possedeva né un cavallo né un fucile. Non si è considerati un vero

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uomo se non si hanno né un cavallo né un fucile, e per questo Yasin si vergognava sempre, tutte le volte che incontrava i suoi amici, a tal punto che finì per ammalarsene. Suo padre era molto povero, ma ama-va Yasin e rifletté a lungo sul modo di aiutarlo, e un giorno gli disse: «C'è una sola soluzione. Vendimi, così potrai comprart i ciò che ti spetta».

Yasin andò al mercato con suo padre e lo vendet-te, tuttavia il ricavato bastò appena per un cavallo, dal momento che suo padre era anziano, e di conse-guenza il suo prezzo era basso.

A capo chino Yasin fece ritorno a casa sul suo ca-vallo. Allora la madre , che era mol to preoccupata per lui, gli disse: «Vendi me, figliolo, affinché col ri-cavato tu possa comprart i un bel fucile ed essere un uomo tra gli uomini».

Yasin si recò con lei al mercato e la vendette, poi acquistò un fucile, salì a cavallo e prese a cavalcare nella steppa cacciando. Arrostì quello che aveva cac-ciato e se lo mangiò, finché gli venne sete; però non aveva acqua con sé. Cavalcò a lungo in tutte le dire-zioni alla ricerca di qualche beduino, ma senza risul-tato. Alla fine si coricò all 'ombra del suo cavallo per riposare. Ma la sete si faceva sempre più forte. Allo-ra si rivolse al cavallo e alzò la mano passandogliela sot to l 'ascella e bevve il b ianco sudore . In ques to m o d o egli potè proseguire il suo c a m m i n o f ino a raggiungere una grande città.

Alle mura e agli alberi di questa città erano appesi teschi e ossa umane. Yasin ne volle sapere il motivo e interrogò un vecchio che trovò seduto sotto i ba-stioni.

Il vecchio gli rispose: «Su di noi si è abbattuta una grossa sventura. Il re vuole fare sposare sua figlia Amina, ma essa vuole accettare solo un u o m o che sia più intelligente di lei. Il pretendente deve porle 10

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un indovinello, e se essa non riesce a risolverlo lo sposerà. Ma se lo risolve, ordina al boia di tagliargli la testa; finora non ha trovato nessuno che la vinces-se. Tutti quelli che ci si sono provati sono stati deca-pitati, e le loro teste sono state appese alle mura». Yasin ringraziò il vecchio e diresse il suo cavallo ver-so il palazzo del re.

La pr incipessa lo vide e lo invitò a ent rare . Poi pretese che lui le ponesse un indovinello. Yasin ri-fletté un momento, poi disse:

Dimmi: chi ha venduto sua madre e suo padre? Chi ha bevuto l'acqua che non sgorga dalla terra e non cade dal cielo?

La pr incipessa disse: «Lasciami sette giorni di tempo. Se entro questi sette giorni io avrò trovato la soluzione, ti farò tagliare la testa; ma se non ci riu-scirò, ti sposerò». Yasin acconsent ì e se ne andò. Prese dimora in una casa diroccata ai margini della città e si riposò del suo lungo viaggiare.

Dopo sei giorni di attesa, si recò al castello per ve-dere se la principessa avesse trovato la soluzione dell'indovinello. Quando la incontrò, essa era in gran-di angustie perché continuava a non conoscere la so-luzione.

Per Yasin non era però ancora il momento di ral-legrarsi, dal momento che restava ancora un giorno. La pr incipessa aveva una grande paura di essere sconfitta e non voleva darsi per vinta.

Perciò si travestì da vecchia mendicante e seguì le tracce di Yasin, per scoprire dove alloggiasse. Qui es-sa attese che fosse calata la notte, dopodiché entrò da lui e gli disse con voce contraffatta: «Buona sera, figliolo! Vedo che sei contento. Ma come si può esse-re contenti in un paese come questo, dove le mura

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sono guarni te di teschi umani! Liberaci da questo malanno, dalla principessa Amina!».

Yasin le disse: «O nonnina, già da domani la figlia del re non farà più danno, perché all'alba di domani mi sposerà. Essa non può trovare la soluzione dell'in-dovinello, e io sono convinto che sarà sconfìtta».

Allora la principessa travestita da mendicante gli chiese di raccontare la sua storia, e lo spronò con molte parole, maledicendo mille volte la principessa Amina.

Allora Yasin le raccontò come avesse venduto suo padre e sua madre e come avesse bevuto il sudore del cavallo quando aveva avuto sete. La vecchina fe-ce un'altra volta i suoi auguri a Yasin, imprecò con-tro la figlia del re e riprese il cammino. Yasin si ad-dormentò e sognò la sua vittoria sulla principessa. Quando, il matt ino seguente, si destò, trovò lì vici-no un fazzoletto e riconobbe subito che era il fazzo-letto della principessa Amina. Essa lo aveva perduto il giorno pr ima senza accorgersene. Allora Yasin si avvide di avere commesso un grande errore, e rima-se perplesso sul da farsi. Abbandonare il paese con una fuga ignominiosa, o affrontare a testa alta la morte?

Alla fine decise di affrontare a testa alta la morte. Yasin cavalcò fino al palazzo, dove già lo attende-

va la principessa col suo seguito. Egli la salutò ri-spettosamente e le chiese la soluzione dell'indovinel-lo. Allora essa narrò tutta la storia e chiamò il boia. In quell'istante Yasin disse:

Ditemi quale colomba è volata coi venti e ha perso una penna dell'ala; e ciò che è stato detto ieri sera, com'è che lo sentiamo oggi?

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Poi estrasse il fazzoletto di Amina e lo agitò per salutare. Il seguito della principessa riconobbe subi-to il fazzoletto, cosicché essa dovette ammettere la propria sconfitta e sposare Yasin.

3. IL M E R C A N T E , L'IFRIT E I T R E V E C C H I

Si nar ra che nei tempi antichi avvenne questo: un mercante , che col commerc io aveva accumula to molte ricchezze, un giorno uscì a cavallo dalla sua città per vedere la campagna, e quando il caldo si fe-ce opprimente, si sedette a riposare sotto un albero. Per rifocillarsi prese dalla tasca della sella una man-ciata di datteri e li mangiò, gettando i noccioli dietro di sé con noncuranza. Tutt'a un tratto sorse davanti a lui un gigantesco ifrit che, brandendo una spada, gli disse con voce imperiosa: «Alzati, che ti voglio uccidere, perché tu hai ucciso mio figlio!». Il mer-cante, impaur i to , rispose: «Come? Io avrei ucciso tuo figlio?». Al che l ' i f r i t ribatté: «Tu hai gettato die-tro di te i noccioli dei datteri che hai mangiato. Un nocciolo ha colpito mio figlio al petto, lo ha passato da parte a parte e lo ha ucciso all'istante». Il mercan-te rispose: «Sappi, o ifrit, che io sono un uomo dab-bene, con una grande quantità di beni e moglie e fi-gli. Perciò, ti prego, lasciami to rna re a casa per assegnare a ciascuno la sua parte di eredità secondo misura e giustizia. Poi tornerò da te, affinché tu pos-sa fare di me ciò che vorrai. E ti giuro che lo farò, e che Allah sia il garante delle mie parole!». L ' i fr i t gli credette e lo lasciò andare.

Quando egli giunse a casa, r adunò in torno a sé moglie, figli e servi, e comunicò loro ciò che gli era capitato. Essi cominciarono a piangerlo, ma egli li

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consolò dicendo di avere ancora tempo fino alla fine dell'anno.

Nel f ra t tempo egli regolò le sue faccende, poi si vestì a festa e si preparò per il viaggio. La sua fami-glia, i suoi vicini e amici lo accompagnarono fino al-la por ta della cit tà tra piant i e lamentazioni . Così egli uscì verso la campagna diret to al luogo in cui aveva incontrato l ' i fri t , dove giunse proprio il pr imo giorno del nuovo anno. Allora si sedette piangendo il proprio destino. Alle sue spalle si fece avanti fino a lui un vecchio con una gazzella al guinzaglio, e gli disse: «Salve, s t raniero, t i auguro una lunga vita! Perché te ne stai seduto qui, in questo luogo di asilo dei jinn?». Allora il mercante gli narrò quale sciagu-ra lo minacciasse e perché se ne stava in attesa in quel luogo. Il padrone della gazzella si meravigliò e disse: «Per Allah, tu sei un uomo dabbene e il tuo de-stino è singolare, ma non è determinato in modo im-modificabile». Poi si pose a sedere accanto a lui e gli disse: «Fratello, non ti lascerò più finché non avrò visto che cosa farà di te L ' i fr i t».

Ciononostante, il mercante aveva una grande pau-ra e tremava. Ed ecco avanzare verso di lui un se-condo vecchio, che portava con sé due cani neri. Sa-lutò tutti e due cortesemente e chiese loro perché se ne stessero seduti in quel luogo infestato dai jinn. Al-lora il mercante gli riferì tutto dal principio, e come egli fosse così rattristato perché di lì a poco sarebbe giunto l'ifrit per prendersi la sua vita. A quel punto anche il secondo vecchio si sedette e promise di ri-manere loro accanto . Mentre essi par lavano così, comparve un terzo vecchio che aveva con sé u n a mula . Egli sa lutò secondo l 'uso della regione e si informò sulla salute di quegli uomini e volle sapere perché essi se ne stessero seduti in un luogo che ap-parteneva ai jinn. Il mercante tornò a raccontare la

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propr ia esperienza con l ' i f r ì t , la sua promessa e il motivo della sua tristezza.

Improvvisamente si levò un grande turbine di sab-bia che avvolse completamente gli uomini. La sab-bia non aveva fatto in tempo a posarsi che già l 'ifrit si trovava davanti a loro con la spada sguainata, e di-ceva al mercante: «Alzati, che ti voglio uccidere, per-ché tu hai ucciso mio figlio!». Il mercante proruppe nuovamente in alte lamentazioni , per cui il p r imo vecchio, quello della gazzella, si alzò, baciò la mano del l'ifrit e disse: «O spirito, incoronato re dei jinn, se io ti raccontassi quello che mi è capitato con questa gazzella che qui vedi e tu trovassi s tupefacente il mio racconto, mi faresti dono di un terzo del sangue di quest'uomo?». «Sì, vecchio,» rispose l'ifrit «se tro-verò stupefacente il tuo racconto ti farò dono di un terzo del sangue di quest 'uomo.» «Devi dunque sa-pere» cominciò a raccontare il vecchio «che questa gazzella è la figlia di mio zio, sangue del mio sangue, e che io l'ho sposata quand'era ancora molto giova-ne, e abbiamo vissuto insieme per t rentanni , senza però che lei mi desse un figlio. Allora mi presi una schiava come seconda moglie, e questa mi par tor ì un figlio. Egli diventò un bel giovane dagli occhi chiari e di spirito brillante. Quando ebbe quindici anni, dovetti intraprendere un lungo viaggio che mi tenne parecchio tempo lontano da casa.

«Mia moglie da piccola aveva imparato la magia, e così, durante la mia assenza, gettò un incantesimo su mio figlio t r a s fo rmando lui in un torello e sua madre , la mia seconda moglie, in una mucca, e li consegnò ai nostri pastori . Al mio r i torno da quel lungo viaggio, chiesi a mia moglie dove fossero mio figlio e sua madre. Essa mi disse: "La tua seconda moglie è morta e tuo figlio è fuggito, e non so dove si sia diretto".

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«Trascorsero molti anni e il mio cuore era pieno di tristezza. Giunse l 'annuale Festa del Sacrifìcio, e io ordinai al pastore di portarmi una vacca grassa, ed egli mi portò colei che era diventata una mucca in seguito all 'incantesimo di mia moglie. Io mi prepa-rai, presi il coltello grande e mi accinsi a macellare l'animale, quando vidi che la vacca era tutta pelle e ossa ed era assolutamente priva di grasso. Allora la riconsegnai al pastore e gli chiesi un altro animale che fosse più in carne. Egli mi portò un torello, e per la precisione proprio quello che era mio figlio e ave-va assunto questo aspetto in seguito all 'incantesimo di mia moglie. Quando mi vide, si l iberò con uno strappo della fune che lo teneva, mi si avvicinò e co-minciò a brucare accanto a me. E intanto emetteva sonori lamenti. Allora mi colse la compassione e dis-si al pastore: "Portami pure la mucca e lascia stare questo toro!". Quando il toro udì le mie parole, prese a piangere ancora di più.»

E il padrone della gazzella proseguì: «O signore, re dei jinn, tu t to ciò è accaduto veramente, e mia moglie, la figlia di mio zio, assisteva anch'essa e mi diceva: "Orsù, sacrifica questo toro, dal m o m e n t o che è bello grasso!". Ordinai quindi al pas tore di prenderlo e sgozzarlo lui, perché il mio cuore non lo avrebbe sopportato. Allora il pastore si rivolse a me e mi disse: "Mio signore, io ho una figlia che fin da piccola ha imparato da una vecchia le arti magiche. Ieri mia figlia è venuta a casa con un torello e ho vi-sto che si era coperta il volto e piangeva; poi si mise a r idere e mi disse: 'Padre mio, dammi in sposa a quest 'uomo che sta accanto a me'. Io chiesi: 'Dov'è un uomo accanto a te, e perché pr ima piangi e poi ridi?'. E lei mi rispose: 'Questo toro che sta accanto a me è il figlio del tuo padrone, ma è in preda a un in-cantesimo e così pure sua madre: è questo il segreto

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del mio pianto e del mio riso'. Sul momento però io non le ho creduto, e solo quando ho visto come tu esitavi a macel lare la mucca e il toro che ti avevo portato ho capito che doveva essere vero".

«Quando udii queste parole, o signore dei jinn, mi colse una grande gioia e mi recai in fretta col pasto-re nella sua casa, salutai sua figlia e le baciai la ma-no, poi le chiesi: "Mostraci che le tue parole sono ve-re e libera dall 'incantesimo questo toro e sua madre, se lo puoi!". Essa disse: "Sì, signore, lo farò". Allora le promisi la proprietà di tutti i beni che suo padre, il pastore, amministrava per mio conto. Essa sorrise e disse: "Non voglio ricevere dei beni, ma ti richiedo solo due cose: per pr ima cosa che tu mi lasci sposare tuo figlio, e per seconda cosa ti chiedo di potere pu-nire io stessa con un incantesimo colei che ha fatto l ' incantesimo a lui e a sua madre".

«Quando udii queste parole, o signore dei jinn, mi rallegrai ancora di più e accettai entrambe le condi-zioni. Allora la figlia del pastore prese un recipiente, lo riempì d'acqua e ne asperse il toro dicendo: "Co-me è vero che Dio ti ha fatto assumere le tue attuali sembianze, così possa tu ora tornare nel tuo aspetto precedente, quello con cui Dio ti ha originariamente creato!". Allora il toro ridivenne un uomo, e io gli dissi: "Per Allah, raccontaci tut to quello che è suc-cesso a te e a tua madre!". Egli ci fece il resoconto, dopodiché la figlia del pastore liberò dall'incantesi-mo anche la madre trasformata in mucca.

«Con grande gioia permisi alla figlia del pastore di sposare mio figlio e concessi loro tutti i beni che il pastore aveva amminis t ra to per conto mio, e molti altri ancora . Dopodiché la figlia del pas tore tra-sformò mia moglie in una gazzella, che è quella che tu vedi qui accanto a me, o signore dei jinn. Questa è la mia storia. Non la trovi stupefacente, o signore dei

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jinn?» Egli rispose: «Questa storia è davvero stupefa-cente, e io ti faccio dono di un terzo del sangue del mercante».

Allora si alzò il secondo vecchio, quello che aveva due cani, e disse: «O signore, re dei jinn, questi due cani sono i miei fratelli, e se io ti raccontassi come è successo che si sono trasformati in cani, e tu trovas-si stupefacente la mia storia, mi faresti poi dono di un terzo del sangue di questo mercante?». L'ifrit ri-spose: «Sì, raccontamelo, e se lo troverò stupefacen-te, ti farò dono di un terzo del sangue di questo mer-cante».

Allora il vecchio prese a narrare la storia seguente: «Eravamo tre fratelli. Quando morì nostro padre, ci lasciò tremila dinari. Con essi aprii un negozio e co-minciai a vivere di commercio. Un giorno dovetti in-traprendere un lungo viaggio d'affari e affidai il ne-gozio ai miei fratelli . Quando, dopo lunghe peripezie, fui f inalmente di r i torno, non avevo più nulla con me, perché tut to era andato perduto nel viaggio. I miei fratelli, però, non mi biasimarono, e anzi divisero con me quello che nel f ra t tempo aveva-no guadagnato col negozio. Allora lodai Dio di aver-mi dato questi fratelli, e ricominciai il mio commer-cio nel negozio.

«Qualche tempo dopo, furono i miei fratelli a vo-ler intraprendere un viaggio, e mi pregarono di an-dare con loro. Avevo un bel r icordare loro le mie sventure e gli incerti dei viaggi per affari: essi non si lasciarono dissuadere e continuarono con insistenza a pregarmi, finché cedetti. Contammo dunque il de-naro che avevamo guadagna to tut t i e tre insieme, una metà la impiegammo nell'acquisto di merci, ca-valli e animali da soma, e l'altra metà la dividemmo in tre parti uguali, in modo che ciascuno di noi rice-

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vette la sua parte e la nascose per l 'eventualità che dovessimo tornare senza alcun ricavo.

«Quindi pa r t immo per il viaggio e conducemmo la nostra carovana per un mese intero attraverso ter-ritori desolati, f inché g iungemmo a una città dove per le nostre merci ricavammo il decuplo di quanto ci e rano costate. Con questo ricavo acqu i s t ammo merci di grande valore e ci me t temmo di nuovo in cammino per to rnare nella nostra città di origine. Quando giungemmo sulla riva del mare, mi apparve all'improvviso una giovane donna svestita, di grande bellezza e dai lunghi capelli lucenti. Costei mi disse: "Se hai bontà e possiedi dei beni, dammene un po' e io ti contraccambierò!". Io risposi: "Di beni io ne ho di certo, e anche di bontà non me ne manca, per cui ti voglio fare un dono". Essa mi disse: "Poiché tu mi doni qualcosa, anch' io t i farò un dono: prendi me come mio dono per te!". Allora la presi, la rivestii di splendide stoffe e la feci salire sul mio cavallo. Mi ci affezionai a tal punto che non volevo più separarmi da lei né di giorno né di notte, poiché aveva conqui-stato appieno il mio cuore.

«I miei fratelli, però, cominciarono a invidiarmi per questa bella donna, e lo potevo vedere dai loro sguardi. La mia donna mi mise in guardia contro di loro dicendo: "Essi ti uccideranno e prenderanno i tuoi beni, per possederli tutti da soli". Io però non le credetti, e le raccontai invece quanto i miei fratelli fossero stati buoni con me quando, la pr ima volta, ero r i tornato dal viaggio senza più un soldo. "Essi sono buoni nei loro cuori, e non f a ranno nulla di male" le dissi.

«Ma quella notte, mentre io dormivo accanto a mia moglie, essi ci sollevarono, ci portarono sulla scoglie-ra e ci gettarono in mare. Mia moglie, che era la figlia di un jinn, si t rasformò istantaneamente in un grande

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uccello, e quando io riemersi dall'acqua, mi afferrò e mi portò su un'isola vicina. Quindi tornò ad assumere il suo aspetto di donna e disse: "Io sono la figlia di un jinn e ti ho salvato t rasformandomi in uccello. Non avere timore, io appartengo a quei jinn che hanno op-tato per Dio e il suo regno. Ora mi vendicherò sui tuoi fratelli e li ucciderò". Io ne fui assai stupito e la pregai di risparmiare i miei fratelli. Essa disse: "Allora non li annegherò, come avevo deciso di fare. Ma questa not-te mi trasformerò di nuovo in un uccello. Allora siedi-ti sul mio dorso: volerò fino al tuo paese".

«Quella notte si t rasformò nuovamente in un gros-so uccello e mi trasportò per il lungo tratto che ci divi-deva da casa mia. Qui giunti, mi depose sul tetto. Il matt ino scesi, salutai la mia gente ed entrai in casa, dove trovai questi due cani legati. Quando essi mi vi-dero, si misero a guaire. Ma io non sapevo da dove ve-nissero, finché mia moglie, che era tornata ad assu-mere sembianze umane, disse: "Questi sono i tuoi due fratelli, che non ho potuto annegare perché tu mi hai pregato di risparmiarli. Li ho invece mandat i da mia sorella, che li ha trasformati in cani per dieci an-ni, passati i quali essi ridiverranno uomini".

«Questa, o signore e padrone dei jinn, è la mia sto-ria. Non la trovi stupefacente?» «Sì,» disse l ' i f r i t «es-sa è stupefacente e io ti faccio dono di un terzo del sangue di questo mercante.»

Allora si alzò il terzo vecchio, quello con la mula, e disse: «O signore e re di tutti i jinn, questa mula è mia moglie, e se ti racconterò come ha fatto a diven-tare così e tu troverai stupefacente la mia storia, mi farai dono di un terzo del sangue di questo mercan-te?». «Sì,» disse l ' i f r i t «così sia.»

Allora il terzo vecchio incominciò il suo racconto: «Tornando un giorno da un lungo viaggio, trovai mia moglie nel letto con due schiavi negri, che si diverti-

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vano, scherzavano e giocavano insieme. Mi colse al-lora l'ira e stavo per precipitarmi su di loro quando essa prese un vaso con dell'acqua e mi asperse con es-sa dicendo: "Abbandona il tuo aspetto attuale e assu-mi l'aspetto di un cane!".

«Divenni così un cane e corsi fuori dalla porta ri-trovandomi nella via dove c'era un macellaio, al qua-le rubai un pezzo di carne. Allora il macellaio mi cat-turò, mi legò e mi portò a casa sua per uccidermi. Sopraggiunse la figlia dell 'uomo e si coprì il volto davanti a me. Poi chiese a suo padre: "Perché hai por ta to qui quest 'uomo?". Suo padre disse: "Dov'è un uomo?". Essa rispose: "Questo cane è un u o m o che ha subito un incantesimo da parte di sua moglie. Ma io posso liberarlo". All'udir ciò, suo padre disse: "Dio sia con te, figlia mia, libera quest'uomo!". Allo-ra essa prese un recipiente con dell'acqua, recitò de-gli scongiuri e mi asperse con un po' di quell'acqua. Aggiunse poi queste parole: "Abbandona il tuo aspet-to attuale e assumi il tuo aspetto originario e persisti in esso!". Allora le baciai le mani e la pregai di getta-re un incantesimo sulla mia moglie malvagia, così come essa aveva fatto nei miei confronti. Essa prese dal recipiente un po' dell'acqua su cui aveva recitato gli scongiuri, me la diede e disse: "Va' da tua moglie, e quando la troverai addormenta ta , aspergila con l'acqua e la trasformerai in quello che vorrai!".

«Io feci come mi aveva detto, e la t rasformai in una mula. E questa mula che voi vedete qui accanto a me, o re e signore di tutti i jinn, è colei che un tem-po è stata mia moglie.» Si rivolse quindi alla mula e le chiese: «È vero ciò che ho detto?» e la mula fece cenno col capo per significare che era vero.

Allora l ' i f r i t si alzò, si scosse la polvere di dosso e disse al terzo vecchio: «Trovo stupefacente la tua sto-ria e ti faccio dono dell 'ultimo terzo del sangue di

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questo mercante». Quindi l ' ifrit sfrecciò via come un uragano.

Il mercante abbracciò i tre vecchi, ringraziandoli più e più volte, dopodiché tutt i fecero r i torno alle proprie case e vissero felici in mezzo ai loro cari fin-ché la morte li portò via.

4 . I L P R I N C I P E M O H A M M E D , C H E R A P Ì L A F I G L I A D E L C A P O T R I B Ù D E I N O M A D I

Un giorno il principe Mohammed se ne andava a passeggio a cavallo in compagnia della sua guardia del corpo quando giunse nell 'accampamento di un capotribù dei nomadi . Qui egli vide una fanciulla bellissima, e a partire da quel momento non disse più una parola. Tornò a casa, si mise a letto e non parlò più con nessuno, nemmeno con il padre o la madre. Allora il re fece bandire per la città questo annuncio: "Chi riuscirà a porre a mio figlio una do-manda capace di ottenere una sua risposta, riceverà in dono tutto quello che desidera al mondo. Ma a colui cui mio figlio non risponderà farò tagliare la testa".

Si fecero avanti i suoi amici e lo interrogarono, ma egli non rispose nemmeno una parola. Il re fece tagliare loro la testa. Alla fine furono in novantanove ad avere la testa tagliata. Si fece quindi avanti una vecchina che disse al re: «Voglio porre io una do-manda a tuo figlio!». Il re disse: «Vattene, vecchia!». La vecchina aveva i capelli bianchi e le rimaneva un solo dente che assomigliava alla chiave di una pri-gione. La vecchia tornò a ripetere: «Eppure, io vo-glio porre una domanda a tuo figlio!». Il re aggiunse: «Sono già novantanove le teste che ho fatto tagliare, con te potremo completare il centinaio». La vecchia

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disse solo: «Macché, se solo riuscissi a parlargli!». Allora il re disse: «Avanti, entra!».

La vecchina en t rò al cospet to del pr inc ipe Mohammed, lo guardò e quindi gli disse: «Che cosa ti manca , per s ta r tene disteso nel tuo giaciglio a guardare fìsso il cielo? Sei stato forse colpito da due occhi neri?». Al che il figlio del re balzò in piedi e disse: «Sì, vecchia!». Allora il re comandò: «Portate qui la vecchia!». Il re le diede tutto ciò che desidera-va ed essa se ne andò. A ques to pun to il pr inc ipe andò dal re e gli disse: «Voglio solo questa fanciulla nomade!». Il re gli rispose: «Va' e prendi con te delle guardie del corpo!». Allora essi part irono e chiesero la m a n o della fanciulla al capotr ibù dell 'accampa-mento di nomadi. Il capotribù rispose: «Datemi solo un mese per pensarci su!». Essi si dissero d'accordo e fecero ritorno a casa.

Quando essi si furono allontanati, il capotribù fe-ce bandi re per l ' accampamento : "Cosa dovrò fare per non farmi portare via la figlia dal figlio del re? A chi saprà darmi un buon consiglio, la concederò in sposa". Nel l 'accampamento viveva anche un u o m o mala to di t igna, che si fece avanti e gli disse: «Ti da rò io un consiglio sul da farsi per evitare che il principe ti porti via la figlia». E il capotribù dei no-madi disse: «Se tu mi darai un buon consiglio, te la darò in sposa». Il tignoso gli chiese: «Quanto è lungo il tempo che hai stabilito col figlio del re per pensar-ci su?». Il capotribù rispose: «Ci siamo accordati per un mese». Allora il tignoso disse: «E tu per un mese devi viaggiare!». Il capotribù disse: «D'accordo. Fa-remo così!». E ordinò a tutti: «Domani leveremo le tende!». Così il matt ino seguente partirono. Viaggia-rono per un mese intero. Ma in tutti i luoghi ove fa-cevano tappa per la notte la fanciulla deponeva un

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piccolo panino, una ciotola d'acqua e una manciata di chicchi d'orzo.

Ritorniamo ora con la storia al figlio del re! Quan-do fu trascorso un mese, egli disse alle sue guardie del corpo: «Orsù, andiamo dal capotribù dei noma-di!». Balzarono a cavallo e raggiunsero il luogo dove era stato l 'accampamento, ma lo trovarono deserto. Allora il figlio del re rovistò con un bastone il terre-no, fino ad arrivare al luogo dove era stata la tenda della fanciulla, e disse ai suoi uomini: «È qui che sta-va la mia fanciulla!», poiché aveva trovato la pagnot-tella, la ciotola d 'acqua e la mancia ta d'orzo. Disse t ra sé: "La fanciul la vuole che io la segua". Disse quindi alle sue guardie del corpo: «Chi vuole, può se-guirmi; chi non vuole, torni indietro fino alla città!». Allora le guardie del corpo tornarono indietro, e il fi-glio del re proseguì il viaggio da solo. Alla fine giun-se al castello di un ifrit, lo osservò per bene e disse tra sé: "È proprio qui che deve trovarsi la mia fan-ciulla!". Mentre egli at tendeva all 'entrata, vennero fuor i tre fanciulle, che gli dissero: «O bel giovane, vattene via! Qui c'è un ifrit che sta per venire a divo-rarti!». Il giovane disse loro: «Se verrà l'ifrit, so ben io che cosa gli farò!».

Il giovane si pose a sedere e aspettò che giungesse la notte. Allora apparve l'ifrit, scorse il giovane e gli chiese: «Che cosa ti ha portato qui, o pezzo di bricco-ne trasportato dal fiume?». Il giovane ribatté: «Fatti avanti e affrontami, orsù combatt iamo! Sguaina la spada!». Poi disse: «Nel nome di Dio!». L'ifrit sguainò la spada e il giovane sguainò la sua e si affrontarono. Alla fine il giovane lo sollevò in alto e lo scaraventò a terra, dopodiché afferrò la spada e si accingeva a uc-ciderlo quando l'ifrit gli gridò: «Non uccidermi! Tu sa-rai il mio padrone in questo e nell'altro mondo!». Poi

l'ifrit si rialzò e disse: «Vieni, entr iamo in casa!».

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Venne giù la maggiore delle tre fanciulle, che voleva portare su l'ifrit. Ma l'ifrit le disse: «Porta questo gio-vane, egli è il mio padrone in questo e nell'altro mon-do!». Il giovane le disse: «Non portarmi!». Salirono tutti insieme e vi rimasero tre giorni, dopodiché il gio-vane disse all'ifrit: «Tu rimani qui fino al mio ritorno», e gli raccontò tutto quello che gli era accaduto. Allora egli disse al giovane: «Non mi abbandonare! Io ti ac-compagnerò in questo e nell'altro mondo!». Allora es-si si misero in viaggio insieme e raggiunsero l'accam-pamento della fanciulla. Qui essi appresero che quello stesso giorno doveva aver luogo il matr imonio della fanciulla; il tignoso voleva farla sua sposa. Allora si precipitarono al gran galoppo nell 'accampamento, puntando dritti verso la tenda della fanciulla. Gli abi-tanti dell 'accampamento si alzarono e furono assai stupiti nel vedere i due cavalieri. Essi proseguirono nel galoppo, l'ifrit, in veste di servitore negro, afferrò la fanciulla e la collocò sul cavallo dietro al principe Mohammed. Quindi i due, con la fanciulla, si diedero alla fuga. In seguito a ciò gli abitanti delle tende leva-rono grandi grida e presero a inseguirli. Quando li eb-bero raggiunti, il principe Mohammed disse all'ifrit: «Rivolgiti contro di loro!». Allora il servitore negro si rivolse contro di loro, sollevò in alto un cavallo degli avversari e con esso abbatté cinquanta uomini in un sol colpo. Dopodiché proseguirono il loro cammino e raggiunsero nuovamente la casa dell 'ifrit, dove rima-sero tre giorni.

Da lì presero con sé le tre fanciulle e si diressero alla volta della città del re; avevano ora quattro fan-ciulle al loro seguito. Quando il re le vide, fu preso da un ardente desiderio e disse ai suoi fidi: «Provve-dete a uccidere mio figlio!». Essi risposero: «Lo fare-mo». Poi a n d a r o n o dal figlio del re e gli dissero: «Vieni con noi a fare un'escursione a cavallo!» e lo

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condussero in un luogo selvaggio per ucciderlo. Ma ebbero compassione e gli dissero: «Per Allah, ti cave-remo gli occhi». Egli domandò: «Perché?». Ed essi ribatterono: «Tuo padre ci ha comandato di uccider-ti». Egli disse: «Mi sta bene». E quelli gli cavarono gli occhi.

Il povero giovane si sedette sot to un albero, quand'ecco avvicinarglisi due colombe, che comin-ciarono a parlare tra loro. Una disse all'altra: «Se sa-pessi che proprietà ha il mio albero, ti meravigliere-sti!». E l 'altra le chiese: «Che propr ie tà ha?». La pr ima rispose: «Se un cieco prende una foglia dell'al-bero e fa gocciolare negli occhi il liquido che ne fuo-riesce spremendola, torna a vedere».

Poi chiese: «E il tuo albero, che proprie tà ha?». Essa rispose: «Il mio? Se si mette una sua foglia in un otre per fare il burro e lo si scuote, tut to quello che c'è dentro diventa burro». Il giovane era stato ad ascoltare, trovò l'albero, prese una foglia, la schiac-ciò e fece gocciolare il liquido negli occhi; ed ecco che tornò a vedere. Disse: «Sia lode ad Allah!», poi si portò dov'era l'altro albero e si riempì le tasche di fo-glie. Quindi proseguì, incontrò un pastore e gli disse: «Se vorrai darmi i tuoi abiti, io ti darò i miei, ma mi dovrai dare anche quel capretto spelacchiato». Il pa-store disse: «Mi sta bene».

Si tolse quindi i propri indumenti e li diede al gio-vane, mentre il giovane deponeva gli abiti regali e li dava al pastore; dopodiché prese il capret to , lo sgozzò e lo scuoiò. Prese la pelle, la portò a un corso d'acqua e la lavò, poi se la avvolse intorno al capo in modo da sembrare un tignoso. Raggiunse un accam-pamento di nomadi, dove trovò una vecchia che era tutta sola, e le disse: «Per Allah! O vecchia, posso re-stare da te?». La vecchia gli rispose: «Vieni pure, fi-

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gliolo, io non ho nessuno, tu sarai per me un figlio, dal momento che non ne ho alcuno!».

Prese così ad abi ta re con la vecchia, e quando , una volta, costei volle fare il burro, il giovane prese l 'otre e le disse: «Farò io il burro!». Scosse un po' l 'otre, e quando la vecchia non guardava, vi intro-dusse di nascosto una foglia. Ed ecco in un istante il latte rappreso t rasformarsi in burro. La vecchia ri-tornò e constatò che l'otre era pieno di bu r ro f ino all'orlo. Meravigliata, lo andò a raccontare alla gen-te. Quando la notizia giunse all 'orecchio del capo dell 'accampamento, questi disse ai suoi uomini: «Fa-remo fare il burro a quel giovane, ora per questo ora per quello, a turno, in modo che costui produca mol-to burro per ogni abitante dell 'accampamento».

Ri torn iamo ora a par lare di suo padre! Quando f u r o n o di r i torno i suoi accompagnator i , egli do-mandò loro: «Avete ucciso mio figlio?». Ed essi dis-sero: «Lo abbiamo ucciso». Allora il padre inviò dal-le fanciul le due delle sue guardie del corpo, ma quando costoro fecero per entrare, l ' ifrit li apostrofò: «Dove volete andare?». Essi r isposero: «Vogliamo andare dalle fanciulle, per portarle dal re». L ' i fr i t dis-se: «Qui non può entrare nessuno al di fuori del mio padrone!». Ma essi insistettero: «Noi abbiamo l'ordi-ne di entrare!» e quando vollero mettersi a combat-tere, egli afferrò uno di loro e colpì l'altro con esso. Mor i rono tut t i e due. Allora il re m a n d ò cinque guardie del corpo, ma l 'ifrit le uccise tutte. Quello ne inviò dieci, ed egli le uccise tut te; quello ne inviò cento, e lui le uccise tutte; quello inviò un esercito, ed egli lo annientò completamente. Allora il re fece bandi re : «Orsù, sia guerra!». Il servitore negro li combatté e li sopraffece tutti quanti.

Quando la notizia di tutto questo giunse agli abi-tanti dell 'accampamento di nomadi e costoro si mi-

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sero a preparare le armi in vista della guerra, il ti-gnoso (Mohammed) disse: «Andrò io da solo!». Il ca-potribù gli disse: «Come pensi di riuscire tu là dove non arrivano gli uomini validi? Faresti meglio a re-startene con il tuo burro!». Il tignoso rispose: «Dam-mi solo un cavallo e me ne andrò alla guerra!».

Ora, egli combat té insieme a loro per un giorno intero, e sconfisse il servitore negro. Vergognandosi, il negro andò dalle fanciulle e disse: «Tra di loro vi è uno che combatte come il mio padrone». Allora esse gli dissero: «Prendi questa arancia! Se domani il tuo avversario arriverà e ti sconfiggerà, gettagli questa arancia! Se egli la prenderà e la bacerà, deve trattar-si del tuo padrone». Il negro la prese e la ripose.

Il giorno successivo, quando il t ignoso si r ipre-sentò per combat te re cont ro di lui, i l negro prese l 'arancia e gliela gettò. Il suo padrone l 'afferrò e la baciò, poi tirò via la pelle che gli copriva il capo e la-sciò scendere liberi i capelli. Allora il negro lo prece-dette ed entrarono in casa.

La gente li seguì dicendo: «Il tignoso è entrato in casa». Ma a questo punto egli si rivolse contro di lo-ro e prese a combatterli. Quando raggiunse suo pa-dre, lo colpì e gli tagliò la testa. Divenne quindi re e la gente fu felice perché egli governò con rettitudine. Dopo che li ho lasciati, sono subito venuto qui.

5 . A H M E D U - N - A M I R

C'era una volta un giovane, al quale era rimasta solo la madre. Tutti i giorni egli andava alla scuola cora-nica e si istruiva. Di notte, però, mentre dormiva, ve-nivano gli angeli e gli tingevano le mani di rosso con l'henné. Al matt ino andava a scuola, il maestro vede-va le mani rosse di henné e lo picchiava col suo ba-

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stone. Un giorno il giovane disse al maestro: «Mio si-gnore, non sono io a tingermi le mani di henné, que-sto avviene di notte , men t re dormo. Al mat t ino , quando mi sveglio, le mani sono tinte di rosso». Allo-ra il maestro disse: «Sai cosa devi fare?» e proseguì: «La pross ima notte, quando ti stendi per dormire, prendi un vaso, mettici dentro una piccola lucerna a olio accesa e mettici sopra un coperchio, in modo che all'esterno non si veda alcuna luce. Poi sta' mol-to attento e non addormentarti , ma fai solo fìnta di dormire». «Sì, mio signore» disse lo scolaro e tornò a casa.

La sera egli fece come gli aveva consigliato il mae-stro. Verso mezzanotte giunsero degli angeli femmi-na, e gli tinsero le mani con l 'henné. Allora egli ne afferrò una, ma le altre fuggirono.

Quando il giovane tolse il coperchio dal vaso, scorse una fanciulla. La fanciulla disse: «O Ahmed, lasciami andare! Tu non potresti esaudire il mio de-siderio». Egli disse: «Non ti lascerò andare, visto che per colpa vostra subisco ogni giorno delle bastona-te». Ma la fanciulla tornò a pregarlo: «Lasciami an-dare, Ahmed! Tu non potresti esaudire il mio deside-rio». Allora egli chiese: «E qual è il tuo desiderio?». Essa rispose: «Io ho bisogno di sette s tanze, una dentro l'altra, e devono potersi aprire tutte con una chiave». Egli disse: «Così sarà». Lei proseguì: «Nes-suno al di fuori di te deve poter entrare nelle stan-ze!». Egli disse: «Mi sta bene».

La fanciulla abitò quindi nella sua stanza, finché egli ebbe costruito le sette stanze, dopodiché si spo-sarono. Essi vissero insieme per molto tempo. Tutte le volte che egli usciva, chiudeva a chiave le stanze e nascondeva la chiave nel letamaio. A sua madre egli non aveva però detto che cosa si trovava nelle stan-ze. Essa aveva una gran voglia di entrarvi, ma non

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sapeva dove il figlio nascondesse la chiave. Un gior-no una gallina, razzolando nel letame, portò alla lu-ce la chiave. La madre la trovò, schiuse le stanze una dopo l'altra, f inché giunse nell 'ultima stanza e vide la fanciulla. Costei si spaventò moltissimo, ma anco-ra di più si spaventò la madre, che fuggì via. Richiu-se a chiave tutte le stanze e tornò a mettere la chiave nel letamaio.

Quando il giovane fu di ri torno, prese la chiave, aprì la pr ima stanza e la trovò bagnata. Nella secon-da stanza l 'acqua gli arrivava ai malleoli, nella terza f ino al polpaccio, nella quar ta f ino alle ginocchia, nella quinta fino alla coscia, nella sesta fino alla cin-tola, e nella se t t ima fino alle spalle. Allora vide la fanciulla, che era seduta sul davanzale della finestra e piangeva. Allora le chiese: «Che cosa ti è succes-so?». Essa disse: «Nulla, solo che tua madre è venuta fin qui. Ora aprimi subito la finestra, in modo che io possa r iprendermi un po'». Quando il giovane ebbe aperto la finestra, la fanciulla voleva volarsene via; egli le afferrò in fretta la mano per tenerla ferma, ma lei gli lasciò in mano un anello. Poi si t rasformò in una colomba e volò via, dicendo: «Se tu vuoi, rag-giungimi nel settimo cielo!» e scomparve.

Il giovanotto uscì, si comprò un cavallo e si mise in viaggio. Per tre anni andò in giro per il paese. Un bel giorno si imbatté nei piccoli di un falco immen-so, che sembrava una casa volante quando si librava nell'aria. Il giovanotto sgozzò il suo cavallo e ne die-de la carne ai piccoli del falco. Quando la loro madre fu di ritorno, vide i suoi piccoli che mangiavano con-tenti la carne, e quindi esclamò: «Chi ci ha fatto que-st'opera di bene? Che venga fuori, e ciò che egli desi-dera possa il nostro Signore concederglielo!». Allora il giovanotto r ispose dicendo: «Sono stato io!». E l'uccello replicò: «Che cosa desideri?».

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Il giovane rispose: «Io desidero solo che tu mi por-ti f ino al se t t imo cielo». Il volatile r ispose: «Sii il benvenuto!» e proseguì: «Sali e mettiti a cavalcioni sul mio dorso!». Il giovane salì e subito partirono in volo. Quando il falco fu giunto al settimo cielo depo-se il giovane.

Il giovanotto si diresse allora verso una sorgente, e vide un albero accanto a essa, su cui si arrampicò. Giunse una schiava negra per attingere acqua. Essa vide il volto del giovane riflesso nell 'acqua. Si mise quindi a gridare: «Sono così bella e devo continuare a portare l 'acqua alla mia padrona?». Sollevò in aria il vaso e stava per fracassarlo a terra. Ma il giovane la apostrofò: «Aspetta, aspetta! Quello che hai visto è il mio viso!» e proseguì chiedendole: «Di chi sei schiava?». Ed essa gli disse il nome della sua padro-na. Egli le ordinò: «Prendi questo anello e portalo al-la tua padrona!». La schiava prese l 'anello e se ne andò. Quando fu giunta a casa, consegnò l'anello al-la padrona. Allora la padrona le disse: «Prendi il mio asino e caricalo di fieno, poi infila il giovanotto nel fieno e portalo così in casa!». La schiava andò e fece proprio ciò che le aveva detto la padrona. Portò così in casa il giovanotto che, qui giunto, uscì dal fieno.

Ora, egli visse per un certo tempo insieme a sua moglie. Essa andò e gli fece vedere tutta la casa. Ar-rivata davanti a una botola del pavimento, disse: «Tu puoi entrare in tutte le stanze della casa, solo non devi varcare mai questa porta!». Così egli rimase con lei e passò molto tempo.

Un giorno, era la grande Festa del Sacrificio, egli disse tra sé: "Per Dio, per una volta voglio guardare al di là di questa porta che mi è stato detto di non aprire mai!". Egli vi andò, la aprì e vide sua madre sulla terra che teneva con una m a n o un montone, ma non riusciva a sgozzarlo. Allora essa esclamò:

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«Dove sei, mio Ahmed, aiutami a sgozzare il monto-ne!». Dopodiché si mise a piangere. Quando il giova-notto ebbe visto ciò, fu preso da pena per la madre e balzò giù. I venti lo ridussero completamente in pol-vere. Una goccia del suo sangue cadde sul montone e lo uccise, le dita caddero su di una roccia, e subito ne sgorgarono cinque sorgenti . Ma lui era mor to . Andate in pace!

6 . I L R E C O N U N F I G L I O B I A N C O E U N O N E R O

Un re aveva due mogli: una era bianca, bella come una giornata luminosa, e l'altra era nera, bella come una notte serena. Ambedue le mogli gli diedero un figlio, ciascuno somigliante alla sua mamma. Ma il re amava il figlio bianco più di quello nero.

Un giorno si presentò a palazzo reale un viandan-te, che disse al re: «O re, mio signore, tu non devi sti-mare in maniera differente ciò che Dio ti ha dona-to!». Quando egli uscì, il pr incipe bianco gli corse dietro e lo apostrofò: «Cosa stai cercando qui da noi, straniero?». Il v iandante gli disse: «Quello che ho detto non l'ho detto per conto mio. Ma dal momento che tu sei così adirato, ti dirò qual è il tuo destino: lontano da qui vive una fanciulla, bella come tu non hai mai visto, essa sarà il tuo destino». Dopodiché se ne uscì dal palazzo.

Il principe, però, divenne assai triste e domandava a tut t i dove si potesse t rovare la bella fanciul la . Quando non potè più resistere, pregò il fratello nero di mettersi in viaggio con lui alla ricerca della fan-ciulla. Così essi part irono sui loro cavalli e giunsero in una immensa foresta, e qui si fece notte. Essi tro-varono una grotta e vi si distesero per dormire. Ma il principe nero non dormì, e rimase di guardia. Intor-

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no a mezzanotte giunse un leone che voleva divorar-li. Allora il principe nero prese la propria spada e uc-cise il leone. Poi gli tagliò le orecchie e si mise a dor-mire . Al mat t ino , il pr incipe b ianco vide il leone morto, si spaventò e chiese al fratello: «Cosa vuol di-re tutto ciò?». Allora il principe nero raccontò come avesse ucciso il leone che li voleva divorare.

Continuarono quindi a viaggiare nella foresta per tutto il giorno, e anche la notte successiva giunsero a una grotta, dove viveva un'orchessa. Il principe bian-co voleva entrare subito, ma il fratello nero voleva dissuaderlo. Allora l 'orchessa venne fuori e li invitò a en t rare . Essi d u n q u e en t ra rono , mang ia rono u n a pappa preparata dall'orchessa e si distesero per dor-mire. Ma l'orchessa aveva anch'essa due figli, che si s tesero su un bel t appe to morb ido , men t re i due pr incipi dovettero dormire per terra . Non appena anche l'orchessa si fu addormentata, il principe nero si alzò, trasferì i figli dell'orchessa dal tappeto in ter-ra e mise suo fratello a dormire sul tappeto, su cui anch'egli si distese e si addormentò. Nella notte, l'or-chessa si alzò, prese il suo coltellaccio e tagliò la te-sta ai due figlioli stesi per terra, perché credeva che fossero i due forestieri. Poi tornò a coricarsi e ripre-se a dormire. Ma il principe nero stava in guardia e quando scoprì quello che era successo, svegliò il fra-tello e tutti e due se ne andarono di nascosto. Il prin-cipe nero si portò anche via il paiolo dell'orchessa.

Viaggiarono tu t ta la ma t t ina ta e giunsero a un ampio f iume che attraversarono con l'aiuto dei loro cavalli. Erano appena arrivati dall'altra parte quan-do videro l 'orchessa che, seguendo le loro tracce, aveva raggiunto la riva del fiume. Vedendo i due che se ne stavano sull'altra sponda, essa domandò: «Co-me avete fatto ad arrivare di là?». E il principe nero le rispose: «Abbiamo nuotato sui nostri cavalli, altri-

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menti non avremmo potuto farcela». Dal momento che l'orchessa non aveva cavalli, dovette tornarsene indietro.

I due cont inuarono a cavalcare e giunsero a una steppa arida. Qui essi trovarono dei pastori con le lo-ro greggi di capre. Accanto ai magri pascoli vi era però un bel bosco con l'erba di un bel verde vivo. Al-lora il principe nero chiese: «Perché non andate più avanti a pascolare i vostri animali, in quel bel bosco, invece che qui in questo arido pianoro?». I pastori r isposero: «Quel bosco appar t i ene a un orco, che non ci lascia pascolare, ci mangerebbe tutti». Ma il principe nero disse: «Andate pure fin laggiù e fateci pascolare i vostri animali! L'orco non vi farà nulla di male». Allora i pastori condussero i loro armenti nel verde bosco, ma ben presto giunse di corsa l'orco, che disse: «Cosa avete intenzione di fare nel mio bo-sco? Allontanatevi, marmaglia!». In quella il princi-pe nero gli si parò dinanzi e gli disse: «Lasciali pa-scolare o ti ucciderò!». L'orco sollevò la sua clava, ma il principe fu più veloce e gli tagliò la testa con la spada. Il principe nero tagliò via il lungo ciuffo di ca-pelli all'orco morto e lo ripose nelle tasche della sella insieme alle orecchie del leone e al paiolo. Dal mo-mento che da lì in avanti la foresta si faceva sempre più fitta, lasciarono i loro cavalli presso i pastori e proseguirono a piedi.

Verso sera giunsero alla grotta di un gigante e gli chiesero riparo per la notte. Il gigante li fece entrare. Poi il principe nero prese il suo rasoio e gli tagliò i capelli e la barba. Ciò fece molto piacere al gigante, che quindi si informò sullo scopo del loro viaggio. Il principe bianco raccontò allora come si fosse inna-mora to perdu tamente di quella bella fanciulla che doveva essere il suo destino. Domandò anche: «Dove po t rò mai trovarla?». Allora il gigante gli r ispose:

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«Salite su quel monte, arrampicatevi fino in cima, e troverete un castello. Là vive mio fratello, che tiene prigioniere due fanciulle, una bianca e una nera. So-no sicuramente loro quelle che cercate».

Il matt ino dopo, i due principi si inerpicarono sul-la cima dell'alto monte ed entrarono nel castello. Il gigante però non c'era, perché era già a caccia. I due principi attraversarono tutte le stanze e alla fine tro-varono le due fanciulle, una bella come una giornata luminosa , e l 'al tra bella come u n a not te serena. Quando i due giovani le videro, esse gr idarono: «Correte via, presto, perché qui vive un gigante che ci tiene in suo potere. Se torna, vi mangerà!». Ma es-si non se ne fuggirono via, e si misero invece a parla-re con le belle fanciulle. Quando fu sera, sentirono avvicinarsi il gigante, e allora le fanciulle nascosero i due principi in due grossi vasi. Il gigante entrò e su-bito disse: «Sento odore di umani! Dove sono?». Ma le fanciulle r isposero: «Come pot rebbe un u m a n o osare entrare in questo castello? Devi esserti sbaglia-to. Deponi il capo sul mio grembo, ti voglio accarez-zare un po'». Allora il gigante si distese e si lasciò ac-carezzare dalle fanciulle, fino ad addormentars i . A questo punto i due principi uscirono dai vasi, prese-ro per mano le fanciulle e lasciarono con loro il ca-stello. Raggiunsero nuovamente i pastori, ripresero i loro cavalli e se ne andarono via al galoppo.

Quando il gigante si svegliò, non trovò più le due fanciulle, e capì subito che erano fuggite. Allora si precipitò sulle loro tracce e giunse dai pastori. Chie-se loro: «Non avete visto due fanciulle passare per di qua?». Ma i pastori risposero: «Abbiamo visto solo due animali ciascuno dei quali aveva quattro zampe e trasportava quat t ro zampe». Dal momento che il gigante non capì la risposta, dovette tornarsene a ca-sa a mani vuote.

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I due principi con le loro fanciulle giunsero a un f iume che era molto impetuoso. Il principe bianco disse al fratello: «Passa tu per primo, io ti seguirò!». Il principe nero entrò nel f iume col suo cavallo, e a quel punto il principe bianco afferrò una pietra e la scagliò contro suo fratello, che cadde immedia ta-mente nel f iume e andò a fondo. Il cavallo e la sua dama si salvarono giungendo sull'altra riva, mentre il principe nero veniva trasportato via dalla corrente. Fu poi il principe bianco che penetrò nel f iume col suo cavallo e riuscì felicemente a portarsi sull'altra sponda insieme alla sua fanciulla. Qui prese la fan-ciulla nera, la minacciò di morte se non avesse taciu-to, e la fece continuare a piedi dietro al suo cavallo come propria schiava. Arrivarono così al castello del padre , dove vennero accolti con gioia. Il pr inc ipe raccon tò di avere compiu to lui tu t te le gesta più eroiche, mentre il fratello sarebbe morto nel tentati-vo di imitarlo.

Allora il re fece annunciare le nozze. Torniamo ora dal principe nero. Egli non era mor-

to, era rimasto solo tramortito. Più a valle il f iume lo gettò sulla riva. Quando il giovane si fu ripreso, ri-salì l 'argine e ritrovò anche il suo cavallo. Balzò in sella e si diresse verso la sua città natale. Qui si recò in un albergo e si f e rmò per r iposare. Quando poi udì che suo fratel lo voleva festeggiare le nozze, si recò al castello, dove si teneva un grande to rneo equestre. Entrò anch'egli col suo cavallo nella corte, e u n o alla volta abba t t é tut t i i cavalieri, f inché si t rovò a tu per tu con il fratel lo. E, a f f ron ta to lo a duello, lo sconfisse e gli tagliò la testa.

Mentre tutti già stavano balzando sul principe ne-ro per via di questa cosa inaudita, costui si portò a cavallo al cospetto del re e gli disse: «Caro padre, io sono l'altro tuo figlio». Quindi gli raccontò come si

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era svolta ogni cosa e gli fece vedere le prove, che portava con sé nella tasca della sella: le orecchie del leone, il ciuffo di capelli dell'orco e il paiolo dell'or-chessa. Allora anche la fanciulla nera prese a narrare come il principe bianco avesse colpito il fratello con una pietra mentre egli attraversava il fiume. A que-sto punto il re proclamò davanti a tutti: «Ecco il mio figlio diletto, sarà lui che regnerà dopo di me!». Poi lo sposò con le due fanciulle.

Che Allah perdoni noi e voi!

7 . L ' U C C E L L O B I A N C O E L ' U C C E L L O N E R O

C'era una volta, molto, mol to t empo fa, un re che aveva una figlia bellissima. Quando essa fu cresciu-ta, la fece vivere sempre in una casa che le aveva fat-to costruire nel giardino, in modo che non le capi-tasse mai di provare il dolore. Una vecchia schiava negra le portava tutti i giorni da mangiare, e nessun altro aveva il permesso di andare da lei. Tutti i cibi e rano scelti con cura: la carne senza ossa, i l pane senza crosta, i datteri senza noccioli.

Un giorno, al momento di andarsene, la schiava si dimenticò di richiudere la porta. Allora un giovane penetrò nella casa e raccontò alla fanciulla che nella vita reale il bello e il brutto, il duro e il morbido, il dolce e l 'amaro, la gioia e il dolore sono mischiati tra loro, cosicché la figlia del re fu colta dalla bramosia di sperimentare tut to ciò e se ne uscì nel giardino. Da un punto in cui poteva guardare al di là delle mu-ra vide un quar t iere del bazar e la mol t i tudine di gente che vi si aggirava. Udì anche un uomo che an-nunciava: «Semi dei fiori della tristezza!». E r a n o proprio quello che faceva al caso suo, e la figlia del re corse incontro all 'uomo e si fece dare un po' di se-

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mi. Dopodiché fece ritorno a casa e interrò i semi in un vaso posto sul balcone.

In poco tempo le piantine germogliarono e la fan-ciulla ebbe ben presto la gioia di vedere degli splen-didi fiori. Il matt ino dopo corse a vedere i suoi fiori e con grande sorpresa scoprì che due uccelli, u n o b ianco e uno nero, e rano giunti in volo e coi loro becchi strappavano le corolle e rovinavano le piante.

Allora, non avendo niente altro sottomano, prese il proprio bracciale e lo scagliò contro gli uccelli per scacciarli; l 'uccello bianco afferrò con destrezza il bracciale e se ne volò via portandolo con sé, accom-pagna to dall 'uccello nero. La figlia del re r imase sconsolata perché i suoi fiori e rano ridott i in u n o stato miserevole.

Il matt ino dopo, recandosi sul balcone, scoprì con gioia che i fiori si erano ripresi e che nuovi calici si offrivano alla sua vista. Ma la sua gioia si rivelò di breve durata perché tornarono a farsi vivi i due uc-celli, che r ipresero a s t rappare i fiori. Non avendo niente altro sot tomano, la principessa prese la co-roncina che aveva in capo e la scagliò contro gli uc-celli, che però anche questa volta in un baleno la af-ferrarono e se la portarono via. Questo fatto si ripetè ogni matt ina per un'intera settimana, e ogni volta es-sa scagliò un monile contro gli uccelli, che se lo pre-sero.

Allora la principessa fu colta da una profonda tri-stezza per la perdita dei suoi fiori e si confidò col pa-dre. Essa lo pregò di convocare da lei tutte le donne della città che avessero provato un dolore perché po-tessero raccontarle ciascuna la propria vicenda. Così fu fatto. Il giorno dopo molte donne convennero nel-la casa della principessa e, dal mat t ino fino alla sera, andarono avanti a raccontare tu t to ciò che pesava sui loro cuori, ma dopo ogni racconto la figlia del re

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ripeteva: «Non è poi così grave, il mio dolore è molto maggiore».

Da ultimo, venne il turno di una giovane schiava negra, che disse: «Ieri, mentre mi recavo al fiume per lavare gli indumenti, vidi giungere sull'altra riva un cammello che non era condotto da nessuno. Nel-le sue borse vi erano delle stoviglie d'argento, che se ne andavano da sole nel fiume e si lavavano come mosse da man i invisibili. Dopodiché le stoviglie r ientrarono nelle borse e il cammello si accinse a partire. Non vedendo intorno anima viva, venni col-ta dalla curiosità; lasciai perdere gli indumenti da lavare, guadai rapidamente il fiume e seguii il cam-mello tenendomi attaccata alla sua coda. Giungem-mo così a un'alta parete rocciosa, e mentre già pen-savo che la strada terminasse lì, le rocce si aprirono e noi potemmo entrare. All'interno della montagna vi era un magnifico castello, le cui porte si aprirono da sole. Entrai e vidi giungere in volo due uccelli, uno completamente bianco e uno completamente nero, che si immersero nella vasca per fare il bagno. Quando riemersero erano due bei giovani, uno bian-co come un principe e uno nero come uno schiavo. Si trasferirono in una delle stanze, dove mani invisi-bili servirono loro i cibi più squisiti. Ma il principe non toccò nulla di tutto ciò e così pure il suo servi-tore. Il principe disse al servitore: "Portami il cofa-netto con i monili!". Il giovane negro portò il cofa-netto e lo aprì. Allora il principe ne tirò fuori un bracciale d'oro, una coroncina e un fermaglio, sol-levò i monili in modo che questi risplendessero alla luce, e disse con voce triste: "Questo bracciale, que-sta coroncina e questo fermaglio me li ha lanciati lei. Oh, potesse essere presto mia! Quanto è bella, dalla punta dei capelli fino ai piedi, tutto è assoluta-mente armonioso in lei!"».

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Con un sospiro, la figlia del re invitò la giovane ne-gra a proseguire il suo racconto. Ed essa continuò: «Quando il principe parlò con tanta tristezza, i gioiel-li scoppiarono in singhiozzi nelle sue mani. Io passai la notte nel castello senza farmi scoprire e al matt ino ritornai al fiume insieme al cammello, quando questo portò di nuovo le stoviglie a lavare.

«Non credi, cara signora, che il dolore di questo principe sia più grande del tuo?»

La principessa sospirò ancora più profondamente, quindi chiese alla giovane negra: «Domattina vieni a prendermi presto e portami al fiume, dopodiché se-guiremo tutte e due il cammello. Ma di tutto ciò non fare parola con nessuno».

Come promesso, il mattino successivo la giovane negra venne a prendere la figlia del re. Corsero al fiu-me e, quando videro arrivare il cammello sull'altra sponda, lo guadarono, osservarono le stoviglie che si lavavano da sole e seguirono quindi il cammello nel suo cammino verso i monti. Anche questa volta la roccia si aprì, cosicché le due giovani poterono entra-re nel castello. Si nascosero dietro una tenda e si mi-sero ad aspettare che l'uccello bianco e quello nero giungessero in volo e si immergessero nella vasca per fare il bagno. Osservarono gli uccelli trasformarsi in giovani e andare in una stanza dove aprirono il cofa-netto dei gioielli. Ma quando il principe estrasse uno per uno i monili, questi cominciarono a ridere di cuo-re e a parlarsi con allegria. Sbalordito, il principe do-mandò: «Di che cosa ridete?». Ed essi risposero: «Ri-diamo perché la nostra padrona è qui!». Il principe, però, non capiva il significato di queste parole e disse con tono addolorato: «Oh, se lei fosse qui, lei che è la più bella di tutte, colei che io tanto amo!». A questo punto la figlia del re non potè più trattenersi e balzò fuori dicendo al giovane: «Essa è qui e ti ama!». Cad-

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dero l 'uno tra le braccia dell'altra e si scambiarono la promessa di matrimonio. La giovane negra abbracciò lo schiavo negro e anch'essi si scambiarono la pro-messa di matrimonio. Sette giorni e sette notti dura-rono i festeggiamenti delle nozze, e nessuno ha più sentito parlare di loro.

Sottil guscio han le teiere ogni cruccio si dilegui! Se hai scolato già il bicchiere, va': il cammino tuo prosegui!

8 . A G G E L A M U S H

C'erano una volta un mari to e una moglie che aveva-no una bambina . Essa era così ama ta e benvoluta che i genitori non erano mai capaci di rifiutarle al-cun desiderio. Ma l'uomo, poveretto, non possedeva proprio nulla.

Si avvicinava la Festa del Sacrificio, in cui ciascu-no gusta la carne che Dio ha fatto avere agli uomini, ma il poveruomo non aveva pecore e si domandava che cosa avrebbe potuto sacrificare per l'occasione.

Quando fu il giorno della festa, sul far del matt ino egli invocò: «Nel nome di Dio, che Allah mi sia bene-volo, giacché in Allah noi confidiamo!». Dopodiché uscì nel giardino che aveva davant i alla casa, e vi trovò una lepre. In un balzo le fu addosso, la catturò e, tenendola stretta in braccio, rientrò in casa. Andò da sua moglie e le disse: «Prendi questa lepre, che sacrificheremo per la festa!». La donna prese la le-pre, la ficcò sotto una pentola rovesciata e la nascose così.

Dopo un po' arrivò da quelle parti la bambina tut-ta contenta: «Oggi, per la festa, ci sarà della carne da

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mangiare!». Corse dal padre, gli baciò il capo e do-mandò: «Babbo, dove il nostro arrosto della festa?». Il poveruomo temette che la fanciulla potesse pian-gere; le rispose quindi: «Figliola, chiedilo a tua ma-dre!». E la bimba corse allegramente dalla madre, le baciò il capo e domandò: «Mamma, dov'è il nostro arrosto della festa?». Anche la madre temette che la figlia potesse mettersi a piangere il giorno di festa; le rispose quindi: «Figliola, chiedilo a tuo padre!». Al-lora la bimba tornò di corsa dal padre e pianse.

Il padre la zittì: «Fa' silenzio, b imba mia, non piangere!». Quando anche la madre vide la piccola in lacrime, la chiamò a sé, e quando questa fu giun-ta, le disse: «Fa' silenzio, figlia mia, non piangere! Ti farò vedere io il nostro arrosto della festa!». Allora la piccola tornò allegra e ridente. «Va' un po' a vedere, b imba mia!» disse la madre. «L'arrosto della festa è là, in camera, sotto la pentola!» La fanciulla andò nella stanza e sollevò un po' la pentola; ma quando vide la lepre si spaventò. Si fermò a guardarla, ma la lepre scappò via. Allora la m a m m a si mise a gridare e a inseguire all 'aperto la fuggitiva; a sua volta, an-che la bambina corse dietro alla madre gridando.

Bisogna sapere che a quel tempo tutte le cose del mondo avevano il dono della parola: potevano parla-re le pietre, potevano parlare gli alberi, le strade: in breve, tutto ciò che vi era al mondo.

Mentre la donna inseguiva la lepre, questa correva lesta in avanti, e la donna le correva sempre appres-so, finché si ri trovarono, lei e la figlia, in un luogo selvaggio. Era ormai notte fat ta. La lepre, intanto, era sparita.

A questo punto la donna disse alla figlia: «Arram-pichiamoci su quest'albero, affinché gli animali sel-vatici non ci divorino!». Si a r r ampica rono quindi sull'albero e dalla cima tennero d'occhio i dintorni.

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Verso mezzanotte udirono sotto di sé un fragore co-me di tuono, ins ieme a molte voci. Propr io sot to quell'albero, infatti, un leone teneva lezione a tutti gli animali del mondo: le pantere, le iene e gli uccel-li, in breve, tutti gli animali che vi erano. Questa le-zione del leone aveva luogo sempre intorno a mezza-notte.

Tra essi vi era anche uno sciacallo; questi si sedet-te e guardò in ar ia . All'udire tu t te queste voci, la bambina ebbe paura e disse alla madre: «Mamma, devo fare pipì!». La m a d r e rispose: «Allora, figlia mia, falla almeno nella tua scarpa destra, che non è bucata, in modo che nulla goccioli in testa alle fie-re!». Invece la bimba fece i suoi bisogni nella scarpa sinistra che aveva un buco. Così il l iquido colò in basso, e una goccia cadde sul naso dello sciacallo. Quando gli cadde la goccia sul naso, questi prese ad annusare fino ad accorgersi che sull'albero si trova-va un essere umano. Allora disse al leone: «Signore, qui c'è odore di uomini!». Il leone, che teneva lezio-ne agli animali, lo sgridò: «Lazzarone, leggi, se non vuoi che ques ta not te io ti mangi!». Lo sciacallo andò avanti a leggere, ma poco dopo cadde nuova-mente su di lui una goccia. Di nuovo lo sciacallo dis-se al leone: «Signore, qui c'è odore di uomini!». Allo-ra il leone ordinò: «Animali, fate silenzio!».

Quando gli animali ebbero fatto silenzio, il leone chiese loro: «Chi di noi salirà sull'albero per vedere chi si trova in cima?». Nessun animale rispose, tran-ne la cornacchia, che disse: «Signore, volerò io las-sù». Il leone ribatté: «Bene!». Allora la cornacchia volò fino alla cima dell'albero e, raggiunta la donna, la vide in lacrime. Le chiese: «Perché piangi? Quanto a te, è certo che le fiere ti divoreranno, ma io salverò tua figlia e così pure il b imbo che si trova nel tuo ventre, e anche la tua mammella destra!». Dopodi-

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ché la cornacchia ri tornò dal leone e gli disse: «In-nanzitutto promett imi solennemente che mi consen-ti di esigere per me due cose, e solo allora ti dirò che cosa si trova sull'albero!». Il leone rispose: «Ti do so-lennemente la mia parola di concederti anticipata-mente un diritto sulle due cose che tu nominerai -sempreché ciò mi sia possibile». Allora la cornacchia riferì: «Signore, sull'albero si trova una donna incin-ta, che presto partorirà e che ha accanto una figlia ancora piccola».

Allora il leone disse agli animali: «A chi riuscirà ad arrampicarsi su quest 'albero e a por tarmi giù la donna, darò ciò che desidera». Ma l'albero era altis-simo e nessuno degli animali era in grado di arram-picarvisi t ranne un serpente, che disse al leone: «Io sono in grado di arrampicarmici». Il leone gli rispo-se: «Allora fallo!». Il serpente cominciò a salire e ben presto raggiunse la donna; a questo punto le disse: «Cara signora, per favore, mi porga da succhiare il mignolo del piede!». La donna gli porse il mignolo del piede e il serpente cominciò a succhiarlo, facen-do risalire il veleno nel corpo della donna.

La bambina chiese alla madre: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». La madre le ri-spose: «Figlia, mi è giunto fino alle ginocchia!». Dopo un po' la piccola tornò a domandare: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». La madre le ri-spose: «Figlia mia, mi è giunto fino all'ombelico». Per la terza volta la bambina domandò: «Mamma, fino a dove ti è arrivato adesso il veleno?». E di nuovo la ma-dre rispose: «Figlia, mi è penetrato nel capo». Quindi la donna ammutol ì e non disse più una parola; ma il serpente continuò a succhiarla, finché la donna rese l 'anima; a questo punto la disgraziata precipitò in basso in mezzo alle fiere che stavano ai piedi dell'al-bero, mentre il leone teneva loro lezione. Le belve si

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rallegrarono che Dio avesse fatto loro dono di una preda così buona; balzarono addosso alla donna, la afferrarono, le lacerarono il ventre e vi trovarono dentro un bimbo. Allora la cornacchia si fece largo tra gli animali, e il leone, rivolgendosi a lei, disse: «Cornacchia, prenditi adesso ciò che avevi prenotato, come siamo rimasti d'accordo!». Al che la cornacchia si prese il neonato e staccò alla donna la mammella destra, che mise in bocca al piccolo per farlo poppare. Dopo qualche tempo gli animali partirono, ciascuno diretto alla propria tana.

Torniamo ora a occuparci della bambina. La cor-nacchia andò da lei portandole il bimbo che gli ani-mali selvatici avevano strappato dal ventre della ma-dre . La c o r n a c c h i a a i u t ò a s c e n d e r e a t e r r a la bambina , che se ne stava ancora seduta in c ima all'albero, e le disse: «Prendi tuo fratello e va' via di qui! Ti spiegherò io quello che devi fare!». Quindi la b imba prese in braccio il fratellino e gli diede da succhiare il seno della madre morta. La cornacchia accompagnò la piccola e la precedette fino a un luo-go selvaggio in cui si trovava un palazzo che risaliva al tempo dei tempi. Allora la cornacchia disse alla bambina: «Ti spiegherò che cosa devi fare! Adesso vieni qui e restaci, tu e il tuo fratellino! Tu però do-vrai cominciare a rovistare in questo letamaio! Se troverai un chicco d'orzo, mangiatelo tu, ma se ne trovi uno di f rumento, dallo a tuo fratello! Se trove-rai una pagnottella d'orzo, mangiatela tu, ma se tro-verai una pagnottella di frumento, dalla a tuo fratel-lo! Dovrai continuare così finché non ti sarai aperta un varco nel letame fino alla casa in cui vive un mo-stro, di nome Aggelamush!».

Al che la bambina disse alla cornacchia: «Ti sono assai riconoscente, possa Dio concederti di ottenere ogni bene!». La cornacchia replicò: «Vieni, piangi

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f inché le tue lacrime non avranno r iempito quella buca, cosicché in essa io possa detergermi dal san-gue che aderisce al mio piumaggio!». La bambina disse ancora : «Vieni!» e ins ieme alla cornacch ia andò a quella buca, in cui pianse tutte le sue lacri-me, finché questa non ne fu completamente riempi-ta. A questo pun to la cornacchia si fece avanti , si tuffò nella buca e si deterse il sangue che aderiva al suo piumaggio. Quando si fu ripulita per bene, disse alla bambina : «Addio, abbi cura del tuo fratel l ino finché sarà lui in grado di esserti utile!». La fanciulla rispose: «Addio! Tu sei buona come un padre e una madre!». E la cornacchia se ne tornò a casa.

Da quel momento in poi i due sventurati vissero in quello strano palazzo e la bambina si mise ben pre-sto al lavoro. Prese il fratello, si recò al letamaio di cui le aveva parlato la cornacchia, e cominciò a sca-vare al suo interno. Quando trovava un chicco d'or-zo se lo mangiava lei, q u a n d o invece trovava un chicco di f rumento lo dava al fratello; e lo stesso fa-ceva quando le capitava di trovare una pagnottella d'orzo o una di f rumento. Così essa finì il lavoro e si fece strada scavando fino ad Aggelamush. Quando lo raggiunse, scoprì che era ricoperto da una capiglia-tura lunga dieci braccia. Allora fuggì via prendendo con sé il fratellino e lo nascose in modo che Aggela-mush non lo vedesse. Poi si mise a riflettere sul da farsi. Dopo aver riflettuto sulla propria situazione, tornò a stare nel luogo precedente.

Quando però lei e il suo fratellino avevano fame, aspettava finché Aggelamush si fosse addormentato, quindi, mentre il mostro dormiva, gli rubava un po' di burro , di miele e di farina, e anche un secchio: portava tutto dal fratello, e insieme mangiavano. Col tempo, comunque, aveva studiato così a fondo Agge-

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lamush, da conoscere le sue abitudini fin nei detta-gli. Rimase quindi a vivere là.

Ma ora vi voglio raccontare di questo Aggelamu-sh, che genere di vita conduceva: Aggelamush posse-deva un numero incalcolabile di pecore, cammelle e mucche, oltre a quantità enormi di frumento, orzo, burro, miele; in poche parole, Aggelamush possede-va ogni ben di Dio. Inoltre, egli aveva una particola-rità: che qualunque cosa ordinasse, questa si realiz-zava immediatamente. Quando, per esempio, voleva mungere le sue pecore, gli bastava dire: «Mungetevi, mungetevi, mie pecore!». E le pecore si mungevano da sole. Oppure esclamava: «Mungetevi, mungetevi, mie cammelle!» o: «Mungetevi, mungetevi , mie mucche!» e gli animali eseguivano. Se diceva: «Ver-sati, versati dal secchio, latte!», ecco il latte versarsi da sé; se esclamava: «Agitati, agitati, otre del bur-ro!», questo si agitava; oppure: «Rapprenditi , rap-prendi t i , burro!», ques to si rapprendeva . E tu t to quello che Aggelamush ordinava ai suoi animali, essi lo eseguivano immediatamente. Era anche solito di-re alla ricotta: «Ricotta, staccati da sola dall'otre del burro!». Perché a mezzogiorno Aggelamush mangia-va la ricotta. Questo era il genere di vita consueto di Aggelamush.

La fanciulla lo osservò cont inuamente fino a co-noscere con assoluta precisione come si comporta-va. Cosicché, appena Aggelamush si addormentava, essa prendeva un secchio e vi metteva del bur ro e della farina e con la pasta ottenuta faceva una specie di gnocco. Quando poi Aggelamush era immerso in un sonno profondo, prendeva del burro e glielo spal-mava su tut ta la coda. Allorché al mat t ino Aggela-mush si svegliava, si trovava sempre la coda spalma-ta di burro. Allora accendeva un fuoco, prendeva un ceppo di legno acceso, se lo portava alla coda e ogni

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volta gridava: «Aspetta! - tuo padre sia maledetto -guarda che t i brucio! Mentre io dormo, tu, coda svergognata, te ne vai e mi consumi tutto il burro! Il bur ro è solo per me, anche il miele è solo per me, tutto quanto è solo per me!».

La fanciulla ascoltava di nascosto tutte queste pa-role: le conosceva ormai con precisione. Una notte, quando Aggelamush si fu addormentato , tirò fuori un secchio e lo riempì di burro e di farina; ne fece degli gnocchi, per la precis ione ne fece dieci, e li por tò accanto ad Aggelamush. Quando lo vide in p reda a un sonno profondo , prese la pasta , u n o gnocco alla volta, e ne strofinò uno sul naso, un altro sulla coda, un terzo sul fianco sinistro, e così via. Poi se ne tornò dal suo fratellino, che invece lasciò dor-mire.

Per farla breve, la fanciulla ripetè più volte questo t rat tamento ad Aggelamush. Finché una matt ina Ag-ge lamush si svegliò e si r i trovò ancora una volta completamente unto di pasta, scoppiò in un accesso d'ira, accese un fuoco e si tenne la coda nella fiam-ma. Allora il fuoco gli si appiccò a tutto il corpo pro-ducendo una grossa fiammata. La fanciulla osservò na tu ra lmente tu t to con at tenzione, e quando vide che Aggelamush andava a fuoco, gli gridò: «Paglia, paglia, Aggelamush!». Udendo queste parole, l'ani-male impazzito credette che il buon Dio gli stesse parlando. «Paglia, paglia, Aggelamush!» Corse quin-di in tutta fretta al deposito in cui era conservata la paglia: anch'esso prese fuoco.

Mentre il fuoco si appiccava a tutto quanto, la fan-ciulla corse a versare altro olio su di lui che già stava bruciando. Il suo fratellino aveva portato dell'acqua, ma lei gli sbarrò la strada e gettò via l 'acqua e conti-nuò a versare olio su Aggelamush finché questi non fu completamente carbonizzato.

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Morto che fu Aggelamush, essa prese il fratello e si installarono tutti e due nella sua casa, mangiarono e bevvero.

La fanciul la si rivolse agli an imal i nello stesso identico modo usato da Aggelamush, ma nessuno di essi volle mungersi da sé. Allora si diede da fare lei, prese un secchio e li munse con le proprie mani; pre-pa rò da sé anche il b u r r o e pascolò il bes t iame. Quando il fratello fu un po' più cresciuto, fu lui a condurre al pascolo le pecore, i cammelli e i buoi di Aggelamush. Tutti questi animali il giovane li faceva uscire di pr ima matt ina in un unico gregge. Ma lui non era stolto, bensì piuttosto avveduto.

Un giorno la sorella gli disse: «Fratello mio Mohammed , se tu conduci al pascolo le pecore di pr ima matt ina, t i preparerò sempre uno gnocco di pasta e lo metterò in questa nicchia accanto al por-tone. Se tu, al ritorno dal pascolo, lo troverai ancora caldo, saprai che io sono in casa! Se invece lo trove-rai freddo, saprai che non sono in casa! E la casa si apre solo se io emetto dei trilli!». Il fratello le disse: «Sorella mia, non uscire di casa di giorno, affinché nessuno ti veda e ti porti via!».

Il giovane conduceva quindi le pecore al pascolo e suonava il suo zufolo di canna. Quando alla sera fa-ceva r i torno a casa, cercava nel buco del m u r o ed estraeva il suo gnocco caldo. Poi gridava: «Sorella, emetti il tuo trillo, affinché la porta si apra!». La so-rella emetteva il suo trillo e la porta si apriva; e così il giovane poteva riportare dentro il bestiame. Dopo-diché la sorella emetteva un altro trillo e la porta si richiudeva.

Un giorno la ragazza udì battere alla porta. Guardò giù dal tetto e vide un ebreo davanti alla casa. L'ebreo vendeva essenze profumate. Notò la fanciulla e quasi perse i sensi quando vide la bellezza di cui Dio l'aveva

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dotata. Ora, la fanciulla disse all'ebreo: «Che cosa vendi, ebreo?». Egli rispose: «Signora, tutto quello che puoi desiderare ce l'ho a casa mia! Per me, ti chie-do soltanto di darmi da bere un po' di siero di latte». La ragazza gli rispose: «Sono senza chiavi di casa». Allora l'ebreo montò in groppa al suo asino e ritornò per la strada da cui era venuto. Bisogna sapere che questo ebreo era al servizio di un sultano. Ripartì dunque da lì e ripercorse la strada da cui era venuto. Ben presto giunse al palazzo del sultano e si recò su-bito nella sala del consiglio, dove cominciò a gridare. Il sultano lo udì gridare e ordinò al visir: «Conducimi qui l'ebreo che grida in questo modo!». Allora il visir andò dall'ebreo e gli disse: «Va' dal sultano!». L'ebreo andò con lui e quando fu al cospetto del sultano rima-se in piedi davanti a lui. Allora il sovrano gli chiese: «Che cosa ti è successo, ebreo, da levare tutte queste grida?». «Come è vero Dio, mio signore, oggi ho visto un'autentica bellezza: da quando sono al mondo non mi è mai capitato di vederne una simile. Per la tua te-sta! Nemmeno tu potresti avere una così bella figlia, o una donna di tale bellezza!». Allora il sultano, mera-vigliato, disse all'ebreo: «Se tu riuscirai a procurar-mela ti darò tutto quello che vorrai!». L'ebreo rispose: «Mio signore, ce la farò senz'altro, se tu me lo coman-di!». Il sultano insistette: «Se me la porterai qui, ti darò tutto l'oro del mondo, e ti farò anche visir, e po-trai mangiare e bere qui insieme a me». L'ebreo rispo-se: «Va bene, mio signore!».

L'ebreo possedeva un asino che comprendeva tut-to quello che il suo pad rone diceva. Dopo essersi p rocu ra to tut te le possibil i essenze p r o f u m a t e di questo mondo e averle caricate sull'asino, se ne andò fino alla casa della fanciulla e lì si fermò. Disse allo-ra all'asino: «Se ti ordino di non muoverti, mettiti a correre; ma se ti dico di correre, sta' fermo!». Quindi

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aprì la cesta che aveva caricato sull'asino: dentro vi era ogni tipo di cose belle, di quelle che piacciono al-le donne. Dopo avere aperto la cesta, l 'ebreo bussò alla porta; allora la fanciulla lo guardò dall'alto.

Appena vide la cesta decorata di seta per poco non svenne. Le chiese allora l'ebreo: «Signora, che cosa desideri? Quali sono i tuoi desideri?». «Ebreo,» disse la bella «desidero solo qualche essenza profumata.» Al che l 'ebreo disse: «Signora, por tami però pr ima un po' di siero da bere! Ti darò gratuitamente delle essenze».

La fanciulla fece appena in tempo a sentir parlare di essenze profumate senza spesa che già accorreva con un secchio pieno di siero. Quindi gli disse: «Però la por t a di casa è chiusa e io non ho la chiave». L'ebreo replicò: «Per favore, signora, calami il siero legato ai tuoi capelli e io ti farò anche vedere come le donne impiegano queste essenze!». La fanciulla sciolse i suoi lunghi capelli, vi assicurò il secchio e lo fece scendere fino all'ebreo. Giunto che fu il secchio fino all'ebreo, questi aprì del tutto la cesta, fece co-me se volesse bere e trascinò giù la fanciulla per i ca-pelli, facendola cadere nella cesta. A questo punto ri-chiuse la cesta sulla ragazza e disse all'asino: «Sta' fermo! La tua signora vuole scendere!». Allora l'asi-no prese a correre come un fulmine. Si diresse di corsa al palazzo del sultano e l'ebreo gli tenne dietro.

Davanti al palazzo, l 'asino si fe rmò e quando fu giunto anche l'ebreo, entrò subito e si recò dal sulta-no. Costui aprì la cesta e scoprì la fanciulla che vi era dentro: una bellezza come quella di cui Dio l'ave-va dotata, il sultano non l'aveva ancora mai vista, era bella come la luna e il sole! Il sultano sposò la fan-ciulla; quan to all 'ebreo, lo fece suo visir e questi mangiava e beveva presso di lui.

Torniamo adesso col racconto al ragazzo! Quando

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al t r amon to r ipor tò a casa il bes t iame, t rovò u n o gnocco freddo. Chiamò la sorella; ma gli rispose solo un gatto: «Miao, miao! Tua sorella l'ha portata via il sultano!». Allora il poveretto cominciò a piangere: dove avrebbero dormito, adesso, lui e i suoi animali? Il giovane si rivolse agli animali e disse loro: «Miei cammelli e buoi! A chi sarà in grado di sfondare que-sta porta darò una grossa ciotola piena di grano!». Udito quello che diceva il giovane, ogni animale a t u rno prese la r incorsa e si prec ip i tò con la testa contro la porta.

Ogni sforzo fu però vano, finché giunse il turno di un montone, tutto rognoso, magro e diarroico. Men-tre cominciava a caricare, il giovane rideva e gli gri-dava: «I signori corridori tutti insieme non riescono a far nulla e pensi di combinare qualcosa tu, signor t rot tapiano!». Tuttavia il mon tone fece r i suonare con la sua testa un bel "crac" nella porta e i r ruppe all 'interno, fin nella corte. A questo punto anche il giovane entrò in casa, ma non vi trovò la sorella. Co-minciò a piangere. Allora il gatto tornò a dirgli: «Tua sorella l'ha portata via il sultano!».

Da allora il giovane continuò a vivere nella casa di Aggelamush per altri due anni. Ma trascorsi due an-ni, si mise in viaggio e, poiché era assai avveduto, prese con sé un bas tone d 'a rgento e uno d 'oro, e inoltre un pettine d'oro e uno d'argento. Si incam-minò e prese a girare il mondo alla ricerca della so-rella. Cammina cammina, giunse a un fiume, in cui vi era un cammello morto, che era crepato di rogna! Estrasse allora il coltello e tagliò via dall'animale un pezzo di pelle, da cui ricavò una sorta di copricapo; fece in modo che esso gli coprisse del tutto la testa, così da sembrare un t ignoso. Proseguì quindi nel suo cammino e giunse a un altro fiume, nei cui pres-si vi era una sorgente; qui vide quattro donne che si

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lavavano la testa. Si diresse incontro a loro, e giunto che fu al loro cospetto si fermò lì, al di sopra delle donne, sul bordo della sorgente. Una delle donne lo apostrofò allora: «Cosa ti conduce qui, tignoso? Se il sultano ti vede, ti farà tagliare la testa!». Il giovane rispose: «Per favore, donne, datemi un pett ine per pettinarmi!». Ma tutte gli spiegarono: «Non ti dare-mo il nostro pettine perché tu sei tignoso! Noi siamo le mogli del sultano Afàn. Abbiamo paura di pren-derci anche noi la tigna!».

Tra le donne si trovava però anche sua sorella. Essa non lo aveva riconosciuto, ciononostante prese il suo pettine e glielo diede. Il giovane lo prese e si pettinò con esso; ma nel far ciò ruppe il pettine. Quand'egli lo ebbe rotto, le altre donne derisero quella che gli aveva dato il suo pettine, e le dissero: «Lo racconteremo al sultano!». Quando il giovane le sentì ridere in modo così malvagio, prese il suo pettine d'oro e lo diede alla donna (a sua sorella). Quando le altre donne videro che egli le aveva dato un pettine d'oro, gli gridarono tutte quante in coro: «Orsù, prendi anche i nostri!». Ma lui rispose: «Tanti saluti!». Quindi proseguì nel suo cammino e ben presto incontrò un gruppo di gio-vani che giocavano a palla in un campo (una sorta di hockey su pra to) . Tra di essi vi era il figlio del sultano. Quando Mohammed fu giunto da loro e li vide im-mersi nel gioco, disse loro: «Ragazzi, chi di voi mi vuole dare il suo bastone per giocare a palla?». Come un sol uomo, coloro cui aveva rivolto la richiesta dis-sero: «No, no!». Unica eccezione fu un ragazzino che gli diede il suo bastone. Con esso Mohammed diede un colpo molto forte, col risultato di spezzarlo. Quan-do ebbe rotto il bastone del ragazzino, gli altri si mi-sero a correre tutti insieme gridando: «Lo diremo al sultano!» e derisero il ragazzo, che stava già per scop-piare in lacrime. Allora il tignoso tirò fuori il suo ba-

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stone d'oro e lo diede al piccino. Quando videro ciò, tutti gli altri ragazzi gridarono in coro: «Ecco qui, tie-ni!», ma Mohammed per tutta risposta disse: «Tanti saluti!».

Fece quindi ritorno a casa e vi rimase per un certo tempo. Un bel giorno se ne andò nello spiazzo che sovrastava la sorgente che abbiamo già visto, e salì su un albero. Ben presto giunse una schiava di sua sorella per attingere acqua. In piedi sul bordo della sorgente, depose la brocca per r iempir la d 'acqua. All'improvviso la negra scorse il volto del giovane ri-flesso in mezzo all'acqua e credette che quel bel viso fosse il suo. Perciò disse tra sé: "Ho un aspetto così at traente, eppure sono solo una schiava!". Così di-cendo sollevò in alto la brocca dell'acqua intenziona-ta a fracassarla, quando il giovane che stava sull'al-bero le gridò: "Non romperla, Massuda!». A questo punto la schiava guardò in alto e vide il giovane; il suo viso grazioso era proprio uguale a quello della sua padrona, che era la moglie del sultano. Allora fu presa dalla paura.

Il giovane scese dall 'albero e ch iamò la schiava: «Massuda!». Essa rispose: «Ti ascolto, mio signore!». Il giovane proseguì: «Quando, a casa, versando l'ac-qua, sarai arrivata a metà della brocca, di' alla tua padrona di versare lei il resto!». «Va bene, mio signo-re» disse la schiava. E il giovane aggiunse: «Se Dio vuole domani mi incontrerai di nuovo qui accanto all'albero».

Il giovane tornò alla sua dimora e anche la schiava partì e, giunta a casa, prese il recipiente e cominciò a vuotarlo. Arrivata a metà della brocca, chiamò la sua padrona e le disse: «Padrona, vieni, versa tu l'ac-qua rimasta!». La donna si meravigliò che la serva le avesse detto di versare l 'acqua da sé. Prese comun-que la brocca e versò l'acqua restante. Dalla brocca

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cadde fuor i l 'anello di suo fratello; essa lo prese e scoppiò in lacrime. Ma la schiava cominciò a dirle: «Sta' tranquilla, padrona! Non piangere! Se vuoi ri-vedere tuo fratello, te lo porterò domani». La donna udì le parole della schiava, la baciò sul capo e le dis-se: «Se farai in modo di por tarmelo qui senza che nessuno lo veda, ti r enderò la l ibertà in questo e nell'altro mondo!». Quando fu il momento, la schia-va prese una gerla e disse alle compagne: «Vado a raccogliere del fieno». Dopo che ebbe raggiunto la sorgente e vi ebbe trovato il giovane, tirò fuori una bracciata di fieno. Si accostò quindi al giovane, lo mise nella gerla, tornò ad appoggiarvi sopra il fieno e si pose la gerla sulle spalle, e così riuscì a introdur-re il giovane nel palazzo. Qui lo accolse la sorella e lo nascose in una stanza sotto un mucchio di lana. Gli diede da mangiare, ma viveva sempre nel t imore che il sultano lo scoprisse e gli facesse tagliare la testa.

La sorella del giovane, dopo che l'ebreo l'aveva ra-pita dal palazzo di Aggelamush, aveva sposato il sul-tano e gli aveva partorito due figli. Essi erano ancora piccoli, ma sapevano già un po' parlare. Così, quan-do un giorno il giovane strisciò fuori dalla lana sotto la quale lo teneva nascosto la sorella, i due bimbi lo videro e chiesero alla mamma: «Chi è quello là sotto la lana?». Essa rispose: «Bambini, è vostro zio!». Un giorno il sultano si intratteneva con i suoi figli. Men-tre giocavano, il più piccolo gli disse: «Papà!». «Sì, che c'è?» «Lo tio, lo do totto la lana!» Il sultano, un po' sconcertato, chiese: «Cosa dice il piccino?». «Co-sa vuoi che dica.. .» intervenne f re t to losamente la moglie. «Continua a giocare con i bambini!» Ma il sultano si impuntò: «Mi devi spiegare che cosa vuole dire il piccino!». Allora la moglie si fece vicino al sul-t ano e gli disse: «Se p r ima mi dai la tua paro la d'onore che non gli accadrà nulla, ti spiegherò a chi

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si riferiva il bambino!». Il su l tano glielo promise: «Non gli succederà nulla che non possa accadere a me stesso». La moglie un po' fu spaventata da queste parole, un po' fu contenta per il fratello; baciò il ca-po del sultano e gli disse: «Caro marito, è arrivato mio fratello!». «Conducimelo qui!» disse il sultano. «Deve essere il benvenuto e deve trovarsi come se fosse a casa sua!» Allora il giovane strisciò fuori dal-la lana e il sultano lo potè vedere bene: la bellezza di cui Dio aveva dotato il giovane eguagliava quella del giacinto o della perla! Il giovane baciò il sultano sul capo, e questi gli disse: «Tu potrai condurre i cam-melli al pascolo!».

Bisogna però sapere che il giovane suonava lo zufolo di canna in un modo meraviglioso: chi lo udi-va non poteva fare a meno di mettersi subito a pian-gere. Il giovane portava dunque al pascolo i cammel-li del sul tano. Dopo averli condot t i al l 'aperto, suonava il suo zufolo: ma non appena gli animali lo sentivano suonare non potevano più andare avanti a brucare ; i cammel l i non e rano più in grado né di mangiare né di bere per il dolce suono dello zufolo. Quando, al calar del sole, il giovanotto riportava a casa i cammelli , questi sembravano sempre secchi come un chiodo; ciò era dovuto alla fame, perché di-menticavano di mangiare per via delle melodie del giovane. Un giorno, quando egli li riportò a casa, il sultano li vide e chiese: «O Mohammed, come mai questi cammelli sono così secchi? Sembra che ab-biano mangiato del veleno!». Il giovane gli rispose: «Mio signore, in verità, io li conduco là dove vi è tan-to cibo!».

Un giorno il sultano ordinò al giovane: «Vieni, ta-gliami i capelli!». Il giovane si avvicinò per tagliargli i capelli, e scoprì che sul capo il sultano aveva due cor-na, e se ne meravigliò assai. Il matt ino dopo portò di

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buon'ora i cammelli in aperta campagna e si mise a suonare lo zufolo accanto all 'apertura di una cister-na, lo zufolo gli cadde giù nella cisterna e cominciò, di laggiù, a suonare la stessa canzone che Moham-med era solito cantare, le cui parole dicevano: "Il sul-tano ha le corna!". Ma il giorno in cui il sultano si era fatto tagliare i capelli dal giovane, gli aveva spiegato: «Nessuno, al di fuori di te, sa che ho le corna; se tu lo racconterai a qualcuno, ti farò tagliare la testa».

Il giovane, però, quando si trovava da solo in aper-ta campagna e suonava lo zufolo, aveva sempre can-tato: "Il sultano ha le corna!". Questa volta era sedu-to sul bo rdo della c is terna e stava gua rdando giù quando lo zufolo di canna gli era scivolato dentro. Senza interrompersi , esso era andato avanti a suo-nare la canzone "Il sultano ha le corna!". E purtrop-po nella cisterna era impossibile calarsi. E sul fondo

lo zufolo cont inuava a suonare via via sempre più forte la vecchia canzone: "Il sultano ha le corna!".

Il sultano disse intanto all'ebreo, suo visir: «Vieni! Andiamo una buona volta a controllare se è vero che

il giovane por ta a pascolare i cammell i propr io là dove c'è cibo in abbondanza». Andarono e giunsero ben presto alla cisterna da cui lo zufolo faceva risuo-nare la sua canzone. Trovarono i cammelli che dan-zavano in torno alla cis terna: non brucavano, ma avevano orecchio solo per la melodia. In quel mo-mento anche il sultano udì la canzone dello zufolo, che fuoriusciva dal pozzo e, costernato e accasciato, scoppiò anche lui in lacrime. Chiamò a sé il giovane e gli disse: «Se non fosse per la promessa che ho fat-to a tua sorella, ti farei tagliare la testa!».

Il sultano tornò a casa. Fece quindi venire l'ebreo. Per incarico del sultano, questi si calò nella cisterna e recise la canna. Ma dopo qualche tempo essa tornò a germogliare e ricominciò la sua canzone, cantando

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come aveva fatto in precedenza. Allora l'ebreo si calò un 'a l t ra volta, recise la canna e questa volta versò della pece sul moncher ino . Questa volta esso non tornò più a germogliare.

Un giorno il sultano si rivolse alla moglie, la sorella del giovane, con queste parole: «Cara, ho bisogno di qualcuno che mi tagli i capelli». Di rimando, essa dis-se: «Chi l'ha già fatto una volta può ben farlo un'altra volta». Egli rispose: «È stato tuo fratello Mohammed, ma temo che si metta di nuovo a cantare: "Il sultano ha le corna!"». Ma lei disse: «Affida a lui l'incarico, vi-sto che lui sa già tutto». «Fallo chiamare!» ordinò il sultano. Allora la moglie andò dal fratello e gli disse: «Se, mentre tagli i capelli al sultano, arrivi vicino al suo collo, sgozzalo e non avere paura di nessuno!».

Allora il giovane si mise all'opera, prese il rasoio e lo affilò. Lo rese così tagliente che poteva tagliare perfino le pietre. Si recò quindi dal sultano e comin-ciò a tagliargli i capelli. Giunto alle sue corna, si me-ravigliò nuovamente del fa t to che avesse le corna . Proseguì con calma a tagliare i capelli, ma quando arrivò all'arteria giugulare vi affondò con forza la la-ma e sgozzò il sultano. Quindi prese l'ebreo, lo stes-so che era diventato visir, e gli tagliò la testa.

Fu così che il giovane Mohammed uccise il sultano e il visir e divenne a sua volta il sultano Si Moham-med. Così ha lasciato scritto la gente dei tempi anti-chi, e io l'ho raccontato a mia volta. Salute a tutti!

9 . LA D O N N A C H E V E N N E R A P I T A DA UN JINN

C'era una volta un ragazzo povero, che sognò di spo-sare una bella fanciulla, e quando si svegliò era così contento del sogno che par t ì immedia tamente per trovare la moglie a lui destinata. Viaggiò a lungo per

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tut to il paese, e alla fine la trovò nella figlia di una coppia di poveri contadini. La riconobbe subito e la trovò così bella che andò dall 'uomo a chiederla in moglie. Quello acconsent ì e così si ce lebrarono le nozze.

Qualche tempo dopo, portò con sé la giovane spo-sa al suo paese e prese a vivere con lei felice e labo-rioso nella sua piccola capanna. Un giorno però eb-bero un litigio, e una parola tirò l 'altra. La moglie r improverava al mar i to di essere così povero, e il mar i to replicava r icordandole che anche lei era fi-glia di povera gente. Continuando a litigare, venne la sera e i due non avevano ancora mangiato. Allora la moglie mise una pentola d'acqua sul fuoco per pre-parare un semolino, ma quando l'acqua cominciò a bollire, l 'alterco r icominciò, e la donna uscì dalla por ta con la pentola e versò fuori l 'acqua bollente. Subito essa venne afferrata e portata via da un jinn.

L'uomo si pentì allora di aver litigato con la sua amata sposa, e fece fagotto, intenzionato a percorre-re il paese in lungo e in largo. Cercò la moglie in tut-te le città e tutti i villaggi, senza riuscire a trovarla da nessuna parte. Alla fine capitò in un territorio de-sertico e si smarrì. Si sedette sulla sabbia, meditan-do tristemente sul proprio destino. Quand'ecco so-praggiungere un san to e r rabondo , che gli chiese quali fossero le sue preoccupazioni. Ed egli gli rac-contò il suo errore e come la moglie gli fosse stata rapita da un jinn. Il santo tracciò dei segni nella sab-bia, quindi disse: «Recati all'albero sacro del re degli spiriti» e gli descrisse con precisione la località «e chiedi a lui, allora saprai se ti sarà dato di rivedere tua moglie!».

L'uomo si mise subito in viaggio e dopo pochi gior-ni giunse a quell'albero. Ai suoi piedi era seduto un sant 'uomo, che giocava con pietre bianche e nere. Do-

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po un po' alzò lo sguardo e chiese al suo visitatore che cosa desiderasse. «Cerco mia moglie, che è stata rapi-ta da un jinn» disse il poveruomo. Allora il santo se-guitò a giocare con le pietre, e dopo molto tempo ri-spose: «Rimani qui questa notte. Domattina presto giungerà qui un uccello, cui non dovrai rivolgere la parola. Saligli in groppa e vola via con lui. Egli ti con-durrà all'assemblea degli spiriti, e là potrai allora ave-re notizie sulla tua sventura, forse il re deciderà a tuo favore, forse a tuo sfavore. Se avrai successo e potrai tornare con tua moglie, non dovrai ricompensarmi, se non avrai successo, non dovrai maledirmi».

Il pove ruomo dormì quella notte ai piedi dell'al-bero, e quando si ridestò, davanti a lui stava un uc-cello. Senza aprire bocca gli salì in groppa e si fece portare via. In men che non si dica giunsero in un castello dove erano radunati tutti gli spiriti del mon-do. Il pove ruomo si presentò davanti al trono del re e disse: «Io sono un p o v e r u o m o e ho perduto mia moglie, un jinn me l'ha rapita». Il re rivolse allora la domanda a tutti gli spiriti: «Chi di voi ha rapito la moglie di quest'uomo?». Un jinn si fece avanti e dis-se: «Sono io che l 'ho rapita». «Perché l'hai fatto?» chiese ancora il re. «Nostro sire, ascolta: quella don-na ha rovesciato dell 'acqua bollente nell'oscurità, e nel fare ciò ha colpito i miei figli, che si sono scotta-ti. Così è incorsa nella giusta punizione.» Allora il re fece por ta re la donna al suo cospet to e le chiese: «Perché hai buttato via dell'acqua bollente nell'oscu-rità? Non hai visto che i figli di questo jinn vi stava-no giocando?». «No» r ispose la donna . «Per noi i jinn sono invisibili, sia di giorno sia di notte. Non potevo sapere di far del male a qualcuno.» Allora il re disse: «La donna è innocente. E tu,» disse rivolto al jinn «tu non devi lasciar giocare i tuoi figli di na-scosto nelle vicinanze degli uomini!».

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Fu così che l 'uomo potè riprendersi la moglie. Sa-l irono in groppa all'uccello e vennero subito ri tra-spor ta t i a casa. Un anno dopo il mar i to disse alla moglie: «Facciamo un pellegrinaggio f ino a quel san t 'uomo che se ne sta sotto l 'albero, per r ingra-ziarlo della nostra fortuna!». Si recarono dunque in pellegrinaggio fino a quell'albero, ma non vi trovaro-no il santo. Sulla via del ri torno incontrarono invece il santo errabondo che per primo aveva dato il consi-glio di andare fino a quell'albero. Il pove ruomo gli raccontò di come avesse voluto ringraziare il santo, ma l 'errabondo gli disse: «Non avresti dovuto farlo. Nel preciso istante in cui tu hai preso questa decisio-ne, quell 'uomo è stato ucciso dal jinn i cui figli erano stati scottati».

10. L ' U O M O C O N L A P I P A

Un pescatore aveva cinque figli e una bellissima fi-gliola. Un giorno la figlia scomparve, e nessuno sape-va dove potesse essere. Allora il pescatore disse ai suoi figli: «Mettetevi in cammino e cercate vostra so-rella!». I cinque fratelli andarono sulla riva del mare, si sedettero su uno scoglio e si misero a riflettere sul da farsi. Trascorsero là tre giorni. Il maggiore dei fra-telli era un fumatore di kif, e ogni giorno sminuzzava il suo mazzetto di canapa e se lo fumava nella pipa.

Orbene, mentre costui, seduto così sullo scoglio, stava sminuzzando il mazzetto di canapa sopra un ta-gliere, i semi, che non servono al fumatore, caddero in mare e un grosso pesce fece un balzo per acchiap-parli e li divorò. Quando giunse dagli altri pesci, essi dissero: «Dov'è che sei diventato così grasso? Dove hai trovato un nutr imento così buono?». Allora il grosso pesce fece giurare agli altri pesci che gli avreb-

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bero obbedito, e dopo che essi ebbero giurato li con-dusse presso lo scoglio su cui era seduto il figlio del pescatore, il quale anche il giorno dopo tornò a smi-nuzzare il mazzetto di canapa lasciando cadere i semi in mare.

I pesci scattarono per afferrare i semi di canapa e ne furono così entusiasti che uno di loro disse: «Sve-leremo al giovanotto dove potrà ritrovare la sorella». Il pesce grande fu d'accordo e così disse al ragazzo del pescatore: «Ascoltami, giovane pescatore, ti devo dire una cosa!».

«Ti ascolto.» «Tua sorella è stata rapita da un ifrit che vive in al-

to, lassù, sulle montagne, dentro una caverna.» Allora il giovanotto ringraziò e riprese a tagliare la

sua canapa in modo da poterla fumare , dopodiché se la fumò contento.

II terzo giorno convocò i suoi fratelli e raccontò loro quello che il pesce gli aveva svelato. Ma i fratelli r isero, e il secondo di età gli disse: «In te par la il kif!». Tuttavia, dal momento che non avevano niente di meglio da proporre, decisero comunque di andare in montagna. Sellarono i loro muli, presero con sé delle provviste e partirono.

Dopo aver cavalcato per molti giorni addentran-dosi sempre più nel deserto, i muli non ne poterono più di affrontare senza nutr imento i difficoltosi sen-tieri montani, e si dissero tra loro: «Scrolliamoci di sella i nostr i cavalieri, abb iamo già fa t to fin trop-po!». Il maggiore udì queste parole e mise sull'avviso i fratelli, ma questi si l imitarono a ridere, dicendo: «In te parla il k i f ! ». A una brusca svolta della strada, i muli fecero cadere di sella i loro cavalieri, t ranne il maggiore, che scese da solo di sella. Lamentandosi per il dolore, i ragazzi si precipitarono verso una ca-verna e vi si r iposarono tre giorni.

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Il maggiore riprese a tagliuzzare il suo mazzetto di canapa, lasciando distrattamente cadere i semi in-torno a sé. Questo gesto fu visto da due tortore che vivevano nella caverna, le quali mangiarono i semi di canapa e presero a parlare tra loro. Una disse: «Lo sai che l ' i frit ha preso una nuova fanciulla?».

«No» disse l'altra. «Dove la tiene prigioniera?» «La tiene in quella grotta, su quel monte lassù.» Il maggiore finì di tagliare la canapa e si fece la

sua pipata, dopodiché si distese per riposarsi. Il gior-no dopo disse ai suoi fratelli: «Lassù, in quel monte, vi è una caverna, dove vive l'ifrit che tiene prigionie-ra nostra sorella». Ma i fratelli dissero di nuovo: «In te parla il kif!». Allora il giovanotto disse: «Datemi la sciabola di mio padre, ucciderò da solo l 'ifrit!». Essi gli diedero la sciabola e il giovanotto si a r rampicò sul monte e penetrò nella caverna.

Sulla porta della caverna incontrò una fanciulla, che gli disse: «Che Dio ti aiuti, dove vuoi andare?». Egli rispose: «Cerco l'ifrit e voglio ucciderlo!». Al che la fanciulla rispose: «Tornatene indietro, invece, per-ché l'ifrit è più potente di qualunque essere umano». Ma il giovanotto le mostrò la spada rilucente e la fan-ciulla si fece da parte e gli aprì la porta. Egli entrò e dopo un tratto di strada al buio si imbatté in una se-conda porta, davanti alla quale, di nuovo, vi era una fanciulla, che gli chiese: «Che Dio sia con te, dove stai andando?». Egli rispose: «Dove sta l'ifrit, voglio ucci-derlo!». Essa lo mise in guardia da quell'essere pos-sente, ma il giovanotto sollevò alta la sua spada scin-tillante, ed essa arretrò e lo fece passare per quella porta.

La stessa cosa si ripetè altre tre volte, e sull'ultima porta a riceverlo fu sua sorella, che, piangendo, gli disse: «Fuggi, caro fratello, perché l'ifrit ti ucciderà!».

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Ma il giovanotto le fece vedere la spada del padre e disse: «Dov e colui che ti ha rapita?».

Allora essa lo fece passare e gli fece vedere l'ifrit, che dormiva. Poi aprì uno sportello nella parete e ne estrasse la spada deìl'ifrit, dicendo al fratello: «Solo con questa sua spada potrai uccidere l ' i frit . Prendi-la!». Il giovanotto a f fe r rò la spada scint i l lante e staccò un braccio all ' i frit . Quest'ultimo lanciò un gri-do e ordinò al giovanotto di staccargli anche l'altro braccio, ma lui non lo fece perché sapeva che se avesse fatto così l'ifrit sarebbe sopravvissuto. In que-sto modo, invece, non sfuggì alla morte per dissan-guamento.

Allora il giovanotto prese per mano la sorella e ri-salì rapidamente con lei verso l'uscita. Per strada si unirono a loro le cinque fanciulle che erano a guar-dia delle porte.

All'imboccatura della grotta erano in attesa i fra-telli che, a un suo richiamo, calarono una fune. Egli vi assicurò per pr ima la sorella, essi la t irarono su e furono molto contenti. Poi egli li r ichiamò ma essi non volevano più calare la corda, f inché egli non gridò loro: «Qui ci sono ancora molte altre belle cose che potete t irare su!». Allora essi ca larono nuova-mente la fune ed egli vi assicurò un'al tra fanciulla, che essi t i rarono su r imanendo estasiati per la sua bellezza. Si misero però a litigare su chi dovesse te-nersela, finché egli gridò: «Calate la fune, qui ci sono altre cose belle!». Allora gli calarono ancora la fune, cui egli assicurò la fanciulla successiva, che fu an-ch'essa tirata su. Proseguirono in questo modo fin-ché fu r imasta una sola fanciulla, quella che egli ave-va incontrato alla pr ima porta. Essa gli disse: «Non fidarti dei tuoi fratelli! Ecco, prendi il mio anello, e quando lo girerai, io penserò a te. Un giorno ci spo-seremo». Il giovanotto si mise l'anello al dito e assi-

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curò alla fune la fanciulla, poi i fratelli la sollevaro-no. Quindi chiesero: «Ce ancora qualcosa laggiù?». «Sì» gridò lui. «Qui ci sono ancora oro, argento e pietre preziose!» Allora calarono ancora molte volte la fune ed egli vi assicurò tutti i tesori che potè tro-vare nella caverna.

Alla fine egli aveva fatto piazza pulita, e i fratelli avevano issato tutto. Allora egli gridò: «È tutto, ades-so tiratemi su!». Ma essi non calarono la fune e se ne andarono.

Il giovanotto si mise a sedere, tirò fuori la pipa e fumò qualche boccata, finché, tranquillizzatosi, fu in grado di riflettere. Ripensando per bene alla propria situazione, osservò che la fanciulla che gli aveva dato l'anello gli aveva parlato con sincerità, poiché gli ave-va detto di stare attento ai fratelli. Si ricordò allora dell'anello che costei gli aveva dato, lo rigirò e pensò a lei. Immediatamente gli apparve davanti un jinn che gli chiese quali fossero i suoi ordini. «Fammi risalire alla superficie!» disse il giovanotto, e istantaneamen-te venne sollevato e si ritrovò seduto sulle pendici del monte su cui era salito giorni prima.

Dei suoi fratelli non vi era più traccia: avevano sel-lato in tut ta fretta le bestie ed erano ripartiti verso casa insieme alle fanciulle e ai tesori. Ciò indispettì assai il giovanotto, a tal punto che non volle più tor-nare a casa, ma proseguì in un'altra direzione.

Camminò a lungo, finché giunse nei pressi di una grande città. Qui incontrò un pas tore e scambiò i suoi vestiti con lui, quindi gli diede la sua spada e prese in cambio u n a pecora . Si recò al tor rente , sgozzò la pecora, ne ripulì gli intestini e se li avvolse intorno al capo, in modo che nessuno vedesse i suoi lunghi capelli. In questo misero abbigliamento e con l'aspetto di un tignoso, entrò quindi in città. Si recò dai fabbricanti di dolci e chiese al capo della corpo-

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razione se avesse del lavoro da dargli. Costui disse: «Oh, povero me, non ho abbas t anza da fare per riempire la giornata e tu vorresti anche lavorare per me?». «Non sarà necessario che tu mi paghi» disse il giovanotto. «Dammi solo una ciambell ina da ogni vassoio, mi accontento di questo.»

Allora il pasticciere fu d'accordo e assunse il gio-vanotto. Alla fine della giornata di lavoro, quando il fornaio era già tornato a casa, il giovanotto, che era rimasto a dormire nel negozio, cominciò a fumare il suo kif. Dopodiché prese pasta e zucchero, spezie e uvette e sper imentò molte nuove idee sul modo di ottenere dei dolci prodotti da forno. Il giorno succes-sivo il pasticciere ritornò al negozio, si stupì del bel lavoro, mise tutti i dolci nel forno e quando furono ben cotti li vendette con grande guadagno. In segui-to a ciò ottenne una tale folla di clienti che la voce si sparse ovunque fino a giungere all'orecchio della fi-glia del sultano.

Un giorno essa inviò al negozio la sua schiava ne-gra con un vassoio di paste con l 'ordine di farsele cuocere immedia tamente . La schiava si fece largo nella fila dei clienti che aspettavano e si presentò di-r e t t amen te al g iovanot to con la t igna e gli disse: «Cuocimi subito queste!». Il giovanotto le diede un sonoro ceffone e la mandò via. Allora il padrone del forno cominciò a lamentarsi: «Cos'hai fatto! Per me è finita! Hai schiaffeggiato la schiava della princi-pessa!». «Va bene così» rispose il giovanotto. «Non ti preoccupare, vedrai che ce ne verrà del bene!»

Quando la schiava fu di ri torno al palazzo, la prin-cipessa le chiese perché non avesse adempiuto l'in-carico. Allora la schiava raccontò come erano anda-te le cose. Quindi la principessa le chiese: «C'era una coda di gente in attesa?». «Sì» rispose la schiava. «E tu non hai aspettato, come si conviene?» proseguì la

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principessa. «No» ammise la schiava. Allora la prin-cipessa le appioppò un secondo ceffone, questa volta sull'altra guancia, e la congedò.

Quando fu notte, si recò di soppiatto alla bottega del fornaio e, guardando attraverso le fessure della porta, vide il giovanotto che si toglieva dal capo la parrucca di intestini di pecora e lasciava liberi i suoi lunghi capelli. Si innamorò di lui e ritornò in fretta al palazzo. Si recò subito dal padre e gli disse: «Caro padre, tu non hai figli maschi ma solo noi, cinque fi-glie. Se dovessi morire, nessuno ti succederebbe sul t rono e il disordine regnerebbe nel tuo reame. Spo-saci a cinque uomini dabbene, dopodiché potrai sce-gliere tu stesso tra questi il tuo successore!».

Il sultano chiese tempo per riflettere, quindi disse alla figlia, che era la più piccola e la sua preferita: «Mi hai dato un buon consiglio. Domani annuncerò che mar i te rò le mie figlie e che tutt i gli uomini in condizione di sposarsi dovranno ritrovarsi nella mia sala del trono. Quindi potrete scegliere voi stesse, fi-glie mie, il vostro sposo». E così fu fatto. Il matt ino successivo in tutte le case dei più ricchi, dei ministri e dei giudici, cominciò una festosa eccitazione; do-vunque i migliori figlioli venivano rivestiti con abiti di festa e condotti al palazzo del sultano. Quando fu-rono tut t i r aduna t i nella sala del t rono, i l sul tano diede una mela e un fazzoletto a ciascuna delle sue cinque figliole e disse: «Colui cui darete il vostro faz-zoletto e la vostra mela sarà il vostro sposo». Allora gli uomini passarono in lunga fila davanti alle cin-que principesse, e una dopo l'altra le principesse die-dero la mela e il fazzoletto all 'uomo di loro scelta. Solo la principessina più giovane conservava ancora mela e fazzoletto, perché il garzone del fornaio non era tra gli aspiranti.

Quando il sultano se ne accorse, chiese alla figlia

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da che cosa dipendesse, ed essa rispose: «Oh, caro padre , fai por t a re qui dai vicoli della ci t tà tut t i i mendicanti , fannulloni e tignosi, può darsi che tra loro trovi colui che sposerò!».

Dal momento che il sultano amava moltissimo la figlia, esaudì il suo desiderio, per quanto strano fos-se. Le sue guardie dovettero dunque andare in giro per la città a raccattare tutti i mendicanti, gli storpi, i fannulloni e i giovanotti male in arnese, e così bus-sarono anche alla por ta del fornaio. Costui si spa-ventò moltissimo, perché credeva di essere chiamato a rispondere del gesto insolente del suo aiutante, e in effetti, appena aprì la porta, le guardie afferraro-no il giovanotto e lo por tarono in fret ta a palazzo. Egli li seguì impaurito, per vedere che cosa sarebbe successo al suo abile aiutante.

Dopo che tu t t i i mendican t i e gli s torpi f u r o n o por ta t i al cospet to della principessa, t rasc inarono davanti a lei anche il tignoso, ed essa lo riconobbe immediatamente e gli diede il suo fazzoletto e la sua mela.

Furono quindi celebrate le quintuplici nozze. Ma gli altri quat t ro generi del sultano disprezzavano il tignoso e non volevano avere nulla a che fare con lui.

Tuttavia, il sul tano si ammalò , e la sua malat t ia continuava a peggiorare. Convocò i suoi visir e chie-se loro quale medicina lo potesse guarire. Essi disse-ro: «Invia i tuoi cinque generi in missione e fatti por-tare un rimedio!». Allora il su l tano ch iamò i suoi generi e li incaricò di procurargli la medicina capace di risanarlo. Essi dissero: «Signor padre e nostro so-vrano! Ti porteremo questo rimedio, ma permettici di partire senza questo tignoso. Egli se ne andrà da solo per la sua strada!». Il sultano fu d'accordo.

Il giovanotto si mise a fumare la pipa in santa pa-ce, quindi rigirò l'anello e al jinn che gli apparve ri-

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chiese: «Portami il rimedio che può risanare il sulta-no!». Il jinn disse: «Subito, mio signore e padrone!» e in un batter d'occhio gli portò la medicina.

Quando i quattro cognati fecero ritorno, dopo un viaggio lungo e infruttuoso, il giovanotto si portò da-vanti alla città, si fece dare dal jinn vesti sontuose e un bel destriero, e andò incontro ai quattro. Incon-trandosi, si scambiarono le formule di saluto, dopo-diché il giovanotto chiese ai suoi cognati - che non lo avevano riconosciuto, perché si era tolto la par-rucca di intestini - donde venissero e che cosa recas-sero con sé. Al che essi presero a lamentarsi dell'in-successo, e il giovanotto ascoltò ogni cosa. Quindi disse: «Se mi date i fazzoletti che vi sono stati dati dalle vostre spose, vi darò io il rimedio che cercate». I quat t ro t rovarono soddisfacente lo scambio e gli d iedero i fazzolett i in cambio della medicina . La por ta rono quindi al sultano, che ben presto ne fu guarito.

Un anno dopo il sultano si ammalò nuovamente, si trovò un'altra volta in pericolo di vita, e richiese una nuova medicina. Anche questa volta inviò alla ricerca i quattro generi, e il tignoso non potè andare con loro. Ma dal momento che anche questa volta essi tornarono senza avere trovato nulla, il giovanot-to andò loro incontro un'altra volta con un altro tra-vest imento e diede loro il r imedio in cambio delle mele che essi avevano avuto dalle rispettive spose, e ri tornò, senza farsi riconoscere, al palazzo, dove si fece di nuovo vedere come un tignoso. I quattro ge-neri portarono al sultano il nuovo rimedio, grazie al quale egli tornò in salute.

Lo stesso avvenne una terza volta: il sultano si am-malò correndo il rischio di morire e inviò i generi a cercargli il rimedio. E per la terza volta il giovanotto si fece portare dal jinn il rimedio, andò incontro ai quat-

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tro cognati e chiese loro che cosa li preoccupasse. An-che questa volta essi non lo riconobbero, perché si era ancora mostrato loro con un abito e un cavallo diffe-renti. Dal momento che ora essi non avevano più nul-la da dare in cambio, pretese da loro il mignolo della mano destra, e i quattro accettarono.

Si amputarono i mignoli e li diedero al giovane in cambio della medicina. Con questa essi curarono il sultano. Quando il sultano si fu nuovamente rimesso, fece chiamare i suoi generi e disse loro: «Dal momen-to che voi mi avete portato questi rimedi da terre lon-tane, vi designerò miei successori e spartirò il mio re-gno fra voi». Allora i quattro dissero: «Però il tignoso non può avere nulla, perché egli non ci ha accompa-gnati».

Allora il tignoso chiese: «Dove sono i vostri fazzo-letti e le vostre mele, che vi sono stati dati dalle prin-cipesse come tes t imonianza del vostro ma t r imo-nio?». Essi n o n seppero cosa r ispondergl i e il giovanotto tirò fuori le cinque mele e i cinque fazzo-letti, e li fece vedere al sultano. Quindi disse: «Signor padre e nostro sovrano! Tutti gli uomini hanno cin-que dita nella mano, osserva ora le mani dei tuoi ge-neri!». Allora essi dovettero fargli vedere le mani, e il sultano vide che mancavano loro i mignoli. Il giova-notto raccontò quindi come fosse stato lui a procu-rare loro i rimedi in cambio di tut to ciò.

Il sultano si meravigliò assai e disse: «Allora sarai tu solo il mio successore e il sovrano del mio re-gno!». A questo punto, il giovane si tolse la parrucca di intestini di pecora e sciolse i suoi lunghi capelli, in modo che questi potessero ondeggiare liberamen-te. Poi abbracciò il sultano e gli chiese: «Caro padre, per favore lasciami pr ima intraprendere un viaggio, perché devi sapere che avevo già una moglie pr ima di mari tarmi con tua figlia. E devo liberare anche lei

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dalle mani dei miei fratelli!». Sellò quindi un bianco stallone e partì con un drappello di cavalieri alla vol-ta della sua città d'origine.

Per strada dovette passare attraverso un paese go-vernato da una regina così dispotica e crudele che non permetteva a nessuno di attraversarlo. Essa era però di una bellezza così straordinaria che chiunque la vedesse si in f i ammava subi to d ' amore per lei. Quando il suo esercito combatteva contro un altro esercito e stava indietreggiando, irrompeva di perso-na nella mischia, cavalcando davanti al comandante nemico e scoprendosi il volto dinanzi a lui. Allorché questi, colto da amore per lei, abbassava la guardia, essa lo uccideva con la sua spada e metteva in fuga i nemici.

In questo stesso modo essa volle annientare anche l 'uomo con la pipa da kif, quando questi con i suoi compagni attraversò il suo paese senza ritirarsi da-vanti ai suoi soldati. Essa gli andò incontro e si sco-prì il viso, ma il giovanotto disse: «Quand'anche tu ti scoprissi interamente, non riusciresti a impressio-narmi!». Costrinse quindi il cammello della regina a inginocchiarsi e la minacciò con la spada. Allora es-sa implorò di lasciarla in vita dicendo: «Non ucci-dermi, e invece sposami e il mio palazzo e tut to il mio regno sa ranno tuoi!». I l g iovanot to trovò at-traente la proposta e andò con i suoi cavalieri nel ca-stello, dove per sette giorni festeggiarono le nozze. Quindi egli le disse: «Aspettami qui, devo andare a liberare la mia prima moglie dalle mani dei miei fra-telli».

Viaggiò parecchi giorni insieme ai suoi compagni, fino ad arrivare al mare e alla città dei suoi genitori. Là vide, davanti alla città, un grande palazzo e ne fu assai meravigliato. «A chi appartiene quel palazzo?» chiese a un pescatore che incontrò sulla spiaggia.

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«Appartiene ai quattro fratelli figli di un pescatore, che un giorno tornarono con ricchi tesori dalle mon-tagne, portando con sé la sorella e delle belle mogli.» E il giovanotto capì che doveva trattarsi dei suoi fra-telli.

Ordinò ai suoi compagni di montare l 'accampa-mento, dopodiché se ne andò a piedi alla fontana da-vanti al palazzo e attese. Dopo qualche tempo uscì una serva con una brocca per attingere acqua. Dopo che questa ebbe riempito la brocca, egli le chiese un sorso d'acqua. Essa gli porse la brocca ed egli bevve, e poi fece cadere di nascosto l'anello nella brocca. La serva, oltrepassato il portone, portò la brocca all'in-terno del castello e la diede al padrone di casa.

Il pescatore bevve l'acqua, vuotò la brocca, trovò l'anello sul fondo e chiese alla serva: «Cosa ci fa que-sto anello nella brocca?». Allora la serva af fer rò l 'anello, se lo infilò al di to e disse, gioiosamente: «Devi sapere, o mio signore, che questo anello ap-partiene al mio sposo, il quale non è altri che il tuo figlio maggiore, che credi morto. Infatti è stato lui a uccidere l ' i frit con la spada e a liberare tua figlia e noi cinque fanciulle. I suoi quattro fratelli lo hanno abbandonato privo di aiuti nella grotta e mi hanno minacciata di morte se li avessi traditi. Deve trattarsi sicuramente di quell 'uomo che mi ha chiesto un sor-so d'acqua quando ho riempito la brocca alla fonta-na». Allora il pescatore disse: «Allora por tami qui mio figlio!». La serva uscì di corsa verso la fontana, ma non riuscì a trovare lo sposo da nessuna parte. Tornò allora mestamente al castello e si recò nella sua stanza. Mentre rifletteva, triste, sul modo di rin-contrare il suo amato , le venne in mente il potere dell'anello. Lo rigirò e al jinn che le si presentò or-dinò di portarle il suo sposo. L'ordine venne esaudito sull'istante, e i due si abbracciarono colmi di felicità.

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Poi essa gli rivelò il t radimento dei suoi fratelli e co-me lei avesse dovuto fare la serva nel castello per tut-to l'anno. I due andarono dal vecchio pescatore che r iconobbe subito il figlio. Dopodiché quest 'ul t imo chiamò i suoi fratelli e consegnò loro il castello. Pre-se con sé il padre, la sorella e la moglie e ri tornò coi suoi compagni nel suo regno.

Per strada passò a prendere l'altra regina, la sua seconda moglie, facendo così un ingresso trionfale nella capitale. Quando morì il vecchio sultano, suo suocero, salì lui al t rono e regnò per molti anni in pace.

11. LA F I G L I A D E L JINN

C'era una volta un uomo ricco che partì per il pelle-grinaggio lasciando a suo figlio una grande quantità di beni e di luigi d'oro. Ma il figlio si diede al gioco e perse tutto, le sue ricchezze e perfino i suoi terreni. Gli rimase solo la tristezza per la perdita.

Prese allora la sua pistola e se ne andò nel bosco, intenzionato a spararsi . Qui giunse un jinn che gli chiese perché volesse uccidersi, ed egli rispose: «Mio padre mi ha lasciato molti beni che mi sono stati portati via col gioco, e per questo voglio uccidermi». Il jinn gli disse allora: «Se tu fai un patto con me, ti salverò». Fecero il patto e il jinn gli disse: «Un giorno dovrai venire da me sui mont i e incont rarmi ; nel f rat tempo prendi dei sassi e riempine le stanze in cui prima erano ammucchiate le ricchezze; poi chiudile a chiave e rientraci solo al matt ino presto!». L'uomo fece quan to gli era s ta to det to e la mat t ina dopo, quando vi entrò, trovò le stanze piene come prima di luigi d'oro.

Ora, quando il padre r i tornò dal pellegrinaggio,

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suo figlio gli disse: «Devo partire». «Dove vuoi anda-re?» chiese il padre, e il figlio gli raccontò: «Devo ri-spettare un pat to concluso con un jinn». «Quand'è così, va' pure, figliolo!» replicò il padre.

Il giovanotto prese delle provviste e partì. Quando, in territorio selvaggio, giunse a una fonte, tirò fuori il suo pane e si mise a mangiare.

In quella arrivarono sette colombe che comincia-rono a bere. Queste colombe in realtà erano le figlie del jinn con cui egli aveva concluso il patto. Finito di bere, deposero il loro abito di piume e si trasforma-rono in fanciulle. Il giovanotto si avvicinò, prese un abito di p iume e lo nascose. Quando le altre se ne volarono via, una dovette r imanere indietro: quella il cui abito era stato portato via, perché era rimasta in forma umana.

Essa si mise quindi a gridare: «A colui che mi ren-derà l 'abito di piume, possa Dio donare la ricchez-za!». Al che il giovanot to le rese l 'abito di p iume. «Dove sei diretto?» gli chiese la colomba. «O signo-ra,» disse egli «io ho stretto un pat to con un jinn e mi tocca ora andare a trovarlo dove abita, in cima al monte tale, che non so nemmeno dove si trovi.» La colomba gli rispose: «Noi sette colombe siamo le fi-glie di quel jinn». Comunque si fece promettere che l'avrebbe sposata, ed egli accettò.

Essa gli indicò il monte su cui suo padre viveva in-sieme alle figlie. Egli vi si recò, e appena giunto il jinn gli si fece incontro, lo salutò e lo pregò di entrare in casa. Là egli trascorse la notte.

La matt ina seguente egli lo prese con sé e lo portò su un altro monte, e gli ordinò di spianare quel mon-te fino a trasformarlo in una pianura. Il giovanotto rifletté a lungo su cosa dovesse fare per spianare la montagna. Quand'ecco arrivare la figlia del jinn con cui si era f idanzato, por tando con sé la colazione.

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Ma egli non voleva mangiare nulla e continuava a ri-flettere. Allora essa gli disse: «Chiudi gli occhi!». Non fece in tempo a chiuderli e a riaprirli che vide il monte t rasformato in una pianura. «Non dire nulla di tutto ciò a mio padre!» essa gli ordinò.

Quando il jinn ripassò di lì, trovò il monte trasfor-ma to in p ianura . La mat t ina dopo por tò con sé i l giovanotto su un altro monte e gli ingiunse di taglia-re tutti gli alberi che vi erano per poterli sostituire con delle buone piante da frutto. Quando la fanciul-la ritornò a portargli la colazione, lo trovò immerso in meditazione. Anche questa volta essa gli chiese di chiudere gli occhi, e quando egli li riaprì l 'intera fo-resta era diventata un bel frutteto in cui crescevano splendide piante da frut to di ogni qualità.

Quando il jinn ripassò di lì e vide il frutteto, disse a sua moglie: «Quest 'uomo è assai capace!». Ma la moglie ribatté: «È tua figlia che gli fa vedere come deve fare!». Allora il jinn rinchiuse la figlia e portò fuor i con sé il giovanotto. Portò un sacco pieno di p iume e lo svuotò sulla montagna , dopodiché su-scitò un vento che sparpagliò le piume per ogni do-ve. A questo punto egli ordinò al giovanotto di racco-gliere tutte le p iume e di rimetterle nuovamente nel sacco. Allora il giovanotto si sedette e cominciò a pensare come poteva fare per recuperare tutte quelle piume.

Attraverso un piccolo foro, un uccellino era riuscito a infilarsi nella stanza in cui la figlia del jinn era pri-gioniera. Essa lo afferrò e gli scrisse sulle ali delle pa-role magiche, dopodiché lo lasciò nuovamente libero di volare. L'uccello volò fin dal giovanotto e cominciò a beccare un po' del suo pane. Allora il giovane cat turò l'uccello e cominciò a spennarlo, ottenendo tante di quelle piume da riempire tutto il sacco.

A questo punto il giovanotto andò dal jinn e gli re-

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stituì il sacco, che era pieno come pr ima. Allora il jinn disse a sua moglie: «Anche questa volta tua fi-glia gli ha detto precisamente che cosa dovesse fa-re?». «È davvero strano» dovette ammet te re lei. A questo punto essi si convinsero che quelle azioni an-dassero attribuite al giovanotto e non alla loro figlia, per cui la lasciarono libera. Poi il jinn disse al giova-notto: «C'è ancora una cosa che ti resta da fare: se mi por te ra i u n a mela che cresce su un m o n t e in mezzo al mare ti darò in sposa una delle mie figlie!».

Il giovanotto si mise in viaggio e giunse f ino al mare, ma non era in grado di attraversarlo. Allora giunse la fanciulla e lo trovò meditabondo sulla riva. «Uccidimi!» essa gli ordinò, ma dal m o m e n t o che egli si ritraeva inorridito e non voleva farlo, gli sot-trasse essa stessa il coltello e si uccise. In precedenza gli aveva spiegato: «Quando sarò morta , mett imi a cuocere per bene, f inché tu t to diventi un brodo. Quando saranno rimaste solo le ossa, prendile e ver-sa il brodo nel mare. Esso si consoliderà e ti consen-tirà un passaggio fino a quel melo!».

Il giovanotto fece tu t to quello che essa gli aveva chiesto, e per quella via arrivò fino a cogliere il frut-to di quel melo. Con le ossa della fanciulla si era co-struito una scala a pioli per superare la ripida erta che conduceva in cima al monte. Quando tornò giù con le mele, riprese con sé le ossa, ma dimenticò un ossicino, quello del mignolo di un piede. Tornò quin-di dal jinn e gli diede la mela richiesta. Allora il jinn dispose in fila le sue figlie e disse al giovanotto: «Chiudi gli occhi e scegline una! Quella che sceglie-rai sarà tua moglie!». La sua amata gli aveva consi-gliato di tastare i piedi e di prendere quella cui fosse mancato un mignolo del piede. Il giovanotto fece co-sì, e il jinn gliela diede in moglie.

Dopo avere abitato là per un mese, disse alla mo-

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glie: «Andiamo a far visita a mio padre e a mia ma-dre!». «Volentieri» rispose la moglie. Montarono su un mulo e partirono. Giunti in prossimità del villag-gio del marito, la moglie disse: «Ti aspetterò qui in-tan to che tu spieghi ogni cosa ai tuoi. Dopodiché, torna a prendermi! Ma non dimenticarmi! Sta' at-tento, quando torni, al momento dei saluti: anche se ti vorranno dare dei baci sulla bocca, tu salutali solo con la mano. Se dovessero baciarti sulla bocca, ti di-menticheresti di me!».

Il mari to stette bene attento: al momento di salu-tare i suoi parenti si limitò a salutarli con la mano, ma da ultima giunse una sua vecchia zia, che gli ar-rivò da dietro e lo baciò sulla bocca. Immediatamen-te egli dimenticò sua moglie.

Costei rimase afflitta per la lunga attesa, e quando capì che non sarebbe arrivato, t rasformò per incanto il mulo in una tenda, in cui cominciò a servire il caffè. La gente di quei paraggi lo venne ben presto a sapere, e tutti quelli che andarono da lei a prendere il caffé furono colpiti dalla sua bellezza, e ciascuno credeva di poterla sposare. Uno di costoro, che avrebbe volen-tieri trascorso la notte con la donna, rimase a scher-zare con lei dopo la cena. E quando essa si accorse di quello cui lui mirava, gli disse: «Metti fuori il gatto!» e si ritirò. Egli provò a mettere fuori il gatto, ma tutte le volte quello ritornava, fino a che si fece giorno. A quel punto l'uomo, stanco e spaventato, se ne andò via.

Anche la notte successiva ci fu uno con le stesse intenzioni del primo. Si t ra t tenne da lei fino a che tutti furono andati a dormire, e a quel punto essa gli diede un secchio e gli disse: «Vai a prendere dell'ac-qua!». Ma quando costui stava per t irare fuor i dal pozzo il secchio pieno d'acqua, la corda si fece sem-pre più lunga, al punto da non arrivare mai alla fine.

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Questo andò avanti fino al mattino, quando egli fu preso dal timore e fuggì.

La sera dopo arrivò suo marito per avere un rin-fresco in quel caffè. Quand'essa lo vide, lo riconobbe subito, mentre lui non si ricordava più di lei. Anche lui r imase, con le stesse intenzioni dei pr imi due, finché tutti andarono a dormire, poi essa gli diede un recipiente e gli chiese di versarne fuori l 'acqua. Egli andò a versare fuori l 'acqua, ma quando stava per ritornare, si accorse che il recipiente era ancora pieno, e tornò a vuotarlo, e così da capo fin nel cuo-re della notte.

Allora essa gli disse: «Getta via il recipiente con l 'acqua e vieni qui!». Egli fece ciò che essa gli aveva ordinato, e andò dalla donna, che gli chiese: «Non hai una moglie?». «No» rispose lui. Allora essa co-minciò a ricordargli quello che aveva fatto: «Ricor-dati che io sono venuta qui con te, io, la figlia del jinn, che ti avevo promesso di sposarti. Ti avevo pur consigliato di non farti baciare sulla bocca, perché in tal caso mi avresti dimenticata». Allora al mari to tornò la memoria, ed egli si convinse che essa diceva la verità.

Quando giunse il mattino, tutto ri tornò come una volta, ed essi montarono sul mulo e si recarono alla casa dei genitori di lui. Si celebrò per loro la festa di nozze, e il marito r imase con la moglie presso i geni-tori. Da lì io sono venuto fin qui e non ho nemmeno portato con me un altro paio di sandali di paglia.

12. IL JINN DI I M Z U W U R T

Si racconta che un giorno un r emoto an tena to di Hajj Hassan Ahanshi degli Ait Tamlal portò con sé un cane dal merca to di Tamanar. Questo cane era

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completamente nero e si era messo da solo a seguire quell 'uomo. Dal momento che aveva proprio biso-gno di un cane, egli lo prese con sé, lo tenne nel cor-tile nutrendolo bene. Ora, a più riprese, all 'uomo ca-pitò di scoprire che al mat t ino il suo cavallo aveva tutta la pancia bianca di sudore misto a incrostazio-ni di salsedine, come dopo un pesante lavoro, e ne fu assai meravigliato. Un giorno egli lo disse alla mo-glie e le chiese se non sapesse nulla di ciò. Anch'essa non sapeva di dove venisse l ' incrostazione salma-stra, ma gli consigliò di vegliare di notte senza per-dere di vista il cavallo. Il mari to fece così. Quando tutti dormivano, egli vide che il cane nero scioglieva la corda che teneva legato il cavallo, dopodiché gli montava in groppa e partiva al galoppo in direzione del Capo Amikaid. Fece r i to rno solo poco p r ima dell'alba, e tornò a legare il cavallo, la cui pancia luc-cicava per il bianco del sale umido.

L'uomo ne fu assai meravigliato, ma per p a u r a non ne parlò con nessuno. Ora, bisogna sapere che questo Capo Amikaid è un grosso scoglio a stra-piombo sul mare per più di cinquanta metri. La stri-scia costiera ai suoi piedi, accessibile solo da una parte, e a scalatori provetti, in caso di bassa marea è d isseminata di scogli che sembrano i resti di un campo da gioco dei giganti dei tempi antichi . In mezzo a queste rocce, così nascosto che solo chi se lo fa indicare da altri può trovarlo, vi è l'ingresso di una caverna. Il suo percorso si allarga, dopo i primi metri che si devono percorrere strisciando, e condu-ce a grandi sale in cui vi è posto per intere case. A es-se è congiunto un intrico di passaggi in cui senza una corda si sarebbe perduti perché non si ritrove-rebbe mai più l'uscita. Uno di questi passaggi condu-ce per diversi chilometri all 'interno e si snoda anche sotto il villaggio di Ait Tamlal. Là, in mezzo ai cam-

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pi, esiste una minuscola apertura in cui, quando c'è l'alta marea, si sente mugghiare il mare.

In questa caverna capita spesso, verso sera, di udi-re una musica, un suono di flauto e un tambureggia-re metallico, come di solito nelle feste di matr imo-nio. Questa bella musica, di cui non si distingue la provenienza, è prodotta dai jinn che vi abitano e vi custodiscono i tesori che nel corso dei secoli sono stati accumulati dai pirati.

Tutto questo r i tornò alla mente dell 'uomo, e per questo egli non si fidò a parlare della cavalcata not-turna del cane nero.

La figlia dell'uomo, che cresceva in casa, non ave-va paura del cane. Di giorno gli portava da mangiare e si intrat teneva con lui. Un giorno essa disse alla madre: «Cara mamma, parla per favore col babbo, e digli che mi dia in sposa al cane, dal momento che il cane me lo ha chiesto». La donna rimproverò la fi-glia, ma questa anche in seguito continuò più volte ad avanzare tale richiesta, finché la madre chiese al mari to di tenere d'occhio la figlia quando portava da mangiare al cane. L'uomo si pose dietro una porta in cortile, guardando at t raverso le fessure. E fu così che egli udì la figlia dire al cane: «Mia madre non vuole che tu mi sposi. Che cosa possiamo fare?». E il cane rispose: «Adesso taci perché dietro la porta vi è tuo padre che ci sta spiando». L'uomo fu assalito dal-la paura, perché si rese conto che quel cane era un jinn.

La notte stessa il cane scomparve insieme ad Ai-sha (così si chiamava la fanciulla), e per molti anni non si sentì più parlare della fanciulla. Un giorno, però, essa tornò col cane e con due figli. Il padrone di casa era in quel momento al mercato di Tamanar. Aisha entrò in casa e disse alla madre: «Cara mam-ma, tua figlia Aisha è ritornata. Guarda qui, questi

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due bimbi sono i tuoi nipotini. Permettimi di stare con te, e proteggimi dal babbo!». La donna glielo promise.

Quando il padre fece ritorno dal mercato, la mo-glie gli disse: «Tua figlia Aisha è ritornata e ha porta-to con sé i suoi due figlioletti. Permettile di stare con noi!». L'uomo pretese di vedere il padre dei bambini, e la moglie gli disse: «Aspetta solo che sia notte, e poi osserva il cane. Sicuramente si t rasformerà in un giovane». Il padre fu d'accordo, e la sera si rinchiuse nella stanza in cui dormivano Aisha e i due bambini, e allora vide che il cane si era levato la pelle nera ed era un bel giovanotto. Il padre prese di nascosto la pelle di cane, ma in quella il giovanotto si destò e, sotto forma di nebbia, si dileguò nella caverna di Im-zuwurt. La notte stessa Aisha sellò un asino, prese i due figli e se ne partì nella stessa direzione verso il Capo Amikaid. Non la vide più nessuno.

Tuttavia, alcuni narrano di avere avuto, in diverse occasioni, rapporti con un jinn che forse vive nella caverna di Imzuwurt. Così narra anche la sorella di Hajj Hassan Ahanshi: un giorno essa avrebbe udito una voce che la chiamava; essa salì sul tetto a ter-razza della casa e stava per ritornare giù, dal mo-mento che non vedeva nessuno, quando venne graf-fiata a un orecchio, in modo che ne fu strappato via un pezzetto di carne. Allora essa vide una fine neb-bio l ina che si dir igeva verso il Capo Amikaid e scompariva.

Per conciliarsi il jinn di Imzuwurt tutti gli anni, a primavera, nelle capanne vuote che si trovano lassù, nel punto più estremo del promontor io a picco sul mare, si tiene una festa in cui si portano cibi per il j inn e per i due corvi che lassù hanno il loro nido.

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13. LA N E G R A C O N I D U E G O M I T O L I

C'erano una volta due giovani che vivevano soli, con una sorella e la sua schiava negra. In primavera con-ducevano le loro greggi sui pascoli dei monti e lascia-vano alla fattoria la sorella con la schiava. Dopo un certo tempo che erano sui monti li assalì un gran de-siderio di rivedere la sorella, per cui le mandarono una mula su cui essa potesse venire a trovarli, legan-do sotto la sella quattro grosse conchiglie. La fanciul-la prese con sé delle provviste e salì in groppa alla mu-la, seguita dalla schiava che andava a piedi. Quando la schiava fu stanca, disse alla sua padrona: «Scendi e lasciami salire in sella!». Allora la fanciulla chiamò i suoi fratelli, e una delle conchiglie risuonò e rispose: «Sì?». Essa disse: «La schiava vuole che io scenda per poter salire lei in sella». La conchiglia replicò: «Falla andare a piedi, sei tu la padrona, e se non le va bene, arrivo io e le spezzo il groppone!».

Così la schiava dovette continuare a camminare. Quando fu un'altra volta stanca, disse: «Scendi e la-sciami salire in sella!». Di nuovo la fanciulla chiamò i fratelli, e la seconda conchiglia rispose: «Sì?». «La schiava vuole che io scenda per poter salire lei in sel-la.» La conchiglia rispose: «Falla andare a piedi, sei tu la padrona, e se non le va bene, arrivo io e le spez-zo il groppone!».

Quando giunsero a una sorgente, la ragazza chie-se di porgerle da bere, ma la schiava disse: «Se vuoi bere, scendi di sella e serviti da sola! Quando te l'ho chiesto, tu non mi hai lasciato salire in sella, e ades-so io non ti do da bere». La fanciulla dovette quindi scendere e andare a prendere da sé l 'acqua. La schia-va però aveva con sé due gomitoli di filo, uno bianco e uno nero. Li gettò nell'acqua, dopodiché colpì col gomitolo nero la propria padrona, che divenne per-

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ciò nera, e se stessa con quello bianco, diventando così bianca. A questo pun to salì lei in groppa alla mula, e l'altra dovette proseguire a piedi. La fanciul-la fu ben presto stanca, perché non era abi tuata a camminare: i suoi piedi cominciarono a sanguinare. Alla f ine giunsero dai fratelli. Essi, na tura lmente , credettero che colei che era in sella (essendo bianca) fosse la loro sorella. Furono molto contenti di rive-derla.

Un paio di giorni dopo, q u a n d o i piedi della "schiava" furono guariti, i fratelli le dissero: «Va' a pascolare i cammelli!». Essa vi andò, ma ment re i cammell i pascolavano si mise a piangere. «O ma-dre,» si lamentava «i miei fratelli t ra t tano la negra come una regina e la sorella la mandano a custodire i cammelli.» All'udir ciò, i cammelli accorsero sin-ghiozzando, si inginocchiarono e piansero anche lo-ro. Un giorno, uno dei due fratelli si accorse che i cammelli erano magri da morire. Disse alla negra: «Disgraziata! Quando ti diciamo di por tare i cam-melli nel tal posto, tu non ce li porti, e loro non man-giano più nulla da quando li abbiamo affidati a te!».

«Mio signore, eppure li ho condotti là dove tu mi hai detto.»

Allora egli la minacciò: «Ti spezzo il groppone se non li porti a quel pascolo!».

Essa li condusse dunque su quel pascolo al quale l'aveva inviata il fratello, e quest 'ult imo la seguì di nascosto. Sul prato i cammelli si dispersero, mentre la fanciulla si sedette e pianse: «O madre, aiutami, i miei fratelli t rat tano la negra come una regina e la sorella la mandano a custodire i cammelli».

Quando i cammelli udirono i suoi lamenti, accor-sero singhiozzando, si misero in ginocchio e comin-ciarono anch'essi a piangere. Il fratello vide tutto ciò

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e ne fu assai meravigliato. Andò dalla fanciulla e le chiese: «Cosa hai detto?».

«Fratello, sono io vostra sorella» rispose la fan-ciulla.

«Che cosa ti è successo?» chiese allora il fratello. Essa gli raccontò tutto quello che era successo. Al-

lora egli le disse: «Alzati e vieni con me!». Per strada essa gli disse: «Se non mi credi e pensi che tua sorel-la sia l'altra, allora chiedile di aprire la cassa e tirarti fuori il tuo nastro di seta, perché lei avrà certamente la sua chiave! Quando però essa non sarà in grado di aprire la cassa, saprai che io ti ho detto la verità».

A casa il fratello chiamò la bianca e le disse: «Sorel-la, apri la cassa e tirami fuori il mio nastro di seta!». Essa andò alla cassa ma non fu in grado di aprirla. Al-lora il giovane le tolse di mano la chiave e la diede a colei che pascolava i cammelli. Ed essa aprì imme-diatamente la cassa. Così egli fu convinto che essa gli aveva detto la verità. Si rivolse quindi all'imbrogliona e la minacciò di strapparle il fegato se non avesse im-mediatamente ripetuto lo stesso incantesimo con cui aveva trasformato in negra la sorella. Allora quella disse: «Portate un secchio d'acqua». Quindi prese i due gomitoli di spago, uno bianco e uno nero, li im-merse nell'acqua e si colpì col gomitolo nero, ridiven-tando nera, mentre colpì la sua padrona col gomitolo bianco, ed essa ridiventò bianca. I fratelli furono con-tenti e piansero insieme alla sorella sul dolore che es-sa aveva dovuto sopportare. Presero quindi due cam-melli per punire la colpevole; a un cammello diedero orzo da mangiare tutto il giorno e tutta la notte, men-tre all'altro non diedero neppure un granellino. La matt ina dopo legarono una gamba della negra al col-lo del cammello sazio, e l'altra gamba al collo di quel-lo affamato. Posero quindi dell'acqua davanti al cam-mello sazio e dell'orzo davanti a quello affamato. A

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quel punto i cammelli part irono di corsa verso ciò di cui sentivano la mancanza, e così la negra venne squartata e morì.

1 4 . 1 D U E F R A T E L L I E L'IFRIT

Questa è la favola di due fratelli, un ragazzo e una ragazza, che non avevano né padre né madre . Un giorno essi anda rono a caccia, si adden t ra rono in luoghi selvaggi, si smarr i rono e non fu rono più in grado di ritrovare la loro città. Errarono a lungo nel-la foresta, finché si fece loro incontro un cane bian-co. Impauri t i , essi gli get tarono un pezzo di pane. Quando ripartirono, egli li seguì. Continuarono a va-gare, finché si fece loro incontro un altro cane, iden-tico al primo. Anch'esso andò loro dietro, e alla fine i due arrivarono alla dimora di un ifrit. Bussarono, e uscì fuori un negro alto sette metri; aveva al collo un blocco di ferro che pesava sette quintali. Se qualcu-no entrava in casa sua, il negro gli faceva cadere in testa il blocco di ferro, lo sfracellava facendone pol-tiglia e se lo mangiava. Li'ifrit stava per fare la stessa cosa con i due fratelli che stavano per entrare in ca-sa, quando i due cani gli saltarono addosso e lo ucci-sero. Il ragazzo trovò sette chiavi, le prese e aprì le stanze. Qui trovò denaro, farina, grano e tante altre cose. Quindi disse alla sorella: «Rimani qui e prepa-ra da mangiare! Io invece andrò a caccia e procurerò della carne».

Così egli fece il pr imo e il secondo giorno. Il terzo giorno, mentre egli era fuori, la fanciulla guardò il negro e scoprì che si muoveva. Allora il negro le dis-se: «Per Allah, figliola, se tu vuoi, curami finché sarò di nuovo guarito. Poi io ti sposerò». La fanciulla gli rispose: «Va bene!». Quindi il negro disse: «Prendi

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quella cassetta, dentro c'è un unguento: spalmamelo e tornerò sano!». Allora la fanciulla prese la cassetta e spalmò l 'unguento sul negro. Poi il negro le diede della far ina e le disse: «Mettila nel pranzo, ma tu non mangiarne!» ed essa così fece. Quando il fratello tornò, volle mangiare , per cui disse alla sorella: «Mangia con me!». Ed essa rispose: «Non sto bene». Ma quando stava per mangiare e aveva già preso la prima cucchiaiata, il cane gliela fece cadere di ma-no; prese la seconda e anche questa volta il cane gli fece cadere di m a n o il cucchiaio. Allora il fratello disse alla sorella: «Andiamocene via da qui!».

I due se ne andarono. Il fratello prese la chiave, chiuse la casa e gettò la chiave in un fiume.

Cammina cammina , ben presto giunsero in una città dove vi era un re. Trovarono tutt i gli abitanti della città nell'afflizione e il ragazzo chiese: «Cosa è successo alla gente di qui?». Gli risposero: «In que-sta città vive un serpente con sette teste. Ogni ve-nerdì gli si deve dare una fanciulla da divorare. Oggi è arr ivato il t u rno della figlia del re, che t ra poco verrà ingoiata dal serpente». Allora il giovane andò all'ingresso della caverna da cui soleva fuoriuscire il serpente, si sedette e aspettò. In quella arrivò la fi-glia del re, che gli disse: «Che cosa fai qui? Va' a ca-sa; il serpente verrà fuori e ci divorerà tutti e due». Il giovane rispose: «Non me ne andrò finché il serpen-te non uscirà di qui!». Essa disse: «Va bene». Aspettò ancora f inché, alla fine, il serpente venne fuori . A questo punto il ragazzo estrasse la spada, lo colpì e lo uccise all ' istante. Allora la fanciul la gli chiese: «Che cosa desideri in dono?». Egli disse: «Donami soltanto il tuo fazzolettino!». Essa estrasse il suo faz-zoletto e glielo diede. Egli lo prese, tagliò le sette lin-gue del serpente, le mise nel fazzoletto e se ne andò.

Passò di lì un carbonaio e trovò il serpente morto.

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Lo esaminò e guardò che non gli mancasse nulla. Al-lora prese la sua scure, tagliò le sette teste e le portò dal re. E là giunto disse: «Io ho ucciso il serpente!» e gli fece vedere le sette teste. Allora il re ordinò: «Conducetelo nei bagni!». Immediatamente lo con-dussero nei bagni, dopodiché si cominciò subito a fare i preparativi per le sue nozze con la figlia del re.

Mentre già si festeggiavano le nozze, arrivò il cane bianco e portò via il piatto che stava davanti al car-bonaio . I servitori inseguirono il cane, che si era messo a correre, e giunsero alla casa del giovanotto. Allora dissero al giovane: «Vieni subito dal re!». Il giovane andò con loro finché furono al cospetto del re. Il re chiese: «Perché hai manda to il tuo cane a portare via il piatto dello sposo?». Il giovane rispose: «Egli non si è meritato il piatto». Allora il re chiese ancora: «Perché?». Il giovane rispose: «Quel piat to se lo mer i ta di più il cane». Ancora gli fu chiesto: «Perché?» ed egli rispose: «Che cos'ha portato costui come prova?». Gli risposero: «Ha portato le sette te-ste». Il giovane disse: «Osservate ben bene le teste, non è che manchi loro qualcosa?». Vennero esami-nate le teste e si scoprì che mancavano le sette lin-gue. Allora il giovane disse loro: «Ecco qui le sette lingue e il fazzoletto della figlia del re».

Allora p r epa ra rono le nozze per il giovane, che sposò la figlia del re. Quando il re morì, divenne re al suo posto.

15. L ' U O M O C H E A V R E B B E D O V U T O S E M I N A R E F A V E

C'era una volta un uomo, che aveva due mogli e vive-va contento insieme a loro. Un giorno esse dissero: «Caro marito, seminaci delle fave, in modo che in in-

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verno abbiamo qualcosa da mangiare!». Gli diedero due sacchi di fave da seminare. Il marito se li portò nella sala da tè e disse al padrone del locale: «Cuci-nami tutti i giorni un buon piatto di fave!». Così l'uo-mo mangiò per molti giorni minestra di fave ed era sempre di buonumore . Quando venne il periodo di raccogliere le fave, le mogli gli chiesero: «Dicci dov'è il nos t ro campo, cosicché noi poss iamo anda re a prendere le nostre fave». E il mari to rispose: «È pro-prio in direzione est, oltre la g rande montagna . Prendete con voi questo bastone e misurate con esso le piante di fave. Quando troverete fave alte così, sa-prete che si t ra t ta delle vostre fave. Quelle potrete raccoglierle». Le due donne camminarono a lungo nella direzione indicata, e trovarono il campo di fave in cui le piante erano alte come il loro bastone. Allo-ra cominciarono a raccoglierle. Mentre erano a metà della raccolta, sopraggiunse di corsa un 'orchessa gridando: «Lasciate stare le mie fave!». Ma le donne non ebbero paura, e proseguirono nella raccolta. Al-lora l 'orchessa andò su tut te le fur ie e prese sotto-braccio le due donne e le por tò nella sua caverna. Qui essa voleva gettarle nel suo paiolo, ma queste chiesero che risparmiasse la vita dei figli che porta-vano in grembo. L'orchessa nutrì le due donne fino a che esse diedero alla luce i loro figli, dopodiché di-vorò le madri e crebbe i due figli. Dava sempre loro da mangiare le parti migliori, tenendo per sé solo le ossa e le pelli. Ed essi divennero due splendidi picco-li umani: un ragazzo e una ragazza.

Quando furono cresciuti, l 'orchessa mandò il ra-gazzo nel bosco, per cacciare, mentre la fanciulla ri-maneva a casa a occuparsi della cucina. Tutti i gior-ni il ragazzo portava a casa della selvaggina, e col passar del tempo divenne grande e forte. Un giorno, nel bosco incontrò un vecchio solitario, che gli chie-

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se da dove venisse e che cosa intendesse fare. Il gio-vanotto disse: «Io sono il figlio dell'orchessa che vive in quella caverna laggiù, e caccio la selvaggina per fornir le nut r imento». Allora il vecchio gli rispose: «Ma tu non sei un orco, bensì un essere umano!».

Ora, quando il giovane tornò nella caverna, rac-contò alla sorella di questo avvenimento, ed essa gli disse: «Dobbiamo fuggire, perché chissà che un gior-no l'orchessa non ci divori». Quindi chiese all'orches-sa: «Madre, da che cosa si capisce che tu stai dormen-do?». L'orchessa rispose: «Quando sentirai dalla mia pancia risuonare le voci degli animali - il ruggito dei leoni e il grugnito dei cinghiali, l 'ululato degli sciacal-li e il canto degli uccelli - in breve tutti i rumori degli animali, saprai che io sto dormendo». Allora la fan-ciulla prese l'astuccio con gli aghi da cucito, la casset-tina col sale e il grosso paiolo, e quando udì rumoreg-giare tutti gli animali nel ventre dell'orchessa, destò il fratello e fuggì con lui dalla caverna.

Camminarono per un po'; si fece chiaro, ed essi, volgendosi a guardare indietro, videro l'orchessa che si avvicinava a grandi passi. In fretta la fanciulla tirò fuori gli aghi da cucito e li gettò alle proprie spalle, ed ecco crescere un'intricata siepe di rovi. L'orchessa ebbe grandissima difficoltà a farsi strada, si strappò tutti i vestiti e anche la pelle. Finalmente, però, riu-scì a passare oltre e tornò ad avvicinarsi ai due fug-giaschi. Allora la fanciulla gettò alle proprie spalle del sale, che divenne un grande deserto abbacinante. L'orchessa rischiò di morire e si debilitò assai, ma al-la fine superò anche questo e tornò ad avvicinarsi ai due fuggiaschi. Allora la ragazza gettò alle proprie spalle il grande paiolo, che divenne un'al ta catena montuosa, al di là della quale l'orchessa non riuscì a passare. A questo punto i due giunsero a un fiume in piena, che scorreva impetuoso e spumeggiante. Allo-

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ra il giovane disse al fiume: «Buon fiume dalle acque tranquille e limpide, lasciaci passare, per favore!». Il f iume non aveva mai senti to parole così cortesi, e immediatamente si placò lasciando passare i due ra-gazzi. Quando furono sull'altra sponda, i due videro che l'orchessa aveva oltrepassato i monti ed era arri-vata al fiume. Essa disse al fiume: «Ehi, tu, mostro spumeggiante e selvaggio, fa' scomparire le tue soz-ze masse d'acqua che io voglio passare!». Il fiume fe-ce calare le sue acque solo per un istante, dopodiché si gonfiò in m o d o terribile per l 'ira e annegò l'or-chessa che aveva appena cominciato il guado.

Vedendo ciò, i ragazzi si tranquillizzarono e pro-seguirono il cammino fino ad arrivare a una grande p ianura . E qui, gua rdandos i in torno, la fanciul la scorse una mosca che li seguiva. Dopo un po' tornò a guardarsi indietro e vide che la mosca era già diven-tata grande come un calabrone. Dopo un altro po' esso si era avvicinato ed era già grande come un uc-cellino. Allora la fanciulla ebbe paura e propose al fratello: «Riposiamoci un po'!». Giunti dopo poco a un pozzo, si sedettero sul bordo. Lì videro un rospo, che chiese con insistenza: «Gettatemi in acqua, cari ragazzi!». Dopo la terza volta che ripeteva la richie-sta, il ragazzo prese il rospo e lo gettò nel pozzo, ma gli rimase attaccato, e finì per precipitare dentro an-che lui. A questo punto, la ragazza si rese conto che l 'orchessa si era t ras formata in un rospo, e quindi fuggì alla ricerca di un aiuto per tirare fuori il fratel-lo. Incontrò due giovanotti e chiese loro cosa stesse-ro facendo e da dove venissero. Uno dei due disse: «Io sono un principe e sto cacciando in questi parag-gi. Questo è il mio servitore». Allora la fanciulla rac-contò quello che era successo a suo fratello e chiese aiuto ai due. Essi diressero quindi i loro cavalli verso il pozzo.

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Torniamo ora a occuparci del fratello che era pre-cipitato nel pozzo. Laggiù egli si guardò intorno e vi-de una luce e decise di andarle incontro. Strisciò per un lungo passaggio, e quando giunse al te rmine , trovò una fanciulla di incomparabile bellezza. Costei gli disse: «Vattene via in fretta, perché qui abita un drago che, appena tornato, ti ucciderà». Il ragazzo le rispose: «Non ho paura di nulla, io! Dimmi solo co-me si deve fare per uccidere il drago!». La fanciulla rispose: «Va' in quella sala, vi troverai una spada ap-pesa alla parete: prendila! Se sarai in grado di tener-la in mano potrai anche ucciderlo. Altro mezzo non c'è». Il ragazzo andò nella sala, prese la spada dalla parete e attese il drago. Quando questi ritornò, il ra-gazzo lo colpì producendogli una grave ferita. Allora il drago gli disse: «Colpiscimi un'altra volta!». Ma il ragazzo disse: «Fossi matto, ci tengo alla pelle!». E così il drago morì dissanguato.

Il ragazzo prese con sé la fanciulla e la condusse al fondo del pozzo, e proprio in quel momento i due ca-valieri stavano calando una corda per tirarlo su. Allo-ra il ragazzo disse alla fanciulla: «Sali pure tu per pri-ma!». La fanciulla gli chiese con grande insistenza di salire lui per primo, ma egli non si lasciò convincere. Allora essa gli consegnò l'anello che aveva al dito e un fazzoletto, e gli diede un bacio pr ima di farsi tirare fuori. Quando il principe ebbe estratto dal pozzo la bellissima fanciulla, fu colmo di felicità. Anche il suo servitore sperò in un identico colpo di fortuna, ma quando si accorse che stava t irando fuori dal pozzo il ragazzo, lo lasciò ricadere sul fondo. Dopodiché i due cavalieri, con le due fanciulle, se ne tornarono al ca-stello del rispettivo padre e re, lasciando il ragazzo nel pozzo. Costrinsero invece le fanciulle a non rive-lare nulla, minacciando, altrimenti, di ucciderle.

Il ragazzo, frattanto, era tornato nella caverna dove

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trovò il drago disteso nel proprio sangue. Gli tagliò la lingua e la mise insieme al fazzoletto e all'anello nella tasca. Proseguì quindi e trovò il rospo che lo aveva at-tirato nel pozzo. Al vederlo, esso fuggì fino al fondo del pozzo, ma egli lo bloccò e lo uccise con la spada del drago. Quindi si distese accanto a lui e si addor-mentò. Quando si ridestò, dal corpo del rospo era cre-sciuto un albero, che si elevava per tutta l'altezza del pozzo fino al bordo. Arrampicandosi sull'albero, il ra-gazzo arrivò all'aperto.

A questo punto riprese il cammino nella stessa di-rezione di p r ima fino ad arrivare a una cit tà dove trovò un alloggio. Il propr ie tar io della locanda gli raccontò che nel castello reale stavano per festeggia-re una doppia festa di nozze, purché venisse rispet-tata ancora una condizione: chi fosse stato in grado di riportare alla seconda fanciulla l'anello che aveva al dito sarebbe stato il suo sposo. Quando fu giunto il giorno delle nozze, il servitore del principe le portò un anello, ma la fanciulla lo respinse perché non le andava bene. Si fecero avanti allora ancora altri gio-vanotti, ma nessuno degli anelli le andava bene. A questo punto giunse anche il ragazzo che le diede il suo anello, e questa volta esso le andava a pennello. Il re, però, non voleva che tutto andasse così liscio, e chiese alla fanciulla chi volesse sposare. Costei disse: «Colui che mi r iporterà il fazzoletto di seta che ho perduto sarà il mio sposo». Allora il servitore portò un fazzoletto di seta, ma la fanciulla lo respinse per-ché non era quello giusto. Solo quando il ragazzo le porse il suo fazzoletto essa lo riconobbe immediata-mente e si rallegrò. Il re, tuttavia, pretese un'ulterio-re prova. Allora la fanciulla disse: «Colui che ha uc-ciso il drago nel pozzo sarà di diritto il mio sposo». A questo punto nessuno fu in grado di portare alcun-ché. Solo il ragazzo portò la lingua del drago e venne

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riconosciuto vincitore. Allora le doppie nozze venne-ro festeggiate in pompa magna, il ragazzo ebbe in sposa la fanciulla e sua sorella il principe. E quando morì il re, divisero il regno in due parti uguali e re-gnarono in piena concordia.

16. L ' U C C E L L O D A L L E U O V A D ' O R O

C'era una volta un povero taglialegna al quale la mo-glie aveva par to r i to due figli. Tutti i giorni il poveruomo andava nel bosco, tagliava la legna e la t raspor tava a spalle f ino in città, dal fornaio, e in cambio riceveva due pani e un po' di denaro che ba-stava sì e no per sopravvivere. Un giorno, recatosi come al solito nel bosco per tagliare la legna, trovò un uccello, grazioso e mansueto, che si lasciò pren-dere in mano. L'uomo pensò di portarlo ai suoi figli perché si divertissero con lui, e prese la via del ritor-no. Quando arrivò a casa così in anticipo, senza pa-ne né soldi, la moglie gli chiese che cosa fosse suc-cesso. Egli si limitò a far vedere l'uccello, dandolo ai figli, ma la moglie gridò fino a che egli non tornò nel bosco a finire il suo lavoro.

I bambini presero a giocare con l'uccellino e gli fabbricarono un nido con una cassettina, che piacque molto al volatile, il quale si mise a cantare armonio-samente. Il giorno dopo i bimbi trovarono nella cas-settina un uovo d'oro. Lo fecero vedere al padre, che ne fu assai contento e si recò con esso da un ebreo nel bazar degli orafi e glielo vendette a un prezzo vantag-gioso; con questi soldi egli potè finalmente acquistare cibi e indumenti di qualità, e, felice, portò tutto a ca-sa. Anche la matt ina dopo i bimbi trovarono un uovo d'oro nella cassetta dell'uccellino, e anche questa vol-

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ta il padre andò dall'ebreo e ne riportò un bel po' di denaro.

La cosa si ripetè per diverso tempo. Al punto che l 'uomo potè acquis tare una casa bella e spaziosa, terreni, bestiame, schiavi e pastori, inviare i figli alla scuola coranica e condurre per conto suo una vita felice e contenta.

Un giorno disse alla moglie: «Cara moglie, adesso noi abbiamo tutto quello che occorre per vivere bene, non ci manca nulla. E tuttavia c'è una cosa che io de-sidero fare più di ogni altra, vale a dire il pellegrinag-gio alla Mecca, luogo della grazia. Tu sei provvista di ogni cosa, per cui posso partire tranquillamente e, se Dio vuole, tornerò da te sano e salvo». Prese commia-to dai figli e dalla moglie, diede ordine alla sua schia-va più fedele di portare ogni giorno l'uovo d'oro all'ebreo, e partì per il lungo viaggio fino in Arabia.

Per qualche giorno tutto andò bene, ma poi la mo-glie fu assalita dalla curiosità e una matt ina accom-pagnò la schiava fin dall'ebreo al quale essa vendeva l'uovo d'oro. Quando l'ebreo vide la donna, fu rapito dalla sua bellezza, e anche lui piacque alla donna. Egli le disse: «Da dove arrivano queste uova d'oro che mi vengono portate in continuazione?». La don-na rispose: «A casa abbiamo un grazioso uccello che ogni giorno depone un uovo d'oro». «Mi piacerebbe proprio vederlo, un simile uccello» disse l'ebreo. Al-lora la donna lo portò con sé a casa e gli fece vedere l'uccello nella sua cassettina. Quando l'uccello vide i due, intonò una canzone:

Chi mangia la mia testa diventerà re, chi mangia il mio cuore diventerà giudice.

Udito ciò, l'ebreo si fece molto intraprendente con la donna e le disse: «Tuo marito è partito per un lun-

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go viaggio. Chissà se tornerà mai. Io ti sposerò!». La donna acconsentì.

Stabilirono il giorno delle nozze e l 'ebreo chiese soltanto che l'uccellino gli venisse servito al pranzo di nozze.

Durante i festeggiamenti , la donna ord inò alla schiava di uccidere l'uccello e di cucinarlo. Frattanto arrivarono i due figli, di ritorno da scuola, si recaro-no in cucina e videro l'uccello sul fuoco. Allora si mi-sero a spilluzzicare qualcosa: uno prese la testa, l'al-tro il cuore, e li mangiarono tutti e due.

Quando venne servito l 'uccello arrosto, l 'ebreo cercò invano la testa e il cuore, e, adiratosi moltissi-mo, fece chiamare la schiava. La donna chiese alla schiava: «Non sei stata attenta all'arrosto? Mancano due pezzetti!». La schiava disse: «A parte me e i vo-stri figli nessun altro è entrato in cucina». Allora la donna chiamò i suoi figli e questi ammisero di avere spilluzzicato due pezzetti dall'arrosto. Allora l'ebreo pretese: «A questo punto tu devi sacrificare i tuoi fi-gli e farmi portare ciò che vi è nei loro stomaci!». La donna incaricò la sua schiava di portare con sé nel bosco i due ragazzi, ucciderli, prendere quindi dai loro stomaci la testa e il cuore e riportarglieli.

Quand'essi furono nel bosco, la schiava raccontò ai due ragazzi ciò che la madre le aveva ordinato di fare, e aggiunse: «Io non ce la faccio a uccidervi. Catturate quindi un uccello che assomigli al vostro, e io prenderò il suo cuore e la sua testa e li riporterò a casa!». I due giovani fecero così, dopodiché se ne andarono, giurando che non sarebbero mai più tor-nati indietro. La schiava riportò a casa testa e cuore dell'uccello e li porse all'ebreo, che però gridò: «Non sono loro!». Allora la donna maledisse la schiava e la cacciò di casa.

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A questo punto l'ebreo prese con sé la donna in ca-sa e vissero insieme alcuni anni.

Nel frat tempo i due ragazzi avevano continuato a vagare, fino a giungere alla città più grande del pae-se, in cui era appena morto il re. Era stato però sen-tenziato: chi per p r imo al ma t t ino a t t raverserà la porta per entrare in città sarà il nuovo re. Ora, i due ragazzi passarono per primi attraverso la porta, ven-nero presi dalle guardie e condotti a palazzo. Là essi vennero presentati all'assemblea e tutti furono con-tenti dei bei giovanotti. Il maggiore fu fatto re, e suo fratello minore giudice supremo. I due governarono con piena soddisfazione di tutti gli abitanti e mai fu-rono trovati un re migliore o un giudice più giusto.

Dopo alcuni anni anche quell 'uomo, il padre dei due ragazzi, r i tornò dall 'estenuante viaggio e fu as-sai t r is te quando t rovò la sua casa abbandona ta . Chiese in giro e venne a sapere che sua moglie era andata a stare da un ebreo, mentre i due figli non li aveva più visti nessuno. Se ne andò davanti alla casa dell'ebreo, si mise a fare un gran baccano reclaman-do la propria moglie. Ma questa prese a ingiuriarlo e a dire: «Portate via questo tizio, io non lo conosco, deve essere impazzito!». E dal momento che l 'uomo non voleva acquietars i , l 'ebreo fece ch iamare le guardie del mercato e lo fece imprigionare. Ma que-sti cont inuò a gridare a tutti ad alta voce: «Questa donna è mia moglie, non è moglie dell'ebreo!». Fu allora condotto al cospetto del giudice, che però non se la sentì di emettere una sentenza, e dispose che i tre contendenti venissero condotti alla capitale, da-vanti al re che aveva il giudice più giusto.

Vennero quindi condotti al cospetto del re e di suo fratello, il giudice, i quali r iconobbero subito i loro genitori. Ma sulle pr ime non dissero nulla. La donna si lamentava del mari to e continuava a ripetere che

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doveva essere impazzito se pretendeva che lei fosse sua moglie. Il mari to invece insisteva a far valere le sue ragioni ed esigeva da lei notizie sulla sorte dei due figli. Quando i due figli udirono la propria ma-dre giurare così falsamente, ne furono assai sconvol-ti e r accon ta rono come erano anda te le cose. Ab-bracciarono quindi il padre, lo presero con sé e lo fecero vivere con loro. Quanto alla madre e all'ebreo, li condannarono: i due vennero legati alla coda di due muli e trascinati in lungo e in largo finché mori-rono.

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Racconti

17. L ' U O M O E IL G I G A N T E

Nulla al mondo è più astuto dell 'uomo, e nessuna creatura sfugge al suo potere. Gli animali soffrono sempre sot tomessi alla sua maligni tà , e per f ino il forte toro è incapace di opporvisi. Un giorno il Gi-gante incontrò un toro e un cammello , che e rano stati entrambi percossi dall'Uomo, si fermò e chiese loro: «Chi vi ha fatto tutto ciò?». Essi gli risposero: «L'Uomo!».

Allora il Gigante andò in collera, gli occhi gli si fe-cero rossi dall'ira e disse: «Fatemi vedere quell'Uo-mo che osa sfidarmi! Fatemelo vedere, sono curioso di sapere se è davvero così terribile!».

Il toro e il cammello gli indicarono l'Uomo, che in quel m o m e n t o stava abba t t endo un albero con la sua scure. Il Gigante andò da lui e vide quanto l'Uo-mo si affaticasse e come ansimasse per far breccia nel tronco dell'albero, cosicché il sudore gli colava a fiumi giù per il corpo.

Il Gigante lo salutò e gli chiese: «Sei tu l'Uomo?». L'Uomo gli gridò per tutta risposta: «Sì, sono io. Che cosa vuoi da me?». «Calma, calma,» disse il Gigante «perché gridi così forte?» «Io gridare? No, è il mio modo di parlare!» Allora il Gigante si mostrò ami-chevole e disse: «Va bene, va bene. Dammi questa scure, in modo che io ti mostri come si abbattono gli alberi». Con una rapida mossa il Gigante afferrò la

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scure e con un sol colpo abbatté l'albero al suolo. Al-lora l 'Uomo tirò il Gigante per il grembiule di pelle e gli gridò: «Perché lo hai fatto? È il mio divertimento più gradito e tu me lo hai rovinato! Se lo avessi volu-to, avrei sbriciolato l'albero con un sol colpo!».

Il Gigante rispose: «Non ti arrabbiare: ci sono tan-ti alberi in questo bosco, potrai divertirti con un al-tro». «Per questa volta ti perdono, ma non farlo più! E adesso» proseguì l 'Uomo «metti i tuoi piedi nelle fessure dell'albero, in modo che io possa tirare fuori la scure!» Il Gigante infilò i piedi nelle fessure dell'albero e l 'Uomo tirò fuori la scure. Allora l'albe-ro imprigionò i piedi del Gigante come tra due ma-scelle, cosicché questi vi rimase intrappolato. A que-sto punto l'Uomo afferrò un randello e lo abbatté sul Gigante. Poi se ne andò, lasciando il Gigante prigio-niero. Dopo un po' il Gigante riuscì a liberarsi. Cercò l 'Uomo e quando lo trovò gli disse: «Perché mi hai fatto questo?». L'Uomo rispose: «Avrei potuto ucci-derti, ma non l'ho fatto, e invece ti ho fatto dono del-la vita affinché tu mi ringraziassi!». Il Gigante non insistette oltre. Offrì all'Uomo la propria amicizia e gli propose di vivere con lui nella sua capanna. L'Uo-mo acconsentì.

Ma l 'Uomo non cessò di fa re sfoggio della sua grande forza. Un giorno disse di voler preparare da mangiare, ma dal momento che mancava la legna da ardere, il Gigante chiese all'Uomo di andare nel bo-sco a raccoglierla.

L'Uomo andò nel bosco, ma invece di raccogliere rami, legò insieme tutti gli alberi con una lunga cor-da. Quando al Gigante sembrò che l 'Uomo fosse t roppo in ri tardo, andò a cercarlo. Lo trovò e vide che cosa aveva fatto. Quando gliene fece cenno, il ta-glialegna rispose: «Non vorrei che tu mi chiedessi tutti i giorni di andare a prendere legna. Per questo

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prenderò tutto il bosco, cosicché la legna ci duri un bel po'». «No, no» disse allora il Gigante. «Da noi non c'è abbastanza spazio per tutto questo!» Quindi sradicò un albero e se lo pose sulle spalle. L'Uomo si arrampicò lesto sui rami dell'albero e si fece così tra-sportare dal Gigante per tut to il viaggio di r i torno. Quando g iunsero davanti alla capanna , l 'Uomo balzò giù rapidamente e fece il gesto di scuotersi via la polvere dalla spalla, dopodiché disse al Gigante: «Me l'hai fatta! Ho portato io da solo tut to il peso sulle spalle». Il Gigante gli credette.

Un giorno il Gigante chiese al taglialegna di pren-dere il secchio e andare al pozzo a prendere acqua. Il secchio era oltremodo pesante per l'Uomo, e la cor-da ancora più pesante, ma egli non poteva rifiutarsi. Nascose il secchio e prese con sé corda e vanga. Giunto al pozzo, cominciò a scavare tutt ' intorno, do-podiché legò la corda ai due pali del pozzo e attese.

Quando al Gigante sembrò che l'Uomo fosse trop-po in ritardo, andò a cercarlo. Lo trovò accanto al pozzo e gli chiese: «Perché hai fatto così poco in tut-to questo tempo?». L'Uomo rispose: «Volevo portart i l 'intero pozzo, in modo che tu non mi chieda tutti i giorni di andare a prendere l'acqua». Il Gigante non replicò e riempì da sé il secchio; ma non era conten-to dell'Uomo.

Allora l'Uomo gli disse: «Cominci a mancare di at-tenzioni nei miei confront i . Per questo dobb iamo misurarci nella lotta e allora vedrai che cosa si ab-batterà su di te!».

Il Gigante ebbe paura e chiese all 'Uomo di ritor-nare sulla sua decisione, ma questi si impuntò. Il Gi-gante sperava sempre di evitare il peggio, e per que-sto disse all 'Uomo: «Però è impor t an te che noi ci misuriamo alla lotta da amici, senza ferirci». Ma l'al-t ro replicò: «No. Non vi sarà alcuna pietà. Comun-

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que sta' attento: quando vedrai la mia lingua uscire dalla bocca e i miei occhi sporgere fuori dalle loro orbite, vuol dire che sto cercando un posto dove sca-gliarti».

Nonostante la sua opposizione, il Gigante dovette a questo punto disporsi alla lotta. Ma mentre stava schiacciando con forza l'Uomo tra gli avambracci, vi-de che la sua lingua usciva dalla bocca e i suoi occhi sporgevano dalle orbite, e chiese pieno di paura: «Che cosa stai facendo?». Con voce soffocata l 'Uomo gli ri-spose: «Cerco un posto dove scagliarti!». Allora il Gi-gante, letteralmente terrorizzato, cercò di fuggire lon-tano dall'Uomo, ma l 'Uomo lo inseguì e lo calmò.

La notte seguente, il Gigante dormì male. Per tut-to il tempo continuò a pensare al modo di liberarsi dall'Uomo, e decise di ucciderlo.

L'Uomo però si era già insospettito, e non dormì nel suo letto. Collocò invece un grosso paiolo sotto le coperte e se ne andò a dormire in un altro angolo della capanna.

Intorno a mezzanotte, il Gigante si alzò, prese un grosso randello e assestò con forza estrema un gran colpo sul letto dell'Uomo. Il paiolo andò fragorosa-mente in frantumi, e così il Gigante credette di avere sfracellato la testa del taglialegna. Tutto contento se ne to rnò a letto, convinto che il suo nemico fosse morto.

La matt ina dopo il Gigante si alzò presto, cantan-do e saltando dalla gioia, perché credeva di avere uc-ciso l'Uomo.

Improvvisamente sentì l 'Uomo che gli diceva: «Perché questa notte hai fatto come se io fossi tua moglie?». Il Gigante, spaventato, chiese con meravi-glia: «Come dici?».

«Intorno a mezzanotte sei venuto da me e mi hai baciato» replicò l'Uomo.

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Il Gigante si stupì ancora di più e non credeva alle proprie orecchie. Si disse: "E sì che l'ho colpito con un grosso randello, eppure per lui questo non è stato più che un bacio amichevole. Non c'è dubbio che sia assai più forte di me".

I giorni passavano e il Gigante e l'Uomo vivevano insieme in questo modo singolare. Un giorno il Gi-gante disse all'Uomo: «È da tanto che non mangia-mo carne fresca. Che ne dici di andare in quella fat-toria e rubare un paio di pecore?». L'Uomo rispose: «Va bene. Ma io non mi abbasso a prendere una sola pecora: o tutto il gregge o niente!». Allora il Gigante disse: «D'accordo, tu non p rendera i niente . Vado dentro io da solo e prendo le pecore. Intanto tu farai attenzione che non arrivi nessuno». I due andarono alla fattoria e il Gigante rubò le pecore. Ne prese due sotto le ascelle e se ne ritornò indietro. L'Uomo lo se-guì, ma quando si trattò di saltare oltre la siepe, ri-mase impigliato con un piede, e si ferì con una spi-na. Cominciò allora a lamentarsi e a gridare: «Ahi! Ahi! Ahi!». Il Gigante gli chiese il motivo di tu t to quel gridare. «Una spina! Una spina! Una spina!» si lamentò l'Uomo. «Ma perché gridi tanto?» chiese il Gigante, ma l 'Uomo non fece altro che continuare a gridare: «Una spina! Una spina! Una spina!».

Quando furono abbastanza lontani dalla fattoria, il Gigante disse all 'Uomo: «Fammi vedere la spina che ti fa tanto male!». L'Uomo si stese a terra e pro-tese il piede verso il Gigante. Questi estrasse la spina e disse: «Dunque il motivo era solo questo! Tutto qui! E tu eri quello che mi aggrediva e si met teva tanto in most ra! Dov'è finita tu t ta la tua potenza? Dov'è la tua forza?».

E con un gesto rapido il Gigante si ficcò come se niente fosse la spina in un occhio. Si rivolse quindi all'Uomo e lo uccise con un sol colpo.

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18. I L F A B B R I C A N T E D ' O R O

C'era u n a volta, t an to t empo fa, u n a grande città, che aveva molte belle case e palazzi, alte mura e un p ropr io re. Un giorno arrivò in ques ta cit tà u n o scienziato e si fece assumere come insegnante in una delle maggiori scuole. Costui però era in grado di t rasformare in oro vili metalli, e la notizia di ciò giunse fino all'orecchio del sovrano. Egli fece chia-mare al suo cospetto lo scienziato e gli chiese: «È ve-ro che tu sai t rasformare i metalli in oro?». Lo scien-ziato rispose: «No, non è vero». Allora il re si ar rabbiò, r ipetè ancora due volte la domanda allo scienziato, in tono sempre più aspro, e dal momento che questi continuava a negare, lo fece rinchiudere in un sotterraneo, dove si trovò completamente solo.

Dopo qualche tempo, il re, travestito, andò dal pri-gioniero e gli fece credere di essere anche lui prigio-niero. «Dal momento che siamo chiusi qui dentro in-sieme,» disse allo scienziato «abbandoniamo ogni diffidenza e raccontiamoci l'un l'altro il motivo per cui siamo prigionieri.» Allora lo scienziato raccontò all'altro di essere stato rinchiuso dal re per non aver-gli svelato come si faccia a t rasformare i metalli in oro. «Sei davvero in grado di farlo?» chiese il com-pagno di prigionia, stupito. «Sì,» rispose lo scienzia-to «e se vuoi te lo spiego!» E così gli svelò l'arte di t rasformare gli elementi.

Poco dopo il re si allontanò di lì, r i tornò nella sala del t rono e fece ch iamare lo scienziato. «Tu eri in prigione» gli disse «e io ti ho ingannato. È a me, in-fatti, che tu hai svelato l'arte di t rasformare i metalli in oro.» Lo scienziato ne fu assai contrariato. A que-sto punto, quando fu di nuovo a casa, prese un pac-co di fogli, scrisse in molte copie come si fa a tra-sformare i metalli in oro e andò a distribuirli in tutte

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le case della città. Ben presto gli abitanti comincia-rono a t ramutare tutto in oro, e in questo modo di-vennero incredibilmente ricchi. Non ebbero più bi-sogno di arare , a b b a n d o n a r o n o l ' insegnamento , divennero pigri e negligenti. Ben presto da loro il grano divenne così caro che ogni chicco era venduto a peso d'oro; e dopo qualche tempo di grano non ce ne fu proprio più. Allora la gente provò a mangiare e a respirare oro in polvere, ma ne morirono. La terra invece diede uno scrollone e fece precipitare le mu-ra, e l'oro rimase sparpagliato sotto forma di pietre e terra sbriciolata, e nessuno lo volle. Fu così che la grande città cadde completamente in rovina e ades-so non la abita più nessuno.

19. IL C O N T A D I N O E IL RE

C'era una volta un re che aveva un figlia a lui assai ca-ra. Un giorno, mentre era seduta sul balcone, il fazzo-letto di seta in cui aveva avvolto il proprio anello le cadde a terra senza che essa se ne accorgesse. In quel momento di sotto passava una mucca nera con una macchia bianca sulla fronte, che ingoiò il fazzoletto con l'anello. Unica testimone una contadina che, tro-vandosi nei pressi, aveva visto tutto. Ora, quando la principessa si accorse che il suo fazzoletto con l'anello non c'era più, pianse a lungo la sua perdita. Ben pre-sto il re si avvide che la figlia era triste e gliene chiese il motivo. Allora essa gli raccontò che il suo fazzoletto di seta e il suo anello erano scomparsi, e lei non sapeva come. Il re fece subito annunciare per tutta la città che chi avesse saputo indovinare dov'erano il fazzoletto e l'anello della principessa sarebbe dovuto venire a pa-lazzo, dove lo attendeva una ricompensa.

Allora la contadina disse al marito: «Va' dal re, trac-

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cia linee magiche sulla sabbia come fanno gli indovi-ni, e annuncia al re che gli oggetti perduti si trovano nello stomaco di una vacca nera con una macchia bianca sulla fronte». L'uomo si recò allora dal re, fece finta di essere un indovino, e alla fine disse: «Il fazzo-letto e l'anello si trovano nello stomaco di una vacca nera con una macchia bianca sulla fronte».

Il re fece passare in rassegna tutte le mucche del palazzo finché trovò quella descritta dal contadino. Fece quindi venire il macellaio che dovette sgozzare la mucca. Quando fu aperto lo stomaco, al suo inter-no vennero trovati il fazzoletto e l'anello. Allora il re disse ai suoi visir: «Ricompensate questo sapiente!». Il contadino ricevette la sua ricompensa e se ne andò per la sua strada.

Un giorno una banda di quaranta ladroni penetrò nella stanza del tesoro del re e por tò via una gran quanti tà di oggetti preziosi. Allora i visir dissero al re: «C'è solo una persona che sia in grado di dire chi ha depredato la stanza del tesoro, ed è quel sapiente che ha permesso il r i trovamento del fazzoletto con l'anello della principessa».

Il re fece venire il contadino e gli disse: «Uomo sa-piente, la mia stanza del tesoro è stata depredata. Tu devi dirmi chi è stato il ladro!». Il contadino rispose: «Lo scoprirò, ma devi avere un po' di pazienza!».

Tornò quindi a casa e disse alla moglie: «Qualcuno ha depredato la stanza del tesoro del re, e adesso il re pretende che io scopra chi è stato il ladro. Sei tu che mi hai cacciato in questa difficile situazione, adesso aiutami a venirne fuori!». La moglie rispose: «Di' al re che deve darti quaranta giorni di tempo, e un monto-ne ogni giorno». Il contadino si ripresentò al re e gli chiese quaranta giorni di tempo e altrettanti montoni. Il re acconsentì e gli diede subito il pr imo montone.

In tutta la città si sparse immediatamente la voce

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che lo stesso sapiente che aveva scoperto l'ubicazio-ne del fazzoletto e dell'anello della principessa era stato incaricato di rintracciare i ladri del tesoro rea-le. Quando i ladroni ebbero notizia di ciò, tennero consiglio e decisero di mandare uno di loro a casa di quel sapiente per scoprire se quell 'uomo sapeva ve-ramente qualcosa o no. Il ladrone andò a casa sua e si arrampicò sul tetto per sentire quello che si diceva all'interno.

Proprio in quel momento il contadino arrivava a casa col suo primo montone, e appena entrato disse alla moglie: «Eccone uno!» al ludendo al montone . Ma il ladrone sul tetto si disse: «Mi ha visto!» e deci-se di andarsene. Giunto dai suoi compagni, raccontò loro quello che era successo. Allora essi decisero di mandare l ' indomani un altro ladrone a casa del sa-piente per poi riferire.

Il giorno dopo il contadino riportò a casa un altro montone, ed entrando disse alla moglie: «Ecco qui il secondo!». Il secondo ladrone si spaventò perché an-che lui pensò che alludesse a lui, e fuggì a rot ta di collo dai suoi compagni. E la stessa cosa si ripetè nei giorni che seguirono. Il quarantesimo giorno l 'uomo disse: «Questo è il quarantes imo e ultimo!» e il la-drone sul tetto lo udì, scappò come tutti quelli che lo avevano preceduto e riferì la cosa ai suoi compagni. Allora essi tennero un lungo consiglio sul da farsi, perché e rano convinti che il sapiente avesse visto ognuno di loro e potesse descriverli al re. Alla fine decisero di recarsi di notte a casa del sapiente e di corromperlo affinché non li tradisse.

Si recarono quindi di soppiatto quella notte a casa del contadino e gli diedero una bella somma di dena-ro. «Questo te lo regaliamo se tu non riveli la nostra identità al re. Questa notte riporteremo anche tutti gli oggetti che avevamo rubato nella stanza del tesoro.»

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Il contadino accettò il denaro e promise loro di tace-re. Il giorno dopo andò dal re e gli disse: «O mio si-gnore! Nella tua stanza del tesoro è ora presente tutto quello che mancava». Ma non tradì i ladroni.

Il re si accertò da sé che tutto fosse esatto e fece ri-compensare generosamente quell 'uomo.

Ma i visir erano invidiosi del contadino e sussur-ravano di nascosto che egli non fosse un sapiente bensì un semplice contadino. Naturalmente la voce giunse al re, e chiese ai visir che cosa proponessero. «Dovremmo mettere alla prova quell'uomo!» dissero tutti quanti, e il re accettò. Presero allora tre vasi e misero nel pr imo del burro, nel secondo del miele e nel terzo della pece, dopodiché li sigillarono col co-perchio e li collocarono in una stanza che chiusero a chiave. Venne quindi ch iamato il sapiente e gli fu chiesto: «Che cosa c'è in questa stanza? Se sei capa-ce di dircelo ti riconosceremo come saggio!».

Il contad ino rifletté a lungo, f ino a essere assai stanco, e alla fine esclamò: «La pr ima è stata un bur-ro, la seconda dolce come il miele, ma la terza è nera come la pece!» alludendo con ciò alle tre occasioni in cui gli era stato richiesto di fare l'indovino.

Il re e i visir credettero che l 'uomo avesse scoperto il contenuto dei tre vasi, e dissero che era veramente un sapiente. Lo r icompensarono nuovamente e da allora in poi lo tennero sempre nella più alta consi-derazione.

20 . I L P E S C A T O R E C H E A N D Ò D A L R E

C'era una volta un pescatore, che un giorno catturò un bel pesce. Allora pensò: "È il pr imo pesce che ho cat turato quest 'anno. Lo donerò al re". Prese il pe-sce, andò al palazzo e si p resen tò nella sala delle

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udienze. I sorveglianti gli chiesero: «Perché sei venu-to qui?». Egli rispose: «Voglio fare un dono al re». Allora lo condussero al suo cospetto.

Il pescatore si fece avanti, reggendo il pesce con le due mani e si inchinò davanti al re toccando terra con la fronte. Il re disse: «Dategli cento monete d'oro!». I sorveglianti gli diedero ciò che il re aveva comandato, e il pescatore uscì. Allora il visir disse al re: «Ti ha da-to un pesce e tu gli hai dato cento monete d'oro. In questo modo la camera del tesoro si svuoterà in fret-ta!». Il re rispose: «Ormai l'ho fatto». Ma il visir prose-guì dicendo: «Richiamalo e chiedigli se quel pesce è maschio o femmina. Se il pescatore dice che è un ma-schio, digli: "Portami anche una femmina!" e se dice che è una femmina, digli: "Portami anche un ma-schio!"».

I sorveglianti richiamarono il pescatore, e quando questi entrò, il re gli chiese: «Questo pesce è maschio

o femmina?». Il pescatore si inchinò e rispose: «O mio signore, esso è ermafrodito, e quindi non è né maschio né femmina». Allora il re ordinò: «Dategli cento monete d'oro per questa risposta!». I sorve-glianti gli diedero di nuovo cento monete d'oro, e il pescatore uscì un'altra volta. Mentre attraversava l 'anticamera, gli cadde a terra una moneta d'oro. Egli si chinò e la raccolse. Il re e il visir lo videro. Allora il visir disse al re: «Hai visto, mio signore? Quest 'uomo, cui tu hai dato duecento monete d'oro, non ha saputo resistere e si è chinato a raccogliere un'unica moneta d'oro che gli era caduta a terra. Non ha voluto lasciar-la ai sorveglianti». Allora il re disse: «Richiamatelo!». 1 sorveglianti r ichiamarono il pescatore, e per la terza volta costui entrò nella sala delle udienze. Il re gli dis-se: «Io ti ho dato duecento monete d'oro, a te ne è ca-duta in terra una sola e tu non hai saputo resistere e ti sei chinato a raccoglierla». Il pescatore gli rispose:

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«Che Dio ti dia la grazia, o mio signore! Non ho man-cato in quanto al mio comportamento, dal momento che sulle monete d'oro sta scritto il nome del mio so-vrano. Se io avessi lasciato stare la moneta d'oro, altri l 'avrebbero calpestata. È per questo che ho sollecita-mente raccolto da terra il nome del mio sovrano». Al-lora il re si rivolse al visir e gli disse: «Di solito chi si reca dal sovrano gli porta qualcosa per arricchirlo. Quest 'uomo si è recato da noi e invece sta a noi arric-chirlo. Gli vengano date altre cento monete d'oro. E tu» ordinò al visir «dagli trecento monete d'oro per-ché mi hai dato questi consigli».

Al pescatore vennero quindi date cento mone te d'oro, e dal visir egli ne ebbe altre trecento, cosicché se ne tornò a casa con seicento monete d'oro.

2 1 . L A S C H I A V A F U R B A

C'era una volta un re che aveva una schiava negra molto furba. Un giorno, mentre era seduto con lei sulla veranda, vide passare nel vicolo sottostante un uomo che recava sulla schiena una fascina di legna. Allora il re disse: «Guarda questo poveruomo! Co-me si affatica e quanto sudore gli cola dalla fronte!». La schiava rispose: «Dipende tutto da sua moglie! O è pazza, oppure è assai furba e sa come tenere il marito!».

Il re fu indispettito da queste parole - che dipendes-se, cioè, dalla donna se il mari to fosse ricco o povero -e disse al suo servitore: «Fai salire qui quel tagliale-gna!». Quando il taglialegna comparve al cospetto del re, questi gli disse: «Ti faccio dono di questa schiava». Pensava infatti tra sé: "Voglio proprio vedere se può o meno rendere ricco quest'uomo". Ciò detto li licenziò entrambi.

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Il taglialegna vendette come al solito la sua fasci-na al mercato e si portò dietro la schiava fino a casa. Quando essa vide quan to poco aveva o t tenu to al mercato per il legname, gli disse: «Ecco, prendi que-sti dieci talleri e con essi compra tutto quello di cui abbiamo bisogno; ma domani non portare al merca-to la legna da ardere, portala a me!». L'uomo fece co-me essa gli aveva detto e il giorno dopo portò a lei la legna che aveva raccolto. La schiava esaminò per be-ne la fascina e si accorse che era legno di aloe della migliore qualità, t roppo prezioso per usarlo come le-gna da ardere. Sarebbe stato molto meglio, pensò, usarlo per incensare gli ambienti. Perciò diede anco-ra all 'uomo del denaro per fare le compere, e anche il giorno seguente si fece portare la legna. Separò il legno più pregiato da quello di minor valore, dopodi-ché confezionò delle fascine col legno migliore, ne fece un involto e le portò in dono ai signori del go-verno e ai ricchi della regione. Tutti conti accambia-rono con altri doni, a seconda delle loro ricchezze, e così la donna ottenne assai più di quanto fosse il va-lore del legname sul mercato. Andò avanti parecchio tempo in questo modo, e la schiava riuscì a metter via una considerevole s o m m a di denaro. Con esso acquistò un giorno un gruppo di case, le fece radere al suolo e al loro pos to fece cos t rui re un palazzo identico, fin nei minimi dettagli, a quello del re.

Inviò quindi un servitore dal sovrano e gli chiese di venire al palazzo in qualità di ospite. Il re venne e fu molto stupito quando si trovò davanti al portone e vide che era bello come il suo. Entrò e si meravigliò ancor di più perché anche all 'interno il palazzo era identico al suo. I servi portarono da mangiare e an-che questo cibo era cucinato come quello che man-giava tutti i giorni. Allora entrò la schiava, lo salutò r i spe t tosamente e gli chiese: «O mio signore, che

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hai? Non dici nulla!». Allora egli r iconobbe la sua schiava e rispose: «Non mi resta che dire: "Dipende solo dalla donna!"».

2 2 . I L M E D I C O S A G G I O

C'era una volta un re - benché in verità non vi sia ve-ro re al di fuori di Allah -, e questo re amava il cibo sopra ogni cosa. Ogni giorno ne mangiava immense quanti tà e non era soddisfatto finché la pancia non era p iena al pun to da poterci tambure l la re sopra. Così ingrassò e, strato di lardo dopo strato di lardo, diventò ro tondo come una bot te e pieno come un sacco. A un certo punto non potè più uscire all'aper-to (andare a cavallo non gli riusciva più già da tem-po) e se gli capitava di passeggiare qualche istante nel giardino, sudava e ansimava come un mantice. Ben presto dovette trascorrere l ' intera giornata di-steso sul sofà, sentendosi poco bene. Quando infine si accorse di essere malato, chiamò il dottore e si fe-ce somministrare i suoi rimedi, ma nessuno di essi gli diede giovamento. Li provò uno dopo l 'al tro e mandò giù diverse medicine, ma sempre senza suc-cesso. Fece allora annunciare dai banditori per tutta la città che il medico che lo avesse guarito avrebbe ottenuto in moglie sua figlia; ma chi non avesse avu-to successo sarebbe stato decapitato.

Naturalmente , nessun medico si azzardò a farsi vedere a corte, poiché tutti temevano per la propria vita. Tra i consiglieri del re vi era però un uomo sag-gio che, pur non essendo un dottore, si recò un gior-no in udienza dal re, lo baciò e gli disse: «O re, mio signore, io sono medico e astrologo, e per guarirvi devo osservare le stelle questa notte». «Fatelo allora»

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disse il re «e domatt ina presto venite subito da me e datemi il responso!»

L'uomo andò a casa, mangiò, bevve e si mise tran-quillamente a dormire. La matt ina seguente le guar-die del corpo del re bussarono alla sua porta, ed egli fece riferire loro dai servi che alle nove si sarebbe presentato. E difatti, all'ora stabilita, si recò nella sa-la delle udienze, baciò il re e gli disse: «Non sforzate-vi a trovare un rimedio, o re mio signore, giacché vi rimane solo un mese di vita». Questi gli chiese impe-riosamente: «È vero quello che dite?». «Sì,» rispose l ' uomo «potete f a r m i get tare in pr igione e se t ra trenta giorni non sarete ancora morto, allora potrete farmi tagliare la testa.»

Allora il re lo fece gettare in prigione. Ma dal mo-mento che era fermamente convinto che questa dia-gnosi fosse vera, non ebbe più voglia di mangiare e non riuscì nemmeno più a starsene fermo sul letto. Divenne inquieto, si aggirava per il giardino ammi-rando la bellezza degli alberi e dei fiori, gustando il loro profumo e i loro colori; gli destava grande me-stizia il fatto di dovere abbandonare tutte queste bel-lezze, e per l'afflizione non riusciva più né a mangia-re né a dormire. Dopo dieci giorni, ebbe perso tanto grasso da essere in grado di farsi sellare il cavallo e montarlo, facendo un giro in luoghi selvaggi. Il gran movimento gli fece però bene, e la fa t ica gli fece quasi dimenticare le sue preoccupazioni. Continua-va invece a trovare poco gusto per il cibo e si nutriva assai poco, divenendo, in capo ad altri dieci giorni, veramente magro.

Il prigioniero chiese al guardiano della prigione come stesse il re, e venne in fo rma to dei singolari cambiamenti che si erano prodotti in lui. Allora fece por ta re al re dal guard iano una missiva in cui gli chiedeva udienza. Il re gliel'accordò. Dopo avere sa-

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lutato e baciato il re, il saggio gli disse: «O re, mio si-gnore, promettetemi che non mi punirete e io vi co-municherò una cosa». Il re gli promise l ' impunità per ciò che avrebbe detto, e l 'uomo proseguì: «Dove-te sapere, o re, che io non sono un medico e neppure un astrologo; ho dovuto ricorrere a quest'astuzia per guarirvi, perché solo questo avrebbe funzionato: la pau ra della morte , i pensieri e le preoccupazioni . Ora voi siete tornato in salute, e vi posso confessare che io non so quanto a lungo durerà la vostra vita, perché nessuno al di fuori di Allah conosce la lun-ghezza della vita degli uomini. Vi auguro una lunga vita! Siate riconoscente ad Allah per la salute che vi ha restituito, lodate l 'Onnipotente per i suoi beni e mantenete la promessa che avevate fatto di dare vo-stra figlia in moglie a colui che vi avesse guarito!». Allora il re lo baciò sulla fronte, gli perdonò l'astuzia e disse: «Le nozze saranno tra otto giorni».

Quindi nominò ministro quell 'uomo saggio e da quel giorno governò con moderazione e r imase in salute per tutta la vita. Sia lode a Dio che conserva nelle proprie mani malattia e guarigione!

23 . U N S A G G I O C O N S I G L I O

Un uomo, morendo , disse al figlio: «Non sposare una vedova, non comprare un cavallo recalcitrante e non diventare amico del cadì!».

Il figlio tenne a mente tutto ciò, deciso, un giorno, a verificarlo. Qualche tempo dopo la morte del pa-dre, si sposò con una vedova, acquistò un cavallo ost inato e fece dei doni al cadì f ino ad acquisirne l'amicizia. Una notte andò di nascosto in cortile, pre-se una pecora, la ricoprì col suo mantello, dopodi-ché la mise accanto al suo cavallo, rientrò in casa e

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svegliò la moglie: «Guarda, un ladro vuole portarmi via il cavallo!». La moglie disse: «Prendi il tuo fucile e uccidi il ladro!». Il giovane fece come gli era stato consigliato, poi le chiese: «E adesso dove metto il ca-davere?». «In una cassa» disse la moglie. Egli nasco-se il fagotto insanguinato in una grande cassa e co-minciò quindi a percuotere la moglie finché questa si mise a gridare così forte da far accorrere tutta la gente. «Prima ha spara to a un uomo, e adesso mi vuole uccidere» continuava a gridare.

Allora vennero i soldati per arrestarlo. Egli cercò di mettersi in salvo fuggendo a cavallo, ma l'animale recalcitrante non gli fu di nessun aiuto. I soldati lo a f fe r ra rono e lo por ta rono dal cadì. Costui lo fece gettare in prigione, ma l 'uomo si mise a ridere a cre-papelle facendo un tale rumore che il cadì lo fece ri-chiamare e gli chiese perché ridesse in quel modo.

«Se tu sapessi la mia storia, rideresti anche tu» ri-spose il giovane. Raccontò quindi al cadì quello che gli aveva consigliato il padre pr ima di morire e per-ché avesse fa t to tu t ta ques ta commedia . I l cadì mandò subito i soldati a casa della vedova per pren-dere il cadavere del ladro, e questi tornarono con la pecora uccisa. Allora risero tutti e due, e l 'uomo dis-se: «Aveva dunque ragione mio padre quando mi dis-se: "Non sposare una vedova, non comprare un ca-vallo recalcitrante e non diventare amico del cadì!"».

2 4 . L A G R O S S A E R E D I T À

C'era una volta un u o m o che nell 'arco di una vita passata nel commercio aveva guadagnato molte ric-chezze, ma le aveva spese tu t te con u n a condot ta dissipata, dedita allo sfarzo, al bere e al gioco d'az-zardo. Quest 'uomo aveva due figli. Quando questi

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fu rono cresciuti e cominciarono a guadagnare per conto loro, ricavandone di che vivere bene, si adira-rono col padre che aveva scialacquato tutti i suoi be-ni. Dal momento che ora quell 'uomo stava diventan-do anziano e imbelle ma non riceveva aiuti dai figli, andò da un amico e gli disse: «La pace sia con te, mio caro amico, che Dio ti benedica! Vorrei da te un consiglio su quello che dovrei fare perché i miei fi-glioli non mi amano e mi fanno mancare ogni soste-gno». Allora l 'amico rispose: «Che Dio ti dia clemen-za! Tu devi dire così ai tuoi figlioli: "Una volta ho prestato una grossa somma di denaro al mio amico, ora egli me la rest i tuirà"». L'uomo lo r ingraziò e tornò a casa.

Qualche giorno più tardi venne a visitarlo l 'amico por tando con sé una grande e pesante cassapanca. «Che Dio accresca il tuo bene!» disse costui. «Eccoti indietro il tuo denaro.» L'uomo mostrò grande con-tentezza e disse ai suoi figli: «Questo denaro che il mio amico mi ha restituito lo lascio a voi in eredità. Io controllerò solo che nulla vada perduto. Un terzo di esso andrà distribuito ai poveri e un terzo appar-tiene a ciascuno di voi».

Da allora in poi l 'uomo fece la guardia alla cassa-panca; se doveva assentarsi un attimo, chiudeva per bene a chiave la porta della stanza. I suoi figli non gli fecero mancare nulla, esaudirono ogni suo desi-derio fino alla sua morte. In tal modo egli aveva nuo-vamente educa to al bene i suoi figlioli. Quando morì, essi aprirono la cassapanca e la trovarono pie-na di sassi. Allora essi riconobbero che l 'educazione al bene e l 'amore per i genitori sono meglio di qua-lunque ricchezza di questo mondo.

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25 . L A G U A R I G I O N E D E L L ' A V A R O

Nel nostro paese viveva un tempo un uomo così ava-ro che dava da mangiare alla moglie solo zuppe bro-dose o minestr ine annacquate. Addirittura, se arri-vavano degli ospiti, si nascondeva e faceva dire da sua moglie che lui non era in casa, in modo da non dovere offrire loro il pane e il miele con cui si soglio-no accogliere gli ospiti. E tuttavia non era così pove-ro come sembrava, anzi conservava oro e argento in un nascondiglio sotto il materasso.

Un giorno i due fratelli della moglie vennero in vi-sita alla sorella e le chiesero come se la passasse. Ed essa si lamentò con loro della povertà in cui versava e del fatto che il mari to la nutrisse solo con minestri-ne annacquate . Ciò suscitò l 'ira dei fratelli, che si misero d'accordo con la sorella per dare una lezione a quell'avaraccio. La sorella acconsentì.

I due fratelli andarono allora al mercato e com-prarono dell'oppio. Quindi cercarono il cognato e lo invitarono a mangiare in una tenda del mercato. Fe-cero servire una portata dopo l'altra: montone arro-sto, cuscus, dolci di mandorle. Mentre loro due non mangiarono quasi nulla, il cognato si avventava su ogni portata, perché - si diceva - quello che è regala-to ha più sapore. I fratelli lo accompagnarono fino alla porta di casa, quindi si accomiatarono.

A casa l 'uomo andò a stendersi e cominciò ben pre-sto a dormire come un sasso, o meglio perse i sensi in seguito alla grande quantità di oppio che aveva ingeri-to, senza saperlo, insieme al cibo. Quando fu buio, i due fratelli r i tornarono, portarono fuori l 'uomo privo di sensi, lo cucirono in un bianco lenzuolo, in cui la-sciarono solo una piccola apertura all'estremità del capo, e lo portarono al cimitero. Qui scoperchiarono una tomba vuota e vi posero dentro l'uomo, proprio

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come avrebbero fatto con un cadavere. Poco alla vol-ta, vuoi per il freddo della notte, vuoi per la scomodità del trasporto, l 'uomo cominciò a riprendersi. A questo punto i due fratelli si travestirono: uno si infilò nella pelle di una iena, e l'altro in quella di una pantera ne-ra. Presero anche un manganello ciascuno e comin-ciarono, a turno, a somministrare una gragnuola di colpi all'individuo avvolto nel lenzuolo fùnebre. In questo modo l 'uomo si ridestò completamente e ripre-se i sensi. Attraverso l 'apertura che era stata lasciata all'estremità del capo vide che si trovava al cimitero e comprese subito la sua terribile situazione: le due fi-gure animalesche che lo bastonavano non potevano essere altro che Munkir e Nakir, i due angeli inquisito-ri. Quando, a questo punto, cominciò a gemere e a chiedere pietà, i due uomini travestiti si fermarono per un po' e cominciarono il loro interrogatorio: «Quando hai dato ai poveri quello che ti era possibi-le?» . E l'altro chiese: «Quando hai procurato a tua mo-glie un vestito nuovo o un pasto decente?». E così via con le domande, cui l'avaro poteva rispondere solo: «Ho tralasciato di farlo». Lo incalzarono a tal punto da farlo scoppiare in lacrime. Allora lo percossero an-cora più forte di pr ima fino a fargli perdere conoscen-za un'altra volta. Si tolsero i travestimenti e riportaro-no a casa l 'uomo privo di sensi. Alla sorella dissero: «Non preoccuparti, quando domatt ina si risveglierà sarà guarito dall'avarizia! ». E se ne andarono per la lo-ro strada.

Quando, l 'indomani, l 'uomo tornò in sé e si fu, un po' alla volta, ripreso dalle percosse, andò al mercato e acquistò farina di qualità, miele e mandorle, carne e frutta, in breve tutto quello che occorre a un uomo per mandare avanti la casa. A tutti i mendicanti che incontrò diede una ricca elemosina. Quando fu di ri-torno con tutte queste buone cose da mangiare e le

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diede da cucinare alla moglie, essa fu felice della tra-sformazione. Non ebbe più da lamentarsi, perché il marito rimase generoso e liberale finché visse.

2 6 . IL CADÌ E IL C A C C I A T O R E

Nei tempi ant ichi viveva un cacciatore che tut t i i giorni se ne andava nella steppa ricca di prede o nel folto dei boschi, e tornava alla sera con il nutrimen-to per l ' indomani.

Un giorno uccise una pernice così grassa come non ne aveva mai ucciso. Allora egli decise di farla arrostire nel forno del villaggio farcita di tut to ciò che poteva insaporirla: aglio, cipolla, spezie ed erbe aromatiche.

La matt ina dopo la portò dal fornaio e gli racco-m a n d ò di occuparsi di quella gustosa pernice e di non dimenticarla nel forno lasciandola bruciare.

Il caso volle che quel giorno il cadì passasse da-vanti al forno, nel corso della sua passeggiata quoti-diana, e, raggiunto dall'odorino delizioso, si diriges-se incuriosito dal fornaio al quale disse: «Quale cibo gustoso sta dunque cuocendo nel tuo forno?». «O si-gnore,» rispose il fornaio «si tratta di una pernice ri-piena, che appartiene al cacciatore del villaggio. È il suo cibo per il pranzo di oggi.» Al che il cadì gli dis-se, con l 'acquolina in bocca: «Dammi questa perni-ce! È di mia spettanza, la mangerò io».

Ma il fo rna io replicò scontento: «Io non posso darti qualcosa che non mi appartiene! E cosa dirò al cacciatore?».

«Dammi ciò che ti ho ordinato!» disse il cadì con energia. «E se viene il cacciatore, cerca di liberarte-ne. Se non riesci a persuaderlo, allora digli che la pa-

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rola toccherà al cadì!» E ciò detto il cadì si prese la pernice e se ne andò.

Quando, a mezzogiorno, il cacciatore venne al for-no, richiese la propria pernice, ma il fornaio replicò: «Ma di quale pernice parli? Tu non mi hai dato un bel niente. Guarda nel forno! C'è dentro solo pane».

Allora il cacciatore esclamò: «Ma cosa stai dicen-do? Questa matt ina ti ho lasciato una pernice ripie-na e ti avevo detto di cuocermela».

Il fornaio rispose: «Vedo proprio che non mi vuoi credere. Vieni, andiamo dal cadì. Deciderà lui la no-stra controversia!». Il cacciatore accettò la proposta e andarono tutti e due dal cadì.

Quando giunsero da lui, il cadì disse al cacciatore: «Esponi le tue lamentele!». «O signor giudice,» esordì il cacciatore «stamattina presto ho dato una pernice a ques to fo rna io perché me la cuocesse. Adesso che sono venuto a riprendermela, egli sostie-ne che io non gli avrei dato un bel niente. Voglio ave-re la mia pernice, perché si t ra t t a del mio pas to odierno!»

Il cadì rifletté sulla risposta, dopodiché disse in to-no di sfida: «Per questa lagnanza dobbiamo chiedere consiglio al libro sacro. Esso ci rivelerà la soluzione della vertenza».Quindi il cadì aprì un libro e disse: «Il libro sacro dice che la tua pernice se ne volata via».

Il cacciatore fu mol to meravigliato di questa ri-sposta e chiese: «Se la mia pernice se n'è volata via, se ne sarà volata via in compagnia dell'aglio, delle spezie e del resto?».

Il cadì fu sorpreso dall 'assennatezza del cacciatore e riferì quello che era successo: «Sono io che ti ho preso la pernice perché il suo p ro fumino mi aveva solleticato le narici. Ma non sia detto che tu debba rinunciare a questo pasto. Ti pagherò il valore della pernice, e ti invito a colazione con me».

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In questo modo il cacciatore si sedette alla mensa del cadì e o t tenne in dono u n a borsa di mone te d'oro.

La saggezza e la prontezza nel parlare sono la via del riscatto.

2 7 . L O S T R A N O D O N O N U Z I A L E

In una lontana città viveva un tempo un vecchio sag-gio e devoto. Viveva solo col suo unico figlio, perché la moglie era mor t a p r e m a t u r a m e n t e . I l vecchio provvedeva da sé all 'educazione del figlio, il quale così amava e rispettava suo padre.

Quando il figlio ebbe finito il corso di studio nella scuola coranica del luogo, volle andare alla scuola superiore di teologia nella capitale, e cominciò quin-di a parlarne col padre. Un giorno gli disse: «Padre mio! Che Dio ti prolunghi la vita fino a vedere tuo fi-glio diventare cadì. Ho infatti intenzione di andare alla scuola superiore di teologia nella capitale e stu-diare giurisprudenza e chiedo perciò la tua approva-zione insieme alla tua benedizione. Infatti tu hai sa-crificato tut to per il mio bene, hai vegliato insonne perché io potessi r iposarmi, insomma sei stato per me al contempo un padre e una madre!».

L'anziano genitore non era mai andato a scuola ma aveva impara to a leggere nel l ibro della vita. Quando suo figlio gli comunicò il proposito di diven-tare giudice, lo osservò con i suoi occhi divenuti stanchi e saggi per la lunga vita e gli disse: «Figliolo, io preferirei invece che tu restassi a vivere con me. Sarebbe per me preferibile che tu allevassi pecore e capre e vendessi carbone di legna piuttosto che ve-derti studiare e sciupare il tempo con l'intenzione di diventare cadì».

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Il figlio fu assai meravigliato da questa risposta, per cui chiese al padre: «Perché giudichi così male il mestiere di cadì? I giudici non sono forse coloro che conoscono il Corano e vegliano sulla sua osservan-za? Non sono essi che puniscono i ladri e proteggo-no i buoni?».

Per convincere il figliolo, il padre prese a narrare la storia che segue: «Si racconta che un tempo vives-se un giovane di n o m e Hassan . Un giorno ques to Hassan si innamorò di una ragazza di nome Zeinab, che però era assai più ricca di lui.

«Ciononostante, Hassan andò dai genitori di lei a chiedere la sua mano, ma, come era da aspettarsi , costoro si r if iutarono di dare la figlia in moglie a un giovane più povero. Dal momento che Hassan persi-steva nella sua richiesta, il padre della ragazza ri-chiese un dono nuziale che Hassan non avrebbe mai potuto permettersi: per sua figlia esigeva cento cam-melli color zafferano. Sulle pr ime Hassan respinse questa richiesta sconsiderata, ma poi si rassegnò e acconsentì a pagare questo dono nuziale.

«Sfortunatamente, l 'unico che allevasse cammelli color zafferano era il principe della loro tribù. Ma co-stui ne era estremamente geloso e le sue guardie non conoscevano la pietà; a chi veniva scoperto mentre tentava di rubare i cammelli veniva tagliata la mano destra.

«Un giorno Hassan si aggirava per la città meditan-do sul modo di ottenere la sua sposa. In quella vide sollevarsi nell'aria in lontananza una grande nuvola di polvere: era il principe della tribù che ritornava dalla caccia. Il drappello a cavallo si avvicinava e già Hassan poteva distinguere il principe in mezzo alle sue guardie e ai suoi consiglieri.

«Improvvisamente balzò fuori un leone, che aveva atteso i cavalieri acquattato dietro una roccia, e as-

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salì il drappello. I cavalli fecero uno scarto e lascia-rono cadere i loro cavalieri. Tutte le guardie e la gen-te del seguito fuggirono e il principe si trovò all'im-provviso solo, a tu per tu con la belva.

«Allora Hassan estrasse la spada, si gettò sul leone e con un colpo preciso gli divise in due la testa. Il leone crollò a terra morto.

«Quando le guardie videro ciò, si a f f re t ta rono a tornare, ma il principe le scacciò con un gesto irato. Quindi, deposta l'ira, si rivolse al giovane che gli ave-va salvato la vita e gli disse: "Ragazzo, ti devo la vita! Per ricompensa potrai chiedere quello che vorrai".

«Hassan rispose: "Mio signore! Io so quan to tu ami i tuoi cammelli colore del miele e dello zaffera-no. Ma io ho bisogno di cento di essi come dono nu-ziale per colei che amo. Rimangono due sole solu-zioni: o tu mi dara i ciò che ti chiedo, oppu re mi taglierai la testa per avere osato avanzare una richie-sta così spropositata".

«Il principe si passò le dita nella barba, poi disse: "Tu sei coraggioso e le tue richieste non meri tano al-cun biasimo. Ti darò volentieri ciò che hai chiesto. Ma sta' in guardia da quella gente che ti ha imposto un simile dono nuziale! Essi vogliono la tua rovina".

«Hassan toccava il cielo con un dito. Adesso pote-va sposare colei che amava. Si recò dai genitori di Zeinab e consegnò loro i cento cammelli color zaffe-rano. Ma le sue fatiche non erano ancora terminate. Il padre di Zeinab fu molto stupito di vedere arrivare Hassan coi cammelli, allora, furioso, disse: "I cento cammelli che hai portato erano la condizione posta dalla madre di Zeinab. Anche a me spetta porre una condizione. Dovrai portarmi due grossi sacchi pieni di scorpioni vivi!".

«Hassan rimase ammutoli to dallo stupore quando udì questa richiesta insensata. Che dono nuziale sin-

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golare! E dove avrebbe trovato una simile quanti tà di scorpioni vivi? Volevano davvero la sua rovina! Tuttavia accettò e uscì tristemente.

«Un giorno, mentre se ne stava seduto per terra e t racciava linee e f igure nella sabbia per svelare il proprio destino, sopraggiunse un uomo che gli chie-se: "Perché stai facendo ciò, figliolo?". Hassan gli raccontò tutta la storia della sua richiesta di matri-monio e concluse, sospirando, che non sapeva che fare. Ridacchiando tra sé l 'uomo rispose: "Questo è un p rob lema di facile soluzione. Va' al c imitero e cerca la tomba di un cadì. Scava via la terra dalla tomba e troverai ciò che ti serve".

«E così avvenne. Hassan prese il suo cammello, due sacchi e un forcone e si recò al cimitero. Davan-ti alla tomba di un cadì si arrestò. Cominciò a scava-re e a togliere la terra, e cosa vide? Quale orrore! La fossa pullulava di neri scorpioni, ne era piena fino all'orlo!

«Hassan riempì in fretta i due sacchi e tornò feb-brilmente a casa di Zeinab. Le sue prove furono così finite perché i genitori di Zeinab cessarono di porgli condizioni e gli concessero la mano della figlia.»

E il vecchio concluse il suo racconto con le parole: «Figlio mio! Vedi quanto è importante condurre una vita pura. Le porte del Paradiso sono chiuse per co-lui che ha mangiato sui beni degli orfani. E vedi qua-le vergogna insegue un cadì anche dopo la sua mor-te. È per questo che ti consiglio di a b b a n d o n a r e questa strada che volevi percorrere, perché io non vorrei che ti perseguitasse la maledizione degli uo-mini, in vita e in morte».

Il figlio annuì col capo, e una lacrima gli percorse la guancia e finì a terra. Si passò la mano sul viso, si chinò sulla mano del padre e la baciò.

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Storie facete

2 8 . IL S U L T A N O E I B E R B E R I

In quel tempo vi fu un 'ennesima tribù berbera che manifestò la propria insubordinazione nei confronti del sultano: non pagavano più tasse e imposte, in oc-casione delle festività non inviavano più doni ed era-no arrivati al punto di malmenare i messaggeri che il sultano inviava loro.

Al sul tano non restò altro da fare che inviare le proprie t ruppe sui monti contro questa tribù per sot-tometterla, cosa questa che fu effettuata con succes-so. A questo pun to una delegazione dei notabili di ques ta t r ibù dovette recarsi a Fez dal su l tano per chiedergli perdono. Essi si avviarono dunque con ti-more e amarezza.

Quando vennero introdotti al cospetto del sultano e videro il suo volto rosso dall'ira, il loro cuore dette un balzo. Parlò allora il più anziano della tribù, un vecchio con la barba bianca, e disse al sultano: «O mio signore, ascoltaci: noi siamo il pascolo e tu sei il ronzino che ci sta sopra, divoraci a piacimento! Noi siamo gli arieti e tu sei il pastore: guardaci secondo la tua volontà! Noi siamo la segale e tu sei l'asino: di-voraci come preferisci!».

Quando il sultano udì queste parole, scoppiò in una sonora risata, quindi disse ai Berberi: «Vi ho per-donati. Ma non sollevatevi mai più contro di me!».

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29 . I L M A E S T R O D I C O R A N O T R A I B E R B E R I

Lassù in alto, in mezzo alle montagne, vivono nume-rose tribù berbere che parlano solo il loro idioma, la lingua tashelhit, e non conoscono una parola di arabo. Del Corano e delle formule di preghiera hanno solo una vaga idea. Ciononostante si sentono tutti musul-mani. Durante la riunione annuale di una di queste tribù di montagna, i vecchi si trovarono a parlare an-cora una volta di questa situazione di emergenza. «Non conosciamo nemmeno le parole precise della preghiera» disse un vecchio con la barba bianca. «È una vergogna, poiché noi siamo pur sempre dei buoni musulmani.» Allora un giovane fece la proposta di chiedere al sultano di mandare una persona colta, in grado di istruirli almeno nelle cose essenziali.

Venne quindi inviata al sultano di Fez una delega-zione di notabili che chiese l'invio di una persona col-ta. Il sultano fu lieto di questo zelo religioso e promi-se loro un maestro di Corano. Scelse quindi uno di quei sapientissimi uomini della r inomata università Qarawiyyin, e questi dovette andarsene sui monti in-sieme a quegli uomini. L'intera tribù lo accolse con grande gioia e gli diede ospitalità. Ora, quando giun-se l'ora della preghiera pomeridiana, il maestro si alzò e convocò la gente per la preghiera. Tutti gli uo-mini eseguirono le abluzioni e si disposero in file se-guendo le disposizioni del maestro. Davanti alla pri-ma fila prese posto lui stesso per fungere da imam, e stava già per iniziare la preghiera quando si avvide che il terreno su cui si trovava era ancora inzuppato dall'ultima pioggia. Temendo di sporcare il proprio abito bianco immacolato in quella fanghiglia, prese un pezzo di una porta che si trovava nei pressi e lo po-se dinanzi a sé. Le assi erano però unite alla bell'e me-glio e tra di esse vi erano delle fessure.

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A questo punto egli salì su questa porta di assi e sollevò le man i come prescrive la t radizione, ed esclamò: «Allàhu àkbar» («Allah è grande!»), e tutti gli uomini schierati dietro Yimam imi tarono i suoi movimenti e ripeterono il grido: «Allàhu àkbar-». Do-po la Fatiha e la sura del Corano, Yimam si inchinò e disse: «Subhàn Allàh» («Dio sia lodato!»), e tutti ob-bedienti seguirono i suoi movimenti e ripeterono le parole arabe. Quindi l 'orante si prostrò a terra, fino a toccare le assi con la fronte, e disse le parole ritua-li, e tutti lo imitarono e ripeterono le parole in arabo che non comprendevano. Facendo pressione sulle assi, tuttavia, la fessura tra esse si allargò, cosicché il naso del dot to si trovò nello spazio t ra due assi, e q u a n d o volle r ialzarsi , facendo così d iminu i re la pressione sulle assi, la fessura si restrinse e il naso rimase intrappolato. Cercò di tirare fuori il naso con la forza, ma non ci riuscì. Allora esclamò ad alta vo-ce: «Ho il naso imprigionato!» e tutti r ipeterono le parole arabe: «Ho il naso imprigionato!». Egli gridò allora: «Venite ad aiutarmi!» ed essi ripeterono con fervore: «Venite ad aiutarmi!». Sempre più in diffi-coltà, Yimam gridò: «Ma non capite proprio niente?» e tut t i r ipeterono zelanti: «Ma non capite propr io niente?». A questo pun to con uno strat tone Yimam riuscì a tirare fuori il naso, lasciando la punta nella fessura. Terminò in fret ta la preghiera, salì sul suo asino e, accingendosi a partire, disse: «Imparate pri-ma l'arabo, e poi verrò a insegnarvi a pregare!».

30.I F I G L I D E L L ' A V A R I Z I A

Viveva un tempo in mezzo ai monti una tribù berbe-ra denominata dei Beni Shahih, che vuole dire Figli dell'Avarizia. Ed effe t t ivamente essi e rano noti in

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ogni dove per la loro avarizia e la loro grettezza. Chi si trovava a passare, nel corso di un viaggio, attra-verso il loro territorio, sapeva già che si sarebbe do-vuto aspettare per cena al massimo del siero allun-gato con acqua - cosa ques ta che di solito viene versata nella ciotola dei cani.

Un giorno, uno degli uomini della tribù cominciò a trovare spiacevole di essere sempre preso in giro, con la sua gente, a causa dell'avarizia. Rifletté quin-di un po' su come poter cambia re la cattiva f a m a della tribù, e alla fine ebbe un'idea. Quando fu gior-no di mercato salì sull'altura che sta presso la piazza del mercato e, convocati a gran voce gli uomini, dis-se: «È una vergogna che tra tut te le altre tr ibù noi siamo conosciuti come i Figli dell'Avarizia. Abbiamo intenzione di cambiare questa situazione e di far ve-dere agli altri che noi siamo generosi e liberali, mu-nifici e ospitali». Tutti espressero festosamente il lo-ro accordo e gli chiesero che cosa dovessero fare.

L'uomo disse: «Ciascuno di noi por te rà un otre pieno di siero di latte puro e di buona qualità, in mo-do da riempire questa grande cisterna in cui solita-mente è contenuta acqua, cosicché ogni viandante potrà placare la sete con dell'ottimo siero di latte. Al-lora tut t i loderanno la nostra generosità e munif i -cenza, e faranno circolare in lungo e in largo per il paese la notizia». Gli astanti si dissero d 'accordo e decisero di rivedersi la matt ina seguente per mettere in atto il proponimento.

A casa propria , però, c iascuno riempì il propr io otre d'acqua, pensando che in una cisterna piena di ottimo siero nessuno si sarebbe accorto che c'era an-che un po' d'acqua. Nessuno ne fece parola con altri. L'indomani vennero tutti alla cisterna, ma nessuno voleva essere il pr imo a vuotare il proprio otre, per-ché la c is terna era ancora vuota . Ognuno diceva

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all'altro: «Versa tu per primo, poi io ti seguirò!». Alla fine uno degli uomini disse: «Scommetto che nei vo-stri otri c'è soltanto acqua!». E gli altri ribatterono: «E noi scommett iamo che anche tu hai dentro solo acqua!». Allora scoppiarono tutti in una risata ren-dendosi conto che è immensamente difficile mutare il proprio carattere.

31 . L A P E L L E M A G I C A

Nella città di Marrakesh viveva un tempo un giovane povero. Non aveva appreso alcun mestiere, perché suo padre era morto quand'egli era ancora bambino. Inoltre, non possedeva né campi né piante di olivo o palme, né tantomeno bestiame. Viveva miseramente con la madre in una casuccia nella città vecchia e si cibava di quello che Dio e i vicini gli procuravano. Dal m o m e n t o che aveva un buon cara t tere ed era sempre contento, era ben tollerato e gli si perdonava volentieri ogni scherzo. Tutti lo chiamavano soltanto Juhà, perché il nome del padre non se lo ricordava nessuno.

Un giorno Juhà si ritrovò un'altra volta senza un soldo, completamente al verde. Si mise a cercare in ogni angolo e in ogni cantuccio della casa, f inché non gli capitò tra le mani una vecchia pelle ammuf-fita e dura. Juhà prese uno straccio di lana, si riempì d'acqua la bocca e la spruzzò sulla pelle, poi strofinò via la muffa con lo straccio, rendendo la pelle nuova-mente pulita e morbida . La ripiegò più volte su se stessa, l'avvolse in un asciugamano e legò l'involto. Lo diede quindi alla madre con queste parole: «Va' nel vicolo dei mercanti di stoffe, deponi la pelle da-vanti ai tuoi piedi e vendila! Se qualcuno ti chiede

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che razza di pelle sia, digli: "È una pelle magica, e costa cento reali!"».

La madre si mise il velo, si avvolse nel mantello e indossò i suoi ampi pantaloni. Calzò quindi le scarpe e se ne andò nel vicolo dei mercanti di stoffe. Qui si mise a sedere, slegò il fagot to e distese la pelle sull 'asciugamano.

I commercianti si domandarono come mai la vec-chia volesse vendere una pelle nel vicolo delle loro botteghe, dove invece si potevano acquis ta re solo stoffe e abiti preziosi. Uno andò da lei e le disse: «Si-gnora, che razza di pelle è questa?». Essa rispose: «È una pelle magica e costa cento reali». Il commer-ciante lo riferì ai colleghi, che si guardarono per un po' incerti sul da farsi e poi si allontanarono.

Arrivò quindi Juhà, che mise la mano sulla pelle e disse: «Questa voglio pr ima saggiarla bene!». Misurò quindi la pelle a spanne e dichiarò: «La pelle è buo-na. Quanto costa, signora?».

«Cento reali» rispose lei. Juhà chiese uno sconto e disse allora: «Ti do cin-

quanta reali». «Cento reali, non uno di meno» rispose la donna. Un ebreo, che stava osservando la scena dal suo ne-

gozio, disse tra sé: "Questa pelle deve essere veramen-te preziosa, la comprerò. Poi Juhà mi dovrà dire a che cosa serve". Così pensando, uscì dal suo negozio e ar-rivò dalla donna proprio mentre stava contrat tando con Juhà, e udì quest 'ultimo dire: «Cara signora, non ho abbastanza soldi». Quando Juhà vide arrivare l'ebreo, si fece da parte e voltò la testa. L'ebreo diede alla vecchia cento reali per la pelle, lei prese il denaro e in un batter d'occhio scomparve. L'ebreo rientrò nel suo negozio, chiamò Juhà e gli disse: «Entra e dimmi, per quel Dio che distribuisce a ciascuno la sua religio-ne, a che cosa serve la pelle!». Juhà rispose: «Che ti

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devo dire, caro signore? Se non va bene per una bor-sa, andrà bene per una sacca». L'ebreo guardò in cielo e lo trovò troppo lontano, poi osservò la terra e si ac-corse di trovarvisi lui stesso. Allora sospirò e si rivolse ancora a Juhà, che voleva già andarsene, gli diede la pelle e disse: «Tu volevi comprarla, forse ti servirà a qualcosa!». Juhà se ne andò a casa contento, gettò la pelle in un angolo e per qualche tempo non ebbe più preoccupazioni.

Ma questa fo r tuna non durò in eterno. Venne i l giorno in cui tut to fu speso e Juhà non ebbe più nul-la da mettere sotto i denti. Dal momento che si era proprio all'inizio del periodo di festa, la miseria gli pesava particolarmente. Riprese a frugare in tutti gli angoli della casa e gli ritornò tra le mani la vecchia pelle. Questa volta essa non poteva essergli d'aiuto, pensò; si sedette quindi sulla pelle e si mise a medi-tare. Improvvisamente gli venne una buona idea, e quando si alzò la lisciò ben bene e la depose nella cassapanca, perché ora era anche lui convinto che fosse dota ta di qual i tà magiche. Avrebbe avuto lo stesso lampo di genio se non si fosse seduto sulla pelle?

Il giorno dopo era il pr imo giorno di festa, e tutti indossavano i vestiti più belli e delle scarpe nuove. Juhà uscì nel vicolo e invitò a colazione a casa sua alcuni conoscenti, dicendo: «Oggi si fa festa a casa mia».

Costoro vennero, entrarono in casa e lasciarono le scarpe, com'è consuetudine, all'ingresso. Juhà chiese loro di prendere posto, dopodiché se ne uscì di nuo-vo. Raccolse tutte le scarpe, le portò al mercato e le lasciò in pegno al commerciante in cambio di pane, burro e miele. Tornò quindi a casa con ciò che aveva acquistato e lo diede alla madre in cucina dicendo:

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«Metti in ogni scodella del burro e del miele insieme al pane e por ta tu t to nella s tanza degli ospiti!». Quindi si mise a sedere insieme agli altri.

Poco più tardi fece il suo ingresso la madre con i dolciumi e gli uomin i si fecero avanti e presero a mangiare t imidamente. Allora Juhà cominciò a sgri-darli e li esortò a servirsi senza complimenti, dicen-do: «Mangiate solo la vostra fortuna! Il meglio verrà alla fine!». Gli ospiti dissero: «Che la grazia di Dio sia su Juhà!» e cominciarono a immergere il pane nel burro sciolto nelle scodelle e a mangiare di buon appetito. Sul fondo delle scodelle trovarono il miele denso e si r iempirono per bene lo stomaco.

Quando fu rono sazi, r u t t a rono e lodarono Dio, com'è consuetudine, quindi chiesero di potersi alza-re e to rna re a casa. Ma non t rovarono le propr ie scarpe. Allora dissero: «Ehi, Juhà, dove sono le no-stre scarpe?». Juhà rispose: «Vi avevo pur detto che stavate mangiando la vostra fortuna e che il meglio sarebbe venuto alla fine! O avete mai sentito dire che Juhà sia ricco? Chi vuole riavere le proprie scarpe le dovrà r iscattare a pagamento dal venditore di dol-ciumi!».

Allora tutti risero, misero mano al portamonete , t i rarono fuori del denaro ciascuno secondo le pro-prie possibilità e lo diedero a Juhà affinché questi andasse a riscattare le scarpe che aveva dato in pe-gno. E avanzò anche una bella sommetta, che Juhà intascò.

Dal momento che ora Juhà possedeva del denaro, concluse un pa t to con un ebreo, secondo i l quale ciascuno dei due si impegnava ad acquistare del fer-ro e a tener lo da par te in at tesa che salisse il suo prezzo, per rivenderlo in un secondo momento.

Cominciarono ad acquistare il ferro, poi l'ebreo lo

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depositò nella cantina di casa sua, mentre lui abita-va al piano di sopra. Quando il prezzo del metallo prese a salire, l 'ebreo lo vendet te senza avvisare Juhà. Un giorno Juhà andò dall'ebreo e gli disse: «È il momento di vendere il ferro, perché adesso il suo valore è salito!».

Ma l'ebreo rispose: «Il ferro se lo sono mangiato i topi». Al che Juhà rispose: «I topi non mangiano il ferro. Ti porterò davanti al cadì!».

L'ebreo ribatté: «Bene, andremo dal cadì domatti-na presto. Adesso è ancora notte».

Quando Juhà se ne fu andato, l'ebreo si recò da so-lo dal cadì, gli diede una bustarella e lo avvisò che l'in-domani sarebbe venuto Juhà a reclamare giustizia. Il cadì disse: «Domattina venite tutti e due!». La matti-na dopo, Juhà e l'ebreo andarono dal cadì. Juhà rac-contò quello che era successo. Al posto dell'ebreo ri-spose il cadì: «Il ferro se lo sono mangiato i topi. Quand'ero ancora bambino, mia madre mise un pez-zo di lardo sotto i mortai di ferro, ma lo stesso venne un topo, fece un buco nei mortai e si mangiò tutto il lardo. Dunque i topi possono rosicchiare il ferro e tu non puoi esigere nulla dall'ebreo».

Allora Juhà uscì, si recò dal pascià e gli chiese di essere nominato sorvegliante dei topi. Il pascià scris-se una licenza e vi appose il suo sigillo; questa licen-za faceva di Juhà il sorvegliante dei topi. Juhà prese la licenza e se ne andò sulla piazza dove si radunava-no coloro che cercavano lavoro. Ben presto trovò an-che una ventina di massicci lavoratori provenienti dal Sahara (queste persone sono rinomate per la lo-ro bravura nei lavori di scavo), con le loro zappe e badili. Juhà si rivolse a loro dicendo: «Entrate al mio servizio! Come r icompensa riceverete due talleri al giorno». Gli uomini furono d'accordo e lo seguirono. Egli li condusse alla casa dell'ebreo e ordinò: «Porta-

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te alla luce le fondamenta di questa casa!». L'ebreo era seduto al piano di sopra, ma a un certo punto la casa cominciò a vacillare. Allora balzò su e corse fuo-ri, dove incontrò Juhà con i suoi operai che stavano po r t ando alla luce le fondamenta . Allora l 'ebreo esclamò: «Ohimè, ohimè! Che cosa sta succeden-do?». Juhà estrasse dalla borsa la licenza del pascià e gliela porse: «Leggi che cosa c'è scritto!».

L'ebreo lesse e disse: «O signore, tu sei il sorve-gliante dei topi». «Sì» disse Juhà. «Sto facendo dis-seppellire i topi che si sono mangiato il mio ferro per giudicarli e condannarli.» Allora l'ebreo disse: «O si-gnore, ti darò il valore del ferro e anche di più pur-ché tu faccia smettere di scavare!».

Juhà prese il denaro e si recò con gli operai a casa del cadì. Anche qui diede ordine di portare alla luce le fondamenta. Il cadì udì i rumori dello scavo, corse in fretta fuori di casa e chiese a Juhà: «Che cosa sta succedendo?». Juhà mostrò al cadì la licenza del pa-scià e aggiunse: «Io sono il sorvegliante dei topi e sto facendo tirare fuori i topi che hanno bucato i mortai e divorato il lardo, perché devo condannarli».

Il cadì si stupì di questa astuzia e diede a Juhà mol-to denaro purché questi facesse smettere di scavare. Ed era una somma maggiore del valore del ferro.

Anche nella città di Fez viveva un giovane di nome Juhà. La sua casa si trovava accanto alla casa di un ebreo e aveva con essa un muro in comune. Ma pur essendo vicini di casa, i due non si frequentavano.

Nel cortile dell 'ebreo si ergeva un grande albero che faceva ombra a tutto il cortile. L'ebreo aveva una bottega e viveva di compravendite. Alla sera l'ebreo arrivava a casa e mangiava insieme alla sua famiglia. Dopo il pasto serale, andava in cortile, stendeva la sua stuoia sotto l'albero e pregava Dio. Dopo la pre-

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ghiera rituale ringraziava il Cielo di conservarlo in vita e chiedeva ul ter ior i grazie; ques to succedeva tutti i giorni.

Un giorno J u h à salì sul te t to della sua casa, guardò nel cortile della casa adiacente e vide l'ebreo che pregava. Rap idamen te s i a r r ampicò sui r a m i dell'albero e se ne stette lì in silenzio. Quando l'ebreo ebbe finito le preghiere e passò a r ingraziare Dio, Juhà disse ad alta voce: «O mio servitore! Ho esaudi-to la tua preghiera e ti farò salire in Paradiso perché tu veda il luogo della tua vita futura. Ma pr ima da' al tuo vicino J u h à c inquecento talleri, e io esaudi rò ogni tuo desiderio».

L'ebreo fu assai contento di ciò, andò dalla moglie e le disse: «Cara moglie, il nostro Signore mi ha ap-pena parlato e mi ha incaricato di dare cinquecento talleri al nostro vicino Juhà. Dopo mi farà salire fino al Paradiso ed esaudirà ogni mio desiderio». Essa ri-spose: «Fa' quello che ha detto il Signore».

L'ebreo trascorse la notte contando i cinquecento talleri e non vedeva l'ora che fosse mattina. Quando infine sorse l'alba del nuovo giorno, l'ebreo era stan-co mor to . Ben pres to andò a bussare da Juhà , gli diede il dena ro e disse: «Prendi quello che Dio ti dà!». E Juhà si prese il denaro.

La sera successiva Juhà prese una grande cesta, vi legò u n a corda e salì sull 'albero. Quando venne l 'ebreo per la preghiera, Juhà calò la cesta e disse: «Entraci dentro, mio servitore, aff inché io ti solle-vi!». Ma a metà strada Juhà recise la corda: l 'ebreo precipitò a terra e si sfracellò. Allora nella casa si le-varono grandi lamentazioni.

Dopo qualche tempo lo stesso Juhà prese a vantar-si di questa storia, cosicché di bocca in bocca venne a conoscenza di tut to il regno. Quando essa giunse alle orecchie di Juhà di Marrakesh, questi si disse:

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"Questo Juhà di Fez deve essere sicuramente un tipo orribile! Me ne andrò fin là e mi misurerò con lui". Juhà prese la sua sacca, vi mise datteri e fichi secchi, calzò i sandali, prese il bastone da viaggio e si in-camminò alla volta di Fez.

Quando Dio volle, egli arrivò a Fez. Vi entrò da una por ta e seguì sempre le m u r a f inché la s t rada non si biforcò. Allora imboccò la direzione del cen-tro della città.

Mentre passava per un vicolo, incontrò un uomo che stava appoggiato a un muro con la schiena. Era Juhà di Fez, ma Juhà di Marrakesh non lo sapeva. Lo salutò secondo l'uso del paese e gli chiese: «Si-gnore, conosci Juhà di Fez?». L'uomo rispose: «Certo che lo conosco. Che cosa vuoi da lui?». Juhà di Mar-rakesh disse: «Io sono Juhà di Marrakesh e cerco Juhà di Fez per misurarmi con lui».

«Te lo vado a chiamare,» disse l 'uomo «ma devi sapere, signore, che io sono il sorvegliante di questo muro e devo fare attenzione che non cada. Se vieni tu qui a sostenerlo con la tua schiena posso andare a prendere Juhà. Ma bada di non andar tene via, per non far crollare il muro!» Juhà di Marrakesh andò a mettersi con la schiena contro il muro per sostener-lo. Invece Juhà di Fez se ne andò dove gli pareva.

Sul far del mezzodì, la gente uscì dai negozi per andare a mangiare. Passarono anche da quel vicolo e videro lo s t raniero che sosteneva il m u r o con la schiena. Dopo il pasto fecero ritorno ai loro negozi e videro quell 'uomo sempre fe rmo nella stessa posi-zione. All'ora del pasto serale uscirono ancora dai negozi e tornarono a casa passando dal vicolo. L'uo-mo era sempre fermo con la schiena contro il muro. Allora uno di essi andò dallo s traniero e gli chiese cortesemente: «Signore, è tutto il giorno che ti vedia-mo sostenere il m u r o con le spalle. Tu non mangi,

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non bevi e per tu t to ques to t empo hai digiunato. Qual è il motivo di questo comportamento?».

Juhà disse: «Io sono Juhà di Marrakesh e sono ve-nuto fin qui da Marrakesh a piedi per misurarmi con Juhà di Fez. In questo luogo ho incontrato un uomo cui ho chiesto notizie di Juhà di Fez. L'uomo mi ha detto: "Mettiti qui e reggi il m u r o con la schiena mentre io vado a chiamarlo". Se ne andato e mi ha lasciato solo. Per tutto questo tempo ho continuato a sostenere il muro con la schiena per timore che crol-lasse». Allora il commerciante gli disse: «O signore, l 'uomo che ti ha lasciato solo, affidandoti l'incarico di sostenere il muro con la schiena per evitare che cadesse, era proprio Juhà di Fez. Si è misurato lui con te prima che tu potessi misurarti con lui».

Quando Juhà udì queste parole, proruppe in pe-santi bes temmie e giurò che non avrebbe mai più menzionato il nome di Juhà di Fez. Quindi prese la sua sacca e il bastone da viaggio e rifece all'inverso la strada che aveva fatto per venire.

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Storie di donne

32 . I L P O T E R E D E L L E D O N N E

I

C'era una volta un orfanello, che non aveva né padre né madre, ma solo una sorella sposata. Quando fu adulto, le disse: «Sorella mia, desidero sposarmi!». E lei gli rispose: «Fratello mio, non sei ancora abba-stanza maturo per il matrimonio!». E lui: «E invece sì, lo sono!». Ma lei rimase della sua idea: «No, non sei ancora maturo. Sta' attento, il potere delle donne è spietato!». «Cosa intendi dire con "il potere delle donne"?» egli le chiese. Invece di dargli una spiega-zione, essa gli fornì un esempio molto istruttivo.

«Ti farò vedere con mio mar i to quanto le donne siano potenti. Va' al mercato e comprami un pesce!» «D'accordo» disse il giovane.

Andò al mercato e acquistò un pesce. La sorella prese il pesce, lo nascose sotto il vestito e andò poi col fratello da suo marito che stava arando nel cam-po per portargl i i l pas to di mezzogiorno. Quando egli, completato un solco, giunse alla strada, essa gli disse: «Lascia il tuo cammello e vieni a mangiare!». Gli porse il cibo, e men t re lui mangiava gli disse: «Stanotte ho sognato che avremmo fatto una festa». Egli le rispose: «Se Dio ci sarà clemente, un giorno faremo una festa!». Allora prese lei l 'aratro e arò per un po', nascondendo nel f rat tempo il pesce in un sol-co. Finito che ebbe di mangiare , il mar i to r iprese

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l 'aratro mentre lei e il fratello si incamminavano per to rnare a casa. Ed eccolo gridare! «Venite un po' qui!» «Che cosa succede?» chiese lei. «Guarda qui,» disse lui «ho trovato un pesce nel solco. Dio ci aiuta, in modo che possiamo festeggiare. Prepara già tutto, oggi verrò con il maestro e i suoi discepoli e faremo una bella festa.» «D'accordo» disse lei. Andò a casa col fratello e cucinò il pesce, dopodiché tutti e due se

lo mangiarono e nascosero le lische. Alla sera, dopo il lavoro, il marito tornò a casa dal

campo e per strada passò dalla moschea. Qui disse al maestro: «Venite tutti con me, oggi facciamo una festa!». Il maestro e i suoi discepoli accompagnaro-no il mari to a casa e qui giunti egli chiamò la mo-glie: «Hai preparato tutto, tè, cibo e profumi per gli ospiti?». «Che cosa succede?» chiese la moglie di ri-mando. «Non ti ho detto che questa sera avremmo fatto una festa?» chiese il mari to. «E con che cosa vorresti festeggiare?» chiese ancora la moglie. «Hai comprato forse della carne, dello zucchero o del tè?» «Ma no, ti avevo dato quel pesce quando eravamo sul campo» gridò il marito. «E dove lo avresti trova-to questo pesce?» chiese la moglie. Ed egli rispose: «L'avevo trovato in terra men t re aravo». Allora lei esclamò: «Si è mai visto che i pesci si trovino sulla terraferma?». «Vorresti dire che sono pazzo?» chiese

il marito. Allora la donna proruppe in un grido e si rivolse al maestro: «Per favore, non piantatemi in as-so! Quest 'uomo è impazzito. O è immaginabile che abbia davvero trovato un pesce sul suo terreno?».

Le diedero ragione e legarono il marito. «Gettate-lo in cantina» disse la donna «in modo che non ci possa fare danno, altrimenti è capace di uccidermi!» Essi eseguirono, dopodiché maest ro e allievi se ne andarono a casa.

Quella sera la donna prese la macina di pietra e si

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sedette sopra la botola della cantina a macinare fagio-li. Il rumore che fece apparve al prigioniero come un rombo di tuono. Di tanto in tanto essa prendeva una fiaccola e la passava rapidamente davanti alle fessure della botola, in modo da fargli credere che ci fossero dei lampi. Alla fine versò dell'acqua sopra l 'apertura, in modo che egli dovette cercare riparo in un angolo da quella che credeva essere acqua piovana.

Di primo matt ino vennero in visita alcuni uomini del villaggio e gli chiesero: «Come stai, poveruomo?».

«Dio sia lodato,» disse egli «non mi manca nulla. Cercano solo di farmi passare per matto, ma io sono in pieno possesso delle mie facoltà . Dite un po', i campi sono ancora nelle condizioni di ieri?»

«Perché, cosa è successo?» «Ha tuonato e lampeggiato così forte e ha piovuto

così tanto che deve essere tutto sottosopra!» Allora quelli gli dissero: «Che Dio possa risanarti,

poveruomo!». Credettero davvero che fosse pazzo e lo lasciarono

in cantina. Finirono per tirarlo fuori di lì solo dopo due settimane.

Il giovanotto rif let té ancora a lungo su ques ta azione della sorella e si disse: «Il potere delle donne è spietato, non mi sposerò mai».

II

C'era una volta una bella donna, che si innamorò di un poveruomo. Essa gli disse: «Ti sposerò se tu mi lascerai libera di fare quello che voglio con gli uo-mini». L'uomo fu d'accordo. Si sposarono e andaro-no a vivere insieme.

Un giorno la donna si portò in casa un ebreo che già da tempo le faceva la corte, ma proprio mentre lui cominciava a fare il cascamorto, si sentì bussare alla

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porta. La donna disse: «È di sicuro mio marito. Se ti trova con me ci uccide tutti e due!». «Cosa possiamo fare?» chiese l'ebreo pieno di paura. «Prendi questo camice da lavoro strappato, togliti quella sopravveste elegante e quei gioielli e indossalo, poi prendi quelle pietre e portale sul terrazzo come se fossi un murato-re!» L'ebreo fece subito come la donna gli aveva con-sigliato, e quando il mari to entrò nella stanza vide l'operaio alle prese con le pietre. Quand'ebbe finito di trasportare pietre fin sul terrazzo, il mari to gli chiese: «Quant'è per il tuo lavoro?». «Due reali» disse l'ebreo. L'uomo gli diede due reali e lo congedò. La donna pre-se la preziosa sopravveste e i monili dell'ebreo e andò a vendere il tutto al mercato.

Un'altra volta essa accolse in casa il cadì, che ave-va da tempo messo gli occhi su di lei. Mentre i due erano seduti uno accanto all'altra, si sentì bussare alla porta. «Sarà mio marito» disse la donna. «Se ci scopre insieme ci ucciderà.» «Cosa possiamo fare?» chiese il cadì alla donna . «Entra pres to in ques ta cassapanca» gli suggerì la donna, e il cadì eseguì. Il marito entrò, inchiodò la cassapanca e la portò, in-sieme alla moglie, fino al mercato dove si vendeva la merce al miglior offerente. Fece quindi avvisare il fi-glio del cadì che in quella cassapanca era nascosto suo padre. E questi venne di corsa e si aggiudicò ad alto prezzo la cassapanca, per potersi riportare a ca-sa il padre inosservato.

33 . L A L L A M A G H N I A

Nei pressi di Marn ia in quello che fu il regno di Tlemcen si trovava la casa di riunione di una confra-ternita sufi retta da un vecchio maestro, che era as-sai venerato nella regione. Questi morì senza lascia-

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re figli maschi, ma aveva educato alla mistica la sua un ica figlia in un m o d o così comple to che costei potè subentrare al padre alla guida della comuni tà sufi. Essa era una combattente di grande valore, una persona di grande cul tura, oltre a essere, natural-mente, assai versata in tutti gli esercizi dei sufi. Per decisione u n a n i m e della comun i t à fu lei a essere scelta per succedere al padre alla guida della scuola. Pur assumendo questo ufficio prestigioso essa man-tenne un contegno modesto.

Ma l'ottavo giorno dopo la morte del maestro, alle cerimonie che facevano seguito alla sepoltura, fece la sua comparsa il figlio del fratello del maestro col suo schiavo negro, e avanzò il propr io diri t to alla successione - e tra l'altro anche alla guida della co-munità sufi - e, secondo la legge e le tradizioni, glie-lo si dovette accordare.

Questo nipote del maestro, però, era un combat-tente di poco valore, dedito alle più crudeli ruberie col suo schiavo, che era stato allevato insieme a lui come un fratello di latte. Viveva nell 'abbondanza e in un torbido legame con questo negro, sfacciato e al-tezzoso e amante del lusso. Per le donne non aveva la minima considerazione.

Lalla Marnia (che vuole dire "signora Marnia", co-sì veniva rispettosamente chiamata) era di una bel-lezza fuori dell 'ordinario, e ancora giovane. Aveva fatto voto di castità davanti a Dio e aveva mantenuto questo voto anche quando il sultano di Fez, cui era giunta voce della sua grande bellezza e del suo fare assennato, le aveva inviato messaggeri pregandola di diventare sua moglie. Il r i f iuto di Lalla Marnia fu considerato un'offesa personale dal sultano, che die-de ordine a un drappello di cavalieri di devastare il paese tut to intorno alla casa di r iunione della con-f ra tern i ta . I soldati eseguirono il comando con la

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massima crudeltà, e benché tutti si bat tessero con valore, comprese le donne, con alla testa Lalla Mar-nia, dovettero soccombere e furono sconfitti. Dopo il ritiro dei cavalieri il paese si impoverì, e quando a ciò tenne dietro una prolungata siccità, la popolazio-ne sopravvissuta fu ridotta alla fame.

Quando, nel successivo mese del digiuno, una ca-rovana di pellegrini di r i torno dal santuario di Sidi Yahia di Orano passò per il paese e chiese cibo per i cavalli sfiniti, Lalla Marnia portò fuori l 'unica misu-ra di grano che era ancora disponibile e la versò da-vanti ai cavalli. Ma la misura tornò di nuovo piena, e questo cont inuò a ripetersi a mano a mano che lei ne gettava fuori . Fu questo il pr imo miracolo com-piuto da Lalla Marnia.

Un giorno essa vide un pastore che veniva avanti suonando il flauto, e subi to se ne innamorò. Nello stesso istante riconobbe la propria colpa perché ave-va offeso il suo voto di castità, e si pentì con tutto il cuore.

Ma il breve sogno a occhi aperti continuava a op-primerla e pesava sul suo animo. Alla fine intraprese il pellegrinaggio alla Mecca e si recò anche fino alla tomba del profeta Mohammed a Medina, dove im-plorò la liberazione dalla sua oppressione. E qui le venne imposto, per penitenza, di sposare suo cugi-no, il capo della scuola sufi. Col cuore pesante essa diede la sua promessa, e tornata a casa la mantenne.

Grazie a questa fortuna immeritata, l 'uomo da or-goglioso che era si fece sempre più arrogante. Dopo che essa gli ebbe partorito un figlio, Houari, la sua alterigia non conobbe più limiti. Maltrattava in mo-do vergognoso sia lei sia la gente che lo circondava.

Dopo l 'ennesima volta che ciò si verificava, essa invitò il suo sposo a smetterla e a mutare la propria vita, perché in caso contrar io il loro figlio sarebbe

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morto. Ma l 'uomo se ne fece beffe. La sera stessa il figlioletto moriva. Allora lui la accusò di stregoneria e la gettò in prigione. Poi mandò da lei il suo schia-vo, che la batté e pretese, in nome del suo padrone, che lei falciasse tu t ta l 'erba da lì f ino all'Atlantico. Stanca morta, essa prese in mano il falcetto e non aveva ancora cominciato che tut ta l'erba si abbatté davanti a lei come se fosse stata falciata, senza che lei dovesse muovere un dito. Il negro impallidì, si s trappò i capelli e immediatamente tornò al galoppo dal suo padrone per riferirgli i l miracolo. Questi schernì lo schiavo, ma poi si recò sul luogo e vide coi propri occhi che cosa era successo.

Allora la sua ira crebbe ed egli le diede un nuovo ordine: avrebbe dovuto filare in una sola not te un ' eno rme m o n t a g n a di lana, che no rma lmen te avrebbe r ichiesto un anno intero. S t remata , Lalla Marnia si sedette senza riuscire neppure a comincia-re il lavoro, ma la mat t ina successiva tutta la lana era stata filata. Allora egli la lasciò libera, ma Lalla Marnia divenne pazza.

Il pastore che essa per un istante aveva desiderato era stato t rasformato in una palma. Un giorno Lalla Marnia disse ai suoi genitori adottivi: «Quando sarà grande, mos t ra te questa pa lma a mio figlio» (che però da lungo tempo era già morto). Quando morì, essa stessa divenne una palma, cresciuta accanto a quella del pastore.

34. L A P R I N C I P E S S A G A Z Z E L L A

C'era una volta un re, il quale aveva sposato una jin-niya (femmina di jinn) che gli aveva dato una bellis-sima figlia. Quando la regina morì, il re si risposò. Da quel giorno in poi la giovane principessa ammu-

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tolì e nessuno fu più capace di farla tornare a parla-re. Allora il re suo padre la confinò in una fitta bo-scaglia e fece circondare la foresta dalle guardie in modo che nessuno potesse arrivare fino a lei.

Dalla seconda moglie il re ebbe tre figli maschi, che lo resero assai felice. Quando i figli furono cre-sciuti, egli rafforzò la guardia intorno alla foresta e proibì a chiunque, pena la morte, di raccontare ai principi che essi avevano una sorella. Essi sapevano sol tanto che non era loro consent i to di pene t ra re nella parte più fìtta della foresta.

Quando il re morì, il maggiore dei principi disse ai suoi fratelli: «Voglio vedere questa foresta e scoprire il suo segreto!». Uscì di nascosto dal castello per evitare che se ne accorgesse lo zio, fratello del precedente re, che gli era succeduto sul trono. Egli era a cavallo, le guardie dovettero lasciarlo passare, e così si precipitò all'interno della foresta. Ben presto si ritrovò in un meraviglioso giardino, come non ne aveva mai visti; gli giungevano all'orecchio musiche, voci e canti, ma non riuscì a vedere nessuno. All'improvviso il principe si vide passare davanti una gazzella, che fuggì fino a una roccia. Questa si aprì e la gazzella scomparve al suo interno. Il principe volle inseguirla, ma non riuscì a trovarla da nessuna parte. Fu colto allora da una smania febbrile di cacciare che lo fece vagare a lungo per la foresta fino a farlo smarrire del tutto.

Dal momento che il tempo passava e non lo si ri-vedeva ancora, il secondo principe decise di mettersi in cerca del fratello, e il re suo zio lo lasciò partire sperando di rivederli presto entrambi. Ma al secon-do toccò la stessa sorte del primo, e anche lui non fe-ce più ritorno. Allora il più giovane dei tre principi volle mettersi in viaggio alla ricerca dei suoi fratelli, ma il re temeva per lui e non lo lasciava partire. Però il principe ripetè con tanta insistenza la sua richiesta

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che alla fine il re cedette. E così il principe partì a cavallo, giunse fin nella parte più remota della fore-sta e arrivò anche lui al giardino fatato con i suoni festosi di cui non si poteva individuare l'origine. E anche lui scorse la gazzella e la seguì fino a smarrir-si nel bosco. Quando si vide che anche il più giovane dei pr incipi non faceva r i torno, il re inviò le sue guardie a rastrellare la foresta. Esse vi entrarono e giunsero fino al bel giardino con suoni di festa, sen-za vedere alcuno, e alla fine anche loro scorsero la meravigliosa gazzella e la videro scompari re nella roccia. Ma furono abbastanza assennati da non inse-guirla e se ne ritornarono dal re a fargli rapporto di tu t to quello che avevano visto e udito. Allora il re convocò i suoi consiglieri e chiese loro quale solu-zione avessero da proporre. Ma essi r imasero in si-lenzio. Solo un vecchio, alla fine, raccontò che il pre-cedente re, fratello dell 'attuale, aveva conf inato in quella foresta la p ropr ia figlia e che s i cu ramente questo era il motivo dell'incantesimo.

Allora il re fece venire i suoi maghi e indovini e chiese il loro aiuto. Per un certo tempo essi si sforza-rono di spezzare l ' incantesimo della foresta con for-mule di scongiuro e fumigazioni di incenso, ma sen-za esito. Il se t t imo giorno f ina lmente essi videro passare di corsa davanti a loro una gazzella e allora comunicarono al re che c'era qualche speranza.

Dopo qualche tempo i principi tornarono indietro, u n o dopo l 'altro, nello stesso ord ine in cui e rano scomparsi. Ciascuno raccontò la stessa storia: dopo avere inseguito la gazzella ed essersi smarr i to nel bosco, aveva perso i sensi e si era svegliato in un pa-lazzo dove tre belle fanciulle e una jinniya si erano prese cura di lui e gli avevano dato tut ta la felicità che un u o m o può provare. Ciascuno dei pr incipi

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aveva avuto un anello da una delle fanciulle ed era poi stato rispedito a casa.

Ora, i principi chiesero allo zio di poter sposare le belle fanciulle, ma nessuno sapeva come poterle far giungere fin lì. Allora l 'anziano consigliere propose di far rigirare gli anelli ai principi, e non appena essi lo fecero le fanciulle apparvero e posero le loro con-dizioni: ciascuna voleva sposare il proprio innamo-rato ed essere partecipe della sovranità sul reame. Ciò venne loro promesso. Allora esse dissero che si sarebbero trattenute ancora sette giorni nel loro re-gno dopodiché sarebbero tornate definitivamente.

E così avvenne. Vennero celebrate le nozze più fa-stose che si fossero mai viste. Sette giorni dopo le nozze, fece il suo r i to rno anche la sorel lastra dei principi, la gazzella, questa volta sotto forma di bel-lissima fanciulla, che purt roppo però era muta. Il re l'avrebbe volentieri sposata, ma essa non si fece con-vincere da nessuno a parlare. Allora egli r iconobbe che non era adatta a lui e fece annunciare per tutto il regno che colui che l'avesse indotta a parlare sareb-be stato il suo legittimo sposo ed erede al trono. Col passare del tempo si fecero avanti sempre nuovi gio-vani disposti a tentare la prova, anche se la condizio-ne era che chi non ci fosse riuscito sarebbe stato de-capitato.

Le teste dei candidat i sfortunat i vennero appese alle m u r a e sulla por t a d ' ingresso del palazzo, e chiunque le vedesse si rivoltava dall'orrore. Si disse anche che questo destino fosse già stato predetto al re precedente e che in tutta la terra un solo giovane fosse des t inato a r idare la parola alla pr incipessa muta.

I giovani che si erano sottoposti alla prova erano già quat t ro volte sette e avevano pagato con la vita questo tentativo. Dopodiché nessuno più si fece at-

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trarre dalla prova, e il re fece comunicare il suo ban-do anche nei regni vicini. Passato qualche tempo si vide di nuovo un principe che chiese di essere pre-sentato alla principessa. Per p r ima cosa gli fecero vedere le teste dei candidati uccisi sui merli del ca-stello, dopodiché gli ripeterono un'altra volta l'inca-rico e la condizione. Il principe non batté ciglio e si dichiarò pronto. Allora lo condussero dalla princi-pessa muta.

Quando egli la vide, fu subito colto da un ardente amore per lei e pose le proprie condizioni: tut ta la corte doveva assistere, e nessuno al di fuori di lui po-teva pronunciare una parola, pena la decapitazione. Queste condizioni vennero accettate. Allora egli si ri-tirò acconsentendo a effettuare la prova l 'indomani.

Il giorno dopo la corte era radunata al gran com-pleto intorno al re e alla principessa, che stava al suo fianco. Il principe entrò e cominciò il seguente rac-conto: «Durante un viaggio, mi è capitato di incontra-re un falegname che aveva intagliato un manichino nel legno, e questo manichino era somigliantissimo a una donna, solo che era completamente rigido. Allora l'artigiano andò da un fabbro e gli fece fare delle arti-colazioni, cosicché il manichino potè muoversi come un essere umano. Quindi il falegname andò con il suo manichino da un sarto e gli fece cucire un abito mera-viglioso su misura. Andò quindi da un profumiere e lo fece aspergere di profumi. Ora il manichino sem-brava proprio una donna vera. Gli mancava solo l'au-tonomia nel muoversi. Andò allora da un sant 'uomo, e insieme a lui vi andarono tutti gli altri: il fabbro, il sarto e il profumiere, perché erano come rapiti da questa bella figura. Essi rivolsero al santo la richiesta di animare la bambola, e il santo, alle cui richieste Dio non aveva mai detto di no, promise di pregarlo di

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infondere la vita in quel manichino. Levò le mani, pregò, e fu esaudito.

«Ora, quando la bambola si destò, era diventata una splendida donna, e tutti e cinque gli uomini, il falegname, il fabbro, il sarto, il profumiere e il santo, furono colti dall 'amore per lei e volevano prenderla in moglie. "Io l'ho liberata dal legno" disse il falegna-me "e quindi appart iene a me!" Il fabbro ribatteva: "Ma io le ho dato il movimento. Senza il mio inter-vento sarebbe ancora un rigido pezzo di legno". "Io invece l'ho rivestita, e colui che fornisce l'abito è lo sposo legittimo!" "No," disse il profumiere "signore e padrone è colui che fornisce il nutr imento alla don-na." Il santo propose di cercare un giudice e lasciare decidere a lui. Andarono quindi da un giudice e gli chiesero il suo parere. Il giudice decise che colui che aveva modellato il manichino da un pezzo di legno fosse il suo vero creatore e signore. Ora io vi chiedo: questo giudice ha deciso rettamente?» Ma tutti i pre-senti tacquero, pensando alla severa punizione che il re aveva minacciato loro conformemente all'accordo col principe. Allora il principe ripetè un'altra volta la domanda e disse poi: «Se non siete di opinione di-versa da quella del giudice, io tornerò là e dichiarerò valido il parere del giudice». A questo punto la prin-cipessa sospirò e disse: «Il giudice ha dato una sen-tenza errata. La fanciulla deve essere di quel santo, perché è lui che l'ha portata in vita». «Così dicendo hai pronunciato anche la tua sentenza» disse il prin-cipe, felice «perché tu ora sei mia moglie, dal mo-mento che io ti ho restituito la parola.»

Si celebrarono allora le nozze e la giovane coppia salì al t rono e governò a lungo e con saggezza.

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35 . L ' A S T U T A A I S H A

Aisha di Marrakesh giocava sempre brut t i scherzi agli uomini e si prendeva beffe di loro. Un giorno se la prese con un asinaio, al quale disse: «Noleggiami uno dei tuoi asini, ti ricompenserò». Egli le affidò un asino, lei lo vendette e spese il suo denaro. Quando l'asinaio, venutolo a sapere, la cercò per chiederle i soldi, lei non si fece più trovare per qualche tempo.

Un giorno, però, egli la incontrò sulla strada e la minacciò di portarla davanti al cadì. Ma lei gli rispo-se: «Dove sei stato tutto questo tempo? Ti ha inghiot-tito la terra o ti ha accolto il cielo? Quanti giorni ho continuato a cercarti per ridarti il tuo asino, provve-dendo io nel f ra t tempo a nutrirlo! Ma lo sai quanto ha mangiato nel frattempo? Adesso vieni con me».

I due proseguirono un po' lungo la strada, finché giunsero al negozio di un barbiere , e lei escogitò un'altra astuzia. Bisogna sapere che questo barbiere esercitava anche il mestiere di cavadenti. Lei disse all'asinaio: «Aspetta qui un attimo, vado da mio fi-glio e ti porto subito fuori il denaro che ti spetta». Ciò det to scomparve nel negozio ment re l 'asinaio stava fuori ad aspettare.

All'interno, lei disse al barbiere: «L'uomo che c'è fuori dalla porta è mio figlio. Dovete sapere che è un po' demente, non date retta a quello che vi dirà. Ma io voglio che gli caviate due denti, uno superiore e uno inferiore. Eccovi dieci reali per il vostro distur-bo». Il barbiere acconsentì. Allora Aisha uscì e chie-se all 'asinaio di entrare. «Adesso ti da ranno i tuoi soldi.» Appena messo piede nel negozio, l'asinaio fu afferrato dai due aiutanti del barbiere, costretto a se-dersi e tenuto ben fermo mentre il padrone con le te-naglie gli strappava, con mano esperta, due molari, uno superiore e uno inferiore. L'asinaio si ribellò con

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tutte le sue forze, ma il barbiere, che ci era abituato, portò speditamente a compimento il suo lavoro.

Allora l'asinaio portò il barbiere davanti al cadì e lo denunciò. Il cadì si fece raccontare tutto, dopodi-ché condannò il barbiere e lo fece gettare in prigio-ne. Ma Aisha non lo seppe mai.

36. L A M O G L I E I N N A M O R A T A

Tutti gli anni, per la grande Festa del Sacrifìcio, ogni capofamigl ia m u s u l m a n o sacrifica un montone , e questo è più di una buona consuetudine: è un dovere religioso. Anche i poveri devono cercare con tutte le loro forze di adempiere questo dovere morale e a questo proposito sono centinaia le storie che si nar-rano.

C'era una volta un povero artigiano, che avrebbe voluto sapere quanto la moglie lo amasse. Quando si appressò la Festa del Sacrificio, comprò in segreto un mon tone e lo por tò da un vicino. Andò quindi dalla moglie e le disse: «Ascolta, mia cara, noi siamo così poveri che quest 'anno non potremo permetterci un montone. Spero che tu, anche senza carne, sarai contenta di me». Ma la donna cominciò a lamentar-si, ripetendo in continuazione: «Non sta bene passa-re la festa senza il montone. Va' fuori e cerca qualun-que cosa che ci pe rmet ta di avere un mon tone da sacrificare!».

Il giorno dopo l'artigiano tornò a casa e disse alla moglie: «Il sultano ha fatto sapere che chi si farà da-re cento bastonate potrà avere un montone come ri-compensa. Cosa ne pensi? È il caso che io vada a far-mi dare cento bastonate per permetterci di avere un montone per la festa?». Essa rispose: «Fa' quello che è il tuo dovere, in modo che possiamo avere un mon-

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tone per la festa!». Il pove ruomo disse: «Nel nome di Allah! Allora andrò a porgere la mia schiena alle bas tonate». Ma ment re stava avviandosi verso la porta, sentì la moglie gridare: «Aspetta un attimo!» e già si immaginava che lei gli dicesse: "Lascia perde-re, poss iamo pure aspet ta re l ' anno pross imo per mangiarci il montone!". Si voltò quindi a sentire, e lei gli disse: «Mi è appena venuto in mente che an-che mia madre è senza montone. Potresti farti dare duecento bastonate e portare a casa due montoni?».

37 . I L M A G I C O C U S C U S

C'erano una volta due fratelli , che a n d a r o n o sui mont i a caccia di porcospini. Per tutto il giorno si arrampicarono sulle rocce, f rugarono ogni cavità, e a sera si ritrovarono così stanchi che decisero di se-dersi e riposarsi in un luogo pianeggiante. Volevano aspet ta re che sorgesse la luna, per tornare a casa con il suo chiarore. Mentre si riposavano, udi rono un rumore come di legni picchiati uno contro l'altro in continuazione. Quando sorse la luna, si avviarono in direzione di quel rumore e videro una vecchia ac-cucciata a terra che percuoteva insieme un legno e un osso, facendo un rumore come di cavalli al galop-po. Inoltre essa cantava una canzone, ma i due uo-mini non capivano le parole. A questo punto la don-na si alzò e cominciò a ballare, ba t tendo il t empo con il legno e l'osso.

Dopo che la vecchia ebbe così danzato e cantato per un certo tempo, la luna si abbassò e si fermò, grandissima, sopra le loro teste, ment re ne colava giù dell'acqua, che la donna raccolse in una grossa ciotola. Arrivò quindi un morto, ancora avvolto nel suo lenzuolo funebre, come fosse appena uscito dal-

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la tomba . La vecchia se lo caricò sulla schiena in modo che le braccia del morto le pendevano davanti. Prese quindi della semola, la mise in mano al morto e con le sue dita preparò le palline del cuscus. Impa-stava e arrotolava, impastava e arrotolava mischian-do il tutto con l'acqua della luna, fino a preparare un cuscus dalle palline finissime.

Questo cuscus è carico di una magia potentissi-ma: se una donna lo dà da mangiare al marito, que-sti diventa ubbidiente come un cagnolino ed esegue a bacchetta i comandi della moglie, che così può far di lui quello che vuole. Se lei gli dice: «Va' a invitare i tuoi amici a pranzo!» egli lo fa. Quindi s iedono e mangiano, e se poi lei dice al marito: «Adesso esci e stattene fuori per un po'!» lui fa anche questo, e lei si diverte con i suoi amici. Questo magico cuscus le donne di città lo comprano dalle vecchie, pagando per esso molto denaro.

Quando ne ebbero abbas tanza di s tarsene sui monti a osservare la vecchia, i due fratelli le saltaro-no addosso e la uccisero.

38 . LA P O V E R A D O N N A E L ' O R C H E S S A

Una coppia di poveri contadini abitava in alto tra i monti , badando a una fat toria isolata. Avevano un paio di campi e un piccolo gregge di capre, un paio di mucche e delle api. I vicini più prossimi abitavano in una fattoria altrettanto isolata, a una mezz'ora di distanza. In questi monti si trovavano ancora, a quei tempi, degli orchi, che vivevano in caverne e divora-vano ogni essere vivente che riuscivano ad acciuffa-re, compresi i bambini.

Il contadino morì ancora giovane e lasciò la mo-glie con sette bambini. La contadina non volle però

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andarsene dalla fattoria, e si mise a fare lei tutti i la-vori degli uomini. Un giorno, mentre stava arando, venne da lei un 'orchessa e le chiese: «Non hai un mari to che possa arare al tuo posto?». E lei rispose: «Se n'è anda to via un momento , ma torna subito. Sta' a t tenta che non ti incontri!». L'orchessa se ne andò, ma ritornò il giorno dopo.

E di nuovo vide la donna che arava e cominciò a intuire come stessero le cose. La sera scavalcò la sie-pe spinosa che circondava la fattoria e si sedette ac-canto alla contadina , che in quel m o m e n t o stava spremendo dell'olio di argania. Tutti e sette i bambi-ni le erano seduti intorno e guardavano con l'acquo-lina in bocca l'olio spremuto. Quando la donna vide gli occhi cupidi dell'orchessa, capì immediatamente che era venuta per papparsi i bambini. Disse quindi al maggiore: «Alzati e va' in casa a p rendere una manc ia ta di far ina tostata (che si mangia insieme all'olio)!». Il ragazzo aveva capito subito ciò che vo-leva dire la mamma, e se ne andò in casa. Quindi la donna disse al secondo figliolo: «Va' anche tu a pren-dere un po' di farina!». E così, uno dopo l'altro fece entrare in casa sei bimbi, ma il sett imo era t roppo piccolo e non comprese l'avvertimento; non ubbidì e non volle andare in casa. Allora si alzò direttamente la madre e andò in casa a prendere una grossa scure. Nel f r a t t empo l 'orchessa immerse i l più piccino nell'olio, ve lo rigirò e se lo mangiò. Quindi si diresse verso la casa, si chinò e infilò la testa nel vano della porta. La contadina le staccò la testa con la scure. Allora l 'orchessa fece passare dalla porta la sua se-conda testa: la contadina gliela decapitò, e così via con la terza, la quarta, la quinta, la sesta e la settima testa. Ma is tantaneamente le teste ricrebbero. L'or-chessa fece nuovamente passare la sua pr ima testa attraverso la porta, ma questa volta la donna non la

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colpì. Allora l 'orchessa disse: «Tagliami via anche questa!». Ma la contadina non lo fece, perché sapeva che sarebbe ricresciuta. L'orchessa ordinò di nuovo: «Staccamela!». Ma la donna non lo fece. E così l'or-chessa morì immediatamente. In tal modo la mam-ma aveva salvato sei bambini e perduto solo l'ulti-mo, che non aveva voluto ubbidire.

39 . L E D O N N E A S T U T E

C'erano una volta tre sorelle, che scesero in strada per cercare qualcuno da ingannare. La maggiore si recò alla por ta della cit tà e si mise ad aspet tare . Giunse un giovane con un asino carico di sacchi di grano. La donna gli si fece incontro, lo salutò e gli chiese: «Dove sei stato, caro cugino, e dove stai an-dando?». Allora egli le confidò che stava por tando due sacchi di grano al mercato per venderli. La don-na gli disse in tono assai amichevole: «Vieni con me, ti pagherò il prezzo di questo grano!». Poi lo condus-se in uno stretto vicolo e gli disse: «Aspetta qui, vado a scaricare i sacchi e ti porto i soldi». Così dicendo condusse l'asino nel suo cortile e scomparve.

Dopo aver at teso a lungo invano il r i torno della donna, il giovane vide arrivare la seconda sorella che gli disse: «Che cosa fai qui?». «Sto aspet tando mia cugina. Mi ha comprato del grano e mi deve portare i soldi. È entrata qui!» rispose lui indicando la porta del cortile. «Ohibò,» disse la donna «allora avrai un beli'aspettare. Vieni con me, ti aiuterò.» Lo prese per mano e lo condusse in un altro cortile. Qui gli fece vedere il pozzo e gli disse: «Mi è caduto lì dentro un bracciale. Se tu ti cali a riprendermelo, ti procurerò anche i soldi per i tuoi sacchi di grano». Allora egli si tolse le sopravvesti, si legò alla corda e si fece aiutare

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da lei a scendere nel pozzo. Mentre lui ancora cerca-va il bracciale, lei gli aveva già preso i vestiti e li ave-va rivenduti al mercato. Da solo il giovanotto non poteva tornare fuor i dal pozzo e si mise a gr idare aiuto. Ma per molto tempo non venne nessuno.

Alla fine giunse la terza sorella e aiutò il giovane a r i to rnare fuor i . Gli pose però una condizione: «A patto che tu mi sposi!». Il giovane rispose: «Va bene, nel nome di Dio!» e si fece tirare fuori. Dopodiché la donna se ne andò con lui da un ricco mercante, che vendeva vestiti e oggetti per la casa. «Perché» disse «devi avere dei bei vestiti e arredarmi la casa, altri-menti non possiamo sposarci». Essa scelse bei vesti-ti, stoffe e gioielli, stoviglie e coperte, e gli disse: «Re-sta qui intanto che vado a casa a prendere i soldi». Portò con sé tutto quello che riuscì a portare e lasciò solo il giovanotto. Dopo un po' di tempo, il commer-ciante si fece impaziente: «Dove starà tua moglie tut-to questo tempo?» chiese al giovanotto. Allora egli confessò che non era ancora sua moglie e che non la conosceva. Allora il mercante chiamò le guardie e fe-ce gettare il giovanotto in prigione.

Quella notte la sorella minore se ne andò al cimite-ro e dissotterrò un bambino appena sepolto, lo avvol-se nei panni da bebé e con questo fardello si recò di primo matt ino dal mercante. «Dov'è mio marito?» chiese al mercante. «In prigione!» rispose quest'ulti-mo. Allora la donna divenne cattiva e assalì il mer-cante, che fu costretto a difendersi. In quella la donna lasciò cadere a terra il fagotto e saltò fuori il bambi-no. Era morto. Allora la donna levò un alto grido e ac-cusò il mercante di avere ucciso il suo unico figliolo. Il mercante venne portato dal giudice e dovette paga-re il prezzo del sangue per l'ucciso. Il giovanotto ven-ne rimesso in libertà. E dal momento che la donna provava dell'attrazione per lui, se lo sposò.

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4 0 . C O M E F U C H E I L G A R Z O N E M A N G I Ò A S A Z I E T À

Dal momento che il maestro della scuola coranica passava la maggior parte del tempo nella moschea, trascorrendovi anche la notte, sua moglie si annoia-va spesso, e per questo iniziò ad avere un rapporto con un mandr iano del cascinale vicino. Una notte, però, il maestro sentì desiderio e se ne andò a casa, ma per quanto forte picchiasse alla porta, la moglie non gli aprì.

Il garzone, risvegliato dal baccano, guardò attra-verso le fessure della por ta del soggiorno, vide la moglie del maestro insieme al mandr iano e capì al volo che cosa stava succedendo. Non essendo riusci-to a entrare in casa, il maestro se ne andò nella stalla ed ebbe un rapporto con l'asina. Il garzone lo pedinò e vide tutto. La mattina, di buon'ora, mentre la don-na si accomiatava dall 'amante, il garzone la sentì di-re: «Oggi preparerò un buon pasto; fatti trovare nei pressi del campo che oggi dovrà essere arato dal no-stro garzone. Verso mezzogiorno io porterò il cibo ai bordi del campo e tu potrai mangiare con noi».

Quella matt ina la donna sgozzò una gallina gras-sa, cucinò un buon tajin e verso mezzogiorno lo portò al campo dove il garzone era intento all'aratu-ra. Anche il mari to si trovò là per tempo, e quando s tavano per accomodars i a mangia re vide il man-driano che pascolava i buoi nelle vicinanze. Allora la moglie disse al marito: «Mio caro, invitiamo anche lui, visto che è già qui!». Il maestro incaricò il garzo-ne di invitare il mandr iano a mangiare con loro, e questi vi andò. Al mandriano però disse: «Al padrone è giunta voce della tua avventura della scorsa notte, cerca di svignartela!». Ritornò quindi dai due e dis-se: «Quell'uomo non vuole venire: chi sono io per in-vitarlo a mangiare? Vuole che sia tu in persona a in-

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vitarlo a tavola». Allora il maestro si alzò e si diresse verso il mandr iano, ma questi si al lontanò rapida-mente e il maestro prese a corrergli dietro.

Quando la donna ebbe visto ciò, il garzone le dis-se: «Guarda guarda, sta inseguendo il tuo amante! Sicuramente sa tutto su quello che hai fatto la notte scorsa». Allora la donna si impaurì e tornò in fretta a casa. Quando il maes t ro fu di r i torno senza avere concluso nulla e chiese al garzone dove fosse sua moglie, questi rispose: «Tua moglie ti ha osservato ques ta not te nella stalla, e adesso non vuole più mangiare con te». Allora il maestro corse via per la vergogna e il garzone potè mangiare con gusto la gallina grassa e l 'ottimo tajin.

4 1 . L ' A D U L T E R I O

Un uomo e una donna fecero un patto di alleanza e si diedero la parola d'onore di essersi fedeli. Chi dei due fosse per p r imo venuto meno a ques to pa t to avrebbe dovuto lasciare per sempre i l paese. Per molti anni entrambi mantennero la loro promessa, finché un giorno l 'uomo commise una mancanza e dovette andarsene via.

L'uomo vagò sulla terra in lungo e in largo, come impazzito. Un giorno, ment re stava per recitare la sua preghiera su una pietra piatta, la pietra prese a t r emare e a scuotersi , facendolo cadere. Più tardi l 'uomo si distese sulla pietra per dormire, ma anche questa volta la pietra prese a scuotersi fino a farlo cadere. Quella stessa sera egli vide in lon tananza una luce che sembrava provenire da un focolare; si avviò allora in quella direzione, ma la s trada sem-brava non finire mai. Fu solo nel cuore della notte che egli riuscì a raggiungere la lucina. Essa proveni-

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va da una grande caverna sprangata da una grata di ferro. Dietro alla grata si trovava quello che sembra-va un essere umano. Costui chiese all'uomo: «Sei un uomo o un jinn?».

L'uomo rispose: «Un uomo». «Sei venuto m e n o a un patto?» proseguì quello

nella caverna. «L'hai detto» rispose l 'uomo stupefatto. «Come lo

sai?» Ma colui che si trovava dietro la grata non rispose

e si l imitò a chiedere: «Uomini e donne vanno già promiscuamente al mercato?».

«No» disse l 'uomo. «Uomini e donne ballano già insieme alle feste?» «No» disse l 'uomo. «Gli uomini ciarlano e spettegolano già nelle case

di preghiera quando hanno terminato le preghiere?» «No, questo no!» disse l 'uomo. «Allora devo ancora aspettare pr ima di essere libe-

rato» disse lo spirito.

4 2 . L A B E L L A D O N N A

Un giovane pescatore vide un giorno sulla sua strada una donna bellissima. Gli apparve così bella che cre-dette non ne potesse esistere al mondo un'altra simi-le. Dal momento che essa gli sorrideva ammiccando, si mise a seguirla come rapito. Giunsero a una gran-de casa, che era circondata da un fastoso giardino. Quando essa vi entrò, il giovane le andò dietro, come se fosse ammaliato. Entrati che furono, essa gli dis-se: «Non vuoi chiedermi nulla?». «Sì» rispose il gio-vane, poi le chiese: «Chi è tuo marito?». La donna ri-spose: «Egli mi ha donato questa casa ed è partito. Ri tornerà solo q u a n d o sarò mor ta . Non a b b i a m o

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quindi nulla da temere da parte sua. Vieni, spoglia-mi e abbracciami!». Allora il giovane cominciò a fare ciò che essa desiderava da lui, e quando l'ebbe spo-gliata udì all 'improvviso un forte rumore di tuono. Allora la donna fu colta dal terrore e disse: «Mio ma-rito è tornato adesso». Quando la porta si spalancò ed entrò un servo, la donna morì di paura. A questo punto, vedendo che la donna era morta, il giovane si vergognò e si pent ì di essersi denuda to per causa sua. Il servo gli chiese: «Hai posseduto la donna?». Il giovane rispose: «No». Allora il servo ribatté: «Scegli tu la tua condanna!». Il giovane fu assalito dal terro-re e supplicò il servo: «Lasciami in vita!». Il servo ri-spose: «Hai scelto tu stesso la tua condanna. Vivrai per sempre e nel tuo petto arderà sempre il desiderio d i ques ta d o n n a che non hai po tu to appagare!». Quindi chiuse la porta e lasciò solo il giovane.

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Storie di animali

4 3 . L A M U C C A D E I D U E O R F A N E L L I

C'era una volta un cacciatore, che non avendo avuto figli dalla moglie, ne sposò una seconda, che gli par-torì due figli. Purtroppo, però, questa seconda mo-glie morì ed egli rimase con la pr ima che, invidiosa dei due bambini cercava ogni pretesto per sbaraz-zarsene. Un giorno il mari to andò a caccia e tornò con due sole pernici. La moglie gli disse: «Mio caro, queste due pernici non sono sufficienti per tutti; devi deciderti a liberarti di queste bocche in più». Alla fi-ne il marito cedette. Condusse i due fanciulli nel bo-sco, portandosi dietro una buona mucca da latte, in modo che i piccoli potessero nutrirsi . Quindi disse loro: «Pascolate qui la mucca finché sarà diventata bella grassa. Quando il grasso le uscirà dalle narici, pot re te sgozzarla». E con ques te parole li abban-donò.

I due fratelli sorvegliarono la mucca e ne bevvero il latte, crescendo così sani e robusti. Ma la mucca non ingrassava. Un giorno chiesero consiglio a un corvo. Il corvo disse loro: «Piangete in questa cavità della roccia, e io vi farò bagnare i miei piccoli. Per ringraziarvi, vi darò l 'opportunità di sgozzare la vo-stra mucca». I b imbi piansero e r iempirono con le loro lacrime la cavità della roccia, in modo che il corvo vi potè immergere i suoi piccoli. Quindi il cor-vo volò f ino al macello, prese nel becco un po' di

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grasso e lo spalmò intorno alle narici della mucca. Quando i fanciulli videro ciò, presero un coltello e uccisero la mucca. Le tirarono via la pelle e suddivi-sero la carne in quattro parti.

Attirato dall'odore di sangue fresco, si fece avanti un leone e pretese la sua parte. Dapprima gli lancia-rono la testa della mucca, ma il leone non si accon-tentò. Allora gli lanciarono una parte della carne, ma il leone ne voleva ancora. Gli gettarono la seconda parte, e quando il leone ne richiese ancora, anche la terza e infine la quarta parte della carne. «Ne voglio ancora!» ruggì il leone. «È rimasta solo la pelle» ri-sposero i fanciulli. «Date qua!» ordinò il leone, ed es-si gliela lanciarono. «Ne voglio ancora!» gridò il leo-ne pe r tu t ta r isposta . «Che cosa res ta ancora?» «Siamo rimasti soltanto noi due» risposero i ragazzi. «Allora scannatevi!» comandò il leone. «Il più forte mi get terà il perdente!» Ma i due fratell i e rano di uguale forza, per cui lo t tarono a lungo e alla fine caddero ambedue esausti ai piedi del leone. Il leone li infilò nella pelle della mucca, la richiuse con un nodo e se ne andò, lasciandoli sul bordo di una stra-da che portava al mercato.

Passò di lì per pr imo un cammello, che udì i fan-ciulli gridare: «Aiuto, t irateci fuori!». Il cammello chiese: «Chi vi ha rinchiusi lì dentro?». «Il leone» ri-sposero quelli. «Allora non posso aiutarvi, perché nessuno può mettersi contro il leone.» Passò poi per quella strada un mulo, e di nuovo i bimbi gridarono: «Aiuto, tirateci fuori!». Il mulo fece la stessa doman-da e anche lui si rifiutò. Anche un asino di passaggio non volle aiutarli per paura del leone. Invece il riccio non ebbe esitazioni. Fece fermare la gallina che sta-va cavalcando e, sentita la storia dei due sventurati, eccolo estrarre la sua sciabola, squarciare la pelle e liberare i fanciulli, proseguendo poi per la sua via.

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Quando il leone ritornò e trovò la pelle vuota, chie-se a tutti gli animali chi fosse stato a liberare i fanciul-li. Il cammello, il mulo e l'asino negarono di averlo fatto, mentre il riccio ammise con orgoglio la sua im-presa. «Ti sfido a combattermi!» disse al leone.

Il leone raccolse intorno a sé tutti i grandi animali e li dispose in un mucchio per la battaglia. Il riccio prese con sé le api, le vespe, le zanzare e altre bestio-line che pungono, e le tenne nascoste. Quando iniziò la battaglia, il riccio gridò: «Voi zanzare, attaccate le loro orecchie!» e poi alle vespe: «Pungeteli!» e lo stesso fece con le altre bestiole. Allora tutti i grossi animali fuggirono, e il leone balzò per pr imo nel suo covo. Ma il riccio lo inseguì. Prese una p iuma della gallina che cavalcava e la piantò davanti alla tana del leone. Tutte le volte che il leone guardava fuori, ve-deva la piuma e pensava che il riccio fosse ancora lì. E dal momento che non si fidava a uscire, morì di fame.

4 4 . IL R I C C I O E LO S C I A C A L L O

Il riccio ha fama di essere l 'animale più saggio, e per questo nel mondo animale svolge la funzione di giu-dice. Un giorno il riccio e lo sciacallo, andando a spasso, giunsero davanti a un giardino dove cresceva-no frutti dolcissimi. Trovarono un piccolo passaggio nella siepe e si introdussero nel giardino. Qui si mise-ro a mangiare i frutti più dolci, ma il riccio, saggia-mente, sapeva che non bisognava mangiare troppo.

Scivolò di nuovo fuor i dal buco nella siepe e chiamò lo sciacallo, ma questi non cessò di mangia-re fino a che fu diventato così grasso da non passare più attraverso la siepe.

Allora prese a lamentarsi , perché aveva paura di

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essere acchiappato l ' indomani dal padrone. «Signor riccio,» implorò «aiutami in ques ta s i tuazione di emergenza!» E il riccio gli disse: «Quando arriverà il padrone, domatt ina presto, gettati per terra e fa' fin-ta di essere morto. Vedrai che l 'uomo ti butterà fuori dalla siepe». E difatti così avvenne.

4 5 . C O S Ì V A I L M O N D O

Si racconta che il riccio incontrò lo sciacallo e gli rivolse la parola: «Buongiorno, dove stai andando?». «A cercar fortuna» rispose lo sciacallo. Camminaro-no insieme per un po' e giunsero a un pozzo. Dalla carrucola pendeva una corda con due secchi all'estre-mità per attingere acqua.

Tutti e due avevano sete e volevano bere. Rapido, il riccio saltò in un secchio e si lasciò calare nel poz-zo. Dopo che ebbe bevuto, gridò: «Qui ci sono otto pecore con i loro agnellini!». Allora lo sciacallo, gri-dando: «Aspetta! Vengo giù anch'io!», balzò nell'al-tro secchio e precipi tò in fondo al pozzo, facendo contemporaneamente risalire il riccio in superficie. Qui giunto, uscì dal secchio e guardò giù.

«Ma che succede?» chiese stupito lo sciacallo. Il riccio rispose: «Così va il mondo, c'è chi scende e c'è chi sale».

4 6 . LA F I G L I A S T R A E IL R I C C I O

C'era una volta una donna che aveva una figliastra. Un giorno il padre della ragazza volle partire per il pellegrinaggio: lasciò quindi alla moglie provviste per un anno, mais e altri generi al imentari . Aveva calcolato tut to come si deve. Dopodiché si mise in

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viaggio. Un giorno la moglie stese al sole il mais sul terrazzo e vi lasciò la figlia dicendole di sorvegliarlo. Ma appena la donna se ne fu andata, la ragazza si mise a guardare in aria; vennero due galline e si por-tarono via tutto il mais. Al suo ritorno, la donna ba-stonò la figliastra fino a lasciarla tramortita. Dopo-diché la scacciò dal suo tetto.

Arrivò un leone e si portò via la ragazza; la legò a un albero vicino alla strada. Diversi animali passaro-no di lì andando al mercato. Capitò per pr ima una pecora, cui la fanciulla disse: «Per l 'amor di Dio, pe-cora, liberami da questi legami!». La pecora chiese: «Chi ti ha legata in questo modo?». «Il leone!» rispo-se la ragazza. «No, con lui di mezzo non posso intro-mettermi.» Passò poi un cane. Anche lui rispose allo stesso modo. Arrivò quindi un cammello, che ebbe le stesse parole. E lo stesso risposero un bue, uno scia-callo e un levriero.

Dopo che fu rono passati tutt i questi animali , da ultimo sopraggiunse un riccio. Cavalcava una galli-na. Aveva una staffa di maiolica, una sella di sterco di cavallo e come redini un cordino. La fanciulla gli disse: «Per l 'amor di Dio, riccio, liberami dai legami che mi avvincono!».

«Chi ti ha legata qui?» «È stato il leone.» Allora il r iccio esclamò: «Ah, ah! Legandot i in

questo modo ha mostrato di essere un vigliacco!». E così dicendo il riccio liberò la fanciulla, che se ne potè andare.

Il riccio proseguì la sua strada fino al mercato; ma quando il leone giunse al luogo in cui aveva lasciato la fanciulla, vide che essa non c'era più. Si sedette al bordo della strada a osservare gli altri animali. A tut-ti quelli che passavano, domandava: «Sei tu che hai slegato la ragazza?». Uno dopo l'altro, tutti gli ani-

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mali risposero: «No!». Quando, per ultimo, arrivò il riccio e il leone gli gridò: «Sei tu che hai slegato la ragazza, palla del demonio?», il riccio rispose: «Che c'è di tanto importante? Sì, sono io che l'ho slega-ta!». Allora il leone esclamò: «Oh, che cosa potrei fa-re da solo contro questa palla del demonio! Sì, se tu non fossi un esserino così buffo ti si potrebbe ingoia-re senza neanche toccarti con le zanne!».

Il riccio replicò: «Se è così, e se hai veramente co-raggio, prova a ingoiarmi senza neanche toccarmi con le zanne!».

Allora il leone lo afferrò e lo ingoiò; ma il riccio gli r imase incas t ra to in gola e lo pungeva con i suoi aculei andando su e giù. Il leone disse: «Per l 'amor di Dio, per l 'amor di Dio, salta fuori!». Il riccio disse: «Promettimi solennemente davanti a Dio che non mi divorerai se salto fuori e che non mi afferrerai con le tue zanne!». Il leone promise: «Se vieni fuori non ti azzannerò e non ti divorerò». Allora il riccio si lasciò sputare fuori, e quando il leone lo ebbe risputato gli disse: «Orbene! Raduna le tue t ruppe e io radunerò le mie; quindi ci faremo guerra!».

A questo punto il leone chiamò dalla sua tutti gli animali del mondo. Il riccio invece strappò dal terre-no s toppie legnose e le accatas tò in un mucch io grande come una montagna. Il leone andò alla testa delle sue truppe e gridò al riccio: «Scendi nella pia-nura! Dobbiamo combattere!». Ma il riccio rispose: «Sali tu sulle alture!». «Sei riuscito a procurarti delle truppe?» chiese il leone. «Sì!» rispose il riccio. «Allo-ra fa' vedere alla gente chi sono i tuoi!» disse il leone.

A questo p u n t o il riccio chiese al l 'Onnipotente: «Mandami, ti prego, un po' di vento!». Allah gli inviò del vento. Allora un truciolo legnoso andò a finire nel dere tano di ognuno degli an imal i avversari, e

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tutti fuggirono. In questo modo il riccio sconfìsse i suoi avversari. Salute a tutti!

4 7 . L A T A R T A R U G A

Un giorno la tartaruga se ne andava a spasso cantic-chiando. Un falco la udì, la afferrò, la portò in alto nel cielo e la lasciò cadere. Allora la tartaruga disse: «Ecco come vanno le cose, cara mia, uno non vuole tener chiusa la bocca, e la bocca chiude lui (cioè la sua vita)!».

La udì un uomo ed esclamò: «Che meraviglia, ad-di r i t tura una t a r t a ruga che parla!». La prese, la portò dal re e gliela donò, dicendogli: «Mio signore, questa è una tartaruga parlante!». Il re gli disse: «Al-lora f a m m i vedere come fa a parlare!». L'uomo si diede da fare con lei dicendole: «Parla, tartaruga!». Ma la tartaruga si rifiutò di parlare. Lui le disse: «Di' quello che hai detto quando ti ho trovata in campa-gna!». Ma lei si rifiutò di parlare. Allora il re disse: «Prendetelo e tagliategli la testa! Non è ancora nato chi riesce a prendersi gioco di me mentre io sono an-cora vivo». Allora lo presero e gli tagliarono la testa.

4 8 . D A D O V E V E N G O N O L E C I C O G N E

Nei tempi antichi viveva il cadì di una grande città in cui amministrava il diritto. Ciò gli aveva procurato sempre lauti guadagni. Un anno non piovve per tutto l'inverno e i contadini non poterono coltivare i loro campi. Quando, intaccate le provviste di grano per il pane, gli abitanti della città cominciarono a soffrire la fame, si recarono dal loro cadì i cui magazzini erano pieni di grano. Essi gli dissero: «Che Allah ci

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salvi! Vendici un po' di grano!». Il cadì rispose: «Va bene, tornate domani e ne dis tr ibuirò una par te a ciascuno!».

Dopo che la gente se ne fu andata, egli ordinò ai suoi servitori di portare il grano nella stanza supe-riore e di appendervi una bilancia. Questa stanza so-praelevata dava su due scale: una per la salita e una per la discesa. Nella not te il cadì prese un grosso pezzo di sapone e lo spalmò sui gradini della scala di discesa. Il g iorno dopo giunsero gli abi tant i della città e salirono la scala che non era stata insaponata. Nella stanza venne loro distribuito il grano, essi lo pagarono e se ne andarono via caricandosi i sacchi sulle spalle. Ma nello scendere la scala insaponata scivolarono e caddero a terra.

Allora il cadì proruppe in sonore risate. Ma Dio lo trasformò in una cicogna con una camicia bianca e una mantellina nera.

49 . P E R C H É G L I A S I N I H A N N O I L M U S O B I A N C O

L'asino è molto paziente, lo si può caricare fino a far traboccare le some e lui sopporta tutto. Ci si rende conto di quanto si pretende dall 'asino solo quando schiatta, e allora vuol dire che era troppo. I maggiori dolori gli asini li subiscono a opera dei bambin i , quando vengono portati al pascolo. I bambini per-cuotono l'asino con i bastoni e gli t irano pietre, gli saltano in groppa e si fanno trasportare in cinque al-la volta. Pazientemente, egli li lascia fare.

Un giorno alcuni angeli dissero al Signore dei mondi: «O Signore, osserva l'asino, è l ' immagine del-la pazienza e della resistenza! Non avrebbe diri t to anche lui al Paradiso?». «Sì,» disse il Signore «con-ducetelo qui!» Allora gli angeli andarono dall'asino,

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lo presero e lo trasportarono all'ingresso del Paradi-so. Volevano spingerlo dentro, ma l 'asino, appena messo dentro il muso con circospezione, vide il gran numero di bambini che c'era all'interno e non volle più andare avanti. Era troppa la paura dei bambini, che lo avevano sempre maltrattato. Gli angeli cerca-rono dappr ima di convincere l 'asino con le buone, poi con la forza, ma non ci fu modo di smuoverlo di lì. Allora gli angeli r iportarono l'asino al pascolo. Ma siccome aveva infilato il muso nel Paradiso, e questo era stato illuminato dalla luce divina, ora l'asino ave-va il muso bianco. E da allora tutti gli asini hanno il muso bianco.

50 . C O M E S I O R I G I N A N O L E C A V A L L E T T E

Laggiù nel mare vive un mostro gigantesco, che vie-ne chiamato balena. Alcuni marinai raccontano che una simile balena può ingoiare un'intera nave; nella pancia della balena è buio pesto e per questo i mari-nai accendono un fuoco. La balena non può soppor-tarlo e sputa fuori la nave.

Un giorno Giona, il profeta di Dio, venne ingoiato da una balena. Egli predicò nel ventre del mostro e grazie a ciò esso divenne pacifico e r isputò Giona. Nel luogo in cui egli toccò terra, nei pressi dell'odier-na rìbat di Massa, alla foce del f iume Massa, si co-struì una cella e santificò tutto il territorio. Qui vi fu per molto tempo un santuario, costruito interamen-te di costole di balena, perché in questo luogo vanno ad arenarsi molte balene morte. Il meglio delle bale-ne è l 'ambra, che si trova nei loro intestini. Questa sos tanza preziosa, che si conserva per molt i anni senza irrancidire, serve per la fabbricazione di pro-fumi. I pescatori di quel tratto di costa sezionano le

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carcasse delle balene, prendono l 'ambra e la riven-dono a caro prezzo, arricchendosi. Essi raccontano che le balene, quando sono vecchie e sentono prossi-ma la morte, nuo tano fino in mare aperto, dove si trova una p ianta particolare. Ne mangiano perché sanno che essa provoca stitichezza, dopodiché van-no ad arenarsi a terra e muoiono. Lo dice l ' ambra che è nel loro corpo.

Quando i pescatori hanno fatto a pezzi la balena mor ta e ne hanno estratto l 'ambra, dalla carne del mostro fuoriescono tantissimi vermi, che crescono sempre più fino a diventare cavallette. Le cavallette diventano sciami e si precipitano su campi e orti e divorano tutte le piante che trovano. Allora accorro-no in folla i contadini e raccolgono le cavallette, le salano e le vendono in grande quanti tà come nutri-mento per la gente.

Nei primi secoli, i re pagavano una rendita mensi-le a quella tribù del Sus che è stanziata alla foce del f iume Massa per il servizio che rendeva loro: questa gente bruciava le balene morte, in modo che non po-tessero uscirne cavallette che avrebbero spogliato il territorio. Ma da quando il re non paga più per il so-s t en tamen to di ques ta t r ibù, anche i suoi uomin i non bruciano più le balene, e da allora si verificano spesso invasioni di cavallette. Queste bestie sono co-sì numerose e voraci da arrivare f ino alle m u r a di Rabat, scavalcare le mura e penetrare nelle case più vicine. Sui campi e nei vigneti divorano tutto fino a lasciarli spogli e non vi è preghiera o lettura del Co-rano che vi si opponga, perché quando Allah ha de-ciso, va fino in fondo.

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L'inizio e la fine del mondo: storie mistiche

51 . G L I I N I Z I D E L M O N D O

Dopo che Allah ebbe creato il mondo, volle creare anche gli uomini. Inviò allora il suo angelo predilet-to, Iblis, a prendere una manciata di terra da ogni regione. Iblis le portò ad Allah e con esse Allah mo-dellò il pr imo uomo, Adamo, padre di tutti gli uma-ni. La sua compagna, Hawa (Eva), madre di tutti gli umani , la fece dal fianco sinistro di Adamo.

Mentre il blocco di argilla giaceva ancora inani-mato, l'angelo Iblis gli girava intorno domandandosi che t ipo di c rea tura ne sarebbe venuta fuori . Con estrema cautela girò quaranta volte intorno al bloc-co di argilla senza arrischiarsi a toccarlo. Solo una volta tastò leggermente col suo bastone al centro del blocco, ed è così che si è originato l'ombelico.

Quando Allah diede ordine allo spiri to vitale di trasferirsi nel blocco di argilla, questo si ritrasse spa-ventato. Allora Allah gli disse: «Tu devi entrarci rapi-damente e senza titubanze, e altrettanto rapidamen-te dovrai anche to rna r t ene fuor i q u a n d o io t i richiamerò». (La seconda parte si riferisce alla mor-te degli uomini.)

Dopo che i due esseri umani ebbero ottenuto la vi-ta, presero ad andare di qua e di là per il giardino, godendo dei suoi frutti . Allora Allah radunò tutte le creature spirituali e mostrò loro la nuova creatura, l 'uomo. Allah pretese da tutte le creature spirituali

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che lo adorassero, e la maggior parte degli angeli e dei jinn obbedirono al suo ordine, t ranne Iblis con la sua schiera. Egli disse ad Allah: «Mio signore, tu hai creato questo essere con la terra. Io però sono mi-gliore di lui, perché tu mi hai creato con il fuoco».

Allora Allah disse: «E allora tu ritornerai a essere fuoco!». «E sia,» acconsent ì Iblis «ma permet t imi una richiesta: dammi i figli di questi due, che mi ac-compagnino nel fuoco!» Allora Allah disse: «Quelli dei loro figli che vorranno seguirti, potranno venire con te».

Adamo e Hawa vissero a lungo felici nel giardino dell'Eden. La prima cosa che essi videro nel giardino fu una grossa tavola che dal cielo veniva giù fino a terra. In cima alla tavola lessero le parole della pro-fessione di fede islamica: "Non vi è Dio all 'infuori di Allah e Maometto è il suo inviato e profeta". Sotto di essa erano messi per iscritto tutti gli avvenimenti de-gli uomini futuri, anche se non sotto forma di giudi-zio emesso in modo irrevocabile, bensì tracciati in modo leggero, come su una lavagna di scuola, su cui è possibile cancellare quello che è stato scritto. Così Allah può cancel lare ques ta o quell 'al tra f rase se l 'uomo non si mostra degno del proprio destino. Ma se qualcuno lo trasgredisce, egli non scrive subito un nuovo destino per l 'uomo, perché Allah è longanime. Solo dopo secoli o millenni Allah cancella la frase e ne scrive sulla tavola una nuova, meno favorevole.

Gli angeli possono sempre vedere questa faccia della tavola, e così pure alcuni santi cui ciò è conces-so. Ma il retro della tavola nessuno l'ha mai visto, e solo Allah sa cosa vi ha scritto.

E Allah mise in guardia Adamo e Hawa nei con-fronti dell'angelo Iblis, che non gli si era sottomesso. «Egli vi sarà sempre nemico, non seguitelo!» Adamo e Hawa vivevano senza preoccupazioni nel giardino e

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non mancava loro nulla; solo di un albero non pote-vano mangiare, perché era il pr imo albero che Allah aveva posto nel Paradiso. Un giorno Iblis disse ad Adamo: «O Adamo, ti voglio mostrare l'albero della vita, se tu mangerai dei suoi frutti diventerai onni-sciente come gli angeli e vivrai in eterno». Ma Adamo pensò al divieto di Allah e rifiutò con decisione.

Allora Iblis andò da Hawa e cercò di persuaderla a mangiare una mela del primo albero, ma anche lei ri-fiutò. Allora Iblis ricorse a un'astuzia. Mise uno spec-chio davanti al viso di Hawa e le chiese: «Conosci questa donna?». Hawa era stupefatta: non aveva mai visto il proprio viso e non sapeva di essere sempre lei. Credette che oltre a lei nel Paradiso ci fosse un'altra donna. Allora Iblis proseguì: «Vedi com'è bella questa donna. Sicuramente un giorno Adamo la vedrà e la prenderà in moglie e si dimenticherà di te». Allora Hawa ebbe paura e chiese un consiglio a Iblis. Egli disse: «Se tu mangi di quell'albero e dai da mangiare anche ad Adamo di quella mela, egli non potrà mai più dimenticarsi di te né prendere alcun'altra mo-glie».

Allora Hawa prese una mela di quell'albero, andò da Adamo e gli offrì di mangiarne, dandovi nel frat-tempo un morso deciso lei stessa e dicendo quant 'era buono il suo sapore. Allora anche Adamo vi diede un morso, ma il pezzo gli rimase conficcato in gola.

Da allora tutti gli uomini hanno il pomo di Ada-mo. Il pezzo mangiato da Hawa, invece, le passò at-traverso il corpo e tornò fuori come sangue dal suo sesso, ed è per questo che le donne hanno un flusso di sangue tutti i mesi.

A quel tempo erano ancora completamente nudi; ora cominciarono a provare vergogna e si rivestiro-no. Allora Allah mandò un angelo e li fece scacciare

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dal giardino. Egli disse: «Andate via di qui e siate estranei l 'uno all'altra!».

Fu così che Adamo e Hawa dovettero lasciare il g iardino e presero a errare , s epa ra t amen te l 'uno dall'altra, per la vasta terra. Adamo viveva in quella parte del mondo che oggi si chiama Asia e Hawa in quell'altra che oggi si chiama Africa. Per questo essi non si potevano incontrare, per quanto chiamassero e cercassero e interrogassero tutt i gli animal i e le piante. Si trovarono a essere più vicini quando pas-sarono a vagare in quel territorio che costituisce il collegamento tra i due continenti. Tuttavia non pote-rono ancora incontrarsi finché un giorno Dio decise che avevano soffer to abbas tanza e che potevano nuovamente incontrarsi.

Fu per pr ima Hawa che vide Adamo, giacché essa vagava notte e giorno per il paese alla ricerca di Ada-mo, mentre quest 'ultimo andava in giro solo di gior-no, e di not te dormiva. Così una not te Hawa vide Adamo che dormiva e si nascose nei pressi sotto una roccia. Quando, la matt ina dopo, Adamo si rimise in cammino, trovò Hawa sotto la roccia e le chiese co-me fosse giunta fin lì. Ma lei disse di non essersi mai mossa da lì, e Adamo disse che questa era una bugia, perché egli era passato più volte accanto a quella roccia e non l'aveva mai vista.

Dopo qualche tempo Hawa partorì due figli, Habil e Qabil. A loro volta questi ebbero una figlia ciascu-no. Qabil voleva sposare la figlia di suo fratello e da-re a lui in sposa la propria figlia, ma Habil non vole-va sposare la figlia di suo fratel lo perché non era buona come la propr ia . Per questo Qabil uccise il fratello.

In piedi accanto al cadavere, Qabil fu preso da un grande terrore, perché fino ad allora nessun essere umano era ancora morto. Qabil non sapeva che fare

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di suo fratello. Lo prese sulle spalle e se lo tirò dietro dovunque andasse per un anno intero, cosicché il ca-davere cominciò a decomporsi e a puzzare. Allora, senza più sapere che fare si sedette e non voleva fare più nulla. Ma a questo punto Allah decise di fargli vedere un esempio. Inviò due corvi (che in real tà erano angeli), in lotta tra loro. Essi continuarono a beccarsi a vicenda con i loro forti rostri finché uno dei due cadde a te r ra mor to . Allora l 'altro corvo scavò una buca profonda, vi rinchiuse il corvo morto e vi accumulò sopra terra e pietre, trascinandole col becco. A questo punto Qabil capì che cosa si dovesse fare col cadavere del fratello, e da allora gli uomini seppelliscono i loro morti.

52. D E L L A C A D U C I T À D E I B E N I D I Q U E S T O M O N D O

Il più antico re di cui il nostro popolo si ricordi si chiamava Jedad u ben Ad. Era signore sui jinn e su-gli uomini e visse in epoche di cui si è persa la me-moria. Egli diceva: «Io non muoio!». Appoggiato al suo bastone, sedeva e amministrava la giustizia. Se ne stette lungo tempo seduto in tal modo, senza che né gli uomini né i jinn si accorgessero che era già morto. Dopo anni e anni, però, un tarlo si fece stra-da nel bastone su cui era appoggiato il re, finché es-so si spaccò e il re defunto cadde a terra. Allora i jinn e gli uomini fuggirono.

Dov'è Jedad u ben Ad? Costruì mura d'oro E mura di rame, Aveva l'argento tra sé e il suolo.

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Il trono su cui sedeva, Era d'oro puro. Ed ecco venire l'angelo della Morte: Inutili furono tutti i suoi beni!

Già da molto t empo nessuno più sapeva dove si trovasse la città di Jedad, re degli Ad. Un giorno la fama di quel principe potente giunse fino a Salomo-ne, figlio di Davide, sul suo t rono a Gerusalemme. Allora Salomone chiamò a sé tutti gli uccelli, i jinn e gli uomini, e chiese di colui che nei tempi antichi era stato signore dei jinn e degli uomini. Ma nessuno sa-peva dove fosse situata la sua città. Allora Salomone chiese: «Dov'è la vecchia aquila?», ma per mol to tempo l'aquila non venne.

Passarono nove giorni, e alla fine l 'aquila giunse in volo e disse: «O potente re Salomone, non ero po-tuta venire perché mi trovavo col mio vecchio padre nell'isola lontana in mezzo all'oceano. Mio padre ha novecento anni , è debole, cieco e senza penne. Io debbo proteggerlo dalla grande calura volandogli al di sopra e facendogli ombra. Lasciami tornare subi-to da lui!». Allora Salomone disse: «Vola da tuo pa-dre e chiedigli di Jedad, della stirpe di Ad, e dell'ubi-cazione della sua città! Poi t o rna indie t ro e riferiscimi!».

La vecchia aquila tornò rapidamente dal padre e gli pose la domanda. E questi rispose: «Io personal-mente non mi ricordo di quel sovrano, ma mio non-no, che aveva milletrecento anni quando morì, me ne parlò. Questo Jedad u ben Ad possedeva tutti i be-ni di questo mondo, e nulla era fuori dalla sua porta-ta, ma alla morte non potè sfuggire... Siamo fatti di terra, viviamo sulla terra e alla terra ri torneremo». Quindi passò a descrivere a suo figlio, la vecchia aquila, l 'ubicazione della città di Jedad. E lui tornò

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in fretta a rapporto da Salomone e si mise a volare alla testa di Salomone e del suo esercito, conducen-doli, attraverso un deserto, fino al mare. Volò in cer-chio sempre più in alto, dopodiché si lasciò cadere in picchiata come un sasso fin sulle rovine della città, facendo vedere dove era stato il luogo delle im-piccagioni, dove vi era una palma e dove giaceva il palazzo ricoperto dalla sabbia.

Tuttavia, nessuno riusciva a trovare l'ingresso del palazzo. Allora l 'Onnipotente fece soffiare a lungo un vento, pr ima il vento del nord, poi quello dell'ove-st, poi quello del sud e inf ine quello dell'est. Esso spazzò via la sabbia e mise allo scoperto un ingresso del palazzo. Quando gli uomini vi entrarono, trova-rono la sala del trono, e in essa una statua che tene-va in bocca una tavoletta d'argento su cui era scritto, in lettere "greche":

Io sono Jedad, della stirpe di Ad. Ho vissuto mille anni e ho dominato mille città, ho cavalcato mille cavalli e ucciso mille guerrieri, ho avuto mille mogli e mille figli maschi. Avevo mille saggi consiglieri, ma all'Angelo della Morte non son potuto sfuggire.

Nessuno può essere più ricco di me o più potente o vivere più a lungo di me, perciò, ascoltate il mio consiglio: la ricchezza non può esservi d'aiuto!

Il mondo è solo apparenza, e tutti i viventi periscono!

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Allora Salomone abbandonò il palazzo di Jedad con i suoi uomini e fece ritorno a casa. Una tempe-sta di sabbia ricoprì di nuovo il palazzo, e oggi nes-suno più sa dove si trovasse quella città.

53 . I L S A R T O N E L L A C I T T À F E L I C E

Dalle nostre parti viveva un tempo un povero sarto, che non aveva né moglie né figli. Era un uomo dili-gente e sobrio, che lavorava da mat t ina a sera, cu-cendo camicie e panta loni , mantel l i e caffet tani . Inoltre fungeva da muezzin e compiva sempre pun-tualmente e senza errori il suo dovere: già di pr imo mattino, quando ancora tutti dormivano, saliva sul minareto della nostra moschea e chiamava i creden-ti alla preghiera. A mezzogiorno piantava in asso il suo lavoro e saliva ancora a far risuonare il richiamo alla preghiera; e così pure nel pomeriggio, a metà del lavoro, e alla sera, quando il sole tramontava; e per finire un'ultima volta, quando la notte comincia-va a essere fonda. Così trascorsero gli anni, e il sar-to-muezzin era conosc iu to da tut t i come persona tranquilla e ammodo.

Ogni volta che saliva tutti quei gradini di pietra fi-no in cima al minareto, il sarto rivolgeva il pensiero ad Allah e si augurava, un giorno, di poter avere una moglie e una casa felice. Quindi faceva r isuonare i sette melodiosi versi del richiamo alla preghiera e ri-discendeva devotamente per eseguire la sua preghie-ra insieme agli altri uomini nella moschea.

Un giorno, però - a quanto si racconta -, il sarto, appena fatte risuonare le ultime parole del r ichiamo alla preghiera , venne a f fe r ra to dagli artigli di un grosso uccello rapace che se lo portò via volando al-to nel cielo, scavalcando montagne e deserti, e poi al

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di là del mare, fino alla riva opposta, dove l'uccello lo depose dolcemente ai margini di una bella città.

Il sarto entrò coraggiosamente nell'abitato, meravi-gliandosi della pace e tranquillità che vi regnavano. Nei bazar non si mercanteggiava e non si litigava, non si udiva nemmeno un sussurro. Gli abiti della gente erano confezionati con tessuti preziosi ed erano tutti puliti, i volti erano tutti radiosi; tutti gli uomini, gran-di e piccoli, erano felici e contenti. Il sarto era sempre più meravigliato e, quando si avvicinò ai negozi per ascoltare, cosa udì e vide? Le persone non pagavano con denaro quello che acquistavano, ma si limitavano a dire al venditore: «Preghiere alla bellezza!», mentre prendevano la merce. A seconda del valore delle merci ripetevano una o più volte questo curioso «Preghiere alla bellezza! », e ciascuno era contento così.

Il sarto si soffermò allora davanti alla bottega di un collega, lo osservò per un certo tempo e quando si fu convinto che anche costui sembrava altrettanto felice quanto gli altri abitanti di questa strana città, si fece coraggio, entrò, lo salutò e gli disse: «Anch'io sono un sarto come te e mi piacerebbe vivere in que-sta città della felicità. Non avresti del lavoro anche per me?». «Certo che sì» rispose il sarto. «Siediti qui e rallegraci, svolgi il tuo lavoro insieme a me e avrai la tua ricompensa: cinquanta preghiere alla bellezza ogni settimana.»

Il sarto si rallegrò e cominciò a lavorare insieme al collega. In breve tempo venne informato dell 'usanza di quel paese: ogni commercio e ogni lavoro veniva-no r icompensati con le parole: «Preghiere alla bel-lezza» e nessuno mancava di nulla. Vi era anche que-sto uso: q u a n d o un giovane intendeva sposarsi , bastava che andasse il giovedì sulla spiaggia. In que-sto giorno della sett imana le ragazze in età da mari-to erano solite passeggiare su e giù recando con sé

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una brocca piena d'acqua. Se un giovane trovava che una ragazza gli piaceva al punto di volerla sposare, le chiedeva un sorso d'acqua della sua brocca e rin-graziava dicendo: «Preghiere alla bellezza!» e se an-che lui piaceva alla ragazza, questa diveniva sua mo-glie e vivevano insieme.

Quando il sarto udì queste cose, non vide l'ora che giungesse il giovedì, e quel giorno si recò alla spiag-gia, cercò una bella fanciulla e le chiese dell'acqua, di-cendole: «Preghiere alla bellezza!». Lei gli porse l'ac-qua e si mostrò contenta di lui, così divennero marito e moglie e misero su una bella famiglia. Ogni giorno, dopo il lavoro, il sarto andava al mercato, comprava le cose necessarie per vivere, dopodiché tornava in fretta a casa dalla moglie ed era felice con lei.

Un giorno, al mercato vide esposto in vendita un pesce gigantesco e disse tra sé: "Che pesce magnifi-co, la sua carne bianca deve avere un ott imo sapore, e s icuramente mia moglie ne t rarrà un buon pasto abbondante" . Acquistò il pesce in cambio di "pre-ghiere alla bellezza" e se lo portò a casa. Ma quando sua moglie lo vide entrare in casa con quel pesce gi-gante, parve molto spaventata ed esclamò: «Che co-sa pensi di fare con questo pesce enorme, che può andar bene per dieci persone, mentre noi siamo solo in due!». Il sarto rispose: «L'ho preso al mercato, e mi piacerebbe che tu me lo cucinassi per il pasto». Ma la donna si fece ancora più agitata e disse: «Hai preso molto più di quanto ti spetta. Adesso non po-trai più vivere nella nostra città».

Il sarto uscì mestamente di casa, ed ecco soprag-giungere dal cielo l'uccello rapace che lo afferrò e, sorvolando il mare e valicando monti e deserti, lo ri-portò alla sua città natale. Lo depose in cima al mi-nareto, proprio dove lo aveva preso. Al sarto parve quasi di udire ancora l'eco del proprio richiamo alla

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preghiera. Scese e pregò insieme agli uomini nella moschea. Quindi ritornò nel suo negozio e riprese il lavoro, che sembrava appena abbandonato . Mesta-mente ripensò ai bei tempi nella città felice, e ogni volta che saliva sul minareto per chiamare i credenti alla preghiera sperava di r ivedere l 'uccello rapace che un giorno lo aveva po r t a to via. Ma esso non tornò mai più. Questo è ciò che mi hanno raccontato gli abitanti della mia città, e solo Allah, l 'Onnipoten-te, conosce tutti i miracoli e sa che cosa c'è di vero.

54 . A A T I A L L A H

Ai tempi antichi vivevano in un paese lontano tre uo-mini, fumator i di hashish.

Il re di questo paese era un t i ranno e aveva proibi-to a chiunque di circolare in città dopo il t ramonto. Egli, invece, ogni notte andava in giro, insieme al suo visir, nei vicoli deserti della città, per controllare che la gente obbedisse ai suoi ordini.

Una notte avvenne che i due notassero in un vico-lo una luce che fil trava at t raverso le fessure della porta di un negozio. Allora il re disse al visir: «Voglio entrare qui e vedere che cosa succede in questo ne-gozio».

Il visir bussò alla porta, e quando questa fu aperta disse: «Veniamo da lontano; potete accoglierci per questa notte? Ce ne ripart iremo domani al levar del sole». Uno dei tre fumator i di hashish che erano se-duti nel negozio disse: «Siate i benvenuti! Siete ospi-ti di Dio».

Quando vennero portati i narghilè, gli uomini co-minciarono a fumare . I tre par larono di molteplici cose e alla fine il discorso cadde sulla città e sul suo re. Il p r imo disse: «Oh, se il re mi desse in moglie

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sua figlia, e inoltre un cavallo carico di doni prezio-si, potrei proprio considerarmi fortunato e lasciare il paese».

Il secondo disse: «Non dimenticare che anche il visir ha una bella figliola. Se mi desse lui la figlia in sposa, e insieme un cavallo carico di doni preziosi, anch'io lascerei il paese».

Il terzo invece disse loro: «Io non bramo nulla del-le ricchezze del re. Non vi è vero re al di fuori di Al-lah, e io mi accontento di ciò che Egli, mio creatore, mi dona». Dopodiché passarono a parlare di altri ar-gomenti ancora, finché l'hashish ebbe fatto il suo ef-fetto e i tre si furono addormentati .

Allora il re e il visir lasciarono il negozio e nell'usci-re fecero un segno di riconoscimento sulla porta. La matt ina dopo fecero convocare i tre uomini al palaz-zo e li interrogarono, ma essi non erano in grado di ri-cordare quello che avevano detto la sera precedente. Il re e il visir ebbero un bell'insistere nel dire che gli uomini avevano desiderato il matr imonio con la fi-glia del re e con quella del visir, ma senza successo.

Allora il visir propose di far portare dei narghilè, e quando gli uomini ebbero ripreso a fumare , tornò loro la memoria . Il p r imo a f fe rmò di desiderare il matr imonio con la figlia del re, il secondo ammise di desiderare il ma t r imonio con la figlia del visir e il terzo confessò di non bramare alcunché da parte di chicchessia al di fuori di Allah, l 'Onnipotente.

Allora il re stabilì la dote di sua figlia e la diede in sposa al primo fumatore, fu quindi il visir che stabilì la dote della figlia e la diede in sposa al secondo fu-matore; dopodiché il re si rivolse al terzo e diede or-dine di decapitarlo sulla pubblica piazza, dicendo: «Per vedere se Allah ti può salvare!».

Aatiallah (che vuole dire "Dio mi ha dato" ed era il nome del terzo) venne gettato in prigione in attesa

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del giorno del mercato, quando sarebbe stato giusti-ziato. Giunto il giorno dell'esecuzione, Aatiallah ven-ne condotto per le vie della città, in modo che tutti gli abitanti potessero schernirlo, come era consuetu-dine. Alla fine gli fu chiesto se avesse un desiderio, e Aatiallah rispose che voleva pregare Dio nella mo-schea. Ciò gli fu concesso, ma vennero collocate del-le guardie davanti alla por ta per evitare eventuali tentativi di fuga.

Mentre Aatiallah pregava, si aprì una fessura nella parete. Aatiallah vi entrò e si nascose alla vista delle guardie; cercò quindi la salvezza nella fuga e abban-donò il paese.

Anche i suoi due amici lasciarono il paese con le loro mogli. Viaggiavano di giorno e dormivano di notte. Un giorno incontrarono Aatiallah e festeggia-rono con lui l'incontro. Poi gli proposero di entrare al loro servizio, prendendosi cura dei loro cavalli e conducendo i cammelli delle loro spose. Aatiallah accettò la loro proposta a condizione di non essere r icompensato con oro o argento; si sarebbe accon-tentato del cibo e delle bevande che gli avrebbero da-to. Gli amici aderirono alla sua richiesta.

Un giorno la comitiva a cavallo si fermò a riposare all 'ombra di una collina. Le due donne avevano sete, e così i loro mariti part irono alla ricerca dell'acqua e le lasciarono in custodia ad Aatiallah. L'attesa si pro-trasse a lungo, ma i due uomini non ritornavano an-cora. Allora Aatiallah decise di andare a cercarli. Do-po un po' di t empo l i t rovò che giacevano mor t i presso una fonte e capì che l 'acqua di quella fonte era avvelenata. Seppellì là i due uomini e fece ritor-no mestamente dalle due donne, cui raccontò quello che era successo.

La figlia del re e quella del visir p iansero i loro sposi, ma la presenza di Aatiallah leniva le loro pene.

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L'orgoglio impediva loro di fare ritorno nel regno, e dal momento che anche Aatiallah non poteva torna-re, per t imore della punizione del re, proseguirono insieme il cammino.

Una sera giunsero in un luogo i cui abitanti li indi-rizzarono a un vecchio castello abbandonato. Que-sto castello era incantato, e nessuno era ancora riu-scito a trascorrervi una notte ed essere ancora vivo al matt ino. Ma Aatiallah non aveva scelta. Portò le due donne in una stanza, in cui potevano trovare po-sto insieme alle loro cose, e scese quindi in cantina per mettersi a dormire. Ma mentre scendeva la sca-la, un vecchio dalla barba bianca lo fermò. Era un ifrit travestito da essere umano, che chiese ad Aatial-lah: «Sei tu Aatiallah?».

«Sì, sono io.» «Io sono il gua rd iano di ques to castello» disse

l ' i frit «e da anni sto at tendendo te. Tutti coloro che pernottano in questo castello muoiono. Così ha vo-luto il loro destino. Nessuno al di fuori di te è desti-nato a essere il padrone di questo castello.»

Allora il vecchio ifrit fece visitare il castello ad Aa-tial lah e gli fece vedere che la can t ina conteneva ogni ben di Dio: vi e rano dozzine di s tanze piene all'inverosimile di orzo, olive, fichi secchi, chicchi di f rumento e fagioli alternate ad altre stanze ricolme di oro e pietre preziose. E l'ifrit disse che tutto que-sto sarebbe appartenuto a lui, Aatiallah. Aatiallah ne fu assai lieto e ringraziò Allah per tutti questi beni.

La matt ina dopo gli abitanti del luogo erano radu-nati davanti alla porta del castello e at tendevano il levar del sole per entrare a prendere i corpi degli in-cauti e seppellirli. Quale non fu la loro meraviglia quando videro Aatiallah uscire vivo e vegeto dal ca-stello.

Poi Aatiallah distribuì ai poveri denaro e cibarie.

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Gli abitanti del luogo lodarono Dio e la sua bontà e saggezza. Passarono gli anni. Nel paese il cui re era s ta to t ra t ta to così male da Aatiallah scoppiò una grande carestia. Allora il re propose al visir di pren-dere cento cammelli e andare alla ricerca di grano per nutrire il suo popolo minacciato dalla morte per inedia. La carestia si era diffusa in tutto il paese. Al-lora il re e il visir si misero in viaggio. Dopo molti giorni g iunsero nel luogo in cui viveva Aatiallah. Quando ebbero chiesto agli abitanti se lì fosse possi-bile acquistare cento carichi di cammello di frumen-to, questi li indirizzarono al castello di Aatiallah.

Il re bussò alla porta e Aatiallah venne ad aprire di persona. Riconobbe il re e il visir e li invitò a entra-re, mentre questi non lo riconobbero. Egli propose loro di trattenersi da lui quella notte e di riposarsi pr ima di riprendere il viaggio. I due accettarono l'in-vito.

Prima di mettersi a tavola con i suoi ospiti, Aatial-lah vietò alle mogli dei suoi due amici di entrare nella sala, perché non dovevano vedere i nuovi venuti. Do-po il pasto, egli batté le mani per far sì che esse recas-sero dei dolciumi.

Non appena ebbe bat tu to le mani , le due donne entrarono. Quando il loro sguardo cadde sul re e sul visir, i dolc iumi scivolarono loro via di mano , e ognuna delle due si precipitò t ra le braccia del ri-spettivo genitore raccontandogli quello che era acca-duto. Allora anche il re e il visir r iconobbero Aatial-lah e gli chiesero perdono. Le porte del reame erano aperte per lui, diceva il re, che gli offriva il trono e il regno. Ma Aatiallah prefer ì vivere in pace in quel luogo in cui tutti gli abitanti lo amavano.

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5 5 . 1 D U E F R A T E L L I

Vivevano un tempo due fratelli, uno assai ricco e l'al-tro invece povero. Il fratello ricco coglieva ogni occa-sione per denigrare il fratello nei discorsi con i com-paesani, cosicché la differenza appariva ancora più marcata. La moglie del povero ne era molto sconten-ta e domandava sempre dove fosse andata la buona sorte e se non sarebbe mai venuta da loro. Non sa-pendo trovare una risposta, il mari to si mise in viag-gio per andare a porre a Dio la domanda.

Cammina cammina , dopo molti giorni giunse al mare. Qui incontrò un penitente in ginocchio su una roccia aguzza come un chiodo in mezzo alle onde spumeggiant i del mare . Costui gli chiese che cosa cercasse, e l 'uomo rispose: «Io cerco Allah, per fargli una domanda sulla buona sorte». «Orsù, allora,» ri-batté il penitente «quando avrai trovato Allah, chie-digli per favore anche quando giungerà da me la buona sorte!» L'uomo glielo promise e si r imise in viaggio.

Dopo molti giorni si imbatté, t ra le sabbie del de-serto, in una testa umana, e avvicinandosi si accorse che apparteneva a un uomo sepolto fino al collo nel-la sabbia. Anche costui chiese al viaggiatore che co-sa cercasse, e il viaggiatore gli rispose: «Io cerco Al-lah, per fargli una domanda sulla buona sorte». «Se

lo incontri» lo pregò l 'uomo sepolto nella sabbia «chiedigli anche per quanto tempo dovrò resistere così sepolto.» Il viaggiatore glielo promise e riprese

il cammino. Dopo molti giorni giunse sui monti spo-gli, dove viveva un eremita, e gli chiese ospitalità. L'uomo viveva già da lungo tempo nel suo romitag-gio e veniva nu t r i to in man ie r a prodigiosa: ogni giorno un corvo gli portava un pane nero di segale e un grappolo di uva nera. L'eremita invitò il viandan-

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te e quando il corvo gli portò il pasto quotidiano, ne fu assai stupito: insieme al pane di segale e all'uva nera vi era un pane di f rumento e un grappolo d'uva gialla.

"Questo sarà sicuramente per il mio ospite" si dis-se l 'eremita, ma dal momen to che per tu t to l 'anno aveva mangiato solo pane di segale e uva nera, prese per sé il bianco pane di f rumento e l'uva gialla, e die-de all'ospite il pane di segale e l'uva nera. Prima che riprendesse il cammino, chiese al viandante il moti-vo del suo girovagare, e questi gli rispose: «Io cerco Allah, per fargli una domanda sulla buona sorte». «Allora» disse l 'eremita «chiedigli anche se mi ha già preparato un posto in Paradiso!» «Lo farò» promise il viandante, e se ne andò.

Viaggiò ancora parecchi giorni attraverso una lan-da desolata e una sera giunse a una casa, dove chiese un riparo per la notte. Ma la donna gli rispose: «Pre-sto, corri via, se ti è cara la vita, perché mio mari to è un bandito che ha già ucciso novantanove uomini, e tu saresti il centesimo!». «Ma fuori sarebbero le be-stie feroci che mi sbranerebbero , e sarebbe assai peggio che essere ucciso da un bandito. Fammi en-trare, per favore» implorò il viandante, e la donna lo fece entrare . Quando il band i to r i to rnò a casa, la moglie gli disse che aveva accolto un ospite. Allora il bandito sgozzò un montone e t rat tenne l'ospite per tre giorni nella sua casa pr ima di lasciargli riprende-re il viaggio. Al momento di congedarlo, gli chiese: «Quando avrai incontrato Allah, chiedigli se mi ha già preparato un posto all'Inferno».

Dopo molti giorni il viandante giunse in una fitta foresta. Là dove il bosco era più fitto e non lasciava più alcuna via di uscita, il viandante udì all'improv-viso una voce: «Chi cerchi?». «Io cerco Allah, per far-

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gli una domanda sulla buona sorte» rispose il vian-dante.

Allora Allah parlò per mezzo di quella voce: «La tua buona sorte tu già la possiedi, solo che ancora non lo sai. Tornatene a casa, la tua for tuna è là!». Dopodiché il viandante si informò anche della sorte di quelle quattro persone che glielo avevano chiesto, e Allah rispose per mezzo della voce: «Di' all 'uomo sulla roccia in mezzo al mare: quando le onde si ab-bat teranno ancora più in alto, la buona sorte giun-gerà da lui. E all 'uomo nella sabbia di': se egli è im-paziente, farò soffiare un vento che porterà via tutta la sabbia ed egli se ne resterà là spoglio. All'eremita di': il suo posto è già pronto all'Inferno, e al bandito di': per il suo pentimento è già pronto per lui un po-sto in Paradiso».

Il viandante riprese la strada di casa e passò dagli uomini che gli avevano affidato le loro domande, ri-ferendo loro le risposte che Allah gli aveva dato nella foresta. Tornato che fu a casa, tutto cominciò ad an-dargli nel migliore dei modi. Sua moglie gli diede molti figli, e la ricchezza fece il suo ingresso nella casa.

Un giorno Allah si affacciò, sotto le spoglie di un povero mendicante , alla por ta della sua casa e gli chiese un pasto. Sulle prime l 'uomo voleva sgozzare per lui un capretto, ma la moglie lo prese da parte e gli disse: «Non vorrai sacr i f icare un capre t to per questo straccione! Abbiamo un gatto, e per lui andrà benissimo». Allora l 'uomo prese il gatto, lo sgozzò e lo fece cucinare e servire. Allora l'ospite disse: «Gat-to, salta fuori!», e il gatto saltò fuori vivo e vegeto. Insieme a lui, anche la buona sorte scomparve dalla casa. Il mendican te se ne andò lasciandosi dietro quelle persone, che da quel momento in poi riprese-

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ro a impoverirsi, fino a ritrovarsi misere come erano all'inizio: senza figli né beni.

Infat t i non e rano diventati ve ramente ricchi, lo erano diventati solo esteriormente.

56. I L N O M E S U P R E M O D I D I O

«Orsù, vecchio, raccontaci per favore la storia del su-premo tra i nomi di Dio!» «Non conosco una simile storia.» «Ma sì, ne conosci addirit tura parecchie di storie sul supremo tra i nomi di Dio! Per favore, rac-contacene una!» «Ma allora voi conoscete il supremo nome di Dio?» «No, vecchio, se lo conoscessimo, po-t remmo con esso trasformare il mondo, perché colui che conosce il supremo tra tutti i nomi di Dio potrà con esso impartire a tutti gli uomini e gli spiriti ordini che dovranno essere eseguiti immediatamente.» «Al-lora è certo che oggi nessuno conosce il supremo no-me di Dio. E così, rassicurato, posso passare a narrar-vi di quellosheikh che lo conosceva.»

Per sfuggire al diavolo sterminatore cerco rifugio in Dio, clemente, misericordioso!

Uno di quei poveri che si sono dedicati interamen-te al cammino che porta a Dio viaggiò in lungo e in largo sulla terra in tenzionato a recarsi da un vec-chio, che si diceva conoscesse il supremo tra tutti i nomi di Dio. Egli giunse al suo eremo al momento della preghiera di mezzanotte, e dopo la preghiera chiese allo sheikh: «Venerato maes t ro , puoi inse-gnarmi il supremo nome di Dio?». «Potrò farlo solo quando tu ne sarai degno» rispose il maestro. «Sarò lieto di mostrarmene degno» disse il darwish. Allora

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il maestro disse: «Recati alla porta della città e os-serva che cosa vi accade, poi torna a riferirmelo!».

Il darwish si recò alla porta della città, si sedette e attese. Giunse allora un anz iano taglialegna, che conduceva innanzi a sé il suo asino carico di legna da ardere. Un guardiano lo fermò, gli portò via la le-gna e colpì il vecchio.

Triste e indignato il darwish fece ritorno dal mae-stro e gli raccontò cosa era successo. Quindi lo sheikh gli chiese: «Se tu avessi saputo il nome supre-mo di Dio, che cosa avresti fatto in quel frangente?». «Avrei chiesto la morte per il soldato!» Al che il mae-stro proseguì: «Vedi come sei indegno. Devi sapere, figliolo, che è stato proprio quel taglialegna a inse-gnarmi il supremo nome di Dio. E lui che lo conosce non lo adopera per vendicarsi!».

«Orsù, vecchio, raccontaci ancora un'altra storia sul nome supremo di Dio. Ne conosci così tante!» «E quand'anche io ve ne raccontassi altrettante, lo stes-so voi non arrivereste a comprendere che cosa voglia dire possedere il supremo tra i nomi di Dio.» «Non importa, racconta, vecchio, vogliamo essere pazienti e imparare!» «Non imparerete un bel nulla dai miei discorsi, vi accadrebbe la stessa cosa che accadde a quel povero che non riuscì a eseguire nemmeno una volta un incarico semplicissimo, nonostante si fosse esercitato per ben sette anni nell'arte della perseve-ranza e della continenza.» «Che cosa gli accadde, vecchio?» «Orbene, dopo che costui ebbe trascorso tutto questo tempo seguendo la via del darwish, udì un giorno che nella lontana città del Cairo viveva un maestro che conosceva il nome supremo di Dio. Al-lora si mise in viaggio alla volta di questa città, e, giunto alla casa di r iunione della comuni tà di quel maestro, entrò a far parte della schiera dei suoi di-scepoli e stette per un certo tempo al suo servizio. In

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una circostanza in cui il maestro lo pose al di sopra della schiera dei discepoli con elogi e benedizioni, il darwish disse al maestro: «O ricolmo di grazie, io ho adempiuto i miei doveri nei tuoi confronti con tua soddisfazione, accordami ora una ricompensa, poi-ché me la sono guadagnata». «Che cosa desideri?» chiese il maestro. «Io so» proseguì il darwish «che tu, venerato maestro, conosci i l nome supremo di Dio. Rendimi partecipe di questo segreto, e io lo ser-berò fedelmente!» I l maes t ro tacque per un po', quindi congedò il darwish con un cenno della mano. Trascorsero sei mesi. Un giorno il maestro chiamò a sé il darwish e gli affidò un grande vassoio, che era ricoperto da un panno. «Tu conosci il nostro amico, il sarto della città vecchia» gli disse. «Fammi il pia-cere, portagli questo vassoio!»

Il darwish prese il vassoio e uscì. Per strada lo tor-mentava la curiosità, e pensava: "Se il maestro mi fa por ta re un dono a quell 'amico, si t ra t te rà sicura-mente di qualcosa di meraviglioso. Di che si trat-terà?". Alla fine non riuscì a dominarsi oltre, scostò il vassoio e sollevò il panno. Sotto vi era un recipien-te con un coperchio. Il darwish aprì il coperchio e... ne saltò fuori un topolino! Furente per questo tiro e per se stesso, fece ritorno dal maestro, il quale, già a l l 'appari re del suo discepolo, aveva capito come erano andate le cose. E in proposito citò il versetto del Corano: «Lo abbiamo fatto per metterti alla pro-va!» aggiungendo quindi più piano: «Ti ho affidato un topino e tu mi hai tradito. Che cosa faresti se ti affidassi il nome supremo di Dio? Ora va', non ti vo-glio più vedere».

E il vecchio concluse il suo racconto con la frase: «Che Dio ci perdoni, me e voi tutti!». E gli ascoltato-ri risposero: «Amen!».

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57 . I L S A N T O I N P A R A D I S O

C'era una volta un sant 'uomo, che era amico di Dio e le cui preghiere venivano esaudite. Un giorno egli chiese ad Allah di poter vedere la Morte, per sapere come fosse. Allora Allah gli fece vedere la Morte. Un'altra volta il santo chiese ad Allah di poter entra-re in Paradiso, e Allah ve lo fece entrare. Quando il santo ebbe visto tu t to ben bene, Allah gli disse: «Adesso torna fuori!». Ma il santo non gli ubbidì, e disse invece ad Allah: «Il Paradiso è così immensa-mente bello, permettimi di indugiarvi un po'». Per la seconda volta Allah gli disse: «Adesso devi uscire, perché solo chi ha visto la Morte può r imanere in Paradiso!». Al che il santo rispose: «Ma tu mi hai già fatto vedere la Morte, e allora io me ne sto in Paradi-so». E Allah lo fece restare in Paradiso.

58 . N O S T R O S I G N O R E K H A D I R

Un giorno Mosè incontrò il nostro signore Khadir, cui il Buon Dio ha svelato la conoscenza delle cose celate. Mosè gli disse: «Accettami come tuo discepo-lo e insegnami la tua scienza!». Il nos t ro signore Khadir gli rispose: «Tu non avrai la pazienza neces-saria per viaggiare con me e seguire i miei insegna-menti». Mosè rispose: «Possa Dio darmi la forza di avere pazienza e ubbidire ai tuoi ordini». Disse allo-ra il nos t ro signore Khadir : «Se tu vuoi seguirmi, non chiedermi la motivazione delle mie azioni, fin-ché non parlerò io stesso!».

Così essi si misero in viaggio insieme e giunsero a un fiume, e a questo punto il nostro signore Khadir fece un foro nel fondo di una barca di pescatori, che colò a picco; quindi ripresero il cammino, ma Mosè

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non potè trat tenersi dal chiedere al nostro signore Khadir perché avesse provocato una falla a quella barca. Il nostro signore Khadir si limitò a risponde-re: «Non ti avevo detto che tu non avresti avuto pa-zienza con me?». Mosè gli chiese perdono e lo seguì nel suo cammino.

Incontrarono quindi un giovane e il nostro signo-re Khadir lo colpì, uccidendolo. Mosè era atterrito e disse: «Hai ucciso un innocente!». Ma anche stavolta il nostro signore Khadir si limitò a rispondere: «Non ti avevo detto che tu non avresti avuto pazienza con me?». E anche questa volta Mosè gli chiese perdono e riprese a seguirlo nel cammino.

Giunsero infine in una città e chiesero un riparo e del cibo, ma la gente della città negò loro l'ospitalità. Quando videro un muro che minacciava di cadere, Khadir lo rimise in piedi. Quindi proseguirono.

Allora Mosè chiese: «Perché non hai preteso alcu-na ricompensa per questo lavoro?». Il nostro signore Khadir rispose: «Questa è la terza volta che tu mi do-mandi la motivazione di una mia azione, ora devi la-sciarmi. Ma pr ima ti voglio far sapere quali sono sta-ti i motivi del mio agire: la ba rca appar teneva a poveri pescatori e io l'ho messa fuori uso perché il re di questo paese ha deciso di requisire per i suoi sco-pi tutte le imbarcazioni che siano in qualche modo utilizzabili. In questo modo la barca resterà di pro-prietà dei pescatori. Quanto al giovane che ho ucci-so, i suoi genitori erano dei credenti e questo giova-ne un malfattore, che avrebbe portato i genitori alla corruzione. Dio, nostro Signore, donerà loro un al-tro figlio che sarà più puro e più vicino alla grazia. Quel muro, invece, l'ho riparato perché sotto di esso giace un tesoro che appart iene a due orfanelli che abi tano là. Il loro padre ha lasciato loro in eredità questo tesoro ed essi ne t ra r ranno un utile quando

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sa ranno abbas tanza grandi . Tutto questo non l 'ho fatto di mia iniziativa ma su ordine di Dio, nostro Si-gnore. Tu non hai avuto pazienza e per questo ora devi lasciarmi».

Oggi il nostro signore Khadir vive celato alla vista degli uomini e non si mostra loro. Solo un amico di Allah può talora vederlo o parlargli. Il nostro signore Khadi r non muore . Egli vive in cont rade selvagge con i suoi quaranta compagni e si reca tra gli uomini solo a l lo rquando l 'Onnipotente ve lo m a n d a . Una volta ogni quaranta giorni si reca presso una fonte che nessuno conosce e beve da essa.

Il motivo per cui il nostro signore Khadir vive na-scosto viene così spiegato: il nostro signore Khadir aveva il compito di destare al matt ino presto gli uo-mini di buona fede per la preghiera - e questo so-prat tut to per quanti vivevano tra i monti, dove non vi sono muezzin per chiamare alla preghiera.

Un giorno egli destò un u o m o che si era addor-mentato all'aperto dopo una festa di matr imonio du-rata tut ta la notte. Ma l'uomo, ubriaco, lo respinse: «Lasciami in pace, vattene a casa!». Il nostro signore Khadir lo svegliò una seconda volta, e allora l 'uomo gli disse: «Se non mi lasci dormire, vado in giro a di-re a tutti che sei tu Khadir». Allora il nostro signore Khadir fuggì via e da quel giorno se ne sta nascosto.

59 . J U J U M A J U J

Alcuni nar rano che negli ultimi tempi vivranno dei giganti ch iamat i Ju juma ju j . Non conosceranno ti-m o r di Dio né p a u r a degli uomini , non s ap ranno nemmeno che, quando si parla di qualcosa che si ri-ferisce al futuro, si deve dire Inshallah, che significa "se Dio vuole". E così, q u a n d o un b imbo por te rà

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questo nome, Inshallah, i Ju jumaju j sorgeranno dal-la terra e prenderanno possesso dei paesi. È allora che comincerà la fine dei tempi.

Altri narrano che i Ju jumaju j sarebbero un popolo di nani che vivranno agli estremi confini del tempo. Ma a differenza dei giganti, essi non saranno un po-polo straniero, bensì i discendenti degli uomini at-tuali. Saranno piccoli come bambini , senza Dio, e molto, mol to rapidi . S a r a n n o così numeros i che, quando giungeranno a un lago, in men che non si di-ca lo prosciugheranno bevendoci.

Come succederà che un giorno gli uomini divente-ranno così piccoli? Orbene, questo lo si può osservare già al giorno d'oggi. Un tempo i denti da latte dei bambini avevano tre molari per lato sia sopra che sot-to, quindi dodici in totale, e pr ima ancora addiri t tura quattro per parte, vale a dire sedici molari, come i denti di un adulto. Oggi invece nei denti da latte dei bambini vi sono solo due molari per parte, sopra e sotto, e quindi solo otto in totale, e un giorno i bambi-ni avranno solo quattro molari, e capita già adesso che ci siano bambini che crescono dopo avere avuto solo quattro molari. Allo stesso modo anche la forza e la taglia degli uomini va diminuendo. Un giorno la dentatura da latte non avrà più molari, e allora gli uo-mini resteranno piccoli come nani, che possono a stento vedere oltre il bordo del paiolo stando sulla punta dei piedi. Questi sono i Ju jumajuj . Il Mahdi di-chiarerà guerra a questi nani ed essi periranno.

60 . I L D R A G O R O S S O D E L D U J J A N

Dujjan è Satana, il Diavolo. Egli vive in una caverna ed è inca tena to man i e piedi. Sulla sua f ron te sta scritto: "Io rinnego Dio".

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Dujjan possiede un drago rosso che vive su un'iso-la nel mare e dice: «Circonderò la ter ra in capo a quattro giorni».

Dujjan e il suo drago rosso sono i corruttori degli uomini alla fine del tempo. Gli uomini che vivranno al lora non conosce ranno più a lcun rispetto, non avranno considerazione nemmeno dell'età e dei loro genitori. Abbaieranno come cagnolini nel ventre del-le cagne. I loro figli vorranno avere ragione rispetto agli anziani.

Quando Dujjan si sarà liberato e il suo drago avrà circondato la terra in quat t ro giorni, si ri t irerà nel mare. Ogni suo passo sarà lungo come venti passi. Farà risuonare una musica piacevole, che si sentirà a centinaia di chilometri di distanza. Molti uomini -milioni - verranno attratti da quella musica e accor-re ranno per seguire Dujjan e il suo drago rosso. E questi dividerà le acque del mare e vi si inoltrerà, e tutti coloro che lo seguiranno vi si inoltreranno con lui. Poi il mare si r iunirà abbattendosi su di loro e tu t t i annegheranno . Coloro che non segui ranno Dujjan e il suo drago rosso non faranno ciò in base a un giudizio più consapevole; sempl icemente , non sarà questo il loro destino. Vivranno ancora qualche tempo. Poi verrà Gesù e li abba t te rà tutti . Perché non vi saranno più credenti tra gli uomini.

61 . L A F I N E D E L M O N D O

È mol to t empo che manca una grande pioggia, i l m o n d o ha ancora bisogno di u n a grande pioggia. Come al tempo del profeta Lot - che Dio lo benedi-ca! Fu allora che cominciò la sventura! Un fuoco ab-bagliante accecò gli uomini. Non vi erano più donne.

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Per qua ran t ' ann i la te r ra con t inuò a scuotersi , in ogni luogo vi furono terremoti, di immane violenza.

Venne poi il diluvio, e ciò fu al tempo del nostro signore Noè - che Dio lo benedica! L'acqua sprizzò fra le tre pietre del focolare in tutt i i focolari degli uomini. Là dove pr ima bruciavano le fiamme sgor-gava ora acqua e ricopriva tutta la terra.

Il profeta Noè aveva già da tempo costruito la sua arca, e a questo punto prese e rinchiuse con sé nell'ar-ca un maschio e una femmina di ogni essere vivente. L'acqua cominciò a salire, e l'arca, galleggiando su di essa, fluttuò sulle acque per cinquantadue periodi; quindi l 'acqua rifluì nel mare e l'arca si posò al suolo.

La terra aveva ritrovato la calma, non si scuoteva più. I mont i , le ossa della terra, r imanevano tran-quilli. Il suolo era ora quat t ro metr i più elevato di prima. Tutto il male dell'epoca precedente era stato ricoperto. Gli uomini ripresero a moltiplicarsi come piante seminate: spuntavano dalla terra.

Un giorno s i r ipe terà u n a nuova catas t rofe: un grande fuoco si accenderà sulla terra e divamperà fi-no al cielo. Da ogni parte convergeranno quindi gli esseri umani per fuggire dal fuoco. Così essi verran-no portati tutti insieme in una località che si chiama Sham. Quindi il vento cesserà, vi sarà una vera e propria assenza di vento! Quando gli uomini si tro-veranno in questo luogo di raduno, vedranno discen-dere dal cielo la bi lancia e vedranno il l ibro delle azioni compiute . Ciascuno saprà allora quello che avrà fatto, lo vedrà chiaramente dinanzi a sé. Dopo-diché anche tu partirai per la tua destinazione come un pacco che è stato legato come si deve e munito di indirizzo.

Chi non vuole cadere deve guardare innanzi!

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6 2 . U N A P R O F E Z I A

Mogador è la capitale della tr ibù degli Haha. Essa sorge su una bassa scogliera sulla costa dell'oceano, raffreddata dai venti e umida della spuma salmastra del mare. Nessuno più rammenta chi abbia comin-ciato a costruire la città, ma sull'isolotto nella baia è stata trovata una pietra che reca la parola mogon in caratteri fenici, e in seguito a ciò si racconta che Mo-gador sarebbe s ta ta fonda ta da un certo cap i tano Mogon, che le avrebbe dato il proprio nome. Costui viene venerato, col nome di Sidi Megdul [Nostro Si-gnore Megdul], in una bella tomba con una cupola verde ai margini della città, e tutti gli anni vengono celebrate due grandi feste in suo onore.

Il suo contrassegno, costituito da due pesci, è un simbolo di fertilità, e ogni giovane donna porta su di sé due pesci d'argento come ornamento, per rammen-tare in ogni momento a Sidi Megdul il suo compito.

Dopo che, un paio di secoli fa, la città era andata completamente distrutta da un incendio, il sultano Mohammed ben Abdullah la fece ricostruire com-pletamente, con le sue moschee e le sue mura. Poi-ché vi era scarsi tà di terra, si fecero confluire qui tutti i prigionieri dell'intero regno, e con essi si costi-tuì una catena che dai monti giungeva fino a Moga-dor. La terra, raccolta in ceste, venne trasportata di mano in mano da uomini e donne, fino a riempire i vuoti tra le rocce su cui si doveva costruire la città. A tale proposi to i prigionieri can tavano la seguente canzone in arabo dialettale:

Medinat Esswira seghir suwar dyelho qalil errisk dyelho taji min el-ba'id ghadi dabbhd nhar jum'a o nhar l'id.

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che in italiano suona così:

La città di Mogador è piccola e la sua terra è poca il suo guadagno viene da lontano sarà distrutta un venerdì o un giorno di festa.

Con queste parole, che equivalgono a una profe-zia, i prigionieri si vendicavano del loro lavoro coat-to. Ma nessuno sa se la città verrà distrutta dal fuo-co, da una guerra o dal mare. Il bel porto sarà allora come un mortaio. Numerosi come i semi di rafano che possono essere contenuti nelle borse di un cam-mello, sorgeranno allora uomin i dal ma re diret t i verso la te r raferma. A monte vi sa ranno così tanti mort i che nessuno sarà in grado di seppellirli, e la pernice farà il nido nel torace di un uomo. Il paese dietro a quei tumuli sembrerà una noce schiacciata dalla zampa di un cammello.

Verrà quindi un vento che riporterà alla luce la moschea di Massa, che ora è sepolta sotto la sab-bia. Il Signore dell'Ora [il Mahdi], che in essa ripo-sa, salirà allora sul minareto e farà risuonare il ri-c h i a m o alla p regh ie ra abbrevia to , e al lora tu t t i sapranno che sarà scoppiata la grande guerra san-ta. Non lo potranno uccidere né proiettili d 'arma da fuoco né colpi di a rma da taglio. La sua signoria durerà quaranta periodi, che potranno essere qua-ranta ore o quaranta giorni o quarantanni , nessuno lo sa.

In quel tempo i fanciulli giocheranno coi serpenti velenosi, e tuttavia questi non faranno loro del male.

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63. L A P O R T A D E L R A V V E D I M E N T O È A N C O R A A P E R T A

Circa sette anni fa un saggio sheikh mi raccontò la seguente profezia, che mi pare di estremo interesse:

«La fine del tempo è vicina, ma è ancora molto lon-tana. Infatti la porta del ravvedimento è ancora aper-ta. La preghiera e la carità hanno ancora un senso. La porta della remissione non è ancora chiusa!

«Quando la porta si sarà chiusa, per tre giorni il sole non apparirà più, cosicché ci si domanderà che cosa è successo.

«Poi esso sorgerà sul mare (e quindi a occidente), e salirà fino al punto più alto del mezzogiorno, do-podiché invertirà il suo corso e ritornerà nel mare. Questo sarà il quar to giorno. Quindi r iprenderà il suo corso consueto.

«Ma dopo di allora gli uomin i vivranno senza amore per il prossimo, senza preghiere da farsi esau-dire, senza pace e senza dottrina. Infatti il Giardino, la d imora celeste dei redenti , sarà pieno, non vi verrà accolto più nessuno. All 'Inferno, invece, nel fuoco, vi sarà ancora posto per molti.

«Quel mondo sarà più grande di quello attuale e durerà più a lungo di quanto sia durato il mondo dal principio fino alla chiusura della porta, e lo abiterà un numero maggiore di esseri.

«È solo dopo di ciò che essi verranno annientati dal fuoco.»

Alle mie domande , in un incontro successivo, il vecchio mi diede queste ulteriori spiegazioni: «Dio non ha fretta. Da qui alla fine del tempo può manca-re un giorno come quarantamila anni. Nessun essere umano può saperlo.

«E nessuno avrà bisogno di saperlo, perché la porta si chiuderà solo quando nessuno più attesterà

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l'esistenza di Dio. Solo allora il Cielo sarà pieno. E se non vi sarà nessuno degno di andare in Paradiso, solo al lora si comince rà a r i empi re l ' inferno. È quello l ' istante in cui la por ta del ravvedimento verrà chiusa.»

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Parte II

Fiabe dei Berberi dell'Algeria

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1 . IL C H I C C O F A T A T O

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'erano una volta, in un villaggio, sette fratelli, tutti maschi. Si r iunirono e dissero: «Se il prossimo figlio che nostra madre metterà al mondo sarà anco-ra un maschio, ce ne andremo in esilio. Fuggiremo da qui».

Il giorno in cui la madre doveva partorire, si allon-tanarono dal villaggio e attesero, seduti in cerchio.

Settut , la vecchia strega, si fece loro incont ro e disse: «Congratulazioni per il vostro nuovo fratelli-no!». Ed essi le risposero: «Che tu sia maledetta!». E part irono senza voltarsi indietro.

Settut aveva mentito. Il suo scopo era quello di ve-dere in esilio i sette fratelli. Il nuovo nato non era un maschietto ma una femminuccia.

La madre si prese cura di lei. Quando fu più gran-dicella, andava a r iempire il suo otre alla fontana. Ma un giorno vi incontrò Settut, che attingeva acqua servendosi di una cupola di ghianda. La ragazza le disse: «Quando finirai di riempire la tua brocca con questa cupola? Se hai t empo da perdere, lasciami passare davanti!». Settut le rispose: «Come osi parla-re tu, i cui sette fratelli sono andati in esilio il giorno della tua nascita?».

La ragazza fece ritorno a casa con il suo otre vuo-

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to. La febbre si impadronì di lei. La madre in lacri-me si avvicinò per chiederle: «Che cos'hai, figlia mia? Sei appena uscita tutta allegra e in buona salu-te. Che cosa ti è stato detto di malevolo?». Allora la figlia si confidò ma pretese che sua madre le spie-gasse le parole di Settut.

«Figlia mia,» confessò la madre «i tuoi sette fratel-li si erano detti: "Se verrà al mondo un ottavo fratel-lo, fuggiremo via senza neanche vederlo, senza nep-pure conoscerlo". Sono t rascors i o rma i quindic i anni da quando sono partiti, e non ne sappiamo più nulla.» La ragazza dichiarò: «Voglio mettermi in cer-ca di loro per riportarli a casa». La madre cercò di trattenerla: «A che servirebbe, abbiamo già cercato tanto. E mi resti solo tu». Ma la figlia rispose in tono fermo: «Dal momen to che non mi conoscono, non fuggiranno davanti a me».

Allora la madre le diede un cavallo, delle provviste e una serva negra per accompagnarla. Le diede inol-tre il "chicco fatato", che la figlia nascose nel corset-to, e le fece questa suprema raccomandazione: «Sul-la tua strada incontrerai due fontane. Una è quella delle schiave negre, l'altra quella delle bianche libe-re. Sta' attenta a non fare il bagno nella fontana dei negri e a non bere la sua acqua! Saresti t ramutata in negra!».

La ragazza promise di fare buon uso di tutti questi consigli, e salì a cavallo.

Si mise quindi in viaggio a cavallo, seguita, a pie-di, dalla negra. Di collina in collina, di tappa in tap-pa, la madre chiamava la figlia. La ragazza, che po-teva udir la grazie al chicco fa ta to , le r i spondeva allora per rassicurarla. E il chicco trasmetteva la sua voce, per quanto debole e lontana.

Quando furono in vista delle fontane, la negra si precipitò verso l 'acqua delle bianche, e vi fece il ba-

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gno. La ragazza si avvicinò alla fonte delle negre, vi bevve e vi si immerse. Poi, mentre stava per risalire a cavallo, perse il chicco fatato.

A mano a mano che si allontanava dal luogo in cui esso era caduto, la figlia udiva sempre meno la voce di sua madre. E a un certo punto arrivò il momento in cui non l'udì più del tutto. E la sua pelle si scuriva, men t re quella della negra diventava sempre più bianca.

Quando la negra fu diventata del tutto bianca, si voltò verso la compagna e le disse con arroganza: «Scendi da cavallo!».

Ma la fanciulla rifiutò. Quand'ebbe raggiunto una roccia, si mise a cantare con voce lamentosa:

Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! Una sporca negra mi dice: «Scendi, che salgo io a cavallo!».

Una mal inconica eco le r ispose: «Va'... va'. . . va'!...».

La negra, impaur i ta , non insistette. Ma un mo-mento dopo, spazientita ed esasperata, di nuovo dis-se: «Scendi da cavallo, ti dico!».

Invano la ragazza chiamò la madre. Dal momento che il chicco non rispondeva più, la negra costrinse la giovane a scendere. La spogliò dei suoi abiti per r ivestirsene lei. Poi salì lei a cavallo e assunse un portamento fiero. La povera ragazza dovette seguir-la a piedi.

Cammina cammina , alla fine le due viaggiatrici giunsero al villaggio in cui vivevano i sette fratelli: si fecero indicare la loro casa. Essi erano usciti per an-

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dare a caccia. Ne attesero il ritorno. Quando, la sera, essi rientrarono, la negra andò loro incontro e li ab-bracciò dicendo: «Fratelli miei beneamat i , adesso che vi ho visti posso dire di avere vissuto abbastan-za! Settut mi ha insultata. Mi ha detto che venendo al mondo vi avevo scacciati di casa. Settut - che Dio la bruci! - vi ha ingannati. E adesso eccomi qui! De-vo restare con voi o mi accompagnerete alla casa di papà e mamma?».

Essi le risposero: «Riposati qualche giorno. Pense-remo poi al da farsi».

La negra si installò da padrona nella casa dei sette fratelli. La ragazza dovette servirla e portare i cam-melli al pascolo. Ogni matt ina la negra le dava una rus t ica focaccia di fa r ina d 'orzo. Appena arr ivata sull'altura, la ragazza si metteva a cantare con voce lamentosa, circondata dai sette cammelli affidati al-la sua custodia:

Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! La negra ha preso dimora in casa Io invece sono stata messa a guardia dei cammelli, Piangete, cammelli, come piango io!

Posava quindi la focaccia d'orzo su una pietra e si lasciava morire di fame. Sei cammelli la imitavano e piangevano con lei. Solo il settimo, che era sordo, an-dava avanti a mangiare e prosperava, mentre gli altri sei cammelli diventavano magri come un chiodo.

Un giorno, il minore dei fratelli pensò: "Che cosa sta succedendo? Da quando è qui, questa serva non fa che deperire. E come lei deperiscono anche i cam-melli. Deve esserci un motivo".

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Un mat t ino decise di precedere la ragazza, rag-giungere il pascolo dei cammelli e nascondersi nei pressi. Vide allora la ragazza salire in cima all'altura. La vide posare la focaccia sopra a tut te quelle che non aveva mangia to e che fo rmavano una pila su una pietra. E l'udì cantare con voce lamentosa:

Innalzati, innalzati, o roccia Roccia, innalzati Affinché io arrivi a vedere Il paese di mio padre e mia madre! La negra ha preso dimora in casa

Io invece sono stata messa a guardia dei cammelli, Piangete, cammelli, come piango io!

Il fratello minore uscì dal suo nascondiglio e in-terrogò la ragazza. Le disse: «Chi sei, creatura?».

Ed essa rispose: «Io? Sono tua sorella. Quand'ero a casa di mio padre, sono andata un giorno alla fon-tana e vi ho incontra to Settut che attingeva acqua con la cupola di una ghianda. Io le ho detto: "Lascia-mi il posto!" perché avevo fretta. Ed essa mi ha ri-sposto: "Come osi parlare, tu, i cui sette fratelli sono andati in esilio il giorno della tua nascita?". E io ho det to a mia madre "Spiegami le parole di Settut". Essa me le ha spiegate e io sono partita in cerca di voi. Mia madre mi ha dato un cavallo, un chicco fa-tato e una serva negra. Strada facendo ho incontrato due fontane: mi sono sbagliata. Ho fa t to i l bagno nell'acqua dei negri e ho perso il chicco che mi tene-va in conta t to con mia madre . La negra, invece, avendo fatto il bagno nell'acqua delle donne bianche è divenuta bianca, mentre io diventavo nera. Ma la vostra sorella sono io».

Il più giovane dei sette ragazzi si recò dai fratelli e ripetè loro ciò che aveva appena saputo. Ma essi non

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credettero una parola di questa storia e gli dissero: «Da che cosa pot remmo capire se questa serva è ve-ramente nostra sorella?».

Consul tarono quindi il Vecchio Saggio. Gli rac-con ta rono come i cammel l i deper issero e come piangessero; come condividessero la pena della ser-va che li custodiva. Il Vecchio Saggio li ascoltò e dis-se loro: «Una cosa non ha potuto trasformarsi nella vera negra: i suoi capelli. La sua pelle sarà anche di-ventata bianca come il latte, ma i suoi capelli saran-no rimasti crespi. La ragazza che mostrerà di avere i capelli lisci sarà vostra sorella. La negra però non vorrà togliersi il foulard in vostra presenza. Allora, annunc ia te a tu t te e due che avete compra to dell'henné e dite loro: "Oggi è giorno di festa. Desi-deriamo che, in nostra presenza, vi tingiate i capelli di henné"».

I sette fratel l i anda rono a p rendere l 'henné. La serva lo pestò, ne fece una pasta e la porse loro. Allo-ra il maggiore ordinò alle due ragazze di togliere i foulard. La serva obbedì e i suoi capelli si sparsero in boccoli di seta che scendevano fino alla vita. Ma la negra gridò: «Fratelli miei beneamati, come potrei scopr i rmi la testa davant i a voi? Avrei vergogna! Quando sarete usciti mi spalmerò l'henné sui capel-li». Il più piccolo dei fratelli le andò alle spalle di soppiatto e le strappò il foulard. E apparve una capi-gliatura ispida, che saliva verso il cielo.

I sette ragazzi at torniarono la negra, e le dissero con tono minaccioso: «Sei dunque una negra? E hai usurpato il posto di nostra sorella!».

Si rivolsero quindi alla sorella per chiederle: «Che cosa potrebbe dar sollievo al tuo cuore?». Essa ri-spose: «Vorrei usare la sua testa come pietra del fo-colare; i piedi come attizzatoi e le mani come pala della cenere».

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Sgozzarono dunque la negra. La bruciarono e di-spersero le ceneri all'esterno. Poi portarono alla so-rella dell 'acqua a t t in ta alla fon tana delle bianche. Essa se ne asperse. Il suo viso e il suo corpo ridiven-nero chiari come prima. I sette fratelli poterono ri-tornare a dedicarsi al loro passatempo preferito: la caccia. La sorella preparava loro i pasti e accudiva alla casa.

L'anno successivo, in primavera, nel luogo in cui erano state disperse le ceneri della negra spuntò un cespo di malva. La ragazza lo tagliò e con esso cu-cinò un pia t to che diede da mang ia re ai fratel l i q u a n d o to rna rono dalla caccia. Mangia rono tut t i con grande appetito. I sette ragazzi furono trasfor-mati in colombi, e la ragazza in una colomba.

E tutti presero il volo nel cielo. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-

to a dei Signori!

2 . L U N J A , F I G L I A D I T S E R I E L

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

Si narra che in inverno due giovani partirono, sot-to la neve, per cacciare in montagna. Uccisero una pernice. La sgozzarono, il suo sangue colò sulla neve e la colorò di porpora. Uno disse: «Fortunato colui che sposerà una ragazza dal colorito bianco come la neve e vermiglio come il sangue!».

L'altro rispose: «Non vi è che Lunja , la figlia di Tseriel che abbia queste caratteristiche: è bianca co-me la neve e vermiglia come il sangue». «E dove si trova questa Lunja figlia di Tseriel?» domandò il pri-mo. L'altro gli indicò una direzione e disse: «Laggiù, molto lontano».

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Allora colui che sognava una moglie dal colorito bianco come la neve e vermiglio come il sangue la-sciò al compagno la pernice, mise il fucile in spalla e seguì la direzione che gli era stata indicata.

Cammina cammina, avanzò per un giorno e una notte pr ima di entrare in una foresta e scorgere del fumo che saliva al di sopra degli alberi. Disse fra sé: "Non mi fermerò finché non avrò raggiunto questo fumo". Proseguì in quella direzione e scoprì una ca-supola, c i rcondata da una siepe di spine. Chiamò; una ragazza si fece vedere. Dio solo aveva po tu to crearla: il suo colorito era bianco come la neve e ver-miglio come il sangue.

«Ho perso la strada» disse il giovane «e non so do-ve andare. Non potresti offrirmi un asilo per questa notte, in nome di Dio?»

Essa rispose: «Io sono la figlia di Tseriel. La figlia dell'orchessa. Mia madre è andata a caccia; non tor-nerà che al calar del sole. Se ti va di entrare, entra». Egli disse: «D'accordo». Ed entrò.

Essa gli diede da mangiare e da bere. E poi, quan-do calarono le tenebre, lo nascose in un sotterraneo di cui celò l ' imboccatura posandovi sopra un grande piatto di legno.

Lunja aveva appena finito di mettere al sicuro il giovanotto, che già udiva l'arrivo della madre . Tse-riel, l 'orchessa, camminava pesantemente : Tseriel aveva una statura che andava dalla terra al cielo. La sua testa era un vero cespuglio di rovi. Per entrare dovette piegarsi. Fin dalla soglia, inspirò profonda-mente l'aria e disse: «Sento un odore che non è il no-stro. Sento odore di uomo!». Lunja rispose: «Questa sera è passato di qui un mendicante, e gli ho fat to l 'elemosina, nel nome di Dio. Quello che senti è il suo odore».

Tseriel si fece avanti e comandò: «Servimi la cena!».

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Lunja gliela servì. Poi andò a sedersi sul piatto di le-gno che nascondeva l ' imboccatura del sotterraneo.

Quand'ebbe finito di mangiare, Tseriel dichiarò: «Questa sera ho deciso di tingere con l 'henné tutti i miei piatti di legno e tutte le mie ciotole». E si mise a chiamarli per nome. Essi vennero da lei uno alla vol-ta. Solo il piatto su cui era seduta Lunja non si mos-se. L'orchessa lo chiamò di nuovo. Ma la ragazza dis-se: «Lascialo stare. A lui toccherà domani. Oggi sono t roppo ben seduta per scomodarmi» . Tseriel, che amava la figlia, non insistette, e non tardò ad addor-mentarsi .

Lunja fece finta di dormire. In realtà spiava il mo-mento in cui avrebbe udito le grida di tutti gli ani-mali inghiottiti dalla madre nel corso della giornata. Fu solo nel cuore della notte che udì le vacche e i vi-telli muggire, le pecore e le capre belare, l'asino ra-gliare e le galline chiocciare. Ne approfittò per libe-rare il giovane dicendogli: «Presto, sta dormendo. Gambe in spalla!». Ma egli le rispose: «Non part irò se tu non mi accompagni. Giacché è per te che sono venuto fin qui». «Va bene» disse lei. E uscirono.

Li arrestò una siepe di spine. Lunja disse: «O siepe di miele e di burro , lasciaci passare!». La siepe di spine si aprì per lasciarli passare, e poi si richiuse al-le loro spalle. Essi si misero a correre, a correre con tutte le loro forze. Ma apparve dinanzi a loro un fiu-me tumultuoso. Lunja supplicò: «O fiume di miele e di burro, lasciaci passare!». Le acque del fiume si ri-t irarono davanti a Lunja e al giovanotto. E si richiu-sero una volta che questi ebbero raggiunto la sponda opposta.

Tseriel si svegliò mentre la figlia, dal colorito bian-co come la neve e vermiglio come il sangue, stava fuggendo. L'orchessa chiamò: «Lunja, Lunja!». Ma il suo richiamo si perdeva nel vuoto. Essa si sporse al

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di sopra del sotterraneo e annusò l'aria. Gettò uno sguardo al letto di Lunja e comprese tutto. Si mise a gridare: «Lunja, figlia mia, mi hai tradita! Lunja, mi hai abbandonata!».

E part ì alla sua ricerca. Alla siepe di spine disse con voce furibonda: «Schifosissima siepe, lasciami passare!». Le spine si fecero ancora più aguzze, si in-grandirono a dismisura. Tseriel riuscì ugualmente a passare, ma i suoi piedi ne furono lacerati, e gli in-dumenti fatti a brandelli. Si mise a correre, a correre come una forsennata, facendo echeggiare per ogni dove: «Lunja, Lunja, mi hai tradita! Mi hai abbando-nata!». Ma Lunja aveva cambiato padrone!

Il f iume arrestò l'orchessa. Tseriel gli gridò con fu-ria: «Schifosissimo f iume, voglio passare!». Ma il fiume si mise a mugghiare in modo minaccioso. Tse-riel vi si gettò. Un'onda enorme la portò via. Ma pri-ma di essere inghiottita, l 'orchessa esclamò un'ulti-ma volta: «Che Dio ti t radisca come tu hai t radi to me, Lunja!».

Il giovane e la fanciulla bianca come la neve e ver-miglia come il sangue erano già lontani. Giunsero in vista di un'altura. «Il mio villaggio è laggiù» disse il giovane stendendo il braccio. «Ci arriveremo al cala-re della notte.»

E cominciarono a inerpicarsi. Scarpinarono a lun-go sulla montagna. Quando stavano per valicare un colle, scorsero due aquile che lot tavano t ra loro. L'uomo le separò con un bastone. Ma l 'aquila più grande si vendicò: prese sotto l'ala il giovane e lo sol-levò in aria. Lunja gridò: «Oh, ho tradito mia madre ed eccomi tradita a mia volta!».

Ma il giovane ebbe il tempo di gridarle: «Vai anco-ra avanti. Incontrerai una fontana. Una negra, una nostra serva, vi arriverà con i nostri asini e i nostri otri. Dovrai ucciderla per rivestire la sua pelle scura.

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A questo punto non ti resterà che seguire gli asini. Ti porteranno a casa nostra. E là giunta, dirai a mio pa-dre: "Tuo figlio è stato portato via da un'aquila"».

Lun ja vide la negra che arrivava alla fon tana . Aspettò che avesse riempito gli otri e li avesse carica-ti sugli asini. Quindi balzò fuori, la uccise e ne rive-stì la pelle.

Seguendo gli asini arrivò alla casa del giovane. E quando vi fu entrata, disse al padre: «Tuo figlio è sta-to afferrato da un'aquila che se l'è messo sotto l'ala e se l'è portato via in cielo».

Il padre lasciò passare qualche giorno nella spe-ranza che l'aquila lasciasse la sua preda. Ma poi si decise a consultare il Vecchio Saggio. Quest 'ultimo lo rassicurò e gli disse: «L'aquila non deve aver ucci-so tuo figlio. Di sicuro se se l'è messo sotto l'ala, non l 'ha ucciso. Per l iberare tuo figlio, ecco quello che devi fare: devi salire sulla cima più alta, dove sacrifi-cherai una giovenca, la più bella, la più grassa che avrai trovato. Le aquile scenderanno per pascersene. Quella che tiene tuo figlio prigioniero sotto l'ala sarà più pesante delle altre; avrà difficoltà a volarsene via. Tu dalle un colpo di bastone sull'ala. Ed essa la-scerà cadere tuo figlio».

Il padre salì allora sulla cima più alta, sacrificò la più bella giovenca e si allontanò per spiare le aquile. Le vide calare; le osservò mentre mangiavano. La più grande fra tutte era tanto appesantita che a stento riusciva a muoversi. Quando fu in procinto di volar-sene via, il padre le colpì l'ala con un bastone: il giova-ne cadde a terra. Sull'erba, era gracile e debole come un uccellino. Il padre lo abbracciò e lo riportò a casa.

Lunja si prese cura di colui che amava. Aveva sof-ferto la fame: essa lo nutrì solo di carne alla griglia, uova, miele, burro e frutta. E ben presto egli ridiven-ne com'era prima. Allora il giovane andò a trovare

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suo padre e gli disse: «Voglio sposare la negra». «Co-me oseremo guardare in faccia i nostri vicini?» si in-dignò il padre. «Tu vuoi il nostro disonore.» Ma il giovane disse ancora: «La sposerò o morrò».

Fu così che la sposò. Lunja ricevette ricchi doni d'ogni genere e venne assunta una nuova serva.

Il giovane attese la notte per spogliare la moglie della pelle che velava la sua bellezza. Al mattino, la serva fu la prima a essere stupita per tale beltà. Ve-nuta per portare la colazione agli sposi, ritornò an-nunciando a tutti: «La signora non è una negra! La signora è bianca come la neve e vermiglia come il sangue!».

Tutti accorsero per constatare il miracolo. Ora, il giovane marito aveva un fratello minore che gli chie-se: «Come è potuto succedere?». «Mi è bastato pro-nunc ia re le parole: "O figlia di negri, spogliati di questa pelle!"» rispose il fratello maggiore.

Il minore pensò allora: "Se una negra si rivela una vera bellezza, chissà cosa pot rebbe succedere con una cagna?... Non si rivelerà una dea?".

Sposò quindi una cagna. La notte, quando fu solo con lei nella stanza nuziale, le disse: «Figlia di cani, spogliati di questa pelle!». Per tutta risposta essa co-minciò ad abbaiare furiosamente. «Spogliati di que-sta pelle!» ordinò un'altra volta. Essa lo assalì e lo di-vorò.

Il mattino, quando la serva entrò per salutare gli sposi e servire loro la colazione, scoprì la cagna che vegliava gelosamente i resti dello sposo. La serva fuggì allora urlando: «Il signore è fatto a pezzi, la si-gnora vi si è accucciata sopra! Il signore è fat to a pezzi, la signora vi si è accucciata sopra!».

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

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3 . S T O R I A D E L L A R A N A

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

Nei tempi antichi, ai tempi in cui gli animali par-lavano, la rana era la sposa del rospo. Essi vivevano in completa felicità. L 'abbondanza e la prosper i tà riempivano la loro casa.

Si era in piena stagione dei fichi, e si avvicinava l 'autunno. Un matt ino la rana disse al rospo: «Marito! I fichi sono maturi , e siccome si suole dire: "Chi trova un fico prepari un ceppo", è tempo che cominciamo a pensare all'inverno. Recati al mercato e compra della lana. Ti tesserò un burnus scuro per la pioggia. Com-pra anche un po' di carne. La preparerò e domani la porteremo con noi, perché sin dall 'aurora ce ne an-dremo al f iume a lavare la nostra lana, e passeremo tutto il giorno all'aperto. Torneremo a casa pr ima di notte, portando con noi verdure, uva e fichi».

Il rospo si prese una sporta e un sacco e si diresse al mercato. Quanto alla rana, essa corse pr ima alla fontana per cercare dell'acqua e poi alla foresta per andare a prendere una fascina di legna, e rientrò per rimettere in ordine la casa. A mezzogiorno ebbe ap-pena il tempo di mangiare. Prese a macinare un'inte-ra giara di grano. Quand'ebbe finito passò la farina al setaccio. La semola più fine, quella più bella, la utilizzò per farne una focaccia che mise da parte per farla vedere al suo sposo. E poi preparò le palline del cuscus. Quand'ebbe messo la pentola sul fuoco, non le rimase che attendere.

Al t ramonto si fece incontro allo sposo che avan-zava a fatica. Essa lo raggiunse, lo aiutò a deporre il carico di lana e gli prese la sporta con le provviste che pendeva dalle sue spalle. Rientrarono a casa. Es-sa accese la lampada a olio, mise la carne a bollire

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nella pentola e il cuscus a cuocere al vapore. Si avvi-cinò quindi al sacco di lana. Cominciò a scuotere con forza la lana per farne cadere la polvere e la pa-glia. E disse al rospo: «I bioccoli più morbidi, i più bianchi, li impiegherò per il tuo burnus. Quanto alla lana più ruvida, ne farò una coperta che poi tingerò. E quest'inverno staremo al caldo».

Fece un mucchio della lana migliore, r imise nel sacco quella di qualità inferiore, si lavò le mani e si occupò della cena. Quando fu pronta, posò a terra la pentola e al suo posto mise sul fuoco un paiolo pie-no d'acqua. La rana e il rospo cenarono in santa pa-ce. Quand'ebbero finito, l 'acqua bolliva. La rana vi gettò della cenere e mise a bagno la lana. Poi fece i mestieri di casa. Il rospo, che era stanco, se ne andò a letto di buon'ora. La rana, più in forze, tirò fuori la lana dal paiolo, la strizzò e la mise a sgocciolare in una cesta. Riempì la sacca delle provviste: focaccia e carne. Infine, dovendosi alzare all'alba, andò anche lei a dormire.

L'indomani, quando si destarono, era ancora buio. Si prepararono e fecero colazione in tutta fretta. La rana, con la cesta sulle spalle, e il rospo, con la sacca a tracolla e in mano lo s t rumento per battere la lana, uscirono di casa alle pr ime luci dell'alba.

La strada che portava al fiume era in discesa. Essi vi si diressero. Raggiunsero il fiume quando il sole cominciava a farsi vedere. La rana posò il suo carico di lana, il rospo appese fa sacca a un albero. E si mi-sero al lavoro. Il rospo raccolse delle pietre e costruì uno sbarramento per trattenere l'acqua. È in questa piccola pozza d'acqua che la rana doveva disfare la lana, sfilacciarla in piccoli bioccoli, a mano a mano che il suo sposo la batteva.

A mezzogiorno, tutta la lana era lavata. Pensarono al lora a mangiare . La rana disse al rospo: «Va' in

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quella direzione; cerca di trovare, tra i rovi, qualche mora matura, e porta anche dei fichi, se ci riesci».

Il rospo partì alla ricerca dei frutti: tagliò dei giun-chi, li intrecciò per ricavarne un canestro che riempì di fichi, di uva e di more. La sua sposa lo attendeva pazientemente. Essa aveva scoperto un posto all'om-bra e aveva deposto in terra, su un foulard, la focaccia e la carne. Fece le parti e mangiarono. Fecero onore ai frutti: non ne lasciarono uno solo nel canestro. Bevvero a una fonte, nel cavo della mano. E poi, dal momento che l'aria era calda e il sole scottava, si ap-prestarono a fare la siesta. Il rospo distese il suo bur-nus all 'ombra dei pioppi: vi si distesero sopra.

Quando il sole cominciò a calare, la rana disse al rospo: «Marito! Alzati. Bisogna partire. Va' a prende-re delle verdure, intanto che io r imetto tut to a po-sto». Il rospo prese la sacca e il canestro di giunchi, e si recò in un orto che si trovava vicinissimo al fiume: le verdure che vi crescevano, nutrite d'acqua in ab-bondanza, erano splendide. Il rospo colse dei pepe-roncini, delle zucchine e dei pomodori. Ne riempì la sacca. Nel canestro mise fichi e uva. Se ne tornò dal-la sua sposa. Essa gli disse: «Non siamo mai stati più felici. Se ques to g iorno potesse non f inire mai!». «Torneremo quando vorrai» rispose il rospo.

La rana si caricò in spalla la cesta della lana e si incamminarono.

Avanzavano con fatica, perché quella che al matti-no era stata una discesa adesso era diventata una sa-lita. Inol tre e rano appesant i t i da tu t to quello che avevano mangia to . Sopra t tu t to la r ana era mol to s tanca. Cammina cammina , quando videro una quercia la rana sospirò: «Sono stanca. Non potrem-mo riposarci un po' sotto questa quercia?». Si ferma-rono un istante, e poi il rospo disse: «Fatti coraggio. La notte sta per sorprenderci e la nostra casa è anco-

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ra lontana». Camminarono ancora a lungo. Apparve una collina. «Sono stanca» riprese la rana. «Solleva la testa,» rispose il rospo «il villaggio si trova dietro questa collina. Tra poco vedremo i tetti delle case.»

Ma la rana, stremata, si sedette sul bordo del sen-tiero e dichiarò: «Parti da solo, se vuoi. Io non riesco più a fare un passo».

Allora il rospo la prese a cavalcioni sulle spalle. Dopo qualche istante disse, contrariato: «Che cos'è questo liquido che mi bagna i talloni?». La rana ri-spose: «È l'acqua della lana che gocciola fuori dalla cesta». Ma il rospo riprese, sempre più irr i tato: «Non è che per caso tu mi abbia pisciato addosso? Sento delle gocce sui talloni». «Ti dico, amico mio, che è la lana!» Il rospo, esasperato, lasciò cadere dal-la schiena la rana.

Ora, nei pressi si trovava una pozza d'acqua. La rana vi saltò dentro, abbandonando sul bordo la ce-sta con la lana. Il rospo si acquattò un po' più in là, triste, con la sacca delle verdure e il canestro di frut-ta ai piedi.

Capitò di lì il capraio: «Che t'è successo, zio ro-spo?» domandò. «Cosa non mi è successo! La regina delle donne è fuggita: è nella pozza d'acqua.» «È tut-to qui? Te la riporto io!»

«Madama rana!» chiamò. «Chi cammina sopra al mio tetto?» rispose lei, irritata. «Mi cadono dei calci-nacci sulla cena.» «Sono il capraio. Vieni, Dio voglia ispirarti. Ritorna da tuo marito.» «Vattene, occupati piuttosto dei tuoi piedi pieni di screpolature.» «Sono forse venuto per farmi insultare? Resta nella pozza d'acqua, se ti ci trovi bene!»

Sopraggiunse lo sciacallo: «Che cos'hai, rospo, che stai qui a sorvegliare il sentiero?». «La giovincel-

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la del giovincello mi ha lasciato!» «La pregherò di ri-tornare, se Dio vorrà consigliarla.»

«Madama rana!» chiamò. «Chi va là?» «È lo scia-callo che viene verso di te, lo sciacallo agile e furbo.» «Davvero? Se tu fossi l'agile e furbo sciacallo, ti avrei forse trovato con la zampa rotta in fondo a una scar-pata?»

Capitò di lì il leone: «Che cos'hai, rospo, che stai qui a sorvegliare il sentiero?». «O mio signore, è la bellezza dell'universo che se ne fuggita e mi ha ab-bandonato!» «Non ti perdere d 'animo. Te la ripor-terò io.»

«Chi cammina sopra il mio tetto?» domandò la rana, irritata. «Mi cadono dei calcinacci sulla cena.» «È il tuo signore il leone, il re delle fiere. Vieni, se-guimi. Ritorna da tuo marito.» «Tu mio signore? Se tu fossi il re delle fiere, non ti faresti t rascinare da un Arabo legato a una corda come un cane.»

Il leone, scoraggiato, se ne tornò dal rospo.

Passò il gipeto: «Che cos'hai, zio rospo?». «La gra-zia del mondo è ent ra ta in quella pozza d'acqua!» «Tutto qui?... Non è grave.»

Prese il volo. «Chi è sopra il mio tetto?» gridò la rana. «Mi cadono dei calcinacci sulla cena!» «È il tuo signore, il gipeto, figlio di gipeti e bianco come il latte.» «Ah, davvero? Se tu fossi il mio signore, il gi-peto dei gipeti e bianco come il latte, ti avrei trovato intento a mangiare una carogna, su un mucchio di letame?»

Sopraggiunse il corvo: «Che cosa c'è, zio rospo? Che cosa fai per strada a quest'ora?». «La grazia del mondo mi ha lasciato!» «Non temere, essa non resi-sterà alla mia voce.»

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«Madama rana!» chiamò. «Seguimi, sono il corvo, il marabutto che torna dalla Mecca.» «Ah, davvero? Se tu tornassi dalla Mecca, non avresti tradito la fi-ducia che in te aveva riposto il Profeta. Dio non ti avrebbe maledetto. Dopo essere stato tutto bianco, non saresti divenuto tutto nero e non puzzeresti di marcio!» Il corvo se ne partì con le ali basse.

Arriva la pernice: «Che cos'hai, zio rospo? È calata la notte; che cosa ci fai tutto solo sul sentiero?». «Il sale dell'universo è fuggito. La moglie mi ha abban-donato.» «Corro a riportartela.»

«Madama rana!» chiamò. «Chi cammina sopra il mio tetto? Mi cadono dei calcinacci sulla cena.» «È la pernice più bella del paese.» «Davvero? Se tu fossi la pernice più bella del paese, avrei trovato le tue so-relle ammucchiate nel carniere di un cacciatore?»

La pernice se ne tornò piangendo.

Ecco infine presentarsi lo scricciolo: «Che cos'hai, zio rospo? Perché quest'aria disperata?». «È la gio-vincella del giovincello che se n'è fuggita nella pozza d'acqua e mi ha lasciato. In tanti hanno già provato a riportarmela. Ma essa non li ha accolti bene.» «Ve-drai che mi seguirà, perché non la pregherò.»

«Chi picchia al mio nido? Mi cadono dei calcinac-ci sulla cena!» «È il tuo signore, lo scricciolo degli scriccioli, verde come il fiele. Cammina davanti a me o assaggerai il bastone!» «Un istante che mi agghin-do! Un po' di rossetto, un po' di trucco sugli occhi e precedo il mio signore!»

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

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4 . C H I DI N O I È LA P I Ù B E L L A , O L U N A ?

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

Si narra che nei tempi antichi vi era una giovane donna , bella come la luna. E ques ta donna , nelle notti di luna piena, si truccava, pettinava e profuma-va i suoi lunghi capelli, indossava i suoi abiti più ric-chi, si ornava con tutti i suoi gioielli e usciva.

Per avere una migliore vista del cielo, saliva su un'altura. E qui, rivolgeva il proprio viso splendente verso la luna e le chiedeva: «Chi di noi è la più bella, o luna? Chi di noi è la più bella?». E la luna rispon-deva: «Tu e io siamo ugualmente belle, ma la figlia che porti in te ci supererà in bellezza». E la giovane donna si lamentava e malediceva la bimba che por-tava in seno.

Per mesi andò avanti a rivolgersi in questo modo alla luna chiedendole: «Chi di noi è la più bella, o lu-na? Chi di noi è la più bella?». E ogni volta la luna ri-spondeva: «Tu e io siamo ugualmente belle, ma la fi-glia che porti in te ci supererà in bellezza».

Essa mise a l m o n d o u n a b a m b i n a dai capelli d'oro, una bambina più bella della luna nel f irma-mento. La chiamarono Jejjiga, "fiore". La sua bellez-za cresceva di giorno in giorno. Le vicine dicevano alla madre: «Già tu sei bella, ma la bellezza di tua fi-glia eclisserà la tua». E la giovane donna, all 'udire queste parole, si sentiva trafitta da stilettate di gelo-sia. Diceva in cuor suo: "Quando questa bimba sarà diventata un'adolescente nessuno più mi guarderà".

La bambina aveva ora otto anni. Era piena di vita e di grazia. La m a d r e le disse una sera: «Domani metteremo sul telaio una grande coperta. Dovremo preparare l 'armatura. Ci accompagnerà la nostra vi-cina». Al matt ino prese due solidi pali che dovevano

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fungere da montant i e un grosso gomitolo di lana. Chiamò la vicina e tutte e due se ne andarono, por-tando con sé la piccina.

Si lasciarono alle spalle in lontananza il villaggio e raggiunsero una collina. La madre disse allora alla fi-glia: «Noi pianteremo in terra i pali verticali e tu farai correre la lana tra di noi. Adesso sei grande, ce la farai a tenere in mano il gomitolo?». La madre sapeva bene che cosa stava facendo. La ragazzina si mise a far scorrere la lana. «Più svelta, più svelta!» le disse la madre. Il gomitolo era pesante. Sfuggì di mano alla piccina e cominciò a rotolare. «Corri a riacchiappar-lo!» gridò la madre. La bimba si slanciò. La madre ta-gliò il filo e il gomitolo prese a rotolare sempre più ve-loce, sempre più veloce, trascinando con sé Jejjiga verso il precipizio. Poi, all'improvviso, il gomitolo scomparve.

La piccina lo cercò invano tra i rovi e nei cespugli. Tornare indietro?... Aveva perso la strada. Allora si mise a camminare a caso sulle sue esili gambette . Cammina cammina, arrivò al limitare del bosco. Fu allora che scoprì, seminascosto da una fitta vegeta-zione, l'ingresso di una caverna. Si aprì un varco ed entrò. La caverna era profonda. Quando ebbe fatto qualche passo e si fu abituata all'oscurità, la b imba vide, avvolto su se stesso come un enorme braccia-letto, un serpente. Lanciò un grido. Esso sollevò il capo, aprì due occhi che parevano stelle e la osservò. Vide quella ragazzina che Dio solo aveva po tu to creare. La corsa aveva reso il suo viso simile a una rosa; le spine avevano graffiato i suoi piedini e le sue manine. I suoi abiti erano strappati. Tanta beltà ab-bagliò il serpente; tanta grazia e fragilità lo commos-sero. Ringraziò Dio in cuor suo.

La bimba tremava. Egli le disse: «Non avere pau-ra, non ti farò alcun male. Ma dimmi, piccina, che

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cosa ti ha condotta fino a me». Essa era sul punto di mettersi a piangere. Udendo il serpente rivolgersi a lei con un linguaggio umano, si sentì rassicurata. Gli disse: «Io tenevo un gomitolo di lana, un gomitolo pesante. Mi è caduto di mano e ha cominciato a ro-tolare senza fermarsi. Io l'ho seguito... Poi l'ho perso di vista e ho continuato a camminare fino ad arriva-re qui». Egli prese dell 'acqua per lavarle il viso, le mani e i piedi. La fece sedere e le servì da mangiare. Lei mangiò un po' di focaccia di grano e bevve del latte. In un angolo ben riparato le apprestò un giaci-glio e ve la condusse per farla riposare.

Bisogna sapere che questo serpente non era un ve-ro serpente. Un tempo era stato un uomo felice: ave-va una casa, una moglie, numerosi campi e ogni sor-ta di beni e di r icchezze. Ma u n a notte , senza avvedersene, mise un piede su un serpente. Questo serpente lo fissò, si rizzò e alitandogli in viso gli dis-se: «Tu mi hai schiacciato. Diventerai un serpente come me e tale resterai finché vivrò, in modo che gli uomini ti calpesteranno!».

Fu così che venne t rasformato in un serpente. Ab-bandonò la famiglia, la casa e tutti i suoi beni. Fuggì dalla gente e si rifugiò nella foresta. Si avvicinò alle fiere, si mise a vivere come loro, a nutrirsi di carne e sangue. Ma se il suo corpo era quello di un serpente, il suo cuore e il suo spirito erano rimasti quelli di un uomo. Se fuggiva i suoi simili era solo per il t imore di essere schiacciato da loro. Ma la solitudine gli era amara e lo consumava. Quando gli apparve la ragaz-zina era da molto tempo che non vedeva più l 'ombra di un essere umano. Per questo alla vista del suo viso di rosa e delle sue piccole membra stanche il cuore del serpente si era sciolto per la tenerezza.

La piccina si era addormentata . Egli uscì, uccise due pernici, raccolse della verdura e della f ru t ta e

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r ientrò. Accese il fuoco, mise a cuocere il cibo e andò a ridestare la bimba. Le chiese con dolcezza: «Come ti chiami? Qual è il nome del tuo villaggio e dei tuoi genitori, aff inché io ti r iconduca a loro?». Essa rispose: «Io mi chiamo Jejjiga, ma non so né il nome dei miei genitori né quello del mio villaggio». Il serpente, che non poteva ripresentarsi agli occhi degli umani, r imase in silenzio. Rifletté a lungo, si guardò intorno e alla fine disse: «Rimarrai qui fin-ché Dio non ti aprirà una strada. Sposo la tua fame e la tua sete: sarai la mia bambina. Ma dovrai obbedir-mi e non ol t repassare mai la soglia della caverna. Qui siamo nel regno degli animali; se ti ci avventu-rassi potrebbe succederti qualcosa di brutto».

Il serpente l'allevò. Fu per lei padre e madre allo stesso tempo. Le insegnò a preparare da mangiare e ad amare l 'ordine. La colmò di ogni attenzione, la circondò di tenerezza. Essa gli obbedì finché fu pic-cola; ma, fattasi adolescente, cominciò a conoscere la noia. Ebbe nostalgia del cielo, del sole. Volle sco-prire il mondo.

Il serpente la lasciava spesso sola per anda re a caccia e a tagliare la legna: essa approfittò di queste assenze. Dapprincipio si accontentò di lanciare timi-di sguardi al di là delle alte erbe e dei rami che cela-vano l'ingresso della caverna. Poi però prese ad av-venturarsi all 'esterno. Ma r ientrava sempre p r ima che tornasse il serpente.

Un giorno un taglialegna la scorse e ne fu meravi-gliato. Come si avvicinò per osservarla meglio, essa scomparve. Di ri torno al villaggio raccontò la sua av-ventura a chi la voleva ascoltare: «Stavo per tagliare della legna nella foresta quando vidi uscire da terra una creatura, una creatura. . . una coltre d'oro la ri-copriva fino ai piedi. La luce che ne emanava mi ab-bagliò. Si sarà trattato della fata guardiana della fo-

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resta? Volevo avvicinarmi per vederne il viso, ma es-sa era già scomparsa!».

Questa storia, trasmessa di bocca in bocca, arrivò all'orecchio del principe, che non esitò a interrogare il taglialegna. «Principe,» rispose il taglialegna «una creatura mi è davvero apparsa sul limitare della fo-resta. Era in piedi, contro un albero. Era un angelo, u n a fa ta? . . . I l suo viso sfidava la luce. Un m a n t o d'oro la rivestiva. Quando volli osservarla più da vi-cino, mi accorsi che non c'era più!» «Domani, alle pr ime luci dell'alba, mi condurrai là dove essa ti è apparsa!» disse il principe.

L'indomani la ragazza finì per mostrarsi all'ingres-so della caverna. Il manto d'oro che la rivestiva erano i suoi capelli. E fu tut to quello che videro il principe e il taglialegna che la spiavano attraverso il fogliame. Il principe decise di r imanere solo per sapere se la stra-na creatura fosse un mortale o una fata.

La giovane rimase a lungo ferma sulla soglia e poi rientrò. Poco dopo il principe vide questa cosa che lo stupì: il serpente che avanzava in piedi, recando ver-dure, f ru t t a e selvaggina, giacché quando portava dei carichi esso non strisciava! Il serpente mangiò, fece la siesta (era estate) e uscì per fare una passeg-giata. Allora il principe potè avvicinarsi alla caverna e contemplare la ragazza. Essa si teneva appoggiata a un albero e portava alla bocca dei chicchi d'uva. Egli pensò: "Dal momento che sta mangiando, posso avvicinarmi!". Scostò i rami e, facendosi avanti, le disse: «In nome di Dio, te ne prego, d immi chi sei, creatura!». Essa rispose: «Sono un essere come te. Sono la figlia del serpente». Egli la osservò mentre parlava, meravigliandosi del suo viso sbocciato co-me una rosa. Le chiese del suo villaggio e dei suoi genitori, ed essa rispose: «Qui, in questa caverna ho vissuto e sono cresciuta. Il serpente mi ha allevata:

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io sono sua figlia. Ma è a sua insaputa che vengo fuori. Mi raccomando, non dirglielo, non raccontar-gli che mi hai vista!». E rientrò.

Il principe andò a trovare suo padre e gli dichiarò: «Voglio sposare la figlia del serpente». Il re si indi-gnò. Il principe cadde ammalato di un grave male: la febbre non lo abbandonava né di giorno né di notte.

il re finì per chiedergli: «Figlio mio, che cosa ti po-trebbe guarire?». «Permettimi di sposare la figlia del serpente e vedrai che guarirò.» Dal momento che il principe deperiva ogni giorno di più, il re cedette. Si recò dal serpente e gli disse: «Dammi tua figlia per mio figlio». Il serpente rispose: «O re, è da sette anni che essa è venuta da me. Io l'ho allevata come una fi-glia. Mi è più cara del f i rmamento. Ma dal momento che tu la vuoi, o re, eccotela: te l'affido. Colmala di doni e veglia su di lei come ho fatto io stesso fino a ora. Quanto a me, ti chiedo una sola cosa: un otre di sangue».

Il giorno in cui essa doveva separarsi da lui per se-guire il re a corte, il serpente disse alla ragazza: «Va', figlia mia, sii brava, va' e, mi raccomando, non vol-tarti indietro ma guarda sempre avanti!». Essa salì su una giumenta tutta ingualdrappata di seta, con il re che la scortava. Ma dopo un istante gridò: «Ho di-menticato il mio pettine!». Scese allora da cavallo e corse verso la caverna, dove sorprese il serpente in-tento a pascersi di sangue. Lo vide cambiare espres-sione. Egli le disse, tutto vergognoso: «Non ti avevo raccomandato di non tornare indietro?... Te ne pen-tirai». Allora essa tornò spaventatissima dal re.

A corte visse felice per alcuni mesi. Il pr incipe, suo marito, l 'amava. Con gran gioia di tutta la fami-glia reale, essa mise alla luce un b imbo dai capelli d'oro, un figlio che le assomigliava. Lo custodì per quaranta giorni, dopodiché, una mattina, si alzò per

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unirsi alla vita della corte. Quando ri tornò dal bam-bino, esso era scomparso. Lo cercarono a lungo, ma invano.

L'anno successivo essa ebbe un nuovo bambino, un b imbo come il primo, dai bellissimi capelli d'oro. In capo a quaranta giorni anch'esso scomparve. Il re e la regina dissero allora al figlio: «Risposati! Che bene ci può venire dalla figlia del serpente?». Ma il principe, che riponeva in Dio le sue speranze, rispo-se al re e alla regina: «Io ho scelto Jejjiga per se stes-sa, e non per i figli che mi avrebbe dato».

Uno dopo l'altro, la giovane principessa ebbe sette figli, sette bimbi dai capelli d'oro, che furono tutt i rapit i quaran ta giorni dopo la nascita. Essa fu so-p rannomina ta "Colei che divora i suoi figli". Ma il principe continuava ad amarla.

Otto anni erano trascorsi da quando Jejjiga aveva lasciato la caverna del serpente per la corte del re, q u a n d o una sera essa disse al pr incipe: «Domani, conduc imi da mio pad re af f inché egli mi perdo-ni...». Egli la accontentò. Appena arrivati alla caver-na, il principe e la principessa videro sei fanciullini dai capelli d 'oro che giocavano e si inseguivano in maniera incantevole. Un vecchio teneva in braccio il settimo bimbo dai capelli d'oro.

La principessa cercava con gli occhi il serpente. Allora il vecchio si fece avanti e le disse: «Non cer-carlo, sono io. Molto tempo fa, una notte, ho messo un piede su un serpente per disattenzione. Egli si è vendicato perché mi ha t rasformato in serpente co-me lui. Ora però è morto e con lui è morto anche il potere che aveva su di me». Disse inoltre: «Il giorno in cui mi hai lasciato per andare verso il tuo sposo ti avevo raccomandato di non tornare indietro. Tu sei r i tornata e mi hai sorpreso mentre bevevo del san-gue. Mi hai umiliato e io ti ho detto: "Te ne penti-

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rai"». Tese alla principessa il bebé che aveva in brac-cio e si rivolse al principe: «Sono io, o principe, che sono venuto a cercare i tuoi figli uno dopo l'altro per punire mia figlia. Li ho allevati con tenerezza come avevo allevato la loro madre. Per sette volte, o principe, ti sei trovato davanti a una culla vuota e non hai disperato e non hai umiliato mia figlia. Al contrario, l'hai amata e protetta. Ecco i tuoi figli... Te li rendo». E sospinse verso di lui i sei fanciulli dai capelli d'oro.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

5 . A I S H A , F I G L I A MIA, U N A P O Z Z A I N C U I S P E G N E R E Q U E S T E F I A M M E !

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

Si narra che nei tempi antichi vi era una vedova attorniata da sette figli, sette bambini assai vicini tra loro di età. Lei era mol to povera e la sua vita era molto dura. Di giorno lavorava per gli altri; di notte lavorava per sé.

Si recava alla fontana alle pr ime luci dell'alba, e poi al bosco in cui andava a prendere fascine di le-gna ed erba per i suoi conigli e per la sua capra. Aiu-tava a falciare l'orzo e il f rumento, al momento della mietitura, e andava nei campi a spigolare. D'estate, coloro che possedevano orti e frutteti in montagna la mandavano a raccogliere per loro legumi e f rut t i . Essa tornava carica d'uva, di fichi, di pesche e di pe-re, e per ripagarla delle sue fatiche gliene davano un paniere pieno. D'inverno, raccoglieva le olive e rice-veva in cambio dell'olio. In questo modo riusciva a nut r i re e far crescere i suoi sette bambin i . Alcuni

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riuscivano a seguirla e venivano qualche volta a tro-varla nei campi. Gli altri, li lasciava in custodia alla maggiore, una bimbetta che la miseria e le preoccu-pazioni avevano reso già matura.

La vedova abitava in una capanna, fuori del villag-gio. Essa ne veniva via prima del levar del sole e non vi faceva ritorno pr ima del tramonto. È solo di notte che essa trovava il tempo di macinare l'orzo e il fru-mento quotidiani, ed è sempre di notte che tesseva, al chiarore di una lanterna a olio.

La stagione dei fichi era fuggita. Sugli alberi non vi erano quasi più melagrane. Tra poco il freddo si sarebbe presentato sulla soglia; la vedova lo sentiva. Per questo, essa aveva cominciato col telaio una bel-la coperta in modo che i suoi piccini avessero caldo in inverno, e passava le notti vegliando al telaio.

Una not te le sembrò di sent ire nell 'aria come l 'odore delle olive e della neve. Aveva fatto cenare i suoi bambini e aveva disteso per loro delle coltri vi-cino al focolare. Si accostò al telaio più presto del solito, e vi entrò tenendo in mano la lanterna a olio. Continuò a tessere, a tessere fin verso la metà della notte, preoccupata di non farsi sorprendere dall'in-verno. I bambini dormivano. La capanna era immer-sa nell'oscurità. La rischiaravano debolmente il fuo-co che ardeva al centro e la lanterna a olio posata accanto al telaio. All'improvviso, la porta che era ri-masta socchiusa venne sospinta e la vedova vide pe-netrare una sagoma gigantesca, formidabile. I piedi calpestavano il suolo di terra battuta; la testa tocca-va il tetto di paglia. I capelli si rizzavano verso il cie-lo come un cespuglio spinoso. Era Tseriel.

Essa si diresse verso il telaio e vi entrò. Si sedette accanto alla vedova e le disse: «Fatti in là, ti do una mano io». E si mise a tessere. Tesseva, tesseva come un demonio, mentre la vedova t remava e pensava:

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"Mamma mia! Mamma mia! Ci ingoierà tutti, i miei bambini e me!". Esse continuarono a tessere, a tes-sere tutte e due fino a che vi fu del filo. Ma l'orchessa scorse delle cordicelle. Se ne impadronì e disse: «Le tesseremo e continueremo il nostro lavoro».

Quando non vi furono più cordicelle, Tseriel e la vedova uscirono dal telaio e si sedettero accanto al fuoco. La vedova aggiunse un ceppo e ne scaturiro-no alte fiamme. Un istante dopo, la vedova sentì un prur i to alla testa. Afferrò al centro un t izzone e si grattò con l'estremità che non ardeva. Tseriel la volle imitare. Ma quella che applicò alla sua testa fu la parte incandescente. I suoi capelli presero fuoco in un lampo e quel cespuglio spinoso che non erano al-tro fu tutto una fiamma. Essa si slanciò all'esterno, e si mise a correre, inseguita da tutti i cani del vicina-to. Il vento ripiegò le fiamme verso le sue spalle. Il fuoco si appiccò ai suoi vestiti e discese fino ai suoi piedi. Ben presto essa non fu che una torcia al vento che correva, correva, gridando per strada: «O Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme, una pozza in cui spegnere le fiamme!». Una torcia alle prese con l ' immenso ululare dei cani e del vento. Finalmente davanti a lei apparve una pozza d'acqua. Tseriel vi si gettò e si impantanò nel fango.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

6 . L A M U C C A D E G L I O R F A N E L L I

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'era una volta, in un certo villaggio, un uomo che aveva una moglie e due figli. La primogenita era una bambina: essa si chiamava Aisha. Il piccolo si chia-

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mava Ali. La loro madre possedeva una mucca. Ma ecco che un giorno la madre si ammalò di una grave mala t t ia . Quando si vide p ross ima alla morte , ch iamò il mar i to e gli disse: «Promett imi che non venderai mai la mucca, e che la conserverai sempre per i piccoli orfanelli!». Egli glielo promise solenne-mente ed essa morì.

Ai fanciulli era rimasto solo il padre. Essi si strin-sero a lui. Ma egli non era capace di curarli e Aisha, la bimba, era troppo piccola per preparare i pasti e fare i mestieri di casa. Il padre si risposò. All'inizio, la matrigna non fece alcun male agli orfanelli. Ma le capitò di mettere al mondo una b imba che chiamò Johra, e dal giorno in cui le nacque questa figlia pre-se a detestare gli orfanelli. Li percuoteva. Li lasciava soffrire la fame. La bimba e il fratellino conduceva-no la mucca al pascolo e bevevano il suo latte. Cia-scuno di loro si attaccava a una mammella. Così essi avevano un bell'aspetto, e la matrigna se ne stupiva e diceva tra sé: "Come possono prosperare, crescere e rafforzarsi se io li privo di tutto?".

A sua figlia essa dava tut to ciò che aveva di me-glio. Agli orfani dava gli avanzi. Ma per quanto rim-pinzasse sua figlia Johra, questa invece di diventare bella si faceva di giorno in giorno più brutta, gracile e giallastra. Infatti, invece di fare progressi, regredi-va come i piccoli dell'asino, che in fatto di bellezza non migl iorano. Si sarebbe det to che la m a d r e le desse da mangiare del veleno. Comunque Johra, be-ne o male, cresceva.

Gli orfanelli, invece, diventavano ogni giorno più bianchi e rosei: le loro guance erano come due mela-grane. E ogni volta che la matrigna posava gli occhi su di loro si sentiva morire dalla gelosia. Così, una sera, disse alla figlia: «Domani seguili e torna a dir-mi che cosa mang iano nei campi». Consegnò alla

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b imba due uova sode e una focaccia di f rumento . Agli orfani diede una focaccia di crusca e fece loro questa raccomandazione: «Vostra sorella Johra vi accompagnerà. Vegliate su di lei, e che non le succe-da nulla di male!».

Gli orfani amavano la loro sorella. Partirono tutti e tre. Appena arrivati, si riposaro-

no un po'. Quindi giocarono a nascondino nei cam-pi. All'ora di pranzo Johra tirò fuori da un cestino la sua focaccia di f rumento e le sue uova sode. Gli orfa-nelli mangiarono la loro focaccia di crusca. Poi an-darono dalla mucca per bere il suo latte. Johra os-servò ma non si avvicinò. Al r i to rno disse alla madre: «Mamma, adesso so perché sono così bian-chi e rosei: bevono il latte della mucca». «Devi fare come loro» rispose la madre . «Tutto quello che fa-ranno, fallo, così ingrasserai pure tu.»

L'indomani, Johra attese che Aisha e Ali avessero finito di bere per avvicinarsi a sua volta alla mucca. Ma la mucca le assestò un calcione con lo zoccolo. Joh ra se ne to rnò a casa con un bernoccolo sulla f ronte e, piangendo, si lamentò con la madre: «La mucca mi ha colpita ment re stavo avvicinandomi per prendere la sua mammella!».

La sera, al r ientro del padre, la matr igna si fece avanti e gli disse: «La mucca che ha colpito la mia b a m b i n a non può più vivere in casa mia . Mari to mio, domani tu la venderai. La venderai!». Egli le ri-spose: «Moglie mia, Dio voglia farti ragionare: come potrei vendere la mucca degli orfanelli? Chi me la comprerebbe? Ho giurato alla loro madre, sul letto di morte, che non me ne sarei mai liberato». «Hai sentito? Tu venderai la mucca. La venderai o pren-derò mia figlia per mano e ti lascerò alla tua casa, ai tuoi figli e alla tua mucca.»

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Invano egli la pregò e la supplicò. Alla fine dovette cedere.

L'indomani trascinò la mucca al mercato. Gli orfa-nelli piansero e si lamentarono. Quando fu arrivato in piazza, il padre si mise a gridare: «Chi vuole com-prare la mucca degli orfanelli?». A ogni persona che si avvicinava per chiedere: «Che mucca è questa?» egli diceva: «È la mucca degli orfanelli». «Che Dio ci preservi dalla maledizione degli orfani!» era la rispo-sta. «Non priveremo gli orfani dei loro beni.»

Al t ramonto r iportò a casa la mucca e disse alla moglie: «Nessuno ha voluto comprar la . Mi h a n n o tutti detto: "Dio ci preservi dalla maledizione degli orfani!"».

Tornò a portare la mucca al mercato altre due o tre volte. Ma non trovò nessuno che gliela compras-se. Allora sua moglie dichiarò: «Siccome non riesci a venderla, la sgozzerai. Perché la mucca che ha colpi-to la mia bambina non può più vivere in casa mia».

Egli sgozzò la mucca. Gli orfanell i si r eca rono al lora al c imitero per

piangere sulla tomba della madre. Ma ecco che due canne crebbero sulla tomba. Una dispensava burro, l'altra miele. I bimbi si chinarono e si misero a suc-chiare uno dopo l'altro.

Grazie alle canne, gli orfanelli, che erano deperiti, ripresero il loro colorito bianco e roseo. Di nuovo la matrigna pensò: "Eccoli ancora con due guance che s embrano melagrane ment re mia figlia è sempre secca e giallastra. Cos'altro avranno scoperto per in-grassare?".

Diede ordine alla figlia di seguirli e imitarli in tut-to e per tutto. Johra li seguì dunque al cimitero. Li vide accostars i alla t omba della madre e chinars i sulle canne che vi erano spuntate per succhiarle. La ragazzina tornò dalla madre per riferirle quello che

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aveva visto. La madre le disse: «Non ti avevo racco-mandato di fare tutto quello che li avessi visto fare? Imitali in tutto, succhia anche tu le canne della tom-ba per avere anche tu guance rosee e candide».

Così fece Johra l ' indomani. Ma appena accostata la bocca alle canne, ricevette da esse un getto di fiele e di sangue. Fece ritorno vomitando per strada. Allo-ra sua madre, furiosa, prese un vecchio piatto sbrec-ciato, lo riempì di brace, raccolse dei legni secchi e corse al cimitero per bruciare la tomba. Per privare gli orfanelli di ciò che la provvidenza aveva loro con-cesso.

Aisha la vide bruciare la tomba. Aisha era cresciu-ta; stava ora uscendo dall'adolescenza. Disse al fra-tello più giovane: «Dal momento che hanno bruciato la tomba di nostra madre non ci resta che l'esilio». Si infilò nel corsetto un pezzo di focaccia, prese per m a n o il f ratel lo e pa r t i rono dri t t i davant i a loro. Cammina cammina , al crepuscolo giunsero a una foresta. Passarono la notte tra i rami di una palma da datteri. Al matt ino si rimisero in viaggio. Chiede-vano la carità di villaggio in villaggio. Per strada si imbat te rono in una fonte: il ragazzo vi bevve e fu t rasformato in una gazzella.

Allora Aisha si sfilò la lunga cintura di lana e la legò al collo della gazzella. E da allora temette per suo fratello e non se ne separò mai. Così, se lo porta-va dietro mentre chiedeva la carità, e ogni sera cer-cava un luogo impervio, un luogo sicuro in cui na-scondersi con lui. All'alba si rimetteva in viaggio.

Ma ecco che un giorno, in un villaggio, un sultano la notò. Ingiunse ai suoi servitori di condurgliela. Ai-sha si mise a correre, a correre come il vento. Il suo fratello-gazzella la seguiva da presso. Una palma da dat tero gigantesca si parò loro dinanzi: una palma che da terra arrivava al cielo. La gazzella si stese ai

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piedi della palma, mentre Aisha si arrampicava fino ai rami più alti. Gli uomini che la inseguivano le dis-sero di scendere, ma essa rifiutò. Essi le ripeterono di scendere, ma essa r i f iutò un 'a l t ra volta. Allora, mentre già si accingevano ad abbattere l'albero, Set-tut, la vecchia strega, biascicò: «Per questa notte, la-sciatela stare. È inutile abbattere la palma, mi inca-rico io di farla scendere domani . Ma se devo farle prendere confidenza, dovete allontanarvi».

L'indomani Aisha guardò tra i rami della palma e vide una vecchia tutta curva: era Settut che aveva portato un piatto di quelli che servono per fare le fo-cacce e della farina avvolta in uno straccio. Essa scavò un focolare ai piedi dell'albero, lo munì di tre grandi pietre e accese il fuoco. Appena scaturite le f iamme, posò sul fuoco - alla rovescia - il piatto per le focacce e si mise a preparare la pasta. Dall'alto dell'al-bero Aisha le rivolse la parola: «Non è così, buona madre, che si posa il piatto per le focacce!». Settut ri-spose: «Non so come fare, figlia mia. Io non ci vedo».

La ragazza guardò prudentemente tut t ' intorno e non vide nessuno. Allora scese per aiutare Settut . Ma appena toccata terra la strega la afferrò e fece se-gno a quelli che volevano impadronirsi di lei. Fu così che Aisha venne condot ta dal sul tano. A lui essa na r rò la sua s tor ia f in dall ' inizio. Gli r accontò la morte della madre, la morte della mucca. E gli disse: «È a causa di mio fratello che sono fuggita davanti ai tuoi servitori. Mio fratello ha bevuto l 'acqua di una fonte ed è stato t ramutato in gazzella».

Il sultano ne fece la sua sposa. Aisha e il fratello-gazzella vissero felici per qualche tempo. Il sultano possedeva un immenso giardino; la gazzella poteva percorrerlo in lungo e in largo a piacimento. In mez-zo al giardino c'era un pozzo. E a questo pozzo non si attingeva più acqua: era troppo vecchio.

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Non passò molto tempo e nel regno si diffuse la notizia che Aisha stava per dare alla luce un bambi-no. Il sultano era al settimo cielo, perché, pur aven-do sposato diverse mogli, nessuna gli aveva ancora dato un erede. Una di queste mogli si ingelosì di Ai-sha. Approfit tando di un viaggio del sultano, att irò la giovane sultana vicino al vecchio pozzo, la fece se-dere sul bordo, si accovacciò ai suoi piedi e le disse: «Guarda che cos'ho tra i capelli, ho un prur i to alla testa». E mentre Aisha si chinava, la rivale la spinse nel pozzo: e Aisha vi cadde dentro.

Da allora, la gazzella bramiva per tu t ta la casa, bramiva per tutto il giardino. La moglie gelosa aveva un bel legarla, la gazzella rompeva i lacci, se ne an-dava fino al pozzo e si metteva a bramire girandovi intorno.

La moglie gelosa finì per dire a un servo: «Sgozza-mi questa gazzella!».

L'uomo prese un grosso coltello e si avvicinò alla gazzella. Ma questa lo guardò con gli occhi pieni di lacrime. Allora il domestico tornò dalla padrona e le disse: «Non ce la faccio a ucciderla: questa gazzella non è un animale, bensì un essere umano. Mi guar-da, e a me cadono le braccia!».

Uno dopo l'altro, la moglie gelosa chiese a tutti i servi di sgozzargliela. Ma uno dopo l'altro tutti le ri-sposero: «Non ce la facciamo a uccidere questa gaz-zella dallo sguardo umano».

Fin dall 'aurora la gazzella si recava al pozzo. Si chinava sul bordo e diceva alla sorella:

Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami!

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E la sorella gli rispondeva:

Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te!

Ora, il Genio del pozzo era una fata-guardiana. Quando Aisha era stata precipitata dalla malvagia ri-vale, la fata l'aveva afferrata al volo e condotta in una grotta affinché essa vi mettesse al mondo il figlio del sultano. La fata ebbe cura amorevolmente della ma-dre e del bambino. Ma il pensiero fisso di Aisha era sempre il fratello-gazzella: non appena sentiva la sua voce lamentosa, rispondeva dal fondo del pozzo:

Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te!

Solo lo Sheikh della Moschea poteva udirli, perché lui solo passava accanto al pozzo prima del levar del sole, in quell'ora in cui la gazzella aveva l'uso della pa-rola. Fu così che udì più volte la gazzella dire al pozzo:

Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami!

E fu così che udì anche il pozzo r ispondere alla gazzella:

Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo

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Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te!

Lo Sheikh della Moschea andò a trovare il sultano ri tornato dal viaggio, e gli disse: «Il tuo pozzo è infe-stato! da presenze soprannatura l i . Domani all 'alba vieni con me e vedrai e udrai».

L'indomani il sultano si alzò alle prime luci dell'al-ba e andò a raggiungere lo Sheikh in giardino. Vide-ro la gazzella sporgere la testolina oltre il bordo. Si avvicinarono e l 'ascoltarono mentre diceva lamento-samente al pozzo:

Stanno affilando lame Per Alì-povera-gazzella O mia sorella Aisha, figlia di mia madre, Liberami!

Udirono anche il pozzo rispondere alla gazzella:

Aisha, tua sorella, è nel pozzo Aisha, tua sorella, è nel pozzo Essa non può far nulla per te Dio sia con lei e con te!

Assai sorpreso, il sultano avanzò verso il pozzo e guardò dentro: vide una giovane donna che alzava tra le braccia un bambino così bello che emanava lu-ce intorno a sé, perché i suoi capelli erano d 'oro e d'argento. Il sultano gridò: «È Aisha! Chi ha potuto portarla qui?».

La liberò. I servitori denunciarono la malvagia ri-vale. Il sultano la fece decapitare.

Un bel giorno, lo Sheikh della Moschea chiese al sultano: «E questa gazzella, chi è?». «Questa gazzel-la? È il fratello della mia giovane sposa» rispose il

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sultano. «Ha bevuto o mangiato qualcosa, non so be-ne cosa, che l'ha così trasformato in gazzella.»

Allora lo Sheikh prese dell'acqua (perché era an-che un mago), pronunciò delle parole magiche e fece bere un po' di quest 'acqua alla gazzella. Dopodiché la asperse con essa dicendo:

Se sei nata gazzella resta gazzella Se sei nata uomo, ridiventalo Per la forza di Dio e degli amici di Dio!

Fu così che Ali ritrovò la sua forma umana e che sua sorella e lui conobbero infine la pace e la felicità.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

7 . L A P R I N C I P E S S A S U M I S H A

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'era una volta un re (benché non vi sia vero re all'infuori di Dio) e questo re aveva un solo figlio, cui diede il nome di Mehend. Fin dalla nascita, lo instal-lò al settimo piano del suo palazzo, nella stanza più riposta, la più segreta, quella che si apriva non sulla strada ma sul cielo, e incaricò i servitori più fedeli di vegliare gelosamente su di lui. Raccomandò loro so-prat tut to di non servire al figlio - appena fu in grado di mangiarla - carne che non fosse priva di ossa.

Mehend visse al riparo dal male, visse da recluso e raggiunse l'adolescenza ignorando tutto del mondo. Ma un giorno un servitore gli portò un piccolo co-sciotto d'agnello che aveva trascurato di disossare. Il principe lo mangiò con grande appetito; quando re-stò solo l'osso, lo prese e lo batté contro il muro per

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es t ra rne il midollo: il colpo fu così violento che sbrecciò il muro, producendovi un foro da cui irrup-pero sole e luce a profusione. Abbagliato, il giovane vi accostò l'occhio. Vide allora quello che non aveva mai visto: la folla sulla piazza del mercato. Uscì co-me un pazzo dalla stanza, s ' impadronì di un puledro senza perdere tempo a sellarlo e, aggrappato alla sua criniera, si slanciò al galoppo. La folla stupefatta lo guardò e si aprì per lasciar passare il figlio del re, avendolo riconosciuto. Settut, la vecchia strega, fu l 'unica a sbarrargl i il passo. Dal m o m e n t o che Mehend la spingeva, essa gridò: «Dimmi, Mehend, figlio di re, non avrai per caso come moglie Sumisha figlia di Hitin per essere così fiero da calpestarmi?».

Il giovane se ne r i tornò a palazzo immerso nei suoi pensieri. Ent rò nella stanza in cui risiedeva la madre e si gettò su un letto in preda ai brividi. La re-gina, inquieta, gli prese la mano: «Figlio mio,» disse «ti hanno gettato una fattura. Sguardi malevoli si so-no posati su di te e ora eccoti preda dei demoni».

Essa m a n d ò a cercare lo Sheikh della Moschea, ma questi, a dispetto di tut ta la sua scienza, si di-chiarò impotente. Allora il pr incipe mormorò: «Se Settut, la strega, venisse qui e facesse cuocere sotto i miei occhi un semolino, io guarirei».

Una negra par t ì immedia tamente alla r icerca di Settut. La strega, appoggiandosi pesantemente a un bastone, entrò nella stanza in cui vi era il malato. Al centro ardeva un fuoco su cui una pentola non tardò a bollire. Essa vi gettò la semola in fine polvere e ri-mestò pian piano per evitare che si formassero gru-mi. Mehend di scatto afferrò la mano della strega e la immerse nella minestra bollente. Settut urlò.

«Non tirerò fuori la tua mano finché non mi avrai detto dove si trova Sumisha, figlia di Hitin» disse il

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principe. Allora, con la m a n o libera, essa indicò l'Oriente.

Il principe si diresse in fretta verso la propria ca-mera, ordinò che gli si preparassero delle provviste e che gli si sellasse il cavallo. Poi si congedò dai geni-tori. Il re e la regina lo supplicarono vanamente di restare. Egli rispose con voce ferma: «Tornerò con Sumisha come compagna o morirò». Allora, col cuo-re desolato, lo lasciarono allontanarsi e lo seguirono a lungo con lo sguardo.

Come una freccia, Mehend si diresse verso orien-te. Viaggiò per giorni e giorni, percorse pianure, at-traversò fiumi, valicò montagne. Uccise serpenti nei campi, uccelli nel cielo e belve nelle foreste. A tutti quelli che incontrava domandava, instancabilmente: «Conoscete il paese di Sumisha, figlia di Hitin?». E tutti indicavano a oriente e rispondevano: «Va', va' sempre in direzione del sol levante!».

Dopo molti giorni giunse in riva al mare e sulla spiaggia vide un pescatore che aveva appena estratto dal l 'acqua un pesce della grandezza di un uomo. Questo pesce era ancora vivo e si dibatteva feroce-mente per uscire dalla rete. Il pescatore aveva già sollevato il suo coltello quando il principe Mehend si in t romise e disse: «Prendi il mio cavallo e d a m m i questo pesce».

Il pescatore pensò a uno scherzo. Si mise a ridere: «Chi mai scambierebbe il proprio cavallo con un pe-sce, per quan to grande?». Ma il pr incipe ripetè: «Prendi il mio cavallo e dammi questo pesce». Allora il pescatore liberò il pesce e si allontanò conducendo via il cavallo per la briglia.

Mehend si stese sulla sabbia, accanto al pesce, e si mise a riflettere; era lontano dal suo paese e dai suoi genitori; aveva esaurito tutte le provviste e barattato il cavallo con questo pesce. E non possedeva altro

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che questo pesce. Si addormentò . Nel sonno, sentì una mano posarsi dolcemente sulla spalla e udì una voce che gli diceva: «Alzati, Mehend, e partiamo».

Il sole si era appena ritirato dietro le montagne. Il cielo, la sabbia e l 'acqua ne erano tutti tinti di rosa. Il principe si ridestò, cercò il pesce e non lo vide. Fu allora che notò un giovane bello come il ch iarore della luna. Lo sconosciuto era di nobile s ta tura ; guardò Mehend e gli disse: «Sono tuo fratello. Non hai che da seguirmi e tutt i i tuoi desideri sa ranno esauditi».

Partirono. Insieme attraversarono i deserti, le pia-nure, i boschi e le foreste. Costeggiarono fiumi, per-corsero contrade di volta in volta verdeggianti o po-vere e a t t raversarono un gran n u m e r o di ci t tà e villaggi. Continuavano ad andare, col viso rivolto a oriente, bevendo alle fonti che incontravano e chie-dendo talora l'elemosina. Si guadagnavano da vivere anche con lavori stagionali: d'inverno raccoglievano le olive; nella bella stagione aiutavano nella mietitu-ra, nella vendemmia , nella raccol ta dei fichi o di ogni tipo di frutti e di verdure. Passarono così gior-ni, mesi, anni.

Mehend era un giovanotto dagli occhi limpidi, dai capelli color granturco. Il suo compagno era b runo e di s tatura imponente. La sua f ronte sembrava per-dersi tra le nubi e i suoi occhi erano di un nero così brillante che era impossibile sostenerne lo splendo-re. Le mani e il viso emanavano una luminosità so-prannaturale e dolce. Era senza età. Mehend lo ama-va come un fratello.

Sette anni erano trascorsi da quando il principe aveva lasciato il suo paese, da quando il suo amico e lui erravano di contrada in contrada alla ricerca di Sumisha, quando, un giorno d'estate, si t rovarono davanti alle mura di una città poderosa. Lo Sheikh

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dall'alto del minareto chiamava i fedeli alla preghie-ra. Era mezzogiorno. I due viaggiatori erano coperti di polvere e spossati. Avevano sete. Avevano fame. Si f e rmarono alla p r ima por ta e chiesero in nome di Dio una brocca d'acqua e un pezzo di focaccia. Una vecchia serva portò loro dell'acqua, una focaccia di f rumento , dei fichi, dei dat ter i e una borraccia di siero di latte. Bevvero e mangiarono, mangiarono e bevvero, e si distesero su delle stuoie. Quando furo-no riposati, si bagnarono i piedi doloranti e si accin-sero a ripartire. Appena usciti videro una moltitudi-ne di corvi che volteggiavano sopra la casa più imponen te e l 'accerchiavano, s t r ingendola quasi d'assedio.

«Cosa vengono a fare qui questi uccelli del malau-gurio?» chiesero a un passante i due amici. «Dunque non lo sapete?» si stupì il passante. «Dovete essere stranieri.. . Quella che vedete è la dimora del nostro signore. Alle finestre, ai muri e alle porte sono appe-se delle teste mozzate. Sono tutte queste teste che at-t irano i corvi. È per esse, infatti, che questi uccelli vengono qui ogni giorno.» E dopo un lungo silenzio il passante disse ancora: «Un tempo, in questa città, vivevamo felici e tranquilli, perché il nostro signore era il più appagato di tutti gli uomini. Aveva una fi-glia bella come la luna nel cielo e dolce come l'erba e il respiro dei fiori. Essa era la sua gioia. Viveva solo per lei. Pazientemente le stava cercando uno sposo che fosse alla sua altezza e degno di regnare su di noi un giorno, quand'ecco, all'improvviso, la nostra principessa cadde ammala ta di una grave malattia. Da allora essa non parla, non sorride e deperisce in cont inuazione . E sì che mangia e beve. Ma tu t to quello che mangia, invece di andare a suo profitto, va a profit to dei geni malvagi che si sono impadroni-ti di lei. Invano il padre ha chiamato maghi e fattuc-

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chiere. Sheikh, scienziati, maghi e fattucchiere si so-no dovuti riconoscere impotenti. Allora, disperato, il nos t ro s ignore ha p romesso la figlia in sposa a chiunque l'avesse guarita, fosse anche stato un men-dicante. Ma giurò anche che tutti coloro che, dopo aver visto la principessa, avessero fallito, sarebbero stati decapitati, e la loro testa sarebbe stata data in pasto ai corvi. Un gran numero di uomini giovani e vecchi sono accorsi da tut t i i paesi , spinti gli uni dall'amore, gli altri dall'avidità. Ma nessuno è riusci-to a guarire la nostra principessa e tutti ebbero la te-sta tagliata. Quelle che vedete da qui sono le loro te-ste». Il passante tacque, poi aggiunse: «La sventura è sulla nostra città».

Allora il giovane dalla s ta tura imponente e dagli occhi di falco dichiarò: «Guarirò io la giovane prin-cipessa!». «Fratello mio,» gridò Mehend, impallidito «non mi lasciare, tu che ho incontrato sulla mia via mentre ero solo e lontano dal mio paese. Ricordati che senza di te non sarei in grado di ritrovare colei che cerco.» «Non temere» rispose il giovane dagli oc-chi di falco. «Sono sotto la protezione di Dio.»

Poco dopo era al capezzale della principessa che sembrava dormire . Egli le disse: «O Sumisha , più bella della luna nel cielo, possa tu levarti davanti a noi come un melo in fiore! Ascolta questa storia. Tre fratelli, appena adolescenti, abbandonarono un gior-no il tetto paterno per percorrere il mondo. Si ama-vano di un amore assai tenero. Pr ima di lasciarli partire, il padre raccomandò loro solennemente di amars i sempre e di non separars i mai. Essi glielo promisero e si allontanarono. Camminarono a lun-go, finché, una mattina, giunsero a una foresta. Era immensa, quella foresta; in una giornata non riusci-rono ad attraversarla tutta. La notte li sorprese an-cora al suo interno. Dovettero rifugiarsi in una ca-

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verna. Il più giovane ebbe l'incarico di accendere il grande fuoco per tenere a distanza le belve feroci, mantenendolo acceso ment re i fratelli dormivano. La luna piena illuminava la foresta in modo meravi-glioso. All'improvviso gli occhi del fratello che ve-gliava si soffermarono su un arboscello vivo e fles-suoso come un corpo umano che, all'ingresso della caverna, ondeggiava e fremeva sotto la luna come una forma femminile. Con un colpo di scure il giova-ne lo tagliò. E si mise a scolpirlo, dandogli un volto. Il fratello maggiore si ridestò e venne a sedersi ac-canto al fuoco. Essendo un sarto, fece una tunica per l 'arboscello e si r iaddormentò, con la testa del fratello minore appoggiata alla spalla. I due dormi-vano da un po' quando il secondo di età si ridestò a sua volta: accanto a sé scoprì una donna immersa nel chiarore lunare. Si mise a implorarla nella notte: "Per Dio e il suo Profeta, o donna, guardami, parla-mi e dimmi chi sei!". Ed essa gli rispose in un bisbi-glio: "Io sono colei che ti ama". Il maggiore e il mi-nore dei fratelli udirono queste parole. Si alzarono e si gettarono sul secondo, armati dei loro coltelli. E i t re fratell i uni t i come le di ta di u n a mano , che si amavano di un amore così tenero, si uccisero a vi-cenda per la donna-arboscello che altri non era se non una fata malvagia. E la donna-arboscello pianse il giovane che amava e la felicità che l'aveva abban-dona ta . Ma vedendo cadere i l corpo dell 'amato, giurò, la subdola, di sottrarre la gioia e la salute alla più bella ragazza del mondo».

E il giovane dagli occhi di falco riprese, con la vo-ce più imperiosa, guardando intensamente la ragaz-za: «Per la grazia di Dio che è grande e per la mia, o fata malvagia, esci da questa ragazza, io te lo ordino. Te lo ord ino per la grazia di Dio e degli amici di Dio!».

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Sumisha, la principessa, chiuse lentamente le pal-pebre e spalancò la bocca: ne fuoriuscì una lunga vi-pera nera che si dissolse in una nuvola di fumo: era la fata malvagia che Sumisha aveva ingoiato inavverti-tamente, una notte, bevendo l'acqua di una fonte.

Allora, le teste dei suppliziati furono deposte in fretta e i corvi si allontanarono in voli pesanti e serra-ti. A tutte le finestre fecero la loro comparsa uccelli delle isole. Il cielo cantava a squarciagola: «Sumisha, la nostra principessa, è ri tornata in vita; gli spiriti malvagi l 'hanno abbandonata!». E l'acqua lo diceva alle radici, e le radici lo dicevano agli alberi che ri-prendevano questo canto con tutte le loro foglie. In un frullo d'ali, i passerotti, le rondini, le colombe, i fringuelli, i merli e via via fino agli scriccioli - tutti uccelli che avevano abbandonato i giardini da tantis-simo tempo - presero a volare verso la stanza di Su-misha. Allora gli uomini seppero che era tornato il tempo della fiducia: ricominciarono a vivere e a lavo-rare. Le sorgenti, che la disgrazia aveva prosciugato, ripresero a scorrere. L'erba e i fiori crebbero magnifi-ci e folti. Allora, tutto il reame si preparò a celebrare le nozze della principessa. I taglialegna abbatterono tronchi enormi. Ciascuno offrì il proprio f rumento più brillante e le donne prepararono cantando il cu-scus delle nozze. Tra le danze e le risa vennero sacrifi-cati dei vitelli e anche degli agnellini. Cominciarono i festeggiamenti che durarono sette giorni e sette notti. Infatti per sette giorni tamburi e tamburelli, pifferi e clarinetti riempirono ogni dove di canti e ritmi. Per sette giorni e sette notti la polvere da sparo fece senti-re alta la propria voce, propagando la gioia fino ai confini del regno, e i trilli delle donne si innalzarono nel cielo come fuochi artificiali.

Per tutti questi giorni e queste notti, le mani del sultano furono come fontane di abbondanza. I pove-

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ri presero anch'essi parte ai festeggiamenti e si cre-dettero alla pari dei privilegiati di questo mondo. Il sul tano fece distr ibuzioni di semola, di carne e di spezie; diede abiti e calzature scarlatte ai mendican-ti e fece doni alle moschee. Giacché a ognuno il sul-tano sembrava dire: "O tu, che hai condiviso la mia pena, vieni e gioisci con me".

La sera delle nozze, Sumisha, meravigliosamente agghinda ta sot to un lungo velo di tulle con stelle d'oro che l'avvolgeva tutta quanta, attendeva pazien-temente il suo sposo nella stanza nuziale, seduta su soffici tappeti, con le candide mani ricoperte di anel-li. Apparve allora Mehend, seguito dal giovane con gli occhi di falco. Rivolgendosi alla principessa stu-pefatta, colui che l'aveva salvata le disse: «O giova-netta più bella della luna nel cielo, io non posso esse-re tuo sposo, perché sono il Genio del ma re e le acque sono il mio regno. Ma ascolta la mia avventu-ra: un giorno, per divertirmi, ho assunto la forma di un enorme pesce. E stavo r idendo della mia meta-morfosi quando mi sentii imprigionare nella rete di un pescatore e venni estratto dall 'acqua e gettato con violenza sulla spiaggia. Il mio d ibat termi fu vano. Già un coltello era alzato su di me quando soprag-giunse l 'uomo che qui vedi. Egli offrì il suo cavallo al pesca tore e o t t enne me in cambio . Poi si addor-men tò p rofondamente sulla sabbia. Approfi t tando del suo sonno, ripresi la mia forma u m a n a per ve-gliare su di lui. Egli aveva abbandonato i genitori e il suo paese per anda re alla r icerca di Sumisha , la principessa lontana di cui Settut, la strega, gli aveva rivelato l'esistenza. Sono sette anni che non ci lascia-mo, lui e io, e camminiamo in direzione di te, Sumi-sha, volgendo sempre il viso a oriente. È lui il tuo sposo: è figlio di re».

E il giovane dagli occhi di falco scomparve, la-

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sciando soli con la loro gioia Mehend e Sumisha fi-glia di Hitin.

Mehend e Sumisha si amarono come due colom-bi. Quando il cielo diede loro un erede, la loro feli-cità non ebbe più limiti. Mehend scelse il giorno della nascita del figlio per recarsi dal sultano e par-largli in questi termini: «O re onnipossente, permet-ti che ti racconti la mia storia, pr ima di giudicarmi. Tu mi hai dato la tua unica figlia, credendo che essa mi spettasse. Senza dubbio ignoravi che nessun es-sere al mondo aveva il potere di salvarla, e che il mio solo merito, di me povero principe, era quello di amarla più del vasto cielo e di averla cercata per-dutamente per tutta la terra. Un altro ha invece fat-to per me quello che io non potevo fare. Giacché co-lui che ha r ichiamato in vita la principessa per la tua e la nostra felicità, o re, è il Genio del mare. Egli l'ha conquistata come sai, non per sé ma per me, e ha fatto ritorno al suo impero marino che da sette anni aveva abbandonato, lasciando noi due, tua fi-glia e me, faccia a faccia nella stanza nuziale. Era ancora qui per unirci, con la sua statura imponente e il suo viso luminoso quando all'improvviso non lo vedemmo più! Grande fu il mio smarrimento, nono-stante la presenza di Sumisha, che mi abbagliava come una lampada nella sua veste nuziale. O re, da sette anni era mio amico e fratello, vegliava su di me giorno e notte. Ero appena un adolescente quan-do lo incontrai. Ero appena sfuggito per miracolo alla sorveglianza tirannica di un padre che mi co-stringeva a vivere come un recluso. Giacché per iso-larmi dal mondo e da ogni bruttura, mio padre - un sultano nobile come te - mi installò, fin dalla nasci-ta, al settimo piano del suo palazzo, nella camera più riposta, quella le cui finestre si aprivano tutte sul cielo. Nessuno doveva accostarsi a me al di fuori

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di mia madre e dei servi più fedeli, che avevano la consegna di non por ta rmi che carni disossate. E mio padre , nel suo accecamento , si felicitava di avermi così sot t ra t to alle tentazioni , e godeva in cuor suo del fatto che non mi sarebbe mai potuto venire il desiderio di abbandonar lo per vedere il mondo! Non sapeva che Dio aveva deciso di rivelar-mi lo splendore della sua creazione. Sia benedetto quel servo distratto che, un giorno d'estate, mi portò un cosciotto d'agnello non disossato! Il sole era alto nel cielo. La noia, una nostalgia indefinibile mi il-languidivano. Quand'ebbi mangiato, presi l'osso e lo scagliai contro il muro per farne fuoriuscire il mi-dollo. Gli angeli mi prestarono la loro forza?... Per l 'urto nel muro si aprì una fessura e un fiotto di luce inondò la stanza. Mi avvicinai e vidi quello che non mi si era ancora mai presentato alla vista: la piazza del mercato, la folla in movimento e tutte le ricchez-ze esposte in pieno sole, tra gli uomini e gli animali: la frutta, le verdure, i cereali e i fiori. Come ho la-sciato la mia celletta e mi sono trovato nella scude-ria di mio padre non saprei dirlo, o re! Ero a mala-pena cosciente di quello che facevo. Mi sembra di r ivedermi mentre , aggrappato alla criniera di un giovane puledro, mi lanciai verso il mercato. La fol-la che mi vide mi riconobbe dalla mia cavalcatura e si fece da parte (io ero inesperto e il puledro era fo-coso). Solo Set tut ebbe l 'audacia di sba r ra rmi il cammino. Essa mi disse: "Non avrai per caso come moglie Sumisha figlia di Hitin, o Mehend, per esse-re così fiero da calpestarmi?" (mi sembra ancora di sentire la sua voce stridula). Dopo avermi piantato questa spina nel cuore, essa scomparve e io feci ri-torno al palazzo malato d'amore ma risoluto a sco-prire Sumisha o a morire. Solo Settut poteva aiutar-mi, ma come indurla a farlo, se non con l'astuzia?

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Allora, fingendo una forte febbre, convinsi mia ma-dre che se la strega avesse preparato sotto i miei oc-chi un semolino io sarei guarito. Essa venne per or-d ine del su l t ano , m i o pad re . A p p r o f i t t a n d o del m o m e n t o in cui stava r imes tando il semolino, di scatto le immersi la mano nel liquido bollente. Essa urlò. "Non t i t i rerò fuor i la m a n o f inché non mi avrai indicato la strada che porta a Sumisha" le dis-si con fermezza. Allora, con la mano libera, essa mi indicò l 'oriente. A tutti quelli che incontravo do-mandavo, instancabilmente: "Conoscete il paese di Sumisha , f iglia di Hit in?". E tu t t i i nd icavano a oriente e rispondevano: "Va', va' sempre in direzione del sol levante!". Avevo già esaurito le mie provviste e il denaro che mio padre mi aveva consegnato, quando arrivai alla riva del mare. Un pesce enorme si dibatteva vanamente in una rete, e il pescatore già levava su di lui il suo coltello quando offrii in cam-bio il solo bene che mi rimanesse: il mio cavallo. E rimasi solo sulla riva, con il mio pesce. Le preoccu-pazioni, lo scoraggiamento mi attendevano al varco. Il caso volle che mi addormentassi sulla sabbia tie-pida e non mi ridestassi che al t ramonto. Una mano salda e tenera mi toccava la spalla, una voce sua-dente mi diceva all'orecchio: "Mehend, alzati e se-guimi". Ora, il pesce era scomparso, e davanti a me vi era il giovane dagli occhi di falco che doveva sal-vare tua figlia! Divenne come un fratello per me. Per sette anni abbiamo errato per il mondo, alla ricerca del tuo regno e di quanto di più prezioso tu posse-devi: tua figlia. Egli ha fatto di me l 'uomo che tu ve-di. Mi ha condotto fino al tuo palazzo, lui che trion-fa sui misteri. E ora, o re potente e rispettato, tu conosci la mia storia. Non è legittimo che io vada verso quel padre il cui delitto è stato quello di aver-mi troppo amato e verso quella madre che mi pian-

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ge da tanti anni? Trattieni presso di te il nostro pic-colo: sarà il tuo erede. E lasciaci andare, tua figlia e me, verso mio padre e mia madre».

«Figliolo,» rispose gravemente il sultano «tutto ciò che hai appena detto è giusto. Tratterrò con me il prin-cipino. Egli sarà la mia gioia. Non appena mia figlia sarà più in forze vi metterete in cammino, quand'an-che ciò mi dovesse costare non poche lacrime.»

Sumisha, ripresasi dal parto, potè intraprendere il viaggio in primavera. Il sultano le diede una scorta scelta e una lunga carovana di muli carichi di uno splendido cor redo e di innumerevol i doni. E Mehend, cullato dal passo del suo cavallo nero, pre-gustava strada facendo la gioia che avrebbe recato ai suoi genitori e al suo popolo. "Mi c rede ranno senz'altro morto" pensava ogni tanto con una certa tristezza "e vi sono sorprese troppo forti che posso-no far cedere un cuore d i m a m m a logorato dalla sventura e dall'attesa..." Giacché egli non sapeva che sua madre era stata avvisata del suo ritorno (ma po-teva forse immaginare che col favore del cielo sua madre lo aveva seguito tappa per tappa, a dispetto della distanza e del silenzio, per questi otto anni di assenza, lunghi come un secolo?).

La povera regina aveva versato torrenti di lacrime dopo la partenza del figlio per il paese di Sumisha, e per giorni e giorni si era tenuta alla larga dalla luce e dal cibo. Dio finì per muoversi a compassione e le inviò un sogno. E da allora essa conobbe la pace.

Era una notte di forte vento. La regina, spossata, si era appena assopita quando vide, al posto della breccia fatta nel muro dall'osso del cosciotto, un'alta finestra tutta di marmo bianco. Davanti a questa fi-nestra, in un 'enorme giara, uno slanciato melograno era sbocciato al sole. La regina udì una voce che le sussurrava nell'orecchio: «Fintanto che quest'albero

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che vedi avrà le foglie verdi, la salute di tuo figlio prospererà . Quando esso avrà dei fiori, tuo figlio gioirà. Quando avrà due frutti, tuo figlio si sposerà. Quando ne avrà tre, tuo figlio avrà un bambino. E ogni volta che si accrescerà la famiglia, tu vedrai ap-parire un nuovo frutto».

Appena sveglia, la regina fece aprire una finestra nella s tanza di Mehend, al pos to della breccia, e piantare in una giara un giovane melograno, che col-locò in piena luce davanti alla f inestra. Poi si fece portare il letto, gli abiti e gli oggetti familiari accan-to a questa finestra e a questo melograno.

L'albero crebbe. Conservò miracolosamente le fo-glie estate e inverno. Per sette anni, continuò a pro-durre fiori. La madre fiduciosa pensava: "Mio figlio sta bene". E visse felice e tranquilla vicino a quest'al-bero.

Sul volgere dell 'ottavo anno, si f o r m a r o n o due melagrane. La madre corse ad annunciare la notizia al sultano: «Nostro figlio ha incontrato la donna che ama e l 'ha sposata!». Il sul tano sorrise tr is temente senza osare contrariarla.

L'anno successivo apparve una terza melagrana: «Nostro figlio ha avuto un bambino» disse la madre con aria t r ionfante al sultano. «Nostro figlio ritor-nerà. Può darsi che sia addirittura già in viaggio!» Il sultano non seppe cosa risponderle. Ma tale era la si-curezza della moglie che si mise a sognare i grandi fes teggiament i che avrebbe ord ina to in onore di questo ritorno.

Mehend e Sumisha avevano lasciato lontano alle loro spalle il paese d'Oriente. Quelle che venivano lo-ro incontro erano ora le terre dell'Occidente.

La regina ripeteva ogni giorno, con aria fiduciosa: «Saranno qui domani». E interrogava il cielo e la strada, mentre Sumisha si lasciava portare dalla sua

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giumenta azzurra veloce come un fulmine. E cerca-va di percepire la voce lontana della polvere mentre Mehend, ardente di impazienza, spronava il suo ca-vallo nero, gridando alla sua interminabile scorta di affrettarsi , dal momento che le frontiere del regno erano da poco in vista.

La regina, quel mattino, si era vestita di porpora. La voce della polvere riempiva tutto il cielo. E la terra tremava per il galoppo dei cavalli. Accanto all'albero magico, essa pettinava con cura i suoi lunghi capelli di seta. La speranza l'aveva mantenuta giovane e bel-la. E Mehend, abbagliato, la scorse di lontano.

In un baleno fu alle porte del palazzo. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-

to a dei Signori!

8 . I L F L A U T O D ' O S S O

Nei tempi più antichi, in uno sperduto villaggio della Cabilia, viveva una famiglia composta da padre, ma-dre e due figli. Il maggiore, Abderrahman, aveva dieci anni. Il più giovane, Hassan, ne aveva solo sette. Quanto Hassan era bello, tenero e grazioso altrettanto Abderrahman era brutto, subdolo, tetro e spiacevole.

D'inverno, durante le veglie, quando le porte era-no chiuse e il bestiame dormiva sotto lo stesso tetto, vicinissimo agli umani , la madre, seduta davanti al fuoco, attirava a sé la testolina graziosa del piccolo Hassan e la appoggiava sulle sue ginocchia per acca-rezzarla a piacimento ment re bisbigliava le tenere ninne-nanne che nascevano nel suo cuore. Fuori, il vento soffiava, accumulando contro le porte e le fi-nestre pesant i cumul i di neve. E il bambino , così cullato, si addormentava dolcemente, sotto l'occhio malevolo del fratello.

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Non che la madre non amasse il figlio maggiore, del quale pure si prendeva cura. Però lo viziava di me-no, gli dispensava meno carezze, considerandolo già un ometto e volendolo preparare alla vita rude che lo attendeva. Inoltre, va detto, non è che ne fosse incan-tata. Ora, ecco che, all 'insaputa della madre, la gelo-sia prese a germogliare nel cuore del figlio maggiore e crebbe come una cattiva pianta, nera e spinosa.

Gli inverni e le primavere, le estati e gli autunni si susseguirono, e il t empo trascorse. I b imbi e rano adesso degli adolescenti che conducevano al pascolo le greggi sulle creste dei monti . Part ivano all 'alba, po r t ando con sé u n a focaccia d'orzo, dei bei fichi biondi, un uovo sodo e qualche volta delle olive, ol-tre a una borraccia di siero di latte. E trascorrevano le loro giornate tra le montagne, vicino al cielo.

Il maggiore, Abderrahman, era cresciuto come un bastone di aloe. Era lungo e gracile, e pallido come la paura. Aveva la fronte bassa e chiusa, lo sguardo sfuggente e u n a voce di cui nessuno conosceva il suono o il colore, perché egli era e t e rnamente di u m o r nero. Talvolta la madre gli si accostava per dir-gli: «La tua fronte è dura e nodosa come la radice di un albero. Eppure hai un padre e una madre e non manchi di nulla. Non potresti imitare un po' tuo fra-tello? Guarda come il Signore l'ha creato aggraziato: "La sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, essa illu-mina i sentieri"».

La madre , accecata , non sospet tava neppure di gettare olio sul fuoco. Abderrahman detestava fero-cemente il fratello. Hassan era troppo biondo, trop-po roseo e troppo fortunato. Neppure il sole impla-cabile d'agosto, questo sole capace di abbattere un somaro, impediva al suo colorito di essere diafano e fresco, e ai suoi occhi di essere verdi e lucenti come l'erba dei prati. Ma quelli che il fratello maggiore de-

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testava erano soprattutto i suoi capelli, capelli lisci e brillanti che la madre si dilettava ancora ad accarez-zare davanti al fuoco. Tanta bellezza e grazia erano un'offesa per Abderrahman e lo facevano soffrire. Il povero Hassan, da par te sua, non notava nulla. I l fratello aveva un bel trattarlo con asprezza, picchiar-lo qualche volta anche selvaggiamente e mangiare la parte più grande del pasto, lui non si lamentava di nulla e continuava a far r isuonare la montagna dei suoi canti e delle sue risa, perché era come gli uccel-lini, felice di vivere e colmo di spensieratezza.

Un giorno di tempesta, il fratello maggiore ritornò a casa senza il suo amabi le compagno. Le capre , spaventate, si erano ribellate e disperse per la mon-tagna. Avevano dovuto chiamarle e cercarle a lungo, con la pioggia e il vento, incurant i dei tuoni e dei lampi. La violenza e la follia del tempo avevano fini-to per aver ragione del cuore nero del fratello mag-giore?... Perché fu quel giorno che Abderrahman so-spinse i l suo giovane fratel lo giù da u n a rupe. La testol ina graziosa andò a schiantars i cont ro delle grosse pietre, in fondo a un precipizio. Abderrah-man si calò a ricoprire di terra il povero corpicino e attese la fine della tempesta per fare ritorno a casa. Dal momento che i suoi genitori si stupirono al ve-derlo tornare solo, egli raccontò loro di avere perso di vista il fratello nella tormenta, e che questi doveva essere stato trascinato via dal fiume, e aveva proba-bilmente trovato la sua tomba in un crepaccio. I ge-ni tor i a l larmat i chiesero l 'aiuto dei loro parent i e amici. Si formò così una comitiva che partì alla ri-cerca del bell'adolescente. Ma né nel fiume, né nelle scarpa te fu più t rovata t raccia di colui che era la bontà e la grazia personificate.

Il padre e la madre avevano perso in un colpo solo la gioia dei loro occhi. La casa che rispecchiava il

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buonumore e il carattere solare del piccolo precipitò per sempre nel lutto. La madre fu colpita da una ma-lattia grave che, se non se la portò via, la lasciò co-munque inferma. Il padre, che sembrava sopportare il dolore con più coraggio, divenne ben presto cieco. Il fratello colpevole, ogni giorno più cupo, che face-va? Si pentiva forse o, al contrario, si compiaceva, nell'intimo, di essersi sbarazzato per sempre dell'es-sere delizioso che odiava?

Chi si ricordava ancora, a questo punto, del pove-ro Hassan?.. . Molti anni erano passati. Il dolore dei genitori non era più così vivo. Il ragazzo taciturno si era fatto un uomo che rifiutava ferocemente di pren-der moglie e fuggiva ogni compagnia. Il suo viso affi-lato e pallido come una pietra faceva paura ai bam-bini, che si met tevano in salvo come uccellini spauriti non appena lo scorgevano.

Ma era scritto che il delitto di Abderrahman non rimanesse per sempre ignorato, che la giustizia im-placabile di Dio facesse luce.

Da molto tempo le piogge avevano dilavato la ter-ra che ricopriva il corpo di Hassan, facendo affiorare le sue ossa. Il sole le aveva calcinate, il vento le aveva disperse. Gli an imal i le avevano 'portate lontano. Tutto quello che rimaneva era l'osso dell 'avambrac-cio. Un giovane pastore notò quest'osso bianco come il gesso e r ipuli to al sole, un giorno che inseguiva nella scarpata una capra fuggitiva. Lo raccolse e se ne fece un flauto. Quando ebbe fatto sette buchi e in-tagliato l'estremità, volle ricavarne dei suoni. Ma ap-pena portò alla bocca il flauto, una voce cristallina si mise a cantare:

O pastore, perché ridestarmi?... Da dieci anni io dormivo... Mio fratello Abderrahman m'ha sospinto

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Dall'alto di una rupe Nel precipizio. La terra franata Ha ricoperto il mio corpo.

Il pastore si recò al villaggio per fare udire sulla pubblica piazza la voce meravigliosa del flauto. Da molto tempo la madre era mor ta dal dispiacere. Il padre cieco non usciva più di casa. Ma il colpevole, che passava di lì per caso, comprese che il suo delit-to era stato scoperto. Lasciò immediatamente il vil-laggio per non farvi mai più ritorno. Nessuno conob-be la fine del suo triste destino. Ma tut to quanto il paese, informato dal flauto, cantò la morte tragica di Hassan, l'adolescente che Dio si era compiaciuto di adornare di tutti i doni e di tutte le grazie.

9 . I CAVALLI DI L A M P I E DI V E N T O

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'erano una volta due gemelli che erano del tutto identici: stessi capelli biondi, stessi occhi azzurri , stessa carnagione chiara, stessa statura. Uno si chia-mava Ahmed e l 'altro Mehend. La loro madre , per distinguerli, aveva forato a uno l 'orecchio destro e all'altro quello sinistro. Essi le erano cari come il cie-lo, dal momento che era vedova e non aveva nessun altro al mondo.

Il padre aveva lasciato loro qualche sostanza. Ap-pena ne f u r o n o in grado, i ragazzi a n d a r o n o nei campi e custodirono le greggi. Vissero senza preoc-cupazioni f ino all 'adolescenza. Ma un giorno uno disse all'altro: «Questa vita non mi piace. Recarmi al matt ino da casa ai campi e la sera dai campi a casa,

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no! Sono stufo dei prati e del cielo di qui. Voglio sco-prire il mondo». «Ma, fratello,» rispose l'altro «no-stra madre non ha che noi...» Il pr imo lo interruppe: «Tu veglierai su nostra madre, sulla nostra casa e sui nostri beni. E io part i rò da solo sul mio cavallo di lampi e di vento. Prenderò la mia carabina, la mia sciabola e uno dei nostri levrieri, lasciando a te l'al-tro. Pianterò un albero: f intantoché le sue foglie sa-r a n n o verdi, sta ' s icuro che dovunque io mi trovi sarò in buona salute. Se le vedrai ingiallire, allora capirai che mi è capitata una sventura, e volerai in mio soccorso. Il levriero che ti lascio ti condurrà fi-no a me».

Prese la sua sciabola, la sua carabina, il suo levrie-ro e partì sul suo cavallo di lampi e di vento.

Era da poco in viaggio quando incontrò due pa-stori di capre. Erano assai contrariati e agitati. Gli dissero: «Lo sciacallo ci mangia tu t to il bes t iame. Questa notte lo at tenderemo al varco». «Veglierò con voi» dichiarò il giovane. «Se ci libererai da lui,» ri-presero i caprai «ti daremo una capra.»

Egli uccise lo sciacallo nel cuore della notte , al mat t ino scelse la sua capra e disse ai pastori: «Cu-stoditela f ino al mio ri torno». Dopodiché si allon-tanò. Cavalcava da molto tempo quando lo fermaro-no dei pecorai : «Per Dio,» gli dissero «uccidi l'uccello predatore che afferra tra le sue grinfie i no-stri agnelli!».

Nell'ora in cui il sole è più potente, l'ora calda in cui i pastori si riposano sotto gli alberi, un'aquila di-scese dal cielo. Mentre stava per gettarsi in picchiata su un agnello, ricevette un colpo mortale e si abbatté al suolo, con le ali distese. I pastori presero a grida-re: «Che Dio rafforzi il tuo braccio. Noi ti s iamo gra-ti! Adesso, scegli la tua pecora». Egli indicò la più bella e disse: «Custoditela f ino al mio r i torno». E

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proseguì il suo viaggio. Continuò ad andare, ad an-dare, ed ecco che lo scorsero dei mandr ian i . Essi corsero da lui, dicendogli: «È Dio che ti manda per liberarci da una tigre mostruosa che, ogni notte, di-vora uno dei nostri animali!». Il giovane ebbe ragio-ne anche della tigre. I mandr i an i gli d iedero u n a mucca (la più bella). Ma egli disse loro: «Custodite-mela, ritornerò».

E risalì sul suo cavallo di lampi e di vento. Stava percorrendo grandi distese aperte quando dei custo-di di giumente si lanciarono per sbarrargli la strada: «La tua fama è giunta fino a noi» gli dissero. «Accet-ta la nostra ospitalità e uccidi il leone che non solo di notte, ma anche di giorno ci sottrae le nostre giu-mente».

Il giovane si nascose dietro un albero e tese un'im-boscata al leone. Udì da lontano il leone avanzare ruggendo. Lo lasciò avvicinare e mirò alla sua fron-te, propr io in mezzo agli occhi. Il leone crollò e il giovane ricevette una nobile giumenta. Ma disse a coloro che gliela offrivano: «Custoditela fino al mio ritorno».

E si allontanò sul suo cavallo di lampi e di vento. Ma degli allevatori di cammelli lo bloccarono. Gli dissero: «Conosciamo le tue gesta da prode; hai ucci-so una tigre, un leone. Ma un animale feroce, non sappiamo quale (tigre, leone o pantera), ci sta deci-mando il gregge. Se tu trionferai su di lui, ti daremo quello che vorrai».

Il giovane uccise l 'animale (era una pantera), scel-se una cammella e disse agli allevatori di cammelli: « Custoditemela, ri tornerò ».

Dopodiché si aff idò al suo cavallo di lampi e di vento e si lasciò trasportare da lui. Viaggiò, viaggiò, giorno e notte, incessantemente.

Attraversò fiumi, percorse pianure, valicò monti .

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Lasciò in lontananza il suo paese, sempre più distan-te alle sue spalle, e penetrò in una contrada fertile e verdeggiante. Un grande villaggio apparve alla sua vista; egli vi entrò. Un banditore stava proclamando per le vie: «Il sultano fa sapere: "A colui che libererà il mio reame dal drago-dalle-sette-teste che impedi-sce alla gente e agli animali di avvicinarsi alla fonte, condannandol i a mor i re di sete, accorderò quello che domanderà"».

Mehend si recò nel luogo in cui si r iunivano gli anziani e i notabili. Si fece avanti e chiese: «Infor-matemi: chi è questo drago che condanna alla sete tutta la contrada?».

Uno di essi rispose: «È un drago che ha sette teste e una coda temibile; se ne sta vicino alla fonte. L'uo-mo o l 'animale che osa andare fin là è perduto: viene preso tra le sette teste e la coda del drago, e in un lampo di lui non resta più nulla».

Il giovane rifletté e di nuovo chiese: «Tra tutte le ricchezze del sultano, qual è la più preziosa?». «Sua figlia,» rispose il più anziano dell'assemblea «la sua unica figlia che supera in bellezza tutte le fanciulle del regno. Bianca e rosea, graziosa e assennata , i suoi capelli sono morbidi e ramat i come quelli del mais. Quanti pretendenti sono venuti invano da ogni dove per sposarla! Il sul tano non la darà che a un uomo valoroso, capace di azioni da prode.»

«Domani, sul far del giorno, conducetemi al luogo dove si trova il drago-dalle-sette-teste!» esc lamò Mehend.

L'indomani all'alba era già in piedi. Prese la scia-bola, condusse con sé un pastore col suo gregge per attirare il drago. Seguì quindi la via che portava alla fonte, accompagnato dagli anziani e dai notabili. Al loro avvicinarsi, la fonte si mise a ribollire e il drago fece emergere una delle sue teste: il giovane la tagliò.

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«Questa non è una mia testa» disse il drago. E Mehend replicò: «E questo non è un mio colpo!». Il drago mostrò un'altra testa. Il giovane la mozzò. Il drago disse ancora: «Questa non è una mia testa!» e il giovane rispose: «E questo non è un mio colpo!».

Per sei volte il drago mostrò una testa e questa te-sta fu mozzata . Per sei volte disse: «Questa non è una mia testa!» e Mehend rispose: «E questo non è un mio colpo!».

Alla fine il drago fece emergere la settima testa, di tutte la più mostruosa. Il giovane, afferrata la scia-bola con entrambe le mani, la tagliò di netto e la fece volare lontano. I campi furono di nuovo irrigati. E le donne po te rono avvicinarsi alla fonte con le loro brocche e i loro otri, e gli animali poterono dissetar-si. Gli anziani e i notabili, muti per l 'ammirazione, condussero Mehend dal sultano.

«Figlio mio, che cosa mi chiederai?» gli disse il sul-tano. «Quello che mi chiederai lo otterrai. Non è forse vero che tu hai tr ionfato sul drago e che io avevo di-chiarato: "Colui che ce ne libererà parli e avrà quello che vorrà"? Ho una sola parola, io.» «Quello che ti chiederò tu me lo accorderai?» insistette il giovane. «Te lo accorderò» ribadì il sultano. «Parla!» «Allora voglia Dio ispirarti di darmi tua figlia in sposa!»

Il sultano rimase un istante in silenzio, poi rispo-se: «Dopodomani usci ranno dal mio palazzo cento fanciulle. Se tu riuscirai a riconoscere tra loro mia figlia, prenditela, essa sarà tua».

E fece bandire per tutto il reame: "Che novantano-ve fanciulle, dopodomani, indossino i loro abiti più ricchi, si adornino di tutti i loro gioielli e vengano al mio palazzo cavalcando giumente azzurre!".

Il giorno stabilito, novantanove fanciulle, rivestite d'oro e d'argento, col capo adorno di lunghi veli svo-lazzanti di seta a stelle d'oro, in sella a giumente az-

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zurre veloci come il vento, uscirono dal palazzo, una dopo l'altra. Un po' in disparte, tenendo accanto a sé il suo levriero, Mehend le osservò passare. Ogni vol-ta che ne compariva una, il sultano gli chiedeva: «È questa?». E il giovane rispondeva: «No!».

Esse sfi larono lentamente davanti a lui, una più splendida dell'altra, senza che egli ne fermasse alcu-na. Fu allora che comparve la centesima, vestita in modo estremamente semplice. Essa uscì da palazzo a cavallo di una giumenta bianca che zoppicava leg-germente . Il levriero par t ì per p r imo e Mehend scattò. Prese tra le braccia la fanciulla, così bella che intorno a lei tu t to sembrava più luminoso. La sol-levò in aria, la mise a sedere davanti a sé sul suo ca-vallo di lampi e di vento, e la ricondusse a palazzo.

La festa di nozze durò sette giorni e sette notti. Il sultano vi invitò tutti i suoi sudditi. Alle novantano-ve fanciulle offrì dei doni. Quando i festeggiamenti ebbero termine, disse al genero, che era un grande cacciatore: «Potrai percorrere tutto il mio regno, an-dare dovunque vorrai, t ranne che dalla par te della foresta, poiché tutti coloro che hanno preso quella direzione non sono più tornati!».

Per qualche tempo, il giovane rispettò questa rac-comandazione. Partiva alle pr ime luci dell'alba, ac-compagnato dal suo levriero, sul suo cavallo di lam-pi e di vento. Cacciava per tu t ta la giornata e non faceva ritorno che al calar della sera. Ma quando eb-be percorso tutto il regno, esplorato tutti i boschi e non gli rimaneva più nulla da scoprire, cominciò ad annoiarsi. La principessa era felice e il sultano era contento di lui. Ma Mehend, per parte sua, era stufo di rivedere sempre le stesse praterie, le stesse monta-gne, gli stessi boschi, di ripassare per gli stessi sen-tieri. Una sera disse tra sé: "Perché il sultano mi ha vietato di avvicinarmi alla foresta, perché?... Non è

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che vi si celi qualche meraviglia e che lui non voglia che io la veda?".

Si alzò alle prime luci dell'alba, portò con sé il suo levriero, salì sul cavallo di lampi e di vento e si allon-t anò nella direzione che non avrebbe mai dovuto prendere. Raggiunse la foresta nel momento in cui il sole faceva la sua comparsa; vi entrò di slancio. Ne attraversò la parte più fitta. Ne stava appena fuoriu-scendo, quando udì il rumore dell'acqua. Questo ru-more lo condusse f ino al fiume. Lo attraversò ed è allora che gli apparve un giardino! In verità era il giardino più prodigioso che si possa vedere, dal mo-mento che vi si trovavano tutti i frutti del paradiso e tutti i fiori e tutti gli uccelli. Esclamò: «Adesso capi-sco perché il sultano temeva che io mi avvicinassi al-la foresta!...».

Avanzava lentamente, sul suo cavallo di lampi e di vento, meravigliandosi di tanto ben di Dio. Tseriel, l 'orchessa, lo spiava ma lui non la vedeva. Quando fu al centro del giardino, essa gli si mostrò e gli disse: «Che tu sia il benvenuto, ben arrivato, Mehend, fi-glio mio! È da tan to tempo che mi par lano di te e che ti attendo!».

Lo afferrò e lo inghiottì. E inghiottì pure il cavallo di lampi e di vento e il levriero.

Allora, le foglie dell 'albero che Mehend aveva piantato prima della partenza si misero a ingiallire. Ahmed, che le teneva d'occhio, se ne accorse subito. Pensò: "Mio fratello è in pericolo". Corse verso la madre e le disse: «È capitata una sventura a mio fra-tello. Io parto. Preparami delle provviste per il viag-gio e che le tue benedizioni mi accompagnino!».

Montò in sella al suo cavallo di lampi e di vento, chiamò il suo levriero, prese la sua sciabola, la sua ca rab ina e, a sua volta, si a l lontanò. E ra appena uscito dal villaggio che dei pastori di capre lo chia-

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marono: «La tua capra ha fatto figli, vieni a vedere i tuoi capretti!». Ma lui rispose: «Ritornerò». E pensò: "Che fortuna! Dunque mio fratello è passato di qua".

Più avanti incontrò dei pecorai. Essi gli dissero: «La tua pecora è divenuta un gregge!». Egli rispose: «Lasciatemi andare, ritornerò».

E continuò ad andare, ad andare, sul suo cavallo di lampi e di vento. Ma dei mandriani lo scorsero e cercarono - invano - di fermarlo: «Prenditi la tua mucca e i tuoi vitelli!». Egli disse loro: «Ritornerò».

E passò oltre. Stava raggiungendo le grandi diste-se aperte che aveva attraversato suo fratello Mehend quando accorsero dei guardiani di giumente: «Ecco-ti tornato, f inalmente! Prenditi la tua giumenta e i suoi puledri». Ma egli gridò loro: «Ritornerò!».

Fece loro segno di scostarsi e passò. Il suo cavallo lo trasportava così in fretta che a malapena distin-gueva il paesaggio. Degli allevatori di cammelli scat-tarono per annunciargli con gioia: «La tua cammella e i suoi piccoli ti aspettano!». Ma egli passò davanti a loro come un fulmine. Continuò a viaggiare, notte e giorno, gli occhi fissi sul levriero che sembrava vo-lare, tanto correva. Tutto assorbito dalla speranza di ritrovare il fratello, Ahmed si lasciò portare dal suo cavallo di lampi e di vento, attraversò i fiumi, per-corse le pianure e valicò i monti. Quando, a sua vol-ta, penetrò in una verde e ricca contrada, il sole sta-va sorgendo. Gli apparve un grande villaggio, i l villaggio che suo fratello aveva liberato dal drago.

Il levriero ral lentò la sua anda tura . Il cavallo lo imitò e il giovane vide avanzare verso di lui una folla enorme. «Eccoti dunque, finalmente, Mehend!» gli gridavano da ogni dove. «Sei stato assente così tan-to! Eri tornato al tuo paese?... La figlia del sultano, tua moglie, ha partorito un maschietto mentre tu eri assente.»

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Sopraggiunse il sultano in persona: «Da dove tor-ni?» gli chiese. «Ero così inquieto per te!» Fu allora che Ahmed parlò. «Vi sbagliate» disse. «Io non sono Mehend, sono suo fratello gemello. Quando Mehend part ì , p i a n t a m m o un albero. Dal m o m e n t o che le sue foglie hanno cominciato a ingiallire, ho capito che dovevo met termi immedia tamente alla ricerca di mio fratello.»

Il sultano lo guardò a lungo, e alla fine disse: «Fi-gliolo, tuo fratello viveva felice in mezzo a noi. La sua fama lo aveva preceduto fin qui; la notizia delle sue imprese era giunta fino a me. Nel corso del suo viaggio aveva seminato il bene, ucciso uno sciacallo, un'aquila in volo, una tigre, un leone, una pantera. Quando Dio ce lo mandò, il drago-dalle-sette-teste ci tiranneggiava e ci condannava a morire di sete. Tuo fratello entrò in questo villaggio mentre vi facevo an-nunciare: "A colui che ci libererà dal drago-dalle-set-te-teste, darò quello che mi chiederà". Egli riportò la vittoria su di lui e io gli diedi in sposa mia figlia, dai capelli di seta, la mia unica figlia, cara ai miei occhi quanto il f i rmamento e più del mio regno e di tutti i regni della terra . Sapevo che tuo fratel lo era un grande cacciatore. Un giorno gli dissi: "Ecco il mio regno; potrai percorrerlo tutto a tuo piacimento, an-dare a est, a ovest, a sud, a nord, andare dovunque vorrai, tranne che dalla parte della foresta, poiché di tutti coloro che hanno preso quella direzione non è più tornato nessuno!". Vivevamo in pace. Vivevamo felici. Mia figlia stava per darci di lì a poco un bam-bino. E speravamo di vedere il mio palazzo popolato da pr incipini e pr incipessine q u a n d o tuo fratel lo partì per non fare più ritorno. Pensammo: "Avrà for-se avuto nostalgia del suo paese?...". Adesso temo che se ne sia andato dalla parte della foresta e gli sia successo qualcosa!».

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Ahmed lo ascoltò e quindi r ipart ì alla r icerca di suo fratello senza nemmeno riposarsi. Andò a vede-re il Vecchio Saggio e gli chiese, dalla soglia: «Perché il sultano ha vietato a mio fratello di avvicinarsi alla foresta?». «Perché nella foresta si trova il giardino di Tseriel» rispose il Vecchio Saggio. «Se Mehend vi si è avventurato, essa lo avrà inghiottito. Ma se tu riusci-rai a sorprenderla e a tagliarle in due la testa, salve-rai tuo fratello, perché allora ti basterà aprire con delicatezza il ventre dell'orchessa e tirarlo fuori.»

Ahmed risalì sul suo cavallo di lampi e di vento, chiamò il suo levriero e si diresse verso la foresta. Vi entrò nell'ora più calda. La attraversò f remendo di impazienza, guidato dal suo cane. Aveva appena ol-trepassato il f iume che Tseriel gli apparve, immensa, nel suo meraviglioso giardino: «Che tu sia benvenu-to, ben arrivato, Ahmed, figlio mio!» gli gridò con gioia. «È da tanto tempo che attendevo la tua venu-ta!» E si fece avanti, ma più svelto di lei egli la colpì alla testa con la sua sciabola. Essa si rovesciò e cad-de a terra pesantemente.

Allora egli scese da cavallo, prese un pugnale affi-lato e aprì con la mass ima delicatezza il ventre di Tseriel. Per primo, tirò fuori il levriero, che distese al sole. Poi suo fratello. E per finire il cavallo di lampi e di vento. Erano tutti e tre deboli come uccellini, ma il loro cuore batteva ancora. Conservavano ancora un soffio di vita. Ahmed distese il fratello su un gia-ciglio d 'erba e si sedette accanto a lui p iangendo. Piangeva e si lamentava: «Fratello mio, che fare per te?... Fratello mio, che fare per te?...».

A un tratto, notò due lucertoline che stavano lot-tando tra loro. Una colpì l'altra, che cadde inanima-ta. Ahmed sussurrò: «Anche gli animali si fanno ma-le a vicenda!». Ma la lucertola che lo udì r ispose sarcastica: «Piangi per te, piangi la tua miseria, per-

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ché io, se ho ucciso un mio simile, sarò ben capace di resuscitarlo!».

La lucertolina scelse un'erba, la spremette e fece cadere due gocce verdi nelle narici del suo simile. La lucertola priva di sensi starnutì, aprì gli occhi e co-minciò a muoversi. Ahmed pensò: "Se la lucertola ha resuscitato un suo simile, non può darsi che anch'io riesca a resusci tare mio fratello?". Colse un ciuffo della stessa erba e lo schiacciò t ra le dita. Diverse gocce di un l iquido verde caddero sul viso di Mehend, colarono sulle palpebre e penetrarono nel naso. Ahmed lo vide r i tornare in vita, apr i re p ian piano gli occhi. Allo stesso modo rianimò il cavallo di lampi e di vento e il levriero. Dopodiché, trascinò il cadavere dell'orchessa fino al f iume e ve lo gettò. Ritornò allora sui suoi passi meravigliandosi di tutte le bellezze sparse intorno a lui.

Ahmed esplorò il dominio di Tseriel e scoprì la sua casa sotto gli alberi. Vi erano ammassate tutte le sue ricchezze: materassi, coperte, tappeti, cuscini, mor-bidi tendaggi e ogni sorta di frutti. Traboccava di fi-chi, di burro, di latte, di frumento, di olio e di uova. Traboccava di fichi secchi, di uvetta, di datteri , di mandorle e di noci. Egli se ne rallegrò e corse a ri-trovare il fratello nel giardino. Lo sollevò, lo prese tra le braccia e lo portò fino alla dimora dell'orches-sa. Lo distese con precauzione sulle coltri più soffici e lo osservò intensamente mentre dormiva. Gli vide le guance più piene e colorite: ne fu lieto e uscì di nuovo per cercare il cavallo di lampi e di vento e il levriero che attendevano in giardino.

La not te colse i due fratell i sedut i u n o accanto all'altro nella casa di Tseriel. Li trovò intenti a man-giare uova fresche, focacce di grano, burro e miele. Intenti a mangiare frutta e a bere latte. Si riposaro-no alcuni giorni. Poi, una mattina, ricordandosi del-

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la giovane pr incipessa e di suo padre , il sul tano, montarono in sella ai loro cavalli di lampi e di vento. Preceduti dai loro levrieri, abbandonarono il giardi-no dell'orchessa, attraversarono il f iume e si inoltra-rono nella foresta. La a t t raversarono senza fret ta , come se stessero facendo una passeggiata; pr ima di mezzogiorno raggiunsero il villaggio. La notizia del loro arrivo si propagò rapidamente da una via all'al-tra. Uomini e bambini li acclamarono e li accompa-gnarono fino al palazzo.

«Ho ucciso l'orchessa» annunciò Ahmed al sulta-no. «Il f iume sta trascinando il suo cadavere verso il mare!»

«Che Dio ti benedica, figliolo, e ti ricolmi dei suoi benefici! Sei valoroso quanto tuo fratello!» esclamò il sultano. E corse dalla figlia a portarle la lieta no-vella. La principessa pianse di gioia mentre mostra-va suo figlio a Mehend. E la corte e tutto il regno fe-steggiarono il ritorno dei gemelli.

Ma l ' indomani Ahmed disse: «Mia madre mi chia-ma. La sento in pena, e i nostri campi e il nostro be-stiame mi aspettano». «Anch'io ho nostalgia» rispo-se Mehend. «Voglio rivedere mia madre e portar le mia moglie e mio figlio.»

Invano il sultano cercò di trattenerlo. All'ora in cui la calura si fa meno opprimente, la

giovane principessa, in sella a una giumenta azzurra veloce come il vento, col figlioletto in braccio, uscì dal palazzo. La seguivano i due gemelli, sui loro Ca-valli di lampi e di vento, accompagnat i dai loro le-vrieri. Viaggiarono tut ta la notte e tutto il giorno. La-sciarono lontano alle loro spalle il villaggio e la bella contrada verdeggiante. Percorsero le pianure, attra-versarono i fiumi, valicarono le montagne. Dopodi-ché li scorsero degli allevatori di cammelli: «Dov'è la mia cammella?» gridò loro Mehend.

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Essi gliela condussero, attorniata dai suoi piccoli, ed essa andò a disporsi dietro i cavalli di lampi e di vento. E i viaggiatori si al lontanarono. Il frastuono del loro passaggio corse come il vento e li precedette al villaggio natio.

Ben pres to videro sulla s t rada, a l l 'ombra di un grande albero, una giumenta bianca e i suoi puledri-ni. Mehend r iconobbe la sua propr ie tà . Ne prese possesso e il viaggio proseguì.

La principessa e i due gemelli attraversavano ora delle distese aperte . Mentre rasentavano un p ra to che costeggiava la strada, una bella mucca rossiccia, seguita dai suoi vitelli, abbandonò l'erba verdeggian-te per unirsi alla giumenta e ai puledri. E il viaggio proseguì.

La principessa, col suo piccino in braccio, e i due gemelli cont inuavano ad avanzare senza sosta, ma più lentamente . Stavano raggiungendo il luogo in cui Mehend aveva ucciso in volo un uccello rapace quando videro, lungo un fossato pieno di fiori, una pecora bianca e dolce, circondata da una moltitudi-ne di agnellini. La pecora abbandonò il fossato e si unì , coi suoi agnellini, alla mucca e ai vitelli. E il viaggio proseguì ancora più lentamente.

I gemelli sentivano già nell'aria la vicinanza della terra natia. Andavano e andavano, con gioia, sui loro cavalli di lampi e di vento e la principessa, sulla sua giumenta azzurra, condivideva la loro gioia.

II sole calava. Campi coltivati a fichi e olivi fian-cheggiavano la s t rada che s tavano percorrendo: e qui li attendeva una capra nera; at torno a essa bru-cavano dei capretti più lucidi della seta. Quando ap-parvero i viaggiatori, la capra si sistemò dietro alla pecora, e i suoi capretti, in fila indiana, la imitarono. E la cavalcata riprese lenta, lentissima.

La principessa e i due fratelli avanzavano felici e

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stanchi. Di tanto in tanto Mehend si voltava indietro per contemplare il suo bestiame. Era ancora giorno quando finalmente si presentò ai loro occhi il villag-gio, ed essi vi fecero il loro ingresso seguiti da tutto il bestiame che faceva loro da scorta.

Quando gli ultimi capretti ebbero varcato le porte del villaggio, era già notte.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

10. LO S V E G L I O E IL S E M P L I C I O T T O

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

Si narra che, nei tempi antichi, vivevano in un vil-laggio due vecchi (un uomo e una donna), che ave-vano due figli ancora giovani, uno lucido, sveglio, e l'altro tutto candore: era un sempliciotto. Ora, questi poveri vecchi non erano più in grado di lavorare la terra. Dissero un giorno ai figli: «Adesso sarete voi che lavorerete per noi. Andrete nei campi al nostro posto e seminerete piselli e fave».

Un mattino, la madre diede loro una focaccia di f rumento, delle uova sode, delle olive, dei fichi e una bisaccia piena di piselli e fave che erano stati messi a bagno il giorno pr ima per farli germogliare più in fretta. Il padre consegnò loro delle zappe e disse: «Sa-pete dove si trova il nostro campo?.. . Prima lo zappe-rete, poi lo concimerete e infine lo seminerete».

I ragazzi si misero in cammino. Giocarono, gioca-rono per tu t to il percorso, sgranocchiando le fave (erano quasi tenere). Sgranocchiarono anche i pisel-li. Dopodiché si distesero al sole nel campo. Quando non rimase loro più nemmeno una fava né un pisel-lo, mangiarono la focaccia, le uova, le olive e i fichi.

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Prima di sera raccolsero dell'erba per il loro asino e un po' di legna secca. E fecero r i torno a casa tutt i contenti con una bracciata di fieno e un 'enorme fa-scina di legna.

Quando f u r o n o di r i torno, i l padre chiese loro: «Come avete fatto?». Essi risposero: «Abbiamo co-minciato dalla parte alta del campo. Abbiamo trac-ciato dei solchi, e giorno per giorno scenderemo un po' alla volta verso il torrente».

I ragazzi si recarono al campo diverse mattine di se-guito. Ma invece di zapparlo e seminarlo, giocavano e sgranocchiavano i piselli e le fave. Una sera il padre disse loro: «A questo punto dovreste avere finito. Fino a dove avete seminato?». Essi risposero: «Le fave? Ne abbiamo seminate fino al torrente. Il campo di fave arriverà di sicuro fino al torrente. Quanto a quello dei piselli, arriverà fino al ruscello!».

Durante l'inverno, appena si faceva vedere il sole, il padre diceva ai due ragazzi: «Andate un po' a vede-re se i nostri piselli e le nostre fave crescono. Strap-pate le erbacce, date un'occhiata a tutto e fate ritor-no p r ima del buio e del f reddo». Lo sveglio e il sempliciotto passavano tutto il giorno giocando co-me preferivano, e al ri torno magnificavano: «Fave fi-no al torrente. Piselli fino al ruscello!».

Andarono avanti così fino a primavera. L'ape si mise a ronzare, l'uccello a cantare: era ar-

rivata la stagione delle fave. Il padre disse ai ragazzi: «Le nos t re fave devono essere ma tu re . Andate al campo a prenderne un po'».

Essi vi andarono, ma per dire al ritorno: «Non so-no ancora mature: il campo è esposto all'ombra».

Nel mese di maggio, tutte le fave della regione era-no mature. Gli asini che le andavano a prendere tor-navano stracarichi.

«Le nostre sono sicuramente mature!» affermaro-

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no di nuovo i due vecchi. «Domani andrete a racco-glierle.»

Lo sveglio e il sempliciotto par t i rono all'alba col loro asino, portando un setaccio e due grandi ceste. Allora il sempliciotto chiese allo sveglio: «Che fare? Ti rendi conto che non abbiamo seminato le fave?». «Non ti inquietare» rispose lo sveglio. «Facciamo ro-tolare il nostro setaccio, dove si fermerà, ci mettere-mo a raccogliere fave a più non posso. È il periodo dell 'abbondanza! »

Lanciarono quindi il loro setaccio che cominciò a rotolare, rotolare. Essi lo seguirono e ben presto si trovarono in mezzo a un campo, un campo!... Mai, proprio mai avevano visto un simile ben di Dio!

Erano delle belle fave maltesi: ogni baccello era lungo come un avambraccio. Attaccarono l 'asino a un albero e si misero a sbucciarle. Ne sbucciarono, con t inuando a mangiarne , setacci su setacci, che versavano poi nelle ceste. Ora, questo campo mira-coloso era quello dell'orchessa Tseriel. Costei r i tornò dalla caccia nel pomeriggio, trovò l'asino e lo divorò in un sol boccone, lasciando solo le orecchie che at-taccò da una parte e dall'altra di un ramo. Di tanto in tanto, lo sveglio diceva al sempliciotto: «Va' a ve-dere se l'asino non si è slegato». E il sempliciotto ri-spondeva: «È sempre allo stesso posto. Vedo muo-versi le sue orecchie».

Andarono avanti tut to il giorno a sbucciare fave. Sbucciarono e mangiarono fino a che non si resero conto dell'ora. La notte li sorprese, ma le loro ceste erano piene. Quando si accinsero a caricarle sull'asi-no, scoprirono che di esso non r imanevano che le orecchie! Si stavano chiedendo che cosa avrebbero dovuto fare quando sopraggiunse Tseriel. Essa disse loro con voce gioiosa: «Siate i benvenuti, figlioli, sia-

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te i benvenuti! Restate qui questa notte, ripartirete al mattino».

La sua casa era nei pressi, nascosta da grandi al-beri. Tseriel li fece entrare e chiese loro: «Che cosa mangia te? Cuscus di grano o cuscus di cenere?». «Io» disse il sempliciotto «voglio del cuscus di gra-no.» L'orchessa replicò bruscamente: «Avrai del cu-scus di cenere». Lo sveglio disse: «A me, madre-non-na, da' pu re quello che t i piacerà . Fosse anche cuscus di cenere, lo mangerò». «Tu, invece, avrai del cuscus di grano.»

L'orchessa servì la cena e si accinsero tutti e tre a passare la notte. Fu in quella che lo sveglio, con la vo-ce più dolce che gli veniva, disse a Tseriel: «Madre-nonna, come fa a entrare in te il sonno? Da che cosa potrò riconoscere che tu starai dormendo, in modo da non destarti, visto che qualche volta di notte mi ca-pita di alzarmi e parlare senza accorgermene?».

Essa rispose: «Quando udrai l 'asino ragliare nel mio ventre, i vitelli muggire, le capre e le pecore be-lare, q u a n d o udra i le mucche muggire , le galline chiocciare e tutti gli animali che ho inghiottito nel corso della giornata emettere i loro gridi, allora sta' sicuro che io dormo». «Bene, madre-nonna!» disse lo sveglio che andò a letto e fece finta di dormire.

In realtà spiava Tseriel. Aspettava che si mettessero a gridare tutti gli animali che essa aveva mangiato, per potersi salvare. Fu solo nel cuore della notte che udì l'asino ragliare, la pecora e la capra belare, la mucca muggire e le galline chiocciare. Pensò: "Sta dormendo". Prese una corda e le legò insieme i piedi. Suo fratello dormiva. Lo scosse e gli disse: «Alzati, al-zati, sbrighiamoci intanto che dorme!». Ma il sempli-ciotto brontolò nel sonno: «Lasciami dormire!».

Allora lo sveglio gli diede un pizzicotto per farlo

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destare subito. Poi tirò il paletto, socchiuse la porta e scivolò per pr imo fuori.

«Non dimenticare di tirarti dietro la porta!» rac-comandò al fratello. Il sempliciotto scardinò la porta e se la caricò sulla schiena.

Attraversarono il cortile e si trovarono di fronte a una siepe di spine. Lo sveglio si aprì un varco e disse al fratello: «Adesso pensa alle spine!». Il sempliciotto depose la por ta per prendersi sulla schiena un ce-spuglio di spine.

Era notte. Lo sveglio correva sempre dritto davan-ti a sé, senza voltarsi. Ma non cessava di dire al fra-tello: «Corri, corri!».

Ma il sempliciotto non poteva correre altrettanto in fretta: soffiava e sbuffava. Un pietrone ostruiva il passaggio. Lo sveglio lo aggirò e gridò al fratello: «Bada alla pietra!». E il sempliciotto lasciò il cespu-glio e prese la pietra.

Lo sveglio correva, correva sempre. Incontrò un ulivo: «Bada all'ulivo!» gridò ancora al fratel lo. Il sempliciotto, che avanzava a fatica sbuffando, si se-parò dalla pietra per sradicare l'ulivo e caricarselo sulle spalle.

Lo sveglio correva sempre. All'alba raggiunse il torrente, ma non osò passarlo senza il fratello. Lo at-tese e lo vide arrivare sorreggendo l'ulivo.

«Perché, f ra tel lo mio, t raspor t i questo ulivo?» «Sei tu che me lo hai detto.» «Io ti ho detto questo? Ti ho detto di prenderti sulle spalle quest'ulivo? Io ti ho gridato: "Bada alla pietra, bada all 'albero.. ." . Avanti, posa il tuo ulivo!»

Il sempliciotto lo prese per mano e cercò il guado. Quando ebbero finito di attraversare il torrente face-va giorno. Poterono senza fatica ritrovare la strada del loro villaggio.

C'era della gente che li stava cercando. Lo sveglio e

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il sempliciotto scorsero da lontano il loro padre che si appoggiava a un bastone. Gli corsero incontro e gli confessarono di non avere mai seminato le fave né i piselli. Gli raccontarono tutte le loro avventure: «Sia-mo sfuggiti a Tseriel» disse il sempliciotto. «Eravamo nel suo campo, intenti a sbucciare delle grosse fave. Lei ha mangiato il nostro asino e ha attaccato le sue orecchie a un ramo. La notte ci ha sorpresi e Tseriel ci ha portati a casa sua.» Lo sveglio aggiunse: «Ho spia-to il momento in cui si sarebbero messi a gridare tutti gli animali divorati dall'orchessa nel corso della gior-nata. Ho udito contemporaneamente l'asino ragliare nel suo ventre, la capra e la pecora belare, la mucca e il vitello muggire, le galline chiocciare. Allora ho sve-gliato mio fratello e ci siamo salvati».

Il padre disse loro: «Quello che è stato è stato: io non sarei mai riuscito a punirvi come Dio vi ha ap-pena puniti. Andiamo presto a trovare vostra madre: non ha cessato di piangere tutta la notte».

Quando le ebbero raccontato la loro avventura, la madre gridò: «Che mi importa dell'asino, che mi im-porta delle fave, dal momento che mi siete stati re-stituiti!».

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

11. M I A M A D R E M I H A S G O Z Z A T O , M I O P A D R E M I H A M A N G I A T O ,

M I A S O R E L L A H A R A D U N A T O L E M I E O S S A

Si narra che un tempo, quando la carne era rara, co-sì rara che se la sognavano, un uomo disse un giorno alla moglie: «Domani avremo degli invitati. Com-prerò della carne al mercato perché tu possa farci un buon cuscus delle grandi occasioni».

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Si recò quindi al mercato al mat t ino presto e ri-tornò tenendo tra le mani una filza di pezzi di carne, infilati come cipolle lungo lo stelo di un giunco. Era della bella carne di montone tenera e grassa. La mo-glie aveva già acceso il fuoco in cortile e preparato i grani del cuscus, dei grani così biondi che emanava-no luce. Aveva sbucciato e lavato le verdure. Aveva messo la carne a macerare nell'olio di oliva con ogni sorta di aromi e spezie: la carne e le verdure riempi-vano una terrina. La donna versò il tutto nella pento-la. Dopodiché mise a cuocere il cuscus a vapore e andò t ranqui l l amente a sedersi sulla soglia dell'uscio; suo mari to sarebbe stato fiero di lei, il pa-sto sarebbe stato pronto all'ora giusta e prometteva di essere eccellente.

In un attimo, un gradevole profumino cominciò a diffondersi nel cortile. La donna si alzò per control-lare il sale. La carne era quasi cotta: ne prese un pez-zetto e si al lontanò. Ma l 'odore la seguiva, il buon odore del sugo la avvolgeva e la richiamava irresisti-bilmente verso la pentola. La donna attizzò il fuoco, aggiunse un ceppo, se ne andò fino all'otre di pelle di capra all'altro capo del cortile. Ma il vento le rigetta-va in viso il buon odore del sugo. Allora, tornò sui suoi passi, prese a girare, aggiunse ancora della le-gna e finì per sollevare il coperchio. Tirò fuor i un pezzetto di carne, poi un altro. Un altro e ancora un altro... Mangiava così febbrilmente e in fretta che si scottò le dita e la lingua. E se almeno fosse stata sod-disfatta la sua golosità! Ma si sarebbe detto che que-sta si faceva sempre più esigente a mano a mano che la donna tirava fuori un pezzo dopo l'altro. Decisa a mangiarne un ul t imo pezzo, la donna af fondò per l'ultima volta il cucchiaio nella pentola, ma non tirò fuori che verdure. Sconvolta, la donna lo introdusse ancora più e più volte d ispera tamente : la pentola

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non conteneva più nemmeno un pezzo di carne! Al-lora la sventurata si sovvenne degli invitati che suo mari to doveva condurle. Che cosa avrebbe presenta-to loro? Mentre si strappava i capelli in preda all'an-goscia, il suo figlioletto Ali spinse la porta ed entrò. Aveva appena finito di correre nei campi e di bere al-la sorgente. Era roseo e tu t to t rafe la to . Essa lo sgozzò come un agnello e lo fece a pezzetti, che si af-frettò a gettare nella pentola. Stava facendo sparire le ultime tracce del suo delitto quando rientrò la fi-glia maggiore, una ragazzina silenziosa e dolce. Zai-na capì ma non disse motto, temendo probabilmen-te di fare la stessa fine. Si ritirò triste in un angolo.

Poco dopo arrivò il padre, in compagnia dei suoi invitati. Il pas to era p ron to e il sugo mandava un odore invitante. Mangiarono tutti di buon appetito, a eccezione della fanciulla. Il mari to si stupì di non vedere il piccolo, che amava come la pupilla dei suoi occhi. Ma la moglie rispose: «I miei genitori sentiva-no la sua mancanza. Sono venuti questa matt ina a cercarlo col loro asino».

Il mar i to si r imise a mangia re di buona lena. Quando non rimase più un solo pezzo di carne né un granello di cuscus, l 'uomo, soddisfatto, offrì ai suoi ospiti della frutta e del caffè. Dopodiché li riaccom-pagnò. E la moglie corse a riportare un setaccio che le era stato prestato da una vicina.

Allora Zaina si accostò al grande piat to di legno che aveva contenuto il banchetto: adesso era vuoto. Solo degli ossicini bianchi e fragili giacevano spar-pagliati sul fondo: era tutto quello che rimaneva di suo fratel lo. La fanciul la li raccolse con cura, li asciugò e li distese sul tetto. Quando furono ben sec-chi, li avvolse delicatamente in una tela fine e li na-scose nel suo lettino.

Appena i suoi genitori si allontanavano, la fanciul-

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la prendeva la tela sulle ginocchia e piangeva, pian-geva il suo piccolo compagno. Fece così ogni giorno. Ora, avvenne che, per effetto delle lacrime che tutti i giorni cadevano a dirotto su di loro, questi ossicini finirono per saldarsi gli uni agli altri. E una mattina, dalla tela scappò fuori un bell'uccellino che si posò sul tetto e cantò:

Mia madre mi ha sgozzato, sgozzato... Mio padre mi ha mangiato, mangiato... Mia sorella ha radunato le mie ossa.

La ragazzina riconobbe la voce del fratello e si mi-se a tremare. "Cosa farà mio padre quando lo udrà?" si disse. Infatti ogni giorno il padre chiedeva: «Dov'è il piccolo?». E la moglie rispondeva, sempre più im-barazzata: «È dai miei genitori, tornerà presto».

Giunse il momento in cui la donna non potè più cont inuare a rispondere: "È dai miei genitori, tor-nerà presto". Perché il marito si stava insospettendo. Dovette finire per dirgli, il giorno in cui si sentì mes-sa alle strette: «Non so cosa ne sia di lui. Mia madre mi pa detto che è scomparso».

La moglie aveva appena portato un grande piatto di cuscus con carne e legumi, perché era giorno di mercato. «È stato un giorno come questo, e alla stes-sa ora, che per la prima volta mi sono inquietato per il piccolo» disse l 'uomo con voce cupa.

In quel momento l'uccellino si posò sul tetto e si mise a cantare:

Mia madre mi ha sgozzato, sgozzato... Mio padre mi ha mangiato, mangiato... Mia sorella ha radunato le mie ossa.

Il padre comprese tutto. Si alzò, terribile, e avanzò

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verso la moglie. Ma allora l'uccellino cantò di nuovo, con la voce dolce del fanciullo:

Guardati bene dall'ucciderla, ucciderla... Perché mia sorella piangerebbe, piangerebbe... E sarebbe orfana.

L'uccello non tornò più sul tetto. La madre fu per-donata . La fanciulla smise di t remare . Ma l 'uomo perse per sempre il gusto di vivere.

12. L A Q U E R C I A D E L L ' O R C O

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

Si racconta che nei tempi antichi vi era un povero vecchio che si ost inava a vivere e ad a t tendere la morte tutto solo nella sua casupola. Abitava fuori del villaggio. E non entrava né usciva mai perché era pa-ralizzato. Gli avevano trascinato il letto vicino alla porta, e questa porta aveva un paletto che si tirava con un cordino. Ora, questo vecchio aveva una nipo-tina, poco più di una bimbetta, che tutti i giorni gli portava il pranzo e la cena. Aisha veniva dalla parte opposta del villaggio, mandata dai suoi genitori che non potevano prenders i cura di pe r sona del vec-chietto.

La fanciulla, recando una focaccia e un piatto di cuscus, cantilenava appena arrivata: «Aprimi la por-ta, padre mio Inubba, padre mio Inubba!». E il non-no rispondeva: «Fa' r i suonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!» .

La fanciulla faceva tintinnare uno contro l'altro i suoi braccialetti ed egli tirava il cordino. Aisha en-trava, scopava la casetta, rifaceva il letto. Poi serviva

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al vecchio il suo pasto, gli versava da bere. Dopo es-sersi lungamente intrat tenuta accanto a lui, faceva ritorno a casa, lasciandolo tranquillo e sul punto di addormentarsi . Ogni giorno la ragazzina raccontava ai genitori come si era presa cura del nonno e che cosa gli aveva detto per distrarlo. Il nonno era molto contento quando la vedeva arrivare.

Ma un giorno, l'orco scorse la fanciulla. La seguì di nascos to f ino alla casupola e l 'udì cant i lenare: «Aprimi la por ta , padre mio Inubba , pad re mio Inubba!». Udì il vecchio rispondere: «Fa' r isuonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!».

L'orco disse fra sé: "Ho capito. Tornerò domani e ripeterò le parole della ragazzina; lui mi aprirà e io lo mangerò!".

L'indomani, poco pr ima che arrivasse la fanciulla, l'orco si presentò davanti alla casupola e disse con la sua voce p rofonda : «Aprimi la por ta , pad re mio Inubba, padre mio Inubba!». «Mettiti in salvo, male-detto!» gli rispose il vecchio. «Credi che non ti rico-nosca?»

L'orco tornò a diverse riprese, ma ogni volta il vec-chio indovinava chi fosse. Alla fine l'orco se ne andò a trovare lo stregone. «Ecco,» gli disse «c'è un vec-chio immobilizzato che abita fuori del villaggio. Non vuole aprirmi perché la mia voce profonda mi tradi-sce. Indicami il modo di avere una voce fine e chiara come quella della sua nipotina.»

Lo s t regone rispose: «Va', cospargi t i la gola di miele e stenditi a terra al sole, con la bocca spalan-cata. Vi entreranno delle formiche e ti raschieranno la gola. Ma un giorno non basterà per farti schiarire e affinare la voce!».

L'orco fece quello che gli aveva raccomandato lo stregone: comprò del miele, se ne r iempì la gola e

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a n d ò a s tenders i al sole, con la bocca aper ta . Un esercito di formiche entrò nella sua gola.

In capo a due giorni l'orco si recò alla casupola e cantò: «Aprimi la porta, padre mio Inubba, padre mio Inubba!». Ma il vecchio lo riconobbe ancora. «Allon-tanati, maledetto!» gli gridò. «Lo so bene chi sei!»

L'orco se ne tornò a casa. Mangiò ancora e ancora il miele. Si distese per

lunghe ore al sole. Lasciò andare e venire per la sua gola legioni di formiche. Il quarto giorno, la sua vo-ce era fine e chiara come quella della fanciulla. L'or-co se ne andò allora dal vecchio e cantilenò davanti alla sua casupola: «Aprimi la porta, padre mio Inub-ba, padre mio Inubba!». «Fa' r isuonare i tuoi brac-cialettini, Aisha, figlia mia!» rispose il nonno.

L'orco si era muni to di una catenella: la fece tin-tinnare. La porta si aprì. L'orco entrò e divorò il po-vero vecchio. Dopodiché indossò i suoi abiti, prese il suo posto e attese la fanciulla per divorare anche lei.

Essa venne. Ma, appena giunta davanti alla casu-pola, notò che del sangue colava sotto la porta. Pen-sò: "Che cosa sarà successo a mio nonno?". Sprangò la por ta dall 'esterno e cantilenò: «Aprimi la porta , padre mio Inubba, padre mio Inubba!». L'orco rispo-se con la sua voce fine e chiara: «Fa' r isuonare i tuoi braccialettini, Aisha, figlia mia!».

La fanciul la , che non r iconobbe in questa voce quella del nonno, posò sul sentiero la focaccia e il piatto di cuscus che aveva portato, e corse al villag-gio a dare l'allarme ai suoi genitori.

«L'orco ha mang ia to i l nonno» annunc iò loro piangendo. «Gli ho sprangato la porta. E adesso che faremo?»

Il padre fece annunciare la notizia sulla pubblica piazza. Allora ogni famiglia offr ì u n a fascina e da ogni parte accorsero degli uomini per portare queste

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fascine fino alla casupola e appiccarvi il fuoco. Inva-no l'orco cercò di fuggire. Fece forza con tutto il suo peso sulla porta che resistette. Fu così che bruciò.

L'anno seguente, nello stesso luogo in cui l'orco fu bruciato spuntò una quercia. La chiamarono la "quercia dell'orco". Da allora, la si mostra ai passanti.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

13.I S E T T E O R C H I

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'erano una volta, in una lontana contrada, un uo-mo e una donna che avevano un bambino. Erano già vecchi quando Dio fece loro dono di questo unico fi-glio. Lo chiamarono Mehend e vissero con gli occhi sempre su di lui. Dio regnava nei cieli e il bambino sulla terra : appena Mehend lamentava i l m i n i m o male i suoi genitori ne erano atterriti perché trepida-vano all'idea di vederlo sparire. Tutto ciò che al mon-do vi era di bello e di buono, glielo davano, se ne avevano la possibil i tà. Lo nut r ivano meglio di un principino e vegliavano gelosamente su di lui. Non permettevano che gli andassero vicino persone mal-vagie. Non sopportavano di vederlo toccare una spi-na. Lo videro così crescere al riparo dal male, dalle brut ture e dai pericoli, ma con una grande passione per la caccia.

Adolescente, prese ad andare a suo piacimento di campo in campo e di bosco in bosco col fucile a tra-colla. Un giorno incontrò una creatura così bella da indurre chi la vedeva a benedire Dio per il fatto di averla creata. Era bianca e rosea, luminosa, e i suoi capelli folti e lunghi la coprivano d'oro fino alla vita.

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Egli ne rimase abbagliato e pensò: "È come se vedes-si la luce per la pr ima volta. La mia vita e la mia ani-ma sono in lei!".

La prese per mano e la condusse dai suoi genitori, incurante del fatto che lei fosse una sconosciuta di passaggio. Egli dichiarò loro: «Voglio sposare lei o morirò».

Il padre rispose: «Figlio mio, io ti ho dato tutto, ti ho accordato tut to f ino a oggi. Mi sei più caro del mondo e della vita e caro quanto il f irmamento, ma questa ragazza io non l 'accoglierò. Scegliti una fi-danzata tra le fanciulle del villaggio e posa la mano su di lei. Non farò caso né al denaro né ad altro. Ma lasciart i sposare una vagabonda incont ra ta per la strada, e di cui non sappiamo nulla, non posso tolle-rarlo: l 'onore ce lo vieta, figlio mio, e il nostro nome è grande!».

Mehend prese per mano la fanciulla e si allontanò con lei senza dir motto. Quando ebbero fatto qual-che passo, le disse: «Siamo una cosa sola, tu e io».

Infatti egli credeva di essere r iamato dalla fanciul-la. Non sapeva che essa lo aveva stregato.

Percorsero un lungo tratto di strada e si addentra-rono in piena campagna. Raggiunsero l'eremo, cir-condato da praterie, in cui abitava un Vecchio Sag-gio, amico del giovane. L'amico diede il benvenuto ai visitatori e servì loro un buon pasto. Li invitò a trat-tenersi presso di lui per tutto il tempo che avessero voluto, ed ebbe così p i enamente agio, lui che era perspicace, di studiare la ragazza. La osservò a lun-go, con attenzione, e si stupì di non subire il suo fa-scino. Alla fine pensò: "È bella fuori ma brutta den-tro". E si ripromise di avvertire di ciò quanto pr ima il suo giovane amico.

Approfi t tò di una mat t ina in cui si trovava solo con lui nel giardino, per dirgli: «Prima che sia trop-

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po tardi , separati da questa ragazza. Non può ren-derti felice perché non reca in cuore il bene. Come osi sacrificare a lei i tuoi genitori, i tuoi vecchi geni-tori che hanno atteso così a lungo la tua nascita e ti hanno visto venire alla luce solo dopo aver veduto le stelle a mezzodì! La terra è piena di donne!».

Ma Mehend rispose: «Non esistono più donne al mondo per chi ha visto questa!».

«Che tu possa non avertene mai a pentire!» gli dis-se ancora il Saggio.

Dopo essersi ben riposati, Mehend e colei che egli amava più della luce lasciarono una matt ina l 'eremo e proseguirono il loro cammino. Andarono dritti da-vanti a loro, vivendo di elemosine. Attraversarono fiumi, valicarono alture. Camminarono, cammina-rono fino a essere spossati e fecero il loro ingresso in una contrada che non era abitata da anima viva. La ragazza dichiarò: «Sono molto stanca!».

Proprio allora scorsero in lontananza un filo di fu-mo. Mehend tese il braccio in quella direzione e dis-se alla compagna: «Dev'esserci una casa laggiù. Diri-giamoci là e trascorriamoci la notte».

Procedettero a fatica verso la casa, che era protet-ta da u n a siepe di spine. Mehend chiamò: sulla so-glia si fece vedere un uomo grandissimo. Egli fece entrare i due viaggiatori. E fu allora che Mehend e la sua amata scoprirono altri sei uomini identici al pri-mo, in d ispar te nella penombra . La bella ragazza venne condotta a riposarsi in una stanza. E il mag-giore dei fratelli disse al giovane: «Tu e io ci misure-remo nella lotta».

Mehend, che era agile e robusto, stordì il suo av-versario con una testata. Ma un altro si alzò e disse: «Eccomi!»- A sua volta esso fu abbattuto, e uno dopo l'altro lo furono tutti.

I sette fratelli giacevano in disordine e Mehend li

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guardava chiedendosi che cosa gli convenisse fare di loro, quando scorse una botola. Ne afferrò l'anello e tirò: apparve una buca profonda. Vi discese e all'im-provviso, dalla quanti tà di ossa umane che ricopri-vano il pavimento, capì di trovarsi nella casa dei set-te orchi. Pensò: "Mamma mia, m a m m a mia! Prima che loro uccidano me, bisogna che io uccida loro!". E finì i sette orchi. Dopodiché gettò i loro corpi nella buca.

L' indomani, fin dal p r imo mat t ino , Mehend esplorò la casa e la trovò ricolma di una profusione di ricchezze. Fece una passeggiata nel giardino, adi-bito per metà a frutteto e per metà a orto: la foresta era lì vicino, e la selvaggina era abbondante. Il giova-ne si sentì al colmo della felicità. Si recò dalla sua bella compagna e le disse: «Quanta felicità ci atten-de! Ho ucciso i sette orchi. Tutte le loro ricchezze ci appar tengono: abb iamo cavalli, mucche , capre e pollame. Orsù, oggi è il giorno delle nostre nozze!».

Per un certo tempo vissero felici e contenti. Ma un giorno che Mehend era andato a caccia di buon'ora, la sua sposa udì come un debole gemito. Tese l'orec-chio: il suono veniva dalla botola. Tirò l'anello: uno dei sette orchi era ancora vivo! Era ferito. La giova-ne donna lo curò e lo nutrì. Gli tenne compagnia e non richiuse su di lui la botola se non verso sera, all'ora in cui il mari to era solito fare ritorno.

Mehend r i tornava tu t to con ten to dalla caccia. Portava con sé molta selvaggina. Ma trovò la compa-gna a letto in preda alla febbre. Si mise a sedere ac-canto a lei e le disse con tenerezza: «Che cos'hai? Questa matt ina quando ti ho lasciata non scoppiavi di salute come una melagrana, e non eri tutta sorri-dente?».

Essa rispose: «Se tu mi ami, se ci tieni a vedermi

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guarita, procurami la mela fatata che dà l'eterna gio-vinezza».

Il giovane non riuscì ad addormentarsi tanto era inquieto. Si recò di buon'ora dal Vecchio Saggio, suo amico, che lo accolse con queste parole: «Non ti ave-vo detto che da questa donna dal cuore nero non ti poteva venire alcun bene? Come puoi essere ancora abbagliato dal suo viso? Non sai che essa mira a to-glierti la vita?». «Se sei mio amico,» rispose Mehend «indicami dove posso p rocura rmi la mela fatata.» «Nel giardino di Tseriel» acconsentì a dire il Vecchio Saggio. «Ma per non farti divorare dall'orchessa, do-vrai sorprender la men t re sta mac inando il grano: avrà i seni gettati indietro sulle spalle. Tu buttati su di lei, afferra uno dei suoi seni e succhialo come fa-rebbe un neonato. Essa ti dirà con rabbia: "Ah, se tu non avessi bevuto del mio latte, ti avrei divorato e avrei divorato fin la terra che hai calpestato! Ma dal momento che hai bevuto del mio latte, che cosa pos-so fare per te?". Allora tu le chiederai di lasciarti co-gliere la mela fatata. Va', e che Dio venga in aiuto di colui che per una donna ha perso la ragione!»

Mehend si allontanò. Camminò a lungo prima di scoprire il giardino di Tseriel. Era l 'ora più calda; l'orchessa, nuda fino alla cintola, con gli occhi chiu-si, i seni gettati indietro sulle spalle, era intenta a macinare del grano, cantando delle lugubri lamenta-zioni. Il giovane fece un balzo e chiuse la bocca in-torno a uno dei suoi seni. Essa gridò: «Sventurato! Se tu non avessi bevuto del mio latte, ti avrei divora-to e avrei divorato fin la terra che hai calpestato! Ma dal momen to che lo hai fatto, che cosa posso fare per te?». «Madre-nonna,» rispose Mehend «mi han-no detto che tu avevi nel tuo giardino delle mele fa-tate, delle mele che conferiscono, ai fortunati che le assaggiano, un'eterna giovinezza.»

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L'orchessa condusse il giovane verso un bell'albero carico di frutti. Mehend colse tante mele quante ne potè contenere il suo paniere e riprese la via di casa.

Appena udì il suo passo, la moglie richiuse la bo-tola sull'orco e corse a buttarsi sul letto. Il giovane sposo le si avvicinò con estrema delicatezza e le con-segnò le mele fatate. Essa ne mangiò e sembrò tor-nare in vita, il che rassicurò Mehend. Essa ritrovò la sua allegria e convinse lo sposo a ritornare a caccia già il giorno successivo. E cercò ogni scusa per man-darcelo anche parecchi giorni successivi.

Appena lui si era allontanato, la sposa dal viso lu-minoso saltava giù dal letto e si precipitava verso la botola. Liberava l'orco e trascorreva tutta la giornata in sua compagnia, dal momento che l'orco tornava nel suo nascondiglio solo al t ramonto. Quest'ultimo, però, una volta guari ta la sua ferita, si s tancò ben pres to di questa vita e divenne più esigente. Così, una matt ina disse alla giovane donna: «Ne ho abba-stanza di stare sempre sul chi vive. Dobbiamo asso-lutamente mandare tuo marito in un luogo da cui gli sia impossibile fare ri torno. Domani, non esitare a dirgli: "Voglio che tu mi dia da bere l'acqua dei più alti ghiacciai. L'acqua per la quale si scont rano le montagne" . Il suo amore per te lo sconvolge a tal punto che lo indurrà a salire verso le alture più inac-cessibili dove le aquile lo divoreranno».

Un'altra volta il giovane trovò la sposa che trema-va e bat teva i denti . Si rabbuiò: «Che cos'hai?» le chiese, atterrito. «Non ti ho portato la mela fatata, la mela dell 'eterna giovinezza? E sì che ti ho lasciata gioiosa e in buona salute quando sono partito per la caccia.»

Essa rispose con un sospiro: «Se mi ami, se ci tie-ni a vedermi sorridere e camminare, dammi da bere l 'acqua per la quale si scontrano le montagne».

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Mehend ri tornò presso il suo vecchio amico e gli disse con aria avvilita: «Ecco che mi chiede l 'acqua per la quale si scontrano le montagne!». Il Saggio lo fissò a lungo pr ima di rispondere: «Credimi, te lo giu-ro per questa barba tutta bianca e per questo Dio che ci ha creati, questa donna ce l'ha con la tua anima. Fi-nirà per strappartela. Ma dal momento che tu vuoi morire, ecco: prendi una giovenca, la più bella che troverai, e sgozzala sulla montagna. Le aquile scen-deranno dal cielo per pascersene e la più vecchia ti verrà in aiuto. Va' e che Dio ti renda la ragione!».

Il giovane si mise in cerca della giovenca più gras-sa. La condusse sui monti e la sgozzò. Nascosto die-t ro un albero, a t tese le aquile. Ben pres to le vide scendere e le guardò mangiare . Esse mangiarono, mangiarono a più non posso. Allora quando furono tutte sazie, il padre delle aquile parlò: «Se conoscessi colui che ci ha forni to un così bel banchetto, farei tutto quello che mi chiederebbe».

Mehend si fece vedere e disse: «Sono stato io. Vor-rei che tu mi portassi sul più alto ghiacciaio e mi permettessi di prendere con me un po' di quest'ac-qua meravigliosa per cui si scontrano le montagne».

Il padre delle aquile lo prese sotto la sua ala e lo sollevò fino al Settimo Monte, di tutti il più maesto-so e il più vicino al cielo. Attese che il giovane avesse riempito il suo otre e poi lo riportò dove lo aveva tro-vato, ai piedi dell'albero.

Mehend fece ri torno a casa in tutta fretta. Al calare della notte la moglie udì il suo passo. Dopo aver riso e scherzato con l'orco per tutto il giorno, essa ebbe ap-pena il tempo di gettarsi sul letto: "E io che speravo tanto di non rivederlo mai più!" disse fra sé, delusa. Bevve l'acqua per la quale si scontrano le montagne e cessò di tremare. La febbre sembrò abbandonarla,

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con gran gioia di Mehend, che potè credere che la pa-ce e la felicità fossero tornate per sempre.

Ma una matt ina che il giovane mari to era tornato a cacciare, l 'orco disse alla sua bella compagna : «Ascolta, tu e io abbiamo atteso troppo. Questa volta manderemo Mehend tra le fauci del leone. Quando tuo mari to ritornerà questa sera, fìngi di essere ma-lata da morire e digli: "La mia ult ima ora è arrivata. Nulla sarebbe in grado di salvarmi a parte, forse, un po' di latte di leonessa contenuto in un otre di pelle di leoncino legato con due peli sottratti ai baffi di un leone"».

L'orco e la giovane donna si sentirono felici e sen-za problemi per tutto il giorno, tanto erano sicuri di sbarazzarsi presto di Mehend. Se ne stettero a lungo in giardino a oziare al sole, e r ientrarono solo all'ora del pas to per consumare ins ieme u n a focaccia di f rumento così bionda che emanava luce e bere una terrina di latte. Dopodiché la giovane donna preparò il pasto della sera. L'orco mandò giù di furia la cena e, dirigendosi verso la botola, disse alla sua compa-gna: «Questa volta, se farai le cose a modo e seguirai le mie raccomandazioni , nulla più si f rappor rà tra noi due. È duro, credimi, dormire tutte le notti solo in questa buca umida e nera come una tomba!».

La giovane donna attese che l'orco fosse scompar-so per spogliarsi e andare a letto. Il mari to non tardò a rientrare. Appena lo udì, essa si mise a gemere e a piangere. Egli impallidì e disse: «Che hai, Dio mio, ma che cos'hai? Quale sorte si accanisce contro di noi? E sì che non abbiamo distrutto un santuario! E i miei genitori mi amano troppo per perseguitarmi con le loro maledizioni per il fatto che ti ho sposata contro la loro volontà».

Tra le lacrime, essa rispose: «Sarebbe meglio che ti rassegnassi a vedermi morire, questa volta. Sento

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che solo un po' di latte di leonessa, contenuto in un otre fatto di pelle di leoncino e legato con due peli strappati dai baffi di un leone sarebbe, forse, in gra-do di rianimarmi!».

Mehend sentì la gioia abbandonarlo per sempre. Si alzò all'alba, montò a cavallo e corse verso il suo

amico fedele: «Ecco che adesso per vivere essa pre-tende del latte di leonessa contenuto in un otre fatto di pelle di leoncino e legato con due peli strappati dai baffi di un leone!» disse con animo oppresso.

«Non capisci, sventurato, che essa vuole per tre volte la tua morte, e che a volerla sono in due? Fino a dove giungerà il tuo accecamento? Credimi, c'è qualcuno che la ispira e la guida!»

Ma il giovane lo in te r ruppe con queste parole: «Voglio farle vedere per l 'ultima volta di che cosa so-no capace e f ino a che punto giunge il mio amore; obbedire un'ult ima volta al suo capriccio».

Il Saggio n o n insistette. «Dal m o m e n t o che sei contento di morire per lei, scegli una bella capra e conducila nella foresta. Legala a un albero. Ben pre-sto la sentirai belare e vedrai accorrere il leone e la leonessa. Allora tu approfit ta del momento in cui sa-ranno intenti a sbranarla per introdurti nella loro ta-na e rapire loro due leoncini...»

La capra che Mehend portò con sé nella foresta si mise a belare a più non posso. Le belve la udirono e si fecero avanti ruggendo. Il giovane attese di vederle attaccare la loro preda prima di lanciarsi verso la ta-na: vi si trovavano due adorabili leoncini. Ne nasco-se uno nel cappuccio del burnus, ment re l 'altro lo uccise e lo scuoiò.

Le belve non lasciarono nulla della povera capra e r i tornarono soddisfatte alla loro tana. Il leone, satol-lo, si distese comodamente e si addormentò. Ma la leonessa, da buona madre, si mise a cercare i suoi fi-

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gli. Non trovandoli, li chiamò e si mise a ruggire in modo lamentoso. Quand'ebbe pianto e chiamato in-vano, il giovane si fece vedere tenendo in mano un otre di pelle di capra: «Uno dei tuoi piccoli è in ma-no mia» le disse. «Chiedimi tutto quello che vorrai» rispose la leonessa «ma restituiscimi il mio piccolo.» «Per pr ima cosa, fammi prendere un po' del tuo latte in questo otre, e inoltre approfitta del fatto che il tuo signore, il leone, dorme per strappargli due peli dai baffi e darli a me.»

La leonessa obbedì. Si lasciò docilmente mungere. Dopodiché si avvicinò con la massima circospezione al leone per s t rappare due peli ai suoi nobili baffi. Allora il giovane scoprì il leoncino che teneva nasco-sto nel cappuccio del burnus e lo diede alla madre.

Mehend si allontanò rapidamente. Si fermò solo il tempo necessario a travasare il latte nell'otre di pelle di leoncino e a legare questo otre con i peli del leone. Tuttavia, invece di ritornare direttamente a casa sua, il giovanotto fece sosta dal suo amico. Il Saggio, che lo sentiva cupo e disorientato, si offrì di accompa-gnarlo.

Cavalcarono in silenzio fianco a fianco, nel crepu-scolo, e arrivarono che era già buio. La casa era là, dietro una siepe di aloe. Mehend e il suo amico at-taccarono i cavalli a un albero e a t t raversarono il giardino senza far rumore. La luce filtrava attraver-so le fessure della porta. Si avvicinarono e guardaro-no, uno dopo l'altro, dal buco della serratura. Fu al-lora che videro! Videro l 'orco e la giovane donna seduti uno di fronte all'altra, alle due estremità di un enorme piatto di cuscus, annaffiato di sugo scarlatto e guarnito di ali e cosce di pollo. Intorno a essi arde-vano numerose lanterne. La giovane donna dal cuo-re nero si era agghindata per questa festa: aveva in-dossato il ricco abito delle sue nozze. La sua fronte

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minuta scintillava come uno specchio e i suoi capelli sciolti la coprivano d'oro fino alla vita. L'orco sem-brava occupare tu t to lo spazio. La sua tes ta mo-struosa sfiorava le travi del soffitto e la sua conten-tezza era enorme. Le sue risate squassavano i muri: l 'orco e la sua bella compagna celebravano la sera delle loro nozze. Tra una risata e l'altra si dicevano: «Finalmente, grazie al leone, ci s iamo l iberat i di Mehend; o che fo r tuna , il leone ci ha l iberat i di Mehend! ».

L'orco e la giovane donna non cessavano di ridere e di scherzare in mezzo alle lanterne accese! Stavano già per dirsi un'ennesima volta, t ra una risata e l'al-tra: «Mehend, lo abbiamo aff idato alle fauci di un leone», quando la porta si aprì bruscamente. Un col-po di sciabola troncò la testa all'orco e la fece volare in pezzi. Allora, tenendosi sulla soglia, Mehend guardò la giovane donna e le disse con voce terribile: «Per te ho abbandonato padre e madre; per te mi so-no esposto parecchie volte a morte certa, e tu mi hai preferi to un orco! Che Dio ti t radisca come tu hai t radi to me, perché non merit i di morire per mano mia». E, lasciando la giovane donna in compagnia dell'otre di latte e del cadavere dell'orco, Mehend ri-prese con il suo amico il sentiero della foresta.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

14. S T O R I A D E L B A U L E

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

C'era una volta un re - benché non vi sia altro re all 'infuori di Dio - e questo re aveva un figlio, tenera-mente amato, che gli disse: «O re, mio padre, lascia-

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mi andare al mercato a vedere i tuoi sudditi». «Fai come vuoi» gli rispose il re.

Il principe se ne andò dunque al mercato e disse a tutti gli uomini: «Voi non venderete né comprerete, non comprerete né venderete finché non avrete capi-to questi indovinelli. Il primo: "Qual è l'essere che al matt ino cammina su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre?". Il secondo: "Qual è l'albero che ha dodici rami, su ognuno dei quali vi sono tren-ta foglie?"».

Nessuno seppe rispondere. Tutti gli uomini rima-sero muti. Il mercato si dissolse. Passò una settima-na. Il g iorno del merca to si rivide il figlio del re. Questi chiese: «Avete trovato una risposta ai miei in-dovinelli?».

E anche questa volta tutti tacquero e si dispersero. Chi doveva comprare non comprò. E chi doveva ven-dere non vendette. Il mercato si dissolse. Ora, tra gli uomin i così raduna t i si trovava il sorvegliante del merca to . Era assai povero e aveva due figlie: u n a bellissima e l'altra, la più giovane, mingherlina ma piena di spirito. La sera, quando suo padre fece ri-torno, quest 'ultima gli disse: «Padre mio, con questo sono due mercati che parti e torni a mani vuote. Per-ché?». «Figlia mia,» rispose il sorvegliante «è venuto il figlio del re e ha proclamato: "Voi non venderete né comprerete, non comprerete né venderete finché non avrete capito il senso di quello che sto per di-re".» «E che cosa vi ha chiesto di indovinare il prin-cipe?» riprese la fanciulla.

«Ci ha chiesto qual è l'essere che al matt ino cam-mina su quattro zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre; qual è l 'albero che ha dodici rami , su ognuno dei quali vi sono trenta foglie.» La fanciulla rifletté un po' pr ima di rispondere: «È facile, padre mio: l 'essere che al ma t t ino c a m m i n a su qua t t ro

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zampe, a mezzogiorno su due e la sera su tre è l'uo-mo. Al matt ino della sua vita cammina carponi sulle mani e sui piedi; quand'è più grande cammina sui due piedi. Da vecchio, si appoggia a un bas tone . Quanto all'albero, è l 'anno: l 'anno ha dodici mesi e in ogni mese vi sono trenta giorni».

Passò una settimana. Il giorno del mercato si rivi-de il figlio del re. Questi chiese: «E oggi avete indovi-nato?».

Parlò il sorvegliante. Disse: «Sì, signore. L'essere che al matt ino cammina su quattro zampe, a mezzo-giorno su due e la sera su tre è l 'uomo. Al mat t ino della sua vita cammina carponi sulle mani e sui pie-di; quand 'è più grande cammina sui due piedi; da vecchio, si appoggia a un bastone. Quanto all'albero, è l'anno: l 'anno ha dodici mesi e in ogni mese vi sono trenta giorni».

«Aprite pure il mercato!» comandò il figlio del re. Quando venne la sera, il principe si accostò al sor-

vegliante e gli disse: «Voglio entrare in casa tua». Il sorvegliante rispose: «Va bene, signore».

E si avviarono a piedi. Il pr incipe affermò: «Ho fuggito il paradiso di Dio. Ho rifiutato ciò che voleva Dio. La strada è lunga; portami o io porterò te. Parla o parlerò io».

Il sorvegliante rimase in silenzio. Incontrarono un torrente. Il figlio del re disse: «Fammi attraversare il torrente o te lo farò attraversare io».

Il sorvegliante, che non capiva nulla, non rispose. Giunsero in vista della casa. Aprì loro la figlia mino-re del sorvegliante (quella che era mingherl ina ma piena di intuito). Essa disse loro: «Siate i benvenuti. Mia madre è andata a vedere un essere che non ave-va mai visto. I miei fratelli colpiscono l 'acqua con l'acqua. Mia sorella si trova tra un muro e l'altro».

Il figlio del re entrò. Vedendo la figlia più bella del

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sorvegliante disse: «Il piatto è bello ma ha un'incri-natura».

La notte trovò tut ta la famiglia riunita. Venne uc-ciso un pollo e si fece un cuscus delle grandi occa-sioni. Quando il pasto fu pronto, il principe disse: «Farò io la divisione del pollo». Diede la testa al pa-dre, le ali alle fanciulle, le cosce ai due maschi, il pet-to alla madre. E per sé tenne le zampe. Tutti mangia-rono e si apprestarono a passare la notte.

Il figlio del re si rivolse allora alla ragazza piena di spirito e le disse: «Avendomi tu detto: "Mia madre è andata a vedere un essere che non aveva mai visto" vuol dire che è una levatrice. Avendomi tu detto: "I miei fratelli colpiscono l'acqua con l'acqua", signifi-ca che essi stavano innaffiando i giardini. E quanto a tua sorella, "tra un muro e l'altro", essa tesseva la lana, avendo dietro di sé un muro e davanti a sé un altro muro: il telaio».

La fanciul la r ispose: «Quando vi siete messi in viaggio, tu hai detto a mio padre :"Ho fuggito il pa-radiso di Dio". È la pioggia che, per la terra, è il pa-radiso di Dio: temevi dunque di bagnarti? E poi hai detto: "Ho rifiutato ciò che voleva Dio". È la morte che rifiutavi? Dio vuole che noi mor iamo, ma noi non vogliamo. Alla fine hai detto a mio padre: "La strada è lunga; portami o io porterò te. Parla o par-lerò io", perché la strada ti sembrasse più corta. Co-me quando tu gli hai detto, allorché vi siete trovati davanti il torrente: "Fammi attraversare il torrente o te lo farò attraversare io". Volevi dire: "Indicami il guado o lo cercherò io". Quando sei entrato in casa nostra, hai guardato mia sorella e hai detto: "Il piat-to è bello ma ha un'incrinatura". Mia sorella è effet-t ivamente bella, è vir tuosa, ma è figlia di un pove ruomo. E poi hai diviso il pollo. A mio padre hai dato il capo: lui è il capo della casa. A mia madre

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hai dato il petto: essa è il cuore della casa. A noi fi-glie hai dato le ali: noi non resteremo qui, prendere-mo il volo. Ai miei fratelli hai dato le cosce: essi sono il sostegno, i pilastri della casa. E tu, per te hai preso le zampe perché tu sei l 'invitato: sono i tuoi piedi che ti hanno portato fin qui, sono loro che ti riporte-ranno a casa».

L'indomani il principe andò a trovare il re suo pa-dre e gli comunicò: «Voglio sposare la figlia del sor-vegliante del mercato».

Il re si indignò: «Come potresti tu, figlio di re, spo-sare la figlia di un sorvegliante? Sarebbe un'onta. Di-venteremmo la favola dei paesi vicini!». «Se non spo-so lei» disse il principe «non mi sposerò mai.»

Il re, che non aveva altri figli, finì per cedere: «Se l'ami, figlio mio, sposala!».

Il principe offrì alla fidanzata oro, argento, ricche stoffe di seta e ogni sorta di meraviglie. Ma le disse anche, con ar ia grave: «Ricordati bene questo: i l giorno in cui la tua sapienza supererà la mia, quel giorno ci separeremo». Essa rispose: «Farò sempre quello che vorrai».

Comunque sia, pr ima del giorno delle nozze fece chiamare il falegname e gli ordinò un baule delle di-mensioni di un uomo, col coperchio muni to di pic-coli fori. A questo baule essa rivestì l ' interno di raso; vi sistemò quindi il proprio corredo e lo portò con sé in casa dello sposo.

Le nozze diedero luogo a festeggiamenti che dura-rono sette giorni e sette notti. Il re imbandì un enor-me banchetto. Per molti anni il principe e la princi-pessa vissero felici a palazzo. E quando il re morì, suo figlio gli succedette.

Un giorno in cui il giovane re amministrava la giu-stizia, si presentarono a lui due donne con un bam-

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bino che era conteso tra le due. Una diceva: «È mio figlio!» e l'altra, a sua volta: «È mio figlio!».

Si misero a gridare, a prendersi per i capelli. Il re era perplesso. La regina, incuriosita, chiese informa-zioni a un servo. Costui le disse: «Ci sono due donne con un bambino che tutte e due rivendicano. Ciascu-na aveva un bambino. Uno di questi piccoli è morto, e il re non riesce a scoprire qual è la madre del bim-bo ancora vivo». La regina rifletté un istante. Dopo-diché rispose: «Che il re dica semplicemente alle due donne: "Farò dividere in due il bambino e ciascuna di voi ne avrà una metà". Allora udrà la vera madre gridare: "Signore, non ucciderlo, in nome di Dio!"».

Il servo corse a indicare al re l'astuzia che avrebbe fat to t r ionfare la verità. Il re si volse al minis t ro e disse: «Porta una lama, in modo che possiamo divi-dere in due il bambino». «No, signore!» gridò una delle donne. «Così morirà!»

Allora il re consegnò a lei il bambino e disse: «Sei tu sua madre , dal m o m e n t o che non hai voluto la sua morte».

Poi il re andò a trovare la regina e le disse: «Ti ri-cordi quello che avevamo convenuto il giorno del nostro matr imonio?. . . Ti avevo detto: "Il giorno in cui la tua sapienza si rivelerà super iore alla mia, quel giorno ci separeremo"».

Essa rispose: «Me ne ricordo. Ma accordami anco-ra una grazia: pranziamo insieme per un'ultima vol-ta, dopodiché partirò».

Egli glielo concesse e aggiunse: «Scegli quello che più ti piace nel palazzo e portalo via con te».

Essa preparò personalmente il pasto. Senza che il re se ne accorgesse, gli somminis t rò un narcotico. Egli mangiò. Bevve. E all'improvviso si addormentò. Essa lo sollevò e lo distese nel baule che chiuse poi con cura. Quindi chiamò i domestici e annunciò loro

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che sarebbe andata in vacanza presso la sua fami-glia. Raccomandò loro di trasportare con delicatez-za il baule. E lasciò il palazzo senza perdere di vista il baule che la seguiva.

Una volta che fu a casa dei suoi genitori, la giova-ne regina aprì il baule. Prese del ica tamente t ra le braccia il suo sposo e lo distese sul letto. Seduta al suo capezzale, attese pazientemente il suo risveglio.

Fu solo verso sera che il re aprì gli occhi. Chiese: «Dove sono? E chi mi ha portato qui?». Essa rispose: «Sono stata io». Ed egli disse ancora: «Perché?... Co-me sono arrivato qui?». Sorridendo essa rispose: «Ri-cordati. Tu mi hai detto: "Guardati intorno, scegli quello che più ti piace nel palazzo e portalo via con te". Ora, nel tuo palazzo nulla mi è più caro di te. Ti ho preso, e ti ho portato via con me in un baule».

Il re e la regina si compresero. Fecero r i torno a palazzo, dove vissero felici fino alla morte.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

15. 0 B U - I E D M I M , F I G L I O M I O !

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'era una volta, in un villaggio, un uomo che pos-sedeva una pernice, una pernice che ai suoi occhi era più cara di qualunque cosa al mondo. Più cara di sua moglie e di sua figlia. Lui solo le si avvicinava, lui solo le dava da bere e da mangiare. Aveva detto e ripetuto a quanti gli stavano intorno che se la perni-ce gli fosse scappata sarebbe successo un disastro. Quest 'uomo era terribile. Nessuno era tentato di di-sobbedirgli, t ranne la sua figlioletta, Reskia, che da molto tempo desiderava vedere la pernice.

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Una mattina, essa disse alla madre: «Te ne prego, lasciamela solo intravedere, solo intravedere!». E in-sistette tanto che la gabbia venne aperta e l'uccello volò via. «Non ci resta che andarcene,» disse la ma-dre, «perché se tuo padre ci trovasse qui ci uccide-rebbe!»

La madre r iempì un paniere di provviste, prese per mano la figlia e uscì. Camminarono fino a sera. La povera donna era prossima a mettere al mondo un figlio: si sentiva stanchissima, e altrettanto la sua figlioletta. La notte le sorprese nel cuore della fore-sta. Dove avrebbero po tu to t rovare un r ifugio?. . . Scorsero una palma da dattero così alta da toccare la terra e il cielo. Si arrampicarono lungo il tronco e si nascosero tra i suoi rami.

A notte fonda, gli animali selvatici si radunarono e si ammassarono ai piedi dell'albero: «Sento odore di umani!» annunciò il leone.

Propr io in quell ' is tante la ragazzina bisbigliò: «Mamma, mi scappa la pipì». «Trattienila!» supplicò la madre. «Non ce la faccio!» rispose la bimba. Allo-ra la madre le porse le orecchie una dopo l'altra, mu-gugnando: «Falla qui, tu che sei causa della mia ro-vina!».

Una goccia finì per cadere sui baffi del leone. Egli ruggì: «Un essere umano deve essersi nascosto sui ra-mi più alti della palma, ma chi salirà per scoprirlo?».

«Io, signore!» dichiarò la formica. Essa si arrampicò e morse la madre a una gamba.

Ma la formica ne morì, perché venne schiacciata. Gli altri animali attesero invano il suo ritorno. Allora il serpente disse: «Alla formica è successo qualcosa. Tocca a me salire».

Strisciò lungo l 'albero e morse la povera donna che cadde pesantemente.

Gli animali stavano per gettarsi su di lei e farla a

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pezzi quando il leone diede ordine di allontanarsi . Allora, volgendosi a lui, la coniglia gli rivolse questa r ichiesta: «Signore, io non pre tenderò nulla della madre. Se sei d'accordo, ti chiederò solo il bambino che essa porta in seno. Prendilo delicatamente, non fargli alcun male. E dallo a me».

Il leone aprì con delicatezza il ventre della madre, ne trasse dolcemente il figlio e lo consegnò alla coni-glia.

Gli animali si divisero la povera donna. Ben presto, di lei non rimasero che poche ossa e dei brandelli di vestito nei quali la coniglia avvolse il neonato. Sul far del giorno, gli animali si dispersero e la coniglia rima-se sola. Allora volse lo sguardo verso l'albero e disse alla bimba: «Scendi, scendi adesso, tu che non hai più madre, tu che sei la causa della sua morte!».

Reskia scese. La coniglia radunò le ossa sparpa-gliate, scelse l'osso più grosso e lo depose vicino a sé. Le altre le spezzò, servendosi di u n a pietra, per estrarne il midollo. Riempì di midollo l'osso che ave-va posato vicino a sé e lo porse alla bimba. Le affidò quindi il fratel lo. Glielo mise in braccio e disse: «Ascolta, ascoltami bene, Reskia, e segui tutte le mie prescrizioni. Tua madre è morta, ma ecco tuo fratel-lo Ali. Portalo con te: è tuo. Lungo il cammino che dovrai percorrere, di tappa in tappa, nutrilo con un po' di midollo ed esclama: "O gioia, mio fratello bal-betta, mio fratello sorride!" e lo sentirai balbettare e lo vedrai sorridere... "O gioia, mio fratello sta in pie-di sulle sue gambette!" e lo vedrai reggersi in piedi. "O gioia, mio fratello mette un piede davanti all'al-tro!" e lo vedrai fare un passo. "O gioia, mio fratello è un ometto: pot rebbe fare il pastorello!" e fa rà le corse intorno a te. "O gioia, mio fratello è un adole-scente!" e lo vedrai accanto a te come un giovane ar-busto. "O gioia, mio fratello è un uomo!" e lo scopri-

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rai dietro a te. Hai capito bene?... Va' e che Dio sia con te».

Reskia strinse forte a sé il fratello e si al lontanò piangendo. Piangendo avanzava attraverso gli albe-ri. Le apparve una radura; la fanciulla si fermò, mise un po' di midollo t ra le l abbra del piccino ed esclamò: «O gioia, mio fratello balbetta, mio fratello sorride!».

E lo vide sorridere e lo sentì balbettare. Allora ces-sò di piangere e si rimise in cammino. Attraversò la foresta, tutta la foresta. Quando ne uscì, appoggiò il piccino a un rialzo del terreno e disse: «O gioia, mio fratello sta in piedi!». E si meravigliò di vederlo stare dritto sulle sue gambette. Allora gli diede da mangia-re ancora un po' di midollo e proseguì il viaggio. Se-guiva la direzione dell 'ombra e si sentiva più corag-giosa perché si era lasciata alle spalle la foresta e non doveva più temere gli animali selvatici. Accettò di riposarsi solo al t ramonto, alle porte di un villag-gio. Mise un po' di midollo sulle labbra del b imbo ed esclamò: «O gioia, mio fratello met te un piede da-vanti all'altro!».

E lo vide muovere il suo p r imo passo. Allora lo sollevò in bracc io ed en t rò nel villaggio. E ra così stanca che si fermò davanti alla pr ima casa per chie-dere ospitalità. Le offrirono un buon pasto e le pre-para rono un letto. Al levar del sole, r ipartì sempre nella stessa direzione. Accanto a un ruscello, depose il fanciullo ed esclamò: «O gioia, mio fratello cam-mina!».

E lo vide camminare lungo il corso d 'acqua. Gli diede ancora un po' di midol lo e p rosegui rono il viaggio. L'ora della calura li sorprese sotto gli ulivi. Reskia mangiò dei fichi e un pezzo di focaccia. Poi mise un po' di midollo sulle labbra di Ali ed esclamò:

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«O gioia, mio fratello è un ometto, potrebbe fare il pastorello!».

E lo vide correre intorno agli alberi. Lo chiamò. Si distesero all 'ombra e si addormentarono. Un vento fresco li ridestò. Ripartirono e camminarono a lun-go, per monti e pianure. Fecero una breve sosta in un campo di fichi; in esso zampillava una sorgente; vi si avvicinarono per bere nel cavo delle mani. E Re-skia disse: «0 gioia, mio fratello è un adolescente!».

E improvvisamente lo vide davanti a sé come un giovane arbusto. Gli diede ancora un po' di midollo e ripartirono tenendosi per mano. Andarono, andaro-no, in direzione di un villaggio che scorgevano in lontananza. Vi giunsero e Reskia offrì al fratello ciò che le restava del midollo, esc lamando: «O gioia, mio fratello è un uomo, mio fratello è un uomo!».

Reskia e il fratello entrarono nel villaggio al tra-monto. Notarono una vecchina che veniva avanti a pochi passi da loro. La raggiunsero e le dissero: «Madre, dacci un riparo, in nome di Dio!».

Essa aprì loro la sua casa, diede loro da mangiare del cuscus, del latte e della frutta, e preparò loro due letti. Dormi rono p ro fondamen te . Il giovanot to si svegliò per p r imo. Andò dalla vecchia e le disse: «Mia sorella e io vorremmo vivere in questo paese. Dove potrei trovare una casetta e del lavoro?».

La vecchia gli rispose: «Io sono anziana, stanca, sola al mondo e mi annoio. Rimanete con me, tu e tua sorella. Essa baderà alla casa mentre tu ti occu-perai del bestiame e coltiverai i campi».

Essi si stabilirono quindi presso di lei e vissero fe-lici e contenti insieme alla vecchia. Ma quest 'ultima dopo un certo tempo morì e la loro felicità ebbe ter-mine, sebbene essa avesse lasciato loro tutto quello che possedeva: la sua casa, i suoi oliveti e i campi di fichi, la sua porzione di foresta e il suo bestiame.

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Una sera, Reskia affrontò decisamente il fratello e gli disse: «Ali, fratello mio, voglio che tu prenda mo-glie!». Egli rispose: «Sorella mia, non s iamo felici noi due? Perché far entrare un 'es t ranea che ci po-trebbe dividere?». Ma la sorella riprese: «C'è qualcu-no che può separarci?... Rassicurati: nulla al mondo ci potrà dividere. Già da domani mi metterò in cerca per trovarti una fidanzata tra le fanciulle più ammo-do del villaggio».

Il matr imonio fu fatto. E Zahua, la giovane sposa, detestò sua cognata e divenne gelosa di lei. Reskia aveva un ascendente sul fratello, che non avrebbe in-trapreso nulla senza chiederle consiglio e la circon-dava di mille attenzioni. Zahua non potè sopportar-lo. Un giorno di pr imavera, l 'odio accumula to nel suo cuore non potè più essere contenuto. Era una mattina. La giovane sposa e la fanciulla si trovavano nei campi; nell'attraversare un prato, ciascuna di lo-ro scoprì, celate nell'erba, delle uova. Quelle che ave-va trovato Reskia erano uova di quaglia. Ma Zahua aveva messo le mani su uova di serpente... Tornaro-no a casa.

L' indomani, Zahua fece mangia re alla cognata queste uova di serpente: esse si schiusero nelle visce-re della povera fanciulla, che nel volgere di pochi giorni vide il propr io ventre gonfiarsi e il colorito scurirsi mentre il viso si copriva di macchie. Mentre da parte sua Reskia non aveva alcun sospetto, una sera Zahua tirò a sé in un angolo il suo sposo e gli bi-sbigliò: «Hai osservato tua sorella? L'hai guarda ta bene?... Guarda il suo ventre che di giorno in giorno si fa sempre più grosso. Non avrà qualcosa da rim-proverarsi?...». «Non ti vergogni?» replicò il fratello. «Come osi parlarmi così di colei che ti ha data a me, di colei che mi ha allevato? Non devo a lei se ora so-no un uomo?» «Va bene» proseguì la giovane donna.

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«Se non vuoi credermi , d o m a n i di' a tua sorella: "Sento un p ru r i t o alla testa, gua rda un po' se c'è qualcosa". Appoggerai la testa sulle sue ginocchia, come se fossi un bambino, e ascolterai con attenzio-ne . E allora sentirai...»

Poco tempo dopo, Ali vide sua sorella seduta in cortile al sole. Le si avvicinò, si allungò ai suoi piedi e sprofondò la testa nell'incavo delle ginocchia. Es-sa, con la massima naturalezza, si mise ad accarez-zargli i capelli. Egli r imase così, immobile, f ino a quando udì la vita fremere in lei. Dopodiché si alzò.

Attese la not te per r i t rovare sua moglie e dirle: «Hai detto la verità!». «Fa' di lei quello che vuoi» ri-spose Zahua. «Non possiamo tenerla con noi: ci co-prirebbe di onta. Ci disonorerebbe agli occhi dei vi-cini e non oseremmo più rivolgerci ad anima viva in questo villaggio.»

Alì dormì male quella not te . Si r idestò all 'alba. Prese una corda e se ne andò a trovare la sorella: «Vieni con me» le disse. «Dobbiamo andare a taglia-re della legna, non ne abbiamo più».

Partirono e raggiunsero la foresta. Qui si trovava una buca profonda: il giovane vi condusse la sorella e ve la precipitò senza dir motto.

Essa chiamò e pianse, in un pr imo momento inva-no. Ma si diede il caso che passasse di lì un cavaliere di ri torno da un mercato nelle vicinanze. Egli la udì piangere. Scese da cavallo e si mise a cercare da do-ve provenissero quei lamenti. Si guardò intorno da ogni parte e finì per scoprire la buca, al cui interno scorse la pover ina che piangeva. Allora, si sfilò la lunga cintura di lana e gliela lanciò, gridandole: «At-taccatela bene ai fianchi!».

E si mise a tirare Reskia fuori della buca, a forza di braccia. Non appena l'ebbe vicino a sé, le chiese spiegazioni ed essa parlò. Disse: «Mio fratello all'al-

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ba mi ha detto: "Andiamo a tagliare della legna, non ne abbiamo più". Mi ha portata fin qui ed ecco che cosa mi ha fatto! Io l'ho allevato. Gli ho trovato una moglie. Sua moglie mi ha detestata dal pr imo istan-te, ma lui mi ha amata e rispettata fino a oggi. Tutto è cambiato per me da quel matt ino di primavera in cui mia cognata e io abb iamo scoperto delle uova nel prato. . . Il mio ventre si va gonfiando ogni giorno di più, e il mio colorito si guasta. Ed ecco che il mio amato fratello mi getta in questa buca nel cuore del-la foresta e mi ci abbandona!».

Il cavaliere la osservò, la osservò a lungo in silen-zio. Poi la fece salire davant i sul suo cavallo e la portò via con sé. Le aprì la sua casa e, appena si fu riposata per bene, le disse: «Tu e io, se vuoi, ci reche-remo dal Vecchio Saggio. Lui, ne sono sicuro, ci ri-velerà la verità».

Al Vecchio Saggio bastò un'occhiata alla fanciulla per annunciare: «Quello che questa povera piccola ha nel ventre sono dei serpenti. Qualcuno deve aver-le fatto mangiare delle uova di serpente». «E che co-sa posso fare per liberarla?» domandò il cavaliere. «Dalle da mangiare a forza una gran quanti tà di car-ne ai ferri che avrai salato esageratamente , e non darle da bere, perché tu t ta la carne è dest inata ai serpenti. Se sarà molto salata, avranno una gran se-te. Quando questa fanciulla avrà mangiato a sazietà, appendi la per i piedi a testa in giù, con la bocca aperta al di sopra di un bacile pieno d'acqua che do-vrai rimestare con un bastone, in modo che, udendo il rumore dell'acqua, i serpenti accorrano e cadano uno dietro l'altro.»

Il cavaliere riportò a casa Reskia e le diede tanta carne alla griglia quanta ne potè mangiare. Poi l'ap-pese al soffitto, proprio al di sopra di un immenso piatto di legno pieno d'acqua. E si mise a rimestare

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quest 'acqua facendo un gran rumore. Uno dopo l'al-tro, sette serpenti vi caddero dentro. Il cavaliere con-tinuò ad agitare l'acqua. Ma, non vedendo compari-re altri serpenti, si fermò. Slegò la fanciulla e la fece stendere su un letto. Mentre si accingeva a uccidere i serpenti e a gettarli via, essa lo supplicò: «Schiaccia loro solamente la testa, ma non gettarli via!». Egli fe-ce secondo i suoi desideri . Allora essa li prese, li salò, li espose al sole, e quando fu rono completa-mente secchi li rinchiuse in un otre.

Poco tempo dopo, la bellezza di Reskia tornò a sbocciare in tut to il suo fulgore. Il suo colorito ridi-venne chiaro e la sua bocca, color della melagrana, ri-prese a ridere. Ritrovò i suoi occhi lucenti e i suoi ca-pelli di seta, i suoi occhi che nessuno poteva ammirare senza restarne ammaliato e la massa dei suoi capelli che le arrivavano fino alla vita. Il cavalie-re l'amava. La sposò. Era ricco; possedeva numerosi campi coltivati a ulivi e a fichi, boschi, vigneti, diver-se case e un giardino, un giardino di montagna in cui crescevano fiori di ogni sorta e in cui cantavano, sugli alberi da frutta, uccelli di ogni specie. In questo giar-dino Reskia amava passeggiare per lunghe ore. Quan-to a lui, al suo sposo, la circondava di tenerezze, la colmava di doni per farle dimenticare le sue antiche tristezze. Era sempre teso a soddisfare ogni suo mini-mo desiderio, felice se la vedeva allegra, infelice se la vedeva cupa. Ma essa, tra tante ricchezze, e malgrado un tale amore, non dimenticava suo fratello, giacché accanto a lui aveva lasciato il suo cuore.

Reskia r imase incinta. Mise al mondo un maschiet-to e lo chiamò Bu-Iedmim, che vuol dire "biancospi-no". Ma la nostalgia che aveva del fratello invece di diminuire aumentava. E il tempo trascorse.

Il b imbo aveva ora sette anni. Una matt ina la ma-dre gli disse: «Ascolta, Bu-Iedmim, quando tuo pa-

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dre rientrerà a casa stasera, di ritorno dal mercato, non dimenticarti di metterti a piangere davanti a lui dicendo: "Tutti i bambini del mondo hanno degli zii e li vanno a trovare, t ranne me. Voglio che mi portia-te da mio zio Alì"».

Il padre, rientrando, trovò il figlio in lacrime. Ora, egli lo amava con una tenerezza infinita. Questo bambino era la sua vita. Gli domandò: «Bu-Iedmim, figlio mio, che hai? Non sarai mica malato?». «Voglio andare da mio zio.» «Piccino mio,» riprese il padre «tu non hai zii. Tua madre l'ho trovata nel bosco.»

Ma il bimbo proseguì: «Io ho il mio zio Alì, lascia-mi andare a trovarlo insieme alla mamma».

A sua volta, la madre prese la parola. Disse: «Sono otto anni che non so più nulla di mio fratello, lascia-ci partire e Dio te ne renderà merito».

Il padre la guardò e non disse una parola. Reskia si alzò all 'alba. Si vestì poveramente , si

gettò sulle spalle l'otre con i serpenti, prese il figlio con una mano e un cestino di provviste con l'altra e uscì senza far rumore. Era estate. La madre e il fi-glio part irono a piedi come due mendicanti. Cammi-n a r o n o per due giorni , senza ar res tars i se non di tanto in tanto sotto degli alberi o sulla riva di un ru-scello per mangiare, bere e riposarsi. Il villaggio del-lo zio era vicinissimo, quando la m a d r e disse al bambino: «Siamo propr io stanchi. Busseremo alla p r ima casa che incontreremo e chiederemo che ci pe rme t t ano di passarvi la notte . Tu, però, appena avremo mangiato e ci accingeremo a passare la not-te, non dimenticarti di dirmi: "Mamma, prima di ad-dormentarmi voglio una storia". Piangi e supplicami fino a che non te ne avrò raccontata una. Hai capito bene?».

Reskia spiò il fratello. Lo vide tornare dai campi al calare della sera e dirigersi verso casa. Essa lo seguì

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e gli disse: «Dacci asilo per questa notte, nel nome di Dio!». Egli li fece entrare tutti e due, lei e suo figlio.

Mentre tutti si preparavano per la notte, Bu-Ied-mim si mise a fare i capricci: «Ma sì, raccontagli una storia» consigliò il fratello. «Il piccolo si addormen-terà, mentre noi ci distrarremo.»

E Reskia cominciò la sua storia: «C'era una volta un u o m o che possedeva u n a pernice, una pernice che lui amava più di qualunque altra cosa al mondo; più di sua moglie e di sua figlia. Aveva detto e ripetu-to a quanti gli stavano intorno che se la pernice fosse scappata sarebbe successa una sciagura. La pernice scappò. E la madre e la figlioletta fuggirono per il terrore. Camminarono , c a m m i n a r o n o a lungo. La notte le sorprese nel cuore della foresta. La povera donna era prossima a dare alla luce un figlio: era as-sai stanca. Gli animali selvatici si radunarono e se la spartirono. Ma il leone risparmiò il bimbo che essa portava in grembo e lo diede alla coniglia. Anche la fanciulla si salvò. La coniglia le affidò il neonato do-po molte raccomandazioni : era un maschiet to . La sorella lo strinse a sé piangendo. Lo portò in braccio per giorni e giorni. Lo allevò, lo nutrì con il midollo che la coniglia aveva estratto dalle ossa della madre stessa, e ne fece un uomo. Una sera, all'ingresso di un villaggio sconosciuto, fratello e sorella incontra-rono una vecchia. Le dissero: "Madre, dacci un ripa-ro, in n o m e di Dio!". Essa li accolse, li a m ò e li adot tò . E ra sola al mondo: morendo lasciò tut t i i suoi beni ai due orfani. Il fratello e la sorella viveva-no uniti e felici. Ma la sorella volle per il fratello una felicità ancora più perfetta. Gli trovò una sposa, e la giovane moglie riuscì a dividere coloro che e rano più uniti delle dita di una mano. Detestò a tal punto la cognata che una ma t t ina di pr imavera le fece mangiare uova di serpente. Esse si schiusero nelle

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viscere della sventurata che non aveva alcun sospet-to. Allora, la giovane sposa disse al fratello: "Hai os-servato tua sorella? È incinta... Se vuoi convincerte-ne, appoggia la guancia sul suo ventre e sentirai il fremito della vita". Quelli che lui sentì fremere erano i serpenti, ma credette ben altro... E fu così che egli portò con sé la sorella nei boschi, la fece precipitare in fondo a una buca e la abbandonò senza dir motto. Essa pianse. Pianse e si mise a chiamare. Dapprima invano. Ma poi si trovò a passare di lì un cavaliere che tornava da un merca to vicino: era Dio che lo mandava. Liberò la fanciulla. La portò con sé nella sua dimora. La curò e la sposò».

A mano a mano che Reskia parlava, vedeva farsi sempre più pallida la cognata e sempre più pallido il fratello, mentre la terra si schiudeva sotto di loro per inghiottirl i . Tirò rap idamente fuor i dall 'otre i ser-penti disseccati e, mostrandol i al figlio, fece udire questa lamentazione:

O Bu-Iedmim, figlio mio, Cosa mi ha fatto tuo zio Alì! Mi ha condotta nei boschi E mi ha abbandonata!...

Alì e la moglie sprofondavano sempre più. Rima-nevano fuori solo le loro teste quando Reskia balzò verso il fratello. Lo afferrò per i capelli, lo tirò fuori, mentre lasciò che la cognata sparisse e la terra si ri-chiudesse su di lei.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

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16. S T O R I A D E L V E C C H I O L E O N E E D E L L O S T O R M O D I P E R N I C I

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

Ai tempi in cui gli animali parlavano, un leone già anziano si riscaldava al sole sul fianco di una colli-na, quando capitò di lì uno sciacallo che disse al re degli animali: «Padrone, vuoi ritrovare l'agilità della tua gioventù?». «Confesso che la cosa non mi dispia-cerebbe» rispose il leone. «Allora, abbi un att imo di pazienza. Sarò ben presto di ritorno.»

E lo sciacallo partì alla ricerca di una bella pelle di mucca, e non tardò a scoprirla. Immerse questa pel-le nell 'acqua e la tagliò in quattro parti uguali. Co-minciò quindi a fabbricare per il vecchio leone dei mocassini che aderissero strettamente alle sue zam-pe. Lo sciacallo imprigionò ogni zampa del leone in un pezzo di pelle, imbevuto per bene d'acqua, che aveva bada to a cucire s t re t tamente e ad allacciare con delle stringhe di cuoio. Poi gli disse: «Rimani al sole quanto più a lungo ti sarà possibile. E non ti di-menticare di cambiare ogni tanto la posizione delle zampe, in modo che i tuoi mocassini si secchino per bene. Quando saranno secchi, alzati. Correrai come non hai mai corso fino a oggi, e ti sentirai le ali ai piedi. Non saprai più come dimostrarmi la tua grati-tudine».

Il leone era ingenuo. Espose coscienziosamente le zampe al sole, badando bene di cambiare ogni tanto la loro posizione. Ora il sole era a picco. In tal modo la pelle non ci mise molto a ritirarsi diventando più dura del legno. Dapprima il leone provò un po' di fa-stidio, poi un dolore, tanto più vivo quan to più le stringhe di cuoio gli penetravano nelle carni. Cercò invano di liberarsi. In uno sforzo supremo tentò di

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sollevarsi e rotolò nel precipizio: se non morì fu un vero miracolo

Incapace di muoversi e più dolorante che se fosse stato bastonato di santa ragione, impotente e inerme come un agnello, il vecchio leone umiliato gemeva, maledicendo, dal fondo del precipizio, lo sciacallo che lo aveva tradito. Quand'ecco che uno stormo di pernici passò per caso sopra la sua testa, facendo frullare rumorosamente le belle ali.

«Che hai, nostro re, ti è capitata una sventura?» chiesero le pernici dall'alto del cielo. E il leone rac-contò loro la sua triste avventura. «Se ci prometti so-lennemente di non mangiarci» ripresero quelle «ti li-bereremo.» «Lo giuro» rispose il leone.

Allora le pernici si posarono con grazia intorno a lui per confortarlo. Poi trotterellarono fino alla fonte lì vicino per raccogliere nel becco l 'acqua necessaria ad ammorbidire i lacci di cuoio. Ma il loro becco ne conteneva così poca che dovet tero fare tant iss imi viaggi, cosa di cui esse non si lamentarono, tutt'al-tro, tanto le addolorava la sorte del loro sventurato capo.

Alla fine i lacci si ammorbidirono. Le pernici po-terono allora scioglierli senza troppa difficoltà e sfi-lare i mocassini che tor turavano il loro re. Ebbero anche la buona idea di bagnare le zampe del leone, il che alleviò il suo dolore e gli consent ì di alzarsi . Quando lo videro in piedi, ancora maestoso a dispet-to dell'età e del cattivo trat tamento che aveva appena subito, le pernici si sentirono largamente ricompen-sate della pena che si erano date.

«Che Dio vi benedica e vi dia il prestigio e la mae-stà del leone, voi che a ragione venite chiamate "le belle del paese"!» disse il leone con la sua voce profonda.

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Le pernici presero il volo. E da allora, il loro frullo imita il ruggito del leone.

Poco tempo dopo, arriva lo sciacallo, impaziente di impadronirsi della preda che, questa volta, era re-gale. Scorge il leone nella scarpata. Scende verso di lui e dice: «Come ti senti, o re degli animali? A giudi-care da quello che vedo, le tue gambe ti hanno porta-to davvero lontano. Devi p ropr io avere r i t rovato l'agilità della tua giovinezza!».

Il leone si guardò bene dal r ispondere , e fece il morto. Lo sciacallo gli si avvicinò fino a sfiorarlo. Al-lora il leone allungò la sua zampa possente e afferrò lo sciacallo per la coda. Ma il fu rbo animale si di-bat té così bene che riuscì a scappare, lasciando la coda nella zampa del leone. «Sarò facilmente in gra-do di r iconoscert i , poiché tengo la tua coda nella mia zampa!» gli disse con calma il leone.

Lo sciacallo corse come un fulmine a radunare un centinaio di suoi simili e annunciò loro gioiosamen-te: «Conosco un fico coperto di frutti matur i al pun-to giusto, fichi grossi come zucche. Chi vuole rim-pinzarsene mi segua!».

Gli sciacalli, allettati, corsero più veloci di lui e sa-lirono sull'albero di fichi. Mentre essi si arrampica-vano da un ramo all'altro, lui, con una corda, legava le loro code all 'albero. Quando ebbe fissato tut te e cento le code, si allontanò e si mise a gridare come un ossesso: «Si salvi chi può! Il proprietario dell'al-bero è qui!». Gli sciacalli cercarono di fuggire. Presi dal panico, t irarono con tutte le loro forze e finirono per scappare lasciando la loro coda attaccata all'al-bero.

Fu così che il leone si vide improvvisamente cir-condato da una moltitudine di sciacalli senza coda. Ci voleva una bella abilità per riconoscere, in questo caso, il suo nemico! Il leone, imbarazzato , andò a

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trovare il Vecchio Saggio e gli raccontò il tiro birbo-ne che gli era stato giocato dallo sciacallo.

«Non ti disperare» gli disse il Vecchio Saggio «per-ché abbiamo già in pugno il tuo nemico. Procurati un animale bello grasso, uccidilo e abbandonalo in un campo in cui gli sciacalli siano soliti passare. Na-sconditi e osserva: li vedrai accorrere uno dopo l'al-tro per mangiarselo. Uno solo di loro si avvicinerà con u n a certa inquie tudine , come se f iutasse u n a trappola. Mi raccomando, non lo mancare, perché è lui che ha voluto la tua morte!»

Il leone ringraziò il Vecchio Saggio e si mise im-mediatamente in cerca della giovenca più grassa. La uccise. La fece a pezzi e l 'abbandonò ai piedi di un ulivo. Nascosto dietro a un grosso albero, si mise ad a t tendere . Uno, due, t re sciacalli si avvicinarono all'animale con tutta naturalezza. All'improvviso, ne notò uno che si faceva avanti con grande circospe-zione, guardava a destra e a sinistra, come se temes-se di essere preso. Il leone fece un balzo e con la sua zampa possente afferrò l'avversario.

«Finalmente ti tengo!» gli disse. E ne fece un sol boccone. Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-

to a dei Signori!

17. S T O R I A D I M O S H E D E L L E S E T T E F A N C I U L L E

E Dio gli disse: «Poiché non sei stanco di perseguitare gli uomini sarai

a tua volta perseguitato dalla tua coda»

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

Si narra che nei tempi antichi vi erano sette fan-

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ciulle graziose come pernici: tra loro vi era poca dif-ferenza di età. La maggiore aveva quindici anni. La più giovane, Aisha, ne aveva solo sette. Aisha amava starsene vicino al fuoco, così vicino che aveva sem-pre i capelli impolverati di cenere e le sue sorelle la soprannominavano: Aisha-Cenerella.

Queste piccine, ahimè, non avevano più la mam-ma. Il padre, in un pr imo momento, cercò di pren-dersi cura di loro, ma era maldestro e il compito era pesante. Si risposò. Come tutte le matrigne, anche questa matrigna non tardò a detestare le orfanelle e a esigere che il padre se ne sbarazzasse. E sì che le più grandicelle aiutavano già nei lavori dei campi, conducevano le greggi al pascolo, raccoglievano il f ieno, coglievano le verdure e i f ru t t i negli orti di montagna, r iempivano alla fonte lontana gli otri di pelle di capra e portavano anche dalla foresta carichi di legna secca. Le più piccole zampettavano per casa e cercavano di rendersi utili. Le poverine speravano così di d i sa rmare la malevolenza della mat r igna , giacché avevano ben presente il proverbio: È sempre troppo grosso il pezzo di focaccia che sta in mano all'orfano.

Solo Aisha r imaneva accanto al focolare e si ac-contentava di spingere nel fuoco i noccioli di olive sparpagliati intorno a lei. Se ne stava là come un og-getto grazioso, con le manine intrecciate e i piedini ripiegati sotto di sé. Guardava le f iamme senza stan-carsi. E ascoltava il vento. La cenere si posava come una polvere argentea sul suo viso e sul suo vestito. Nessuno si stupiva di vederla silenziosa e dolce, im-mobile per ore. La matrigna e il padre, ritenendola troppo piccola per capire, non se ne preoccupavano e parlavano davanti a lei in tutta libertà. Aisha non si allontanava se non malvolentieri dal fuoco, come se temesse di perdersi qualche grave rivelazione. Giac-

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ché Aisha-Cenerella era perspicace, e non perdeva una parola degli aspri rimproveri che la matrigna ri-versava un giorno dopo l'altro sul capo del suo pove-ro marito. «La casa è piena delle tue figlie» gli diceva con voce inaspr i ta . «Circondano così da vicino il piatto di legno che riesco a malapena a far passare la mia mano e a prendere un po' di cibo. Dovrai sce-gliere tra le tue figlie e me: o via loro o via io!»

«Moglie mia!» supplicava il padre. «Moglie mia, Dio voglia indurti alla ragione! Cosa farei delle mie figlie più piccole? La loro madre morendo me le ha affidate. Non hai un cuore? E non hai accettato que-sto carico quando ci siamo sposati?»

Raddoppiò le proprie attenzioni. Viziò follemente la propria sposa, ma era come uno che danzasse da-vanti a un cieco. Una mattina, la matrigna affrontò il padre con decisione: «Marito, questa volta la mia pa-zienza è esaurita. Questo giorno che splende è l'ulti-mo che passerò sotto questo tetto, se ci res tano le tue figlie».

Il padre chinò il capo. Gli sembrava che la terra gli si aprisse sotto i piedi, perché amava questa don-na. Sicura del suo potere, la matrigna riprese: «Do-mani, di' alle tue figlie di alzarsi presto e di accom-pagnarti nella foresta in cerca di legna. E non avere paura di addentrar t i con loro nel folto. Quando le vedrai stanche, abbandonale al loro destino e torna a casa. Sono ormai grandicelle. Capiterà bene un passante che le prenda con sé!».

I l p o v e r u o m o lottò, pregò, supplicò ma finì per cedere. Accoccolata accanto al fuoco, Aisha assistet-te muta alla propria disfatta. Come rovinare, lei, così piccola, i piani malvagi della matrigna?. . . Ci pensò su tutto il giorno e parte della notte. Si alzò all'alba e si preparò come le sue sorelle. Ma mentre la matri-gna distribuiva le provviste - focaccia e fichi - Aisha

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sgattaiolò vicino al focolare, r iempì in fret ta il suo corsetto di noccioli di oliva e seguì docilmente il pa-dre e le sorelle.

Nel camminare Aisha restava apposi tamente un po' indietro e nessuno se ne stupiva: era così piccola! In questo modo essa poteva infilare la mano nel cor-setto e tirar fuori dei noccioli che poi disseminava lungo il cammino . Il padre e le figlie raggiunsero verso mezzogiorno il cuore della foresta. Si fermaro-no a mangiare accanto a una sorgente. E le fanciulle si riposarono un po'. Aisha si teneva in disparte, ap-poggiata contro un albero: non abbandonava il pa-dre con gli occhi. Arrivò il m o m e n t o di met ters i all'opera. Le piccine, incoraggiandosi a vicenda, rac-colsero come potevano della legna secca. Si trovava-no nel punto più inestricabile della foresta quando, all'improvviso, non videro più il loro padre. Lo cer-carono. Lo chiamarono sempre più forte e si misero a piangere. Allora Aisha radunò le sorelle e disse lo-ro: «Non piangete. Nostro padre ci ha abbandonate a causa della nostra matrigna. Ma io ho segnato la strada con noccioli di olive». Aisha aprì il cammino. E al calare della notte le sette fanciulle bussavano al-la porta del padre, con sommo dispiacere della ma-trigna che si disse: "Che astuzia dovrò ancora archi-tettare per essere finalmente sola in questa casa?".

Trascorsero alcune sett imane in una pace ingan-nevole prima che sbocciasse in lei l'idea malefica che inseguiva, perché la mat r igna dal cuore nero non aveva deposto le armi. Una matt ina si alzò tutta alle-gra per annunciare gioiosamente alle orfanelle che i loro zii e zie ma te rne le invitavano a una festa di nozze, molto lontano, al di là delle montagne. Sareb-be stata necessaria una mula per portare i regali, e conveniva cominc ia re a p repara rs i senza perdere tempo.

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Lasciando le fanciulle al colmo della sorpresa , corse a far sapere la notizia al villaggio e a farsi pre-stare, di casa in casa, i ricchi abiti e i gioielli di cui intendeva ornare le orfanelle. Tinse loro con l 'henné i capelli, le mani e i piedi. Cominciò a macinare una cesta di grano e a cuocere - come voleva la tradizio-ne - il cestino pieno di frittelle che le fanciulle avreb-bero por ta to in offer ta alla sposina. La mat r igna consegnò loro inoltre dei panieri di uova sode, noci, uvetta, arachidi e datteri. Se non l'avessero frenata avrebbe dato loro tutto il miele e il burro della casa. Dopodiché fece il bagno alle sette fanciulle. Le vestì, le agghindò, le profumò. Le poverine non riconosce-vano più la loro matrigna e ingenuamente si rimpro-veravano in cuor loro di averla giudicata così male. Solo Aisha prevedeva giusto.

Il padre fece partire la mula e la carovana si allon-tanò. Aisha era la sola a sapere che cosa significasse-ro questo viaggio e l'allegria della matrigna. Stando-sene accanto al fuoco aveva infat t i colto oscuri conciliaboli, aveva udito il padre parlare di un miste-rioso crepaccio, e la matrigna pretendere che egli vi precipitasse, una dopo l'altra, tutte e sette le fanciul-le, dopo averle spogliate dei vestiti e dei gioielli che si erano fatte prestare.

Le orfanelle, in campagna, erano graziose come fiori al sole. Il padre, invece, appoggiandosi a un ba-stone, avanzava quasi con ri luttanza, seguito dalla mula appesantita dai regali. Preoccupata di conser-vare il segreto e di prevenire questo nuovo pericolo, Aisha si teneva il cuore con a m b o le mani , senza osare alzare lo sguardo sul pove ruomo che le con-duceva alla morte.

Le fanciulle camminarono di buona lena. Ma ver-so mezzogiorno dissero di essere s tanche. Faceva caldo, il padre stese loro il burnus sull'erba, all'om-

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bra di un fico. Esse vi si sedettero in cerchio come donnine, preoccupate di non sgualcire i loro begli abiti di festa. Mangiarono, bevvero e appena si furo-no rifocillate ripresero il cammino, tanta era la fret-ta che avevano di giungere al villaggio della madre, dietro la montagna , dove r isuonavano il canto dei flauti e il battito dei tamburi. Quanti giardini di fichi e quanti campi di ulivi attraversarono! Quante greg-gi incontrarono!

«Arriveremo pr ima del calar del sole?» domanda-vano di tanto in tanto al padre. E la sua risposta si udiva a stento dietro la folta barba. La mula adesso posava il piede con particolare prudenza perché ave-vano da poco fatto la loro comparsa delle rocce e il luogo era impervio. Il padre si arrestò davanti a un crepaccio e disse alle figlie: «Vedete questa buca?... È di qui che dovremo scendere per giungere al vil-laggio di vostra madre, se non vogliamo perderci il cuscus e il concer to di ques ta sera. Ma per non strappare le vostre belle vesti e non rischiare di per-dere i vostri gioielli, toglieteveli e tenete solo la ca-micia. Questa corda mi servirà a calarvi giù; è solida e in grado di reggere il peso di un bue. Quando sare-te arrivate, vi basterà aprire le braccia per ricevere i vestiti e i gioielli che vi lancerò, oltre alle ceste di ghiottonerie e al cestino delle frittelle. E a me non resterà che raggiungervi».

Tutte, t ranne Aisha, si svestirono senza sospettare nulla e abbandonarono abiti e gioielli. Una dopo l'al-tra, il padre le calò giù. Rimaneva Aisha, minu ta , graziosa e dolce. Era la sua preferita, gli costava sa-crificare anche lei. Le si avvicinò, ma essa gli disse, abbassando gli occhi: «Padre, allontanati un istante, ti prego, perché non oso svestirmi davanti a te».

Egli sorrise mestamente e fece come essa voleva. Allora Aisha si impadronì rapidamente del cestino,

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delle ceste, degli abiti e dei gioielli ammassat i ai suoi piedi e li gettò alla r infusa in fondo al crepaccio. Poi, facendo passare la corda intorno a un picchetto, si lasciò scivolare giù. Appena ebbe ritrovato le sorelle, tirò lesta la corda in modo che il padre non potesse raggiungerle.

Il padre era già di r i torno. Adesso era sul bordo della buca. Ma dove si trovavano Aisha e tutti i rega-li? Dov'erano la corda, gli abiti sontuosi e i gioielli? Tutto, perfino la mula, era scomparso! Aisha gli ave-va giocato un t iro?. . . Cercò dietro alle rocce. Chiamò, chiamò disperatamente, ma solo il vento gli rispose, un vento che urlava a morte. Allora il padre fece rotolare un pietrone enorme f ino al l 'apertura del crepaccio e prese la via del ritorno, vergognoso e int imorito. Aveva appena consegnato alla mor te le sue sette figliole seppellendole vive. Ma faceva asse-gnamen to sui p iani imperscrutabi l i di Dio. E più avanzava verso la sua dimora, più il poveruomo tre-mava immaginandosi come l'avrebbe presa la matri-gna. Vedendolo tornare senza la mula, a mani vuote e il cuore pieno di tristezza, avrebbe avuto uno scop-pio d'ira e lo avrebbe subissato di sarcasmi e di in-giurie. Avrebbe avuto la forza di varcare la soglia di casa sua?

Nella caverna in cui si t rovavano le orfanelle, l 'oscurità era completa. Mentre le sue sorelle piange-vano e si disperavano, Aisha tastava le pareti nella speranza di scoprire una via d 'usci ta: la grot ta le parve spaziosa. Ma la piccina non scoprì nient'altro.

Per qualche giorno le fanciulle si nutr i rono delle ghiottonerie e delle frittelle. Ma ebbero sete. Allora Aisha scavò nel suolo col dito. Per for tuna era una sabbia molto umida. Scavò, scavò più forte con tutte e due le mani : con sua grande gioia si fo rmò una polla d 'acqua, e le fanciulle poterono r iempire dei

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gusci d 'uovo e placare la loro sete. Ma a un certo punto, nonostante le economie di Aisha, le provviste vennero a mancare. Le sorelle maggiori attorniaro-no la piccola e le dissero: «Arrangiati per trovarci da mangiare o mangeremo te, che sei la più debole».

Aisha si rivolse a Dio e si rimise a grattare il suolo. Grattò così bene che le sue dita incontrarono una fa-va. La sbucciò, ne fece sei parti e le distribuì senza tenere nulla per sé. L'indomani ne trovò altre due, e le divise ancora t ra le sorelle. La fanciul la aveva messo la m a n o su una miniera di fave. E il t empo passò.

Un matt ino che Aisha-Cenerella estraeva l 'ultima fava, una forte luce irruppe tra le sue dita attraverso un minuscolo forellino. La piccina vi incollò ansio-samente l 'occhio e vide un fuoco che bruc iava al centro di una grande sala. Accanto a questo fuoco, su una pelle di pantera era coricato un enorme gatto dal pelo fulvo. Si teneva tra le zampe la sua bella co-da a pennacchio e diceva, con aria irri tata: «Chi è che mi spia? Sento una presenza nella mia dimora». Aisha tirò prudentemente indietro l'occhio e si allon-tanò, lasciando il gatto a prendersela con la coda che non rispondeva.

Il bell 'animale aveva l 'abitudine di alzarsi all'alba e partire per la caccia, e non rientrava prima di sera. Allora, riattizzava il fuoco, si stendeva sulla pelle di pantera e se la prendeva os t inatamente con la sua coda. Le diceva, caricandola di rimproveri e di graf-fi: «O Mosh, dovunque tu sia e qualunque cosa tu faccia non sei mai solo. C'è la tua coda che ti accom-pagna e ti spia. La tua coda è presente come testimo-ne indesiderato!».

Mosh, il gatto, non tornava mai durante il giorno. Così Aisha ne approfittò per arrischiarsi una matti-na nel suo rifugio. Si meravigliò che fosse illuminato

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dalla luce del giorno e pieno di ricchezze: c 'erano fior di farina, fichi, datteri, noci e uva passa; c'era olio, burro, miele e un mucchio di altre cose ancora. Aisha, che era to rmen ta t a dalla fame, r iempì una ciotola di far ina d 'orzo abbrustoli ta, innaff iandola generosamente d'olio e insaporendola con zucchero di canna. Si impadronì anche di un cestino di fichi e corse dalle sue sorelle con questi cibi insperati . E quel giorno nella grotta non vi fu che buona armo-nia e gioia.

Al calare della notte, Aisha si metteva di vedetta e vedeva passare Mosh, maestoso e fulvo. Soffiava sul-le braci, faceva crepitare il suo fuoco, disseminava noccioli di olive intorno al focolare e si stendeva sen-za preoccupazioni sulla pelle di pantera. Ogni volta, Aisha si illudeva che la nottata sarebbe trascorsa pa-cificamente e che il gatto non avrebbe tormentato la sua povera coda. Ma bruscamente l 'umore di Mosh si faceva tempestoso e i suoi occhi mandavano scin-tille. Allora diceva alla coda con tono minaccioso: «Chi è entrato a casa mia e dov'è la fava che avevo preparato per la mia cena? Parla o piscerò sul fuoco per spegnerlo». E siccome essa non rispondeva, la percuoteva con le zampe.

Finché Aisha non ebbe necessi tà di servirsi del fuoco, non si inquietò per le minacce del gatto. Ma dal giorno in cui le sue sorelle cominciarono a pre-tendere dei pasti veri, ebbe paura di vedere Mosh pi-sciare sulle braci. Ogni mat t ina aspettava ansiosa-men te che egli lasciasse i l suo r i fugio per introdurvisi. In un batter d'occhio preparava una fo-caccia di f rumento lucente come un luigi d'oro, op-pure delle frittate che spalmava di miele. Si azzardò perfino a preparare il cuscus (aveva infatti scoperto una giara piena di semola essiccata al sole). Passaro-

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no così alcune settimane, senza che Mosh fosse riu-scito a far parlare la coda o a sorprendere Aisha.

Un pomeriggio di primavera, seduta in mezzo alle sorelle nella caverna oscura, la fanciulla rifletteva malinconicamente: "Se nostro padre non avesse fat-to rotolare questo enorme masso al di sopra delle nost re teste, nella grot ta sarebbe chiaro come da Mosh; p o t r e m m o intravedere un po' di cielo e sa-remmo più felici. Tra poco sarà estate; ed è così tan-to tempo che le mie sorelle non hanno visto la luce del giorno. . . E invece lui entra ed esce quando gli pare! .

Aisha si ripromise di seguire ogni movimento del gatto e di esplorare il suo rifugio palmo a palmo. Quella sera Mosh rientrò più tardi del solito. Era troppo scuro perché Aisha potesse scoprire qualcosa. Ma non si perse d 'animo e disse fra sé: "Quello che mi è sfuggito stasera non mi sfuggirà al levar del sole!".

Si mise di vedetta assai di buon'ora e vide, attra-verso i l buco grande come u n a fava, Mosh che si portava in un angolo della sala e scompariva dietro una grossa pietra senza più ritornare. Colma di spe-ranza, Aisha si avvicinò alla pietra, la toccò, le girò intorno lentamente e capì che si muoveva. Ne scoprì il meccanismo segreto e prese la via dei campi.

Chi può dire la sua meraviglia davanti al ruscellet-to che scorreva rapido e allegro tra le canne? Vi si bagnò il viso e sollevò lo sguardo verso gli alberi maestosi che ridevano nel cielo chiaro con tut te le loro foglie e i loro frutti. Aisha si trovava in un frut-teto incantato in cui gli uccelli si r impinzavano di al-bicocche, di pesche, di prugne, di pere e di nespole. Si arrampicò di ramo in ramo e mangiò di tutti que-sti frutti fino ad avere l 'impressione che albicocche, pesche, pere, p rugne e nespole le uscissero dalle orecchie e dalle narici. Allora pensò alle sorelle. Ri-

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vol tando le cocche del vestito lo r iempì di f ru t t i . Nell'euforia della raccolta se ne mise fin nel corsetto. Carica come un somaro, Aisha riuscì a stento a rag-giungere il rifugio del gatto. In un baleno fece cuoce-re la solita focaccia di f rumento rotonda e dorata co-me u n a luna e si a f f re t tò ad anda re dalle sorelle, t enendo un cesto di f ru t t a sotto i l braccio. Anche quel giorno la grotta risuonò delle grida di gioia del-le sette fanciulle. E per tutta l'estate Aisha potè così nutrire le sorelle.

«La mia fava o spengo il fuoco!» minacciava Mosh tutte le sere, senza portare a compimento la minac-cia. Ma da molto tempo Aisha non se ne spaventava più. Aveva cessato di spiarlo dal buco grande come una fava da quando aveva imparato le sue abitudini e i suoi segreti. Ma lui non rinunciava all'idea di sco-pr i re la persona audace che si in t roduceva a casa sua per mangiare le sue provviste e bruciare la sua legna. Più che mai esigeva dalla coda che questa gli desse delle informazioni.

Quella sera d 'autunno segnata dal destino, Mosh rientrò più cupo, più nervoso del solito. Aleggiava per l'aria un odore di neve precoce e Mosh temeva i primi freddi. Fece un gran fuoco, vi si accostò il più possibi-le e si distese soddisfatto sulla pelle di pantera. Que-sta volta bisognava a ogni costo che la coda parlasse e informasse il suo padrone. La prese risolutamente tra le grinfie e le disse, fulminandola con gli occhi: «Que-sta volta mi dirai chi osa entrare qui in mia assenza! Mi dirai chi mi ha derubato della grossa fava che ave-vo tenuto da parte per cena! Parla o piscio sulle braci e ti condanno a morire di freddo».

Siccome essa taceva, si mise a riempirla di colpi, e nel far ciò si avvicinò inavvertitamente e pericolosa-mente al fuoco. Nel suo furore la percosse e la graf-fiò così forte che il pelo veniva s t rappato a ciuffi e

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svolazzava per la sala. La fece roteare tanto che essa sf iorò un t izzone ardente . In un l ampo i l fuoco si propagò a tutta la pelliccia e t rasformò Mosh in una torcia che saltava, si rotolava, si torceva nelle fiam-me e r imbalzava. Nessuno udì le sue lugubri urla. Morì tra disperati miagolii.

En t rando nel r ifugio di Mosh, l ' indomani, Aisha fu colpita, fin sulla soglia, da uno strano odore. Col-ta dall 'inquietudine, tornò sui suoi passi. Spiò inva-no per qualche giorno il r i to rno del gat to. E solo quando vide le sorelle affamate che la assalivano co-me lupe e minacciavano di divorarla trovò il corag-gio di recarsi dal suo temibile vicino. Fece con circo-spezione il giro del r ifugio: il fuoco era spento; di Mosh non restava altro che una scia di grasso e delle ossa calcinate.

Allora Aisha-Cenerella chiamò le sue sorelle. In un att imo i resti del gatto furono seppelliti e la dimora spazzata . Le orfanel le presero possesso delle ric-chezze che Mosh aveva ammassato nel corso di lun-ghi anni. Finalmente le poverine ebbero una casa da cui nessuno avrebbe po tu to scacciarle. Fecero un'ispezione di tutti i loro beni e resero grazie a Dio nel loro cuore: quanti tappeti, coperte e stoffe son-tuose! E quante provviste! Aisha accese il fuoco e le orfanelle mangiarono e bevvero, bevvero e mangia-rono con una gioia rinnovata.

E Aisha pensava, f acendo vagare lo sguardo tu t t ' in torno: "Che felicità sarà per le mie sorelle quando avrò rivelato loro l 'esistenza del ruscello e del frutteto dagli innumerevoli uccelli canterini!".

Sotto i loro occhi stupefatt i smosse la pietra. Un fiotto di sole invase il rifugio e le sette fanciulle scap-parono fuori e si misero a correre come gazzelle per tutto il frutteto. Poi partirono, dritte davanti a loro, f iutando il vento e dandosi alla pazza gioia.

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Proseguirono nel loro cammino, meravigliandosi di non incontrare anima viva. Apparvero loro le por-te di una città, delle porte enormi. Qual era questa città morta che si stendeva sotto i loro occhi? Men-tre avanzavano impietri te, scorsero sulla soglia di una miserabile catapecchia un vecchio paralitico. La sua bocca secca, circondata da una barba irsuta si schiuse per dire: «Chi siete, belle fanciulle dalle gote f resche e dagli occhi t rasparent i , per avventurarvi nella città devastata da Mosh-il-Crudele? Non sapete che tutti gli abitanti sono fuggiti davanti a lui che di-struggeva greggi e bambini?».

«Mosh è morto!» annunciarono le sette fanciulle con voce decisa. «Mosh è bruciato vivo nel suo rifu-gio!» «Dio sia lodato!» esclamò il vecchio. «Ha avuto la morte che da sempre lo attendeva!»

E una gioia indicibile gli illuminò lo sguardo. Ri-fletté un po' pr ima di proseguire: «Ma, dal momento che Dio vi ha condotte qui, dal momento che ha con-cesso alle vostre tenere bocche di portare una noti-zia così importante, sedetevi in modo che io vi rac-conti una storia».

E le sette fanciulle fo rmarono una ghirlanda in-torno al vecchio che cominciò così: «Figlie mie, Mo-sh era il signore e padrone onnipossente di questa città. Era un principe di una bellezza meravigliosa ma era aspro come una l ama oltre che sacrilego, perché volle sostituirsi allo stesso Iddio. Per avere un esercito innumerevole, che sconfiggesse i regni vicini e li asservisse, pretese dalle donne che mettes-sero al mondo figli senza posa. Ora, è solo Dio che concede i figli, li concede come intende lui e stabili-sce il loro destino. Ma il nostro principe maledetto non aveva a cuore altro che la rovina del paese: se-minò il male ventiquattr 'ore su ventiquattro e fece scorrere le lacrime. Dio lo avvertì una prima volta di

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badare a non offenderlo più. Lo avvertì anche una seconda volta, nella sua pazienza e mansuetudine . Ma Mosh l'orgoglioso, Mosh l'empio, si fece beffe di quei messaggi. Allora sopraggiunse un giorno un ar-cangelo che con un colpo d'ala t rasformò il bel prin-cipe crudele in Mosh, il gatto condannato a essere persegui ta to dalla sua coda, men t re nello stesso istante la terra si aprì per inghiottire il suo palazzo e tutti i suoi splendori! Ma il principe, divenuto Mosh, fu altrettanto sanguinario quanto era stato implaca-bile da uomo. Costrinse i suoi suddit i a fuggire la città e addirittura tutta la regione. Sia lode mille vol-te a Dio che alla fine ce ne ha liberati, figlie mie!».

Le sette fanciulle fecero ritorno alla loro nuova di-mora prima del calare della notte. Ma dov'era la caver-na di Mosh?... Al suo posto era sorto uno splendido palazzo, quello stesso che la terra aveva inghiottito. Le orfanelle vi andarono ad abitare e fecero sapere a tutto il paese che Mosh-il-Maledetto era morto, morto tra le fiamme. E tutti coloro che erano fuggiti per il terrore e avevano sofferto l'esilio fecero ritorno alle lo-ro dimore e ai loro beni. E la città e tut to il paese co-nobbero la pace e la prosperità di un tempo.

Le fanciulle, a eccezione di Aisha, sposarono prin-cipi venuti dai regni vicini. Aisha regnò da sola sull'impero di Mosh con giustizia e amore. Ma la se-ra non poteva impedire al suo cuore di riempirsi di malinconia. D'inverno, amava sempre tenersi accan-to al focolare gettando nel fuoco noccioli di olive, a manciate, come quando era piccola e la cenere im-polverava i suoi capelli. Che ne era stato di suo pa-dre?... Era morto? Era riuscito a sfuggire a quel ge-nio malvagio che era la moglie? Era la venuta del padre quello che Aisha attendeva, contro ogni saggio consiglio, per sposarsi anche lei? Perché il suo cuore le diceva che era in cammino diretto da lei.

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Una sera d'estate, un poveruomo imbiancato dal-la polvere e vestito come un mendicante si presentò alle porte del palazzo. Teneva in mano il bastone dei pellegrini. Aisha gli corse incontro: «Figlia mia,» le disse lui con voce umile «non osavo sperare che mi fosse da ta la gioia di r ivedere te e le tue sorelle! Scacciato dalla mia stessa dimora e triste da morire, non mi rimaneva che l'esilio e questo bastone da pel-legrino. Dove indirizzare i miei passi e in quale ac-qua lavare la mia onta? Perché vi credevo morte, fi-glie mie! Poteva esistere qualcuno più miserabile di me?... Assalito da ogni parte dalle mosche del rimor-so, andavo verso il deserto, con gli occhi brucia t i dalle vie calcinate e dalle lacr ime vane. Fu al lora che, apparendo t ra le dune, un Vecchio Saggio mi disse: "Uomo! le tue figlie sono ancora in vita. Dirigi i tuoi passi verso contrade più verdeggianti!"».

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

18. S T O R I A D E L L A P U L C E E D E L P I D O C C H I O

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

Nei tempi antichi, quando gli animali avevano la parola, il pidocchio abitava in montagna. La pulce, invece, aveva costruito la sua casa più in basso, in pianura. Ma un giorno si alzò un forte vento che si portò via la casa del pidocchio. Questi si recò subito dalla pulce con dieci soldi e le disse: «Ecco tutte le mie sostanze. Mettiamoci a vivere insieme». Essa ac-consentì. Allora i due sposi decisero, con questi dieci soldi, di fare il pranzo di nozze. Ci pensarono su un po' e si dissero: «E adesso che cosa compreremo? Della carne? Per dieci soldi non ce ne venderanno.

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Una testa? Non avremmo che delle ossa. Ci resta so-lo la possibilità di acquistare della trippa. Ne avremo parecchia e mangeremo a sazietà».

Il pidocchio andò al mercato. La pulce si mise a macinare il f rumento. Quando il pidocchio fu di ri-torno, trovò la sposa che stava mettendo la pentola sul fuoco. Lavarono insieme la trippa e la versarono nella pentola. Rifornirono di ceppi il focolare e la pulce disse: «Non ho più acqua. Corro alla fontana. Tu va' nella foresta a cercare della legna. Chi tornerà per primo controllerà se c'è abbastanza sale».

La pulce prese un otre di pelle di capra, e il pidoc-chio una fune. Uscirono insieme tirandosi dietro la porta. La pulce se ne andò davvero fino alla fontana. Il pidocchio, invece, se ne andò poco lontano, in quel punto del villaggio dove si gettano i rifiuti per raccogliervi qualche rametto: aveva fretta di arrivare per primo e controllare lui se stava bene di sale.

Apre la porta, entra, lancia un'occhiata a destra e a manca: è proprio il primo! Allora, prende il mesto-lo, si avvicina alla pentola; sale su una pietra del fo-colare, solleva il coperchio, si sporge e i vapori lo fanno cadere dentro!

Dopo poco arr iva la pulce. Si gua rda in torno: niente pidocchio! Tutta contenta, dice fra sé: "Non è ancora tornato. Sent iamo se sta bene di sale!". As-saggia quindi il brodo e lo trova salato al punto giu-sto. Quando immerge il mestolo per la seconda vol-ta, vede galleggiarvi dent ro il suo sposo! Lascia ricadere il mestolo, prende la pentola per i due ma-nici e va a rovesciarla su un mucchio di letame. Do-podiché si va a sedere poco discosto, tutta raggomi-tolata su se stessa. Il mucchio di letame crolla!

Passa il capraio, preceduto dal suo gregge. Vede la pulce: «Che hai, m a d a m a pulce?» le chiede. «Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il mucchio di letame è crol-

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lato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

Il capraio getta lontano il suo vincastro. Le sue ca-pre si disperdono e si sparpagliano per i sentieri.

Passa il portatore d'acqua che tornava dalla fonta-na tra i suoi due asini carichi. Domanda: «Che hai, madama pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

Il portatore lascia cadere i suoi otri pieni, si carica sulle spalle i basti e abbandona gli asini.

Una vicina, che si accingeva a cuocere delle focac-ce, esce di casa, con una focaccia cruda in ogni ma-no. A sua volta chiede: «Che hai, madama pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è successo! Il porta-tore coi due basti, il capraio senza vincastro, il muc-chio di letame crollato. Il signore degli uomini è di-sceso agli inferi . È cadu to nella pentola ed è scomparso!»

La vicina si spiaccica una focaccia su ogni guancia. La casa della vicina si sposta e chiede: «Che hai,

madama pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

La casa crolla. Arriva la sorgente: «Che hai , m a d a m a pulce?».

«Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di leta-me crollato. Il signore degli uomini è disceso agli in-feri. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

La sorgente si inaridisce. Passa di lì una pecora. Anch'essa dice: «Che hai,

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madama pulce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La fonte disseccata, la casa crollata, la vi-cina con le focacce, il portatore coi due basti, il ca-praio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

La pecora si avvicina a una siepe spinosa e vi ap-pende il suo vello.

La siepe spinosa si sporge e chiede: «Che hai, ma-dama pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è suc-cesso! La pecora spogliata, la fonte disseccata, la ca-sa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

La siepe spinosa si sradica e finisce per precipita-re nel fiume.

Il fiume si fa avanti e dice: «Che hai, madama pul-ce?». «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte dissec-cata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il por-ta tore coi due basti , i l capra io senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scom-parso!»

Il fiume straripa e provoca un'alluvione. La terra trema. Una roccia chiede: «Che hai, ma-

dama pulce?». «Ohi, ohi! Che cos'ho? Cosa mi è suc-cesso! Il fiume straripato, la siepe annegata, la peco-ra spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il ca-praio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

La roccia frana. Parla ora il sole. Dice: «Che hai, madama pulce?».

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«Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! La roccia franata, il f iume straripato, la siepe annegata, la pe-cora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il ca-praio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomini è disceso agli inferi. È caduto nella pentola ed è scomparso!»

Dei lampi squarciano il cielo. Le nuvole si aprono in un diluvio di pioggia.

«Che hai, madama pulce?» chiede alla fine il ma-re. «Che cos'ho? Ohi, ohi! Cosa mi è successo! Il cie-lo in tempesta, il sole fuggito, la roccia franata, il fiu-me straripato, la siepe annegata, la pecora spogliata, la fonte disseccata, la casa crollata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro, il mucchio di letame crollato. Il signore degli uomin i è disceso agli inferi . È cadu to nella pentola ed è scomparso!»

Allora il mare in tempesta si fa avanti e spazza tut-to. Trascina via la roccia, la siepe spinosa e la casa crollata. Porta via la pecora spogliata, la vicina con le focacce, il portatore coi due basti, il capraio senza vincastro. Inghiotte il mucchio di le tame crollato, madama pulce e il signore degli uomini!

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

19. R U N J A , L A F A N C I U L L A P I Ù B E L L A D E L L A L U N A E D E L L A R O S A

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

C'era una volta un sultano che si disperava di non avere figli. A dispetto della sua potenza e delle sue ric-

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chezze, era infelice. Un giorno, in cui si sentiva il più povero degli uomini, partì all'alba in pellegrinaggio.

Il santuario cui era diretto emergeva sfolgorante tra l'erba dei campi. Mentre il sultano vi si avvicina-va, un angelo se ne distaccò per venirgli incontro e dirgli: «Dove conduci i tuoi passi così di buon matti-no, sul tano? Non sei già r icco e potente, che cosa puoi desiderare di più?».

«Ahimè,» gemette il sultano «non ho eredi, e se do-vessi morire, i miei beni andrebbero a degli estranei.»

L'angelo gli consegnò una bella mela lucente e gli disse: «Da' la buccia di questa mela alla tua giumen-ta e la polpa a tua moglie. La sultana sarà incinta e metterà al mondo un maschio. Ma guardatevi bene dallo scegliere un nome per questo figlio pr ima che io sia tornato ad apparirvi».

Trascorsero nove mesi, e la sultana mise al mondo un maschietto, che venne chiamato semplicemente Principe. Quando fu grande abbastanza per andare a scuola, il popolo volle che gli si desse un nome, e si recò quindi al palazzo, gridando di lontano al sulta-no: «La pace sia su di te, sultano! Veniamo per dare un nome a tuo figlio, nos t ro principe, che ancora non ne ha». «Chiamatelo come vi piacerà» rispose il sultano.

Proprio in quel momento fece la sua comparsa l'angelo, in mezzo alla folla impietrita. Egli disse: «Il bambino si chiamerà Sheikh Smain». Poi scomparve.

Il principino si chiamò Sheikh Smain e crebbe nel bene. Fattosi adolescente, disse un giorno a suo pa-dre: «Nobile sultano, padre mio, amerei uscire e anda-re a caccia». «Va bene, figlio mio» rispose il sultano.

E comandò a due servi fidati di scortare il giovane cacciatore. Arrivato al pr imo bivio, il principe si ri-volse ai suoi compagni : «Separiamoci» disse loro.

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«Prendete per di qua mentre io andrò per di là, e ri-troviamoci stasera sotto questo albero.»

Al calare della notte, i servi arrivarono con il car-niere pieno. Sheikh Smain aveva il suo vuoto. Essi glielo riempirono e fecero ritorno con lui al palazzo. L'indomani Sheikh Smain volle ancora cacciare. E questa volta lo accompagnarono altri due servitori. Il principe si divise da loro al bivio e disse, tendendo la mano: «Andate per la vostra strada, mentre io an-drò per la mia e ritroviamoci qui questa sera».

Sheikh Smain fece qualche passo e scorse un per-niciotto che zampettava sul sentiero. Lo seguì e lo vi-de scomparire sotto una tenda. Si accostò alla tenda e disse a voce alta: «Datemi la mia preda!».

Comparve una fanciulla, più bella della luna e del-la rosa, che gli disse: «Mi chiamo Runja. Questo per-niciotto non appartiene a te più di quanto apparten-ga a noi». E si ritirò.

Il principe fece ritorno trasognato al palazzo. Fin-se una forte febbre e si mise a letto. Non mangiò più e non parlò più. Fuori di sé, il sultano chiamò al ca-pezzale dell'erede tutti i dottori e i maghi del paese. Poiché questi sfilarono tutti invano davanti al mala-to, il sultano fece annunciare: "A colui che guarirà l'erede al trono darò tut to quello che mi chiederà".

Fu allora che si presentò un giovane: «Portatemi un chilo di candele» disse. «Io sono uno scienziato e vi dico che il principe parlerà e guarirà.»

Dopo avere acceso un buon numero di candele, ne prese una e la mise proprio davanti a sé. Rivolgendo-si a essa, con voce suadente disse: «Parla, candela, e racconta la storia dei fratelli che vivevano insieme in quel frutteto di montagna dove si trovava l'uva rosa-ta più prodigiosa della terra. Parla, candela, o par-lerò io. Ti ricordi, erano in tre: uno era falegname, l'altro sarto e l 'ultimo poeta, che vegliavano a turno

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per far la guardia al frutteto. Il poeta e il sarto dor-mivano quando il falegname notò un esile arboscello che sembrava danzare sotto la luna. Lo tagliò e si mise a scolpirlo, rivolto verso la luna, dandogli un corpo e un viso di donna. A sua volta, il sarto si destò e le fece una tunica. Alla fine, il poeta aprì gli occhi e scorse accanto a sé questa bambola vestita. Pensò: "Il falegname le ha dato un corpo, il sarto un vestito. Io, invece, p regherò Dio di dar le un 'an ima" . E la bambola divenne una donna di incomparabile bel-lezza. Al mattino, il falegname disse: "Questa donna è mia, perché io le ho dato il corpo". Il sarto disse: "Essa è mia, perché io le ho dato l'abito". E il poeta disse: "Essa è mia, perché io le ho da to l 'anima". Candela, tu che lo sai, dicci di chi è questa donna».

Allora Sheikh Smain si alzò e disse, spazientito, al giovane scienziato: «Taci. Non mi affaticare oltre: la donna spetta al poeta che le ha dato l 'anima. Che il sultano, mio padre, mi dia in sposa Runja e io gua-rirò».

L'indomani stesso, accompagnato da una ingente scorta, il sultano si presentò, colmo di gioia, davanti alla tenda. Ne uscirono sette uomini, maestosi e im-ponenti come querce: erano i fratelli della fanciulla più bella della luna e della rosa. Il sultano disse loro: «Mio figlio, Sheikh Smain, ha deciso di sposare vo-stra sorella o di morire». I sette fratelli andarono a cercare Runja . Il sul tano potè così contemplar la a piacimento e benedire Dio che aveva creato una bel-lezza così sorprendente. E i tamburi e i flauti annun-ciarono a tu t to il paese il f idanzamento di Sheikh Smain e della fanciulla più bella che si potesse trova-re sotto il sole.

Il principe era al colmo della gioia e il sultano, che l'aveva creduto malato da morire, ne era assai lieto. Solo Settut era verde di gelosia (la vecchia strega ce

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l'aveva con Sheikh Smain dal giorno in cui, ammini-strando la giustizia, non si era precipitato da lei, la-sciando perdere tutto, per occuparsi del suo eterno processo). E così, essa non aspirava ad altro che a fargli del male.

Una matt ina in cui Settut tornava a casa più furio-sa del solito, si tinse in fretta i capelli e le mani di henné. Indossò gli ornamenti più belli e partì alla ri-cerca di Runja e dei suoi sette guardiani. «Arriva il sultano per portarsi via la nuora!» annunciò in tono secco ai sette fratelli. «Preparatevi a riceverlo.» E se ne tornò a casa leggera, felice di essersi f inalmente potuta vendicare di Sheikh Smain.

«Quand'è così,» dissero mortificati i sette fratelli «poiché il sultano non si cura nemmeno di avvisarci in anticipo del suo arrivo e ci tratta senza riguardi, part i remo senza perdere un momento. E quando ar-riverà, troverà solo il vento!» Runja si affrettò a scri-vere qualche parola nascondendo poi il proprio mes-saggio sotto una pietra accanto al focolare, pr ima di seguire docilmente i suoi fratelli. Questo messaggio diceva: "La pace sia su di te, Sheikh Smain. Se mi vuoi ancora come sposa, vieni a cercarmi nel paese delle Indie".

Più malefica del diavolo, Settut si compiacque di far sapere al sul tano che la f idanzata di suo figlio aveva abbandonato il reame, che i suoi sette fratelli avevano deciso di p ian ta re le tende ai confini del mondo e di promettere Runja a un principe infinita-men te più valoroso e fo r tuna to di Sheikh Smain . Toccato sul vivo, il sultano proibì di informarne il fi-glio, perché temeva di vederlo nuovamente perdere la voglia di mangiare e di bere. Fece anche sapere, con discrezione, ai suoi sudditi: «Colui che oserà di-re a mio figlio che la sua fidanzata l'ha lasciato per un altro, sarà decapitato».

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Era destino, tuttavia, che la notizia dovesse arriva-re ugualmente alle orecchie del principe. Una bella sera due giovani stavano facendo il gioco delle aran-ce davanti alla sua porta. Il perdente esclamò all'im-provviso: «Questo b ru t to t iro assomiglia mol to a quello che h a n n o giocato a Sheikh Smain!». Ora, Sheikh Smain era alla finestra. Si sporge e grida al giovanotto: «E qual è questo bel tiro che mi avrebbe-ro giocato? Me lo vuoi dire? Perché Sheikh Smain sono io». «Ebbene, la tua f idanza ta ha lasciato il paese. I suoi fratelli l 'hanno portata con sé all'altro capo del mondo.»

Il principe pagò le arance del perdente. Poi prese il fucile e il cavallo, e partì in tutta fretta verso la fo-resta. Ma dov'era la tenda che ospitava la fanciulla più bella della luna e della rosa?... Il principe stava per fare dietrofront, quando una cosa attrasse la sua attenzione: era, sotto una pietra, il messaggio che gli aveva lasciato Runja. Egli lo lesse: "La pace sia su di te, Sheikh Smain. Se mi vuoi ancora come sposa, vieni a cercarmi nel paese delle Indie".

Il principe tornò al palazzo senza perdere tempo, riempì un sacco di monete d'oro e, tenendo per le re-dini il cavallo, annunciò ai genitori che era risoluto a ritrovare Runja, più bella della luna e della rosa, o a morire. Invano sua madre cercò di trattenerlo con le sue lacrime. Egli partì. E lei lo seguì a lungo con lo sguardo.

Andò. Andò sul suo cavallo nero. Incontrò un pa-store: «Pastore, non hai notato una carovana che si portava via una fanciulla?» gli gridò Sheikh Smain. «Due giorni or sono è passata una fanciulla più bella della luna nel f irmamento. Essa mi ha gettato questo anello con queste parole: "Da' questo anello al cava-liere che ti chiederà notizie di me".» Il principe si

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mise l'anello al mignolo e diede al pastore una man-ciata di monete d'oro.

Viaggiò notte e giorno, con la pioggia e col vento. Attraversò numerose contrade e penetrò in un paese desolato. Gli spalt i della capitale e rano ornat i , in m o d o sinistro, di teste tagliate e infilzate su delle picche. Il cavallo fece un balzo prodigioso e Sheikh Smain si ritrovò all'interno della città. Un filo di fu-mo saliva nell'aria da una casa lì vicino, il cui ingres-so era guardato da un negro gigantesco. Il negro dis-se: «Dove hai preso l 'audacia di arrivare fin qui? Non sai che sono io che ho r idot to in rovina ques ta città?». «Prendi la tua sciabola» rispose con calma Sheikh Smain. «Prendi la tua sciabola e battiamoci.»

Il negro ebbe la peggio, cadde e il principe stava per finirlo quando, con sua grande meraviglia, vide questo negro trasformarsi e assumere le sembianze di una donna dalla nobile acconciatura. Essa sup-plicò: «Per Dio, non uccidermi. Come donna, sarò la tua schiava. Come negro, non avrai guardia del cor-po migliore di me, perché mi batterò per te fino alla morte».

Sheikh Smain prese il negro per mano e si allon-tanò con lui. Camminarono, camminarono a lungo. Al calare della notte, scorsero sulla collina una casu-pola illuminata. Vi abitavano sette fratelli con la loro sorella, una giovane fanciulla, che osservavano con inquietudine l'avvicinarsi dei viaggiatori. Il maggiore disse: «Se sono degli onesti viandanti, offriremo loro l'ospitalità. Se sono dei malfattori, ci difenderemo».

Sheikh Smain e il negro entrarono. Un'adolescen-te dal viso dolce li accolse insieme ai fratelli e offrì loro della focaccia di frumento, della frutta e del lat-te. «Questa giovane fanciulla è nostra sorella» spiegò il maggiore dei fratelli. «Il re degli infedeli ce la vuo-le rapire e ogni giorno, per difenderla, ci ba t t iamo

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contro un esercito. Ma ci ba t te remo così f ino alla morte, perché nulla ci è più caro al mondo di questa nostra sorella dal viso di latte e dai capelli color del mais.» «Domani» promise Sheikh Smain «assistere-mo non visti al combattimento.»

L'indomani, vedendo che non vi erano né vinti né vincitori il principe e il suo negro fedele presero le loro sciabole e si unirono ai sette fratelli. L'esercito del re degli infedeli fu decimato. I sette fratelli, che non erano degli ingrati, si rivolsero a Sheikh Smain e gli dissero: «Grazie a te e al tuo valente compagno, abbiamo trionfato. Prendi in sposa nostra sorella, te la sei meri tata». «La prenderò con gioia,» r ispose Sheikh Smain «ma solo al mio ritorno, perché ho un impegno da assolvere lontano da qui.»

Seguito dal suo negro fedele, Sheikh Smain prese la via delle Indie. Per giorni e giorni cont inuarono ad andare, meravigliandosi e disperandosi, a secon-da delle circostanze, per ciò che incontravano. Alla fine penetrarono nel paese delle Indie. Una grande spossatezza era nelle loro membra: non aspiravano che a riposarsi del loro interminabile viaggio, e lo stesso valeva anche per il loro cavallo. Incontrarono una vecchia, vestita poveramente. Sheikh Smain le rivolse la parola dolcemente, dall'alto della sua ca-valcatura: «Madre,» le disse «noi veniamo da molto lontano e siamo stremati. Dacci ospitalità per questa notte, nel nome di Dio». La vecchia li fece entrare nella sua casa, e si disse desolata di non avere altro da offrire che una focaccia d'orzo e una brocca d'ac-qua. Sheikh Smain le porse una manciata di monete d'oro ed essa corse al villaggio ad acquistare verdu-re, carne e frutta. Così potè preparare un pasto de-gno dei suoi ospiti e della loro grande fame.

Nel corso della notte, il principe, rivolto alla vec-chia, le chiese: «Madre, non sai se degli stranieri so-

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no venuti a stabilirsi qui da poco tempo?». «Qualche giorno fa sono arrivati degli stranieri , figliolo, che portavano con sé una fanciulla più bella della luna e della rosa. Appena l'ha vista, il nostro sultano, abba-gliato, l 'ha sposata. Ma essa, a quanto dicono, si è rinchiusa in una torre e non permette a nessuno di avvicinarsi a lei. A coloro che cercano di farlo essa scaglia delle pietre. Dicono addirit tura che qualcuno ne sia morto.» «Non vorresti vederla da par te no-stra?» supplicò Sheikh Smain. «Figliolo, Dio mi è te-stimone che io non chiederei altro che di darvi gioia, perché siete stati tutti e due generosi con me. Ma co-me fare ad avvicinarmi a questa fanciulla, che dico-no sia mezza matta?» «Quando la vedrai pronta a farti del male, gettale questo anello, ed essa ti rice-verà, ne sono sicuro» aggiunse Sheikh Smain.

La vecchia si vestì decorosamente e se ne andò a trovare il sultano. Gli disse: «Questa notte ho sogna-to che riuscivo a convincere la tua giovane moglie ad accettarti come sposo. Permettimi di cercare di per-suaderla». «Che Dio voglia prestarti ascolto e venirti in aiuto!» sospirò il sultano. E le indicò la via della torre. La fanciulla era alla finestra, e metteva in mo-stra il viso più meraviglioso che si possa vedere sotto la luce di Dio. La vecchia le sorrise da lontano e le fece segni di amicizia. Arrivata davanti alla torre, fe-ce brillare nel sole l'anello che le aveva consegnato Sheikh Smain e glielo lanciò. Runja lo afferrò al vo-lo, lo riconobbe e accolse nella torre la messaggera. La fanciulla era così felice che a stento riusciva a parlare. «Va' dal sultano e digli che se vuole che io scenda dalla mia torre e sia veramente sua moglie deve ordinare che la città rimanga deserta per tutto il giorno, dal momento che io desidero percorrerla in carrozza in lungo e in largo e non intendo essere vista da nessuno. E raccomanda a Sheikh Smain di

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tenersi pronto a rapirmi non appena passerò davanti alla sua casa.»

La vecchia fece r i to rno dal su l tano e gli disse: «Dio è venuto in mio soccorso: la sultana acconsente a divenire realmente la tua sposa e a scendere dalla sua torre. Ma pretende che nessuno esca per strada oggi in città, dal momento che intende passeggiare in carrozza». «Si compia la sua volontà, Dio sia lo-dato per averti manda ta ! Oggi nessuno uscirà in strada per tut ta la città, pena la morte . E neppure domani.»

Allora la vecchia corse come il vento da Sheikh Smain e dal suo buon negro che la attendevano con impazienza. «Preparati a partire» gridò con gioia al principe. «La fanciulla più bella della luna e della rosa passerà in carrozza davanti alla porta e non avrai che da prenderla al volo e affidarla al tuo cavallo nero.»

Runja, più bella della luna e della rosa, non tardò a passare di lì. Sheikh Smain fece un balzo, la prese in braccio, e il cavallo più rap ido di un lampo li portò via tutti e due. A qualche passo di distanza li seguiva il negro fedele.

Giunti che furono sulla sommità di una collina, il pr incipe e Run ja scesero da cavallo per r iposarsi . Sheikh Smain appoggiò la testa sulle ginocchia della fidanzata e si addormentò. Si ridestò però di sopras-salto perché una lacrima gli era caduta sulla guan-cia. Allora vide che la sua amata stava piangendo. «Che hai?» le disse. «Non sei felice accanto a me?» Ma essa gli indicò in lontananza dei cavalieri che so-praggiungevano, e mormorò timorosa: «Ci inseguo-no. Stanno cercando me per riprendermi e riportar-mi al sultano!». Sheikh Smain era già balzato in piedi: «Non avere alcun timore» disse teneramente alla fanciulla. «Con l'aiuto di Dio e del mio amico fe-dele li sconfiggeremo.»

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Il principe e colui che non lo abbandonava né di giorno né di notte attendevano con la sciabola sguai-nata i cavalieri del sultano. E certamente gli angeli guerrieri del cielo furono dalla loro parte, perché di questo bell'esercito che veniva verso di loro in una nuvola di polvere ben presto non rimasero che mor-ti, feriti e qualche povero fuggiasco.

Sheikh Smain potè risalire t ranqui l lamente con Runja in sella al suo cavallo nero, seguito dal negro che faceva buona guardia. Continuarono ad andare così, tutti e tre, giorno e notte, attraversando nume-rose contrade. Una matt ina si spalancò alla loro vi-sta un paese ridente, quello della fanciulla dai capel-li color del mais e dal viso di latte che il pr incipe aveva conteso al re degli infedeli. Essa se ne stava sulla soglia, in piedi, attorniata dai fratelli, rivestita di lunghi veli di seta a stelle d'oro. Attendeva che il suo sposo venisse a prenderla per mano e la portasse via con sé. Sheikh Smain apparve, la fece sedere ac-canto a Run ja sul suo cavallo nero, e proseguì il viaggio, sempre accompagnato dal suo fedele negro. E continuarono a viaggiare, così, tutti e quattro, per giorni e giorni.

Il principe si avvicinava ora al suo regno. Appena il suo cavallo nero ne ebbe varcato i confini, il negro tornò ad assumere le sembianze di una splendida donna, dalla nobile acconciatura. Partito per ricon-quistare la fidanzata più bella della luna e della rosa, Sheikh Smain faceva dunque r i torno insieme a tre donne di una bellezza abbacinante. Mentre le teneva tutte e tre sul suo cavallo nero e faceva insieme a lo-ro il suo ingresso nella città natale, la più giovane dal viso di latte gli disse: «Io posso, se lo desideri, edificarti un palazzo ancora più imponente di quello di tuo padre, il sultano». «Quanto a me,» disse Runja «io posso creare at torno al palazzo il giardino più in-

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caritevole, con fiori, f ru t ta e addir i t tura gli uccelli del paradiso.» «Se tu lo vuoi,» disse alla fine la terza, dalla nobile acconciatura «io posso fare sgorgare in tutto il giardino fonti abbondanti e limpide che non si esauriranno né di giorno né di notte.»

Gli abitanti della città furono colti dallo spavento quando, al levar del sole, videro ergersi davanti a lo-ro il palazzo incantato nel bel mezzo di un folto par-co e ud i rono il mormor io delle molteplici fontane frammisto al canto di innumerevoli uccelli. Il muez-zin, men t re ch iamava i fedeli alla preghiera , per l 'impressione cadde dal minareto. E il sultano, ride-stato di soprassalto da un rumore inquietante, cre-dette che qualche nemico fosse sotto le mura della città: "Chi sarà in grado di procurarmi informazioni corrette?" si chiedeva ansiosamente. Fu allora che gli si presentò Settut, la vecchia strega. Essa gli dis-se: «Andrò io a cercare informazioni, sultano. E nep-pure il vento mi batterà in velocità!».

Prese quindi un cesto di farina, andò a piazzarsi davanti all'ingresso del magico palazzo e cominciò ad accendere un bel fuoco di frasche in mezzo a tre gros-se pietre. Poi impastò la sua focaccia e la mise a cuo-cere nel piatto che aveva di proposito posto alla rove-scia sul fuoco. Le tre mogli di Sheikh Smain la osservavano dalla finestra. «Rovescia il piatto,» le gridò una di loro «altrimenti la tua focaccia non cuo-cerà mai!» «Io sono cieca, povera figlia mia» rispose Settut. «Non potresti venire a darmi una mano?»

Quella delle spose che aveva il potere di trasfor-marsi in negro scese e si fece avanti con nobile ince-dere, facendo risuonare i pesanti anelli che ornava-no le sue caviglie.

«Chi sei, figliola?» chiese Settut col tono più insi-nuante. «Se devo giudicare dalla tua voce che è dol-ce e dalla tua mano che è perfetta, devi essere assai

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bella e, se non bastasse, anche buona, perché ti oc-cupi di una povera maldestra come me.» «Io sono la moglie di Sheikh Smain. E le mie due compagne che t i sor r idono dal ba lcone sono anch 'esse spose di Sheikh Smain. Se non fossi cieca le potresti vedere.» «Sheikh Smain!» esclamò Settut. «Hai proprio detto Sheikh Smain? Ma quello che hai appena nominato è il figlio della mia cara sorella! Conducimi da lui immediatamente, in modo che io sia la prima a salu-tarlo e a stringerlo contro il mio cuore!»

La giovane donna la prese per mano e la condusse al cospetto del suo padrone. Settut si gettò sul prin-cipe e lo abbracciò. Facendogli mille moine, venne a sapere da lui tutto quello che sperava di udire. Do-podiché, si separò da lui e corse dal sultano veloce come il fuoco. «Sheikh Smain, tuo figlio, è ritorna-to!» gli annunc iò ans imando . «Ha por ta to con sé Runja più bella della luna e della rosa e due altre giovani donne, ol t re tut to di u n o splendore pari al suo. E ques to palazzo che fa impall idire il tuo al confronto, questi giardini incantevoli e queste fonta-ne appartengono tutti a lui!»

Il sultano provò un grande dispiacere a vedersi su-perato in tutto.

Sheikh Smain si considerava il più appagato degli uomini : aveva r i t rovato il suo paese. E viveva in mezzo a spose belle e assennate le quali, lungi dall'invidiarsi e dal nuocersi a vicenda, si amavano. Così, non mancava ogni matt ina di rendere grazie a Dio, nel suo cuore, per tutto questo, col viso rivolto a oriente.

Ma ecco che un bel giorno volle associare a questa felicità suo padre, il sultano. Eccolo decidere di of-frire un banchetto degno di lui. Allora, quella tra le sue spose che aveva il viso di latte non dovette far al-tro che rigirare un anello d'oro che aveva al dito per

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veder sorgere innumerevoli tavoli di legno pregiato, ricoperti di grandi vassoi d 'argento pieni di succu-lenti manicaretti. Davanti a un banchetto così rega-le, il sul tano impall idì per lo s tupore e l ' invidia. Mangiò facendosi andare tutto di traverso e si sentì lacerare dagli artigli della gelosia. Giacché, lungi dal l ' incantar lo, la meravigliosa bellezza delle sue nuore era per lui invece una tor tura. Così, da quel momento , prese nel suo cuore vile la decisione di sopprimere suo figlio, Sheikh Smain, e di rapirgli le sue mogli e i suoi beni. Si sforzò comunque di sorri-dere quando disse al principe: «Stasera sono stato tuo ospite. Ma domani, lo sarai tu da me».

L'indomani, quando Sheikh Smain volle recarsi dal padre, Runja, più bella della luna e della rosa, lo trattenne con queste parole: «Mio signore, vedo del sangue tra i tuoi parenti». Egli rispose: «Si compia-no la volontà di Dio e quella di mio padre!». «Ma al-meno» proseguì la giovane donna «prendi ques to anello e fallo cadere nel tuo piatto tutte le volte che ti presenteranno una nuova portata.»

Grazie all'anello prezioso, il principe sfuggì a una morte orribile. Il sultano, che si aspettava di vederlo cadere a ter ra fu lmina to al t e rmine del pasto, fu enormemente deluso nel vedere il suo aspetto flori-do e il suo occhio vivace.

«Non avevo ord ina to di avvelenare tu t to quello che sarebbe stato offerto al principe?» tuonò davanti ai suoi servi radunati .

«Signore,» risposero i servi tremebondi «siete sta-to ubbidito, dal momento che non vi è nulla tra quel-lo che ha mangiato il principe che non contenesse del veleno, e che veleno!... Per avere assaggiato un avanzo di carne, un povero mendicante è morto sul colpo: lo abbiamo visto diventare tutto nero e roto-larsi per terra, senza poterlo soccorrere.»

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Questa notizia parve placare un poco il sultano. Sospirò e si mise a pensare a un'astuzia per avere ra-gione di Sheikh Smain e di tutti gli angeli che veglia-vano su di lui. Trascorsero sett imane pr ima che gli venisse un'idea fruttuosa.

Ma un giorno si alzò sollevato e ordinò ai suoi uo-mini più devoti di scavare in fretta numerose botole nella sala dei ricevimenti. Queste botole vennero riempite all'inverosimile di spade e pugnali e ricoper-te di tappeti sontuosi. Nessuno avrebbe potuto so-spettare che in questa nobile sala fosse disseminata per ogni dove la morte. E il sultano si diceva, speran-zoso: "Questa volta non mi sfuggirà. Soccomberà tra-fitto da spade e pugnali!". E, contento, se ne andò a trovare il principe per dirgli, nel momento più favore-vole: «Figlio mio, è l'effetto della vecchiaia?... Le sere mi sembrano sempre troppo lunghe. Domani, non potresti venire a passare la sera con me? È tanto che non godo più della tua piacevole compagnia!».

L'indomani, mentre Sheikh Smain si accingeva a partire, la giovane moglie dal viso di latte e dai capelli color del mais lo arrestò: «Mio signore,» gli disse con tenerezza «vedo del sangue sui tuoi vestiti». Egli ri-spose: «Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!». «Ma almeno» proseguì la sposa «prendi con te in braccio questa piccola levriera: essa ti guiderà. Ma, per Dio, seguila docilmente o sei perduto!»

Il principe prese sottobraccio la cagnolina e si al-lontanò nell 'oscurità. La lasciò andare sulla soglia della sala che doveva attraversare accanto al padre, e la seguì passo passo. Il sultano ebbe un bel cercare di distrarlo: il pr incipe non aveva occhi che per la cagnolina. Alla fine essa si fermò. Sheikh Smain la prese allora sulle ginocchia, si sedette nel punto che essa gli aveva indicato e si mise a conversare col pa-

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dre nel modo più piacevole di questo mondo, rac-contandogli del suo viaggio fino al paese delle Indie.

Bianco dalla pau ra e dalla rabbia , il su l tano lo ascoltava appena. Respirava a fatica, e la gelosia lo rodeva come un fuoco divoratore . Fu così che Sheikh Smain sfuggì a questa mor te che sembrava così sicura.

Ma quanto più il sultano si sentiva impotente con-tro suo figlio e le forze che lo proteggevano tanto più si esasperava il suo desiderio di stroncarlo. Una mat-t ina, non po tendone più, a n d ò a t rovare Sheikh Smain e gli chiese: «Di grazia, esiste qualcosa in gra-do di sopraffarti? Forse la polvere da sparo, o il fer-ro, o la corda?».

Il principe, che si stava riposando accanto a una fontana, nel suo magnifico giardino, rispose sempli-cemente: «Io non temo né il piombo, né il ferro né i le-gami. Tutti i fucili del mondo potrebbero sparare contro di me senza colpirmi; tutte le lame potrebbero trafiggermi senza che io soccomba. E spezzerei qua-lunque legame, foss'anche fatto con pesanti catene».

«Ma allora, qual è la cosa che potrebbe avere ra-gione di te? Ce ne sarà pure una!»

Il principe rifletté un po' pr ima di rispondere. Dis-se: «Qui, nella mia tasca, tengo una catenella d'ar-gento. Se acconsentissi a consegnartela in modo che tu possa avvolgermela intorno ai polsi, solo allora sarei senza difesa». «Ti prendi gioco di me» riprese il sultano. «Come vuoi che ti creda?» «Prova. Quando mi avrai legato con questa catenella dall 'apparenza così fragile, mi vedrai in tua balia e alla mercé di chiunque mi volesse far del male.»

Tremante, il sultano prese la catenella e legò i pol-si di suo figlio, che tentò invano di liberarsi. Solo al-lora il principe si sovvenne di ciò che gli aveva detto la giovane moglie dalla nobile acconciatura per met-

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terlo in guardia, quando si era avviato verso la fonta-na dove lo attendeva suo padre: «Mio signore,» gli aveva gridato la sposa che aveva il potere di trasfor-marsi in un negro «mio signore, vedo del sangue tra i tuoi parenti e questa volta temo che nulla possa sal-varti!». Ed era stato così sventato da risponderle an-cora: «Si compiano la volontà di Dio e quella di mio padre!».

Una gioia diabolica pervadeva il sultano davanti a questo figlio invulnerabile rimasto ormai senza più difesa. Si poteva essere così stupidi o pazzi da conse-gnarsi tra le mani del proprio peggior nemico? Final-mente il sultano avrebbe potuto godere del palazzo in-cantato, dei giardini dalle molteplici fontane e delle tre donne meravigliose che vi regnavano! Delirante di gioia, chiamò i suoi servitori e ordinò loro di cavare gli occhi a Sheikh Smain e di metterglieli nelle tasche.

Il principe privo della vista rimase fermo, in piedi, più debole di un bambino, con i polsi segati e insan-guinati dalla minuscola catenella che si era sforzato disperatamente di rompere. Il sultano diede ordine di caricarlo su un mulo e di condurlo nel folto della foresta per farlo divorare dalle belve feroci.

Appena giunto nel f i t to della foresta , Sheikh Smain disse al servo che lo accompagnava: «E tu non avrai pietà di me, non mi libererai i polsi, non spezzerai questa maledetta catena che ha fatto di me la più miserabile tra le creature?».

Il servo lo liberò e si ritirò tutto confuso. E il povero principe si sedette ai piedi di un albero e si mise a me-ditare. Stava sopraggiungendo la notte, una notte fre-sca. Sheikh Smain era solo col rumore delle foglie e del vento. Per difendersi non aveva che un bastone posato accanto a lui e qualche pietra. Ma avrebbe poi potuto servirsene? Era cieco... All'improvviso per-cepì, molto in alto, una sorta di lamento: era un'aqui-

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la tutta spiumata che implorava i suoi piccoli di co-prirla con le loro ali perché tremava di freddo. «Nien-te da fare» rispondevano feroci gli aquilotti. «Puoi tranquillamente morire di freddo, se vuoi. Quello che succede a Sheikh Smain ci insegna che non bisogna aspettarsi bontà da parte dei genitori e che bisogna trattarli senza pietà. Maledetto sia il padre che ha ca-vato gli occhi del migliore dei principi e lo ha condot-to nella foresta perché finisca in pasto alle bestie fero-ci!» «Sheikh Smain ha i suoi occhi nelle tasche» rispose in tono grave la vecchia aquila. «Se vuole rive-dere la luce del buon Dio, prenda un po' di foglie di questo bell'albero al quale è addossato, le mastichi e poi se le sprema contro le palpebre. Dopodiché, do-vrebbe rimettere delicatamente ogni occhio al suo posto e attendere. Di lì a un momento, la luna roton-da gli apparirebbe tra le stelle, nel cielo, e domani la luce del giorno lo abbaglierebbe al risveglio.»

Sheikh Smain ascoltò il d iscorso della vecchia aquila e pregò Dio che si realizzasse quello che ave-va appena udito. Tese le braccia e colse una mancia-ta di foglie s trappandole da un r amo basso. Erano foglie strette e lisce. Le masticò. Non appena ne eb-be spremuto il succo nelle orbite, prese delicatamen-te gli occhi e se li rimise, quello sinistro a sinistra e quello destro a destra, con grande pazienza, per pau-ra di sbagliare. Poi chiuse le palpebre e attese, tre-mando per la speranza. Quando li riaprì, un at t imo dopo, la luna lo guardava nel cielo t rapunto di stelle.

Sheikh Smain ringraziò la vecchia aquila e rese gra-zie a Dio nel suo cuore. Quindi si avvolse stretto nel burnus e si addormentò felice, su un giaciglio di foglie secche. La luce del buon Dio lo abbagliò al risveglio. Si alzò. Colse un mazzo di foglie dell'albero miracolo-so, riprese il suo bastone e si rimise in cammino.

Andò sempre dr i t to a t t raverso la foresta . Cam-

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minò, camminò a lungo. Quando si vide davanti a dei bei campi coltivati, si fermò per riprendere fiato. Un vecchio, intento a spingere un gregge, lo notò sul bordo del sentiero e gli mandò uno sguardo pieno di bontà. «Padre mio,» gli disse il principe «mi vorresti come figlio? Tu sei anziano e ti vedo ancora costret-to a lavorare.» «Figliolo,» rispose il vecchio «è Dio che ti manda, perché siamo soli, mia moglie e io. I nostri campi sono vasti, tu li coltiverai per noi e alla nostra morte tutto quello che possediamo sarà tuo.»

Sheikh Smain e il buon vecchio entrarono nel vil-laggio. Si fermarono davanti alla pr ima casa: era ru-stica ma tenuta bene; un bel fico le faceva ombra e la rendeva accogliente. «Dio ci ha mandato un figlio!» annunciò dalla soglia il vecchio alla sua compagna. Comparve una donna anziana ma ancora in forze. Alzò sul principe lo sguardo t rasparente e sorrise: «Sii il benvenuto, figliolo!» gli disse prendendogli la testa tra le sue mani scure. «Avevamo una tale paura di morire soli. Potevamo augurarci un figlio più am-modo?»

Essa servì, nella stanza più luminosa, un grande piatto di cuscus innaffiato di latte. Al principe, che aveva una gran fame, sembrava di non avere mai as-saggiato cibo più delizioso. Per festeggiare questo incontro fortunato vi furono anche frut ta e caffè. E i due vecchi e il principe resero grazie a Dio per avere concesso un figlio a due anziani solitari e dei genito-ri a un giovane odiosamente tradito dal proprio stes-so padre. Per tutti si apriva una vita nuova. Una vita pacifica e dolce.

L'indomani, quando la vecchia si accingeva a fare il burro in una zucca svuotata che le serviva da zan-gola, Sheikh Smain si fece avanti e dichiarò: «Tutto questo latte che vedi diventerà burro». Gettò quindi nella zangola una delle foglie che aveva colto dall'al-

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bero miracoloso e tu t to il latte si t ras formò in un enorme blocco di burro. Stupita, la vecchia chiamò le vicine: esse accorsero a frotte per constatare il mi-racolo e supplicare Sheikh Smain di venire da loro a battere il burro. Ben presto il principe si vide attri-buito l 'epiteto di "Mehend che bat te il burro", e la sua popolarità si estese a tutto il regno.

Sheikh Smain conobbe la pace in mezzo a queste persone semplici che lo amavano. Ma stava scritto che dovesse conoscere altre tribolazioni. Se ne rese conto il giorno in cui vide il padre adottivo estrarre da un vecchio cassettone un fucile antiquato e arrug-ginito e cominciare a lucidarlo. «Padre mio,» disse «perché quest 'arma?» «Figliolo, il nostro signore, il sultano, vuole che andiamo anche noi a batterci con-tro il negro che difende il palazzo e le mogli di suo figlio. Giacché non gli basta aver dato in pasto alle belve della foresta il nostro bel principe, dopo aver-gli fatto cavare gli occhi. Ecco che adesso insidia i suoi beni e le sue mogli. Ma un negro terribile le di-fende fe rocemente e le d i fenderà f ino alla mor te . Sventura agli imprudenti che gli si avvicineranno!» «Padre mio,» disse Sheikh Smain «il tuo posto non è in combatt imento. Mi batterò io in vece tua.» «No, figliolo. La mia vita volge al termine, mentre la tua è appena agli inizi. La morte può anche prendermi , non sarebbe una grande perdita.» «Partirò io!» ri-prese con maggiore ardore il principe. E la disputa rischiava di prolungarsi, se la vecchia non vi avesse posto fine. «Partite tutti e due» disse. «Il padre vigi-lerà sul figlio e io pregherò perché mi siate resi al più presto.»

Partirono dunque, il vecchio armato di un bastone e il figlio di un fucile. Un negro gigantesco faceva la guardia al palazzo incantato. Brandendo una scimi-tarra, menava gran fendenti a destra e a sinistra. Ap-

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pena scorse attraverso uno spioncino Sheikh Smain, che si era reso irriconoscibile con una maschera, il negro annunciò alle due giovani donne, sue compa-gne, che all'interno del palazzo tremavano dal terro-re: «Sento l'odore del mio signore!». «Ahimè» rispo-sero quelle tristemente. «Il nostro signore è morto. Così, quando sentirai venir meno la tua forza, non mancare di avvisarci, in modo che noi possiamo in-ghiottire il veleno che abbiamo preparato. Giacché è meglio mori re che essere del padre most ruoso del nostro beneamato signore.»

Sheikh Smain, sciabola alla mano, si era aperto un passaggio in mezzo alla folla stupefatta. «Sento l 'odore del mio signore!» disse di nuovo il negro, ma ques ta volta con maggiore convinzione, alle due donne che osservavano dallo spioncino.

Allora Runja, più bella della luna e della rosa, dis-se: «Ecco una mela. Gettagliela: se egli se la porterà alle narici e se la metterà in tasca, sarà davvero lui. Ma se la lascerà a terra, non ci resterà che morire». Il negro gettò la mela. Il giovane guerriero la raccol-se, ne aspirò a lungo la fragranza e se la fece scivola-re in tasca. «È lui, è p ropr io lui! Dio sia lodato!» esc lamarono Run ja e la sua compagna dal viso di latte.

E una grande speranza colmò i loro cuori. Sheikh Smain, adesso, si trovava a tu per tu col negro. Sot-tovoce gli disse: «Uccidi un animale e riempi di san-gue l'intestino; legatelo intorno al petto, sotto i vesti-ti. Io per forerò l ' intest ino con la mia sciabola. Il sangue si spargerà sul tuo corpo: a questo punto, tu fingiti morto e lasciati cadere a terra».

Quella notte il negro fedele sgozzò un agnello, ne riempì di sangue gli intestini e all'alba se li arrotolò intorno al petto nudo. Sheikh Smain si batteva come un leone. Compiva tali e tanti atti di valore che non

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si potè impedire che una voce si levasse e dicesse al-la folla: «Se volete che questo negro venga abbattu-to, date a questo giovane valoroso l 'armatura e il ca-vallo di Sheikh Smain, perché merita questo onore. E vedrete che ucciderà il negro irriducibile».

Avvisato, il sultano diede al guerriero il cavallo e la sciabola di suo figlio che credeva morto da tempo.

Sheikh Smain, in sella al celebre cavallo che gli era valso tante vittorie, si accinse a piantare la scia-bola nell'intestino gonfio di sangue. Il negro si acca-sciò. Alcuni dei combattenti si staccarono dalla folla per gettarsi pieni di odio su di lui, con la pretesa di vendicare qualche congiunto . Ma il guerr ie ro li fermò. Ponendosi davanti alla vittima, disse a gran voce: «Quest'uomo è morto e il suo cadavere spetta a me. Che nessuno gli si avvicini!».

Impazien te di impadron i r s i del palazzo e delle mogli del figlio, il sultano convocò l ' indomani i nota-bili della città e disse loro: «Ordino che voi dichiaria-te davanti ai miei sudditi che non vi è alcunché di sa-crilego nel fatto che io sposi le vedove di mio figlio; ordino che voi proclamiate ad alta voce che al sulta-no è consentito sposare le vedove del figlio». «Va be-ne, signore» risposero umilmente i notabili.

Una folla enorme si assiepava davanti al palazzo che non era più difeso da nessuno. Infatti il sultano aveva inna lza to il suo splendido t rono davant i al maestoso ingresso ed era circondato dai sette nota-bili che sembravano altrettanti bianchi colombi. Un immenso clamore si alzò: erano sei notabili, che gri-davano, col viso rivolto al cielo: «Sì, brava gente, è lecito, è degno e giusto che il sultano sposi le vedove di suo figlio!».

Una voce sola, inesorabile e fredda come una la-ma, si alzò a sua volta per proclamare: «Sventura al padre che osa insidiare le sue nuore. Sventura al pa-

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dre che osa sposare le vedove di suo figlio, perché commette un sacrilegio!».

E questa voce era quella del set t imo notabile. Il sultano lanciò uno sguardo severo al guastafeste che osava contraddirlo, e diede ordine ai suoi domestici di bastonarlo di santa ragione. Per sette volte i primi sei notabili dichiararono: «La legge di Dio permette l 'unione del padre con le sue nuore». E per sette vol-te, la voce del settimo notabile proclamò, sempre più patetica: «Dio maledice l 'unione del padre con le sue nuore!». E per sette volte questo giusto venne basto-nato di santa ragione e ricoperto di insulti.

Alla fine, Sheikh Smain lasciò cadere la maschera che lo rendeva irriconoscibile per chiunque non fos-se il suo fedele negro, e si piazzò davanti a suo pa-dre. Sulla sua magnifica cavalcatura, appariva pre-stigioso come il fu lmine, temibile quanto l'Angelo della Morte. «Scendi da questo trono!» intimò a suo padre , con voce sprezzante . «Perché è necessar io che sia fatta giustizia!» Costrinse il sultano a sedersi per terra come un mendicante e si servì del suo gi-nocchio come di un ceppo per tagliare la testa ai sei notabi l i che avevano osato p roc lamare dinanzi al cielo: "Dio permet te l 'unione del padre con le sue nuore". Al settimo disse: «Uomo giusto, ti faccio do-no di tutti i beni di questi empi».

Da ultimo si rivolse al padre e gli inchiodò al mu-ro le mani e i piedi. Con voce cupa ordinò: «Si ac-cenda un fuoco lento sotto i suoi piedi, affinché bru-ci a poco a poco e si ricordi di tutti i suoi misfatti».

«Padre indegno,» proseguì dolorosamente il prin-cipe «non sei tu che mi hai insegnato una simile cru-deltà? E la sorte che ora subisci tu, non la faresti su-bire a me se io cedessi alla pietà? Ricordati dei tuoi delitti contro di me: Non hai cercato per tre volte di togliermi la vita? Dapprima hai fatto ricorso al vele-

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no; un anello magico mi ha salvato. Allora hai pen-sato di farmi cadere in una botola colma di spade e di pugnali dissimulata da sontuosi tappeti. Ed è alla mia levriera che devo il fat to di non essere morto, trafitto da ogni parte. Alla fine, hai voluto sapere che cosa mi potesse rendere impotente e innocuo quanto un bambino, e sono stato tanto ingenuo da conse-gnarmi in mano tua e farmi incatenare dalla catenel-la d'argento che, sola, aveva il potere di immobiliz-zarmi. Mi hai così avuto alla tua mercé e mi hai fatto cavare gli occhi. Mi hai consegnato in pasto alle bel-ve: io, tuo figlio, cieco e disarmato. Ma questo anco-ra non ti bastava: hai corrotto i notabili, hai insidia-to le mie spose e i miei beni!»

E Sheikh Smain, sordo alle grida strazianti che gli giungevano attraverso le alte f iamme, si allontanò, triste da morire.

Nel suo meraviglioso palazzo lo attendevano il ne-gro fedele che, al vederlo, tornò ad assumere le sem-bianze di donna dalla nobile acconc ia tura . Ma il canto delle molteplici fontane e degli innumerevoli uccelli, la freschezza della sua sposa dal viso di latte e dai capelli color del mais, la fedeltà e l 'amore del suo popolo, oltre allo splendore di Runja, più bella della luna e della rosa, riuscirono a malapena a se-dare il male segreto che gli rodeva il cuore.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

2 0 . S T O R I A D I B E L À J U D H E D E L L ' O R C H E S S A T S E R I E L

Che il mio racconto sia bello e si d ipani come un lungo filo!

Viveva una volta in un certo villaggio un ragazzino che si ch iamava Belà judh, e ques to Belà judh era

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sempre in cerca di qualche scherzo per divertire e prendere in giro i suoi simili.

Un bel giorno, si arrampicò sul fico che cresceva sul margine del sent iero e si mise a gridare: «Chi vuole mang ia re dei fichi, chi ne vuole? Il f ico di Belàjudh è carico di f rut t i ma tur i al pun to giusto. Chi vuole mangiare dei fichi fuori stagione? Quelli che vogliono mangia rne accorrano: i l paradiso di Dio è sceso in terra!».

Beninteso, il fico non aveva nemmeno un frutto. Nell'ora più calda, passò l'orchessa. C'era un sole

da far stramazzare un asino: Tseriel, l'orchessa, si re-cava a bere al ruscello che lambiva il fico. Essa udì Belà judh che gridava: «Chi vuole mangiare dei fi-chi?...». Tseriel era cieca ma gigantesca; la sua chio-ma si rizzava al cielo come un cespuglio. Tseriel dis-se: «Cercavo proprio te!».

Protese il braccio verso l'albero, e afferrò Belàjudh per un piede. Lo tirò giù e lo r inchiuse in un otre. Non avendo una corda, cercò a tentoni intorno a sé qualcosa per legarlo: le sue dita incontrarono delle foglie di cipolla selvatica. Se ne servì per legare l'otre che poi appoggiò al fico. Poi si apprestò a recitare la sua preghiera del mezzodì. Belàjudh attese che essa andasse al ruscello a fare le sue abluzioni, quindi ruppe il fragile legame e se ne uscì. Raccolse dei sas-solini, ne riempì l'otre, lo richiuse e poi si allontanò.

Tseriel pregò. Poi estrasse dal corsetto un pezzo di focaccia e dei fichi. Mangiò, bevve al ruscello, e alla fine si diresse verso l'otre, mentre Belàjudh raggiun-geva una piccola sporgenza del terreno per non per-dersi nul la della scena. Tseriel cercò di sollevare l 'otre. L'otre le cadde di mano . Disse t ra sé: "Che cos 'ha mangia to? Per quale motivo Belàjudh, che era così leggero un momento fa, adesso è così pesan-te?". Alla fine riuscì a caricarsi l'otre sulle spalle. Fe-

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ce qualche passo, ma i sassolini si misero a punzec-chiarle le spalle. Gridò: «Tira indietro le ginocchia, Belàjudh, mi fanno male contro la schiena!».

Da lontano, Belàjudh le rispose scoppiando a ride-re: «Cosa vuoi da me, madre-nonna? Credevi davve-ro di riuscire a tenermi legato con foglie di cipolla selvatica? Apri un po' il tuo otre, per vedere che cosa c'è dentro!». Furiosa, l'orchessa gettò a terra l'otre. Il legaccio si spezzò e i sassolini schizzarono fuori e si dispersero per ogni dove, ferendo Tseriel a un piede. «Che Dio ti tragga in inganno come tu hai tratto in inganno me!» gridò. «Un giorno toccherà a te e ti catturerò.»

Sperando di sorprendere Belàjudh, l'orchessa non mancava di tornare tutti i giorni dalle parti del fico. Un bel mattino, Belàjudh tornò sul fico. Si arram-picò sul ramo più alto e guardando non i suoi piedi ma il cielo, si mise a gridare: «Chi vuole mangiare dei fichi, chi ne vuole? Il fico di Belàjudh è carico di frut t i matur i al punto giusto. Chi vuole mangiare dei fichi fuori stagione? Quelli che vogliono man-giarne accorrano: il paradiso di Dio è sceso in ter-ra!».

Nell'ora più calda, passò l'orchessa. Udì Belàjudh che gridava: «Chi vuole dei fichi?...». Protese allora il braccio tra i rami, e afferrò Belàjudh per un piede. Lo rinchiuse in un otre e lo legò saldamente.

«Questa volta non ti salverai!» gli disse buttandosi in fretta l'otre sulle spalle.

Invano Belàjudh cercò di pungerla con i gomiti e con le ginocchia. Per quanto si girasse e si rigirasse nell'otre, non riuscì a sfuggire all'orchessa.

Appena arrivata a casa, Tseriel palpò Belàjudh e lo trovò magrolino. Per farlo ingrassare, lo rinchiu-se in una dispensa traboccante di miele, di burro, di fichi secchi, di datteri e di noci, raccomandandogli: 409

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«Mangia tutto quello che vuoi». E gli chiuse la porta in faccia.

Belàjudh mangiava e dormiva, dormiva e mangia-va. L'orchessa gli dava da bere attraverso un piccolo sportello. Trascorsa una quindicina di giorni, si avvi-cinò allo sportel lo e gli disse: «Belàjudh, figliolo, porgimi la tua manina perché io veda se è più paffu-tella». Egli le allungò il manico di un cucchiaio di le-gno. «Sei sempre così secco!» gli disse indispettita.

E se ne andò a caccia. Dopo qualche giorno, disse di nuovo: «Porgimi la tua manina, Belàjudh, figlio mio!». Egli le offrì il manico di una scure. Ma l'or-chessa dichiarò: «Ti do ancora otto giorni. È tut to quello che Dio ti avrà concesso di vivere: magro o grasso, fa lo stesso. Vado a invitare i miei parenti e a cercare mia figlia Butellis che è da sua zia».

L'indomani portò con sé Butellis. Butellis aveva un occhio bianco (ci vedeva, cioè, solo dall'altro). La vi-gilia del gran giorno, Tseriel si rivolse a lei e le disse: «Macina del frumento, prepara semola in quantità, prepara i grani del cuscus, perché all'alba me ne an-drò a invitare le mie sorelle, i miei fratelli, le mie zie, insomma tutta la nostra famiglia. Al ritorno passere-mo dalla foresta e prenderemo della legna. Nel frat-tempo, tu accendi il fuoco e mettici sopra il pentolone dei matrimoni. Dopodiché, fa' uscire Belàjudh dalla dispensa, sgozzalo e gettalo nella pentola dopo averlo fatto a pezzettini. Non dimenticarti il sale, il peperon-cino, le spezie e gli aromi. E che sia tutto pronto per il nostro arrivo».

Belàjudh, con l'orecchio attaccato alla porta, non si perdeva una parola delle r accomandaz ion i che l'orchessa faceva alla figlia.

Tseriel uscì all'alba. Butellis riordinò la casa, acce-se il fuoco, sbucciò parecchie grosse cipolle che poi fece macerare in olio e peperoncino. Quindi mise sul

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fuoco il pentolone dei matrimoni e si diresse verso la dispensa. Ma appena ebbe aperto l'anta, Belàjudh le saltò alla gola. La sgozzò e la but tò nella pentola. Ri-vestì quindi i suoi abiti, si coprì il capo col suo fou-lard, cinse la sua cintura e si occupò del banchetto. Fece cuocere il cuscus a vapore, poi lo imburrò per separarne con cura i granelli. Lo suddivise in tre im-mensi piatti di legno e non si dimenticò di gettare nel sugo una manc ia ta di spezie. Quando tu t to fu p ron to , s iccome Butellis aveva un occhio bianco, Belàjudh per non farsi riconoscere si mise una ben-da sull'occhio: avrebbe fatto finta che il fumo facesse lacrimare il suo occhio perduto.

E Belàjudh salì sul tetto per spiare l'arrivo dell'or-chessa e del suo seguito. Da lontano li vide avanzare recando con sé tronchi d'albero e fascine. Erano no-vantanove. Con Tseriel erano cento: intorno a loro c'era un gran viavai di orchetti e orchette.

Belàjudh scese e si fece loro incontro. Imitando la voce di Butellis diede a tutti il benvenuto. Gli orchi si raccolsero intorno a un piatto di cuscus, le orches-se intorno a un altro, e gli orchetti e le orchette in-torno a un terzo piatto. E si misero a mangiare con grande appetito. Belàjudh versava il sugo, serviva la carne, portava da bere, si occupava di tutti. Le or-chesse gli dissero: «Orsù, vieni a mangiare, Butel-lis!». Ma egli rispose amabilmente: «Quando avrete finito, zie. Prima voglio servirvi!».

Non lontano dal focolare, nel cortile, i t ronch i d'albero e le fascine che orchi e orchesse avevano re-cato formavano un enorme cumulo. Belàjudh prese un tizzone ardente e lo infilò al centro del mucchio di legna per darvi fuoco e prepararsi la fuga. Proprio in quel momen to , un 'orchet ta , mangiando , t rovò l 'occhio b ianco di Butellis. Tirò la madre per un braccio e bisbigliò: «Mamma, l 'occhio della cugina 411

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Butellis!». «Dai, mangia!» le rispose la madre . Ma Forchet ta r iprese, a lzando la voce: «Ti dico che è l'occhio della cugina Butellis!».

L'occhio passò di mano in mano. E ciascuno disse: «È l'occhio di Butellis!».

Belàjudh prese allora una manciata di peperonci-no in polvere e saltò sul tetto gridando: «Tseriel ha mangiato sua figlia!».

Tseriel si era già precipitata su di lui. Aveva appe-na a f fe r ra to Belà judh per un piede quando questi scoppiò a ridere dicendo: «Ah, ah! Ha preso una ra-dice e crede che sia il mio piede!».

Essendo cieca, essa mollò la presa. Belà judh le gettò in faccia la manciata di peperoncino in polve-re. Tseriel si piegò verso terra con gli occhi in fiam-me. Orchi, orchesse, orchett i e orchette si stavano già lanciando in suo aiuto quando alte f iamme av-volsero il cortile. Tseriel e i suoi familiari ebbero il loro da fare per spegnere l ' incendio. Ed è così che Belàjudh riuscì a sfuggire loro.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

21 . I L G A T T O P E L L E G R I N O

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

C'era una volta, in un villaggio, un gatto che ster-minava tutt i i topi del circondario. Era ben cono-sciuto e quando lo scorgevano - foss'anche da gran-de d is tanza - topini e topine fuggivano a gambe levate.

Per molto tempo rimase così a mani vuote. Allora, si mise a pensare al modo di attirare verso di sé i to-pi. Per qualche giorno non si fece vedere in giro e fe-

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ce circolare la voce che fosse andato in pellegrinag-gio. Un bel mat t ino, uscì, si fece vedere e fece an-nunciare sulla pubblica piazza e fuori dal villaggio: «Sono andato alla Mecca; mi sono purificato. Ades-so onorerò Dio. Non mangerò più un solo topolino. Mi sposerò e inviterò alla festa i miei amici e anche i miei nemici. A tutti offro un banchetto. Chi mi vuole bene, venga a farmi un saluto. Dovunque vi sia un topo, venga a farmi visita, affinché ci riconciliamo e diveniamo amici».

La notizia si sparse di villaggio in villaggio. I topi-ni e le topine che si incontravano si dicevano l 'un l'altro: «Avete sentito? Il gatto è tornato dal pellegri-naggio! Si sposa e ci invita alle nozze! Dobbiamo portargli i nostri saluti e le nostre felicitazioni».

I topi erano pervasi di allegria e speranza: «Dove ti metteremo, o gioia!» gridavano. «Non conoscere-mo più la paura. Potremo entrare e uscire a nostro piacimento perché non dovremo più temere, ormai, il nostro unico nemico!»

Per rendere onore al gatto pellegrino, i topi indos-sarono i loro abiti più belli: delle bianche gandura, dei burnus del Djerid. Si posero in capo degli alti turbanti e si infilarono le scarpe più nuove. Le topi-ne, da parte loro, si t ruccarono con cura: si t insero di rosso le labbra con corteccia di noce. Si passaro-no del nero sugli occhi e del rosa sulle guance . Estrassero dai forzieri i loro ornamenti più brillanti e li indossarono: vesti di seta, veli di tulle. Si anno-darono sulla fronte i foulard dalle lunghe frange e si misero tutti i loro gioielli. Vestirono a festa anche i loro piccoli. E poi, prepararono dei doni: uova, frut-ta, fichi secchi, noci, uvetta, datteri, grano, fave. Tut-te misero in piccoli cesti quanto di più prezioso pos-sedevano per offrirlo al gatto pellegrino.

Da parte sua, quest 'ultimo preparò con cura il suo 413

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ricevimento. Tappezzò la casa di stuoie, tappeti, co-perte. Sigillò anche tutti i buchi. In un angolo col-locò il proprio trono: lo ricoprì di drappi scarlatti, lo guarnì di cuscini. Lasciò una sola apertura, quella attraverso la quale dovevano entrare i topi. Davanti a questa apertura fece appostare un micetto con l'in-carico di condur re f ino al t rono tutt i i topi che si presentavano. Dopodiché pensò alla sua toilette. In-dossò una jallaba bianca come la neve e si avvolse in-torno al capo il turbante verde dei pellegrini. Prese posto sul t rono e attese i suoi invitati.

Per pr ime entrarono le topoline, che tenevano con una mano i loro doni e con l'altra i loro piccoli. Se-guivano, a gruppi, i topi. Dapprima il micetto con-dusse dal gatto pellegrino le topoline. Esse gli bacia-rono il capo e le mani e gli dissero: «La pace sia su di te, gatto pellegrino! Come stai, zio pellegrino? Dio sia lodato perché sei tornato sano e salvo!».

A loro volta si fecero avanti i topi. «Che la tua vita sia lunga e prospera!» gli dissero. «Sia benedetto il tuo pellegrinaggio! Possa tu far ricadere sul nostro capo qualcuna delle grazie che hai riportato con te dalla Mecca!»

«Siate i benvenuti» rispose loro il gatto lisciandosi lentamente i baffi. «Eccomi di ritorno. Non abbiate a lcuna inquietudine, solo il bene ci un i rà d 'ora in poi. Ho giurato alla Mecca di non prendermela più con alcun topo.» Alle topine più timide disse con vo-ce suadente: «Avvicinatevi, avvicinatevi, mettetevi a sedere senza timore accanto a me».

Il micetto ritirava tutte le offerte per poi metterle in luogo sicuro. Ben presto la casa fu piena. Si for-marono dei gruppi. Le topine si confidavano tra lo-ro: «Vedete com'è scritta chiaramente sul suo viso la bontà! Reca con sé il paradiso e la pace!».

I topi e le topine erano in quantità tale che i tappe-414

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ti e le tappezzerie scomparivano sotto il loro nume-ro. Ve n 'erano di distesi, di appesi e di arrampicat i dappertutto, e perfino sul soffitto. Ve n'erano anche a grappoli e a ghirlande; formavano delle catene in-torno al trono. Allora, quando si fu assicurato che tutti i topi dei dintorni avevano risposto al suo ap-pello, il gat to pellegrino fece segno al micet to: «Chiudi la porta e tieniti pronto!» gli disse con un to-no che non ammetteva repliche. «E che non si salvi nemmeno un orecchio!»

Cominciò con le topine che si erano sedute accan-to a lui, e in seguito inghiottì uno per uno tutti i topi che, presi in t rappola , cercavano, vanamente , di uscire.

Un solo vecchio topo si era rifiutato di entrare. Se ne stava in piedi, sull'ingresso, e osservava. Aspetta-va di vedere uscire quelli che aveva visto ent rare . Gridò al gatto pellegrino: «Io non mi sono fidato di te: la crusca non diventa farina, il nemico non diven-ta amico!».

Nel giro di due giorni migliaia di topi furono divo-rati. Lui solo sopravvisse.

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

2 2 . I L F E G A T O D E L C A P P U C C I O

«Quando io ero giovane» mi dice l'ammirevole narra-trice «non capivo perché le madri amassero i propri fi-gli più di quanto questi ultimi le amassero a loro vol-ta. Un giorno, mi rivolsi alla mia vecchia amica Gida Nana per manifestarle il mio stupore per come la no-stra vicina adorasse e proteggesse il suo disgraziato fi-glio da cui non riceveva che insolenze. Gida Nana, i cui occhi chiari leggevano in tutte le cose e nei cuori, 415

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mi disse: "Figlia mia, tu non sai (ma sei ancora tanto giovane!) che l'amore di una madre è tanto più forte quanto più questa madre ha sofferto e bevuto fiele per suo figlio e per opera di suo figlio?... Ma sta' a sentire questa leggenda che mi è stata tramandata da mia nonna, che l'aveva udita dalla sua, e così via, risalen-do di nonna in nonna, fino al principio dei tempi".»

Nei tempi antichi, molto, molto tempo fa, vi era un uomo che viveva insieme alla sua vecchia madre e alla sua giovane moglie. Come nell 'arca di Noè, suocera e nuora non si potevano soffrire, e ogni mi-n imo incidente dava adito a interminabil i dispute. Se la madre diceva bianco, immediatamente la nuo-ra diceva nero e, conteso tra queste due furie, il po-v e r u o m o era infelice. Se prendeva le parti della ma-dre, in un baleno la sposa faceva fagotto e correva a rifugiarsi dai suoi, lasciando il mari to sconcertato. Se dava ragione alla moglie, una grandinata di insul-ti e maledizioni si abbat tevano su di lui: la madre, prendendo il cielo a testimone, lo sopraffaceva e lo sbeffeggiava. Lo stuzzicava nel suo orgoglio di ma-schio, accusandolo di non vedere che attraverso gli occhi di quella disgraziata di sua moglie. E per setti-mane, mesi, anni, l 'uomo visse in un inferno.

Ma un giorno, la sposa lo prese in disparte e gli disse: «Marito mio, fintantoché tua madre sarà viva, non avremo mai pace e non conosceremo la gioia. Dobbiamo dunque ucciderla. Domani , chiedile di accompagnart i nel bosco: raccoglierete della legna secca. Quando la vedrai chinata, dalle un bel colpo di scure sulla testa e non dimenticare, pr ima di sep-pellirla, di strapparle il fegato e di portarmelo come prova della sua morte».

L'indomani, all'alba, il figlio disse alla madre: «Ho lasciato molta legna secca nella foresta e l'inverno si

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avvicina. Prendi una corda e vieni con me; tra tutti e due ne porteremo a casa un bel carico e domani toc-cherà a mia moglie accompagnarmi».

La madre, senza sospettare nulla, prese una corda e seguì il figlio. La foresta era vicino al villaggio; vi giunsero di buon mattino. Raccolsero legna e fecero due fascine. Mentre la madre si chinava per caricar-sene una sulla schiena, il figlio la atterrò con un col-po di scure. Trascinò poi il cadavere verso un preci-pizio e qui gli aprì l 'addome per estrarne il fegato. Quando lo ebbe avvolto con cura in un fazzoletto e gettato, ancora caldo, in fondo al cappuccio del suo burnus, non gli restò che seppellire la madre, cosa che fece in tutta fretta.

Ma ecco che per strada due figli del male lo assali-rono. Incuriositi dall'aspetto del cappuccio, avevano scambiato il fegato della vecchia per una borsa pie-na d'oro. I due malfa t tor i avevano già sollevato il randello quando il fegato balzò fuori dal cappuccio, si liberò del fazzoletto e si mise a sussultare e a pal-pitare al suolo, a strisciare, a torcersi orrendamente, a danzare fremente e impazzito, a saltare, a svolaz-zare da un assalitore all 'altro implorando: «Io l 'ho partorito, lui non mi ha partori to, o figli del male, non uccidetelo!».

Per lo s tupore, i mal fa t tor i lasciarono andare il randello e si rivolsero all 'uomo che tremava dal ter-rore. Allora, egli raccontò loro la sua storia: «O abi-tanti della terra,» disse «questo fegato che mi ha di-feso, questo fegato che mi ha salvato, è il fegato di quella stessa madre che ho appena ucciso e seppelli-to nella foresta. Lo avevo staccato ancora caldo per portarlo a mia moglie che lo aveva preteso. Già, per-ché per far piacere a mia moglie, ho assassinato mia madre!».

E da allora, di villaggio in villaggio, per la Grande 417

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e la Piccola Cabilia si racconta il miracolo del "fega-to del cappuccio".

23 . L ' U C C E L L O D E L L A T E M P E S T A

Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!

In un villaggio remoto, molto, molto tempo fa, vi-vevano, in mezzo ai loro numerosi figlioli, un uomo e una donna. Dio aveva concesso più figlie che figli, ma i genitori, nella loro saggezza, non se n'erano la-mentati . Il padre lavorava nei campi con solerzia. La madre, per rivestire i suoi, trascorreva tutto il gior-no, e anche una parte della notte, filando e tessendo. Le figliolette si rendevano utili e trotterellavano per casa: erano loro che andavano alla fontana a riempi-re bor racce e otri, che si recavano nella foresta a prendere piccoli carichi di legna secca, che lavavano le stoviglie e preparavano di solito i pasti. I ragazzi aiutavano nel lavoro dei campi e, d'estate, portavano al pascolo le greggi in montagna. Agnelli e capretti fornivano in par te nut r imento per questa casa che era invidiata nel circondario non solo per il suo buo-numore ma anche e soprattutto per il suo spirito di carità.

Quando un mendicante chiedeva l'elemosina, nes-suno faceva orecchie da mercante o rispondeva cru-delmente: «Dio provvederà», giacché in questa fami-glia il mend ican te era ch iamato "l'ospite di Dio". Appena si udiva la sua voce, uno dei fanciulli si alza-va per andare da lui. Non appena si udiva salire, al tramonto, il grande lamento: «Il pane di Dio, uomini di buona volontà», un fanciullo correva a por ta re all'ospite di Dio la sua parte di focaccia, di cuscus o

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di latte. È per questo che regnava la letizia e ciascu-no traeva profìtto dal nutrimento.

Una sera d'inverno, una sera di tempesta, si udì la voce potente di un mendicante, che sovrastava il fra-stuono della pioggia e del vento. «Il pane di Dio, uo-mini di buona volontà!» implorava questa voce.

La madre guardò i suoi figlioli e il marito, seduti in torno al piat to da por ta ta di legno pieno f ino al bordo. Riempì quindi una scodella di cuscus, di ver-dure e di carne, e disse: «Chi vuole andare a portare questo allo sventurato che non ha paura di uscire con un tempo simile?». «Vado io!» disse Yamina, la più piccola delle ragazze. E, but ta tas i sulle spalle una vecchia coperta , a t t raversò il corti le sot to lo scroscio, aprì la porta e disse all'ospite di Dio: «Ecco la tua porzione di cena!». Ma il mendicante prese la scodella ancora calda, la posò sulla soglia, si caricò sulle spalle la fanciulla e s'involò con lei come un uc-cello sotto la tempesta.

Volò, volò a lungo, lontano da quel villaggio, lon-tano dal paese di Yamina. Fu solo sul f inire della notte che sospese il volo e depose la bimba. La fece sedere e mangiare al buio e le parlò in questi termi-ni: «Dal momento che sei caritatevole e buona, dal momento che non hai avuto paura di venire da me con questo tempo, ho voluto la tua felicità e ti ho portata via con me. Vivrai al centro di un vero e pro-pr io parad iso terrestre . Ti bas te rà r ig i rare ques to anello che ti infilo alla mano sinistra perché ti sia ac-cordato tutto quello che puoi desiderare. Abiterai in un palazzo. Avrai vestiti di lusso e gioielli a profusio-ne, e per amici tu t t i i f iori che ti d i spenseranno , d'estate come d'inverno, i loro sorrisi e le loro grazie. E i f ru t t i più rari sa ranno in at tesa di essere colti dalla tua mano. Solo, quanto a me, che sono accanto a te e ti parlo, non potrai mai vedermi, perché devo 419

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I

restare invisibile fino al giorno in cui sarò liberato da un sortilegio che mi è stato gettato da uno spirito malvagio. Fino ad allora, piccola, non vedrai né il mio viso né i miei occhi. Dormirò sì accanto a te, ma senza che tu possa conoscere la mia figura. Infatt i ogni giorno me ne andrò prima dell'alba lasciandoti addormentata, e non farò ritorno che a notte inoltra-ta. Se accetti queste condizioni, se prometti di non cercare di sorprendermi, non ti mancherà nulla. La mia presenza t i sarà preannuncia ta da una brezza leggera. Veglierò su di te e ti t e r rò sempre al mio fianco».

Yamina, che era ancora una b imba, non poteva capire. «Io mi ch i amo Yamina, ma te, come devo chiamarti?». «Io sono l'Uccello della Tempesta.» «Al-lora accetto» disse Yamina. E si addormentò del son-no dell'infanzia.

L'indomani si svegliò molto tardi e credette di so-gnare quando si vide sola, in un letto immenso, in mezzo a seta, lana fine e piume. Yamina era in una stanza meravigliosa. Distese mollemente il braccio e scoprì su un vassoio del caffè, del latte, burro, miele, ogni sorta di ghiottonerie e di dolci. Aveva fame: mai nella sua bocca era entrato cibo più delicato. Accan-to al letto la attendevano dei vestiti, disposti in bella vista, insieme a sciarpe preziose. Yamina, abbaglia-ta, ci mise parecchio a fare la sua scelta. Indossò un abito giallo come lo zafferano. Calzò delle pantofoli-ne che sembravano di corallo e uscì per fare il giro della sua dimora. Attraversò s tanze es t remamente sontuose ma deserte; l'ultima si apriva sul più indi-menticabile dei giardini.

Yamina era veramente al cent ro di un paradiso terrestre. Gli occhi non le bastavano per ammirare tutto. Vi era ogni genere di frut ta suscettibile di ma-turare sotto il sole di Dio, e con temporaneamente

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frut t i autunnali , primaverili, invernali ed estivi. Si facevano allegramente compagnia uva, fichi, arance, prugne, pesche, albicocche, melagrane, nespole, fra-gole, mele e pere, per non parlare dei frutti venuti da terre lontane e di cui non conosceva nemmeno il no-me. Gli uccelli che volavano di ramo in ramo stordi-vano Yamina col loro canto.

Essa assaggiò tutto, oziò lungo il ruscello, all'om-bra delle palme. Prestò ascolto al mormorio dei fiori e si divertì con i giochi dei pesciolini nell'acqua cor-rente. Colse gelsomini a manciate. Intrecciò corone e ghirlande e finì per addormentarsi sotto un alto al-bero nell'erba folta: sembrava un grande fiore giallo disteso.

Quando si ridestò, l 'attendeva un pasto servito su foglie di banano e di fico. Davanti al formaggio bian-co, alle focacce, alle frittelle, al miele, alle mandorle, ai datteri e alle noci, la fanciulla sospirò: «Che gioia sarebbe la mia se fossero qui mio padre, mia madre, i miei fratelli e le mie sorelle e potessero godere con me di tutte queste delizie!».

Yamina fece ritorno al t ramonto nel palazzo, la-sciando il giardino con le braccia cariche di fiori. Co-sì passarono giorni, settimane e mesi. Quando la not-te era più fonda, una brezza leggera annunciava l'Uccello della Tempesta. Era lì, vicinissimo, e le chie-deva a bassa voce: «Sei felice? Parla, c'è qualcosa che tu desideri nell'intimo del tuo cuore?». E la fanciulla, semiaddormentata, rispondeva, girandosi verso la parete: «Non desidero nulla che già non abbia».

Adesso Yamina era una fanciulla che conosceva la noia nella sua splendida d imora e perf ino nel suo giardino. Le giornate le sembravano lunghe. Non aveva più coscienza della sua fortuna. Vagava, bella come la luna nel firmamento, attraverso tante mera-viglie, senza più stupirsi di nulla. E si sorprendeva a 421

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sospirare, a rimpiangere i giorni passati: la presenza di suo padre e di sua madre, i giochi con i fratelli e le sorelle sullo spiazzo del frantoio, la focaccia d'orzo, il cuscus di f rumen to , l'olio robus to e il sonno profondo dell'infanzia. Era soprattutto quando rien-trava nel suo palazzo solitario e si stendeva sul suo letto t roppo vasto che sospiri grandi come ondate scuotevano il suo petto, men t re grosse lacr ime le scorrevano sulle guance. Per for tuna il sonno non tardava ad arr ivare. Ma u n a sera, l 'Uccello della Tempesta sorprese questa mestizia che non avrebbe mai sospettato. Si chinò su di lei e le disse in un sof-fio: «Perché piangi? Questo benessere non ti basta più?...». «Vorrei rivedere la mia famiglia» gemette Yamina. «Ero piccola quando ho lasciato i miei geni-tori e ora sono una donna!» «Partiremo questa notte stessa» disse l'Uccello della Tempesta. «Ti do un me-se per godere della compagnia di tuo padre, tua ma-dre e dei tuoi fratelli e sorelle; per ritrovare il sapore dell'acqua e del pane della tua infanzia. Tra un mese, né un giorno più né uno meno, verrò a cercarti. Ti ri-porterò verso questa felicità che oggi sdegni ma che, domani, sarai lieta di riscoprire.»

Attese che la notte fosse completamente buia. Do-podiché, si librò nel cielo, tenendo sul cuore Yamina addormentata. Sembrava quasi che con le sue gran-di ali fendesse delle coltri di seta nera. Volò, volò. Poco prima dell'alba, depose dolcemente la fanciulla sulla soglia della casa familiare.

Yamina sapeva che suo padre e sua madre non si perdevano mai la preghiera dell'alba. Perciò attese pazientemente il loro risveglio per entrare in cortile e presentarsi a loro. «Figlia nostra!» esclamarono. «Sei proprio tu, che ormai credevamo perduta per sempre?. . . E da dove torni così grande e bella, da quale regno? E com'è che ti trovi qui, ritta e bianca

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così di pr imo mattino? Chi ti ha condotta qui, rive-stita di questi abiti da principessa, tu che sei scom-parsa tanto tempo fa, sotto una terribile tempesta, lasciandoci per tutto ricordo una ciotola ancora cal-da e una brut ta coperta bucata?» «È stato il mendi-cante che mi ha portata via con sé» spiegò Yamina dopo avere abbracciato i genitori. «Il mendicante se involato con me nel f i rmamento e mi ha deposta in un parad iso in cui non mi mancava che la vostra presenza. Questo bisogno di tornare a vedervi e sen-tirvi si è fatto così aspro che ho finito per ottenere di r i tornare tra voi, ma solo per trenta giorni. Perché esat tamente fra trenta giorni mio mar i to tornerà a cercarmi.»

I suoi fratelli e le sue sorelle accorsero dai villaggi vicini per festeggiare il suo ritorno. E la casa fu di nuovo piena, come ai tempi felici dell'infanzia.

Per trenta giorni, Yamina conobbe la felicità di un tempo, senza rimpiangere per un solo istante le deli-zie che aveva lasciato. Partecipò ai lavori nei campi. Si recò alla fontana, con la brocca sulla spalla. Man-giò il cibo frugale ma gustoso della madre , bevve l 'acqua att inta all'otre di pelle di capra e dormì su una stuoia, per ritrovare il sonno innocente dei suoi primi anni.

Ma ecco che, pochi giorni p r ima del r i to rno dell'Uccello della Tempesta, le sue sorelle le chiese-ro: «Yamina, perché non fai che parlarci dello splen-dore di ciò che ti circonda e non ci parli mai, invece, di tuo marito? Vuoi partire senza dirci com'è? Forse tu non lo ami? Perché è fuggito via senza farsi vede-re dai nostr i genitori? È grande, è b ianco come la neve o nero come un corvo? Parla. È giovane, è vec-chio e usa il tuo braccio come guanciale? È bello co-me il chiarore della luna o tanto bru t to da doversi velare la faccia?». 423

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Yamina finì per ammettere: «Non so come sia per-ché non l'ho mai visto!». Sulle prime le sorelle non le credet tero. Yamina proseguì: «Non l 'ho mai visto perché un sortilegio gli proibisce di mostrarsi a me. E non conoscerò il suo volto fintantoché questo sor-tilegio peserà su di lui, perché mi sono impegnata, sposandomi con lui, a non cercare mai di sorpren-derlo».

«E tu, povera ingenua,» esclamarono le sue sorelle indignate «hai vissuto tutto questo tempo senza mai ardire di alzare lo sguardo su di lui! Chi se non tu, sventurata, accetterebbe per mari to un essere di cui non potesse conoscere che la voce?»

Yamina abbassò il capo. Allora, la maggiore parlò a nome di tutte. Disse: «Ascolta, se lo volessi, non dovresti far altro che nascondere una candela accesa nel fondo di un vasetto, e così scopriresti il volto del tuo sposo». Tutti gli animali della stalla - le mucche, le pecore, gli agnelli e perfino l'asino - si misero allo-ra a sussur ra re in m o d o che solo Yamina potesse udirli: «I tuoi parenti faranno la tua infelicità. I tuoi parenti faranno la tua infelicità!».

Era arrivato l'ultimo giorno. All'ora di cena scop-piò la tempesta attesa, simile a quella che un tempo aveva portato via Yamina. Al culmine della tormenta si udì una forte voce gridare: «Il pane di Dio, uomini di buona volontà!».

Yamina era pronta: le sorelle le avevano consegna-to una piccola candela che lei aveva fatto scivolare nel corsetto. L'Uccello della Tempesta si levò in volo con la sposa, avanzò attraverso flutti d'inchiostro e giunse al suo regno poco prima dell'alba.

La fanciulla si r idestò nello splendore della sua stanza tutta tappezzata di seta. Ma dov'era la mera-viglia dei primi giorni? Non le restava più nulla da scoprire. Prese un abito a caso e sorrise tristemente

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a tanta bellezza che non la accontentava più. Pensò: "Forse sarò più felice nel mio giardino...". Ma anche qui essa non si sentì meglio, perché né i fiori né i frutti che pendevano in abbondanza dai rami, né gli uccelli, i pesci e gli insetti dorati avevano più il pote-re di sollevarla: Yamina non era felice e adesso sape-va il motivo della sua infelicità. Era turbata da quan-to le avevano detto le sorelle. Invano gli animali le avevano sussurrato: "I tuoi parenti faranno la tua in-felicità. I tuoi parenti faranno la tua infelicità!". Nul-la poteva lottare contro questa piccola candela nel suo corsetto, che teneva desto in lei il fuoco di una curiosità divorante. La sua vita di sogno non le ba-stava più, ma si ricordava della sua promessa. È per questo che si sentiva dilaniata fin nell ' intimo. Chi poteva aiutarla a respingere la tentazione di cono-scere una buona volta il viso dello sposo, a mante-nersi fedele alla parola data? Ahimè, essa era sola, sempre sola.

Venne il giorno in cui non riuscì più a trattenersi: qua lunque cosa le parve preferibile alla sua sorte. Fece r i to rno in camera al t r amonto . Estrasse dal corsetto la preziosa candela, la accese e la collocò in fondo a un vaso di inestimabile valore. Ricoprì que-sto vaso con un piatto e lo collocò vicino al letto, a portata di mano. Quella sera il sonno non voleva sa-perne di venire da lei. Yamina a t tendeva ansiosa-mente la brezza leggera che ogni notte le annuncia-va il r i torno del marito.

Appena percepì che l'Uccello della Tempesta era sulla soglia, volle scoprire la luce. Ma fece appena in tempo a toccare il piatto che un vento furioso rove-sciò il vaso, spegnendo la candela. Yamina udì una specie di ruggito. Attorno a lei faceva molto freddo. Non era più la seta che l'avvolgeva, bensì un vento malvagio che la ghiacciava fin nel suo cuore. Yamina 425

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era in una foresta, alla mercé della tempesta e del freddo. Udì allora una voce ben nota, una voce cupa come la morte, che le diceva: «Hai mancato al tuo giuramento. Hai interrotto la tua gioia. Non mi rive-drai mai più. Anche tu, come me, hai udito gli ani-mali che ti dicevano: "I tuoi parenti fa ranno la tua infelicità. I tuoi parent i f a ranno la tua infelicità!". Ah! perché non hai prestato ascolto alla mucca, alla capra, alla pecora, all'agnello e all'asino! Adesso, tor-na alla tua vita di un tempo: per aver voluto conosce-re il mio volto, mi perdi tutto intero, tu che possede-vi la mia voce e la mia presenza accanto a te».

Yamina pianse, supplicò, ma invano. Per l 'ultima volta egli la prese tra le braccia. Se la caricò in spalla e la portò con sé attraverso la pioggia e i fulmini. Ya-mina parlò, ma il vento coprì la sua voce. L'Uccello della Tempesta squarciava la notte con le sue grandi ali. Lasciò Yamina come un cencio sulla soglia della casa di suo padre e si allontanò.

Yamina vide morire il padre e la madre. Yamina si separò dai fratelli e dalle sorelle ma non lasciò mai la casa. Attese giorni, settimane, mesi, stagioni inte-re; per anni at tese i l r i to rno dello sposo. Ma per quanti temporali scoppiassero, essa non udì mai la forte voce che, sovrastando la tempesta, dicesse: «Il pane di Dio, uomini di buona volontà!».

Il mio racconto è come un ruscello, l'ho racconta-to a dei Signori!

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Parte III

Fiabe dei Tuareg

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Fiabe di incantesimo

1 . T E S S H E W A , LA F A N C I U L L A S P O S A T A D A L F R A T E L L O

C'era una volta una ragazza che aveva madre, padre, un fratello minore e un fratello maggiore già ammo-gliato. Essa era solita lavarsi i capelli nella bacinella del fratello maggiore. Continuò così finché un gior-no egli, dovendo partire, prese la sua bacinella di ra-me, la lavò per bene, e disse: «A part i re da questo momento, se qualcuna, foss'anche mia madre, si la-verà la testa in questa bacinella, la sposerò».

Quindi partì e andò lontano. Durante la sua assen-za ci fu una persona che osò lavarsi nella sua baci-nella: la sorella minore. «Sta' attenta,» le ripeteva la madre «è capace di fare quello che ha detto!...» Ma ogni volta lei rispondeva: «Suvvia, si è mai visto un fratello che sposa la sorella?» e andava avanti a la-varsi.

Quando si dice, però, il caso: quella bacinella ave-va un manico, e un capello della ragazza vi r imase impigliato. Al ritorno il fratello ispezionò la bacinel-la e lo scoprì: «Chi si è lavato nella mia bacinella?». «Tesshewa» fu la risposta. La notte stessa stesero il contratto nuziale e il matr imonio venne celebrato.

All'alba, quando la tenda nuziale era ancora im-mersa nell'oscurità, Tesshewa uscì e prese ad allon-tanarsi. Vai e vai, vai e vai, alla fine trovò un albero di tuwila e vi salì sopra. E da lì non si mosse, non si

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mosse, non si mosse, finché si t rasformò in uccello. E rimase sempre su quell'albero.

Finché un giorno (dopo la sua scomparsa i suoi avevano perso la speranza di rivederla), f inché un giorno, dicevamo, essa scorse il fratello minore che pascolava il bestiame nella pianura. Scese dall'albe-ro e lo ch iamò. Cominciò a spulciarlo af fe t tuosa-mente come sogliono fare tra loro i cognati. Lui ave-va con sé della mines t ra di miglio f redda e gliene diede un po'. Essa mangiò e poi riprese a spulciarlo, e continuò per tutto il pomeriggio.

Sul far della sera egli le disse: «Adesso devo ritor-nare». E lei rispose: «Domani porta qui di nascosto delle forbici e un pettine: ti taglierò i capelli e ti farò la treccia. Ma per evitare che qualcuno si accorga del taglio, tienti sempre riportato sul capo un lembo della tunica». L'indomani essa gli tagliò i capelli e glieli acconciò. Poi si dissetarono e rimasero accan-to all'albero per tutta la giornata. Sul far della sera egli tornò all 'accampamento tenendosi coperto il ca-po con un lembo della tunica. Qui giunto, tutti si do-mandarono: «Ohibò, e adesso che cos'è successo a questo giovanotto, che si copre così il capo con un lembo della tunica?». La cosa suscitò una tale curio-sità che f inirono per afferrar lo e scoprirgli il capo con la forza.

Gli dissero: «Questa è un'acconciatura come quel-le che suole fare Tesshewa!». E lui: «Ma no!». Allora presero a percuoterlo, a percuoterlo per farlo confes-sare. Egli non confessò. Tuttavia, seguendo paziente-mente le sue o rme arr ivarono all 'albero di tuwila. Guardarono in su, tra i suoi rami, e lassù se ne stava appol laiata Tesshewa. I famil iar i avevano por ta to con loro una bacinella di rame piena d'acqua.

Suo padre le disse: «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!».

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Ma lei gli rispose: «Padre mio, mio suocero, non la voglio. Bevila tu!».

Allora egli diede la bacinella alla madre. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Mamma mia, mia suocera, non la voglio. Bevila

tu!» Allora diedero la bacinella al fratello maggiore,

colui che l'aveva sposata. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Marito mio, mio fratello, non la voglio. Bevila tu!» La diedero allora al fratello minore, quello che lei

aveva rasato. «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Fratello mio, mio cognato, non la voglio. Bevila tu!» La diedero infine alla cognata (la p r ima moglie

del fratello maggiore). «Tesshewa, Tesshewa, eccoti dell'acqua: bevi!» «Co-sposa mia, mia cognata, non la voglio. Bevila

tu!» In poche parole, si rifiutò di scendere. Allora ab-

batterono l'albero, nella caduta essa rimase stordita e poterono prenderla.

Non dobbiamo dimenticare che essa era diventata un uccello. Così la presero e suo padre la mise in una tasca. Passò del tempo e lei crebbe al punto di non star più nella tasca. La misero allora in un sac-chetto. Dopo un po' non stava più nemmeno nel sac-chetto. La misero in un sacco. Anche nel sacco dopo un po' non ci stava più. La misero in una federa. Do-po un po' fu troppo grande anche per la federa. Allo-ra la misero.. . in un asino. Sì, proprio dentro a un asino.

All'alba ponevano un otre in groppa all'asino. In-tanto le capre lo precedevano al pozzo. Quando Tes-shewa e l'asino arrivavano a loro volta, se al pozzo c'era qualcuno, se ne andavano sotto gli alberi e lì ri-

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manevano finché non se ne fosse andato. Andati via tutti, l 'asino raggiungeva il pozzo e lei ne fuoriusci-va, dopodiché riempiva l'otre, abbeverava le capre e se ne andava. Tornati all 'accampamento, l'otre veni-va scaricato e l'asino restava libero.

Un bel giorno, però, il figlio del re si disse: "Ades-so voglio proprio scoprire chi riempie l'otre posto su questo asino e dà da bere alle sue capre". Decise così di arrampicarsi su un albero per vedere bene dall'al-to. Mentre sopraggiungeva l'asino, salì sull 'albero. Arrivato l 'asino al pozzo, Tesshewa r iempì l 'otre e prese dell'acqua per lavarsi.

Per fare ciò si era tolta i vestiti, e il principe scese e glieli prese, così, quand'essa ritornò per rimetterse-li, non li trovò più.

Allora disse: «Tu che mi hai preso la gonna, ren-dimela e vedrai un modo di fissarla in vita migliore di quello della madre di tua madre!». Ed egli gliela lanciò.

«Tu che mi hai preso la sopravveste, rendimela e vedrai un modo di fissarla in vita diverso da quello della madre di tua madre!» Ed egli gliela lanciò.

«Tu che mi hai preso la camicia, rendimela e ve-drai un modo di indossarla diverso da quello di tua madre!» Ed egli gliela lanciò.

«Tu che mi hai preso il velo, rendimelo e vedrai un modo di coprirsi il capo diverso da quello di una so-rella maggiore!» Ed egli glielo lanciò.

«Tu che mi hai preso i sandali, rendimeli e vedrai un modo di infilarli diverso da quello di una cugi-na!» Ed egli glieli lanciò.

«Chi mi ha preso la tracolla, me la renda e vedrà un petto degno di indossarla e diverso da quello del-la madre di sua madre!» Ed egli gliela lanciò.

«Chi mi ha preso l 'amuleto d'argento, me lo renda

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e vedrà un modo di annodar lo al collo diverso da quello di sua madre!» Ed egli glielo lanciò.

A questo pun to , il pr incipe scese dall 'albero, montò in sella, fece salire in groppa Tesshewa, e ri-partirono insieme. Giunti in vista dell 'accampamen-to, essa si sfilò il bracciale e lo lasciò cadere, dicen-do: «Ahimè, mi è caduto il bracciale».

«Aspetta, che vado a prendertelo.» «No, lascia, nessuno può toccarlo all'infuori di me!» E scese lei di sella, raccolse il bracciale, ma ne ap-

profit tò per rientrare nell'asino. Quando il principe si voltò non la trovò più. Scese di sella e proseguì a piedi. Arrivato a casa, disse a suo padre: «Ho deciso di sposare questo somaro».

«Ma, figliolo, cosa vuoi combinare con un somaro?» «Ho deciso di sposare questo somaro, l 'asina di

Tal dei Tali.» Andarono a prendere l 'asina, la legarono e cele-

brarono le nozze, tenendo sempre l'asina lì attaccata per tutta la cerimonia. Quando, alla fine, il neo-spo-so ent rò nella tenda nuziale, fecero entrare anche l'asina e la legarono a un sostegno della tenda, tutta vestita e agghinda ta come u n a sposa. Poco dopo, Tesshewa uscì dall 'asina, indossò gli abiti nuziali , slegò l'asina e la condusse fuori della tenda.

La matt ina seguente avreste dovuto vedere come si era trasformata l'asina: tutti quelli che entravano nella tenda svenivano dalla meraviglia!

Proprio così: chiunque arrivasse, sveniva, ed essa lo r ianimava versandogli in viso qualche stilla del sudore della sua fronte. Venne perfino il re, gli bastò un'occhiata e cadde svenuto. E anche a lui Tesshewa dovette versare in viso qualche stilla del proprio su-dore. Dopodiché egli se ne andò, e anche gli altri se ne tornarono a casa. Passò del tempo, e la luna di

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miele ebbe termine. Il re domandò al figlio: «Hai fi-nito la luna di miele?».

«Sì.» «Bene, allora possiamo metterci in viaggio. Prepa-

rati e va' a prendere il tuo cavallo.» Il principe andò a prendere il cavallo, e partirono

accompagnat i da due dei loro schiavi. A un certo punto, arrivarono a un pozzo assai profondo. (Biso-gna sapere che il giorno in cui gli aveva fatto la trec-cia, la moglie gli aveva nascosto dei datteri tra i ca-pelli.) Il padre gli disse: «Calati nel pozzo!».

«Ma, padre, ci sono gli schiavi per questo.» «Non voglio bere acqua attinta da uno schiavo.» E così il principe si calò nel pozzo e procurò lui

l'acqua da bere. «Adesso fatemi uscire!» «Nemmeno per sogno!» E, così dicendo, il re lo a b b a n d o n ò in fondo al

pozzo e se ne andò. Il fatto è che si era innamorato di sua nuora , della moglie del figlio. Lasc iarono quindi il cavallo attaccato vicino al pozzo, mentre il re faceva r i torno. Quando li vide to rnare senza il marito, Tesshewa non rise più.

In fondo al pozzo, il principe, a un certo punto, si grattò la testa, e nel far ciò trovò i datteri nei capelli. Ne mangiò uno e lasciò cadere il seme. Da questo se-me spuntò una palma, che prese a crescere in fretta e senza interruzione. Egli vi si arrampicò fino a rag-giungere il bordo del pozzo. Anzi, no, dovette ridi-scendere perché non ci arrivava. Dovette r imanere in attesa ancora per un mese: solo allora potè risali-re. Arrivato al bordo del pozzo, vide il suo cavallo che lo stava osservando, e così egli potè afferrare le briglie e farsi sollevare e por t a r fuor i di slancio dal l 'animale. Montò quindi in sella e se ne andò. Quando furono a poca distanza dall 'accampamento,

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il cavallo si mise a nitrire. Al sentire questo suono, Tesshewa si mise a ridere: «Ah, ah, ah, ah, ah!».

Tutti accorsero chiedendosi: «Che cosa ha fatto ri-dere costei? Che cosa l'ha fatta ridere?».

Essa però rispose: «Ma io non ridevo affatto. Sta-vo solo chiamando la mia schiava». E così, dopo po-co, tutti tornarono a casa. E a questo punto, quando tutti se ne furono andati, ecco farsi avanti il figlio del re. Arrivato, scese di cavallo, se ne stette fermo due giorni per riprendere le forze, dopodiché fece visita a diverse persone, dicendo a ognuno: «Intervenite tutti alla festa che sto per dare».

Scavò un pozzo profondo chissà quante braccia; sul fondo accese un fuoco, ricoprì i l tut to con una coperta e vi collocò sopra una poltrona. A chi cerca-va di sedervisi diceva: «No, no, no, no. Questo posto è riservato a mio padre».

Quando alla fine il padre arrivò, lui andò a metter-si su un angolo della coperta, senza sedersi. E quan-do il re stava per sedersi, afferrò per un angolo la co-per ta t i randogliela via di sotto, così che cadde in fondo al pozzo, in fondo in fondo.

Il racconto se n'è andato, lo ha scacciato Kashe.

2 . I L R A P I M E N T O D I K H A W A T A N

C'era una volta una vecchia che aveva una figlia di nome Khawatan. Costei aveva delle amiche, che un giorno vennero da lei e le dissero: «Vieni con noi a raccogliere della taghoda». «D'accordo» disse, e par-tirono.

Mentre le altre raccoglievano la taghoda, lei se la mangiava, e al suo posto metteva nel sacco dei pezzi di carbonella. Quando i sacchi furono pieni, le ami-

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che dissero: «Chi non porta taghoda alla sua m a m m a non vale niente!».

«Accidenti a voi! Aspettatemi, che ne raccolgo un po' per mia mamma!»

«Facciamo così: f in tantoché sentirai il t int innio dei nost r i orecchini sapra i che noi s iamo qui nei pressi.»

Ma esse appesero ai rami le loro scodelle, e lei, continuando a sentire il tintinnio prodotto dalle sco-delle, credeva che le amiche fossero sempre lì. Inve-ce esse se n'erano andate, lasciandola sola.

Orbene, dopo che esse se ne fu rono andate la-sciandola sola, arrivò un jinn. Teneva la testa al li-vello del suolo e i suoi piedi arrivavano al cielo. Una sua dormita durava la bellezza di sette anni. Costui le disse: «Spidocchiami, e al mio risveglio ti riem-pirò il sacco. Suvvia, spidocchiami!». Va ricordato che il suo sonno durava sette anni. Comunque sia, essa lo spidocchiò. In quella le si presentò una lu-cer tola che le disse: «Figliola, cosa stai f acendo qui?».

«Le mie amiche se ne sono andate via e io ho pau-ra che questo Jabbar mi divori!» Il jinn si chiamava, in effetti, Jabbar.

Allora la lucertola le disse: «Bene, allora riempi il mio sacco di taghoda e io ti r iporterò a casa». Così Khawatan si mise al lavoro per riempirle il sacco, e quando questo fu pieno, la lucertola le disse: «Bene, vieni che ce ne andiamo!». La ragazza le salì in grop-pa, e via che se ne andarono.

Ma mentre essa arrivava all 'accampamento, Jab-ba r si ridestava. Le cercò con lo sguardo e le vide laggiù, lontane, ormai dentro all 'accampamento. Un passo, un altro, e già le aveva raggiunte.

La madre disse a Khawatan: «Chi sta agitando la tenda da fuori?». «Sarà una lepre o una capra.» «Va'

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fuori e dagliele!» Mentre si alzava per uscire, la ra-gazza replicò: «Mamma, non vorrei che la lepre fos-se inseguita da una iena, che potrebbe mangiarmi!». «Non fare storie!» replicò la madre, spingendola fuo-ri. E quando fu fuori, Jabbar le balzò addosso.

E così essa fu portata via di nuovo. Quando arrivò il fratel lo, Der iman, chiese alle amiche: «Dov'è Khawatan?». «È stata rapi ta da Jabbar!» Allora il fratello le pregò: «Orsù, can ta temi una s trofa che evochi Khawatan». Ed esse cantarono:

Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi Perché non pascolare il cammello grigio, fargli ingrossare la gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi...

Udendo ciò, egli si mise a piangere, a piangere a dirotto, e pianse fino a riempire di lacrime l'abbeve-ratoio di suo padre . Poi ch iamò uno schiavo e gli disse: «Orsù, prepara per un viaggio il mio cavallo, uno schiavo e me stesso!», poi, rivolto alle ragazze, le esortò: «Fatemi gustare ancora un po' di quel can-to!». Ed esse cantarono:

Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi Perché non pascolare il cammello grigio fargli ingrossare la gobba?...

Udendo ciò, egli si mise a piangere, a piangere a dirotto, fino a riempire nuovamente di lacrime l'ab-beveratoio di suo padre . A questo pun to tu t to era pronto, ed essi partirono.

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Quando J abba r aveva rap i to Khawatan , l 'aveva portata nella sua tenda. Deriman e il suo schiavo, in sella a un cavallo e a un cammello , pa r t i rono in quella direzione.

Giunsero davanti a un albero vecchissimo, decre-pito, da cui si levava un bellissimo rametto nuovo. Deriman lo apostrofò: «0 albero, possa colpirti la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se menti-rai a questa domanda: chi è più bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?».

«Possa colpirmi la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se non dico il vero: tu, il tuo schiavo, il tuo cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma vi supera tutti una fanciulla che è passata di qui. E stato sufficiente il tocco delle sue dita per farmi spuntare questo nuovo ramo.»

Proseguirono quindi il cammino. Giunsero davan-ti a un vecchissimo albero della gomma, ormai de-crepito. Deriman lo apostrofò: «O albero, possa col-pirti la maledizione di Dio riservata agli spergiuri se mentirai a questa domanda: chi è più bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?».

«Tu, il tuo schiavo, il tuo cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma vi supera tutti una fanciul-la che è passata di qui proprio poco tempo fa. È sta-to sufficiente che passasse di qui e mi toccasse con le sue dita per farmi spuntare questo bellissimo ramo.»

Ripresero quindi il cammino. Giunsero davanti a una vecchia tenda, abitata da una donna molto an-ziana. La tenda era decrepita, malmessa e polverosa. Quando fu al cospetto della vecchia, Deriman la sa-lutò: «Che la pace sia su di voi! » ripetè tre volte. E la vecchia rispose: «Che la pace sia su di voi! Chi è che mi saluta così?».

«Desidero porti una domanda, vecchia: chi è più

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bello tra me, il mio schiavo, il mio cammello e il mio cavallo?»

«Tu, il tuo schiavo, il tuo cavallo e il tuo cammello siete di pari bellezza, ma c'è una fanciulla che vi su-pera tutti. È stato sufficiente che toccasse con le sue dita la t enda per fare appar i re ques ta bell issima stuoia.»

Riprese allora il cammino, mentre la vecchia, alle sue spalle, mormorava : «Puoi r ingraz iare Dio di avermi salutato corret tamente, poco fa, se no avrei divorato te, il tuo schiavo, il tuo cammello e il tuo cavallo!».

Proseguì dunque il cammino, e dopo un po' ab-b a n d o n ò il cammello e il cavallo, e si inoltrò solo con il suo schiavo nella zona vicina alla tenda di Jab-bar.

Arrivarono così da Khawatan, che li nascose sotto il suo letto. Proprio in quel momento sopraggiunse Jabbar, lo sposo di Khawatan, il quale, appena arri-vato, si stese sul letto, dopo aver messo due pentole sul fuoco.

La pentola più grossa cominciò a dire: «Kedel ke-del». E l'altra: «Kedel kedel». Ma la pr ima continuò: «C'è gente sotto il letto!». Al che l'altra le disse: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto Khawa-tan? Perché ce l'hai con lei?». Ma di nuovo la pr ima ricominciò: «Kedel kedel, c'è gente sotto il letto!».

A questo punto Jabbar chiese: «Che cosa vogliono queste pentole?». «Vogliono più fuoco. Alzati e va' a mettere altra legna.»

E intanto la pentola: «Kedel kedel kedel, c'è gente sotto il letto!».

«Che cosa vogliono queste pentole?» «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fat-

to? Perché ce l'hai con lei?» «Ma insomma, che cosa vogliono queste pentole?»

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«Vogliono che le ritiri dal fuoco.» Ciò che Jabbar si affrettò a fare.

Ma la pr ima pentola riprese: «Kedel kedel, c'è gen-te sotto il letto!».

E l'altra: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto? Perché ce l'hai con lei?».

E Jabbar: «Cosa vogliono?». «Che prendiamo ciò che contengono.» Ma la pentola grossa, quella della polenta di mi-

glio, ricominciò: «Kedel kedel kedel, c'è gente sotto il letto!».

E l'altra, quella del sugo: «Kedel kedel, ti venga un accidente! Cosa ti ha fatto? Perché ce l'hai con lei?».

«Cosa vogliono?» «Che mangiamo.» E così si misero a mangiare, e Khawatan diede del

cibo anche agli ospiti sotto il letto, i quali mangiaro-no a sazietà ciò che essa diede loro, restituendole poi le ciotole. Quando furono andati a dormire, Khawa-tan chiese a Jabbar: «Dimmi, Jabbar, dove si trova la tua anima?».

«Se vuoi trovare la mia anima, devi aspettare che venga ad abbeverarsi un'antilope femmina, poi che ne arrivi un'altra, e dopo questa un'altra ancora. Fi-nite le femmine, dovrà arrivare un maschio, poi un altro e un altro ancora. Finiti questi, dovrà arrivare una gazzella maschio poi un'altra e un'altra ancora, dopodiché arriverà una femmina, poi un'altra, e infi-ne l'ultima, zoppa, con un occhio solo, e anche con un solo corno. Se colpirai il corno, esso cadrà e si romperà. All'interno troverai un sacchetto. Dentro a questo ce n'è un altro, dentro a questo ce n'è un ter-zo e in questo ce n'è un quarto. Finiti i sacchetti, tro-verai dentro una scatola. Nella pr ima ce n'è una se-conda, e poi una terza e una quarta. Finite le scatole,

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nell 'ultima troverai due capelli. Se spezzerai quello nero, morirò. Se spezzerai quello bianco, vivrò.»

Khawatan seguì queste istruzioni, spezzò il capel-lo nero e Jabbar morì. Deriman e lo schiavo la prese-ro e fecero ritorno con lei. Poco prima di arrivare la nascosero in un sacco. Al loro arrivo si presentarono le amiche di Khawa tan per chiedere: «Deriman, dov'è Khawatan?».

«Khawatan non c'è. Orsù, ripetetemi quel canto.» Ed esse cantarono:

Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi.

Ed egli rispose:

Perché non pascolare il cammello grigio, che ingrossi la sua gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi...

Lo schiavo gli disse: «Questo canto non mi basta. Cantate lo ancora u n a volta. Khawa tan non è qui quest'anno». Infatti essa era nascosta nel sacco. Allo-ra esse cantarono:

Deriman, Deriman, abbi fede in Dio Khawatan, Khawatan, non è più qui Jabbar se l'è presa, ora è in altri paesi.

Ed egli rispose:

Perché non pascolare il cammello grigio, che ingrossi la sua gobba? Riporterà Khawatan, che ora è in altri paesi...

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E concluse: «Tutto sommato il vostro canto è pro-prio azzeccato». E fece uscire Khawatan dal sacco.

Ecco, il racconto se n'è anda to per di là, è stato Kashe che lo ha fatto scappare.

3. LA B E L L I S S I M A T E Y L A L E N E IL JINN

C'erano due fratelli che avevano una sorella minore di nome Teylalen, mentre il padre e la madre erano morti. Un giorno decisero di fare un viaggio verso il sud. Por ta rono quindi la sorella dalle altre donne della tribù e chiesero loro: «Siamo in par tenza per un lungo viaggio. Potete prendervi cura voi di nostra sorella?». «D'accordo» fu la risposta.

Così par t i rono , diret t i verso il sud. Le donne li avevano rassicurati: «Dal momento che ce l'affidate, state tranquilli che nessuno le torcerà un capello, se Dio vuole». Ora, mentre loro compivano questo lun-go viaggio al sud, la sorella, crescendo, divenne più bella di tutte le altre donne. Così, queste si dissero: «Guardate questa ragazza: quando arriveranno i no-stri mariti e la vedranno, si innamoreranno di lei e non ne vorranno più sapere di noi. Orbene, che cosa si può fare?».

Una disse: «Impicchiamola!». Ma le risposero: «No, no, la si vedrebbe e ci pren-

derebbero». Un'altra propose: «Gettiamola in fondo a un poz-

zo!». «No, imputridirebbe e la scoprirebbero.» Una terza suggerì: «So io che cosa si deve fare. Bi-

sogna prenderla, sigillarle la bocca con dei rovi e fa-re altrettanto con le sue orecchie, e infine portarla in cima a quella montagna. Là ci sono dei nidi di avvol-toi, e noi la getteremo in uno di essi».

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Fu così che la presero, le tapparono bocca e orec-chie, la portarono fino a un nido di avvoltoi, e ve la get tarono dentro. Fatto ciò, to rnarono al villaggio, sacr i f icarono una capra dalla cui pelle r icavarono un otre, come prevedono i riti funebri , dopodiché sotterrarono un mortaio per simulare una tomba.

Quando furono di r i torno i fratelli della ragazza, chiesero alle donne: «Dov'è Teylalen?». Ed esse ri-sposero: «Fatevi forza: ment re voi facevate questo viaggio Teylalen è mancata». Alla notizia essi si mi-sero a piangere, si misero in lutto e non si mossero più dalla regione. Un giorno, uno di loro andò a co-gliere del foraggio per il cammello e quando fu ai piedi del monte su cui si trovava Teylalen, gli si parò dinanzi un avvoltoio che gli cantò: «Teylalen, Teyla-len se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deie-zioni di ogni genere!». Tese l 'orecchio e l'avvoltoio gli ricomparve dinanzi dicendo: «Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, tra sputi e deiezioni di ogni genere!».

Correndo e piangendo, egli si affrettò allora a rag-giungere i suoi compagni (i due fratelli si chiamava-no uno Khaydara e l'altro Minjolo), ai quali annun-ciò: «Mi è apparso un avvoltoio che mi ha detto: "Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, t ra sputi e deiezioni di ogni genere!"». Mentre era ancora trafelato per la corsa, gli chiesero: «E dove che si trova?». «Su quel monte laggiù.» Allora si mi-sero in viaggio, e mentre andavano, si presentò loro un avvoltoio che ripetè: «Teylalen, Teylalen se ne sta in un nido di avvoltoi, t ra sputi e deiezioni di ogni genere!».

Si inerpicarono così sulla montagna, fino ad arri-vare in cima. Arrivarono dove si trovava la sorella, tra sputi e deiezioni di ogni genere. La raccolsero, la ri-portarono all 'accampamento, la lavarono e le tolsero

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le spine. Poi presero il suo cammello, vi caricarono il suo palanchino delle grandi occasioni, vi collocarono delle coperte e uno splendido cuscino, dopodiché se ne andarono. Abbandonarono così queste donne che avevano gettato la loro sorella in un nido di avvoltoi.

Cammina, cammina, giunsero a un pozzo profon-do. Fecero arrestare il cammello della sorella col suo bel palanchino e si apprestarono a dar da bere alle cavalcature. Ma, appena calato il recipiente per at-tingere l 'acqua dal pozzo, qualche cosa lo afferrò e lo trattenne sul fondo. Essi gridarono: «Qualunque co-sa tu sia, lascia andare il secchiello e ti daremo cento cammelle».

«Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» «Qualunque cosa tu sia, lascia andare il nos t ro

secchiello e ti daremo cento vacche.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» «Qualunque cosa tu sia, lascia andare il nos t ro

secchiello e ti daremo cento capre.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» «Qualunque cosa tu sia, lascia andare i l nos t ro

secchiello e ti daremo cento pecore.» «Io ne ho ben più di voi, e Dio ne ha più ancora!» «Qualunque cosa tu sia, lascia andare il nos t ro

secchiello e ti daremo Teylalen e il suo cammello.» Allora la cosa lasciò andare il recipiente ed essi

poterono dar da bere al bestiame. Dissero però ai lo-ro servitori: «Abbeverate gli animali, e quando avre-mo finito ce ne andremo via portando con noi Teyla-len e il suo cammello. Non la daremo certo a quella stupida cosa che sta in fondo al pozzo».

Così, finito che ebbero di abbeverare il bestiame, diedero il segnale di partenza e dissero alla sorella: «Teylalen, fa' alzare il tuo cammello!». Ma quando essa cercò di far lo r ialzare, esso si r i f iutò. Lei lo batté, lo batté fino a stancarsi, ma lui continuò a ri-

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fiutarsi. Arrivarono i fratelli e lo percossero così for-te da fargli mordere il fianco dal dolore, ma egli con-t inuò a rifiutare di alzarsi. Essi cominciarono ad av-viarsi, ma avevano fa t to pochi passi che Teylalen cantò loro: «Khaydara, Minjolo, ve ne andate, mi ab-bandona t e qui!». Allora t o rna rono indietro e pic-chiarono il cammello, lo picchiarono tanto da stan-carsi, dopodiché provarono di nuovo ad avviarsi, ma anche questa volta udirono alle spalle la sorella che cantava rivolta a loro: «Khaydara, Minjolo, ve ne an-date, mi abbandonate qui!». Tornarono di nuovo e questa volta r idussero il cammello a mal part i to a furia di botte. Loro si stancarono di suonargliele, ma lui rifiutò di alzarsi. Cercarono di tirare via la sorella dal palanchino, ma ebbero un bel tirare: rischiarono di farla a pezzi ma non riuscirono a strapparla dalla groppa del cammello. Era colpa di quella cosa appo-stata in fondo al pozzo, che era un jinn e che la trat-teneva: aveva af fer ra to un piede di Teylalen e u n a zampa del cammello e li teneva stretti. Per farla bre-ve, dopo un po', nonostante i suoi richiami, dovette-ro abbandonar la lì. La ragazza cont inuò a ripetere fino allo stremo: «Khaydara, Minjolo, ve ne andate, mi abbandonate qui!». Ma essi ormai se n'erano an-dati lontano.

Arrivati in un luogo, decisero di fermarsi e di non muoversi più. Si gettarono a terra e piansero. Le cam-melle cessarono di brucare, cessarono di defecare, cessarono di fare rumore, non si nutr irono più. Tutto il loro bestiame cessò di pascolare. Avevano uno schiavo, e anche lui si gettò a terra accanto a loro.

Intanto, la cosa che stava in fondo al pozzo disse a Teylalen: «Chiudi bene gli occhi che esco dal poz-zo!». Essa chiuse per bene gli occhi, e allora egli ven-ne fuor i dal pozzo e le disse: «Puoi riaprirli: sono uscito». Essa aprì gli occhi e vide... cosa vide! Pensa-

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te un po': un jinn sporco e pelosissimo che dal pozzo le veniva incontro. Prese il cammello per il morso, lo fece alzare e si incamminò tenendolo così.

Il jinn portò con sé la ragazza e avanzò a lungo te-nendo il cammello al passo finché giunsero in una pianura vastissima. Qui egli le disse: «Guarda, tu che sei giovane e ci vedi bene, guarda in questa pianura e dimmi che cosa vedi. Guarda, guarda. Cosa vedi?».

«Vedo una tenda di tela circondata da piccoli di cammello.»

«La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo una tenda di pelli di mucca circondata da

vitelli.» «La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo una tenda di stuoie circondata da agnelli.» «La nostra è meglio!» Proseguirono ancora per un po', quindi lui le chie-

se: «Guarda, guarda. Cosa vedi?». «Vedo u n a tenda di pelli di capra c i rcondata da

capretti.» «La nostra è meglio! Guarda, guarda. Cosa vedi?» «Vedo una tenda di corteccia con vicino una ca-

gna zoppa e con un occhio solo.» «È la nostra. Avanti, dirigiamoci là!» E così fecero: arr ivarono quindi a questa tenda.

Quando furono giunti, il jinn disse a Teylalen: «Chiu-di gli occhi che faccio fe rmare il cammello». Essa chiuse gli occhi ed egli fece fermare il cammello.

Il jinn le ordinò: «Entra!». La ragazza entrò e si ac-corse che le cortecce racchiudevano al loro interno intere contrade, numerose e ampie. Vi si installarono, e quando anche la ragazza si fu sistemata, poco pri-ma dell'alba del giorno dopo, il jinn partì per la cac-cia. Bisogna sapere che il jinn dava la caccia agli esse-ri umani con l'intenzione di cibarsene. Gira e rigira, pr ima di sera uccise un uomo, lo portò a casa, lo cu-

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cinò, ne mangiò e ne diede da mangiare alla ragazza. Andò a caccia anche la notte successiva. Fu allora che Teylalen fu avvicinata da una donna, un'artigiana, che le disse: «Ehi, tu, chi ti ha portata qui?».

«Nient'altro che la stupidità dei miei fratelli mag-giori. Eravamo arrivati a un pozzo e qualcosa ha af-ferrato il secchiello che avevano calato per prendere l 'acqua. Per liberarlo gli offr irono tante cose, e alla fine fecero il mio nome. Così la cosa lasciò andare il recipiente. Liberato il secchiello e abbeverati gli ani-mali, il mio cammello si è r i f iutato di alzarsi, e io stessa non sono riuscita a s taccarmi da lui. I miei fratelli si misero a dargliele, e lo suonarono di santa ragione, fino a stancarsene. Ma alla fine, stufi, fini-rono per andarsene.»

«Va bene» disse la donna. «Però, questa cosa, que-sto jinn, se una sera dovesse ritrovarsi senza nulla da mangiare , mangerebbe te! Tuttavia posso dart i un consiglio che ti consentirà di scappartene via, se lo seguirai.»

«Dammelo!» «Prendi il tuo cammello, mettigli il palanchino e

vattene.» «D'accordo.» La donna la pettinò, la tinse con l 'henné ed essa

potè partire. Prima però le fece questa raccomanda-zione: «Se dovessi vedere la cosa che ti sta raggiun-gendo, devi dire: "O ragno, ricordati la nostra passa-ta amicizia e costruiscimi un riparo con la tua tela". Quando il ragno ti avrà lasciata libera, rivolgi la stes-sa richiesta all'albero di henné».

«D'accordo.» «Mi spiace di non potert i accompagnare , ma ri-

schierei di far scoprire le mie tracce.» E così la ragazza se ne andò. Prese il suo cammello,

vi montò sopra e partì. Cammina, cammina, mentre

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lei si allontanava, il jinn rientrò e chiese: «Dov e Teyla-len?».

«Non sapp iamo dove sia anda ta . L'ultima volta che l 'abbiamo vista era nella sua tenda.»

«Adesso, quando la ritrovo, la divoro senza nean-che lasciar cadere un osso a terra.»

E partì all 'inseguimento. Cerca che ti cerca, alla fi-ne la vide. Ma quando le fu vicino, essa disse: «O ra-gno, ricordati la nostra passata amicizia e costruisci-mi un riparo con la tua tela». Il ragno le costruì un riparo ed essa scomparve agli occhi del jinn.

Questi continuò la ricerca fino a stancarsi. Lei at-tese ancora un po' dopo che lui se n 'era andato , quindi disse: «O ragno, r icordati la nostra passata amicizia e liberami». E il ragno la lasciò andare. Lei continuò nella sua fuga, ma a un certo punto il jinn si voltò, la vide e r iprese a inseguirla. Ancora una volta, però, quando se lo vide vicino, implorò: «O al-bero di henné, ricordati la nostra passata amicizia e cos t ruisc imi un r ipa ro coi tuoi rami». L'albero di henné le fornì un r iparo coi suoi rami , e il jinn la perse nuovamente di vista.

Ebbe un bel cercare, ma quando si fu stancato sen-za averla trovata, dovette tornare indietro. Quand'era già da un po' sulla via del ritorno, si voltò e la vide di nuovo. Allora essa disse: «Albero di henné, lasciami andare; ragno, lasciami andare; e tu, cammello ele-gante come uno struzzo, ricordati della nostra passa-ta amicizia, salta con me nel fiume: dal giorno in cui sei nato, ti ho lasciato libero di farti allattare da tua madre, che Dio mi punisca se ti ho mai fatto soffrire la fame privandoti del suo latte, anche quando mun-gevano le altre cammelle». Allora il cammello simile a uno struzzo lanciò tre forti bramiti, quindi prese la rincorsa e si tuffò nel fiume, emettendo altri bramiti.

E tu, jinn? Anche tu hai cercato di far tuffare nel

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fiume il tuo cavallo, ma esso ci è caduto dentro e il f iume lo ha portato via.

A questo punto il cammello di Teylalen lanciò an-cora un bramito, e questa volta lo udì lo schiavo di Khaydara, uno dei fratelli della ragazza, il quale cor-se ad annunciare : «Minjolo, Khaydara , ho senti to bramire il cammello di vostra sorella!».

«Tu menti! Perché ci ricordi questi tristi fatti?» E si avventarono su di lui pestandolo di santa ragione fino a farlo finire per terra. Poi tornarono a coricar-si. Ma dopo un po' egli tornò a dir loro: «Fatemi quel che vi pare, uccidetemi o lasciatemi in vita, ma io sento bramire il cammello di vostra sorella».

E anche questa volta essi si avventarono su di lui pestandolo di santa ragione fino a stancarsi. Lo la-sciarono più morto che vivo e tornarono a stendersi dov'erano prima, quando arrivò fino lì il terzo bra-mito del cammello.

Come lo udirono, le cammelle si misero a brami-re, ripresero a urinare e a far rumore. Anche i fratel-li udirono questo grido e andarono incontro al cam-mello. Di corsa arrivarono al cammello, su cui stava Teylalen col suo palanchino. Furono contenti da im-pazzire. Condussero poi con loro il cammel lo e, giunti all 'accampamento, la fecero scendere e siste-mare. E lì si sistemarono anch'essi.

Il racconto se n'è andato , è Musa che l 'ha fa t to fuggire, mentre Senji lo precede.

4 . KHAYATAN, LA F A N C I U L L A V E N D U T A DAI F R A T E L L I A UN JINN

Questa è la storia di due uomini che vendettero a un jinn la loro sorella.

C'erano due uomini che avevano una sorella di no-

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me Khayatan . Gli ann i passavano; la ragazza ora aveva un 'e tà che le consent iva di m o n t a r e un bel cammello, con una sella pregiata di Mauritania, di avere un bel corredo, ogni genere di o rnamen to e splendide vesti.

Un giorno ar r ivarono a un pozzo. Ma in questo pozzo vi era un jinn che ne custodiva le acque. Vi ca-larono un recipiente e lo stavano già rit irando pieno d'acqua quando il jinn lo afferrò senza lasciarlo più risalire. Lo implorarono: «Lascia libero il secchio e ti daremo un cammello.. . , ti daremo questo..., ti da-remo quello...». Ma qualunque cosa gli nominasse-ro, egli la rifiutava, f ino a quando giunsero a pro-mettergli una fanciulla. Gli dissero: «... ti da remo una fanciul la bell issima». Nelle loro intenzioni si trattava di un trucco. Ma anche il jinn era un tipo sveglio. E, lanciando un 'occhia ta di sbieco, lasciò andare il secchio.

La fanciulla aveva fatto sosta col suo cammello a poca distanza dal pozzo, e il jinn, facendo passare le sue unghiacce attraverso la terra, arrivò ad artigliare il ventre del cammello. Non so bene in che modo, sta di fatto che riuscì ad artigliare anche la fanciulla, la quale rimase come inchiodata alla sella mentre i fra-telli facevano abbeverare tutto il loro bestiame.

A un certo punto, le dissero: «Khayatan, fa' voltare dall'altra parte il cammello, in modo che possa abbe-verarsi anche lui». Essa cercò di farlo girare, ma sen-za riuscirci. Cercò allora di farlo alzare, ma anche questo invano.

Le dissero allora: «E tu, che hai? Su, scendi di sel-la!», ma lei stessa non fu più in grado di scendere dal cammello. Cercarono di fare alzare l 'animale con lei in groppa, ma senza riuscirci. Cercarono di t irarla giù a forza: macché, niente da fare. Ogni tentativo di far qualcosa andò a vuoto.

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Io credo che l'unico modo di trarsi d'impiccio sa-rebbe stato lo "stratagemma della spada". È un truc-co che si adot ta cont ro i jinn e va eseguito con la spada: si t ra t ta di far la passare sotto la panc ia dell'animale bloccato. Se, per esempio, un animale è stato bloccato durante l 'abbeverata, dicono che per liberarlo si debba dare un colpo con la spada tra le zampe dell'animale. I jinn, infatti, non amano affat-to le spade: le spade e, in generale, qualunque ogget-to di ferro.

Dicevamo, dunque, che, per quanti tentativi faces-sero, non sortivano alcun risultato. Così dovettero arrendersi e si accinsero ad andarsene, abbandonan-do la sorella, che intanto si era messa a lanciare gri-da strazianti.

A nessuno di loro venne in mente di ricorrere allo stratagemma che ho detto, che consiste nel far pas-sare una spada sotto la pancia del cammello. La spa-da è proprio un ottimo rimedio contro i jinn.

Comunque sia, visto che tutto era stato vano, la la-sciarono e se ne andarono, mentre lei continuava a gridare.

Quando i fratelli fu rono fuori dalla loro vista, il jinn balzò fuori dal pozzo e disse a Khayatan: «Cosa preferisci: che io ti tenga con me come una figlia o che ti mangi?».

«Preferisco che tu mi faccia da padre.» E così il jinn la prese, la spostò, mettendola sulla

testa del cammello, e prese il suo posto sulla sella pregiata di Mauritania, su cui si pose rigido e impac-ciato.

Partirono, quindi, e proseguirono per un po'. A un certo punto il jinn disse alla ragazza: «Guarda, guar-da, cosa vedi?».

«Vedo una tenda molto, molto bella, ricoperta di

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splendide coperte e at torniata da giovani cammelli dal pelame bicolore.»

«La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'al-

tra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo una tenda molto, molto bella, bianca, attor-

niata da giovani torelli.» «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'al-

tra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo una tenda molto bella, attorniata da agnelli. » «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'al-

tra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo una tenda molto bella, a t tornia ta da ca-

pretti.» «La nostra è ancora più bella.» Cammina, cammina, dopo un po' giunsero in un'al-

tra località, ancora più distante. «Guarda, guarda, cosa vedi?» «Vedo una tenda molto, molto brutta, rivestita di

pezzi di corteccia e vicino alla quale si aggira una ca-gna più morta che viva, con gli intestini che strasci-cano per terra.»

«È la nostra, è proprio la nostra!» Si diressero quindi verso la tenda, e vi entrarono.

La ragazza aveva pau ra del jinn, che non le aveva detto cosa la attendeva.

Lasciamo i due a questo punto, e vediamo che co-sa era accaduto ai fratelli della ragazza. Essi erano tornati al pozzo, ma non avevano trovato nessuno, nemmeno una traccia. Niente di niente. Provarono a chiedere in giro, ma nessuno li aveva visti partire.

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Cerca di qua, cerca di là, alla fine pensarono che la sorella non fosse più in vita.

Passarono gli anni. Un giorno, alcune mucche di loro proprietà si trovarono a passare vicino alla ra-gazza. Essa ne fermò una, si tolse l'anello e glielo in-filò in un corno.

Quando la mucca fu di ritorno, i fratelli la munse-ro, e al termine dell'operazione si avvidero dell'anel-lo. Capirono così che Khayatan era ancora viva, e si misero di nuovo alla sua ricerca. Uno di essi partì in sella a uno splendido cammello nero, di nome En-gal, in compagnia di uno schiavo negro che montava una giumenta.

Lungo la strada, a un certo punto, giunsero in una località dove vi era un accampamento. Il padrone si rivolse ai suoi abitanti: «Io ho questo cammello, ho questo schiavo negro, questa sella da cammello, que-sta sella da cavallo, questo sacco di pelle, questa ba-cinella, questo scudiscio, queste briglie...» e così di-cendo enumerò loro tu t to quello che aveva, senza dimenticarsi nulla, e concluse: «Cosa può esserci di più bello al mondo?».

«Tutte queste cose sono veramente splendide, ma quanto a bellezza vi batte una fanciulla che è passata di qui dieci anni fa.»

Proseguirono allora il viaggio, e quando fu rono più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal f ino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse ai suoi abi tant i : «Io ho questo, ques to e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?».

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E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui nove anni fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal f ino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse ai suoi abitanti: «Io ho questo cammello, que-sto cavallo, ques to schiavo negro, questa sella da cammello, questa sella da cavallo, questa bacinella, e così via: cosa può esserci di più bello al mondo?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui otto anni fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando f u r o n o più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal f ino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

Cammina, cammina, quando giunsero in una loca-lità dove vi era un accampamento, il padrone si rivol-se ai suoi abitanti: «Io ho questa sella da cammello, questo cavallo, questo schiavo negro, e inoltre ci sono io stesso: cosa può esserci di più bello al mondo?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-

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lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui sette anni fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando fu rono più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

(E così via, sempre d iminuendo gli anni: sapete come vanno le cose nei racconti, è tutta questione di fantasia.)

Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse come sempre ai suoi abitanti: «Io ho questo, questo e quest 'altro». (Io penso che fosse un espe-diente per o t tenere informazioni . ) «Io ho questo cammello , ques to cavallo, questo schiavo, ques ta splendida sella, e così via: cosa può esserci di più bello al mondo?»

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui tre anni fa». (...)

Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse ai suoi abi tant i : «Io ho questo, questo e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui un anno fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando fu rono più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo

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aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal f ino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse ancora ai suoi abitanti: «Io ho questo, questo e quest'altro: cosa può esserci di più bello al mondo?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui nove mesi fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando fu rono più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal f ino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

( . . .) Cammina, cammina, quando giunsero in una lo-

calità dove vi era un accampamento, il padrone si ri-volse ai suoi abitanti: «Io ho questo cavallo, questo cammello, questo schiavo, poi ci sono io stesso, e inoltre questa sacca, questa bacinella, e così via: co-sa può esserci di più bello al mondo?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste cose sono veramente splendide, ma quanto a bel-lezza vi batte una fanciulla che è passata di qui tre mesi fa».

Proseguirono allora il viaggio, e quando fu rono più distanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?».

Cammina, cammina, giunsero a un accampamen-to, e di nuovo il padrone si rivolse ai suoi abitanti, chiedendo che cosa ci fosse al mondo di meglio di

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tutte le sue proprietà, del suo schiavo, di lui stesso e di tutto il suo equipaggiamento.

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste vostre cose sono veramente splendide, ma quan-to a bellezza vi batte una fanciulla che è passata di qui due mesi fa».

Più avanti, il padrone disse: «O Khayatan, Khaya-tan, dove sarà adesso, con le sue belle labbra messe sempre in risalto dal nero antimonio?». E lo schiavo aggiunse: «Perché non fare pascolare Engal fino a fargli riempire ben bene la gobba per poi andare in cerca del paese in cui si trova Khayatan?».

Cammina, cammina, alla fine la raggiunsero, tro-varono l 'accampamento in cui si trovava Khayatan. Era pomeriggio inoltrato, ed essa aveva appena fini-to di farsi fare la treccia. Quando furono all'accam-pamento, il fratello chiese agli abitanti: «Io ho un ca-vallo, uno schiavo, una sella da cavallo, una sella da cammello, una sacca di pelle, poi ci sono io stesso. Ora, viste tutte queste mie cose, che cosa può esserci di più bello?».

E la gente dell 'accampamento rispose: «Tutte que-ste vostre cose sono veramente splendide, ma quan-to a bellezza vi bat te una fanciulla che è stata qui questo pomeriggio a farsi fare la treccia». A questo punto, si fecero dire con precisione dove avrebbero potuto trovare la ragazza, e quando l'ebbero saputo, vi si diressero. Trovandosi a poca distanza, nascose-ro le loro cavalcature - la giumenta e il cammello -presso questa gente, e proseguirono a piedi.

Quando giunsero da lei, la trovarono sola, dal mo-mento che il jinn non era nella tenda. Essa li nascose sotto il letto, ed essi rimasero così, distesi. A sera il jinn fece ritorno e mise a cuocere la carne che aveva procurato . Si t rat tava - credo - di selvaggina, una

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gazzella o qualcosa del genere. Aveva fatto un giro a controllare le tagliole.

Ora, mentre i due erano sempre stesi sotto il letto, il jinn fece cuocere la carne, e poi la diede a Khaya-tan. Costei, s tando seduta sul letto sotto il quale si trovavano i due uomini, ne approfittò per dare loro da mangiare . Finito che ebbero, le res t i tu i rono il piat to vuoto, e lei lo rese al jinn. Questi le chiese: «Non sei ancora sazia?».

«No, non sono sazia.» Allora gliene diede ancora una porzione, ed essa

la passò ai due sotto al letto. Questa volta essi le fe-cero capire di essere sazi. Naturalmente esprimen-dosi a gesti, perché non potevano parlare.

Mangiò anche lei e si saziò, dopo aver da to da mangiare ai due, poi andarono a coricarsi. Mentre Khayatan e il jinn dormivano, i due sotto il letto co-minciarono a fare delle cose audaci, al limite dell'in-coscienza. Dal momento che il jinn era vicinissimo a loro, e a momenti li toccava, essi presero a pungerlo con un punteruolo. Se ne stavano sotto il letto, men-tre il jinn si contorceva sul letto.

«Ohimè, misericordia! Questa notte nel letto c'è una formica, sì, proprio una formica. »

E in tanto quei due cont inuavano a to rmentar lo col punteruolo. Lo pungevano e lui si contorceva sul letto. «Questa notte nel letto c'è una formica, eh sì, dev'esserci proprio una formica.»

Alle p r ime luci dell 'alba (il sole non era ancora sorto), la ragazza gli chiese:

«Babbo...» «Sì?» «Mi saprest i dire dove si trova la tua an ima, in

modo che io possa mettervi anche la mia?» «La mia anima. . . Dunque, devi cercare la gazzella

dal dorso infossato e con un corno solo. Poi prendi

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un bastone, colpisci il corno con il bas tone f ino a farlo cadere, e quindi raccogli il sacchetto che vi tro-verai dentro. In questo sacchetto ce n'è un altro, in questo ce n'è un altro ancora, che ne contiene un al-tro, e così via fino al decimo sacchetto. Nel decimo ci sarà una scatolina, e questa scatolina ne contiene un'altra, in cui ve n'è un'altra ancora, e così via fino alla decima. La decima scatolina contiene un capello bruno: in esso è racchiusa la mia anima.»

Allora la fanciulla prese un bastone, andò in cerca della gazzella dal dorso infossato e con un corno so-lo, la trovò e la prese. Slegò uno per uno i sacchetti e ogni volta che ne apriva uno ne trovava un altro, fin-ché fu giunta al decimo, che conteneva una scatoli-na. Ma non era una scatolina sola: ce n'erano parec-chie. Ogni volta che ne apriva una , ne trovava un'altra al suo interno. Arrivata alla decima, vi trovò dentro il capello bruno. Lo prese e lo portò con sé fi-no all 'accampamento.

Qui giunta, vide che il jinn quel giorno non era an-cora uscito, e lo chiamò: «Babbo...».

«Sì?» Essa strappò il capello ed egli si accasciò a terra.

Aveva tirato le cuoia.

5. A Y O R E T A Y O R T

Si racconta che c'era un uomo che si ferì a un ginoc-chio mentre tagliava un ramo di una pianta per dar-lo da mangiare alle capre. Si spezzò così la rotula e ne fuoriuscirono due uova, che egli si affrettò a rac-cogliere e a depor re in un lembo r ipiegato della stuoia principale della sua tenda.

A partire da quel momento, quando gli capitava di lasciare legati dei capretti, li ritrovava dopo un po'

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slegati; quando invece li lasciava liberi insieme alle loro madri, al suo ritorno li trovava legati. La cosa si ripetè una, due, diverse volte: lasciava i capretti lega-ti e li ritrovava slegati; li lasciava liberi insieme alle madri e al ri torno li trovava legati...

Provò allora a guardare nella piega della stuoia, e vi trovò due bambin i così piccoli da poter s tare all'interno di questo lembo ripiegato. Li tirò fuori e li depose a terra. Ed essi partirono.

Per s trada incontrarono una persona che chiese loro:

«Dov'è vostra madre?» «Se n'è andata dove la terra è bucata per farvi un

rammendo.» «E dov'è vostro padre?» «È andato dove il cielo sta crollando per metterci

dei puntelli.» Dopodiché proseguirono il cammino. Si chiama-

vano Ayor e Tayort. Strada facendo si imbatterono in una pozza di ori-

na di gazzella. Ayor si disse che non avrebbe prose-guito senza bere da quella pozza. E così - attenti be-ne a quello che accadde - depose lì accanto le sue frecce, e dopo un po' disse alla sorella: «Tayort, ho diment icato le mie frecce vicino a quella pozza di orina. Sì, le ho proprio dimenticate laggiù».

«Lascia, te le vado a prendere io.» «No, no, le vado a prendere io.» «Lascia, vado io.» Alla fine fu lui che tornò indietro, e potè bere alla

pozza di orina. Ma in seguito a ciò subì una trasfor-mazione: divenne metà uomo e metà gazzella. Eh sì, Tayort dovette proseguire il cammino portando con sé questa mezza gazzella.

A un certo punto giunse dove si trovavano delle vecchie che coglievano spighe di wajjag, e chiese lo-

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ro: «Mi sapete dire come si fa a separare un uomo da una gazzella?».

«Certo che lo sappiamo.» E, preso un pesante pestello per il miglio, assesta-

rono un colpo che fece andare l 'uomo da una parte e la gazzella dall'altra.

La fanciulla potè così continuare il suo cammino f inché giunsero al palmizio del sul tano di Agadez. Arrampicatisi su una palma, si divertivano a tirare giù i datteri: quelli ancora verdi sulle guardie, quelli maturi sulla testa del sultano.

«Se siete degli uccelli, volate via; se siete degli uo-mini, venite giù! Se avete sete, berrete; se avete fa-me, mangerete.»

E Tayort rispose: «Abbiamo sete, abbiamo fame; abbiamo sete, abbiamo fame».

«Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete una sopravveste.» E

le diedero una sopravveste. «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete una camicia.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete una gonna.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete il resto dell'abbiglia-

mento.» «Scendi, Tayort!» «Scenderò solo se mi darete dei sandali.» Le diedero tutto quello che aveva chiesto, ed essa

scese dalla palma. «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei pantaloni.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete una camicia.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete un turbante col velo.»

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«Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei sandali.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete una spada.» «Scendi, Ayor!» «Scenderò solo se mi darete dei pantaloni.» Alla fine scesero tutti e due. Il sultano, quando fu

al cospetto di Tayort, ne rimase molto colpito. Egli era già sposato con Janegerfadan, e tuttavia, quando vide Tayort, si disse che in tu t ta la vita non aveva mai visto una donna più bella di lei. E così la sposò.

Da allora in poi, Tayort prese l 'abitudine di sco-prirsi il bel seno quando era il momento di mungere le cammelle. Le dicevano: «Tayort, fa' risplendere il tuo bel seno!». E anche il sultano ripeteva: «Tayort, fa' risplendere il tuo bel seno in modo da facilitare la mungitura!». Allora essa si scopriva il seno e le cam-melle si lasciavano munge re volentieri . Al vedere ciò, il suo gemello Ayor andava a raccogliere la schiuma del latte e se la beveva.

Le cose andarono avanti così per un bel po', ma un giorno la co-sposa di Tayort la prese da parte e le disse: «Tayort, vieni: andiamo a bagnarci nello stagno».

«No, non vado allo stagno. Io il bagno lo faccio nel latte.»

«Suvvia, solo una risciacquata!» «Ma io non voglio andarci a piedi.» «Ti porterò sulla schiena.» «Non voglio scottarmi al sole.» «Prowederò anche a farti ombra.» E così se la prese sulla schiena, la coprì perché

non prendesse sole, e la portò fino allo stagno. Qui giunte, si svestirono per entrare nell'acqua. Janeger-fadan aveva deposto Tayort sulla riva dello stagno dalla parte dove l 'acqua era più profonda, dopodiché cominciò a spingerla un po' più in là, sempre più in

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là, dicendole: «Su, dai, fatti più in là, c'è ancora spa-zio tra qui e l'acqua». E così, scivolando sempre più verso lo stagno, a un tratto, pluff, Tayort finì nell'ac-qua profonda. A questo punto l'altra prese un grosso macigno e glielo fece cadere sopra, proprio là dove essa era scivolata in acqua.

Ciò fatto, ripartì e se ne tornò all 'accampamento rivestita degli abiti di Tayort. E quando, scambian-dola per la co-sposa, le dissero: «Tayort, fa' risplen-dere il tuo bel seno!» le cammelle invece di dare latte diedero del pus. E quando Ayor venne per raccoglie-re la schiuma, essa lo batté col mestolo. Allora egli si disse: "Costei non è Tayort, no di certo".

La matt ina dopo andò allo stagno e si mise a can-tilenare: «Tayort, Tayort, mia Tayort!».

Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'ac-qua mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!».

Tornato a l l ' accampamento , diede l 'al larme: «Tayort è nello stagno! Tayort è nello stagno!». Gli ri-sposero: «Se quello che dici è u n a menzogna , ti sgozzeremo con questo pugnale. Ti faremo la pelle».

Si fece quindi accompagnare dalla gente dell'ac-campamento , e con loro vennero capre, cammelli , asini, mucche e ogni possibile essere vivente in gra-do di ingollare acqua, di bere e di muoversi. Ogni es-sere vivente venne con loro. Bevvero tutti insieme l 'acqua di quello s tagno e ne svuotarono la metà . Ayor se ne stava un po' al di sopra e cant i lenava: «Tayort, Tayort, mia Tayort!».

Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'ac-qua mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!».

Alcuni la udirono, altri no. Di nuovo egli cantò: «Tayort, Tayort, mia Tayort!».

Essa rispose: «Ayor, Ayor, mio Ayor! Se parlo l'ac-qua mi affogherà; se taccio ti spezzerò il cuore!».

Questa volta tutti la udirono.

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Si fece allora avanti un ariete e disse: «Se mi la-sciate fare una bella succhiata del latte di mia madre fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della madre fino a farsi sgocciolare la schiuma dal muso. Lanciò quindi un grido, prese la r incorsa , par t ì e andò a sbattere contro il masso, ma questo non si smosse di un millimetro.

Si fece allora avanti un toro e disse: «Se mi lascia-te fare una bella succhiata del latte di mia madre fi-no a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la ti-rerò fuor i io». Succhiò quindi il latte della madre f ino a farsi sgocciolare la s ch iuma dal muso. Poi prese la r incorsa, par t ì e andò a sbat tere contro il masso, ma questo non si smosse di un millimetro.

Si fece allora avanti un cammello e disse: «Se mi lasciate fare una bella succhiata del latte di mia ma-dre fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della madre f ino a farsi sgocciolare la sch iuma dal muso . Poi partì alla carica e finì per dare un gran colpo con le zampe contro il masso, ma questo non si smosse di un millimetro.

Si fece allora avanti un caprone e disse: «Se mi la-sciate fare una bella succhiata del latte di mia madre fino a farmi sgocciolare la schiuma dal muso, ve la tirerò fuori io». Succhiò quindi il latte della madre f ino a farsi sgocciolare la sch iuma dal muso . Poi prese la rincorsa, part ì e, lanciando un gran grido, andò a sbattere contro il masso, ma questo non si smosse di un millimetro.

A questo punto si fece avanti un montone piutto-sto male in arnese e interamente ricoperto di pulci: era veramente incredibile la quanti tà di pulci che lo infestavano. I pareri furono contrastanti:

«Lasciatelo provare!»

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«Sì, fatelo provare!» «Ma no, fermatelo. Come pensate che possa farce-

la? Ci hanno già provato senza riuscirci animali ben più robusti e validi!»

«Sì, fatelo provare!» «No, fermatelo!» «Sì, fatelo provare!» Alla fine, lo fecero tentare. Succhiò quindi il latte

della madre fino a farsi sgocciolare la schiuma dal muso. Poi prese la r incorsa, par t ì e, lanciando un gran grido, andò a sbattere contro il masso, e riuscì a smuoverlo. Così Tayort fu libera. La giovane era stata salvata da quel piccolo ammasso di pulci.

Le ridiedero i suoi vestiti e le chiesero: «Cosa vuoi che facciamo a Janegerfadan?».

«Ebbene, fatela montare su un cammello cieco, le-gatela con delle funi a questo cammello cieco e fate-lo condurre da una sorda cui darete del miglio in un paniere. Attaccatela dunque al cammello!»

Così fu fatto: la legarono al cammello, diedero il miglio in un paniere alla sorda e costei, a piedi, portò il cammello in mezzo a una macchia di alberi spinosi.

«Ehi, tu!» diceva Janegerfadan. «Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine!»

«Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» E continuava imperterrita a portarla in mezzo alle

spine. «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle

spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle

spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» Vai e vai, Janegerfadan era sempre più graffiata

dalle spine; a mano a mano che si staccavano pezzi

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di carne, la sorda li raccoglieva e li metteva nel pa-niere.

«Quante volte ti devo ripetere: "Finiscila di farmi passare in mezzo alle spine"?»

«Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» E la tortura continuava. «Ehi, tu! Finiscila di farmi passare in mezzo alle

spine!» «Eh, no! Il miglio è mio. Me l'ha dato il sultano!» Quando Janegerfadan fu di ritorno, le sue carni si

erano completamente staccate dalle ossa. Non ne ri-maneva più nulla. Tutto quello che era r imasto era un mucchio di ossa spolpate. La sorda fece ri torno all 'accampamento, e poi se ne andò.

Fecero a pezzettini le sue carni, le misero in una pentola e ne diedero a Tayort. Ne mangiò anche sua madre, che trovò l'anello di Janegerfadan e scoppiò in lacrime. E pianse, pianse a dirotto, senza interru-zione.

Tayort ritrovò il marito: Janegerfadan era stata in-fine separata dal sultano.

Il racconto se ne è andato per di là; Ahalu gli bloc-ca la strada per non farlo più tornare.

6 . L A F A N C I U L L A M A L T R A T T A T A D A L P A D R E

C'era una volta una ragazza orfana di madre, che vi-veva da sola col padre. Un giorno il padre si risposò ed essa si trovò così con una matrigna, che aveva già delle figlie sue. Prima di morire, la madre della ra-gazza aveva detto alla mucca: «Corna-in-giù, mi pro-metti di prenderti cura della mia bambina?». E l'ani-male aveva risposto: «Sì!».

Il padre, pur volendole bene, la maltrattava spes-so, accecato dall 'amore per la seconda moglie. E così

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la spediva in malo m o d o a pascolare il bes t iame, mentre permetteva alle figlie della moglie di restar-sene a casa senza far nulla.

Quando si trovava nella boscaglia a pascolare, as-salita dalla fame la fanciulla chiamava: «Corna-in-giù, Corna-in-giù, la m a m m a non ti aveva detto di prenderti cura di me?» e la mucca accorreva mug-gendo, le dava da mangiare e se ne tornava insieme al resto del bestiame. Nutrita dalla mucca, la ragaz-zina faceva ritorno all 'accampamento del padre. Qui giunta, però, la matr igna e le sorellastre le davano da mangiare solo raschiatura dei piatti invece di dar-le la polenta di miglio e nutrirla come si deve. Così, quando aveva bisogno di mangiare qualcosa durante il giorno, se ne andava nella boscaglia e chiamava: «Corna-in-giù, Corna-in-giù, la m a m m a non ti aveva detto di prenderti cura di me?».

Un giorno, t rovandosi fuor i de l l ' accampamento con u n a sorellastra, le disse: «Mi p romet t i che se adesso ti faccio vedere una cosa tu non la farai sape-re in giro?».

«Va bene, non dirò nulla.» Allora chiamò la mucca. Anzi, pr ima disse: «Io ho

una mucca che, quando la chiamo, mi dà tutto quel-lo di cui ho bisogno».

«Prova a chiamarla!» «Corna-in-giù, la m a m m a non ti aveva det to di

prenderti cura di me?» La mucca accorse, e le diede del cibo, anche se in

piccola quantità, avendo notato l'altra ragazza. Dopo-diché fece dietrofront e scomparve. La ragazza offrì il cibo alla sorellastra, invitandola a mangiare. Senza farsi vedere, questa ne fece aderire un po' all'unghia.

Dopo aver trascorso tut ta la giornata al pascolo, alla fine tornarono all 'accampamento. E appena ar-rivate dai genitori, la sorellastra annunciò: «Guarda-

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te un po' di che cosa si nutre questa ragazza! Venite a vedere! Questo cibo le viene somministrato da una mucca!».

Allora quella donna , la ma t r igna della ragazza, disse al marito: «Se non ucciderai la mucca che dà da mangiare alla ragazza, non farti più vedere nella mia tenda: non mi lascerò più avvicinare da te». E così l 'uomo dovette avviarsi in cerca della mucca.

Seguì la figlia, che era andata a pascolare le capre. Quando l 'ebbe raggiunta, le disse: «Chiama la tua mucca!».

«Corna-in-giù, la m a m m a non t i aveva de t to di prenderti cura di me?»

La mucca accorse, ma quando vide l'uomo, tornò sui suoi passi, sempre correndo.

Allora il pad re le diede u n o schiaffo e r ipetè: «Chiama la tua mucca!». Fu tale la forza dello schiaffo che la ragazza svenne. Quando si riebbe, il padre ripetè: «Chiama la tua mucca!».

«Corna-in-giù, la m a m m a non ti aveva de t to di prenderti cura di me?»

La mucca accorse di buon grado, ma quando fu vicina vide l 'uomo armato di una spada e tornò di corsa sui suoi passi.

Questa volta il padre prese a percuoterla selvag-giamente, dicendole: «Chiama la tua mucca!».

La ragazza la chiamò, la mucca accorse, e quando fu vicina, il padre, con un colpo di spada, le tagliò i garretti, e, dopo averla così ferita, la finì.

La fanciulla se ne andò via in preda a un pianto di-rotto. Pensava: "Ormai per me è finita. A che prò vive-re ancora? Finora c'è stata questa mucca che mi ha nutrita, ma adesso che è morta, che ne sarà di me?".

Alla fine prese la zucca vuota in cui teneva l'ac-qua, la riempì e se ne andò lontano lontano, senza fermarsi.

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Cammina, cammina, giunse in un accampamento abitato da donne dedite alla stregoneria. Quando vi arrivò, esse erano assenti. Comunque essa pestò il miglio per fa rne polenta , p repa rò da mangia re e scopò le loro tende in attesa del loro ritorno. Quan-do furono arrivate, mangiarono, e finito di mangiare la ragazza strofinò i denti a ciascuna di loro, e quello che venne via lo raccolse sulla mano porgendolo poi loro affinché lo mangiassero.

Esse mangiarono tutto, e alla fine le dissero: «Ades-so va', incamminati verso le uova che si trovano nel tal posto, e quando ci sarai arrivata, aprile. Se un vec-chio ti sbarrasse il cammino, prendi un bastone e pic-chiaglielo sulla gamba per fargliela piegare, in modo che tu possa passare. E quando sarai arrivata, va' ver-so le uova che non ti chiameranno, e non verso quelle che ti chiameranno».

Essa seguì queste istruzioni, si mise in viaggio e q u a n d o fu arr ivata lasciò perdere le uova che la ch iamavano per dirigersi verso quelle che non la chiamavano. Ne riempì lo scialle e ripartì.

Cammina, cammina, si ritrovò in una pianura va-stissima. Qui le venne fatto di esclamare: «Fortunato colui che potesse abitare qui con degli schiavi, dei dipendenti, dei pastori e una gran quanti tà di bestia-me: uno che piantasse qui la sua tenda e si stabilisse qui, in mezzo alla pianura!».

Mentre continuava a camminare in mezzo a que-sta pianura, le cadde un uovo, che si ruppe, lascian-do fuoriuscire schiavi e cammelli. Si fermò allora a rompere tutte le altre: ruppe un uovo e ne uscirono mucche e schiavi; ne ruppe un altro e ne uscirono dei vitelli con degli schiavi che se ne occupavano; ne ruppe un terzo e ne uscirono capre e relativi schiavi; ne ruppe un quarto e ne uscì dell'argento; ne ruppe un quinto e ne uscì dell'oro; ne ruppe un sesto e ne

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uscirono cavalli e cavalieri; ne ruppe un settimo e ne uscì il suo sposo e la sua tenda; ne ruppe un ottavo e ne uscirono delle schiave. Le schiave montarono la tenda, ed essa andò a stabilirvisi con il mari to e con le sue schiave.

Quando il padre che l'aveva mal t ra t ta ta venne a conoscenza della sua nuova condizione, disse: «Oggi andrò a far visita a mia figlia. Sì, oggi andrò a far vi-sita a mia figlia». Indossò una tunica di intestini di asino, calzò sandali fatti di zoccoli di asino, si mise dei pantaloni fatti di pelle di pancia di asino e un ve-lo fatto col posteriore di un asino, dopodiché si mise in viaggio per andare a trovarla.

Quando fu da lei, essa ordinò alle schiave: «Orsù, sgozzate il toro più grosso! Sgozzatelo per mio pa-dre!». Ed esse lo sgozzarono, lo prepararono e lo cu-cinarono. Poi essa comandò a uno schiavo: «Lava mio padre!» e subito venne accontentata. Quindi gli diede una tunica di tessuto indaco di Kora, dei pan-taloni di raso, una tunica di tessuto indaco di Keykey, un velo normale, uno di tessuto indaco e un paio di sandali.

Dopodiché, gli fece servire la carne dagli schiavi, di-cendo loro: «Andate, date da mangiare a mio padre carne finché ne vuole». Gli fece mettere a disposizione splendidi letti e stuoie e gli fece servire la carne. Calza-ti dei sandali, andò essa stessa a porgergli la carne.

Il padre si mise a mangiare a quat t ro palment i . Dopo un po', la figlia gli chiese: «Padre, ci sono an-cora delle part i di carne che tu desideri per essere soddisfatto?».

Dapprima il padre rispose: «Il fegato e il cuore». Ma poi, sopraffatto dalla vergogna per il modo in cui veniva trattato da colei che tanto male da lui aveva ricevuto, esclamò: «Terra, apriti sotto di me! Terra, inghiottimi!».

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Ma la figlia intervenne: «No, terra! Non inghiotti-re mio padre!».

Dopo un po' la figlia gli chiese ancora: «Padre, ci sono ancora delle parti di carne che tu desideri per essere soddisfatto?».

«Il fegato e il cuore.» E poi: «Terra, apriti sotto di me! Terra, inghiottimi!».

«No, terra! Non inghiottire mio padre!» Passò ancora un po' e la terra cominciò a inghiot-

tirlo. Già non si sentiva più la voce del padre, in-ghiottito dalla terra, quando la figlia implorò: «Ter-ra, ti prego, lascia andare mio padre! Quando gli ho fatto quella domanda, non intendevo farlo vergogna-re del suo comportamento! Semplicemente, per es-sere soddisfatto desiderava ancora il fegato e il cuo-re del toro. Terra, lascia andare mio padre!».

La terra lasciò allora libero il padre, e la figlia si affrettò a dirgli: «Padre, quello che ti è successo non è causato dalla mia domanda. Il fatto è che da quan-do, ancora lattante, rimasi orfana e mia madre, mo-rendo, mi lasciò a te, il tuo comportamento nei miei confront i è s tato inf luenzato dal tuo amore per la tua nuova moglie, che per me era una mat r igna e non mi voleva bene; e sei arrivato al punto di uccide-re la mia mucca...».

Il padre si avviò per tornare al suo accampamen-to, e la figlia gli diede tutto quello che poteva: bestia-me e altri doni. Arrivò al pun to di fargli omaggio per f ino di alcuni schiavi. Il padre par t ì e marciò, marciò a lungo, e mentre era ancora in cammino, a un certo punto la terra lo inghiottì.

Dopo qualche tempo, la notizia che la terra aveva inghiottito suo padre giunse alle orecchie della ra-gazza, che disse: «E adesso, cosa farò? Orsù, terra, cessa di tenere mio padre nelle tue viscere!». Ma le fu risposto: «Ohibò, pensi forse che quello che fa la

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terra quando inghiotte un uomo lo possa fare senza che ne sia a conoscenza l'Onnipotente?».

Queste parole la illuminarono, ed essa si sottomi-se alla volontà divina.

Ecco, il mio racconto è finito. Riavvolgi il nastro che lo risentiamo.

7. LA F A N C I U L L A E LA M A T R I G N A CATTIVA

C'era u n a volta un u o m o che aveva una figlia. La madre della ragazza era morta, e il padre si era ben presto risposato con una donna che aveva già una fi-glia sua. Dopo che l 'ebbe sposata, costei venne ad abitare nella tenda che era stata della moglie morta. Installata così la nuova moglie, l 'uomo se ne part ì per una razzia. Era solito infatti fare razzie di muc-che. Tra le bestie che si era così procurato ce n'erano una nera, una giallo-oro e una col muso bianco.

Partendo, l 'uomo lasciò la figlia con la donna che aveva sposato e che, come si è già visto, aveva già una figlia propria. E, via il padre, questa donna ebbe in suo potere la figlia. Le dava da mangiare solo in-setti e cose disgustose; le lasciava la testa spettinata, senza farle la treccia. Quanto a sua figlia, invece, se la pettinava, le faceva la treccia, le faceva ogni gene-re di cosa piacevole, la nutriva a sazietà.

Quando le ragazze erano al pozzo, la gente diceva: «Schifo-schifo è ben pettinata, mentre Capelli-d'oro è tutta spettinata!».

Tornate a casa, la madre chiese: «Cosa hanno det-to uomini e donne?».

«Hanno detto: "Capelli-d'oro è tu t ta spet t ina ta mentre la racchia è ben pettinata!".»

La d o n n a provò allora a da r da mangia re cose buone e a pettinare per bene la figlia del marito, la-

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sciando invece spettinata la propria figlia e dandole da mangiare insetti.

Tornate che furono un'altra volta al pozzo, la gente disse: «Capelli-d'oro è ben pettinata, mentre Schifo-schifo è tutta spettinata!».

A questo punto la donna non seppe più che fare: la sua mente era obnubilata. Alla fine decise di ricorre-re a un sortilegio in conseguenza del quale la figlia-stra perse la ragione e andò a vivere in un branco di gazzelle.

La matrigna prese un mortaio e un pestello e andò a seppellirli in modo da simulare una tomba, affin-ché il padre, al suo ritorno, credesse che la figlia era morta.

Essa aveva una cagna, chiamata Rosicchia-midol-lo. Quando passò il branco di gazzelle tra le quali vi era la ragazza, la cagna corse verso di loro cercando di riprenderla. Ma costei prese a cantare:

Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana Un'altra ha il muso bianco

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tan-gangana E un'altra è giallo-oro tan-gangana.

La cagna fece al lora r i torno a l l ' accampamento . L'indomani la cosa si ripetè. Quando passò il branco di gazzelle, la donna incitò la cagna: «Su, su, Rosic-chia-midollo, guarda le gazzelle!». La cagna raggiun-se la ragazza trasformata in gazzella e cercò di affer-rarla, ma essa tornò a cantare:

Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana.

La cosa si ripetè anche il giorno successivo: la ra-gazza passò ancora lì vicino, la cagna le corse incon-tro cercando di afferrarla, ma la fanciulla le cantò:

Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana

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Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana.

Quando finalmente il padre della fanciulla fu di ri-torno, chiese: «Dov'è la ragazza?».

«Ahimè, Allah è grande, che Dio abbia pietà di lei! Essa è morta. È proprio morta. Questo è il luogo do-ve giace.» E mostrandogli il luogo in cui aveva sepol-to mortaio e pestello, ripetè: «È qui che giace».

L'uomo si sedette lì accanto, e proprio in quella passarono di lì le gazzelle. E anche allora la cagna si mise a correre, cercando di afferrare la ragazza, la quale le cantò:

Va', va', va', Rosicchia-midollo, tan-gangana Non credermi gazzella tan-gangana È stata la moglie del babbo tan-gangana Che mi ha così ridotta tan-gangana

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Mentre lui era via per far razzia tan-gangana Per far razzia di mucche tan-gangana Una è nera tan-gangana E quella nera è mia tan-gangana E quella giallo-oro è mia tan-gangana E quella dal muso bianco è mia tan-gangana.

Il padre udì tutto. Si alzò, andò dalla donna e glie-le suonò di santa ragione. Quindi scacciò lei e la fi-glia e le lasciò sole nella steppa.

Eresse quindi una tenda bellissima. La rivestì di coperte. Vi collocò dei letti e della mobilia bellissi-ma. Vi fece bruciare dell'incenso profumato.

Andò quindi verso il branco di gazzelle, lo aggirò e lo sospinse verso la tenda. Sapete com'è la na tu ra

u m a n a . Quando la ragazza passò vicino a questa tenda così bella non resistette alla tentazione di en-trarvi per vedere che cosa vi fosse celato all'interno. E quando fu dentro, prese ad aggirarsi rapita tra tut-ti questi mobili così belli. Così il padre riuscì ad af-ferrarla e, una volta che l'ebbe presa, le potè tagliare

il pelo di gazzella che le era cresciuto nel frat tempo su tut to il corpo. La rese nuovamente presentabile ed essa ridiventò bella come un tempo.

Il racconto si ferma qui, Dominique. È finito. Lo ha scacciato Katia.

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8 . K U T Y A N G A , I L F R A T E L L I N O A S T U T O E LA V E C C H I A JINNIYA

Si racconta che c'era una volta una donna. Uno dopo l'altro, essa aveva messo al mondo sette figli. Ma ogni volta che ne partoriva uno, arrivava una jinniya che si portava via il neonato. Finalmente ne nacque uno che non venne portato via. Si chiamava Kutyanga.

La jinniya si era por ta ta via, dunque, tutt i i fan-ciulli, e li aveva radunat i tutti in un posto, con l'in-tenzione di sgozzarli. Ma proprio il giorno in cui in-tendeva sgozzarli, il loro fratellino chiese alla madre notizie dei fratelli.

«Tu hai dei fratelli maggiori, ma se li è portati via tutti una jinniya.»

Il ragazzo, che aveva una capretta di nome Abla, disse alla madre: «Per favore, mamma, non mi sgoz-zare Abla, perché è con lei che andrò alla ricerca dei miei fratelli maggiori».

Attese quindi che la capra fosse cresciuta. E quan-do fu cresciuta, partì a cavallo della capra e raggiun-se il luogo in cui si trovavano i suoi fratelli. Nascose quindi la capra e prese ad aggirarsi nei dintorni, at-tendendo che si preparassero a dormire. Fu solo al-lora che si avvicinò, quatto quatto.

La vecchia jinniya che li aveva rapiti li aveva dati in moglie alle proprie figlie, che erano pari a lei in perfidia. Approfi t tando del fat to che la jinniya era andata a raccogliere fascine di legna con l'intenzione di sgozzarli e cucinarseli, il ragazzino si intrufolò da loro e li avvertì: «Questa notte, proponete alle vostre mogli uno scambio di indumenti».

E così fecero: proposero alle mogli di scambiarsi gli indumenti, ed esse accettarono.

Calata la notte, la jinniya si avvicinò di soppiatto. Al suo arrivo, le mogli si erano già coperte il volto

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col velo degli uomini ment re gli uomini avevano i fianchi cinti con la sopravveste delle donne. Sollevò la parte inferiore del velo (ricordiamoci che tutte le donne, avendo messo il velo dei mariti, sembravano degli uomini), sgozzò col suo coltello quelli che cre-deva degli uomini e uscì. Passò da una tenda all'altra finché non ebbe sgozzato sette persone.

Quando la vide uscire per cercare altra legna, Kutyanga andò a ridestare e far fuggire i fratelli. La vecchia, credendo di sgozzare i giovani rapiti, aveva invece sgozzato le proprie figlie mentre questi ultimi erano rimasti incolumi.

Essa aveva anche un'altra figlia, non maritata, alla quale disse: «Domattina all'alba va' a destare le tue sorelle che stanno dormendo accanto ai cadaveri dei mariti». E l ' indomani all 'alba la figlia andò a fare quanto le era stato detto. Ma in ogni letto essa trovò una sola persona, e quando si rese conto di ciò che era successo, cominciò a piangere a calde lacrime. A giorno inoltrato sopraggiunse la vecchia, e la figlia le disse: «Mamma, nelle tende non ho trovato an ima viva: in ognuna c'era solo una persona sgozzata».

«Ahimè, sono perduta. Solo Kutyanga può avermi giocato un simile tiro!»

E così dicendo ripartì alla ricerca del ragazzo. Cer-ca che ti cerca, alla fine lo trovò presso degli artigiani. Avvicinandosi di soppiatto, riuscì a catturarlo e a por-tarselo via. Lo portò via e lo gettò in un pozzo, dopo-diché andò a raccogliere legna, non prima di avere consegnato alla figlia un grosso randello con questa raccomandazione: «Adesso bada che non esca; se cer-ca di venir fuori, picchiaglielo sulla testa!».

Kutyanga, quando era stato catturato, aveva in ta-sca dei pezzetti di carbone di legna, e in fondo al pozzo si mise ostentatamente a masticarli. La figlia

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della jinniya che faceva la guardia gli chiese: «Che cosa stai mangiando?».

«Dei datteri. Me li ha dati il sultano.» «Fammeli assaggiare.» «No. A meno che tu non entri qui facendo uscire

me. Solo quando sarai entrata te li farò assaggiare: te li darò appoggiandoli sulla camicetta che adesso è lì, vicino al bordo del pozzo. Quando avrai finito di mangiare i datteri, rientrerò io e uscirai tu.»

E così fecero: la ragazza scese nel pozzo mentre lui ne usciva. Appena fuori brandì lui il randello alto sopra la testa, mentre lei, arrivata sul fondo, scoprì che non c'erano datteri, ma solo dei pezzi di carbo-nella.

«Dove sono i datteri?» «Sono qui.» E quando vide arrivare la madre di lei, Kutyanga

la avvisò: «Sta venendo qui tua madre». Sentendo avvicinarsi la jinniya, la figlia la implorò: «Ahimè, sono perduta! Mamma, non mi bruciare! Ahimè, so-no perduta! Mamma, non mi bruciare!». Ma costei, appena arrivata, cominciò a gettare la legna nel poz-zo. Ne gettò un bel po', e alla fine le diede fuoco.

Kutyanga intanto se n'era andato per la sua stra-da. La jinniya si mise alla sua ricerca per vendicarsi. Cerca che ti cerca, le capitò di trovare una sorella minore di Kutyanga, che già da molto tempo si era sposata ed era andata a stare con la famiglia del ma-rito. In quel momento si trovava in visita ai suoi ge-nitori. E lì la vecchia jinniya la trovò, e le cavò un oc-chio, rendendola guercia.

Quando la vide r idotta così, Kutyanga le chiese: «Chi ti ha fatto questo?».

«È stata la jinniya.» «Che sia maledetta! Adesso le farò vedere io!» E par t ì alla sua r icerca. In tanto , anch 'essa era

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sempre alla r icerca di lui. Kutyanga giunse in un luogo in cui scavò un pozzo profondo, terminato il quale prese una coperta e la pose sull ' imboccatura. Celata in questo modo l 'apertura, si mise ad aspetta-re lì vicino.

Quando la vide arrivare, le disse: «Mettiti t ran-quilla, sono qui che ti sto aspettando. Smetti di per-seguitarmi e io voglio dimenticarmi tutto quello che mi hai fatto. Siediti qui e discutiamo sul modo di si-stemare con giustizia la nostra contesa».

La jinniya si avvicinò, salì sulla coperta e si ritrovò in fondo al pozzo. Kutyanga prese della legna, ve la gettò dentro e le diede fuoco, facendola così morire. Aveva cancellato tutta la sua stirpe.

9 . T E R S H E D D A T E L E S U E C O M P A G N E G E L O S E

C'era una volta una fanciulla di nome Tersheddat. Bisogna sapere che questa Tersheddat era odia ta dalle sue compagne perché era più bella di loro. Si recarono a un pozzo, che apparteneva a un uomo di nome Kamenda. Qui giunte, le dissero: «Orsù, Ter-sheddat, aiutaci ad attingere acqua; Tersheddat, aiu-taci ad attingere acqua e ti potrai lavare anche tu».

«No, io faccio il bagno nel latte, non mi lavo con l'acqua.»

«Suvvia, vieni a fare un bagno; dopo esserti lavata con l 'acqua, al tuo r i torno pot ra i sempre risciac-quarti col latte.»

Essa si rifiutò, ma le compagne insistettero a lun-go, ed essa finì per andare ad attingere l'acqua. Men-tre stava svolgendo questa operazione, le compagne le diedero una spinta e la fecero cadere nel pozzo. Poi fecero ritorno all 'accampamento.

Così Tersheddat era improvvisamente scomparsa.

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Non la si trovava più. Vennero a cercar la anche i suoi genitori , ma non la t rovarono. Provarono a chiedere in giro ma non ottennero alcuna informa-zione utile. Tuttavia cont inuarono a cercarla senza smettere, finché un giorno...

Bisogna sapere che la ragazza, stando nel pozzo, si era t ras formata in un uccello. E così un giorno u n o schiavo di suo padre , addet to al pascolo dei cammelli , andò a pascolarli e, nel suo girovagare, passò propr io di lì. E ment re si trovava nei pressi con i suoi cammelli, la vide, appollaiata su un albe-ro. E lei, benché t rasformata in uccello, quando lo vide prese a cantare:

Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda.

Lo schiavo tese l'orecchio, e di nuovo essa cantò:

Questo cammello è di mio padre, questa cammellate di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda.

Per tre volte lo schiavo udì questo canto. E subito si affret tò all 'accampamento. E quando vide i geni-tori della ragazza disse loro: «Ho visto Tersheddat appollaiata su un albero!».

«Ma va' là, schiavo, e dove sarebbe Tersheddat, scomparsa e t rasformata in uccello?»

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«Orsù, venite tutti e due e ve la farò vedere!» «Ma va' là, e dove sarebbe Tersheddat?» Questo dialogo si ripetè per tre volte, ma alla fine i

genitori della ragazza pa r t i rono con lo schiavo e quando furono arrivati, egli li fece arrestare in pros-simità del luogo, al quale si diresse lui solo. Quando lo vide avvicinare, l'uccello cantò:

Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda.

Tesero l'orecchio, e di nuovo essa cantò:

Questo cammello è di mio padre, questa cammella è di mia madre, questo schiavo è di mio padre, e io sono Tersheddat che le mie parenti hanno gettato nel pozzo di Kamenda.

Tesero ancora l'orecchio... Quando ebbero udito più volte il canto furono cer-

ti che fosse proprio lei. Tornarono all 'accampamento chiedendosi : «E adesso come f a r emo a p rendere questo uccello?». «Eh, già, come faremo?»

Tennero consiglio per decidere il da farsi. Qualcu-no suggerì: «Andate al pozzo in cui era caduta Ter-sheddat prima di trasformarsi in un uccello, erigete-vi una bella tenda, rivesti ta di coperte , p ropr io davanti all ' imboccatura del pozzo. Con un po' di for-tuna l'uccello deciderà di fare lì il suo nido».

Così fu fatto: eressero una tenda, l'uccello vi entrò

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e decise di costruirvi il suo nido. In tal modo potero-no prenderla. La sorpresero nel nido che aveva co-struito e la riportarono all 'accampamento.

Qui giunti, la misero in una scatolina di cuoio, dal momento che era proprio piccola. Col tempo però crebbe, a tal punto che nella scatolina non ci stava più. La misero allora in una scatola più grande. Pas-sò dell'altro tempo, crebbe ancora e divenne troppo grande anche per questa scatola. La misero allora in un sacchetto, ma dopo un po' divenne troppo grande anche per il sacchetto. Si chiesero: «Come fa remo adesso?». La misero in un sacco più grande, ma ben presto lei superò anche le dimensioni di questo sac-co. «E adesso che ne facciamo?» La misero sotto un letto. Ma lei continuò a crescere e dopo un po' non ci stava più nemmeno sotto il letto.

«E adesso che ne facciamo? Me lo dite che cosa ne facciamo?»

Qualcuno propose: «Cercate un as ino grande e grosso e mettetecela dentro».

Così fu fatto: trovarono un asino e Tersheddat vi entrò dentro.

Vi era lì vicino un pozzo, al quale la gente era soli-ta att ingere acqua. Venivano al pozzo, r iempivano gli otri, abbeveravano il bestiame, e facevano ritorno dopo avere caricato gli otri sugli asini. Quel pome-riggio, quando fu certo che se ne fossero andati via tutti, l'asino si recò al pozzo. Qui giunto, la fanciulla uscì fuori, diede da bere all'asino, si lavò, lavò i vesti-ti, dopodiché montò in groppa all'asino e si diresse all 'accampamento. Quando fu nei pressi dell'accam-pamento , r ientrò nell 'asino che giunse solo, venne scaricato degli otri pieni e se ne andò per conto suo.

La cosa si ripetè: la gente si recò di buon 'ora al pozzo, si dissetò, diede da bere agli asini e fece ritor-no al l 'accampamento, e quando fu pomeriggio an-

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che l'asino prese la via del pozzo, dove si replicò lo spettacolo.

Quando la cosa si ripetè per la terza volta, la gente cominciò a chiedersi: «Chissà chi dà da bere a que-sto asino!». Non avevano mai visto la persona che si trovava all ' interno dell 'asino stesso. Un giovanotto disse: «State un po' a vedere cosa vi faccio! Salirò su quell'albero per vedere chi dà da bere all'asino e gli riempie gli otri che porta sulla schiena».

Il giovanotto andò dunque ad appostars i : si ar-rampicò sull 'albero che si protendeva sul pozzo, e quando tutti gli uomini se ne furono andati spuntò l'asino. Giunto che fu al pozzo, ne uscì la ragazza che gli diede da bere, r iempì l 'otre, si spogliò e si lavò. Ma mentre lei, svestita, si lavava, il giovanotto balzò sui suoi abiti e se ne impadronì.

«Ridammi i miei vestiti!» «No, non te li rido.» «Ridammi i miei vestiti!» «No, non te li rido, a meno che tu non mi dica che

mi ami e mi vuoi sposare. In tal caso ti renderò i ve-stiti.»

«Va bene, ti amo, sposami!» Allora lui le restituì i vestiti ed essa fece r i torno

all 'accampamento. Il giovanotto, tornato anche lui all 'accampamen-

to, annunciò ai suoi genitori: «Voglio sposare quel vecchio somaro». Proprio così. Disse: «Voglio sposa-re quel vecchio somaro».

«Ma come, figliolo? Vorresti sposare un'asina?» Infatti essi non sapevano che dentro all'asina vi era una fanciulla, e credevano che lui volesse davvero sposare un asino.

«L'amo, mi trovo bene con lei, voglio sposarla.» I genitori, in lacrime, gli chiesero: «Ma come? Vor-

resti sposare un'asina?».

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«Sposatemi a lei!» E così prepararono la tenda nuziale e celebrarono

le nozze con l'asina. Una volta eretta la tenda vi lega-rono l'asina, celebrando così il rito della sposa che viene condotta nella tenda nuziale.

Quando gli invitati si furono dispersi, e lo sposo fu rimasto solo con l'asina, la fanciulla se ne uscì in tut-ta la sua bellezza e il suo splendore. Aveva un aspetto veramente magnifico. Dopodiché i due sposi diedero una pacca all'asina che se ne andò.

Orbene, alle pr ime luci dell'alba, appena sveglia, la madre dello sposo andò a fargli visita. Si era detta: "Sarà bene che corra a vedere se mio figlio è ancora vivo o se l'asino lo ha ucciso".

Ma appena giunta, le bastò un colpo d'occhio per vedere quanto quella fanciulla fosse bella. Fu tale lo stupore che perse i sensi. Allora la fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse la suo-cera e la fece ritornare in sé.

Anche il padre del giovane venne a vedere e cadde privo di sensi. La fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse il suocero e lo fece ri-tornare in sé. Quando fu il turno del fratello maggio-re, anch'egli si mise a tremare e perse i sensi. La fan-ciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse il cognato e lo fece ritornare in sé. Venne la sorella maggiore del giovane e al vederla perse i sen-si. La fanciulla raccolse alcune stille di sudore dalla fronte, ne asperse la cognata e la fece ritornare in sé.

Il racconto se n'è andato via di corsa ed è finito.

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Racconti di animali

10. LO S C I A C A L L O E LA L E P R E

Vi racconterò quello che è successo allo sciacallo e alla lepre.

C'erano una volta due amici, Mokhammed e Fati-mata. Mokhammed era lo sciacallo e Fatimata era la lepre. Fa t ima ta aveva una mucca e M o k h a m m e d aveva un bue. Un bel giorno, Fatimata rimase all'ac-campamento, mentre i l suo compare Mokhammed era anda to al pozzo. Bisogna sapere che da molto tempo Mokhammed era invidioso del fatto che Fati-m a t a avesse a disposizione tan to lat te men t re lui non poteva averne. Orbene, quel giorno in cui si recò al pozzo, vi trovò la mucca di Fatimata. La affrontò, lottò a lungo con lei finché riuscì a farla cadere e a ricoprirla di fango. Al ritorno dal pozzo, si mise a in-seguire la mucca, gr idando alla lepre: «Ehi, tu, at-tenta a quell 'animale feroce!». Allora la lepre, non sapendo che si trattava della sua mucca ricoperta di fango, la colpì e la abbatté.

Morta la mucca, i due la tagliarono in pezzi e fece-ro essiccare la sua carne. Quindi, r iempirono ciascu-no il proprio sacco di questa carne secca e partirono. Avevano due asini uguali , e anche i sacchi e rano identici. I sacchi, anche a osservarli bene, non si di-stinguevano l'uno dall'altro. Gli asini, anche a osser-varli bene, non si distinguevano l 'uno dall 'altro. Si misero dunque in viaggio e camminarono fino a un

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luogo in cui passare la notte. Qui giunti, lo sciacallo rubò, senza farsi scoprire, il sacco della sua amica lepre. Ne estrasse tutta la carne che c'era dentro e lo r iempì di nuovo con quei res idui di f ieno che si estraggono dallo s tomaco dei ruminant i , lasciando solo uno strato di carne vicino all 'apertura.

Quando tornò la luce del giorno, caricarono i sac-chi sugli asini e partirono. Erano già in cammino da un po' quando, a un certo punto, la lepre tastò il sacco e lo trovò leggero come se non ci fosse dentro nulla. Allora disse a Mokhammed: «Amico, ho di-ment icato il mio punteruolo. Potresti tornare nel luogo in cui abbiamo pernottato e riportarmi il pun-teruolo?». «Ma certo» rispose. «Vado io perché sono più veloce. Tu ci impiegheresti di più.» E, fatto die-trofront, si mise in marcia fino a raggiungere quel luogo. Ma per quanto cercasse, dovette tornarsene a mani vuote.

Al ritorno era furente, e si rivolse a Fat imata di-cendole: «Bene, a questo punto le nostre strade si di-vidono. Tu non mi sei di alcuna utilità, e inoltre mi hai ingannato: mi hai fatto fare una grande stancata ma non avevi perso un bel nulla». «E invece sì,» essa rispose «me l'ero proprio dimenticato.»

Bisogna sapere che, mentre lo sciacallo era sulla via del ritorno, la lepre, approfi t tando del tempo in cui erano rimasti divisi, era balzata sull'asino dello sciacallo che era carico di carne.

Dunque si separarono: lei se ne andò in una dire-zione e lui in un'altra.

Cammina, cammina, lo sciacallo si imbatté in un gruppo di Tuareg. Quando li vide andò loro incontro dicendo: «Bene, bene: eccomi qua. A chiunque mi porterà una scodella piena di latte darò in cambio dei pezzi di carne».

I Tuareg andarono da lui portandogli scodelle di

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latte. Ottenne tanto latte, ma la carne non c'era più. Ignaro, cominciò a tirare fuori i cinque pezzetti che vi erano all ' imboccatura del sacco, ma sotto di essi non trovò più nulla.

I Tuareg lo presero, lo legarono al tronco di un al-bero e gli dissero: «Adesso per punizione ti leghere-mo qui e ti r iempiremo di bastonate». E giù bastona-te, giù bas tona te f ino a s tancarsi . Alla f ine se ne andarono lasciandolo legato.

Dopo tre giorni e tre notti riuscì a rompere la cor-da e ad andarsene. Si mise in cammino fur ibondo nei confronti della lepre che lo aveva ingannato. La cercò, la cercò, la cercò finché la trovò seduta su un albero, sotto il quale aveva acceso un fuoco per ab-brustolire la carne, che faceva pendere dall'alto.

«Da dove arr iv i , M o k h a m m e d ? » gli ch iese la lepre. Ed egli rispose: «Vengo da un accampamento dove ho lasciato le mie cose: una gran quanti tà di ricchezze e di best iame. Se accetti di venire, ti ci porto». «No, non posso. Sto facendo questo lavoro.» «Allora, fammi salire lì sopra!» «D'accordo.» E gli calò una fune dicendogli: «Afferrala!». Egli afferrò la fune e disse: «La tengo! Tirami su!». Essa comin-ciò a tirarlo su, ma a metà strada egli disse: «Soffo-co!». Allora lo fece ridiscendere. Ma quando lo ebbe calato (sul fuoco), egli gridò: «Brucio, brucio!». E la lepre: «Qualunque cosa io faccia tu trovi sempre da ridire!». E lo lasciò bruciare finché non le sembrò morto. Dopodiché lo gettò da parte. Dopo essersi as-sicurata che fosse veramente morto, lo trascinò via e lo lasciò in terra.

Sopraggiunse una schiava, che passava da quelle parti. Lo raccolse e si mise a saltare dalla gioia: «Che bellezza, che bellezza, avevo proprio bisogno di un otre! Che bellezza, un otre!». Terminate queste ma-nifestazioni di gioia, lo prese e lo mise in un vassoio

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pieno di giuggiole. Arrivata sotto un albero, si fermò per riposarsi all 'ombra. Lasciò quindi la pelle desti-nata a diventare un otre, insieme al vassoio e a un bambino, e se ne andò in giro.

Al suo ritorno, delle giuggiole non ne era rimasta nemmeno una. Pensò che se le fosse mangiate il bam-bino e gliele suonò di santa ragione.

Dopo un po' lasciò stare il bambino, prese la pelle per l'otre e la portò a una pozza d'acqua per bagnarla. Qui giunta, la bagnò e la riportò poi da un'artigiana per farla cucire. Arrivata dall'artigiana, le diede l'in-carico di fabbricare un otre. L'artigiana prese a esa-minare ben bene la pelle ma l'unico foro che trovò fu quello dell'occhio. Credendolo un buco, vi ficcò den-tro un punteruolo.

Lo sciacallo diede un balzo improvviso, r icadde lontano e fuggì di corsa, lasciando le due donne in-tente a discutere, r ec lamando quello che avevano perduto: una il suo punteruolo, l'altra il suo otre.

Lui se ne era andato, r iprendendo il suo girovagare. Qui finisce il racconto. Lo inseguono Mokham-

med e Fatimata.

11. LA I E N A E LA L E P R E

C'era una volta una iena che aveva nascosto in una buca i suoi piccoli. Ogni giorno sul far del mat t ino partiva per la caccia e ritornava con una preda che poi dava loro da mangiare. Ma un bel giorno... Un bel giorno giunse una lepre, che scoprì i cuccioli del-la iena soli, mentre la loro madre era via. Entrò da loro ed essi le chiesero: «Di dove sei, ospite?». Rispo-se: «Io non sono un ospite, sono un vostro fratello più anziano». «E come ti chiami?» «Il mio nome è Tutti-voi.»

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Rimasero a lungo in attesa, finché arrivò la iena col cibo. Di solito, la iena quando portava da man-giare non rivolgeva loro la parola, ma si limitava a porgere il cibo, e se le chiedevano: «Per chi è que-sto?» rispondeva: «Per tutti voi». E ripartiva senza nemmeno guardarli.

Quel giorno, quando essa arrivò, i cuccioli, affer-rando il cibo, le chiesero: «Per chi è questo?». Ed es-sa rispose: «Per tutti voi». Allora essi lo presero e lo diedero alla lepre. La lepre mangiò senza dire nulla, anche i cuccioli se ne rimasero quieti senza dir nul-la, e la iena tornò a cacciare. Attesero ancora a lungo l'arrivo della iena. Essa tornò un'altra volta recando del cibo, e si limitò a porgerlo loro. «Per chi è que-sto?» «Per tutti voi.» Allora essi lo presero e lo diede-ro alla lepre. La lepre mangiò la sua razione senza curarsi degli altri.

Le cose andarono avanti così per tanto, tanto tem-po f inché, un giorno, la iena tese loro il cibo e si sentì chiedere: «Per chi è questo cibo?». «Per tutti voi.» Ma questa volta r imase lì vicino e si sedette, aspettando che avessero finito di mangiare. Dopodi-ché li chiamò: «Uscite, fatevi vedere!». Ma essi rispo-sero: «Non possiamo». «Cosa vi è successo?» «Ab-biamo fame!» «Ah, no!» ribatté la iena. «Io so bene di avervi dato da mangiare come si deve. Cosa vi è successo? Tutto quello che trovavo nella savana ve lo portavo.» «È la lepre che è venuta qui qualche gior-no fa, dicendoci di chiamarsi Tutti-voi. E così, ogni volta che tu portavi del cibo, quando ti chiedevamo per chi fosse ci dicevi che era per "tutti voi", e noi lo prendevamo e lo davamo a lei, che se lo mangiava senza curarsi di noi.» «Ora capisco!» rispose la iena. «E adesso dov'è?» «È ancora qui.»

Allora la iena disse: «Vieni fuor i , s ignor Tutti-voi!». Al che la lepre rispose: «Un momento solo che

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arrivo. Aspetta che mi preparo». E dopo un po': «Co-mincia a prendere i miei sandali». E fece sporgere in fuori le sue orecchie. La iena, credendo che fossero davvero i suoi sandali, afferrò le orecchie e le gettò lontano, insieme alla loro proprietaria. Appena la le-pre si trovò nella savana, si mise a correre di gran carriera, ment re la iena non se ne curava, intenta com'era a control lare l ' ingresso della tana . I suoi cuccioli le dissero: «Smetti di cercarla, l 'hai fa t ta uscire. Inutile continuare a chiedere di lei: l'hai get-tata fuori insieme ai suoi sandali! Ti ha mentito: non erano i suoi sandali, erano le sue orecchie!». A quel punto la iena non ci vide più dalla collera e si mise a percorrere il paese in lungo e in largo alla r icerca della lepre. E la lepre, da parte sua, si mise a correre a tutta velocità.

Il racconto è finito. Lo hanno cacciato Fatimata e Mokhammed.

12. L ' E L E F A N T E E LO S C I A C A L L O

C'è un racconto che voglio farvi, io Mokhammed Ag Ghali. Si tratta di uno che si è preso gioco del capo degli animali della savana, vale a dire dell'elefante.

Colui che si prese gioco dell'elefante è Mokham-med lo sciacallo. I due erano compagni inseparabili, e andavano sempre insieme, fino a un certo giorno.

Essi avevano avuto l'idea di fare una passeggiata nell'interno del paese, e così se ne stavano andando a spasso. Cammina, cammina, ai due venne sete. In quella trovarono una piccola pozza d'acqua. Ma que-sta piccola pozza non era sufficiente per dissetare entrambi. L'elefante disse al suo compagno: «Bevi tu che non hai uno stomaco molto capace». Lo sciacal-lo si accostò alla pozza ma si limitò a poche sorsate

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rapide, bevve poco sostenendo che per lui era abba-stanza. L'elefante lo esortò: «Bevi!», ma lui rispose: «Mi basta così». Allora l'elefante con la sua probosci-de prosciugò tut ta la pozza, lasciando soltanto del fango. A questo punto ripresero il cammino.

Cammina, cammina, quando furono in un certo punto, lo sciacallo disse: «Elefante, io ho sete, non ce la faccio più ad andare avanti. Sento che morirò». E l'elefante di rimando: «Be', ci devo pensare: al giorno d'oggi non ci si può fidare di nessuno, perfino gli ami-ci tradiscono la fiducia di chi li ha rifocillati!».

«Ma che dici! Come potre i t rad i re la f iducia di uno che mi ha fatto bere? Se mi fai bere, come po-trei farti qualcosa di male?»

«Se non fosse che temo che tu tradisca la mia fi-ducia, l 'unica soluzione sarebbe di farti entrare nel mio stomaco per bere.»

«Non andrò da nessuna parte. Mettimi là dove io possa bere!»

«Va bene, vieni qui.» E così dicendo gli aprì il pro-prio ano e lo fece entrare. Lo sciacallo là dentro trovò l'acqua e si mise a bere, a bere, a bere. Dopo un po', fi-nito di bere, guardò alla propria destra e vide i reni; guardò a sinistra e vide il grasso. Ne tagliò via un pez-zo. L'elefante gli chiese: «Ehi, ehi, cosa stai facen-do?». Ma lo sciacallo non se ne curò e tornò a dilania-re le interiora. Di nuovo l'elefante ripetè: «Ehi, ehi, vieni fuori, ti ho detto! Cosa stai facendo?». Ma anche questa volta lo sciacallo non si curò di lui e continuò a tagliuzzare di qua e di là. Quand'ebbe finito di lacera-re le interiora, l'elefante cadde morto. E quando fu sazio, lo sciacallo uscì fuori.

In breve si sparse la voce che l'elefante era morto. Il re degli animali, il leone, radunò i suoi sudditi di-

cendo loro: «Venite qui tutti!». Essi vennero ed egli li apostrofò: «Bene, adesso dovete tutti tagliare a pez-

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zetti la carne dell'elefante, e ciascuno deve poi met-terne un pezzo a bollire in una pentola sul fuoco». Gli animali andarono, tagliarono in pezzi la carne, acce-sero il fuoco e vi misero sopra le pentole. Il leone pro-seguì: «Adesso, dunque, tutte le pentole sono sul fuo-co. Colui il cui pezzo di carne domatt ina non sarà ancora cotto si rivelerà l'uccisore dell'elefante, e sarà punito con la morte». Terminato che ebbero di mette-re le pentole sul fuoco, andarono tutti a dormire.

Ma tu, sciacallo, proprio tu laggiù, tu lo sai cosa ti aspetta, e per tutta la notte non hai dormito.

Assaggia il p ropr io pezzo di carne , corre t ra le pentole, ne assaggia il contenuto, torna indietro, ed è solo il suo pezzo che non si decide a cuocere. Corre di qui, corre di là, torna indietro, va di qua, va di là, ma non c'è propr io mezzo di far cuocere la carne della sua pentola. Va ad assaggiare quella della iena, ed è quasi pronta. La lascia, torna e si stende come per dormire. Dopo un certo tempo, eccolo partire, andare alla pentola della iena e rubarla. Dopo averla rubata, la mise sul suo fuoco, poi prese la sua pento-la e la portò sul fuoco della iena. Quindi tornò e si addormentò.

Poco prima dell'alba giunse il leone per passare in rassegna le pentole e procedere all'assaggio; convocò quindi tutti gli animali, facendoli alzare. Dopo averli fatti alzare, disse: «Bene, che ciascuno prenda la pro-pria pentola e la deponga davanti a sé». Vennero tutti con le loro pentole, e ciascuno si sedette davanti alla propria. Il leone le passò in rassegna una per una fin-ché non le ebbe terminate tutte. Ritornò quindi indie-tro fino a quella della iena, l'unica ad avere la carne non cotta.

Allora presero la iena e si misero a batterla di san-ta ragione, f ino a far la morire . Reci tarono la pre-ghiera su di lei, perché era stata punita con la morte.

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13. LO S C I A C A L L O , L ' O T A R D A E LA I E N A

C'era una volta uno sciacallo che, all'inizio, non aveva altro cibo che le galline faraone. Ma allora le faraone non potevano volare, in quel tempo non ne erano ca-paci. Lo sciacallo non doveva far altro che raggiunger-le e mangiare, mangiare, mangiare. Quando era sazio, se ne andava. E la matt ina dopo tornava da loro per mangiare.

Finché un giorno giunse da loro un 'o ta rda , che chiese loro: «Ma in conclusione, che cos'è che vi sta sterminando?».

«Lo sciacallo.» «E come ha fatto a sterminarvi?» «Mangiandoci.» «Ma perché vi mangia?» «E cosa possiamo fargli noi? Non possiamo affron-

tarlo perché è più forte di noi: noi siamo deboli.» «Ma non sapete volare?» «No, no!» L'otarda disse allora: «Guardate, la prossima volta

che lo vedrete arrivare, mettetevi tutte a schiamazza-re, dopodiché salite in c ima a un albero, e a quel punto non potrà più mangiarvi».

Ora, la matt ina dopo arrivò lo sciacallo, molto af-famato, ma non aveva ancora raggiunto le faraone che queste si misero a schiamazzare e si affret tarono a salire in cima a un albero. Egli chiese loro: «Chi vi ha insegnato a fare così?». «È stato Mokhammed-coi-Pantaloni, l'otarda». Allora lo sciacallo partì alla ricerca dell'otarda. Cerca di qua, cerca di là, non riu-scendo a trovarla decise di andare sotto un albero della gomma trasudante gomma arabica e si seppellì sotto questo albero lasciando fuori solo le fauci.

Tu, otarda, quando passi di lì, non stai t roppo a

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r

control lare , dal m o m e n t o che non vedi al tro che gomma arabica.

Eccola dunque passare di lì, alzare lo sguardo alla cima dell'albero per contemplare la gomma arabica, f inendo così per trovarsi sopra le fauci dello sciacal-lo. Con un balzo lo sciacallo le afferrò una zampa. L'otarda gli chiese: «Caro amico, cosa vuoi da me, per avermi afferrato in questo modo?». E lo sciacallo rispose: «È con te che ce l'ho. Cerco proprio te».

«Che cosa ti ho fatto?» «Che bisogno avevi di insegnare a volare alle fa-

raone? Esse sono il mio sostentamento. Adesso che ti sei intromessa tu e hai insegnato loro a volare, io morirò di fame!»

«Volare non è poi una cosa così difficile. Te lo pos-so insegnare io, se vuoi, e potrai raggiungerle volan-do come fanno loro.»

«Va bene, insegnamelo.» «Afferra la mia ala e voleremo tutti e due. Quando

saremo sopra quei pastori, essi diranno: "Guardate, Mokhammed che vola!". E tu dirai loro "Che Dio vi benedica!".»

Lo sciacallo a f fer rò allora l 'ala dell 'otarda e co-minciò a volare con lei. Quando furono in vista delle pe rsone che, nella p ianura , avevano r a d u n a t o le greggi per la mungi tu ra del mezzodì, si sentì dire: «Guardate Mokhammed che vola!».

Allora lo sciacallo disse: «Che Dio vi benedica!». (E ne l l ' accompagnare il saluto con un gesto, si staccò dall'ala dell'otarda.)

Lo sciacallo piombò sui Tuareg che lo presero e si misero a picchiarlo, a picchiarlo fino a ridurlo a mal partito. Gli fecero un solido recinto e ve lo legarono dentro. Lo sciacallo rimase là cinque giorni, durante i quali lo fecero bersaglio dei sassi che erano soliti mettere nelle pentole in cui cuoceva il latte per fare

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il formaggio, e degli ossi avanzati dai pasti. Il quinto giorno la iena si trovò a passare da quelle parti. Pas-sando vicino allo sciacallo, lo vide e gli chiese: «Co-me ti trovi qui? Cosa ci fai?».

«Che Dio ti benedica! Sono satollo. Vedi gli avanzi del latte, vedi gli avanzi della carne: non li posso più vedere.»

Ora, la iena, mol to probabi lmente , non aveva mangiato nulla da diverso tempo, per cui disse allo sciacallo: «Mi faresti un favore se facessi stare qui me per un paio di giorni, finché io non abbia placato la mia fame». Lo sciacallo rispose: «Non ti potrei do-nare nulla di meglio al mondo , dal m o m e n t o che quando uno si trova in un posto simile non vorrebbe mai lasciarlo». Alla fine, però, la iena lo pregò con tanta insistenza che lo sciacallo accondiscese a ce-derle il suo posto. E così la iena si trovò legata al po-sto dello sciacallo, e lo sciacallo si ritrovò libero.

I Tuareg si misero a gridare e a percuoterla, a per-cuoterla fino a scorticarle la schiena. Con la schiena ferita, la iena rimase lì fino al giorno in cui gli uomi-ni tolsero l 'accampamento. Allora caricarono su di lei la più anziana delle vecchie, insieme ai suoi ca-pretti e a tutte le sue cose.

La iena stette tranquilla finché non fu sicura che la gente si era già messa in viaggio mentre loro era-no rimasti indietro, poi disse alla vecchia: «Calami giù un capretto se vuoi che ti trascini in avanti per un po'». Essa glielo calò e la iena lo mangiò. Andò avanti così finché non furono finiti i capretti, dopo-diché la iena scaricò la vecchia facendola cadere, le addentò una coscia e se ne andò.

La iena si mise a cercare lo sciacallo. Cerca di qua, cerca di là, finalmente, un giorno, entrambi si trova-rono ad aggirarsi nei pressi dell 'accampamento. Lo sciacallo si accostò all 'accampamento, e lo stesso fece

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la iena. Tuttavia fu lo sciacallo a vedere per primo la iena. Si nascose allora dietro a un sasso e con questo la colpì. Spaventata, la iena se ne andò via.

Passò ancora del tempo e la iena raggiunse lo scia-callo. Quando lo ebbe raggiunto, lo minacciò con forza, mettendolo in difficoltà. «Perché mi hai fatto quello che mi hai fatto?»

Lo sciacallo rispose: «Lasciamo perdere questo; piuttosto, per questa tua ferita, dovresti procurarmi una pecora bella grassa e io potrò curarti». Allora la iena si mise in cerca, credendo ancora alla parola dello sciacallo che pure in precedenza l'aveva ingan-nata . Dopo un po' che era in giro, tornò por tando una pecora bella grassa, le tolse la pelle, ne estrasse i visceri, mentre lo sciacallo mise delle pietre sul fuo-co. Quando queste f u r o n o rosse, le disse: «Bene, adesso ti metterò una pietra sul dorso. Quando sen-t irai dolore, dovrai dire: "Sopporto come mio pa-dre"». Lo sciacallo mise un po' di grasso sulla ferita, e vi pose sopra la pietra. E la pietra, crepitando, at-traversò lo strato di grasso e arrivò a contatto della ferita. La iena sopportò stoicamente senza muoversi e la pietra finì per caderle nel ventre.

14. L O S T R U Z Z O E I L R I C C I O

Ecco un racconto che narra quello che accadde tra un riccio e uno struzzo.

Una volta il riccio disse: «Caro struzzo, io ti bat to nella corsa». E lo struzzo di r imando: «Sono io che ti bat to nella corsa». E cominciarono così una discus-sione. Dopo aver lungamente discusso, lo struzzo non era ancora convinto che il riccio potesse competere con lui nella corsa, e gli disse: «Va bene, facciamo co-

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sì: domani dall'alba al t ramonto tu e io faremo una corsa». Il riccio accettò.

Il r iccio andò al lora a ch iamare i suoi amici, e quando ne ebbe radunato una quantità innumerevo-le, disse loro: «Ciascuno di voi andrà a sistemarsi in un luogo prestabilito. Ho già fissato io l'ordine in cui dovrete mettervi. Quando lo struzzo passerà accanto a uno di voi e dirà: "Riccio!", voi rispondetegli: "Per-di il tuo tempo!"». Ciò detto, il riccio che aveva avuto la discussione con lo struzzo se ne andò.

Giunto che fu il momento, ebbe inizio la corsa. Lo struzzo cominciò a correre, a correre a più non posso. Quando, avendone abbastanza, chiamò: «Riccio!», un riccio che era alla sua altezza gli gridò: «Perdi il tuo tempo!». Egli aveva già corso parecchio, ma ri-prese a correre. Ogni volta che si fermava da qualche parte, chiamava: «Riccio!», e ce n'era sempre uno che gli rispondeva: «Perdi il tuo tempo!».

Ormai lo struzzo era stremato dalla sete, sul pun-to di morire dalla fatica, eppure c'era sempre un ric-cio accanto a lui. Quando chiamava: «Riccio!», ce n 'era sempre uno che gli rispondeva: «Perdi il tuo tempo!».

Alla fine, non potendone più, lo struzzo si buttò a terra, vinto dalla stanchezza.

Qui termina il racconto.

15. LO S C I A C A L L O E LO S T R U Z Z O

C'erano una volta uno sciacallo e uno struzzo. Biso-gna sapere che lo struzzo e lo sciacallo litigavano a proposito delle giuggiole. Ora, essavevano un albero di giuggiole, ed e rano soliti recarvisi, scuotere il tronco della pianta e mangiare i frutti più bassi che avevano fatto così cadere.

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Venne però il giorno in cui tutte le giuggiole vicine alla base erano state mangiate e sull'albero rimaneva-no solo quelle prossime alla cima. Ora, né lo sciacallo né lo struzzo arrivavano a queste giuggiole. Allora lo sciacallo disse: «Senti un po', struzzo, facciamo una gara!».

«Che gara?» «Una gara per vedere chi di noi due riesce a sca-

valcare il giuggiolo con un salto.» «Va bene, facciamo questa gara!» Lo sciacallo disse allora: «Comincerò io. Solo che

quando sostengo una prova difficile non amo che mi si guardi. Facciamo così: tu guarda di là e non guar-dare me. Se mi guardi, non riuscirò a fare un buon salto».

Era una menzogna: lo sciacallo sapeva bene quello che diceva. Lo struzzo guardò dall'altra parte e non guardò lo sciacallo. Lo sciacallo si mise a correre, ol-trepassò il giuggiolo, e non appena lo ebbe superato gli disse: «Ecco! Io l'ho saltato. Adesso tocca a te».

Solo allora lo struzzo si girò a guardare, e vedendo lo sciacallo al di là dell'albero credette che avesse fat-to un salto. A questo punto lo struzzo prese la rincor-sa. Quando fu a poca distanza dal giuggiolo spiccò il salto e... patapunfete, finì impigliato tra i suoi rami.

Ora, cercando di tirarsi fuori, fece cadere delle giuggiole, e lo sciacallo si mise a raccoglierle e a man-giare, a mangiare. . . Quando ebbe finito di mangiare, disse allo struzzo: «Divincolati, e vedrai che ricadrai giù!». Lo struzzo si agitò, col solo risultato di far ca-dere una gran quanti tà di giuggiole, che lo sciacallo si affrettò a mangiare. E la cosa andò avanti così per un bel po': quando finiva di mangiare le giuggiole e ne voleva ancora, lo sciacallo diceva all'amico: «Divinco-lati e ne verrai fuori!». Lo struzzo si agitava, cadevano le giuggiole e lo sciacallo le prendeva.

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Quando fu sazio di giuggiole, lo sciacallo se ne andò, lasciando lo struzzo tra i rami dell'albero.

16. LA I E N A E LA Z U C C A

C'era una volta uno sciacallo che era solito recarsi al pozzo verso il t ramonto, ma quando voleva por tar via quello che vi aveva trovato, per esempio qualche capo di bestiame rimasto indietro rispetto al gregge, arrivava una iena e glielo soffiava.

Un bel giorno si disse: "Che posso fare adesso a questa iena?". Si mise allora in cerca e trovò delle grosse zucche usate come recipienti, ancora in buo-no stato. Le depose quindi vicino all ' imboccatura del pozzo.

Tu, iena, quando sei arrivata qui e hai visto quelle grosse zucche, nella notte hai pensa to che fossero delle sagome di pecore. Avanzi ora qua t ta quat ta , quatta quatta, fino a portarti molto vicino... Ed ec-coti saltare e piombare di peso su una zucca. La zuc-ca, che non ha appoggi, comincia a rotolare, e roto-la, rotola, finché... patapunfete, finisce nel pozzo, e tu con lei...

Allora la iena disse: «Ahimè, che sventura!». E lo sciacallo rispose: «E questo è niente, aspetta

che arrivino i proprietari del pozzo!...».

17. IL L E O N E E L ' A S I N O

Una volta tutti gli animali selvatici che vivono nella savana si trovavano in uno stesso posto, insieme al loro re, il leone. Costui, andando in giro, uccise un asino veramente molto robusto. Lo portò quindi in-dietro e lo gettò in mezzo a loro, dicendo: «Chi di voi

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me lo scuoierà, mi p repa re rà la carne e mi t i rerà fuori i pezzi migliori? Però, se ne mangerà anche so-lo un pezzetto io me ne accorgerò e lo ucciderò. Gli darò io stesso quel che si merita!».

Dopo questa premessa, tutti gli animali selvatici dicevano di non essere in grado.

Saltò fuori lo sciacallo, che disse: «Per me va be-ne, solo, mettimelo laggiù, in un posto in cui tu non mi possa vedere». Il leone portò l'asino in un luogo dove non lo si potesse vedere, e lo sciacallo lo aprì, ne estrasse il cuore e se lo mangiò. Dopo avere estratto e mangiato il cuore, scuoiò l'asino, lo smem-brò, preparò la carne e dispose per bene ogni parte.

A questo punto chiamò tutti gli altri, dicendo: «Ve-nite!». Vennero tutti, e tra essi il leone, che gli chiese: «Dov'è la tale parte?». «Eccola qui.»

«Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» «Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» «Dov'è quest'altra parte?» «Eccola qui.» Alla fine chiese: «E il cuore, dov'è?». «Il cuore, se

ne avesse avuto uno, nemmeno tu avresti potuto uc-ciderlo! Adesso dammi la mia paga.»

Fu così che tutti gli animali selvatici seppero che non tutti gli asini hanno un cuore, perché se un asi-no forte come quello avesse avuto un cuore, nemme-no il leone avrebbe osato misurarsi con lui. Era stata l'assenza del cuore che lo aveva reso possibile.

18. LO S C I A C A L L O E IL L E O N E

C'erano una volta uno sciacallo e un leone, che abi-tavano in uno stesso luogo allevando degli asini.

Un bel giorno lo sciacallo disse al leone: «Vedi, in questo momento la cosa migliore da fare è andarce-ne al sud, tu e io, per prendere del miglio. Ci portere-

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mo dietro come merce di scambio le nostre madri , perché non servono più a nulla ora che sono vec-chie». Il leone disse: «D'accordo». E così si misero in viaggio verso il sud.

Proseguirono finché arrivarono in un luogo in cui dovevano passare la notte, in una sorta di p ianoro desertico, a una giornata di dis tanza dal paese del sud. Lo sciacallo disse al leone: «Guarda, questa not-te, sarà meglio legarle per evitare che ci scappino!». Il leone disse: «D'accordo». Così il leone andò verso sua madre e la legò ben stretta con una corda, ridu-cendola come un salame. Lo sciacallo fece il giro dall'altra parte, andò verso la sua e la legò con una specie di filo, dicendole: «Sta attenta: quando farà notte, taglia il filo; ci ritroviamo lassù, sulla cima di quella montagna. Io arriverò col miglio e con tutt i gli asini». E lei rispose: «Va bene». Dopodiché, tor-narono a dormire.

Al primo albeggiare, il leone si alzò per destare lo sciacallo: «Sciacallo! Sciacallo! Sciacallo!». Lo scia-callo rispose: «Eh...».

Prima ancora di alzare la testa, lo sciacallo chiese: «Le due vecchie sono ancora qui, vero?». «C'è solo la mia.» «Quella bastarda della mia deve essere riuscita a fuggire.» Allora part ì in cerca di tracce. Cerca di qua, cerca di là, arr ivò f ino a un certo punto , poi tornò indietro, dicendo: «Non c'è più». «E ora che faremo?» chiese il leone. «Tua m a d r e è grande e grossa, è appariscente, ha un bel pelo. Sarà meglio partire, cominciare a vendere lei, e caricare gli asini col miglio che ne ricaveremo. Quando torneremo, venderemo poi l'altra.» «D'accordo» disse il leone. E così, partirono e vendettero la madre del leone.

Quando l'ebbero venduta, caricarono di miglio gli asini e si rimisero in viaggio. Cammina, cammina, a un certo punto il leone chiese allo sciacallo: «E ades-

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so dove ci accamperemo? Dove met te remo le ten-de?». Lo sciacallo rispose: «Continuiamo senza fer-marci finché saremo arrivati a un punto d'acqua».

Cammina , cammina , cammina , lo sciacallo, sa-pendo che in quel luogo, accanto a una grande poz-za d'acqua, vi era una zona melmosa, disse al leone: «Tu fa' il giro da questa parte e va' a cercare un posto adatto per accamparci». E mentre il leone faceva un lungo giro, lui spinse gli asini portandoli in cima a quel l 'a l tura su cui aveva dato a p p u n t a m e n t o alla madre, dopodiché tornò dal leone facendo attenzio-ne di non essere visto. Quando fu arrivato più o me-no a metà strada, il leone udì lo sciacallo gridare...

O sciacallo, tu prima, mentre portavi via gli asini, avevi tagliato a ognuno di loro la punta delle orec-chie, e avevi tagliato via anche le cocche di ogni sac-co, eri tornato a questa palude melmosa e non avevi fatto altro che conficcare nel fango le orecchie degli asini e le estremità dei sacchi!

A questo p u n t o lo sciacallo gridò: «Ehi, leone! Ehi, leone! Dai, corri qua, gli asini e i sacchi sono stati inghiottiti dalla palude». Quando arrivò, il leo-ne potè solo dire: «Che disastro!». Non vedeva infatti che le orecchie degli asini. Lo stesso sciacallo si era cosparso di fango e diceva: «Ho rischiato io stesso di essere inghiottito. Entra anche tu nel fango, per ren-derti conto!». Il leone accorse, e le orecchie che tira-va, non essendoci l'asino, si staccavano e gli restava-no in mano; si rivolse quindi alle cocche dei sacchi, ma anche queste, u n a volta tirate, gli restavano in mano. A questo punto, disse allo sciacallo: «Che di-sastro! E adesso, cosa faremo?». «Eh, sì. Ci è capita-ta p ropr io u n a sventura!» r ispose lo sciacallo. «A questo punto ci conviene cercare un altro posto dove sistemarci.»

Partirono dunque di lì e andarono a stabilirsi sot-

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to un grande albero, e da allora presero a compiere le loro escursioni a partire da quel loro giuggiolo.

Quando il leone dormiva, lo sciacallo se ne anda-va, e... via di corsa, fino al luogo in cui lo attendeva sua madre, che lo rimpinzava di pasta di miglio, do-podiché tornava e si metteva a dormire. E andarono avanti così finché il leone morì di fame.

19. L O S C O I A T T O L O S C A V A T O R E E L ' E L E F A N T E

Lo scoiattolo scavatore e l 'elefante ebbero una lite. Tu, elefante, avevi un toro, e tu, scoiattolo, avevi una mucca.

Ora, la mucca dello scoiattolo un bel giorno par-torì un vitello. Ma l'elefante lo prese, lo mise sotto il toro, dicendo: «Il mio toro ha partorito!» e andò in giro sostenendo con tutti questa versione dei fatti. Lo scoiat tolo allora si mise a p iangere a dirot to . Pianse, pianse, pianse.

Venne allora proposto: «Andate a cercare lo scia-callo, giudicherà lui, Mastro Mokhammed». E così andarono a cercare lo sciacallo.

Lo sciacallo disse loro: «E adesso, come fa rò a giudicare? Portatemi del latte munto dai vostri ani-mali. Tu, elefante, va' a mungere il tuo toro, e tu, scoiattolo, va' a mungere la tua mucca!».

Lo scoiattolo corse a prendere la sua scodella e si mise a mungere il suo latte.

L'elefante, invece, disse: «Ma il mio animale non ha latte!». «Ebbene, se non ha latte, come fa ad avere un vitello?»

Qui finisce il racconto.

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20 . IL L E O N E E LA C A P R A

C'era una volta un leone che aveva sposato una ca-pra. Quell'anno c'era stata una carestia e tutti gli ani-mali selvatici avevano lasciato il paese. Erano andati in un'altra regione e il leone era r imasto solo con la capra. Essa vagava di qua e di là cogliendogli le po-che giuggiole sopravvissute alla siccità, oppure frutti selvatici di agersemmi o altre cose ancora, in attesa che passasse la stagione secca.

Trascorsa che fu l'estate, lo sciacallo disse che sa-rebbe sceso per vedere dove, nella regione, vi fosse dell'acqua. Scese dunque e prese ad andare di qua e di là, finché giunse dove si trovava il leone. Quando lo incontrò, la capra non c'era, era in giro.

Allora, il leone gli chiese: «Come va?». «Bene, grazie!» «E com'è la regione in cui ve ne siete andati tutti?» «Ah, siamo andati a stare in una regione bellissi-

ma! Sono venuto per te, per venire a prenderti. Dal m o m e n t o che hai sposato quello scar to del regno animale - basti pensare che gli uomini ne fanno un sol boccone e poi se ne vanno -, ti farò vedere le fem-mine che ci sono: la gazzella, la gazzella-dama, l'an-tilope-orice, l'antilope-adax: queste sì che sono fem-mine adatte a te! Quando hai sposato questo scarto del regno animale ti sei condannato inutilmente alla fame. Gli uomini ne fanno un sol boccone e poi se ne vanno.»

«Allora fermati qui. Quando arriverà la ucciderò, ce la mangeremo e poi part iremo insieme.»

Tu, capra, sei sulla via del r i torno e, vedendo lo sciacallo che si dirige verso di te, ti viene in mente un'idea: ti torna in mente che poco pr ima ti eri ar-rampicata su un albero con una fessura in cui avevi visto del miele. Allora attraverso la fessura tu prendi

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il miele e lo porti via con un pezzo di legno. Mentre stai arrivando con queste cose e sei ancora in cam-mino, il leone appare combattuto: stai forse andan-do da lui per farti uccidere?

Ora, quando la capra si fermò, il leone le chiese: «Da dove vieni? Cos'hai da camminare così di fretta?».

«Assaggia questo: laggiù ci sono delle persone che spremono gli sciacalli e ne estraggono questa cosa dolce, mentre tu te ne stai lì senza far nulla!»

Allora egli prese il miele e leccò, leccò, leccò. Quindi chiese: «Questa cosa dove l'hai trovata?».

«È quella cosa che gli uomini spremono fuori da-gli sciacalli.»

Allora il leone balzò sullo sciacallo cercando di af-ferrarlo. Questi saltò via dicendo: «Io sono già stato spremuto! Sono già stato spremuto!».

Ma il leone rispose: «Preparati, bisogna spremerti ancora di più!» e così dicendo lo afferrò e cominciò a spremere, a spremere.. . Quando gli ebbe fatto fuo-r iuscire gli escrement i che aveva nell ' intestino, vi mise dentro la zampa e se la leccò, ma all'assaggio trovò che non erano buoni.

Allora riprese a spremere, a spremere, mentre lo sciacallo continuava a dire: «Sono già stato spremu-to!». Ma anche il leone ripeteva: «Bisogna spremerti ancora di più!» e a fur ia di spremere finì per ucci-derlo.

Il leone e la capra continuarono a vivere insieme. Lo sciacallo era morto.

2 1 . IL G A L L O E LO S C I A C A L L O

C'era una volta un gallo, che se ne stava appollaiato su un albero. Mancava poco all'alba ed egli si mise a cantare il suo richiamo del mattino.

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Uno sciacallo lo udì e, t rot terel lando, si diresse verso di lui e si fermò sotto l'albero. Quindi gli disse: «Scendi giù e preghiamo insieme, visto che hai se-gnalato l'ora della preghiera».

Il gallo guardò giù e si accorse che chi gli parlava così era lo sciacallo. Allora gli disse: «Aspetto che venga un marabutto, un imam per dirigere la pre-ghiera».

E lo sciacallo: «Chi è il marabutto che da voi suole dirigere le preghiere?». «Il cane.» «Ah! Allora aspet-tatemi qui, che vado a fare le mie abluzioni.»

Lo sciacallo partì e non fece più ritorno.

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Racconti faceti e con la morale

2 2 . L A P I R O G A

Questo è un racconto, ma è anche un indovinello ri-guardante una piccola piroga.

Questa piroga porta cento chili: solo cento chili sono il carico che può portare.

Ora, ci sono un uomo con la moglie e due figli, e tutti e quattro devono attraversare un fiume. Il mari-to pesa cento chili. La moglie pesa cento chili. I figli pesano cento chili tra tutti e due.

Orbene, la sola cosa da fare è questa: i due figli, che in totale pesano cento chili, entrano insieme nel-la piroga. Quando sono arrivati sull 'altra sponda, uno solo dei due rimane, e l'altro torna indietro.

Tornato indietro, r imane sulla sponda, mentre il padre va lui dall'altro figlio, che era rimasto sull'altra sponda del fiume. Qui scende e lascia la piroga al fi-glio, che così può tornare dalla madre e dal fratello.

Arrivato su questa sponda, prende con sé il fratel-lo e torna dall'altra parte. Arrivati dal padre, lascia scendere ancora il fratello, e sarà un solo ragazzo a ritornare.

Arrivato dalla madre , il ragazzo scende e lascia entrare nella piroga la madre. Questa compirà la tra-versata fino a giungere dal marito e dall'altro figlio che già erano dall'altra parte.

Qui giunta, dà la piroga all'altro ragazzo, che era già lì, e lei scende.

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A questo punto l'altro ragazzo ritorna dal fratello. Arrivato da lui lo prende con sé.

E così hanno tutti effettuato la traversata e sono giunti all'altra sponda.

23 . I L M E N T I T O R E

C'erano una volta due uomini, due fratelli, uno più anziano e l'altro più giovane.

Il fratello minore era un mentitore, ma proprio un vero mentitore: non faceva altro che mentire. Era lui che trovava il cibo per l'altro, che invece non menti-va mai.

Le cose andarono avanti così a lungo, finché il fra-tello maggiore non ne ebbe abbastanza e disse al fra-tello: «Senti un po', d'ora in poi non voglio più cibo p rocura to per mezzo di menzogne. Tu resta pu re qui; io troverò del cibo anche dicendo la verità».

Partì, dunque, e andò in giro continuando a dire la verità dall'alba al t ramonto. Ma agendo così tornò senza avere trovato nulla. Dopo tre giorni trascorsi senza trovare neppure un granello di cibo, il menti-tore gli disse: «Di questo passo mor i remo di fame senza profitto, non sei riuscito a ricavare un bel nul-la. Adesso vieni e seguimi». Ed egli lo seguì.

Partirono, dunque, e si recarono in un grande vil-laggio. Quando vi giunsero, la moglie del capo era appena morta: da tre giorni era morta la moglie del grande capo. Nessuno rideva, nessuno bat teva i l tamtam, nessuno cantava: tutti, tutti, tutti tacevano.

Il mentitore arrivò, cercò un posto dove fermarsi, e quando si fu installato chiese: «Che cosa è succes-so al villaggio di questi tempi?».

«È morta la moglie del capo.» «Da quanto tempo è morta?»

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«Da tre giorni.» «Ebbene, volete che non sia capace di resuscitarla

dopo soli tre giorni?» «Saresti davvero capace di resuscitarla?» «Certamente!» «Possiamo riferirlo al capo?» «Riferiteglielo pure!» Il capo, quando fu avvisato di questo fatto, disse:

«Andate a chiamarli!». Il mentitore se ne venne in-sieme al fratello maggiore. Il fratello maggiore era sul punto di morire dalla paura per la menzogna che stavano sostenendo, ma il menti tore gli disse: «Sta' tranquillo, lascia fare a me».

Quindi il capo gli chiese: «Dunque tu saresti in grado di resuscitare questa donna?».

«Certamente!» r ispose il ment i tore , e proseguì: «Adesso voglio che tu convochi tutti quanti gli abi-tanti: che vengano tutti domani affinché io resusciti tua moglie».

Allora si batterono i tamburi nel villaggio e tutti si radunarono per sentire l 'annuncio: «Domani la mo-glie del re resusciterà! La moglie del re resusciterà! La moglie del re resusciterà!». Tutti quanti udirono la notizia: «È arrivato un uomo che dice di poter re-suscitare la moglie del re».

Passò la notte. Il matt ino seguente la gente comin-ciò ad affluire in massa, e in breve tempo furono ra-dunati tutti quanti. Il mentitore chiese al re: «Bene, e per me che r icompensa è prevista?».

«Qualunque cosa tu vorrai, ma proprio tutto, tutto quello che vorrai, io te lo darò se resusciterai mia moglie!»

«Siamo intesi!» Si misero allora tutti in cammino, alla volta del ci-

mitero. Arrivati al cimitero, il mentitore si rivolse al-la gente dicendo: «Voi restate qui tutti quanti!». E la

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gente si dispose ordinatamente in fila all'esterno. La-sciati tutti in fila, lui passò oltre ed entrò nel cimite-ro. Si diresse alla tomba della donna, e cominciò a scavare dalla parte della testa. Scava che ti scava, ar-rivò al legno della bara, e ne tirò via tre pezzi. Dopo-diché si chinò verso l 'interno della tomba e stette lì chino per un po'. Dopo essere r imasto così per un certo tempo, si rialzò, sollevò la testa, si mise a ride-re, poi tornò ad abbassare la testa. Rimase così an-cora a lungo, dopodiché tornò a sollevare la testa e a ridere. A questo punto, si alzò e chiamò a sé il re. Mentre il re gli si avvicinava, egli gli andò incontro, e quando furono faccia a faccia gli disse: «Bene, tua moglie è resuscitata, non vi è dubbio che sia resusci-tata. Però ha detto che non si alzerà e non verrà fuo-ri dalla tomba se non in compagnia di suo padre».

Bisogna sapere che il padre della donna era il pre-cedente capo del villaggio prima che prendesse il po-tere il capo attuale. Così, il mentitore proseguì: «Suo padre, appena resuscitato, dirà certamente di taglia-re la testa all 'uomo che gli ha portato via il coman-do. Ora, che dici di fare?».

Il capo rispose: «A questo punto ti darò la ricom-pensa pat tu i ta , ho visto che hai ve ramente fa t to quello che promettevi, ma adesso lasciala stare rin-chiusa dove si trova». E così l 'uomo ritornò alla se-poltura, rimise a posto i pezzi di legno e ricoprì la tomba della donna, dopodiché tornò dal re.

A tutti coloro che chiedevano al re se sua moglie fosse resuscitata, egli rispondeva: «Sì, è resuscitata, è davvero resuscitata».

Fecero quindi r i torno al villaggio. Il re gli donò greggi in grande, grandissima quantità e lo invitò ad andarsene in fretta, temendo che i figli del defunto re gli of f r i ssero u n a quant i t à di bes t iame ancora maggiore a patto che egli resuscitasse il loro padre.

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E infatti, anche a questi figli giunse voce della co-sa, e così essi si misero a cercare l 'uomo, con l'inten-zione di offrirgli grandi quantità di bestiame purché resuscitasse il loro padre. Quando il re sentì ciò, au-mentò ancora il bestiame offerto al mentitore e lo fe-ce fuggire nella notte.

Egli divenne incredibilmente ricco. Aveva ottenu-to ricchezze smisurate.

24 . I L F I G L I O D E L R E E I L F I G L I O D E L P O V E R O

C'era una volta il figlio di un re, che aveva stret to una grande amicizia con il figlio di un povero. La lo-ro era un 'amicizia veramente assai stretta. Se suo padre gli comperava un cavallo, lui diceva che lo avrebbe accettato solo a patto che ne comprasse uno anche per il suo amico. E il padre glielo comprava; se gli faceva confezionare un abito, gli diceva che doveva farne fare uno anche per l'amico. Erano sem-pre insieme; insomma la loro amicizia era così forte che non se n'era mai vista una uguale.

Un bel giorno, però, il figlio del povero, l 'amico del figlio del re, ricevette un bigliettino da parte del-la moglie del re (che non era la madre naturale del suo amico), su cui era scritto: "Ti amo". Fece vedere la lettera all'amico, il quale gli disse: «Ricambia pure il suo amore. Da parte mia, dal momento che non è mia madre naturale, che mi importa?».

E così egli stabilì con lei una relazione appassio-nata. La possedeva tutte le notti in cui il re era via. A quel punto si misero d'accordo su una cosa: bisogna sapere che all'ingresso di casa vi era un grande vaso, e allora, una volta che lui era da lei, essa gli disse: «Quando vieni qui, infila la mano nel vaso: se ci tro-vi una sola noce, puoi entrare, vuol dire che il re è

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via; se invece trovi due noci, torna indietro, vuol dire che il re è in casa».

Il giovanotto continuò così per diverso tempo, se-guendo sempre queste indicazioni, fino al giorno in cui la donna gettò le due noci perché quella notte il re sarebbe r ientrato, ma, per la fret ta, una di esse finì fuori dall ' imboccatura del vaso e cadde di fianco a esso. Quando giunse il giovanotto, infilò la mano e trovò una sola noce. Allora entrò e avanzò a tastoni, f inendo sulla barba del re, che diede un balzo e gli afferrò la mano. Tira di qua, tira di là, il giovanotto riuscì a svincolarsi ma il suo anello rimase nelle ma-ni del re. Di corsa si recò dal suo amico, dal figlio del re, e lo svegliò.

« Alzati! » «Che cosa c'è?» «Domani sarò morto. Tuo padre mi ha afferrato la

mano. Io sono riuscito a liberarmi ma non ho più il mio anello, che è facilmente riconoscibile. Domatti-na mi metteranno a morte.»

«Non è nulla. Dormi! Poco prima dell'alba sellerai i nostri cavalli.»

Il figlio del re dormì. Ma quell'altro, come avrebbe potuto trovare il sonno in questa angoscia?

Poco pr ima dell'alba andò a prendere i cavalli, li sellò e chiamò l'amico: «Alzati! Su, alzati!». Monta-rono quindi a cavallo e il figlio del re gli disse: «An-d iamo in questa direzione: ho senti to dire che da queste parti c'è un luogo in cui una femmina di leo-pardo ha appena partorito». Presero quella direzio-ne e continuarono a cavalcare...

In tanto al villaggio, appena fu giorno, r isuonò il t amtam e tutti quanti gli abitanti si radunarono, e si fece un'assemblea in cui fu annunciato che il giova-ne cui apparteneva quell'anello doveva essere cattu-rato e messo a morte. Tutti coloro cui il re mostrava

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l'anello dicevano che era del tal giovanotto. Suo fi-glio e quell 'altro giovane e rano introvabili. Perciò l'assemblea continuò a lungo, e a lungo continuaro-no a suonare i tamburi .

I due erano in viaggio. Quando arrivarono alla ta-na, presero il cucciolo di leopardo, poi spronarono i cavalli e ripartirono di gran carriera. Il figlio del re teneva il piccolo leopardo. Al gran galoppo giunsero davanti a suo padre. L'amico si arrestò a una certa distanza, mentre quello che teneva il cucciolo si ar-restò davanti a suo padre e gli lanciò in braccio il piccolo leopardo, che gli si aggrappò.

II re ebbe un soprassalto: «Che cos e questo? Che cos'è questo?».

«Il fa t to è che io e lui abb iamo fat to una scom-messa. Io gli avevo detto che se qualcuno fosse riu-scito impunemente a toccare, al buio, il capo di mio padre, io gli avrei portato un cucciolo di leopardo. Lui è partito e mi ha detto che è riuscito a toccarti la testa nel buio, e che quando ha cercato di ritrarre la mano tu sei riuscito solo a portargli via l'anello. E così anch'io da parte mia sono partito per andare a trafugare il cucciolo di leopardo.»

Allora il re disse: «È vero. Quello che avete fatto è tutto vero. Ecco il vostro anello. Andate».

25 . L ' U O M O D I K A N O E L ' U O M O D I K A T S I N A

C'erano una volta due uomini, uno di nome Dan Ka-no (o "Uomo di Kano") e l'altro Dan Katsina (o "Uo-mo di Katsina") . A c iascuno dei due era g iunta all'orecchio la fama dell'altro per quanto riguarda il furto e il malaffare. Così un bel giorno si misero in viaggio per incontrarsi. Quando furono faccia a fac-cia, uno chiese all'altro: «Tu chi sei?».

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«Io sono Dan Kano. E tu?» «Io sono Dan Katsina.» E ciascuno disse all'altro: «Stavo proprio cercan-

do te». «Va bene. Allora stringiamo società.» E partirono

insieme. Cammina , cammina , a r r ivarono in vista di un

gruppo di persone che formavano una grande caro-vana, e si erano fermate per una sosta. Come luogo di sosta avevano scelto un sito accanto a un pozzo vecchio e profondo.

Allora, uno dei due ripiegò una gamba e se la legò alla coscia, p rendendo poi un bas tone in modo da sembrare con una gamba monca al ginocchio. L'al-tro, invece, chiuse gli occhi e vi fece ader i re uno s t ra to di g o m m a arabica , incollandoli con ques ta gomma in modo da sembrare cieco. Dopodiché, lo zoppo si mise a guidare il cieco, e tutti e due si in-camminarono alla volta della carovana.

Qui giunti, salutarono e si sistemarono. Le perso-ne della carovana venivano a vederli e li compiange-vano: «Guardate! Poveretti! Uno zoppo e l'altro cie-co!». Diedero loro perf ino un 'elemosina e li fecero mangiare.

Quando tutti furono addormentati , i due presero le mercanzie - si trattava di tessuti - e le gettarono in fondo al pozzo. Andarono avanti tu t ta notte, in modo che alla fine avevano trasportato una grandis-sima quantità di merci. Poi tornarono al loro posto e si addormentarono.

Quando gli altri si svegliarono, al mattino, fu tutto un gridare: «Oh, no! Sono passati di qui dei ladri!». Si misero in cerca delle tracce, ma non trovarono nemmeno un' impronta di qualcuno che fosse entra-to nell 'accampamento. C'erano solo le tracce del cie-co e dello zoppo. Niente da fare! Non c'era nemme-

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no una traccia di qualcuno che avesse lasciato l'ac-campamento. Macché! Alla fine si stancarono di cer-care, tanto più che mancando le tracce era impossi-bile seguirle. Fecero quindi fagotto e partirono, per andarsene via di lì.

Anche il cieco e lo zoppo partirono. Seguirono gli altri per due giorni, dopodiché fecero r i torno al pozzo. «Bene,» disse Dan Katsina «chi si calerà nel pozzo?»

«Io» rispose Dan Kano. «No, no,» disse Dan Katsina «vado giù io!» E così fu Dan Katsina che si calò nel pozzo. Una

volta giù, tirò via tutti gli imballaggi delle merci e co-minciò a legare alla fune le merci prive di imballag-gio. Andò così avanti per un bel pezzo a legare alla fune e far risalire le merci non imballate. Alla fine non r imanevano da por ta re su che delle vecchie stuoie consunte, qualche pezzo di cuoio e poche al-tre cose. Prese allora ad avvolgersi in esse, metten-dosi poi in una rete legata alle corde, in modo che una persona che lo avesse tirato su non se ne sareb-be accorta. Disse quindi al socio: «Dopo questo cari-co resto solo io». «Benone!» e lo tirò su, un po' alla volta, fino a farlo uscire dal pozzo. Dopodiché lo mi-se da parte. Eh, sì! Tutti i carichi che aveva tirato su, Dan Kano li aveva messi da parte nascondendoli in un posto.

Dopo avere portato l 'ultimo carico nel suo baga-glio, cominciò a trasportare pezzi di legno e a gettar-li nel pozzo. Andò avanti per un bel po', finché non ne ebbe gettati parecchi, e diede fuoco al tutto.

Se ne tornò quindi dove aveva lasciato i bagagli ma scoprì che il compare si era preso tutto quanto e se n'era andato portandoselo via. Disse allora fra sé: "Gente, quest 'uomo adesso avrà bisogno di un asino per t rasportare tut to il bagaglio!". E così si mise a

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imitare il raglio di un asino. Ben presto l'altro venne nella sua direzione, cercando di scoprire dove fosse l'asino che sentiva ragliare. Fu così che i due si in-contrarono.

«Salve!» «Salve!» «Ehi, tu! Non puoi portarti via tutto il bagaglio!» «Va bene!» Allora decisero di dividersi il carico. Fatte le parti,

Dan Katsina disse a Dan Kano: «Preferiresti forse che io ti lasciassi in prestito la mia parte?».

«Sì.» «Già, ma quando me la restituirai?» «Il tal giorno, tra un anno a partire da oggi, né un

giorno più né uno meno.» «D'accordo.» Così Dan Kano partì portandosi via anche la parte

dell'altro, e andò a stare da un'altra parte. Quando si accorse che mancava poco al giorno prestabilito, si ritirò nella tenda senza più uscirne, dicendo ai fami-liari: «Sentite, quando vedrete arrivare un uomo -dovrebbe arrivare domani -, mettetevi a piangere, a piangere a dirotto, dicendo che io sono morto. Gli direte che non ho lasciato nulla, poi mi laverete, mi prenderete e, sotto il suo sguardo, mi avvolgerete in un sudario, mi porterete al cimitero e mi deporrete in una tomba, mentre lui resterà a guardare, fino al momento di andarsene».

E così, quando lo videro e si furono accertati che era proprio il suo uomo, i suoi figli si misero a pian-gere, e anche le mogli si misero a piangere. Fu porta-ta l 'acqua per il lavaggio del cadavere, fu portato il sudario, tutti piangevano e andarono a prendere il corpo, mentre solo il nuovo arrivato se ne stava se-duto. Lo lavarono, lo avvolsero nel sudario, lo solle-

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varono, lo trasportarono al cimitero e lo seppelliro-no. Finita la sepoltura, rientrarono a casa.

Rientrati che furono, Dan Katsina li apostrofò: «Io a quest 'uomo avevo fatto un prestito. Venivo appun-to per vederlo, ma adesso è morto. Non mi ha lascia-to nulla?».

«Nulla. Non ci ha lasciato nemmeno un pollo.» «Be', a questo punto non mi resta che andarmene.

Partirò questa notte stessa.» «Non aspetti l'alba?» «No, no.» Dopo aver cenato, part ì la sera stessa. Lo videro

partire, e lui se ne andò. Ma arrivato alla tomba, si mise a scavare con le mani . Scava, scava, arrivò ai piedi. Quando si accorse di aver messo allo scoperto i suoi piedi, vi affondò le unghie e si mise a fare il verso della iena.

A questo punto l'altro credette che a scavare fosse una iena, e proruppe in un grido disperato: «Gente, venite a difendermi! La iena mi mangia! Gente, veni-te a difendermi! La iena mi mangia!».

Allora Dan Katsina gli prese la mano e la tirò fuori con forza, dicendogli: «Ehi, tu, quando si t rat ta di rubare i miei beni, va tutto bene, ma quando arriva una iena ti viene paura, eh? Uno che ha paura di una iena, come può pensare di rubare i miei beni?».

«E già!»

2 6 . L A C O P E R T A

C'erano una volta, tanto tempo fa, due ricchi giova-notti arabi. Ciascuno di loro disse al padre: «Padre, dammi una gran quantità di merci: me ne andrò in un altro paese a venderle», e a ciascuno di essi il pa-

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dre disse: «Va bene». Li fornì quindi entrambi di una quantità enorme di mercanzie, ed essi partirono.

Arrivati in un paese lontano, ciascuno cercò una casa dove sistemarsi. C'era tutto un quartiere abitato da commercianti, e a uno di loro venne indicata una casa di straordinaria bellezza, superiore a tutte le al-tre, ma in cui fino ad allora chiunque fosse andato ad abitare era poi morto . Ciononostante egli disse che ci sarebbe andato ad abitare.

«Ma sta' attento! Questa casa contiene le foto di tutte, ma proprio tutte le donne del villaggio, sia di quelle sposate sia di quelle non ancora sposate. Ine-vitabilmente la foto di qualcuna finirà per farti inna-morare , e si t ra t te rà di una che non pot ra i avere. Magari sarà già sposata e l 'amore ti farà morire.»

Ciononostante egli disse che ci sarebbe andato ad abitare, e lo fece. Entrò, la esaminò tutta, e giunto al piano superiore, il suo sguardo fu calamitato, né più riusciva a staccarsene, dalla foto di una donna, ri-t rat ta insieme al mar i to e col suo nome scritto so-pra. In un balzo tornò al piano di sotto, e quando fu di sotto cadde contorcendosi come se lo avesse colto una colica di fegato.

Accorse da lui una vecchia, che gli chiese: «Che ti è successo, figliolo?».

«Mi sono innamora to della tale, moglie del tale. Ecco cosa mi è successo.»

«Tirati su e fa' conto di essere guarito. Per questo male la medicina posso procurartela io.»

«E allora, dov'è la medicina che intendi procurar-mi?»

«Lo so io.» «E allora, se lo sai, procuramela!» E così dicendo

le diede cento monete d'oro. La vecchia se ne andò. Si recò al negozio del mari-

to di quella donna bellissima. Nel negozio esaminò

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delle coperte di un tipo inconsueto per quella città, dopodiché ri tornò dal giovane che aveva lasciato, al quale disse: «Adesso alzati e vammi a comprare una di quelle coperte». Allora il malato d 'amore andò a comprare una di quelle coperte.

Quando poi tornò, la vecchia prese la coperta, vi fece una b ruc ia tu ra che lasciò un buco al centro, quindi se ne andò dicendogli: «Tornerò a trovarti». Andò alla casa del mari to della donna, vi entrò e sa-lutò la moglie: «Buongiorno, figliola, come va? Sai, sono un'amica di tua madre, e anzi, alla lontana, so-no anche tua parente». E trascorse con lei le ore del-la siesta.

Quando fu l'ora della pr ima preghiera del pome-riggio, le chiese: «Dov'è un luogo puro in cui tu pre-ghi?». Ed essa rispose: «Vieni che ti porto nel luogo in cui è solito dormire mio marito. È là che prego». E la condusse sulla coperta del marito. La vecchia si mise a pregare mentre lei uscì. Allora lei ne appro-fittò per tirar fuori la sua coperta e la stese sotto la coperta del marito. Poi, finito di pregare, se ne andò.

Si recò poi dal giovane e gli disse: «Bene, la trap-pola è preparata».

«Benissimo!» Orbene, il mar i to di quella donna , quando fu il

momento di andare a dormire, sentì qualcosa sotto la coperta, la tirò fuori e vide che si trattava della co-perta comprata nel suo negozio da quel giovanotto. "Vuoi vedere che quell 'uomo se la intende con mia moglie?" Roso dalla gelosia, l 'uomo chiamò la mo-glie e la rimandò a casa sua. La cacciò di casa.

Il mat t ino dopo, la notizia della cacciata giunse all'orecchio della vecchia, la quale allora andò a tro-vare la madre di quella donna e le disse: «Ho sentito dire che tua figlia è stata scacciata dal marito. Ades-so aspetto che mia figlia mi dia altre notizie: conosci

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le giovani, sono sempre loro che vengono a sapere le novità». E proseguì: «Venivo a sentire se può venire da me per un lavoro che ho da fare a casa: se viene con me, mi aiuterà a finirlo». Ed essa rispose: «Va bene».

Così, agghindò la giovane e la portò via con sé. La portò a casa di quel giovanotto, la fece entrare e ve la chiuse dentro insieme a lui...

Ogni matt ina, di buon'ora, la vecchia passava di là, il giovane le dava cento monete d'oro, ed essa tor-nava a casa sua. Rimasero così soli in quella casa, senza vedere anima viva, per una set t imana intera. L'ottavo giorno, q u a n d o la vecchia passò di lì di buon mattino, l 'uomo le disse: «Adesso puoi riporta-re via la giovane». Essa la riportò da sua madre, glie-la riconsegnò dicendole che avevano terminato il lo-ro lavoro insieme.

Ri torna ta dal giovanotto, disse: «Orsù, ora sarà bene riaccomodare quello che abbiamo guastato».

«In che modo possiamo risistemare le cose?» «Questo pomeriggio, all'ora della seconda preghie-

ra, vatti a sedere davanti all'ingresso della bottega dell'arabo che è il marito della donna. Quando sarai seduto lì dove ti ho detto, io vi passerò davanti e tu, al vedermi, mi salterai addosso, mi strattonerai con vio-lenza, e solleverai il braccio come se volessi colpirmi. A questo punto la gente intorno ti chiederà: "Che cosa ti ha fatto questa vecchia?". E tu risponderai loro: "Questa vecchia... Avevo comprato una coperta da quest 'uomo, ma poi un bambino se l'è messa addosso e ha finito per bruciarla. Lei si è fatta avanti dicendo che conosceva qualcuno in questo villaggio che era in grado di mettere una toppa dal disegno simile a quel-lo della coperta. Io le ho chiesto quanto avrebbe volu-to quest 'uomo, lei mi ha detto una cifra e io gliel'ho

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data, insieme alla coperta, ma da allora non si è fatta più vedere. È una ladra!".»

Fecero dunque così: il giovanotto andò a sedersi davanti all'ingresso della bottega del marito (il qua-le, ovviamente, lo detestava). Dopo un po' passò la vecchia, sgranando il suo rosario. Appena la vide, il giovanotto le saltò addosso, la s t ra t tonò così forte che la fece cadere, e dopo averla strattonata, sollevò il braccio come per colpirla. A questo punto, le per-sone che c'erano nei pressi saltarono su di lui chie-dendogli: «Che cosa stai facendo? Come mai vuoi uccidere questa vecchia?».

«Questa vecchia è una ladra, un'imbrogliona!» «Perché? Che cosa ti ha fatto?» «Avevo comprato una coperta da te» e si rivolse,

ciò dicendo, al proprietario della bottega «e quando l'ho portata a casa se l'è messa addosso un bambino e ha finito per bruciarla . Questa vecchia si è fa t ta avanti dicendo che conosceva qualcuno che era in grado di met te re una toppa dal disegno simile a quello della coperta. Io le ho chiesto quanto avrebbe voluto quest 'uomo e gliel'ho dato, ma da allora non si è fatta più vedere.»

Allora chiesero alla vecchia: «È vero?». «Ebbene, sì, è vero.» «E allora dov'è la sua coperta?» «Non so più dove ho la testa. Questa coperta non

mi ricordo più dove l'ho messa. Mi sono proprio di-menticata dove l'ho messa. Non sapevo che fare. Ho avuto vergogna di tornare da lui. Adesso cercherò di ricordare. Può darsi che mi torni in mente o che voi mi possiate aiutare, dicendomi se è da loro che l'ho dimenticata. Ero tornata in una casa dove mi ricor-davo di essere stata, ma mi h a n n o det to che non l'avevo lasciata lì.»

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L'uomo da cui era stata acquistata le chiese: «Non è che tu sei passata anche da casa nostra?».

«Sì, ero passata anche di lì, e vi avevo anche ese-guito la preghiera, nella tua stanza, quella in cui sei solito dormire.»

«Ebbene, e chi ti ha impedito di ritornare?» «No, no. Io sono tornata ma mi hanno detto che

nella casa non c'era nessuna donna, e allora me ne sono andata.»

A questo punto l 'uomo disse al giovane: «Lasciala stare. La tua coperta se l'è dimenticata a casa nostra. Orsù, gente, siatemi tutti testimoni! Io ho sospettato mia moglie di menzogna. Ho creduto che mi tradis-se con quest 'uomo, e che questi avesse dimenticato da lei la sua coperta, perché sapevo che era stato lui a comperarla. Ma a questo punto, dal momento che è questa vecchia che l 'ha dimenticata, farò tornare mia moglie. Vi chiamo a testimoni che la risarcirò, io che sono stato colpevole nei suoi confronti».

E così fece ri tornare sua moglie e ridiede alla vec-chia la coperta.

Date retta a me, quello che sa fare quella vecchia, non lo sa fare nemmeno il diavolo.

27.I T R E P R E T E N D E N T I D E L L A F I G L I A D E L C A P O

C'erano tre persone che erano in viaggio. Stavano compiendo un viaggio come sono soliti fare quelli che si recano in Libia e a Tamanrasset per cercare lavoro. Ciascuno di loro conosceva bene un mestie-re. Questi tre amici, nel corso del loro viaggio, giun-sero in un paese e si stabilirono da una vecchia che vi risiedeva. Le dissero: «Siamo dei poveracci in cer-ca di lavoro. Preferiamo fermarci da te mentre cer-chiamo se c'è qualche lavoro che possiamo fare».

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«Va bene. Mi bas ta che paghia te il cibo che vi darò.»

E così si stabilirono da lei, andando e venendo dal villaggio in cerca di lavoro.

Un bel giorno, nel villaggio essi incontrarono una splendida fanciulla. Quando la videro cominciarono a litigare. Ciascuno diceva: «Oh, quant e bella questa fanciulla. Voglio essere io a sposarla. Bisogna che mi sforzi di trovare il modo di guadagnare del denaro e poterla sposare!». Erano tutti e tre innamorati , e così cominciarono ad accapigliarsi tra loro. Continuaro-no a litigare durante tutta la strada del ri torno fino al-la casa della vecchia dove si erano stabiliti. Essa portò loro da mangiare ma essi rifiutarono il cibo.

«Cosa vi succede?» chiese la vecchia. «Abbiamo visto u n a ragazza, ognuno di noi ha

detto di esserne innamorato , e allora abb iamo co-minciato a litigare.»

«E chi è, di preciso?» «È la tale, figlia del tale.» «Ah, è la figlia del capo di questo villaggio. Lascia-

te fare a me. Ci penso io. Vado io dal capo a infor-marlo.»

«Va' pure.» E così la vecchia andò dal capo del villaggio e gli

disse: «Alcuni giovanotti , ospiti miei, h a n n o visto tua figlia e ciascuno di loro dice di essersene inna-mora to , al p u n t o che si accapigl iano t ra loro. Se vuoi, te li vado a chiamare».

«Valli a chiamare , in m o d o che io possa vedere che tipi sono.»

La vecchia partì, tornò dai giovanotti e disse loro: «Il capo ha detto che chi di voi ama sua figlia deve andare da lui». Allora essi si r eca rono dal capo. Quando furono al suo cospetto, egli disse loro: «Ri-guardo a mia figlia, devo mettervi alla prova tutti e

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tre per scegliere il migliore. Dal momento che tutti e tre sostenete di esserne innamorati , bisogna che vi sot toponga a una prova in cui uno di voi prevalga sui suoi compagni, affinché io mi renda conto di chi sia il più astuto e il più degno di sposarla. Ora, che cosa sa fare ciascuno di voi?».

Uno disse di essere un marabutto coltissimo, un altro disse di essere un gran ladro e il terzo disse che qualunque cosa cercasse al mondo riusciva a otte-nerla.

«Bene,» disse rivolto al marabu t to «metterò per pr imo te alla prova.» Gli diede quindi da fare le cose che sogliono fare i marabutti , dicendogli di farle in pochissimo tempo. Ed egli eseguì tutto come gli era stato detto di fare. «Bene, il tuo modo di fare è vera-mente ineccepibile. Siediti qui.»

Passò quindi a colui che sosteneva di essere in gra-do di ottenere qualunque cosa desiderasse, e gli disse: «Riempimi la casa d'oro in brevissimo tempo!».

«Dammi una notte di tempo. Se Dio vuole, domat-tina sarà piena.»

«D'accordo.» Andarono a dormire, e l ' indomani all'alba la casa

era piena d'oro. Se avesse fat to dei t rucchi al mo-mento di riempirla, usando per esempio dei semplici sassolini, o se l'avesse realmente riempita d'oro, non lo sappiamo.. .

A questo punto, restava da vedere in azione solo il ladro. Il capo gli disse: «Bene, per te che rubi: ti indi-cherò un luogo pieno di gendarmi che fanno la guar-dia. Voglio vedere se tu riesci a portar via il loro ta-volo, proprio quello su cui scrivono, che si trova in quel posto supercustodito».

«Proverò. Vedrò.» Partì, andò in un villaggio dove acquistò degli in-

dumenti femminili, sopravvesti dai colori sgargianti,

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un grande recipiente e delle bottiglie di bevande al-coliche. Dopodiché prese gli indumenti femminili, li indossò e si travestì da anziana venditrice di bevan-de alcoliche. Si recò quindi da quei gendarmi, che al vederlo lo chiamarono: «Ehi, tu, che cosa vendi?».

«Bevande alcoliche.» «E quanto costano? Quanto?» «Costano tanto.» E disse loro un prezzo. Essi vide-

ro che era conveniente, e dal momento che amavano molto l'alcol tutti ne acquistarono un po'. Rimaneva il loro capo, ma anche a lui dette un po' di bottiglie: alcune gliele vendette, altre gliele regalò. Essi le bev-vero tutte: bevve il capo della guarnigione, bevvero tutti gli altri, e così caddero tutti ubriachi. Il ladro andò dal capoguarnigione, il capo di tutti quanti, lo spogliò, gli sottrasse tutti i vestiti, li indossò e si al-lontanò. Andò a prendersi il cavallo del capo, lo sellò e partì , in sella a questo cavallo, vestito con i suoi abiti. Arrivato dal capo del villaggio, arrestò la sua cavalcatura e gli disse: «Eccoti qualcosa che è anche meglio della tavola: i vestiti del capo di quella guar-nigione, che ho indosso, e il suo cavallo».

«Va bene» gli disse il capo. «Hai compiuto questa impresa in maniera impeccabile; direi anzi addirit-tura in modo s tupefacente! Se riesci a compiere un 'a l t ra impresa del genere, ti do in sposa mia fi-glia.» E così dicendo prese in consegna ciò che il la-dro gli aveva portato.

Dopodiché gli disse: «Orbene, il lenzuolo in cui dormo si trova all'interno di casa mia, custodito da mia moglie. Questa notte tu cercherai di rubarmelo, e io ne sarò al corrente. Se riuscirai lo stesso a ru-barmelo , vieni a po r t a rme lo domani ! Sarò allora convinto che sei davvero un furbo da quattro cotte».

«D'accordo. Appena sarà notte sta' bene attento al tuo lenzuolo.»

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Passò un po' di tempo, e quando fu buio il ladro confezionò un pupazzo a grandezza naturale: lo pre-parò come si deve con della paglia, gli mise dei pan-taloni, una bella tunica e un velo sul volto. Questo pupazzo poteva reggersi in piedi anche se era inani-mato. Egli lo collocò davanti a sé e lo portò con sé. Quando arrivò alla casa del capo, questa non era an-cora chiusa. Allora egli entrò e andò a mettersi vici-no alla por ta della camera da letto del capo. Quest'ultimo, quando entrò in camera da letto, disse alla moglie: «Tu tieni d'occhio il lenzuolo, che non venga il ladro a rubarmelo. Stanotte bisognerà stare molto attenti».

Nel m o m e n t o in cui egli stava facendo l ' amore con la moglie, accadde però che sulla porta si profi-lasse l 'ombra di un uomo immobile lì fuori . Allora andò a prendere un bastone dicendo: «È lui che è ar-rivato!». E mentre prendeva il bastone disse alla mo-glie: «Tienimi tu il lenzuolo! Difendilo bene. Io vado fuori per ucciderlo». E brandendo il bastone colpì il pupazzo inanimato. Questo, lasciato andare dal la-dro, cadde di sotto.

Ma mentre il capo era andato a colpire il pupazzo e a controllare che questo cadesse di sotto, il ladro si intrufolò in camera e, fingendosi il marito, nell'oscu-rità si fece dare il lenzuolo dalla moglie e se ne andò via con esso.

Quando il capo fu ben certo che la sagoma non si rialzasse più, tornò dalla moglie e le chiese: «Dov'è il mio lenzuolo? Adesso quel disgraziato non c'è più: è morto».

«Ma come, il lenzuolo non me lo hai appena preso tu? Io non ce l'ho più!»

«Che disastro! Ebbene, ha vinto lui, s iamo d'ac-cordo.»

Andarono a dormire e l ' indomani il ladro si pre-

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sento a palazzo awol to nel lenzuolo. Il capo gli dis-se: «Se Dio vuole, dunque, sei tu che otterrai mia fi-glia in sposa. Ma manca ancora una dimostrazione di destrezza. Ora, se me la saprai eseguire, non ci sa-ranno più esitazioni: mia figlia sarà tua».

«Che cosa devo fare?» «Voglio che tu rapisca il cadì, colui che rende giu-

stizia. Quando lo avrai rapito devi portarmelo senza che lui si sia reso conto che sei stato tu a rapirlo. E a questo punto, niente storie, sarà veramente finita.»

«Se Dio vuole, ci proverò.» Quel pomeriggio andò al merca to e comprò dei

piccioni, del cotone e molte di quelle vaschette in cui la gente del mercato metteva olio e stoppini di coto-ne dandovi poi fuoco, vale a dire delle piccole lanter-ne notturne. Acquistò anche un grande rosario bian-co e degli abiti tutti bianchi per se stesso.

Aspettò che fosse notte fonda e che tutti dormisse-ro. Andò alla moschea, l'aprì, vi entrò, la disseminò per ogni dove di lumini , in modo da i l luminarla a giorno. Prese poi i piccioni e li sparpagliò nell'inter-no. Erano stati messi dentro grandi recipienti, pa-recchi alla volta, e vi producevano un rumore "glu-glu-glu-glu" che risuonava per tutta la moschea. Egli si pose al centro, reggendo il rosario e sgranandolo. Si era annerito le palpebre con il kohl e si pose a se-dere in at teggiamento ieratico. Si era p ro fumato e aveva con sé molte cose.

A un certo punto il cadì si svegliò nel cuore della notte, chiedendosi: "Che cosa sta succedendo nella moschea senza che io lo sappia?". Infatti la sua casa era adiacente alla moschea. "Sta' a vedere che si re-cita una preghiera a mia insaputa!" E così si avviò verso la moschea . Mentre si avvicinava alla mo-schea, udì i rumor i che vi erano all ' interno, senza riuscire a riconoscerli. Si disse: "Questo che sta av-

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venendo oggi è un miracolo di Dio!". Infilò la testa nell 'interno e scorse una figura umana bianca e gi-gantesca che teneva in mano un rosario. Non aveva mai visto una scena simile. Il giudice ne fu spaventa-to. Cadde a terra e si mise a camminare a quat t ro zampe. Non aveva mai visto quell 'uomo. Quello gli disse: «Avvicinati. È per te che sono venuto».

«Ma chi sei?» «Sono l'angelo Gabriele. È Dio che mi ha inviato. I

buoni giudizi che dai e il tuo lavoro gli sono assai graditi. Egli ha decretato che tu vada da lui, e ha in-viato me a cercarti.»

«Ah, bene. Dal momento che è Dio che mi cerca, che posso volere di più oggi?»

Tutto felice, si prosternò, cadendo col viso al suo-lo. L'imbroglione gli disse: «Quanto a te, il tuo desti-no è già deciso. Dio vuole solo vederti per conversare con te, e io sono venuto a cercarti». In breve, andò di f ronte a lui, si mise a qua t t ro zampe e gli disse: «Aspetta un a t t imo che ti p rendo e ti carico sulla schiena per portarti fino da Dio».

«Benissimo. Sono d 'accordo. Dal m o m e n t o che oggi mi sei venuto a prendere per portarmi da Dio, rendiamo grazie a Dio!»

Il ladro prese il suo sacco (aveva un sacco grande come una persona), e gli disse: «Adesso entraci den-tro e allarga bene le gambe». Egli distese le gambe una a destra, l 'altra a sinistra, e il ladro proseguì: «Adesso sali a cavalcioni sulla mia schiena e volere-mo in alto fino ad arrivare là dove si trova Dio. Allo-ra, fintantoché mi vedrai avanzare così, saprai che staremo volando in cielo; quando poi lo avremo ol-trepassato te ne accorgerai perché mi chinerò.»

Lo fece quindi salire in groppa e si mise a cammi-nare a quattro zampe pian piano, pian piano, conti-nuando a portarlo in giro finché fu giorno.

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Al mattino, quando il capo uscì dal palazzo, c'era fuori solo lui, col cadì sulla schiena. Arrivato davanti al capo, si chinò e lo fece rotolare giù, dicendogli: «Apri gli occhi: s iamo arrivati al cospetto di Dio». Quando il cadì si guardò intorno tutto quello che vi-de fu il capo.

Il ladro lo fece uscire e gli disse: «Ecco qua il cadì!».

«Siamo d'accordo. Sei tu che hai ottenuto il dirit-to di sposare mia figlia.»

2 8 . I L S A C C O D I M E N Z O G N E

C'era un uomo che aveva due figlie e un figlio. Se ne andò a spasso e arrivò in un luogo dove l'acqua fuo-riusciva da u n a cavità della roccia. Vi immerse la bocca per bere, ma mentre stava bevendo sentì qual-cosa che gli afferrava la barba. Era un jinn. «Lascia-mi andare la barba!» gli disse, promet tendogl i in cambio questa o quella cosa, ma qualunque cosa gli offrisse, il genio rispondeva: «No! No!» e concluse: «Quello che voglio è che tu mi riempia un sacco di menzogne. Tornatene a casa. Domani verrò a trovar-ti. Se non mi avrai riempito di menzogne questo sac-co, io vi ucciderò tutti e il mio sciacallo vi mangerà».

«D'accordo.» Quando giunse a casa, il vecchio piangeva. Gli

chiesero: «Cosa ti è successo?». «C'era un jinn che mi ha afferrato la barba e mi ha

l iberato a un pat to: domani verrà a trovarmi, e se per allora non gli avrò riempito un sacco di menzo-gne, ci ucciderà tutti e poi lo sciacallo che lo accom-pagna ci mangerà.»

Allora la figlia minore gli disse: «Papà, smetti di

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preoccupart i . Domat t ina tu e la m a m m a partirete, lasciando qui solo me e il mio fratellino piccolo».

Trascorsero così la notte, e all'alba se ne partirono il vecchio padre, la madre e la sorella maggiore della ragazza. Anche a quest 'ultima essa disse di partire. E così essi se ne andarono. Rimase la ragazza con il fratellino piccolo al suo fianco. Quando apparve il jinn con il proprio sciacallo - lo sciacallo lo seguiva come un cane, e quando lui uccideva qualcuno, lo sciacallo poi se lo mangiava -, quando arrivò, dun-que, il jinn la chiamò:

«Ehi, tu, ragazzina!» «Eh?» «Dov'è tuo padre?» «Mio padre è partito insieme a degli uomini. Sono

anda t i in un posto in cui i l cielo sta cadendo, per metterci dei puntelli.»

«Ah! E tua madre allora?» «La m a m m a è andata con delle donne in un posto in

cui la terra si sta sdrucendo, per metterci una pezza.» «E dov'è tua sorella maggiore?» «Mia sorella ieri era andata al pozzo, e nel ri torno

le era caduta una coscia, per cui adesso è tornata in-dietro per cercarla.»

A questo punto la ragazza diede un pizzicotto al bimbo, che si mise a piangere. Vedendolo piangere, il jinn domandò:

«E adesso che cos'ha da piangere questo bambi-no?»

«Il motivo per cui adesso sta piangendo è che ieri a quest 'ora gli avevamo dato dieci teste di sciacallo per giocare e ballarci intorno, mentre oggi prevede di poterlo fare solo con la testa dello sciacallo che è con te.»

All'udire queste parole, lo sciacallo corse via. E ve-

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dendo fuggire lo sciacallo, anche il jinn ebbe paura e fuggì pure lui.

E questo è tutto.

2 9 . L A C I V E T T A

A proposito della civetta - o del barbagianni, non so bene, comunque uno dei due - dicono che il suo ver-so, che si sente di notte, dica: «Nekk teqqiim da!» («Per me, è r imasta sola!»).

Un tempo la civetta era una donna con un mari to che l 'amava assai. A quel tempo, la gente sapeva in anticipo quanto era destinata a durare la propria vi-ta. Ora, al mar i to venne annunc ia to che avrebbe avuto ancora due anni di vita, mentre la moglie sa-rebbe morta di lì a un anno. Allora quest 'uomo prese una decisione, e poiché era innamora to della mo-glie, le disse: «Uno dei due anni che mi restano da vi-vere lo dono a te: tu vivrai ancora due anni, mentre io ne vivrò uno solo; morirò pr ima di te».

Tutti furono molto impressionati da questo fatto, e la voce arrivò fino a un tale che ne fu ol t remodo colpito: per quanto una persona possa amare un'al-tra, non le fa dono di metà della propria vita.

Riflettendo su questa notizia che gli era stata rife-rita, il tale si disse: "Quanto amore ha per sua moglie quest 'uomo! Ma chissà se l 'amore di questa donna per lui è pari a quello di lui per lei?".

Più ci pensava più la cosa gli sembrava stupefa-cente. Era veramente ammira to che qualcuno potes-se far dono di metà della propria vita. Decise quindi di andare a trovarlo, e si mise in viaggio per recarsi da quest 'uomo di cui aveva sentito parlare.

Lui era una persona sicura di sé. Era un bell'uo-mo. Quando arrivò dall 'uomo che aveva donato alla

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moglie metà della propria vita, questi non era in ca-sa. Chiese sue notizie e gli fu detto: «Non è qui». In quella uscì sua moglie che lo vide e se ne innamorò.

Essa gli disse: «Non voglio restare qui. Voglio ve-nire via con te».

«Ah, no! Non andrò via con te. Ho paura di tuo marito.»

«Oh, mio marito. . . Non è nemmeno il caso di par-larne. Verrò via con te.»

Egli rifiutò, ma lei continuò a blandirlo, a fargli la corte, a blandirlo, a importunarlo. Dai e dai, alla fine l 'uomo partì. Fuggì con lei mentre il marito non era ancora tornato.

Dopo un certo tempo, l 'uomo che stava fuggendo con la donna le disse: «Facciamo sosta qui per ripo-sare».

«No! Se ci f e rmiamo qui mio mar i to ci raggiun-gerà subito. Meglio proseguire alla svelta per non farci raggiungere.»

Così ripartirono e continuarono fino a un luogo in cui, comunque, finirono per far sosta. Scesero, si se-dettero, e mentre erano fermi in quel posto la moglie scorse il marito che si stava dirigendo verso di loro seguendo le loro tracce.

Gli disse quindi: «Non te l'avevo detto che se ci fossimo fermati quello ci avrebbe raggiunti? Eccolo che arriva».

Egli r imase ad at tenderlo. Quando arrivò, ci fu una colluttazione tra il mari to della donna e l'altro uomo . La lotta si p ro t rasse per un bel po', f inché l 'uomo che aveva rapito la donna si arrese e cadde a terra. Dopo averlo fatto cadere, il mari to chiese alla moglie: «Passami il coltello che lo sgozzo!».

La moglie si rifiutò. L'uomo, quando sentì che la donna non avrebbe dato il coltello al marito, balzò su aggredendolo e facendolo cadere. A questo punto

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fu lui a chiedere alla donna: «Dammi il coltello che ti sgozzo il marito!».

Questa volta la donna gli passò il coltello. Quando glielo ebbe dato, egli lo puntò alla gola del mari to le-gittimo della donna.

«Ti rendi conto che sei morto? Non c'è più dubbio, sei morto!»

«Sì.» A questo punto, l 'uomo si rialzò lasciandolo anda-

re, e gli disse: «Vedi, quello che voglio non è uccider-ti, e non è neppure p rendermi tua moglie. Quello che mi ha mosso è ciò che hai detto tempo fa: come hai potuto donare a tua moglie metà della tua vita, dimostrandoti così innamorato? Questa donna non dovrebbe amare altri che te». E proseguì: «Ecco che il tuo proposito si è mostrato inutile, perché questa donna, pur senza conoscermi, quando sono venuto da lei ha deciso di venir via con me».

Ciò detto, l 'uomo se ne andò, tornò da dove era ve-nuto.

Il mari to tornò a casa sua. La lasciarono stare, ed essa rimase sola.

30. C H I È IL P I Ù O N E S T O ?

Si dice che vi siano due persone. Di queste due per-sone si vuole sapere quale sia la più onesta.

Ci sono due amici, uno che sta ad Agadès e uno che sta a Tighazerin. Orbene, quello di Tighazerin quel giorno decise di partire per andare ad Agadès a trovare il suo amico. Dal m o m e n t o che ad Agadès può capitare di fare affari, prese con sé cinquemila reali. Si disse: "Aspetta che li metto in tasca, me ne vado ad Agadès, sbrigo i miei affari e vedo anche il mio amico".

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Partì , si mise in cammino e a un certo pun to si trovò nella località di Tin Tebezgin, in un luogo de-serto. Qui giunto pensò: "Però, se mi porto fino ad Agadès tutti i cinquemila reali rischio di sperperarli in affari di nessun profitto. Farò così: ne prenderò quattromila, mi porterò fuori strada e, approfittan-do del fatto che non c'è nessuno che mi possa vede-re, scaverò una buca e ve li metterò dentro. Li sep-pell irò f ino al mio r i torno, e allora passerò a riprendere i miei soldi". E così fece: mentre nessuno poteva vederlo, si allontanò dalla strada, andò in un posto dove scavò u n a buca e seppellì qua t t romi la reali, tenendosene in tasca solo mille. Quindi ripartì, per andare ad Agadès dal suo amico.

Già, il suo amico. Anche lui quel giorno aveva pre-so la decisione di partire per andare dal suo amico di Tighazerin. Anche lui prese cinquemila reali e li mi-se in tasca pensando che, quando fosse arrivato a Ti-ghazerin, avrebbe potu to fare acquist i di prodot t i della regione, oltre a vedere il suo amico. Quando fu pressappoco a Tudu, i due si incontrarono.

Incontrandolo, l 'amico gli disse: «Guarda un po', stavo venendo proprio da te!».

«Ah, sì? Anch'io stavo andando a Tighazerin per venire a trovarti, e a questo punto, dal momento che sono già sulla strada, è meglio che mi raggiunga tu dopo a Tighazerin.»

«Va bene. D'accordo.» Quello che aveva in tasca mille reali riprese dun-

que il viaggio ed entrò in città. L'altro, invece, che ne aveva con sé cinquemila, ri-

prese il cammino e quando si trovò davanti al luogo in cui l 'altro aveva seppellito il suo denaro, i suoi quattromila reali, ebbe anche lui l'idea che se fosse arrivato a Tighazerin avrebbe rischiato di dissipare i suoi soldi. Si allontanò dalla strada e Dio lo condus-

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se davanti allo stesso albero sotto il quale l 'amico aveva seppellito i suoi quattromila reali. Qui giunto, disse f ra sé: "Bene, adesso scaverò una buca e vi metterò i miei soldi". Scavò la buca, e mentre stava scavando si imbat té propr io nei qua t t romi la reali dell'altro. Li vide, ma si limitò a estrarre i suoi quat-tromila e a deporveli, dopodiché ricoprì il tutto e se ne ripartì alla volta di Tighazerin.

Qui giunto, vi rimase un certo tempo, mentre l'al-tro, che aveva seppellito i suoi soldi pr ima di lui, do-po essere arrivato ad Agadès, sulla via del ritorno, si fermò alla buca e vi trovò ottomila reali, ma si limitò a t i rar fuor i i suoi quat t romila , lasciando gli altri quattromila dove stavano, e ricoprendoli di terra.

Arrivò dove si trovava il suo amico, ma non gli disse: "Ho visto dei soldi". Non gli disse assoluta-mente nulla.

Quest'ultimo, dopo un certo tempo, ripartì, e arri-vato nel solito luogo, trovò che sotto terra c 'erano solo i suoi quattromila reali, gli altri non c'erano più. C'erano solo quelli che lui aveva messo prima.

A questo punto, si vuole sapere quale dei due sia il più onesto.

31 . L E P E R S O N E N E L P O Z Z O

C'erano una volta una donna, suo marito, sua madre e sua suocera. Essi erano in viaggio e, quand'ebbero sete, si fermarono a un pozzo profondo.

Ora, il mari to reggeva la mano di sua madre, che, appesa a lui, giungeva fino al fondo del pozzo. A sua volta, la mano dell 'uomo era appesa a quella della moglie, mentre la mano di quest 'ultima la teneva la madre di lei.

Quando ebbero finito di attingere acqua dal pozzo

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e di trasportarla fino alla superficie, la donna disse al marito: «Lascia andare la mano di tua madre se non vuoi che anch'io lasci andare la tua».

A questo punto, che farà il marito? Se lascia andare la mano della madre, questa ca-

drà in fondo al pozzo e morrà. D'altra parte, se inve-ce man te r r à la presa, colei che odia la suocera la-scerà anda re tut t i e due - forse a m a già un al t ro uomo -, e morranno in due.

Altrimenti, che cosa può fare adesso? Lo chiedo a voi.

32. LA D O N N A E IL L E O N E

Una donna venne rapita: dei nemici la portarono via. Strada facendo, essa riuscì a fuggire. Trovò un leone, che la portò in groppa fino al suo villaggio. I suoi ne furono felici, e le chiesero: «Chi ti ha riportata qui?». Essa rispose: «Mi ha trasportata fin qui un leone: è stato buono nei miei confronti, peccato che gli puz-zasse la bocca».

Il leone, acquattato nelle vicinanze, udì ciò che lei aveva det to e se ne andò. Passarono alcuni giorni, finché un giorno la donna se ne andò a raccogliere legna. Incontrò allora un leone che le disse: «Prendi un bastone e colpiscimi». Essa gli rispose: «No, non ti colpirò. Un leone mi ha fatto del bene, non so se sei stato tu o un altro». Il leone le disse: «Sono stato io». Ed essa replicò: «Non posso colpirti». Il leone insistette: «Colpiscimi o ti mangerò!». La donna pre-se un bastone e lo colpì procurandogli una ferita. Al-lora il leone le disse: «Adesso vattene».

Due o tre mesi dopo, il leone si trovò nuovamente a tu per tu con la donna. Il leone disse alla donna: «Vedi il posto dove mi hai colpito? È guarito o no?».

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La donna gli rispose: «È guarito». Il leone le chiese: «Il pelo è ricresciuto?». E la donna: «Sì». Allora il leone le disse: «Una ferita si rimargina, ma una pa-rola cattiva non guarisce mai. Preferisco un colpo di spada alla lingua di una donna».

Quindi l 'afferrò e la divorò.

33 . L A M A S S I M A D A C E N T O M O N E T E D ' O R O

Un uomo aveva duecento monete d'oro. Un giorno affermò: «A colui che mi insegnerà una massima uti-le darò cento monete d'oro». E uno gli disse: «Ti in-segnerò io una massima utile».

«E qual è?» «È meglio passare la notte con la collera che con il

rimorso.» E quello gli diede cento monete d'oro. Quindi riprese a dire: «A colui che mi insegnerà

una massima utile darò cento monete d'oro». Un al-tro: «Ti insegnerò io una massima utile».

«E qual è?» «Quando rientri da un viaggio, non fermarti per la

notte a poca distanza dalla tua tenda.» Ora, avvenne che l 'uomo dovette intraprendere un

viaggio, ment re sua moglie aspettava un bambino. Rimase in viaggio anche dopo la nascita del figlio, f inché quest i non fu cresciuto e si fu fa t to uomo. Quando r i tornò, si unì a una carovana numerosa . Cammina, cammina, giunsero a poca distanza dalla località in cui si trovava la sua tenda, prepararono la cena e si accinsero a trascorrere la notte. Si ricordò allora della massima che aveva acquistato per cento monete d'oro. Prese quindi la sua cammella, la sellò, partì e arrivò alla sua tenda nel cuore della notte.

Trovò la moglie che dormiva con accanto un uo-

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mo della sua stessa statura. Estrasse il pugnale e sta-va per piantarglielo nel ventre quando si sovvenne della massima secondo cui "È meglio passare la not-te con la collera che con il r imorso". Rimise il pu-gnale nel fodero. Rimase fino al mat t ino in at tesa che l 'uomo si alzasse per poi ucciderlo. Quando fu mattina, udì sua moglie che diceva all'altro: «Alzati e prega Dio di far tornare tuo padre».

Da ciò comprese che si trattava di suo figlio, per cui disse: «Ringrazio Dio di avere acquistato quella massima per cento monete d'oro: essa ha salvato la vita di mio figlio».

34 . L ' U O M O C H E C E R C A V A I L P A E S E D O V E N O N S I M U O R E

Questa è la storia di un uomo che aveva una madre molto anziana. Egli pensò di cercare un paese in cui non si morisse mai. Decise di mettersi in viaggio alla ricerca di questo paese in cui non si muore mai, e se nei paesi in cui giungeva vedeva delle tombe, non si fermava ma proseguiva la ricerca di un paese in cui non vi fossero cimiteri. Attraversò tutti i paesi senza trovarne uno in cui non vi fossero cimiteri. Un uomo gli disse: «Dove te ne vai in continuazione? Hai viag-giato per tutti i paesi lasciando sola la tua vecchia madre». Egli rispose: «Io cerco un paese in cui non vi siano cimiteri». E quello riprese: «Se mi pagherai il noleggio dei cammelli, ti farò vedere un paese in cui non vi sono tombe per i defunti». Al che egli ri-spose: «Se tu mi farai vedere un paese in cui la gente non muore mai, ti darò tutti i beni che posseggo».

Si misero in viaggio insieme e arr ivarono in un paese in cui non vi erano tombe per i defunti. Fer-marono i cammelli presso questa gente. L'indomani

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l 'uomo che aveva fa t to da guida chiese all 'altro: «Adesso dammi ciò che mi spetta perché ti ho fatto conoscere un paese in cui non vi sono sepolture». Questi gli diede tutti i beni che possedeva e quell'uo-mo partì.

Il nostro si installò in quel paese. Un giorno dovet-te andare in un luogo poco distante. Affidò ai vicini la madre che stava dormendo.

Quando la videro addormentata, i vicini la sgozza-rono, la fecero a pezzi e ne tennero una parte per il fi-glio. Quando questi fu di ritorno, gli dissero: «Tua madre era sul punto di morire, noi l 'abbiamo sgozza-ta e ci siamo divisi la sua carne. Ce ne una porzione anche per te». L'uomo rifletté: "Cercavo un paese in cui la gente non muore mai e sono arrivato in un po-sto dove la mangiano!". E se la diede a gambe levate.

35 . L A S T O R I A D I A M M A M E L L E N E D I E L I A S

Ammamellen aveva una sorella. Un indovino gli ave-va predetto: «Sta scritto che tu avrai un nipote che sarà superiore a te in intelligenza». Perciò tutte le volte che la sorella dava alla luce un maschio, egli lo uccideva. Finché un giorno essa partorì contempo-raneamente alla sua schiava. Prese quindi la propria creatura, la diede alla schiava e prese con sé il figlio di quest'ultima. Ammamellen arrivò, lo prese e lo uc-cise.

Il figlio della pad rona r imase presso la schiava, crebbe e si fece uomo. Il suo nome era Elias.

Ammamellen non lasciò nulla di intentato per riu-scire ad attirarlo in un tranello e ucciderlo. Elias era superiore a lui, e Ammamellen non riusciva a ucci-derlo.

Un giorno Elias giunse molto assetato da Amma-

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mellen. Quest'ultimo sapeva dove si trovava l 'acqua nella montagna, ma non voleva fargliela vedere. La montagna non serbava tracce, dal momento che il suolo era completamente roccioso. Quando scendeva la notte, Ammamellen andava coi suoi schiavi ad ab-beverare le greggi. Bevevano di notte e ritornavano mentre ancora tutti dormivano. Elias prese i sandali degli schiavi, ne unse le suole di grasso e attese. L'in-domani potè seguirli fino al luogo in cui si erano reca-ti: il terreno calpestato dalle suole, ancorché roccioso, conservava tracce di grasso, e così egli riuscì ad arri-vare all'acqua. Ammamellen lo vide e lo seguì di na-scosto. Mentre Elias stava chinato a bere, vide riflet-tersi nell'acqua l 'ombra di Ammamellen che, con la spada sguainata, stava per colpirlo alla nuca. Fece al-lora un rapido balzo dall'altra parte e se ne fuggì via.

Ammamellen fece r i torno alla sua tenda. Un bel giorno, se ne andò all 'imboccatura di un vallone e vi lasciò delle t racce con le zampe di animali mort i : cammelle, capre, pecore e asini. Vi fece entrare an-che tre vecchi cammell i , uno con un occhio solo, uno con la rogna e uno con la coda tagliata. Tornò alla sua tenda. L'indomani disse a Elias: «Va' a vede-re quel vallone: sappimi dire che cosa c'è dentro». Elias andò a vedere il vallone e il suo contenuto, do-podiché to rnò da Ammamellen. Questi gli chiese: «Elias, hai visto il vallone?».

«Sì.» «Allora, cosa c'è e cosa non c'è? Ti piace o non ti

piace?» «Mi piace, solo che ci sono delle tracce di animali

mort i e di tre vecchi cammelli, uno con un occhio solo, uno con la rogna e uno con la coda tagliata.» Allora Ammamellen gli chiese: «Come fai a scoprire u n a di f ferenza f ra le t racce di un animale vivo e quelle di un animale morto?».

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«L'unghia di un animale vivo ri torna su se stessa portandosi dietro della sabbia; quella di un animale morto no.»

«E come fai a scoprire una differenza tra un cam-mello che ha un occhio solo e uno che li ha tutti e due?»

«Il cammello con un occhio solo strappa dagli al-beri le foglie solo dal lato dell'occhio che ci vede.»

«E come fai a scoprire una differenza fra un cam-mello con la rogna e uno senza?»

«Quello con la rogna si gratta contro tutti gli albe-ri che incontra, lasciando tracce di questo sfrega-mento.»

«E come fai a scoprire una differenza tra un cam-mello con la coda e uno senza?»

«Lo sterco del cammello senza coda rimane in un mucchio unico, mentre quello del cammello con la coda viene disperso e sparpagliato dalla coda.»

Un'altra volta, Ammamellen partì e si recò in un luogo dove raccolse erba in abbondanza, ne fece dei fasci, li rivoltò e disse a Elias: «Domani andrete nel tal luogo e porterete via i fasci d'erba che vi ho radu-nato». Detto questo, se ne andò e, di nascosto, lo precedette in quel luogo, se ne andò verso un covo-ne, vi entrò e si acquat tò aspet tando che arrivasse Elias per ucciderlo.

Quando arrivò Elias, raccolse tutti i fasci d 'erba t ranne uno, a cui rifiutò di avvicinarsi. I suoi compa-gni gli dissero: «Perché hai raccolto questi covoni e quello lo hai lasciato stare?». Ed egli rispose: «Que-sto qui respira, mentre gli altri non respirano».

Udito ciò, Ammamellen balzò fuori, prese il gia-vellotto, glielo scagliò contro ma lo mancò. Allora disse: «Mi inchino a te, figlio di mia sorella, che mia sorella ha partori to facendolo credere figlio di una schiava».

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Nota ai testi

Parte I

Le fiabe di questa parte provengono da: Uwe Topper, Màrchen der Berber, Colonia, Eugen Diederichs Verlag, 1986. Quando questo autore non ha tradotto materiale proprio ma è partito da un testo berbero già pubblica-to, la traduzione è stata fatta su quest'ultimo. I casi so-no segnalati volta per volta.

1. Il mostro. Tradotta da Laoust (1949) n. 94, era sta-ta raccolta presso i Bani Mtir a El Hajeb, nel Medio Atlante. Nella trama, a prima vista piuttosto confusa, di questa fiaba, sono contenuti alcuni elementi che possono risalire a una remota antichità: in particolare il tema del riconoscimento della morte e dell'atteggia-mento nei suoi confronti. La raffigurazione della morte sotto forma di una mula o di una giumenta (a Ouargla, nel Sahara algerino: Tagmart) è una immagine diffusa nel mondo berbero, ma non solo: si veda per esempio il sinistro personaggio di Spina de Mul nelle saghe ladine delle Dolomiti (Dal Lago 1989). Al terrore della morte che, sperimentata coi vecchi genitori, perseguita per tutta la vita la donna, il figlio e il marito, si contrappo-ne in questo racconto la speranza in una salvezza che viene fornita dall'albero su cui la donna si arrampica, evidente ripresa dell'antichissima immagine dell' "albe-ro della vita". All'interno della favolistica berbera, l'in-treccio trova interessanti corrispondenze con la fiaba n. 12 della Parte II (La quercia dell'orco). Per l'espres-

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sione finale "il suo fegato era spezzato", equivalente al nostro "ne ebbe il cuore spezzato", si vedano le osserva-zioni alla fiaba n. 17 della Parte III.

2. L'acqua che non cade dal cielo e non sgorga dalla terra. Questa fiaba, dettata a U. Topper da Abdullah Unwar, riprende temi assai diffusi sia in Oriente sia nel Nordafrica. In particolare, innumerevoli sono le fiabe che contengono il "motivo di Turandot", con la doman-da da risolvere pena la decapitazione. Per il particolare dell'eroe che, nel corso di precedenti avventure, elabo-ra un "indovinello" insolubile, si può dire che, mutatis mutandis, si abbia qui un corrispondente berbero della fiaba italiana nota come II figlio del mercante di Milano nella raccolta di Italo Calvino (1968).

3. Il mercante, l'ifrit e i tre vecchi. Narrata nel 1981 da Si Hsan, un cantastorie professionale, sulla piazza Dje-maa el Fna di Marrakesh. Essa ripete con notevole fe-deltà il testo di una celebre fiaba (Il mercante e il genio delle Mille e una notte). Solo il racconto del terzo vec-chio risale a una versione completamente diversa e ab-breviata; per il resto, la stupefacente identità di alcuni dettagli (per esempio il "ricavo decuplo" ottenuto dai fratelli commercianti, o l'incantesimo opera non della fata ma di una sua sorella, ecc.) è la prova della grande professionalità dell'esecutore. Circa la credenza, comu-ne in tutto il mondo musulmano, della possibilità di ir-ritare i jinn, invisibili, gettando sconsideratamente og-getti o acqua bollente, si può vedere anche, più avanti, il racconto n. 9.

4. Il principe Mohammed che rapì la figlia del capo-tribù dei nomadi. Tradotta dal testo in tashelhit di Hans Stumme (1895), n. 7. Abbastanza curiosa la posizione -in questa e in numerose altre fiabe berbere - delle per-sone affette da tigna, le quali, nonostante il loro aspetto

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poco accattivante, finiscono spesso per prevalere su tutti. Si veda anche, più avanti, le fiabe n. 8 e n. 10 . Se-condo la tradizione, un re di Tlemcen di nome El-Ablaq El-Fertas ("L'Albino Tignoso") sarebbe il fondatore di Oujda (R. Basset, Nédroma, Parigi 1901, p. 208). La tra-sformazione, qui poco chiara, dell'ifrit in un servitore negro, è più comprensibile nella fiaba corrispondente in Cabilia (n. 19, Parte II).

5. Ahmed U-n-Amir. Fiaba narrata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj nel 1985 e identica quasi parola per parola alla n. 10 della raccolta di Hans Stumme (1895). Il nome del protagonista, Ahmed U-n-Amir si-gnifica letteralmente "Ahmed Figlio-dell'Emiro". Sono relativamente frequenti in Nordafrica i racconti il cui protagonista è un principe innominato o noto solo co-me Figlio del Sultano, eventualmente accompagnato dal neutro Ahmed (o Mohammed), il nome più diffuso in ambito islamico, soprattutto tra i primogeniti. È cu-rioso, qui, che al nome non corrisponda di fatto una di-scendenza regale del giovane. Riguardo all'usanza di tingere le mani con l'henné, va ricordato che essa è fre-quentissima tra le donne mentre per gli uomini tale operazione viene effettuata solo in casi eccezionali, p. es. nella notte delle proprie nozze. Per questo la tintura delle mani di Ahmed per opera degli esseri angelici ha qui anche il significato diretto di annunciare il matri-monio. Con la sua ricchezza di simboli "forti" il rac-conto si presta comunque a letture allegoriche. Un ten-tativo di interpretazione (basato anche su altre versioni) si trova in A. Bounfour, La parole coupée. Re-marqu.es sur l'éthique du conte, in «Awal», 2 (1986), pp. 98-110.

6. Il re con un figlio bianco e uno nero. Raccontata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj, della tribù degli Haha. Compare qui con ampio risalto la dicotomia

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bianco-nero (normalmente associata alla dicotomia li-bero-schiavo), estremamente frequente nei racconti nordafricani. Assolutamente eccezionale è invece la circostanza che il ruolo positivo sia qui svolto dal nero e non dal bianco. (In Marocco sono tuttavia tramanda-te le imprese di un "Sultano Nero" che avrebbe regnato parecchi secoli fa e avrebbe assediato Tlemcen. Cfr. R. Basset, Nédroma, p. 11 e App. IV.) Un particolare che compare anche in numerose altre fiabe nordafricane è quello dell'arrestarsi degli orchi (o delle orchesse) di fronte ai corsi d'acqua mentre stanno inseguendo gli eroi del racconto. Ciò sottolinea il carattere selvatico di questi personaggi, così estranei al mondo civile degli umani da non sapere nemmeno nuotare, e questa estraneità alle espressioni della "civiltà" degli uomini vale, in generale, anche per ogni altra creatura non umana presente nelle fiabe. Per esempio, nel racconto n. 4 della Parte III, il narratore sottolinea con sarcasmo la scarsa abitudine a cavalcare del jinn rapitore di fan-ciulle, che se ne sta rigido e impacciato sulla sella pre-giata di Mauritania. Questi esseri apprezzano, però, i risultati che si ottengono con le arti degli uomini, per cui, per esempio, non è raro che l'eroe riesca a ingra-ziarseli liberandoli, con una perfetta rasatura, dal pela-me lungo e incolto che li caratterizza.

7. L'uccello bianco e l'uccello nero. Fiaba raccontata a U. Topper nel 1982 da Zahra bint Mohammed di Mar-rakesh. L'autore tedesco segnala una particolare va-riante turca da Istanbul - ampliata con una seconda parte - messa per iscritto tra il 1939 e il 1947 da Bora-tav (Zaman zaman iginde, Istanbul 1958; trad. tedesca di A. Uzunoglu-Ocherbauer, Tiirkische Màrchen, Frank-furt/M. 1982 (trad. it. di Oreste Bramati, Fiabe tur-che, Milano 1992). In essa si parla di un solo uccello bianco, mentre gli altri due uccelli che vi ricorrono so-no senza significato.

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8. Aggelamush. La fiaba proviene da Hans Stumme (1895), n. 16. In altre versioni marocchine della fiaba, il nome della strana creatura su cui si incentra la storia è

Alì Amosh, vale a dire "Alì il Gatto". Di un gatto vero e proprio (denominato appunto Mosh, "gatto") si parla nella versione algerina riportata nella Parte II di questa raccolta col n. 17. La curiosa particolarità fisica del so-vrano della seconda parte, che ha le corna, fa pensare ad Alessandro Magno, noto nel mondo islamico come Dhu 1-Qarnayn ("Quello dalle due corna"), nominato perfino nel Corano (sura XVIII, 83 ss.). Un racconto al-gerino su "Gennaio, l'uomo dal corno" è stato pubblica-to nel 1903 nei Mémoirs de la Société de Linguistique de Paris da E. Doutté. Notevoli, comunque, in questa se-conda parte, i richiami a motivi della mitologia classi-ca, come la vicenda delle orecchie d'asino di re Mida, la cui esistenza venne divulgata inconsapevolmente dal suo barbiere che si liberò del segreto in una buca del terreno sulla quale in seguito crebbero delle canne che con il loro fruscio ripeterono la notizia. A Ouargla (Delheure 1989, 334 ss.) vi è un analogo racconto, in cui figurano delle orecchie di cane e la rivelazione è fatta da vermi della terra.

9. La donna che venne rapita da un jinn. Raccontata da un giovane dei pressi di Igherm nell'Anti-Atlante. Sulla credenza che, gettando oggetti o versando dell'ac-qua bollente alla cieca, si possa far male a un jinn, si veda anche sopra, la fiaba n. 3. U. Topper, che ha rac-colto il racconto, riferisce di avere udito in proposito l 'aneddoto che segue: «Un appartenente alla nostra confraternita gettò via sbadatamente l'acqua calda ri-masta nel recipiente dopo l'abluzione per la preghiera notturna, e immediatamente ricevette uno schiaffo da un essere invisibile. Per questo bisogna guardarsi dal versare dell'acqua calda nell'oscurità». Una scena di giudizio presso il re degli spiriti che assolve l 'umano

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perché ignaro di aver danneggiato uno spirito è ricor-data anche a Ouargla (J. Delheure 1988, p. 373). In questo, come in altri racconti (n. 19 e 27, ma anche n. 35 della Parte III), compare un accenno a riti di geo-manzia, divinazione ottenuta interpretando segni ca-sualmente tracciati sulla sabbia. Su questa tecnica, an-cora piuttosto diffusa nel mondo berbero, si può vedere, da ultimo, Casajus (1993).

10. L'uomo con la pipa. Fiaba raccontata a U.Topper da un pescatore berbero della tribù Haha sull'Atlantico nel 1984. Come nella n. 54, anche qui risulta chiaro il valore attribuito ai fumatori di hashish, che diventano gli eroi della storia. In effetti gli stati di coscienza alte-rati indotti dalla droga possono essere - e nell'ambito di certe comunità mistiche sono - considerati sintomo di contatto con un mondo trascendente, ispirato. Que-sta lunga versione sembra comprendere l'unione di di-versi nuclei narrativi, in cui sono presenti molti ele-menti diffusi in altre fiabe, berbere e non, per esempio il travestimento da tignoso del protagonista o il suo ab-bandono in fondo a un pozzo da parte dei fratelli. Fre-quente nella favolistica berbera è anche il modo di uc-cidere orchi e draghi per dissanguamento, evitando di tagliare loro tutti gli arti (o, più spesso, le teste), perché dopo l'ultima amputazione essi ricrescerebbero.

11. La figlia del jinn. Tradotta sul testo di Renisio (1932), pp. 188 ss. Anche questa fiaba riunisce in sé nu-merosi motivi assai noti sia in ambito magrebino sia altrove. Il tema del bacio che fa dimenticare la donna amata si ritrova anche, per esempio, nelle fiabe n. 187 e n. 194 della raccolta dei fratelli Grimm.

12. Il jinn di Imzuwurt. Raccontata a U. Topper da Mohammed U-Lhajj, della tribù degli Haha. A proposi-to di questa fiaba, U. Topper riferisce di averla udita

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narrare a più riprese nel corso degli anni, per opera di diversi abitanti di Ait Tamlal, anche se solo pochi avrebbero trovato il coraggio di narrarla per intero. Le capanne sul Capo vengono visitate anche in altre epo-che da singoli o da gruppi che intendono pregare per la fecondità.

13 .La negra con i due gomitoli. Tradotta dal testo in tashelhit di Emile Laoust (1949), n. 98, pp. 99-100, il quale lo aveva raccolto presso gli Ntifa a Tanant nel 1916. Molto diffuso in tutto il Nordafrica è il tema del-la usurpazione della posizione della padroncina bianca da parte di una schiava negra, anche se perlopiù lo scambio di colore della carnagione avviene in seguito a un bagno in fontane riservate una ai bianchi e una ai negri (si veda per esempio la fiaba n. 1 della Parte II). La spietatezza con cui viene tradizionalmente punita la serva è emblematica di quanto fosse cruciale nella società tradizionale il rigido mantenimento dei ruoli. Analoghe versioni europee (per esempio La ragazza delle oche nella raccolta dei fratelli Grimm, n. 89) sono invece incentrate sullo scambio di vestiti.

14. I due fratelli e l'ifrit. Dal testo in tashelhit di Hans Stumme, Màrchen der Schluh von Tazerwalt (Leipzig 1895), n. 4. Notevoli sono le congruenze col racconto I due fratelli dei fratelli Grimm (n. 60), dove l'eroe viene aiutato non da un cane ma da un leprotto.

15. L'uomo che avrebbe dovuto seminare fave. Narra-ta a U. Topper da Erqia, un'anziana donna della tribù degli Haha. Il tema della persona che, invece di semi-nare e coltivare fave, se le mangia salvo poi andarle a cercare nell'orto di un'orchessa, è diffuso in tutto il Nordafrica (si veda per esempio la fiaba n. 10 della Par-te II). Quello delle creature magiche che per un furto nell'orto si prendono la figlia della colpevole è lo stesso

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della Prezzemolina della tradizione italiana. La fanciul-la che vive con l'orchessa qui non viene nominata; in un racconto analogo raccolto da Laoust (1949), n. 97, essa ha il nome di Lunja "del roccione". Su questo per-sonaggio (altrove chiamato anche Runja, Nuja o simi-li), assai noto in Nordafrica, si possono vedere le fiabe n. 2 e n. 19 della Parte II.

16. L'uccello dalle uova d'oro. Fiaba narrata a U. Top-per da un giovane della tribù degli Haha. Essa è ben nota in tutto il Nordafrica e anche altrove. Nonostante la trama nel complesso diversa, vi è accordo nel parti-colare dei due figli che mangiano le parti più pregiate dell'uccello fatato (il cuore e il fegato) con la fiaba n. 60 dei fratelli Grimm I due fratelli. Pressoché identica nel-la sostanza è invece la fiaba yiddish n. 27 della raccolta di Silverman Weinreich (1992). Ovviamente in quest'ultima versione il malvagio che alla fine viene pu-nito non è un ebreo (il prototipo del malvagio nelle fia-be berbere), bensì un "signorotto"consigliato da un prete.

17. L'Uomo e il Gigante. Fiaba narrata a U. Topper da Abdullah Unwar. Anche questo testo contiene moti-vi assai diffusi sia in Nordafrica sia altrove. In ambito europeo, un confronto può essere fatto con due raccon-ti dei fratelli Grimm: Il coraggioso piccolo sarto (sette in un colpo), n. 20 e II gigante e il sarto, n. 184, ciascuno dei quali contiene una parte degli episodi del racconto berbero.

18. Il fabbricante d'oro. Fiaba raccolta a Rabat da U. Topper. Al contenuto morale del racconto (che potreb-be far parte della serie di miti relativi alla città di Jedad u ben Ad) si affianca una probabile reminiscenza della tradizione alchemica araba.

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19. Il contadino e il re. Fiaba raccolta a Rabat da U. Topper. Il tema centrale, basato su una serie di equivo-ci e giochi di parole che consentono a una persona qua-lunque di passare per grande indovino, è assai diffuso, anche al di fuori del Nordafrica. Un esempio tra tanti il Dottor Satutto dei fratelli Grimm (n. 98).

20. Il pescatore che andò dal re. Raccolta a Rabat da U. Topper. Benché le vicende siano nel complesso diverse, una certa analogia si può riscontrare con il racconto n. 101 della raccolta yiddish di Silverman Weinreich (1992) Perché i capelli diventano grigi prima della barba: anche in quest'ultima storia, infatti, vi è un umile lavo-ratore, favorito dal re per il suo buonsenso e osteggiato dai suoi consiglieri, il quale si cava d'impiccio in una cir-costanza proprio grazie all'identificazione delle monete con l'effigie del sovrano e il sovrano stesso.

21. La schiava furba. Raccontata a U. Topper da Zah-ra bint Mohammed a Marrakesh nel 1982. Non a caso, le fiabe che narrano l'abilità delle donne vengono soli-tamente narrate da donne. Nel mondo maschile, i rac-conti in cui la donna dimostra la propria bravura ten-dono solitamente a sottolinearne l'astuzia usata per prendersi gioco degli uomini. Si vedano più avanti le fiabe n. 32 e n. 35.

22. Il medico saggio. Questa, come le due fiabe suc-cessive, Un saggio consiglio e La grossa eredità sono sta-te raccontate a U. Topper a Rabat da giovani originari dei monti circostanti.

23. Un saggio consiglio. Tradotta dal testo n. 66 di Laoust (1949), raccolto presso gli Ntifa dell'Alto Atlan-te. La trama prende spunto da un tema assai diffuso nella letteratura orale berbera di tipo gnomico, vale a dire l'enunciazione delle tre cose migliori o - più spes-

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so - delle tre cose da evitarsi, ecc. Un lungo testo cabilo raccolto da M. Mammeri nei suoi Poèmes Kabyles an-ciens (Le mariage de Tartina, pp.226-257), consiste in una sorta di competizione poetico-retorica tra vari ani-mali e uccelli per aggiudicarsi l'amore della bellissima Tanina, e contiene molti di questi "aforismi trimem-bri", p. es.: "Mio padre un giorno mi ha detto: un cam-po attraversato da troppi sentieri, un aratro traballan-te, una moglie con dei figli di primo letto, fuggiteli, amici!"; "Tre cose fanno piangere il cielo: chi si reca all'assemblea senza saper parlare; chi va di notte a ru-bare e si mette a cantare; chi testimonia su cose che non ha veduto"; "tre cose fanno piangere il gatto: chi sposa una racchia che fa la difficile; chi è ricco e lascia che i suoi parenti si nutrano d'erba; chi ha figli malvagi e si vanta della prole", e così via. La capacità di com-porre rapidamente questi triplici aforismi (i cosiddetti timsal), in rima su una parola data, era una dote molto apprezzata per i depositari della cultura orale tradizio-nale, che in certi casi davano vita a vere e proprie "ten-zoni oratorie" tra i "campioni" di diverse tribù. (Si veda al riguardo Allioui 1990.)

24. La grossa eredità. Raccontata a U. Topper a Ra-bat. Già presente nella raccolta di storielle edificanti del religioso Johannes Pauli, Schimpf und Ernst, Stra-sburgo 1522, dove peraltro dallo stesso fatto veniva tratta una morale diversa.

25. La guarigione dell'avaro. Raccontato a U. Topper dagli Haha, sul margine occidentale dell'Alto Atlante. Secondo la religione islamica i defunti subiscono nella tomba, subito dopo la morte, un primo giudizio in se-guito a un interrogatorio da parte di due angeli, Munkir e Nakir, e nel caso siano trovati meritevoli di punizione vengono puniti in vario modo già nella tom-ba; alla fine del mondo, poi, avrà luogo il giudizio uni-

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versale (su cui si veda la fiaba n. 61) con la definitiva condanna all'inferno o ammissione al paradiso.

26. Il cadì e il cacciatore. Raccontata a U. Topper da Abdallah Unwar. Sul tema del ribaltamento di una sen-tenza ingiusta, cfr. anche la n. 19 della Parte III.

27. Lo strano dono nuziale. Raccontata a U. Topper da Abdallah Unwar. Il tema dell'empietà dei cadì, sog-getti spesso alla tentazione, alla corruzione e al male, è assai diffuso a livello popolare e compare anche in al-tre fiabe (p. es. la n. 23, la 26, la 48 e la 52 della Parte I). È credenza comune che le tombe dei malvagi ospitino spesso animali impuri (cani, serpenti, scorpioni). Si ve-da, per esempio, Yafi'i (1993) pp. 211-212.

28. Il sultano e i Berberi. Raccontata a U. Topper nel-le tende degli Zayan nel Medio Atlante. La gag del vec-chio con la barba bianca che non conosce abbastanza l'arabo per esprimersi con eleganza è molto riuscita. U. Topper riferisce che "tutti gli ascoltatori si piegano in due dalle risa quando viene narrato questo racconto buffo. Di fatto, le tre parole che il vecchio riferisce alla sua tribù: pascolo, ariete e segale, hanno un bel suono, mentre le espressioni riferite al re: ronzino, pastore e asino, suonano in modo sgradevole".

29. Il maestro di Corano tra i Berberi. Raccontata, co-me la precedente, nelle tende degli Zayan nel Medio Atlante. Anche questo racconto si incentra sulla incom-prensione dell'arabo da parte dei Berberi. Una sorta di rivincita sui colti cittadini, depositari di questa lingua, privilegiata dalla religione ma troppo ostica per le po-polazioni rurali.

30.I Figli dell'Avarizia. Raccontata a U. Topper dagli Zayan nei pressi di Ummer Rbia nel Medio Atlante. Per

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capire appieno il senso della storia, va tenuto presente che il siero prodotto con la fabbricazione del burro è sempre assai abbondante e di scarsissimo pregio, al punto che non si esita a darlo agli animali.

31 .La pelle magica. Sono qui raccolti alcuni degli in-finiti episodi della saga di Juhà, raccontati a U. Topper da Si Hsan sulla piazza Djemaa el Fna a Marrakesh. Su questo personaggio, ora tonto e ingenuo ora furbo e smaliziato, esiste una letteratura immensa. Particolar-mente significativa la raccolta di Mouliéras (1987). Racconti della serie sono presenti anche nel meridione d'Italia, e in particolare in Sicilia, dove l'eroe ha preva-lentemente il nome di Giufà (alcuni episodi sono com-presi anche nelle Fiabe italiane di Calvino). Su questo personaggio, in diverse tradizioni, si può ora vedere Corrao (1991) e Cohen Sarano (1990).

32. Il potere delle donne. Ambedue i racconti sono stati raccolti da U. Topper a Asfi. Tipica espressione di una società maschilista, rappresentano un genere assai diffuso. A essi si possono accostare le fiabe n. 35 e n. 39 della Parte I e la n. 26 della Parte III.

33. Lalla Maghnia. Leggenda narrata a U. Topper da Zahra bint Mohammed, una donna di Marrakesh. Il personaggio al centro del racconto è una santa la cui tomba è ancor oggi venerata a Lalla Maghnia in Alge-ria. Una versione più completa, ma sostanzialmente aderente a questo testo, della leggenda di Lalla Magh-nia è riportata in A. Maraval-Berthoin (1927). Come si può vedere, nel mondo delle confraternite sufi non ven-gono apprezzate solo le virtù religiose ma anche quelle guerresche.

34. La principessa Gazzella. Fiaba narrata a U. Topper da un giovane di Igherm nell'Anti-Atlante. Essa contiene

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numerosi motivi assai diffusi, anche al di fuori del Nor-dafrica (p.es. la foresta interdetta e la caccia alla gazzel-la). Sul modo di far parlare la principessa muta, si veda la nota alla fiaba cabila n. 19 della Parte II.

35. L'astuta Aisha. Narrata a U. Topper da Zahra bint Mohamed di Marrakesh. Appartiene, come la n. 39 e la n. 32, a quel genere che si compiace di descrivere le astu-zie femminili nei confronti degli uomini. Il "personag-gio" di Aisha è comunque una figura che emerge a tal punto in questo genere da vivere quasi di vita propria. Su ciò, cfr. M. Virolle-Souibès (1993), pp. 377-390.

36. La moglie innamorata. Racconto recitato a U. Top-per a Rabat da giovani originari dei monti circostanti. Numerosi racconti riferiscono le vicende penose di chi, non potendoselo permettere, cerca affannosamente il modo di sacrificare un animale in occasione della Festa del Sacrificio (p.es. n. 5 e n. 8). Il tema viene qui però af-frontato in un modo quasi farsesco che ne fa una specie di "barzelletta".

37. Il magico cuscus. Raccontata a U. Topper nel 1985 da un giovane del Sus, che sosteneva trattarsi di "un avvenimento autentico". Per la preparazione del cuscus con la mano di un morto allo scopo di annullare la volontà dei mariti e altre pratiche magiche si può ve-dere Doutté (1984), pp. 302 ss.

38. La povera donna e l'orchessa. Raccontata a U. Topper da Erqia, una donna di circa settantanni della tribù Haha nell'Alto Atlante in lingua tashelhit. Per il suo contenuto, essa si può accostare alla fiaba n. 5 del-la Parte II, incentrata sul personaggio di una povera ve-dova che riesce, lavorando sodo e impiegando l'astuzia, ad allevare e a salvare dall'orchessa i suoi numerosi fi-

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gli (sette è il numero magico di gran lunga più frequen-te nelle fiabe).

39. Le donne astute. Raccontata a U. Topper da Si Hsan nella Djemaa el Fna di Marrakesh. Il racconto - che appartiene allo stesso genere della fiaba n. 32 e delle al-tre ivi ricordate - è già apparso in Justinard (1926), pp. 49 ss. col titolo Le tre sorelle, ed è commentato in Virolle-Souibes (1993), pp. 377-390. A Ouargla vi è una versione molto simile, che però si conclude male per colei che ha ecceduto nel prendersi gioco del prossimo (Delheure 1989, pp. 258 ss.)

40. Come fu che il garzone mangiò a sazietà. Questa storia è stata narrata a U. Topper ad Asfi. A questo stes-so genere di astuzie che consentono ai servitori di farsi una bella mangiata alle spalle dei padroni appartiene, per esempio, la fiaba La saggia Gretel dei fratelli Grimm (n. 77), già presente nella raccolta del religioso Johannes Pauli, 1522, cit., la cui trama peraltro corri-sponde in modo più preciso alla versione cabila presen-te nel Decamerone nero di L. Frobenius (Astuzia femmi-nile, pp. 237-238). L'episodio di bestialità perpetrato con l'asina rimanda a pratiche non ancora scomparse nelle campagne (si veda anche il racconto Ainichthem dello stesso Decamerone nero). Probabilmente è nell'in-tenzione di evitare episodi del genere che va vista l'ori-gine del tabù ancor oggi vigente in Cabilia (Algeria): in questa regione non viene tollerata la presenza di asini femmina, per cui non esiste un allevamento locale di asini, che vengono acquistati nelle regioni circostanti.

41. L'adulterio. Fiaba narrata a U. Topper da un vec-chio pescatore della tribù degli Haha. Essa presenta una certa rassomiglianza col motivo di Adamo ed Eva (cfr. più avanti, n. 51), anche se qui è esplicitamente segnala-to che fu l'uomo e non la donna a venire meno a un patto

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(cosa questa piuttosto notevole se si considera il basso concetto che la società tradizionale ha della fedeltà delle donne). Il prigioniero della caverna (che compare anche nella fiaba n. 60), è il Dujjan, corruzione del nome arabo Dajjal, "Il (sommo) impostore", con cui si designa tradi-zionalmente una sorta di Anticristo, un personaggio che farà la sua comparsa, secondo l'escatologia musulmana, prima della fine del mondo. Sulla figura del Dajjal si può vedere Noja (1988), pp. 60 ss.

42. La bella donna. Narrata dallo stesso vecchio pe-scatore delle fiabe n. 51 e n. 52 . È chiaro il valore alle-gorico dell'intero racconto. Come riporta U. Topper, i simboli presenti in esso andrebbero così intesi: «Il gio-vane sta per ben Adam, l'uomo; la bella donna è l-'aql, l'intelletto, creato da Dio e caduco come tutte le cose create; la casa sta per la dunya, questo mondo; il servo, 'abd, è un angelo; il padrone di casa, da cui tutto e tutti dipendono, non si fa vedere affatto. Egli è Rabb, colui che ci sostenta, Iddio».

43. La mucca dei due orfanelli. Questa versione pro-viene dal Sus ed è stata messa per iscritto da Laoust (1921), pp. 245-248. È una delle fiabe più amate e dif-fuse tra le popolazioni berbere, compresi i Tuareg (cfr. qui la n. 6 della Parte III). Per la Cabilia, oltre alla ver-sione di Mouliéras (1893-98), pp. 330-340, si veda an-che la n. 6 della Parte II, dove è presente anche l'altro motivo che talora si sostituisce a quello della mucca che sostenta i due bimbi con il suo latte, vale a dire quello delle due canne cresciute sulla tomba della ma-dre morta e ripiene luna di miele e l'altra di burro. Il Corano condanna severamente chi defrauda gli orfani: Sura delle Donne, IV, 10: "In verità coloro che consu-mano iniquamente i beni degli orfani, consumano fuo-co nei loro ventri e saranno alimento del fuoco dell'In-ferno".

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44. Il rìccio e lo sciacallo. Raccontata a U. Topper nell'Alto Atlante. Per un'altra versione, quasi identica, nel Rif, cfr. Justinard (1926), pp. 40 ss. Sempre molto apprezzato in ambito berbero, nei racconti il riccio prevale per la sua astuzia e il suo coraggio anche su animali in teoria più forti e pericolosi. Lo zimbello pre-ferito, in numerosissime fiabe, è proprio lo sciacallo. Questa considerazione per il riccio nel mondo berbero discende probabilmente dall'utilità di questo animale, che viene talora tenuto vivo nelle case per liberarle da insetti, scorpioni scarafaggi ed eventualmente serpenti e vipere. Il nome stesso con cui viene designato in Ma-rocco, bu-mohammed, "Quello di Maometto", sembra indice di una particolare considerazione del riccio co-me colui che è aiutato da Dio.

45. Così va il mondo. Dal testo in lingua tashelhit in Laoust (1922), p. 243, dalla tribù dei Ntifa. Uno degli innumerevoli episodi della saga del riccio e lo sciacallo. Il particolare del pozzo con un animale che esce e l'al-tro che va a fondo è già presente in Le loup et le renard di La Fontaine (libro XI, fiaba VI).

46. La figliastra e il rìccio. Dal testo riportato in Hans Stumme (1895), n. 27. Un racconto assai simile, in cui un riccio salva alcune persone catturate da un leone, si trova anche nello Mzab (in Delheure 1986, pp. 314-316).

47. La tartaruga. Tradotta a partire dal testo riporta-to in Hans Stumme (1895), n. 31. C. Grottanelli mi ha fatto rilevare la curiosa coincidenza che si può rilevare con un episodio del racconto mande Surro Sanke ripor-tato nel Decamerone Nero di L. Frobenius (1971, pp. 215 ss.), in cui pure vi è la necessità di mostrare che un teschio è dotato di parola. Se l'eroe di quest'ultima fia-ba riesce alla fine ad avere una risposta e a salvare la propria vita, è curioso che il teschio dapprima continui

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a ripetere: "Perché ho parlato troppo", e alla fine dica solo: "La bocca, la bocca!", quasi che si trattasse della testa tagliata al protagonista del racconto berbero...

48. Da dove vengono le cicogne. Narrata a U. Topper da un pastore degli Zayan. Sono piuttosto frequenti nel mondo berbero le leggende relative all'origine di diver-si animali (perlopiù uccelli), visti come esseri umani trasformati nello stato attuale in seguito a qualche loro malefatta. Si veda anche, p. es., la fiaba n. 29 della Par-te III.

49. Perché gli asini hanno il muso bianco. Narrata a U. Topper da Erqia, anziana donna della tribù Haha nella primavera del 1985. Ben nota, e addirittura pro-verbiale in tutto il Nordafrica, la sottomissione degli asini a qualunque percossa, viene spiegata dai Berberi di Ouargla, nel Sahara algerino, come punizione per un'insubordinazione dell'asino del Profeta. Per questa spiegazione, insieme a una versione in poesia della pre-sente storia, si veda Delheure (1988), pp. 246-253.

50. Come si originano le cavallette. Narrata a U. Topper da Erqia, una donna della tribù Haha sulla settantina ne-gli anni '80. Delle leggende relative alla città di Massa ha trattato con una certa ampiezza R. Montagne (1924): sia riguardo ai miti escatologici che prevedono qui la nasci-ta del Dajjal e del Mahdi, sia riguardo alle credenze sulle balene, connesse a un culto, in questa località, del profe-ta Giona. Entrambe queste credenze, già riportate da Ibn Khaldun (XIV sec.) e da Giovanni Leone Africano (XVI sec.), sembrano avere un'origine assai remota.

51. Gli inizi del mondo. Narrata a U. Topper da un vec-chio pescatore della tribù Haha sulla costa atlantica. La storia di Adamo ed Eva è ricordata in diversi punti del Corano (per esempio 2, 30-37; 7, 11-27). Rispetto alla

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storia biblica, nella tradizione islamica il nome di Caino (Qabil), è ricalcato su quello di Abele (Habil). Anche nel Corano l'angelo ribelle (Iblis) non è punito per aver cer-cato di rivaleggiare con Dio ma per aver rifiutato di sot-tomettersi all'uomo. Il racconto aderisce in gran parte al testo coranico (anche per l'episodio di Caino e Abele: su-ra V, 27-31, dove si parla pure del corvo che fa capire le prescrizioni relative al seppellimento dei morti, secon-do una versione di origine, sembra, talmudica). Innova-zioni berbere sembrano essere il movente della gelosia per il peccato di Eva e la lunga peregrinazione di Adamo ed Eva separati dopo la cacciata dal paradiso terrestre. Per altre versioni berbere di queste storie, cf. J. Delheure 1986, pp. 277 ss. (Mzab) e L. Frobenius 1971, pp. 11 ss. (Cabilia).

52. Della caducità dei beni di questo mondo. Dello stesso vecchio pescatore della fiaba precedente. L'epi-sodio è narrato nel Corano, XXXIV, 14 dove viene attri-buito a Salomone il fatto di essere rimasto appoggiato al bastone dopo la morte finché un "animale della ter-ra" (termite? verme?) non lo ebbe rosicchiato facendo-lo cadere. Questo mito è unito a quello della città di Ad, la cui distruzione a opera dei venti è ripetutamente ricordata nel Corano stesso (p. es. XLVI, 21-28). Tale storia viene facilmente accostata alle numerose creden-ze di una città sotto la sabbia nei pressi di Massa, città da cui dovrebbero uscire, alla fine del mondo, il Dajjal, il Mahdi e Gesù figlio di Maria (cfr. R. Montagne 1924, pp. 112 ss.). A detta di U. Topper, di questo mito esiste-rebbe addirittura una redazione eseguita solo in una "lingua arcana" (in gebundener Sprache).

53. Il sarto nella città felice. Narrata da Abdullah Unwar a U. Topper, che segnala una versione analoga del XIII secolo, proveniente da Baghdad. In essa, la mo-glie del darwish cui era toccata questa singolare espe-

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rienza gli diede addirittura dei figli, che egli rincontrò dopo molti anni nella sua vita "terrena", il che rafforza-va il carattere realistico del racconto. La sostanza del racconto presenta analogie con la fiaba n. 5 o la n. 23 della Parte II (si veda il commento a quest'ultima), an-che se qui la trasgressione non è un peccato di curiosità ma di avidità.

54. Aatiallah. Fiaba moraleggiante raccontata a U. Topper da Abdullah Unwar. A giudicare dal tema - l'as-soluto abbandono al volere di Dio, senza cercare di in-tervenire attivamente nei suoi disegni - l'origine è qua-si sicuramente sufi.

55. I due fratelli. Favoletta sufi, narrata a U. Topper da un Berbero della regione intorno a Sefru (Medio Atlante). È diffusa in numerose redazioni in tutto il Maghreb, e una sua variante (/ due fratelli che andarono al diavolo) compare perfino in una raccolta di racconti yiddish dell 'Europa orientale (Silverman Weinreich 1992, p. 102).

56. Il nome supremo di Dio. Racconto sufi raccolto da U. Topper presso un giovane di Safi. La mistica islamica ha elaborato diverse teorie riguardo i nomi di Dio ("il Clemente", "il Misericordioso", ecc.), fissati nel numero canonico di 99 (in realtà esistono svariate raccolte di 99 nomi da parte di diversi autori, per cui il numero com-plessivo è di fatto superiore), cui se ne aggiungerebbe un centesimo e sommo, noto solo a pochissimi eletti, la cui conoscenza conferirebbe poteri quasi soprannatura-li. Alcuni degli episodi qui riportati compaiono già in una raccolta del mistico yemenita del XIV sec. Abdallah ibn Asad al-Yafi'i (Yafi'i 1993, pp. 61-62 e 149-150).

57. Il santo in Paradiso. Raccontata a U. Topper da un pescatore sulla costa atlantica, tribù degli Haha, in

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lingua tashelhit. Molto simile è il racconto yiddish Co-me Giuda Halevi salì in cielo da vivo di Silverman Weinreich (1992) pp. 286-287, n. 129, di lontane origini talmudiche. Il modo familiare - e qui quasi scanzonato - di trattare con lo stesso Padreterno è effettivamente abbastanza caratteristico del mondo giudaico più che di quello islamico, perciò mi sembra che per questo racconto si possa pensare a un'origine ebraica. Non va comunque dimenticato che un'analoga familiarità con Dio è tipica anche del mondo dei mistici musulmani.

58. Nostro signore Khadir. Narrata a U. Topper da un pescatore della tribù degli Haha. Khadir (o Khidr) sa-rebbe, secondo la tradizione, il personaggio di cui parla - senza farne il nome - il Corano nella sura XVIII, 65-82, di cui la prima parte di questa fiaba è quasi una tra-duzione letterale. Questo personaggio (il cui nome vuol dire "il verde", riconducibile forse a un'antica divinità della vegetazione) è particolarmente caro ai mistici islamici, secondo i quali egli sarebbe il capo sopranna-turale dei 40 abdal ("santi") presenti in ogni momento sulla terra (i "quaranta compagni" del racconto). Diver-se avventure lo vedono protagonista in Yafi'i (1993), pp. 123 ss. e passim.

59. Jujumajuj. Questa fiaba, come pure le quattro successive, è stata narrata a U. Topper da un pescatore della costa atlantica in lingua tashelhit. Mentre le figu-re di Gog e Magog (=Jujumajuj) sono diffuse in tutto il mondo islamico, dal momento che ne parla già lo stes-so Corano (Sura della caverna, XVIII, 94 e Sura dei pro-feti, XXI, 96), specificamente berbera sembra la previ-sione dell'avvento, alla fine dei tempi, di una moltitudine di nani. La descrizione di questi esserini, "che possono a stento vedere oltre il bordo del paiolo stando sulla punta dei piedi", coincide in modo impres-sionante con quella dei nani dell'escatologia cabila,

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"sette dei quali potranno giocare in un amud (recipien-te della capacità di circa 5 litri)". Cfr. C. Lacoste-Dujar-din (1993) pp. 363-375.

60. Il drago rosso del Dujjan. Narrata a U. Topper da un pescatore. Questa fiaba aderisce più della preceden-te all' escatologia musulmana tradizionale (già elabora-ta a partire dai hadith) che prevede un unico essere mostruoso ribelle a Dio, il Dajjal, in Marocco anche Dujjal/Dujjan (cfr. anche, sopra, la n. 41), cui si oppor-ranno vittoriosamente Gesù, figlio di Maria, e il Mahdi. In Cabilia, il corrispondente Tsejjal può essere un na-no, oppure quella moltitudine di nani che nella fiaba precedente sono invece identificati con Gog e Magog. Cfr. C. Lacoste-Dujardin (1993) pp. 363-375.

61. La fine del mondo. Narrata a U. Topper da un pe-scatore. Tutto il materiale di questo racconto trae spunto da brani coranici. Su Lot, in particolare la sura XXVI, 160-175, dove si parla di "una pioggia: terribile pioggia", alludendo alla pioggia di fuoco che distrusse Sodoma. L' epressione "Non vi erano più donne" del racconto allude probabilmente al peccato dei Sodomi-ti, ricordato nello stesso brano del Corano: "V'accoste-rete voi ai maschi di fra le creature? E abbandonerete le spose che per voi ha creato il Signore?"(trad. di A. Bausani, Firenze, Sansoni, s. d. [1961]). Da Noè prende il nome la sura LXXI. Sono ricordati nel Corano anche la bilancia (VII, 8 e LV, 7) e il libro delle azioni compiu-te (XVII, 13-14).

62. Una profezia. Narrata a U. Topper da un vecchio pescatore nei pressi di Mogador (1973). Su Sidi Meg-dul e altre credenze e usanze religiose dei pescatori berberi della regione, cfr. E. Laoust (1923). Secondo Topper, il brano che comincia con "Il bel porto sarà al-lora..." e finisce con "una noce schiacciata dalla zampa

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di un cammello" potrebbe provenire da Afkir Mohand Awzal, "un celebre veggente morto più di un secolo fa" (alludendo probabilmente all'autore di Awzali 1960). La profezia della venuta da Massa del Mahdi, o Bab-n-Sa'a ("Signore dell'Ora") è estremamente antica ed è già riferita da Ibn Khaldun nella sua Muqaddima ("Pro-legomeni", cap. Ili, § 50) e da Giovanni Leone Africano. Le altre fonti islamiche riferiscono comunque che il Mahdi verrà "da occidente" (cfr. Noja 1988, p. 61).

63. La porta del ravvedimento è ancora aperta. Narrata a U. Topper dal capo di una confraternita religiosa nella piana del Sus. La parola tawba ("ravvedimento") ricorre nel Corano, e dà il nome alla sura IX. Secondo il poeta religioso berbero al-Awzali, vissuto nel XVIII sec. (1960, w. 316-317), la porta del ravvedimento (imi n tubt) per il singolo resta aperta fino ai rantoli dell'agonia. A questo punto la porta del pentimento si chiude; se si fa ancora prova di contrizione, non sarà più accettata e non vi sarà più possibilità di pentimento fino al giorno in cui il sole si leverà a occidente. L'interruzione e l'inversione del corso normale del sole è prevista da molti racconti escatologici. In Cabilia il "rivolgimento della terra" vie-ne però normalmente inteso come un fuoriuscire nel mondo superiore degli esseri del sottosuolo (Lacoste-Dujardin 1993, p. 369).

Parte II

Le fiabe di questa parte provengono da: Marguerite-Taos Amrouche, Le grain magique. Contes, poèmes, pro-verbes berbères de Kabylie, Paris, Maspéro, 1966.

1. Il chicco fatato. Assai nota in tutta la Cabilia, ma anche altrove in Nordafrica, questa fiaba è stata già pubblicata in numerose raccolte (se ne veda p. es. una

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versione marocchina al n. 13 della Parte I). La versione più estesa è forse quella di Belaid At Alì ( 1956). La figura della malvagia vecchia Settut (spesso con connotazioni di vera e propria strega) è frequente nelle fiabe cabile. La contrapposizione tra bianchi/liberi e negri/schiavi (quest'ultimo concetto è espresso in berbero da un uni-co vocabolo, akli), è sempre molto sentita e compare in questa fiaba esaltata al massimo. Il tema umoristico de-gli animali al pascolo che, commossi, piangono e non possono brucare, tranne uno sordo che ingrassa, è pre-sente anche in altre fiabe. Un'eco di questo tema è inse-rita nel finale della fiaba marocchina n. 8 della Parte I.

2. Lunja, figlia di Tseriel. Il personaggio dell'orchessa, che in Cabilia assume il nome proprio di Tseriel, è una presenza immancabile nei racconti di tutto il Nordafri-ca. Il nome proprio Lunja, qui attribuito a una sua figlia (in verità di natura sostanzialmente umana), ritorna -sotto varie forme: anche Runja o Nuja - in diversi rac-conti per denominare la bella che l'eroe va a cercare lon-tano e strappa a un'orchessa (sul personaggio cfr. ora Michael Peyron, An unusual case of bride quest: the Ma-ghrebian "Lunja" tale and its place in universal folklore, in «Langues et littératures» 5, 1986, pp. 49-66). Non esclu-do che al nome della protagonista sia connesso quello di Lghunja, una bambola costituita da un mestolo ricoper-to di abiti femminili che viene ritualmente portata in processione in periodo di siccità per implorare la piog-gia ("Fidanzata di Anzar", dove Anzar è il nome della pioggia). Il fatto che il suo fidanzato in molti racconti venga rapito e sia quasi morto ma poi ritorni in vita è un chiaro rimando agli antichi miti sulla fertilità. L'attra-versamento di un fiume facilitato magicamente ai pro-tagonisti del racconto da un uso di parole educate ("dol-ci") è connesso con un proverbio cabilo: "Con la lingua dolce anche un fiume diventa un rigagnolo".

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3. Storia della rana. Questa gustosa scenetta ricalca nella sua seconda parte, con toni evidentemente burle-schi, il motivo del botta e risposta tra la massima bellez-za pennuta (Tannina) e i vari uccelli (e animali), che si trova in Mammeri, Poèmes Kabyles anciens , pp. 227-257 e nella Legende des oiseaux, «Fichier de Documentation Berbère», 83, III, 1964. La rana è considerata il prototi-po della bruttezza femminile: si veda il proverbio: "Lo scarafaggio si è sposato: ha sposato la rana". La leggen-da vuole che il corvo sia diventato tutto nero per aver te-nuto per sé un deposito che gli era stato affidato.

4. Chi di noi è la più bella, o luna?. In questo racconto, su un inizio affine a quello di Biancaneve si inserisce un tema assai diffuso anche tra le fiabe italiane: quello del-la fanciulla allevata da un essere mostruoso (serpente, drago, lucertolona, donna con testa bovina, ecc.), e da questi successivamente punita - e alla fine perdonata -in seguito alla dimenticanza del pettine al momento di sposare un principe. Si veda, p. es., il commento di Italo Calvino (1968) alla storia Testa di bufala, che ricorda co-me ne sia nota una versione fin dal Seicento nel Penta-merone di Giambattista Basile (I, 8). Interessante la va-riante presente nelle fiabe dei fratelli Grimm (n. 3, La figlia di Maria), in cui la bellissima fanciulla è allevata dalla Madonna in Paradiso.

5. Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere queste fiamme! Un breve racconto, dalla tematica assai simile a quella della fiaba n. 38 della Parte I. Anche qui una povera vedova riesce, lavorando sodo e impiegando l'astuzia, ad allevare e a salvare dall'orchessa i suoi nu-merosi figli. Non a caso sia questa fiaba sia quella della prima parte sono state narrate da donne, in quanto tali bene a conoscenza del peso delle incombenze - qui de-scritte minuziosamente— che ricadono sulle spalle del-la donna berbera. Sarebbe inconcepibile per il mondo

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dei maschi, nella società islamica, l'idea di una donna che riesca a cavarsela così brillantemente anche in que-sti frangenti pur essendo priva dell'assistenza di un maschio adulto (padre, marito o fratello). Il racconto costituisce dunque una sorta di compensazione gratifi-cante per le donne che lo narrano e si rispecchiano nel-le azioni della protagonista, eroica sia nelle fatiche quotidiane sia in circostanze fuori dall'ordinario. Un interessante parallelo a questa storia si ha tra i Tuareg, i quali tramandano la vicenda di una colossale e bellis-sima jinniya (in tuareg talhint), che sarebbe comparsa a un uomo di nome Shisshi e ne avrebbe copiato pedis-sequamente ogni gesto, compreso quello - fatale per la sua capigliatura - di porsi in capo un tizzone acceso. Ancora oggi essi chiamano "jinniya di Shisshi" chiun-que sia solito imitare sempre ciò che fanno gli altri (Le génie de Cicci, in Foucauld 1984, pp. 294-295). Questa stessa entità misteriosa è nota a Ouargla come Tswi-rìyet, "L'Immagine" o, forse meglio, "Il Miraggio" ed è assai temuta. Anch'essa ripete (riflette?) ogni azione e può essere vinta inducendola con l'inganno ad acco-starsi a braci ancora accese (J. Delheure 1988, p. 369).

6. La mucca degli orfanelli. Su questa fiaba, assai dif-fusa in tutto il mondo berbero, cfr. il commento a quel-la corrispondente raccolta in Marocco, Parte I, n. 43. Nel corso del racconto viene accennato un proverbio che la stessa Amrouche riferiva altrove per esteso: "Co-me il piccolo dell'asino: al mattino incanta; a sera delu-de". La fata-guardiana del pozzo, che si incontra nella storia, ricorda la credenza assai diffusa in Cabilia, se-condo la quale ogni cosa, soprattutto nell'ambito della casa o delle sue adiacenze, sarebbe posta sotto la cura di un A'essas ("Guardiano"), il quale la custodisce per conto di Dio, che ne è l'unico vero proprietario, mentre gli uomini l 'hanno solo in aff idamento temporaneo. Normalmente invisibili, i Guardiani possono prendere

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dimora in rocce o piante particolari, che divengono og-getto di mille riguardi.

7. La principessa Sumisha. L'espressione "occhi di fal-co" indica particolare bellezza dello sguardo. Il falco (Lbaz) è in Cabilia considerato un uccello quasi fiabe-sco, degno sposo della mitica Tanina, simbolo di supre-ma bellezza tra tutti gli animali. In questo racconto so-no presenti, oltre a motivi originali, anche numerosi "luoghi comuni" della favolistica berbera. Per esempio, lo stratagemma di immergere nell'acqua bollente la ma-no della persona (spesso una vecchia) da cui si desidera-no ottenere informazioni, oppure il racconto della sta-tua muliebre portata alla vita e contesa tra gli uomini che hanno contribuito a costituirla, già visto in una fia-ba marocchina (Parte I, n. 34) e presente anche, più estesamente, nella n. 19, più avanti.

8. Il flauto d'osso. Un tratto interessante di questa fiaba (come pure della n. 11 e della n. 22) è l'assenza delle formule di rito all'inizio e alla fine ("Che il mio racconto sia bello e si dipani come un lungo filo!" e "Il mio racconto è come un ruscello, l'ho raccontato a dei Signori!"), il che fa capire che questa non viene intesa come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazio-ne di un fatto realmente accaduto.

L'elogio fra virgolette che la madre fa del figlio più grazioso "la sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, es-sa illumina i sentieri" proviene da una ninna-nanna che nel libro di T. Amrouche era riportata per esteso dopo la fiaba n. 10: Stella del mattino, te ne prego, Per-corri i cieli / Alla ricerca del mio bambino / E raggiungilo là dove riposa. // Lo troverai ancora nel sonno: / Sistema-gli delicatamente il cuscino / E guarda che non gli man-chi nulla. / Il Signore lo ha creato pieno di grazia, / La sua bellezza si fa beffe degli ornamenti, / Essa illumina i sentieri.

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9.I cavalli di lampi e di vento. A proposito dell'epite-to del cavallo, anche in una fiaba raccolta da Mokrane Chemime, Adar iteddu s azar, 1991, p. 32 (Mhemmed At Seltan) si descrive una cavalcatura "le cui zampe ante-riori sono (veloci come) il vento, quelle posteriori (co-me) il lampo".

10. Lo sveglio e il sempliciotto. Interessanti confronti si possono fare con la fiaba n. 15 della Parte I, dove il tema è più esteso rispetto al nostro, che assume un semplice aspetto di racconto didascalico sulla necessità dell'obbe-dienza, unita al "tutto è bene ciò che finisce bene".

11. Mia madre mi ha sgozzato, mio padre mi ha man-giato, mia sorella ha radunato le mie ossa. Anche qui (come nelle fiabe n. 8 e n. 22) l'assenza delle formule di rito all'inizio e alla fine fa capire che questa non viene intesa come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazione di un fatto tragico realmente accaduto. Un episodio analogo si ritrova nelle fiabe dei fratelli Grimm (n. 47, Il ginepro), e perfino tra i racconti yiddi-sh dell 'Europa orientale. Cfr. la fiaba di Moyshele e Sheyndele in Silverman Weinreich (1992), n. 24, col ri-tornello « Ucciso da mia madre, mangiato da mio padre e da Sheyndele: quando ebbero finito, mi succhiarono il midollo dalle ossa e le buttarono dalla finestra». Un'ana-lisi di questo tema del cannibalismo parentale e della reincarnazione del bimbo in un uccello, sulla scorta anche delle versioni internazionali, in S. Zoulim, Du cannibalisme parental. A propos de l'oiseau funebre, in «Libyca» 28-29 (1980-81), pp. 193-197.

12. La quercia dell'orco. Questa versione nordafrica-na della storia di Cappuccetto Rosso è interessante per-ché si pone in certo qual modo a metà strada tra la fia-ba europea e un racconto dall 'aspetto decisamente autoctono, anzi considerato estremamente antico co-

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me quello della fiaba n. 1 della Parte I. Questa ambiva-lenza tra fiabe di aspetto originale e possibili contami-nazioni con tradizioni anche assai lontane è costante in quasi tutti i racconti del Nordafrica. Il vecchio che la fanciulla va a visitare è qui suo nonno, mentre nel ri-tornello usato per farsi aprire la porta si parla di un "padre". Questo ritornello, riportato per esteso nel «Fi-chier périodique» del 1976 in appendice a una versione della fiaba assai simile (in cui però si parla sempre di un padre e una figlia), è diventato molto popolare pres-so i giovani da quando è stato musicato dal cantante Idir (Canciani 1991, p. 130).

13.I sette orchi. Sul tema del tradimento dell'eroe da parte di una donna in combutta con un orco creduto morto, cfr. anche la fiaba n. 14 della Parte I. Il trucco con cui l'eroe riesce a sfuggire all'ira dell'orchessa ri-corre frequentemente nelle fiabe nordafricane. Esso si basa sulla condizione di "parentela di latte" che si viene ad acquisire con la balia. Bastano poche gocce per in-staurare un rapporto per molti versi simile a quello tra madre e figlio. Ancora oggi tra due persone di diverso sesso che hanno avuto la stessa balia il matrimonio è impensabile, come tra fratello e sorella.

14. Storia del baule. Il genere letterario dell'indovi-nello è assai diffuso in tutto il territorio berbero e in particolare in Cabilia. Per un quadro generale della si-tuazione si possono consultare ora i tre volumi di Devi-nettes berbères curati da Fernand Bentolila (1986), che contengono materiale proveniente dal Marocco (meri-dionale, centrale, Rif), dall'Algeria (Cabilia e Mzab) e dai Tuareg di Niger e Mali. Tra gli indovinelli contenu-ti in questo racconto, non può non destare una certa impressione quello che riecheggia la domanda che la Sfinge pose a Edipo. Che difficilmente si tratti di una aggiunta di Fadhma o Taos Amrouche - dotate entram-

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be anche di una profonda conoscenza della cultura classica - emerge dal fatto che nel corso della succitata indagine curata da Bentolila un identico indovinello è stato raccolto, dalla bocca di "illetterati", in quattro lo-calità berbere ben distanti tra loro (Rif, Niger, Mzab, Cabilia), e questo sembra rimandare con ogni verosi-miglianza a un'antichissima tradizione del mito. Quan-to all'intreccio complessivo del racconto - un duello a colpi di astuzia tra il re e la regina, con la conclusione favorevole a quest'ultima, che, scacciata, stordisce e porta con sé il marito -, esso è molto diffuso anche in Europa. Una versione italiana si può trovare nella III delle Sessanta novelle popolari montatesi di Gherardo Nerucci (1891), anch'essa - non a caso - narrata da una donna. Una versione yiddish si trova in Silverman Weinreich (1992), pp. 203-205.

15. O Bu-Iedmim, figlio mio! Un altro "classico" della letteratura orale cabila, già riportato, tra l'altro, da Be-laid At Alì (1956) e da M. Mammeri in Machaho!... (1980). L'inizio presenta strette analogie con l'avvio del-la fiaba n. 8 della Parte I (Aggelamush), che peraltro ap-pare composita e contiene anche il materiale del gatto Mosh (qui col n. 17). Il tema delle uova di serpente in-ghiottite da una cognata che si schiudono nel suo corpo e l'eliminazione dei serpentelli dalla bocca della donna appesa a testa in giù si ritrova già nella n. 219 delle Tre-centonovelle di Franco Sacchetti (fine del XIV sec.).

16. Storia del vecchio leone e dello stormo di pernici. Altra coppia "classica" nella favolistica berbera è quella formata dal leone e dallo sciacallo (cfr. anche la n. 18 della Parte III), in cui lo sciacallo sfida con l'inganno l'autorità del leone e ricorre a ogni trucco per sfuggire (non sempre con successo) alla punizione. Il trucco della coda tagliata è diffuso in tante versioni (p. es. Ju-stinard 1926, pp. 46 ss., ma anche in La Fontaine: Le re-

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nard ayant la queue coupée, libro V, fiaba V); nella fiaba n. 12 della Parte III si vedrà un altro modo di fuggire alla punizione. In evidente connessione con questo rac-conto il proverbio cabilo: "Il leone invecchiato dagli sciacalli è picchiato".

17. Storia di Mosh e delle sette fanciulle. A differenza della fiaba marocchina n. 8 della Parte I, qui sono sette sorelle quelle che finiscono per godere delle ricchezze di questo "gatto mammone" berbero. È interessante os-servare come la prerogativa della protagonista, Aisha, fosse quella di starsene tutto il giorno accanto al fuoco, che è una ben nota caratteristica dei gatti, ricordata in un indovinello cabilo: hanùn/zanùn/ur yetfaraq tiggura l-lkanùn ("È dolce/fa le fusa/e non si stacca dall'angolo del focolare"). Sui gatti, con riferimento anche alle vi-cende di Mosh, vi è in Cabilia anche il proverbio: '"Chi è il tuo testimone, gatto?' 'La mia coda'".

18. Storia della pulce e del pidocchio. Questo raccon-to, che è in verità il pretesto per una filastrocca "ad ac-cumulo", ricorda molto Pidocchietto e Pulcettina, fiaba n. 30 della raccolta dei fratelli Grimm, e trova un'inte-ressante corrispondenza in una filastrocca siro-libane-se raccolta, oltre un secolo fa, da H.H. Jessup (1874, pp. 321-325). Qui è la "nobile pulce" (noble Flea) che è finita nel fuoco ed è una "distinta cimice" (brilliant Bug) che intona il lamento, cui si uniscono, con dram-matici atti di cordoglio, un corvo, una palma, un lupo, un fiume, un pastore col suo gregge, una madre col pa-dre e la figlia, nonché tutta la città.

19. Runja, la fanciulla più bella della luna e della rosa. Il particolare iniziale della mela da mangiare solo in parte per ottenere la nascita di un figlio si ritrova in nu-merose altre fiabe cabile. Solitamente a questa consu-mazione parziale del frutto corrisponde la nascita di

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un bimbo particolarmente piccolo (ma astuto e auda-ce), tant'è che spesso l'eroe di tali fiabe è soprannomi-nato "metà", "dimezzato" o simili.

Il tema del racconto della statua portata in vita, nar-rato per far tornare la parola a un principe (o una prin-cipessa), è assai diffuso in Nordafrica (si veda la fiaba n. 34 della Parte I o la n. 7 di questa), e la sua diffusio-ne arriva fino in Europa orientale, dove esso è attesta-to, per esempio, nella fiaba yiddish Saggezza o fortuna?, in Silverman Weinreich (1992), p. 27. È note-vole osservare lo stretto accordo di quest'ultima versio-ne con quella del presente racconto, dal momento che anche in essa, il narratore non si rivolge direttamente al malato ma ostenta di parlare a un candeliere.

Il "gioco delle arance", ancora oggi diffuso tra i gio-vani in Cabilia, consiste nel far rotolare delle arance come fossero bocce su un terreno più o meno inclinato. Colui che con la sua arancia riesce a colpirne un'altra si impossessa di tutte le arance già giocate.

Il nome del protagonista, Smain, e i toni quasi mistici con cui egli dichiara ripetutamente: "Si compiano la vo-lontà di Dio e quella di mio padre!" fanno pensare che in questa fiaba si siano innestati, su un racconto sostan-zialmente analogo a quello della n. 4 della Parte I, ele-menti della storia di Ismaele (in cabilo: Smail, ma spesso vi sono scambi -U-n finali, p. es. l'angelo Azrail/Azrain), primogenito lungamente atteso da Abramo e da questi condotto al sacrificio: secondo la tradizione islamica fu lui, e non Isacco, che venne sottoposto a questa prova (Corano XXXVII, pp. 101 ss.). Una bella composizione poetica cabila incentrata su questo sacrificio è riportata da M. Mammeri nella raccolta Poèmes Kabyles anciens, pp. 272 ss.

20. Storia di Belàjudh e dell'orchessa Tseriel. Le vicen-de del personaggio di Belàjudh (o Bel Ajjud; in Marocco anche Hamerqejjud) corrispondono in parte a quelle

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dell'eroe cabilo Meqidesh, che si misura anch'egli con un'orchessa cieca e con sua figlia guercia. A quest'ulti-mo è dedicata un'approfondita analisi da parte di Laco-ste-Dujardin (1982). Rispetto al furbo Meqidesh, Belàjudh è più sventato e sciocco. Un parallelo assai stretto si ha col Pierino Pierone che è II bambino nel sac-co nella omonima fiaba italiana (per la precisione friula-na) della raccolta di I. Calvino, dove, per motivi di latitu-dine, l'albero da cui l'eroe si prende gioco della strega non è un fico ma un pero.

21. Il gatto pellegrino. Fin dall'antico Egitto l'eterna lotta tra gatti e topi ha dato lo spunto a fiabe e leggen-de. Una vicenda analoga alla nostra è Le chat et le vieux rat di La Fontaine (libro III, fiaba XVIII). Uno studio specifico su questo racconto e sulla sua collocazione nel panorama delle letterature è: El-Mostafa Chadli, "Le chat pélerin": un essai de traitement sémiotique", in «Langues et littératures» 2, 1982, pp. 29-46.

22. Il fegato del cappuccio. Che questo racconto non venga inteso come una vera e propria fiaba, bensì come la narrazione di un fatto tragico realmente accaduto non è solo desumibile dall'assenza delle frasi di rito all'inizio e alla fine (come nelle fiabe n. 8 e n. 11), ma è esplicitamente segnalato nell'introduzione. Il modo in cui le madri cabile sono pronte a ogni sacrificio pur di accontentare i propri figli è proverbiale, come ricorda il detto: "Il figlio di una Cabila sta meglio del figlio di un re".

23. L'Uccello della Tempesta. Nonostante un contesto a prima vista differente, questa fiaba si può considera-re una riuscita versione (al femminile) di Ahmed U-n-Amir (n. 5 della Parte I): anche qui vi sono infatti le nozze con un'personaggio misterioso e restio a farsi ve-dere, il trasporto in una splendida dimora celeste, la

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trasgressione all'unico divieto imposto e un finale ama-ro per il/la protagonista. E come quest'ultima fiaba, è suscettibile di una lettura allegorica (la condizione umana dopo il peccato di Adamo ed Eva).

Parte III

Le fiabe di questa parte sono state tradotte dai testi tua-reg pubblicati in: Dominique Casajus, Peau d'àne et au-trescontes Touaregs, Parigi, L'Harmattan,1985 (nn. 1-9); Petites Sceurs de Jésus, Contes touaregs de l'Air, Parigi, SELAF, 1974 (nn. 10-31); Adolphe Hanoteau, Essai de grammaire tamachek', Algeri, 1859 (nn. 32 -35).

1. Tesshewa, la fanciulla sposata dal fratello. Raccolta presso Ghaisha Ult Khamed, detta Tata, degli Iberdiya-nan, una tribù vassalla dei Kel Ferwan (Air). L'inizio della storia presenta molte analogie (ritrovamento di un capello, nozze col fratello e fuga) con un racconto cabilo, Zalgoum, presente nella raccolta Tellem chaho di M. Mammeri (1980), il cui seguito tuttavia è diffe-rente. In un'altra versione di Zalgoum, pubblicata nel «Fichier Périodique» del 1976, compare anche - abbre-viato - il particolare della ragazza che si riveste prima di uscire dal suo rifugio. Quello che è stato qui tradotto con "pettine" è in realtà uno strumento per dividere le ciocche di capelli prima di fare delle treccine, che costi-tuiscono di solito l'elemento fondamentale dell'accon-ciatura maschile tradizionale, lasciando tuttavia rasata gran parte del capo.

2. Il rapimento di Khawatan. Raccolta nel 1980 presso Adama, artigiana di Tedu (vicino ad Agadez). Presso i Tuareg è assai diffusa la credenza nell'esistenza di esseri giganteschi, denominati jabbar, che sarebbero una cate-goria particolare di jinn caratterizzata dalle dimensioni

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enormi. Questa credenza è rafforzata, se non originata, dall'esistenza, in diverse località del Sahara, di enormi "monumenti" costituiti da tumuli di pietre di varie for-me e grandi dimensioni (edebni) che per la loro forma fanno pensare a tombe di giganti (per esempio la Tomba di Tin Hinan ad Abalessa). Scavi archeologici compiuti su alcuni di questi monumenti mostrano che effettiva-mente essi di solito contengono sepolture preistoriche.

3. La bellissima Teylalen e il jinn. Raccolta nel 1980 presso Kauja, degli Iberdiyanan. Il particolare dei ragni che con la loro tela sottraggono l'eroe alle ricerche dei nemici è assai antico e diffuso. Ben nota in tut to il mondo islamico è la vicenda di Maometto che, nel cor-so dell'egira, in fuga con il suo compagno Abu Bakr, avrebbe trovato riparo in una caverna al cui ingresso un ragno tessè miracolosamente una tela in pochissi-mo tempo sviando le ricerche dei Coreisciti (cfr. al-Ta-bari 1992, p. 125). È poi caratteristico di molte fiabe berbere che l'eroina in fuga si sottragga all'orchessa o al jinn attraversando il fiume. Il carattere selvatico di questi personaggi non consente loro di nuotare (cfr. Parte I, n. 6).

4. Khayatan, la fanciulla venduta dai fratelli a un jinn. Narrata nel 1977 a Makhmud Khawad da Khaled Mokhamed. Interessante è qui la digressione sul valore del ferro come protezione dai jinn e dai cattivi spiriti. È tale la considerazione delle proprietà del ferro che la sua lavorazione viene delegata, nella società tuareg, a una particolare "casta", quella degli inaden (quelli che in questi racconti vengono chiamati "artigiani", ma spesso il termine viene tradotto con "fabbri" per sotto-lineare questo loro monopolio della lavorazione dei metalli). Tale credenza non è limitata ai soli Tuareg ma è assai estesa nel mondo berbero. Diffusissima è, per esempio, la pratica di porre oggetti di ferro accanto a

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un defunto per evitare danni a lui o alla sua famiglia. Engal, qui nome proprio del cammello, significa "cam-mello grigio scuro", ed è usato come nome comune per descrivere il cammello di Deriman nella fiaba n. 2 di questa Parte III.

5. Ayor e Tayort. Raccolta nel 1979 presso Tazubila Ult Delu, artigiana di Gufat. In tuareg ayor significa "piccolo di gazzella" maschio, e tayort è il suo femmini-le. Per il contesto originario dello strano "interrogato-rio" iniziale con risposte strampalate, privo di una sua funzionalità in questo racconto, si veda più avanti la fiaba n. 28. Il particolare di Tayort che scopre il bel se-no al momento della mungitura è legato alla credenza che la vista delle cose belle predisporrebbe gli animali a produrre di più e meglio (per l'antichità di queste cre-denze si veda p. es. l'episodio biblico di Gen. 30, 35-41). Il motivo dell'animale più brutto e debole, che riesce là dove hanno fallito esemplari ben più prestanti è piutto-sto diffuso nelle fiabe berbere. Lo si è già incontrato, per esempio, nella n. 8 della Parte I.

6. La fanciulla maltrattata dal padre. Raccolta presso la narratrice della fiaba precedente. Per il motivo della mucca cui è affidato il sostentamento dell'orfanella, cfr. la fiaba n. 43 della Parte I e commento relativo. Nel cor-so del racconto si ricorda che "le schiave montarono la tenda, ed essa vi si andò a stabilire con il marito e con le sue schiave". La tenda nuziale è un elemento fondamen-tale per le donne tuareg: essa appartiene a loro e non al marito (che in caso di separazione dovrà tornare a quel-la dei genitori o farsi ospitare da una sorella). Le molte-plici implicazioni culturali della tenda presso i Tuareg sono al centro del saggio di Casajus (1987).

7. La fanciulla e la matrigna cattiva. Raccolta nel 1977 presso Bogenda, schiavo degli Iberdiyanan. Molto

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chiara è in questa fiaba l'equazione tra natura selvag-gia e mancanza di cura personale, per cui cessando di pettinarsi i capelli la fanciulla perde quasi del tutto la natura umana, mentre il taglio del pelame, unito agli agi della civiltà (l'interno di una tenda), basta a rido-narle un aspetto umano.

8. Kutyanga, il fratellino astuto e la vecchia jinniya. Raccolta nel 1979 presso Emuman, artigiano dei Kel Tisemt. È la versione tuareg del celebre racconto cabilo di Meqidesh, cui è dedicata un'approfondita analisi da parte di Lacoste-Dujardin (1982).

9. Tersheddat e le sue compagne gelose . Raccontata nel 1989 ad Agadez da un'artigiana. Presenta molti punti di contatto con la n. 1, anche se vi figurano ele-menti dei racconti successivi. Nel suo complesso ri-chiama anche molte altre fiabe berbere, come La jeune fille et ses six soeurs di Ouargla (Delheure 1989, pp. 118 ss.), in cui le nozze finali avvengono con una cagna in-vece che con un'asina.

10. Lo sciacallo e la lepre. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Nella prima parte con-tiene diversi elementi frequenti nelle storie del genere della n. 25, in cui due imbroglioni fanno società e ten-tano continuamente di ingannarsi a vicenda (tipica in particolare la sostituzione del contenuto dei sacchi).

11. La iena e la lepre. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Racconto basato sul gioco di parole col nome del protagonista (il più illustre ante-cedente ne è l'omerico Ulisse-Nessuno). Frequente an-che in altre fiabe è lo stratagemma di squagliarsela fa-cendosi but tare via, vuoi - come qui - facendo scambiare le orecchie con i sandali, vuoi facendo finta di essere morto. Nei racconti cabili del genere di Meqi-

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desh è invece tipico far credere che la gamba afferrata dall'avversario sia in realtà una radice.

12. L'elefante e lo sciacallo. Raccontata a Niamey nel 1963 da Mokhammed Ag Ghali. Come nelle fiabe n. 13 e n. 16, nell'ordalia conclusiva emerge quella competi-zione tra i due predatori, lo sciacallo e la iena, che vede di solito quest'ultima soccombere allo sciacallo. Nella società tradizionale tuareg chi era chiamato a discol-parsi di una grave accusa doveva affrontare una prova del fuoco come leccare lame arroventate, camminare sul fuoco o immergere una mano nell'acqua bollente.

13. Lo sciacallo, l'otarda e la iena. Raccontata a Nia-mey nel 1963 da Akru. Dai due episodi che compongo-no il racconto, emerge una gerarchia di astuzia (l'otar-da che batte lo sciacallo, il quale a sua volta sconfigge la iena), inversamente proporzionale al grado di anti-patia (e pericolosità) che i Tuareg attribuiscono ai sin-goli animali.

14. Lo struzzo e il riccio. Raccontata a Niamey nel 1963 da Akru. Racconto sostanzialmente simile a La le-pre e il porcospino, n. 188 della raccolta dei fratelli Grimm, dall'andamento praticamente identico. Note-vole come tra gli animali prescelti vi sia accordo ri-guardo al riccio, mentre il secondo è sempre l'animale veloce per antonomasia, vale a dire la lepre in Europa e lo struzzo in Africa.

15. Lo sciacallo e lo struzzo. Raccontata ad Azel nel 1969 da Zennu. Contrariamente agli altri racconti dello sciacallo (con il riccio, il leone, la iena, ecc.), solita-mente ben rappresentati anche nel resto del mondo berbero, questo della gara di salto fatta con lo struzzo non sembra molto diffuso al di fuori dell'area tuareg e saheliana.

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16 .La iena e la zucca. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Una variante originale alle nume-rosissime fiabe che si concludono con il rivale nel poz-zo. (Come la n. 45 della Parte I, più aderente al modello tradizionale).

17. Il leone e l'asino. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. In questa favola il cuore viene usato come simbolo del coraggio. Noi diremmo il "fe-gato" (benché "coraggio" derivi proprio da "cuore"). Presso i Berberi "cuore" e "fegato" sono termini spesso intercambiabili nell'uso figurato, e non è raro l'uso di "fegato" come sede dell'affetto e della tenerezza. (Ciò spiega anche meglio il perché della presenza del fegato nella fiaba n. 22 della Parte II.)

18. Lo sciacallo e il leone. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Benché diversa nella conca-tenazione dei fatti, questa fiaba ricorda molto la n. 16 della Parte II, con un leone non tanto furbo in balia dei tiri di uno sciacallo. Sempre dello stesso genere la fiaba n. XIV (libro III) di La Fontaine Le lion devenu vieux.

19. Lo scoiattolo scavatore e l'elefante. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Dogo. Questo modo di ribaltare una sentenza ingiusta e basata su pretese assurde avan-zando pretese altrettanto assurde è estremamente anti-co nella tradizione favolistica nordafricana. Già dall'an-tico Egitto ci è nota la storia di Verità e Menzogna, in cui l'onesto vede riconosciuta la propria innocenza solo quando il figlio incolpa il suo accusatore di delitti altret-tanto assurdi. Per una situazione analoga, cfr. la n. 26 della Parte I.

20. Il leone e la capra. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il miele di cui tratta la storia è

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miele d'api, benché tra i Tuareg sia più comune un miele vegetale estratto da certe varietà di tamerice.

21. Il gallo e lo sciacallo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Fiaba sostanzialmente identica a Le coq et le renard di La Fontaine (libro II, fiaba XIV). Il termine impiegato per il richiamo del mattino ha so-litamente il valore specifico di richiamo (da parte del muezzin) alla preghiera dell'alba. Il gallo e il pollame in generale sono tradizionalmente considerati un cibo tabù dai Tuareg, e la spiegazione che viene data per questo interdetto alimentare è proprio che questo ani-male servirebbe per il richiamo alla preghiera dell'alba nel deserto, dove non si trovano muezzin.

22. La piroga. Raccontata a Niamey nel 1963 da Akru. Un ben noto racconto-indovinello, di probabile origine scolastica per via del calcolo dei pesi (espressi in chili) invece della più diffusa prova di ingegno su come tra-ghettare indenni un lupo, una capra e un cavolo o simili.

23. Il mentitore. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema dei due fratelli, uno dei quali di-ce sempre il vero mentre l'altro mente sempre, è anti-chissimo. Lo troviamo, infatti, già nella letteratura dell'antico Egitto, nel racconto L'accecamento di Verità per opera di Menzogna (benché poi la trama sia assai di-versa).

24. Il figlio del re e il figlio del povero. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema della fia-ba sarebbe molto diffuso, a detta di G. Calame-Griault, tra i Tuareg e in Africa occidentale.

25. L'uomo di Kano e l'uomo di Katsina. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il tema dei due furbacchioni disonesti che si incontrano e cercano

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sempre di giocarsi dei tiri mancini è assai diffuso. A Ouargla esso è stato inserito nel ciclo di Juhà (Djeha de Ouargla et Djeha de Ngouga) con uno svolgimento in gran parte identico a questo racconto tuareg (Delheure 1988, pp. 278 ss.). Kano e Katsina sono due città della Nigeria verso le quali si dirigono a volte i commerci dei Tuareg (in particolare, a Kano si producono i tessuti color indaco del caratteristico velo degli "uomini blu"). Il motivo del finto seppellimento è frequente nei rac-conti tuareg, e vi è addirittura un gioco infantile per mostrare il proprio coraggio (mudduran-mudduran) che consiste nel farsi coprire di sabbia e resistere il più a lungo possibile sotto terra.

26 .La coperta. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Appartiene, come la fiaba n. 32, la n. 35 e la n. 39 della Parte I, a quel genere che si compiace di descrivere le astuzie femminili nei confronti degli uo-mini. Vi sono qui però alcune interessanti particolarità: innanzitutto, la casa in cui nessuno riesce a superare vivo una notte: un motivo assai diffuso (nelle Fiabe ita-liane di Calvino è il motivo conduttore di Giovannin senza paura), che tuttavia solo qui presenta come deter-rente non un orco o un'oscura presenza bensì il perico-lo di "morire d'amore"; inoltre vi è l'elemento moderno delle fotografie, che mostra come le fiabe non rimanga-no immutabili al di fuori del tempo ma integrino pro-gressivamente elementi del mondo circostante.

27.I tre pretendenti della figlia del capo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Tambo. Notevolissime le congruenze con la fiaba n. 193 dei fratelli Grimm II ladro maestro, dove il furbacchione, nell'ultimo episo-dio, invece di fingersi l'angelo Gabriele, si spaccia per San Pietro. L'unico particolare divergente è il quadro generale: una dimostrazione di abilità fine a se stessa invece che mirata a ottenere la mano della figlia del ca-

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po del villaggio. Tale quadro generale (tre fratelli uno dei quali ottiene in sposa la figlia del re) è invece pre-sente nella fiaba n. 33 II maestro ladro di Silverman Weinreich (1992), anche se qui le singole prove sono assai differenti. Il particolare del furto del lenzuolo si trova anche in una fiaba piemontese (Crich e Croch, in Davico Bonino 1988, 12).

28. Il sacco di menzogne. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Il genere di fiaba "assurda" in cui si accumula una serie di fatti insensati non è fre-quente nel mondo berbero, mentre è tipica della tradi-zione yiddish, in cui simili racconti solevano essere fat-ti per la festa di Purìm (cfr. Silverman Weinreich 1992, pp. 41 s. Nella stessa raccolta, a p. 135, vi è il caso di un personaggio costretto a riempire un sacco di parole. Benché in modo diverso, anche qui l'eroe riesce a ca-varsi brillantemente d'impaccio).

29. La civetta. Raccontata ad Azel nel 1969 da Zennu. Un'altra fiaba (come la n. 48 della Parte I) in cui l'origi-ne di un dato animale viene fatta risalire alla mutazio-ne subita da un essere umano come punizione di un torto commesso. Il motivo dell'uomo innamorato che cede metà della propria vita restante (in questo caso vent'anni su quaranta) alla moglie che ciononostante lo tradisce si trova anche in Cabilia: Aini in Frobenius (1971), pp. 45 ss.

30. Chi è il più onesto? Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Dogo. Fiaba a dilemma, diversa nel dettaglio ma simile nella sostanza, in particolare per via dell'in-terrogativo finale, a Les deux amis di La Fontaine (libro Vili, fiaba XI).

31. Le persone nel pozzo. Raccontata a Tighazerin nel 1969 da Elkhaji Ssoni. Altra fiaba a dilemma, piuttosto

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diffusa nell'area tuareg e nell'Africa occidentale. G. Ca-lame-Griaule segnala - nel volume da cui è tratta la fia-ba - che altrove il dilemma è di solito tra la sorella e la moglie (qualche volta tra la sorella, la moglie e la suo-cera). Qui è molto ben inserito anche il timore dell'uo-mo per la propria stessa vita.

32. La donna e il leone (di Salem ag Mohammed, tribù degli Isaqqamaren, Ahaggar). Questo racconto, come pure il successivo, vale a illustrare proverbi e mo-di di dire diffusi tra i Tuareg, ma anche presso altre po-polazioni berbere. Che una ferita nel fisico guarisca molto meglio di un'offesa nell'animo è proverbio noto anche altrove in Nordafrica, per esempio in Cabilia: "Le ferite si cauterizzano e guariscono; le ingiurie sca-vano e scavano sempre di più". Sempre in Cabilia si hanno echi della presente storiella in alcuni proverbi: "È in assenza del leone che si dirà che la sua bocca ha un cattivo odore", oppure: "Chi oserà dire al leone: 'La tua bocca ha un cattivo odore?'".

33. La massima da cento monete d'oro (di Bedda ag Idda, tribù degli Ifoghas, Azger). Anche la massima proverbiale al centro di questo racconto è diffusa altro-ve in Nordafrica, per esempio in Cabilia: "È preferibile coricarsi col dispiacere che risvegliarsi col rimorso". Una versione assai simile, che prevede l'acquisto di tre massime, di cui l'ultima e più importante suona: "La superbia della sera (as)serbala alla mattina", compare in una raccolta toscana del secolo scorso: Nerucci (1891), n. 53,1 tre consigli.

34. L'uomo che cercava il paese dove non si muore (di Bedda ag Idda, tribù degli Ifoghas, Azger). Il mito dell'uomo alla ricerca di un mezzo per assicurare l'im-mortalità a sé e ai propri cari è antichissimo e assai dif-fuso, da Gilgamesh in poi. L'inevitabile fallimento è qui

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presentato con un'ironia che ne rende più agevole l'ac-cettazione.

35. La storia di Ammamellen e di Elias. La fiaba è stata tradotta a partire dalla versione tuareg del nord (Azger) riportata da Hanoteau, n. 7, pp. 146 ss. Il particolare del-la predizione iniziale, necessario per una migliore com-prensione del racconto, è aggiunto sulla scorta della ver-sione presente nella raccolta di ag-Khamidun, p. 72. Tutte le popolazioni tuareg conoscono un ciclo di rac-conti su Ammamellen (noto anche col nome di Aligur-ran o Arigullan), cui vengono riconosciute grandi doti di intelligenza e astuzia, in eterna competizione col nipote Elias (altrove: Edeselegh) che finisce per sconfìggerlo proprio su questo terreno. Tra le numerose prove che quest'ultimo deve superare, non mancano episodi di astuzia già conosciuti anche in altre tradizioni, anche assai lontane nel tempo e nello spazio. Per esempio, un'identica capacità di indovinare caratteristiche e di-fetti fisici di un cammello da pochi indizi sul terreno ve-niva già attribuita dal persiano al-Tabari (morto nel 923) ai figli di Nizar, uno degli antenati di Maometto (Tabari 1992, p. 26). Il tentativo di uccidere il concor-rente scagliandogli una lancia che viene schivata, segui-to dal riconoscimento della sua superiorità, presenta una sconcertante analogia con l'episodio biblico di Da-vid e Saul (1 Sam. 18, 10-13). Per una prima valutazione complessiva del ciclo di Ammamellen ed Elias, si veda M. Aghali-Zakara-J. Drouin (1979), pp. 89 ss.

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Indice

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VII Introduzione XXIII Bibliografia XXVI Glossario

F I A B E D E L P O P O L O T U A R E G

Parte I Fiabe dei Berberi del Marocco

Fiabe di incantesimo

5 1. Il mostro 9 2. L'acqua che non cade dal cielo e non sgorga

dalla terra 13 3. Il mercante, l'ifrit e i tre vecchi 22 4. Il principe Mohammed, che rapì la figlia

del capotribù dei nomadi 28 5. Ahmed U-n-Amir 32 6. Il re con un figlio bianco e uno nero 37 7. L'uccello bianco e l'uccello nero 41 8. Aggelamush 58 9. La donna che venne rapita da un jinn 61 10. L'uomo con la pipa 73 11. La figlia del jinn 78 12. Il jinn di Imzuwurt 82 13. La negra con i due gomitoli

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85 14. I due fratelli e ì'ifrit 87 15. L'uomo che avrebbe dovuto seminare fave 93 16. L'uccello dalle uova d'oro

Racconti 98 17. L'Uomo e il Gigante 103 18. Il fabbricante d'oro 104 19. Il contadino e il re 107 20. Il pescatore che andò dal re 109 21. La schiava furba 111 22. Il medico saggio 113 23. Un saggio consiglio 114 24. La grossa eredità 116 25. La guarigione dall'avaro 118 26. Il cadì e il cacciatore 120 27. Lo strano dono nuziale

Storie facete 124 28. Il sultano e i Berberi 125 29. Il maestro di Corano tra i Berberi 126 30. I Figli dell'Avarizia 128 31. La pelle magica

Storie di donne 137 32. Il potere delle donne 140 33. Lalla Maghnia 143 34. La principessa Gazzella 149 35. L'astuta Aisha 150 36. La moglie innamorata 151 37. Il magico cuscus 152 38. La povera donna e l'orchessa 154 39. Le donne astute 156 40. Come fu che il garzone mangiò a sazietà 157 41. L'adulterio 158 42. La bella donna

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Storie di animali 160 43. La mucca dei due orfanelli 162 44. Il riccio e lo sciacallo 163 45. Così va il mondo 163 46. La figliastra e il riccio 166 47. La tartaruga 166 48. Da dove vengono le cicogne 167 49. Perché gli asini hanno il muso bianco 168 50. Come si originano le cavallette

L'inizio e la fine del mondo: storie mistiche

170 51. Gli inizi del mondo 174 52. Della caducità dei beni di questo mondo 177 53. Il sarto nella città felice 180 54. Aatiallah 185 55. I due fratelli 188 56. Il nome supremo di Dio 191 57. Il santo in Paradiso 191 58. Nostro signore Khadir 193 59. Jujumajuj 194 60. Il drago rosso del Dujjan 195 61. La fine del mondo 197 62. Una profezia 199 63. La porta del ravvedimento è ancora aperta

Parte II Fiabe dei Berberi dell'Algeria

203 1. Il chicco fatato 209 2. Lunja, figlia di Tseriel 215 3. Storia della rana 221 4. Chi di noi è la più bella, o luna? 228 5. Aisha, figlia mia, una pozza in cui spegnere

queste fiamme! 230 6. La mucca degli orfanelli

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239 7. La principessa Sumisha 253 8. Il flauto d'osso 257 9. I cavalli di lampi e di vento 270 10. Lo sveglio e il sempliciotto 275 11. Mia madre mi ha sgozzato, mio padre mi ha

mangiato, mia sorella ha radunato le mie ossa 279 12. La quercia dell'orco 282 13. I sette orchi 292 14. Storia del baule 298 15. 0 Bu-Iedmim, figlio mio! 310 16. Storia del vecchio leone e dello stormo

di pernici 313 17. Storia di Mosh e delle sette fanciulle 327 18. Storia della pulce e del pidocchio 331 19. Runja, la fanciulla più bella della luna

e della rosa 354 20. Storia di Belàjudh e dell'orchessa Tseriel 359 21. Il gatto pellegrino 362 22. Il fegato del cappuccio 365 23. L'Uccello della Tempesta

5 4 0

Parte III Fiabe dei Tuareg

Fiabe di incantesimo

377 1. Tesshewa, la fanciulla sposata dal fratello 383 2. Il rapimento di Khawatan 390 3. La bellissima Teylalen e il jinn 397 4. Khayatan, la fanciulla venduta dai fratelli

a un jinn 407 5. Ayor e Tayort 414 6. La fanciulla maltrattata dal padre 420 7. La fanciulla e la matrigna cattiva 425 8. Kutyanga, il fratellino astuto

e la vecchia jinniya

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428 9. Tersheddat e le sue compagne gelose

Racconti di animali

434 10. Lo sciacallo e la lepre. 437 11. La iena e la lepre 439 12. L'elefante e lo sciacallo 442 13. Lo sciacallo, l'otarda e la iena 445 14. Lo struzzo e il riccio 446 15. lo sciacallo e lo struzzo 448 16. La iena e la zucca 448 17. Il leone e l'asino 449 18. Lo sciacallo e il leone 452 19. Lo scoiattolo scavatore e l'elefante 453 20. Il leone e la capra 454 21. il gallo e lo sciacallo

Racconti faceti e con la morale

456 22. La piroga 457 23. Il mentitore 460 24. Il figlio del re e il figlio del povero 462 25. L'uomo di Kano e l'uomo di Katsina 466 26. La coperta 471 27. I tre pretendenti della figlia del capo 478 28. Il sacco di menzogne 480 29. La civetta 482 30. Chi è il più onesto? 484 31. Le persone nel pozzo 485 32. La donna e il leone 486 33. La massima da cento monete d'oro 487 34. L'uomo che cercava il paese dove non si muore 488 35. La storia di Ammamellen e di Elias

491 Nota ai testi

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