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GIAMPIETRO GOBO, SIMONE ROZZI, STEFANO ZANINI E ANDREA DIOTTI L’APPRENDIMENTO DELLE ROUTINE DELL’EMERGENZA: IL CASO DEL 8 Introduzione Le teorie dell’apprendimento tradizionali (comportamen- tiste, gestaltiche, ecc.) si basano su una concezione prevalente- mente individualista e antropocentrica: da una parte intendono l’apprendimento come un’attività principalmente individuale; dall’altra come un’attività in cui il ruolo principale è svolto dagli esseri umani. Tuttavia se osservassimo l’apprendimento secondo una prospettiva radicalmente fenomenologia, noter- emmo almeno due cose. In primo luogo sono sicuramente minoritari i casi in cui è l’individuo, da solo e in isolamento, ad apprendere. Per cui una concezione individualista ha deboli fondamenti empirici, tant’è che negli ultimi trent’anni è emerso con forza il para- digma dell’«apprendimento organizzativo» [Argyris e Schon Desidero ringraziare i proff. Maria Giovanna Vicarelli e Giolo Fele per i raffinati commenti a una precedente versione del saggio. Un ringraziamento particolare al dott. Giovanni Sesana (responsabile del 8 di Milano) e al dott. Mario Landriscina (responsabile del 8 di Como), nonché il dott. Maurizio Volonté, referente per la formazione nella medesima struttura. Infine un sentito ringraziamento anche al dott. Michele Giangualano, il cui lavoro ha rappresentato lo stimolo iniziale di questa ricerca. Il testo è frutto di un lavoro collettivo. Tuttavia le sez. 1, 3, 5, 7, 8 e 9 sono state redatte da Gobo; le sez. 2, 4, 5, 9 accolgono il contributo di Rozzi, mentre le sez. 5, 6, 8 e 9 quello di Zanini. Infine le sez. 4, 5 e 7 rappresenta il contributo di Diotti.

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Giampietro Gobo, Simone rozzi, Stefano zanini e andrea diotti

L’apprendimento deLLe routine deLL’emergenza: iL caso deL ��8

Introduzione

Le teorie dell’apprendimento tradizionali (comportamen-tiste, gestaltiche, ecc.) si basano su una concezione prevalente-mente individualista e antropocentrica: da una parte intendono l’apprendimento come un’attività principalmente individuale; dall’altra come un’attività in cui il ruolo principale è svolto dagli esseri umani. tuttavia se osservassimo l’apprendimento secondo una prospettiva radicalmente fenomenologia, noter-emmo almeno due cose.

in primo luogo sono sicuramente minoritari i casi in cui è l’individuo, da solo e in isolamento, ad apprendere. per cui una concezione individualista ha deboli fondamenti empirici, tant’è che negli ultimi trent’anni è emerso con forza il para-digma dell’«apprendimento organizzativo» [argyris e schon

desidero ringraziare i proff. maria giovanna Vicarelli e giolo Fele per i raffinati commenti a una precedente versione del saggio. un ringraziamento particolare al dott. giovanni sesana (responsabile del ��8 di milano) e al dott. mario Landriscina (responsabile del ��8 di como), nonché il dott. maurizio Volonté, referente per la formazione nella medesima struttura. infine un sentito ringraziamento anche al dott. michele giangualano, il cui lavoro ha rappresentato lo stimolo iniziale di questa ricerca.

Il testo è frutto di un lavoro collettivo. Tuttavia le sez. 1, 3, 5, 7, 8 e 9 sono state redatte da Gobo; le sez. 2, 4, 5, 9 accolgono il contributo di Rozzi, mentre le sez. 5, 6, 8 e 9 quello di Zanini. Infine le sez. 4, 5 e 7 rappresenta il contributo di Diotti.

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�978; march e olsen �975; nonaka e takeuchi �995], che evidenzia l’importanza dell’interconnessione tra i processi individuali e collettivi.

in secondo luogo si apprende sempre con qualche cosa, con uno o più strumenti, mai interagendo soltanto fra esseri umani. infatti gli oggetti, gli arredi, gli artefatti e le tecnologie guidano i processi di apprendimento, performando l’apprendimento stesso. in questo senso la connessione tra apprendimento e tecnologie diviene sempre più centrale per comprendere i processi lavorativi nelle società contemporanee.

in questo capitolo cercheremo di esplorare proprio le prat-iche di apprendimento in un contesto lavorativo ad alta densità tecnologica, dove la tecnologia (in questo caso un software) svolge un ruolo di primaria importanza nel contribuire a rag-giungere gli obiettivi dell’organizzazione. attraverso lo studio di due ��8 (un tipo particolare di centro di coordinamento) cercheremo di comprendere:

– come si apprende una tecnologia digitale; – come si impara a lavorare individualmente e collettivamente

con (e, a volte, nonostante gli impedimenti del) le tecnologie;– come l’apprendimento sia una forma di partecipazione a

pratiche lavorative situate.

�. Il lavoro nei centri di coordinamento

all’inizio degli anni novanta cominciano ad apparire i primi studi, basati su ricerche etnografiche e analisi delle conversazioni, aventi per oggetto le pratiche di lavoro nelle torri di controllo del traffico aereo, nelle sale di controllo del traffico ferroviario e delle metropolitane, nelle centrali opera-tive alle chiamate di emergenza come nel nostro caso [per una panoramica: Fele �00�, �9�-�03; Bruni e gherardi �007]. sono organizzazioni che rappresentano un fenomeno emergente delle società contemporanee e che suchman [�993, ��4-5] ha chiamato centri di coordinamento. La loro particolarità è essere ambienti ad alta densità tecnologica in cui:

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– la prestazione viene fornita e gestita all’interno in modo cooperativo;

– con un buon coordinamento tra l’organizzazione che eroga la prestazione e gli utenti/clienti che lo ricevono;

– facendo continuamente fronte a contingenze ed eventi inattesi;

– rispondendo a situazioni critiche in tempi molto rapidi;– coordinando risorse e persone che si trovano in luoghi

fisicamente lontani;– collocati nel territorio in forma di network.sono dei call center atipici, ben lontani dallo stereotipo

circolante che vede negativamente i call center come le nuove fabbriche del settore dei servizi o un esempio di taylorismo informatico. al contrario essi sono strutture molto piccole (dalle � alle �5 persone per turno) che spesso hanno trasformato in senso altamente tecnologico servizi precedentemente esistenti. rientrano in questa tipologia i servizi di emergenza sanitaria (il ��8), di pronto intervento (polizia di stato, carabinieri, polizia urbana, vigili del fuoco), le unità di crisi, ecc.

in queste organizzazioni il potere decisionale è accentrato nelle mani di poche persone e il malfunzionamento dell’intero network che essi coordinano (dovuto all’errore di pochi indi-vidui) potrebbe avere effetti disastrosi. per questo motivo la cooperazione tra gli individui, sia nel centro che al di fuori di esso, rappresenta un aspetto centrale dell’attività lavora-tiva. infatti non solo essi coordinano situazioni dove operano contemporaneamente diversi attori che si trovano in luoghi differenti (per cui non sono reciprocamente visibili), ma nes-suno di questi attori ha una visione completa della realtà delle cose da fare�.

La parzialità delle prospettive e la difficoltà di arrivare a condividere una medesima rappresentazione della situazione sono sicuramente difetto del network (proprio per gli errori

� La collaborazione, infatti, può essere co-locata (quando gli operatori condividono la medesima centrale) oppure distribuita (quando essi sono dislocati in spazi diversi).

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che essa può determinare), ma producono anche una maggior cooperazione fra gli attori perché li obbliga a tenere maggior-mente in considerazione le prospettive di tutti gli attori-nodi del network, negoziando con gli altri le possibili linee d’azione. per cui la consapevolezza del lavoro altrui, la capacità di entrare nella prospettiva dell’altro, diviene una condizione essenziale per garantire la sicurezza del lavoro, proprio perché operatori di diversa cultura professionale sono portati a sviluppare in-terpretazioni differenti della stessa informazione.

�. L’azione situata

i temi della cooperazione e del coordinamento, dell’apprendimento tecnologico, della relazione tra esseri umani e artefatti, del potere della tecnologia e delle macchine, sono da tempo oggetto di studio e attenzione da parte di un vasto movimento intellettuale, sia accademico che manageriale. Questo movimento, ricco e diversificato, ha al suo interno differenti approcci: l’Actor Network Theory (callon, Latour, Law) che con il concetto di agente-non-umano ha sottolineato il ruolo delle tecnologie nelle azioni sociali; la Distributed Cognition [norman, �988; Hutchins, �995] che con la riflessione sul ruolo degli artefatti ha mostrato come i processi cognitivi siano tutt’altro che mentali; la cscW lavoro cooperativo mediato da computer [Winograd e Flores �987; suchmann �987], i work-place studies [Heath e Luff �99�; �000] e la Technomethodology [Button e dourish �996], che hanno evidenziato quanto poco individuali siano le attività lavorative; infine il movimento dei Practice-based Studies vedi gherardi [�006] con il concetto di azione situata. La tabella � presenta sinteticamente i concetti cardine di questi approcci e i concetti-target che si propongono di sostituire.

Fra tutti questi, quello che vogliamo più di altri sviluppare è quello di azione situata, che sarà di estrema utilità nell’analisi dei casi che presenteremo.

nella sociologia contemporanea è ancora fortemente pre-sente una concezione volontarista dell’azione umana. essa deriva dall’individualismo metodologico, una corrente di pensiero che

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annovera fra i suoi esponenti figure di enorme prestigio come max Weber, raymond Boudon, John elster, l’interazionalismo simbolico di Herbert Blumer, alfred schutz. Questo approccio, che è stato fondamentale nel tirare fuori la sociologia dalle sec-che del positivismo, è tuttavia troppo informato da una visione soggettivista dell’agire, supportata dai concetti di «interesse», «intenzione», «orientamento al valore», «razionalità», «moti-vazione» (propri dell’utilitarismo) e da quelli di «coscienza» e «stati mentali» (propri della fenomenologia).

tab �.�. Concetti chiave

concetti proposti concetti avversati

azione situata versus azione programmata (plan)

conversazioni/discorsi situati versus Linguaggi come competenza accessoria

conoscenze/memoria distribui-te (nello spazio)

versus conoscenza/memoria nella testa (rappre-sentazioni mentali)

Lavoro cooperativo versus Lavoro individuale

corsi di azione versus piani di azione/regole/procedure

mantenere l’attenzione versus segmentazione dei compiti

coordinamento reciproco versus divisione del lavoro

discrezionalità versus standardizzazione

Embedded, embodied, … versus processi mentali

comunità di pratiche versus comunità di individui

L’individualismo metodologico arranca quando deve spi-egare fenomeni circoscritti e puntuali, come le interazioni situate in ambienti delimitati. de la rocha [�985], Lave e colleghi [�984], Lave [�988], underhill [�999], studiando la pratica dell’aritmetica nei supermercati e negli ambienti di lavoro, hanno notato come le attività cognitive non si svilup-pano solo nella mente, ma hanno bisogno di appoggiarsi sugli elementi materiali del contesto. come ricorda norman [�988, trad. it. �990, 6-7], gran parte della nostra conoscenza quo-tidiana risiede nel mondo, non dentro la nostra testa. infatti

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Note
metterli in grassetto e centrati perché sono diversi da quellei che seguono.
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le persone agiscono basandosi sulla posizione e disposizione degli oggetti, seguendo testi scritti e l’informazione posseduta dai loro interlocutori, coordinandosi con gli artefatti della società, accogliendo i feedback che da loro provengono. per cui il ragionamento in situazioni di lavoro segue una logica situata, che si avvale di supporti visivi, uditivi, tattili, olfattivi che si trovano nel contesto. gli oggetti ci aiutano a calcolare, ricordare, comparare, misurare e decidere. il luogo di lavoro è quindi un contesto attivo e non un semplice contenitore di attività [Bruni e gherardi �007, 33].

3. Il metodo di ricerca

il presente lavoro si basa su un ricerca etnografica compiuta nei ��8 di milano e como che ha richiesto complessivamente un anno di lavoro sul campo. in questo periodo le due organiz-zazioni sono state osservate per circa 80 ore ciascuna. dopo un primo prolungato periodo di osservazione con frequenza biset-timanale, si sono svolte anche delle interviste per ricostruire il senso di alcune azioni e la storia tecnologica del servizio, e delle riprese video dei momenti salienti delle pratiche lavorative.

i due servizi di emergenza studiati hanno caratteristiche abbastanza diverse, sia per dimensione che per tipo di utenza a cui rispondono.

il servizio di milano è composto complessivamente da 85 persone (�4 medici, �3 infermieri, 56 operatori tecnici, � impi-egato amministrativo e � ausiliario). il lavoro è distribuito in 3 turni in cui sono presenti circa �5 persone per turno. esso serve un territorio morfologicamente omogeneo e relativamente circoscritto (la provincia di milano, costituita da ��7 comuni, non è molto estesa) su cui risiedono circa 3.000.000 di persone. Questo ��8 coordina il lavoro di 9� associazioni di soccorso (le quali gestiscono in media �-3 mezzi ciascuna) ed è in contatto con �6 ospedali, i vigili del fuoco, la polizia di stato, la polizia municipale, i carabinieri e altri ��8. esso riceve in media �800 chiamate al giorno (circa 550.000 l’anno), di cui solo il 44% (800 al giorno e �30.000 l’anno) si risolve con l’invio di un

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mezzo di soccorso. negli altri casi possono si tratta di incidenti lievi, errori, nonché numerosi scherzi telefonici.

il servizio di como, invece, è di dimensioni più piccole. infatti per ciascun turno lavorano 4 persone (generalmente � infermieri, � operatore tecnico e � medico) che coordinano l’attività di 40 associazioni e sono in contatto con 6 ospedali (oltre a tutte le altre strutture elencante nel caso di milano). esso serve un territorio morfologicamente complesso, costituito da laghi, montagne, colline e pianura, in cui sono distribuiti �63 comuni per un totale di 600.000 abitanti. il servizio riceve mediamente �70 chiamate al giorno, di cui ��0 richiedono l’invio di un mezzo. in un anno le chiamate sono complessivamente 6�.000, di cui 40.000 (66%) con invio di un mezzo.

4. Il lavoro in un servizio di emergenza sanitaria

il ��8 è un servizio pubblico in grado di garantire, per tutto l’anno per �4 ore al giorno, l’invio immediato di un mezzo di soccorso. come abbiamo visto in precedenza, i ��8 sono dei piccoli call center che ricadono nella categoria dei «centri di coordinamento». tuttavia sono centri di coordinamento un po’ anomali rispetto agli altri, per una serie di attributi:

– (a volte) il numero di operatori che lavorano in ��8 è relativamente alto rispetto agli altri centri (infatti in molti centro di coordinamento gli operatori in sala sono � o 3);

– l’utenza è fatta da gente comune, mentre negli altri centri essa è composta da esperti, professionisti oppure personale che lavora in altri reparti o settori dell’organizzazione;

– l’utenza (a volte) possiede scarse competenze linguistiche (pensiamo al caso delle badanti extracomunitarie che chiamano per la persona anziana che accudiscono);

– vi è un forte contrasto tra la percezione dell’evento da parte del chiamante (che lo considera – giustamente dal suo punto di vista – anomalo, eccezionale, non ordinario; da qui la concitazione e l’alto coinvolgimento emotivo in molte tel-efonate) e la percezione che dello stesso evento ha l’operatore, che spesso lo considera routinario, normale, ordinario.

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per cui il lavoro dell’operatore di un ��8 è più assimilabile a quello dell’operatore di un call center tradizionale (per il tipo di utenza e per il concetto di servizio insito nelle sue pratiche) oppure a quello di professionisti che forniscono prestazioni per loro del tutto routinarie (come i chirurghi, i poliziotti, i docenti negli esami e nelle interrogazioni, gli intervistatori, i venditori, i musicisti, i teatranti, ecc.) ma che invece vengono vissute come del tutto eccezionali per il cliente/utente/paziente/spettatore.

recentemente il lavoro nei centri di emergenza sanitaria ha attirato l’attenzione di diversi studiosi (sia italiani che stranieri); sia per quanto il lavoro di gruppo e le interazioni tra operatori [garcia e parmer �999; pettersson e rouchy �00�; paoletti �006; Fele �007] sia relativamente all’interazione tra operatori e utenti [Whalen, zimmerman e Whalen �988; zimmerman �99�a; �99�b; tracy �997; Whalen e zimmerman �998; tracy e tracy, �998a; �998b; Wakin e zimmerman �999; imbens-Bailey e mccabe �000; paoletti �006].

il servizio, dalla risposta alla chiamata al rientro del mezzo inviato, è strutturato in 5 macrofasi:

�) Risposta centralizzata alle chiamate. esiste una sola cen-trale per ciascuna provincia che si occupa di ricevere e gestire tutte le chiamate di soccorso.

�) Individuazione del problema e sua gravità . per un’ottimizzazione delle risorse è fondamentale capire il tipo di emergenza richiesto. in questo modo si evita, ad esempio, di inviare inutilmente mezzi non sono necessari.

3) Attivazione delle risorse. a seconda della gravità pos-sono essere inviati mezzi di soccorso avanzato (msa), come l’elisoccorso e le automediche, o mezzi di soccorso di Base (msB), come le ambulanze.

4) Ospedalizzazione mirata. Lo scopo del servizio è cer-care di indirizzare il paziente verso la struttura sanitaria più adatta.

5) rientro del mezzo di soccorso�.

� ci sono inoltre altre attività, che non sono competenza del ��8, ma che gli vengono talvolta attribuite erroneamente (ad esempio trasporti sani-

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Consolle ISDN - Radio

Polo MSB Polo MSA

Consolle 118

fiG. 4.�. piantina del ��8 di milano

fiG. 4.�. Foto del ��8 di milano

Le sei postazioni in rosso sono occupate dagli operatori che ricevono le chiamate dagli utenti, assegnano un codice di emergenza – verde, giallo, rosso – , inviano il mezzo di soccorso e poi lo mettono in comunicazione con la consolle centrale. Quest’ultima prende in carico il mezzo e si occupa della gestione

tari non urgenti; trasporti di emoderivati, di organi, di equipe di trapianto; coordinamento della guardia medica; assistenza sociale).

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(3510,3511, 3512, 3513, 3514 e 3515)
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dell’emergenza; essa è divisa in due sezioni: le tre postazioni in verde (msB) sono occupate dallo staff medico che è in costante contatto con i mezzi di soccorso di base (tipicamente le am-bulanze) che stanno trasportando il paziente; invece nelle tre postazioni in azzurro (msa) siede sempre lo staff medico, ma in costante contatto con i mezzi di soccorso avanzato (generalmente elicotteri). La comunicazione tra consolle centrale ed equipaggi assicura a quest’ultimi la disponibilità di informazioni esperte in tempo reale fondamentali per la salute, ed in certi casi per la vita, del paziente. infine gli operatori nelle tre postazioni in giallo si occupano del rientro dei mezzi di soccorso oppure delle comunicazioni con le istituzioni (come polizia, vigili del fuoco, prefetto, ecc.) il cui intervento può essere necessario nel caso ci siano incidenti particolarmente gravi.

4.�. Il lavoro dell’operatore telefonico

all’interno delle cinque fasi descritte, il lavoro dell’operatore che risponde alla chiamata ricade nelle prime tre fasi. all’apparenza il suo compito è abbastanza semplice: rispondere alla chiamata e inviare un’ambulanza. più in particolare egli:

�) cerca di capire se si tratta di una chiamata di soccorso (malore grave, incidente stradale, richiesta di ricovero ospe-daliero urgente, situazioni certe o presunte di pericolo di vita) oppure di una telefonata informativa o peggio ancora uno scherzo;

�) nel primo caso pone quattro domande in merito all’evento: a) dove è successo (comune, via, piazza, ecc.) b) cosa è successo (malore, incidente, ecc.) c) numero di persone coinvolte d) condizioni dei coinvolti (coscienti, respirano, san-guinano, ecc.);

3) successivamente l’operatore assegna un codice di gravità all’evento, che può essere verde (il meno urgente), giallo op-pure rosso;

4) poi deve localizzare con precisione il luogo dell’evento affinché possa fornire informazioni precise al mezzo che sta per essere inviato. nel fare ciò ciascun operatore è coadiuvato

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da un sistema informatizzato molto sofisticato. il suo computer è infatti provvisto di tre programmi che operano congiunta-mente:

– un programma cartografico, che localizza su una mappa elettronica il luogo in cui è richiesto l’intervento e, seguendo il sistema di coordinate di gauss-Boaga, lo classifica;

– un programma che raccoglie i dati logistici e sanitari di ogni chiamata e calcola, sempre secondo le coordinate di gauss-Boaga, la distanza in linea d’aria tra il luogo dell’evento e il punto dove sono parcheggiati i mezzi di soccorso disponibili;

– un programma che consiste in un telefono elettronico al quale è collegato un impianto di registrazione che imprime su supporto digitale le conversazioni effettuate tramite micro-fono, siano esse avvenute tra l’operatore e l’utente, sia tra gli operatori stessi;

5) tramite il sistema cartografico a disposizione l’operatore localizza precisamente l’evento e

6) individua la posizione delle ambulanze che possono raggiungere più rapidamente il luogo dell’evento;

7) invia l’ambulanza;8) oltre ai mezzi di soccorso egli può richiedere l’invio di

Forze dell’ordine, Vigili del fuoco, ecc.9) se la situazione è particolarmente grave possono es-

sere inviati anche mezzi di soccorso avanzato: l’ automedica, l’elisoccorso, l’unità speciale grandi emergenze.

in tutte queste fasi l’operatore è continuamente assistito dal computer. tuttavia ciascun software è basato su una speci-fica rappresentazione del lavoro dell’operatore, posseduta dai programmatori. avendo essi concepito il suo lavoro come una sequenza razionale di compiti individuali, il sistema informatico è stato progettato pensando all’operatore come a una monade, un soggetto autosufficiente. per cui, secondo i programmatori, tutti i problemi che un operatore incontra nell’eseguire il suo compito e nel raggiungere l’obiettivo, potrebbero essere risolti attraverso il computer stesso.

tuttavia se guardiamo la foto �, possiamo facilmente capire come l’operatrice non sia per nulla isolata: non ci sono sepa-

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razioni fisiche, le sue azioni sono pubbliche, reciprocamente visibili e accessibili ai colleghi. Questo è tutt’altro che un male (come vedremo) poiché permette la condivisione di pratiche e conoscenze.

infatti i neo-assunti che abbiamo intervistato, hanno impa-rato abbastanza presto che il lavoro dell’operatore non è quello che sembra inizialmente:

– seppur esso è un lavoro individuale, come il sistema in-formatico prevede (l’operatore persegue i suoi obiettivi/compiti quasi esclusivamente attraverso l’interazione con il computer), tuttavia il raggiungimento dell’obiettivo è collettivo ed emer-gente dalle interazioni [Heath e Luff �99�];

– molte delle conoscenze che servono per svolgere il lavoro (e quindi risolvere i problemi che si presentano di volta in volta) non stanno nel computer ma sono attivate nell’ambiente (colleghi, artefatti, linguaggio, organizzazione);

– la tecnologia è opaca e poco trasparente; questo rende più lento sia l’apprendimento della stessa che la ricerca delle conoscenze in essa immagazzinate;

– esiste un gap, più o meno marcato, tra le procedure standard e script predisposti dall’organizzazione, e le pratiche quotidiane di lavoro (le routine).

nonostante un operatore, durante la formazione, abbia acquisito conoscenze sul sistema informatico, tuttavia egli non può sapere in anticipo quando tali conoscenze saranno rilevanti per una particolare situazione o come potranno essere appli-cate a uno specifico problema. L’operatore quindi apprende che l’esperienza individuale è comunque inserita in un quadro collettivo. È il gruppo che lavora. di fronte ad alcuni eventi, non sempre il ragionamento individuale e l’esperienza sono sufficienti, ma è necessario il confronto con altre persone per poter codificare un evento e compiere la scelta migliore. in generale, il carico di lavoro e la necessità di prendere deci-sioni in tempi rapidissimi, richiedono agli operatori l’utilizzo di ulteriori risorse (informative) in aggiunta a quelle formali provviste dall’organizzazione. in questo modo l’operatore, nel suo apprendimento, cambia lentamente approccio nei confronti della tecnologia, passando da una visione della «tecnologia-in-

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sé» a quella della «tecnologia-in-uso» [Bruni e gherardi �007, 78], scoprendo congiuntamente (ma inconsapevolmente) il ruolo delle conoscenze tacite. Fattori situazionali e l’ergonomia degli strumenti lo aiutano a orientare l’attenzione verso un tipo di interazione piuttosto che un altro, attivando compor-tamenti che possono aiutare o ostacolare il raggiungimento di un obiettivo.

fiG. 4.3. postazioni degli operatori

4.�. Strategie per trovare un’ambulanza

Vediamo ora un caso esemplare del modo di lavorare degli operatori. esso riguarda un episodio che accade con una certa frequenza all’interno della routine lavorativa.

può accadere che un operatore abbia la necessità di inviare

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un’ambulanza in un momento in cui vi è una temporanea non disponibilità di mezzi, perché già tutti impegnati in attività di soccorso. magari ha per le mani una situazione molto grave (classificata come «codice rosso») e tuttavia non ci sono mezzi disponibili. allora l’operatore, se giudica il suo caso più urgente di un altro, tenterà di farsi assegnare, il più presto possibile, un’ambulanza «strappandola» a un altro operatore che ha per le mani un caso giudicato di gravità molto inferiore (ad esempio un «codice verde»).

nel fare questo gli operatori solitamente mettono in pratica due strategie di interazione con i colleghi:

strategia � – L’operatore chiede, a voce alta, a un altro collega di re-instradare l’ambulanza (che quest’ultimo ha ap-pena inviato) verso il suo caso, giudicato più urgente. Questa richiesta avviene quando l’operatore si accorge che il collega sta inviando un’ambulanza in una zona vicina a quella da cui proviene la chiamata di soccorso relativa al suo caso.

strategia � – L’operatore chiede, a voce alta, agli operatori addetti alla gestione del rientro dei mezzi al termine della loro missione (postazioni area isdn-radio), se ci sono ambulanze disponibili a breve e che ancora non appaiono al suo monitor [Fig. 3]. a volte le richieste di ambulanze disponibili posso-no essere contemporaneamente numerose; per cui esse (fatte sempre a voce alta) si sovrappongono, aumentando il chiasso all’interno della sala operativa.

Questo episodio è particolarmente illuminante sotto vari aspetti.

innanzitutto mostra che per raggiungere un obiettivo spesso occorre forzare la procedura standard stabilita dal direttore della struttura e dai programmatori. È un tema caro agli etno-metodologi [garfinkel �967; cicourel �973; Wieder �974]che hanno da tempo documentato come esista un incessante e continuo divario tra le regole e la situazione contingente che esse dovrebbero regolare. gli operatori quotidianamente col-mano questo divario ricorrendo alle loro conoscenze tacite e a decisioni arbitrarie, che a volte possono avere conseguenze pericolose, ma che spesso salvano la situazione. anzi, contra-riamente a quanto si pensi, in generale è la trasgressione delle

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regole che garantisce il buon funzionamento di una procedura o di un’organizzazione3. non il contrario.

Mi dici quando se ne libera una...

Fig. 4.4. Strategia 2 – Richiesta dell’operatore ai colleghi dell’area ISDN-Radio.

4.�.�. L’inosservanza proattiva

all’apparenza l’affermazione precedente può sembrare es-trema o provocatoria. tuttavia il fenomeno può essere utilmente re-interpretato, in termini estremamente positivi e costruttivi per l’organizzazione, all’interno di una prospettiva alternativa che potremmo chiamare «inosservanza proattiva»: questo tipo di trasgressioni processuali non minano la sopravvivenza o l’efficienza di un’organizzazione, ma la rafforzano perché sono

3 si pensi ai doganieri che, quando decidono di applicare pedissequa-mente il regolamento (quindi fermano e controllano ogni macchina) creano caos alla frontiera (il cosiddetto «sciopero bianco»). oppure, com’è capitato qualche anno fa a Bologna, sempre in occasione di una protesta, gli autisti di autobus guidarono nel rispetto dei limiti di velocità provocano forti ritardi nelle corse.

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orientate alla soluzione dei problemi in termini di efficacia. per cui l’attività pratica richiede una continua «inosservanza proattiva» delle regole al fine di portare a termine con successo il compito dell’operatore. infatti se egli aspettasse l’apparire sul monitor delle informazioni relative ai mezzi disponibili, l’intervento arriverebbe molto dopo.

4.�.�. Mantenere un orientamento comune

L’episodio mette in luce anche un altro aspetto, in letteratura noto con il concetto di «mantenere un orientamento comune» [Heath e Luff �99�]. L’operatore riesce a guadagnare minuti preziosi, anticipando così le fasi della procedura, proprio per-ché distoglie lo sguardo dal suo monitor e guarda la sala nel tentativo di captare pulviscoli di informazione che circolano nello spazio, che sono nell’aria. in altre parole, proprio perché «non si fa gli affari suoi» e «tiene le orecchie drizzate» sugli scambi verbali che avvengono in sala, egli compie un ottimo lavoro che va al di là del compito a lui assegnato.

Questo è un comportamento tipico delle interazioni fianco a fianco [Fele �007, �80] ed è stato registrato in molti centri di coordinamento. il più noto di questi è il caso rilevato nello studio etnografico condotto da Heath e Luff [�99�] nella sala di controllo della Bakerloo Line della metropolitana di Londra; nella sala lavoravano due persone: un controllore di linea (cL), che coordinava il movimento dei treni, e un as-sistente divisionale alle informazioni (adi), il cui compito era di dare tempestivamente avvisi al pubblico nel caso ci fosse un contrattempo o una disfunzione sulla linea. La procedura prevedeva che il secondo mandasse gli annunci dopo aver ricevuto la richiesta dal primo. peraltro tra i due esisteva una precisa divisione del lavoro e dei compiti; tuttavia la stretta collaborazione tra entrambi permetteva di svolgere il lavoro ancora meglio di quanto non sarebbe avvenuto se ciascuno fosse rimasto aderente al compito. infatti gli autori descrivono un episodio (videoregistrato) in cui il cL, venuto a conoscenza di un problema sulla linea, chiama il macchinista di un treno

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e gli chiede di sostare per un paio di minuti al binario. Le riprese mostrano che l’adi manda l’avviso del ritardo al pub-blico ancora prima che il cL abbia terminato la conversazione con il macchinista, e quindi prima che il cL l’abbia invitato a farlo. Questo avviene perché l’adi

ha prestato orecchio a quanto veniva detto e ha tradotto quanto sentiva nelle conseguenze che ne sarebbero derivate per i passeggeri in attesa a charing cross [Bruni e gherardi �007, 56].

il «mantenere un orientamento comune» diviene quindi una pre-condizione dell’azione e un potente dispositivo cognitivo per l’anticipazione della stessa e l’accelerazione delle proce-dure. infatti nel nostro caso l’operatore del ��8 precorre le fasi proprio perché è pronto a captare quello che c’è nell’aria, sbirciando, origliando, agitandosi. Questo fa parte delle astuzie (le conoscenze tacite) di un operatore esperto.

4.�.3. La fisicità attentiva

L’episodio, infine, illumina anche un altro aspetto non sem-pre tenuto in debita considerazione negli studi organizzativi: la corporeità delle azioni. il nostro operatore grida (la frase «mi dici quando se ne libera una») perché deve comunicare con un collega che sta dall’altra parte della sala e vuole scavalcare la rumorosità ambientale di sottofondo. usa quindi la voce come strumento per ottenere l’attenzione. congiuntamente si alza dalla sedia per vedere in faccia il suo interlocutore, ma anche per (nuovamente) attirarne l’attenzione attraverso il suo busto, unica parte del corpo che in piedi non è coperta dal monitor. precedentemente la contiguità fisica che regna nelle postazioni, l’essere molto vicino e senza barriere al collega, gli aveva permesso di captare un’informazione utile al suo caso.

tutto questo fa pensare che il corpo non sia solamente e semplicemente un supporto comportamentale, l’hardware dell’azione, bensì anch’esso un software al pari dei processi mentali: il corpo sente, coglie, comprendere. il corpo attira

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l’attenzione e ci fa scoprire che essa non è soltanto un processo cognitivo ma anche fisico. il corpo è un motore dell’azione al pari del pensiero, del ragionamento. esso produce una sorta di «fisicità attentiva», un pre-condizione corporea all’azione.

Questo episodio ci suggerisce di enfatizzare, dal punto di vista organizzativo, il ruolo della corporeità, la fisicità delle azioni, del corpo come strumento di comunicazione.

in conclusione, come sottolineano Heath e Luff [�99�], pensare al lavoro come un’esecuzione di compiti individuali, basati su di una precisa divisione del lavoro e delle responsabil-ità, è riduttivo e fuorviante, e non ci permette di cogliere tutta la ricchezza presente anche in un’attività di poche persone. i compiti individuali, in realtà, riposano su un lavoro collettivo. La comprensione di quello che sta avvenendo, il frame della situazione, si fonda sulla capacità di mantenere un orientamento comune dell’attività.

La stessa divisione del lavoro, che dovrebbe essere un pre-requisito iniziale per compiere azioni in modo coordinato, ap-pare invece come un risultato finale, che emerge dall’interazione. infatti i compiti individuali vengono resi reciprocamente visibili in modo tale che gli operatori svolgono la loro azione coordi-nandosi, automaticamente e senza pensare, con i colleghi. il «farsi gli affari degli altri» permette l’articolazione reciproca delle pratiche individuali.

5. La comunicazione situata

ritorniamo al caso dell’operatore alle prese con il prob-lema di scoprire se esiste un mezzo disponibile da inviare sul luogo da dove proviene la chiamata. egli coglie che un suo collega ha appena inviato l’ambulanza; tuttavia ha difficoltà a comunicargli la propria richiesta di re-instradamento del mezzo verso il suo caso (strategia �) perché, a causa del design della sala, i due operatori sono distanti. per questo grida la sua richiesta. più gli operatori sono fisicamente distanti, più sono costretti a urlare la loro richiesta. inoltre, come si può vedere

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dalla foto �, l’interazione faccia-a-faccia fra gli operatori, e la reciproca visibilità e intelligibilità delle loro azioni, è ostacolata dai monitor e dai desk che li contengono. dal momento che la consapevolezza e la certezza di essere il destinatario di un messaggio avviene attraverso l’orientamento visivo comune, gli operatori sono costretti ad alzarsi per poter riuscire a vedere in faccia il collega destinatario del messaggio e così richiamarne l’attenzione.

Lo stesso comportamento (urlare per attirare l’attenzione e farsi ascoltare) avviene durante la seconda strategia, quando l’operatore vuole comunicare con il collega nell’area isdn-radio area, a lui lontana.

Questi episodi aiutano a comprendere meglio il ruolo degli arredi, degli artefatti e dei lay-out nei processi lavorativi. come l’Action Network Theory ha messo da tempo in luce, essi devono essere considerati degli attanti, degli agenti (non-umani) a tutti gli effetti, e non degli oggetti passivi e ininfluenti. se l’azione è situata, cioè ancorata alle risorse materiali disponibili nell’ambiente (più che alle intenzioni e volontà degli attori sociali), allora anche la comunicazione si avvale delle stesse risorse. gli arredi sono quindi, simultaneamente, dei vincoli e delle risorse per la comunicazione. infatti per condurre in porto le loro comunicazioni gli operatori da un parte devono by-passare gli arredi percepiti come ostacoli; dall’altra, però, sfruttano creativamente gli stessi arredi che divengono così risorse per realizzare gli obiettivi. Quest’ultimo fenomeno ap-partiene a quella categoria di eventi che goffman ha chiamato «adattamenti secondari collettivi»:

in ogni istituzione sociale i partecipanti usano gli artefatti disponibili in un modo e per un fine non ufficialmente previsto, modificando così le condizioni di vita programmate per loro [�96�, �07].

ad esempio nel ��8 lo spessore del ripiano che copre i monitor viene usato per attaccare i fogli e le note utili per il lavoro (fig. �); i muri vengono trasformati in supporti di post-it, oggetti personali (come foto), carte geografiche, ecc.; i libri (specie quelli pesanti) vengono messi sopra i documenti come

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ferma-fogli; la cornice del monitor (specie se larga) diviene il luogo privilegiato dei post-it; lo schienale della sedia si tras-forma in un porta giacca.

allo stesso modo se l’altezza dei monitor ostacola la comunicazione tra gli operatori fisicamente distanti, dall’altra funge da separatore con il resto della sala e crea una maggior intimità e collaborazione tra operatori che lavorano «gomito a gomito». se la mancanza di separatori tra un operatore e l’altro disturba reciprocamente il loro lavoro, dall’altra permette di poter captare informazioni che possono rivelarsi essenziali per il proprio lavoro.

gli arredi svolgono quindi questo duplice ruolo, di vincolo e risorsa. di conseguenza i comportamenti messi in atto dagli operatori sono, solo parzialmente, il frutto di intenzioni e vo-lontà, ma anche guidati dal tipo di artefatti e risorse materiali messe loro a disposizione dalla situazione. per capire quanto sia poco convincente una teoria volontarista della comunicazione, possiamo vedere l’esempio successivo.

osservando le interazioni degli operatori fra loro e con lo staff medico, notammo che alcuni operatori avevano la ten-denza a comunicare con lo staff medico più frequentemente di altri. utilizzando le tecniche dell’etnogafia ergonomia degli anni cinquanta [gobo �008] ci mettemmo a contare il numero di scambi verbali all’interno di un arco temporale di un mese eseguiti senza utilizzare le cuffie. il risultato è riportato nel disegno seguente, dove le fasce più grosse rappresentano una più alta frequenza di scambi [Fig. 5.�].

successivamente ci chiedemmo il motivo per cui alcuni operatori interagivano più di altri con lo staff medico. scartate le spiegazioni emotive (simpatia, piacere della conversazione), quelle psicologiche e quelle più vicine all’individualismo me-todologico, giungemmo a spiegare il fenomeno in termini più prettamente strutturali (cognitivi e logistici) che hanno a che fare con i vincoli dati dall’orientamento visivo [Fig. 5.�]

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OT06

IP05

CT04

MR03

OT02

IP01

OT10

OT11 OT

12

OT07

OT08

OT09

OT15

OT14

OT13

fiG. 5.�. mappa delle interazioni.

fiG. 5.�. orientamento visivo

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La Fig. 5.� mostra il cono della «visione foveale», corris-pondente all’angolo visivo di maggior concentrazione attentiva. Questo orientamento visivo degli operatori è quindi un prodotto della particolare disposizione delle consolle di lavoro all’interno della centrale (banalmente, dove siedono). gli angoli di visione che biologicamente limitano gli essere umani spiegano così perché esistano delle relazioni privilegiate tra alcuni operatori e alcune persone dello staff medico4.

Questa descrizione mostra come l’utilità del concetto di comunicazione situata, e più in generale di azione situata. Le comunicazioni sono quindi fortemente guidate anche dalle risorse materiali che gli attori trovano nell’ambiente e non solo dalle loro intenzioni o volontà.

6. Discrezionalità necessarie

il programma cartografico, presente nel computer dell’operatore, localizza su una mappa elettronica il luogo in cui è richiesto l’intervento. un secondo programma invece calcola, sempre secondo le coordinate di gauss-Boaga, la distanza in linea d’aria tra il luogo dell’evento e il punto dove sono parcheggiati i mezzi di soccorso disponibili. com’è facile intuire, non è detto che il mezzo (in linea d’aria) più vicino sia anche quello che arriva effettivamente prima sul luogo dell’evento: le condizioni del traffico nell’ora in cui viene richiesto l’intervento, la tortuosità del percorso, il tipo di sede stradale e molte altre variabili, rendono a volte dubbio il calcolo e la soluzione standardizzata proposta dal programma. infatti questo è quello che accade con una certa frequenza.

il computer non ha una conoscenza pratica e diretta del territorio (peraltro per i piccoli comuni esso tiene in consider-azione solo il comune stesso – ad esempio cesano – e non la via da dove proviene la richiesta di intervento), non ha accesso

4 La frequenza delle comunicazioni fuori cuffia è direttamente pro-porzionale all’allineamento con il cono di visione foveale, ma inversamente proporzionale alla distanza del destinatario.

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al contesto della situazione, proprio come la fotocopiatrice interattiva studiata da suchman [�987] che non può leggere e interpretare gli elementi del contesto che non siano già stati standardizzati nel suo programma (plan). come ricordano Bruni e gherardi:

per gli umani la situazione è aperta e si modifica nell’interazione e per mezzo di essa. La macchina non ha accesso alla situazione in quanto non può produrre alcuna comprensione spontanea, né può improvvisare in situ le circostanze della situazione [�007, 35].

Le conoscenze tacite dell’operatore rispetto a quelle vari-abili permetterebbero invece di trovare soluzioni più efficaci ed efficienti.

tuttavia questa pratica, che consiste nell’assegnare discrezi-onalità all’operatore, è fortemente disincentivata dalla direzi-one, per ragioni comprensibili sotto il profilo burocratico ma deleterie sotto il profilo professionale ed economico. infatti se succede che un’ambulanza non giunga in tempo per soccorrere una persona, l’indagine interna (oppure giudiziaria, nei casi più gravi) andrà a ricostruire il comportamento dell’operatore. e se scoprirà che ha seguito l’indicazione fornita dal computer, egli sarà sollevato da ogni responsabilità. in caso contrario, se l’operatore avesse seguito le sue conoscenze tacite, le sue deci-sioni sarebbero sanzionate. poco importa se quelle conoscenze tacite sono state fondamentali in decine di casi, magari salvando delle vite, proprio perché il soccorso è arrivato prima per non aver seguito l’indicazione del programma. contano solo i casi finiti male, non quelli andati a buon fine. così la direzione, anche per proteggere gli operatori, spinge affinché si applichino le procedure standard e si riduca la discrezionalità. Questo comporta negli operatori una riduzione delle loro capacità di valutazione, di ragionamento e riflessività: «il computer dice questo…, allora faccio questo».

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7. Tra discrezionalità necessarie e inosservanze proattive

È noto, in letteratura, che i ruoli e i compiti implementati nelle pratiche lavorative tendono a divergere dalle funzioni as-segnate dagli organigrammi aziendali. meno condivisa, invece, è la politica da attivare per far fronte a questo costante divario. solitamente i manager tendono a rinforzare le regole, a ristabilire le procedure, ripristinare i ruoli al fine di scongiurare potenziali anarchie e disfunzionalità. iniziativa tutt’altro che deprechevole dal punto di vista teorico, più difficile da realizzarsi sul piano pratico. Vediamo un esempio controverso.

ci troviamo nella consolle centrale, quella riservata al per-sonale sanitario. un infermiere professionale (ip 05) prende una chiamata che giunge da un’auto-medica (un mezzo di soc-corso avanzato – msa) e inizia a occuparsi del caso. si mette quindi alla ricerca di un ospedale disponibile (e appropriato alla patologia) ad accogliere un paziente grave (codice rosso)

se guardiamo la fig. 6, possiamo notare che l’infermiere siede nell’area riservata alla consulenza sanitaria con gli equipaggi dei mezzi di soccorso di base (msB). per cui, occupandosi di un mezzo avanzato, egli sta svolgendo un’attività che non gli compete: ha quindi infranto una procedura. tuttavia tale infrazione è dovuta unicamente all’elevato carico di lavoro a cui gli operatori sono sottoposti nelle ore centrali della gior-nata. infatti sia l’infermiere responsabile dei msa (ip0�), sia il medico di guardia (mr), i veri destinatari della chiamata in questione, sono impegnati in altri interventi. L’infermiere quindi compie un’inosservanza proattiva.

Vediamo ora in dettaglio cosa succede, seguendo gli scambi conversazionali fra i quattro partecipanti (vedi nuovamente la Fig. 7.�): il capo-turno (ct04), il medico di guardia (mr05), l’infermiere che compie l’infrazione (ip05 distaccato ai msB) e l’altra infermiera (ip0� distaccata ai msa).

ore �3.45– L’infermiere L’infermiere IP05 riceve una chiamata dall’auto-medica (msa)– egli comprende immediatamente la gravità della situazione egli comprende immediatamente la gravità della situazione

gobo
Cross-Out
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del paziente con traumi multipli.– dopo essersi affrettato a compilare la scheda paziente, dopo essersi affrettato a compilare la scheda paziente, grazie alla sua elevata esperienza, identifica immediatamente il «policlinico» come destinazione ideale. – presa la decisione, cerca di sincerarsi che nessun altro presa la decisione, cerca di sincerarsi che nessun altro operatore scelga la medesima destinazione, altrimenti c’è il rischio di saturazione della struttura da lui prescelta. – IP05 quindi urla: «aL poLi sto mandando un poLitrauma, importante!»

ore �3.48– IP05 sente casualmente che IP01 (msa), che sta gestendo un altro caso, sta mandando un’ambulanza anche lei al poli-clinico (La parola «poLi», pronunciata dall’infermiera, gli fa girare di scatto la testa, trasalendo),– quindi quindi IP05 si alza e si porta verso IP01 per parlarle. Quest’ultima però non può distrarsi dalla chiamata per poter conferire con lui; pertanto ip05 ritorna alla sua posta e si siede. ma dopo pochi istanti decide di rivolgersi al Medico di Guardia (MR).– IP05 si sposta con la sedia (con le rotelle) fin quasi dietro alla postazione di mr, ma parla con CT04 e chiede:

IP05: «con chi sta parlando?» (in riferimento a mr) CT04: «si, sta parlando con l’ecHo» (che significa elicot-

tero) IP05: «ma io ho mandato un politrauma al poli!

porch...!»

non potendo impedire in alcun modo che un altro paziente venga inviato al policlinico, IP05 si affretta a identificare una struttura alternativa per chiudere la consegna del «suo» paziente.

decide allora per il pronto soccorso dell’ospedale san raffaele e comunica immediatamente, all’equipaggio dell’auto-medica in attesa, la nuova destinazione.

in questo modo egli pensa di poter assicurare un posto

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alternativo al «proprio» paziente, senza dover competere con altri pazienti.

poco dopo MR termina la propria chiamata e si rivolge a IP05:

MR: «tu hai mandato un politrauma al poli?»IP05: «no, c’ho ripensato perché ce l’hai mandato tu!» MR: «noo non lo prendono» (sottointenso «il mio

paziente»)

per cui IP05 ha trovato una soluzione alternativa, quando in realtà non serviva. acciuffando al volo il termine «poli», pronunciato da IP01 alla consolle sanitaria, IP05 ha cercato di anticipare le conseguenze di un evento (la saturazione) che però non si è realizzato perché la struttura non era in grado (o adatta) ad accogliere il paziente seguito da MR. e nel fare questo ha inutilmente allungato i tempi del ricovero del «suo» paziente che sta viaggiando verso la (seconda) destinazione da lui prescelta.

a questo punto il MR, che non sa che IP05 ha già trovato una destinazione alternativa, sollecita IP05 a mandare il «suo» caso al policlinico.

IP05, evidentemente contrariato per il fatto che la decisione di mr rappresenta una sconfessione del suo operato, annuisce senza però mettere in atto la sollecitazione di MR, suo superiore. anche perché, probabilmente, non vuole perdere la faccia con l’equipaggio dell’auto-medica, che potrebbe rispondergli

ma insomma! prima ci mandi verso il policlinico; poi ci dirotti verso il san raffaele e adesso dobbiamo tornare al policlinico. ma che c… combinate! non siamo mica birilli! io c’ho un paziente grave in macchina!

per evitare di perdere la faccia sia con l’equipaggio che con il

MR, ip05 non intraprende azioni e disobbedisce nella speranza che MR non si accorga della sua «insubordinazione».

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ore �3.50invece, come spesso accade, viene scoperto subito. dopo

due minuti.IP01 (msa) si rivolge a IP05.

IP01: «hai mandato uno al san raffaele?» IP05: «si» IP01: «no è che non ci và perché ne ho uno io» IP05: «ma aLLora! aL poli no, al san raffaele no…

senti non mandatemi più le chiamate mezzi avanzati!»

fiG. 7.�. posizione dei partecipanti nella sala operativa

L’episodio si può leggere in diversi modi. una prima let-tura (superficiale) potrebbe trovare facilmente la causa della disfunzione nel fatto che l’infermiere ip05 abbia invaso il territorio di un collega e abbia assunto un ruolo che non gli competeva. tuttavia egli ha infranto la procedura proprio per aiutare l’organizzazione che in quel momento era in sof-ferenza. come ricordavamo nella sezione precedente, la stessa inosservanza proattiva in molti casi risulta fondamentale per il successo dell’organizzazione stessa.

in questo episodio si manifesta un caso esattamente op-posto a quelli descritti da Heath e Luff [�99�], da Fele [�007, �79-�8�] e da noi stessi nella sezione 6.�.�: l’anticipazione, il muoversi prima di ricevere l’istruzione o il comando dal collega,

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che solitamente è la premessa socio-fisica per un buon coordina-mento delle interazioni, a volte può avere conseguenze negative. sarebbe interessante capire che cosa rende un’anticipazione una mossa di successo oppure di insuccesso, ma per questo episodio abbiamo soltanto una descrizione etnografica e non delle riprese videoregistrate.

infine l’episodio mostra quanto sia delicato e precario l’equilibrio tra discrezionalità necessarie, inosservanze proattive e procedure standard. un problema, con risvolti manageriali, di difficile soluzione; sia che si propenda nel concedere maggior discrezionalità nei confronti degli operatori (con tutti il rischi del caso), sia che ci si intestardisca nel riproporre la supremazia delle procedure standard.

Conclusioni

Lavorare in ambienti ad alta densità tecnologica comporta ripensare (almeno parzialmente) le pratiche di lavoro stesse e quindi le teorie sull’apprendimento in situazioni lavorative. assumendo le tecnologie un ruolo più preponderante che in passato, essere divengono a tutti gli effetti degli attori (attanti) al pari degli esseri umani. esse preformano le azioni e le guidano, molto di più che un tempo. il caso che abbiamo rubricato sotto il nome di «comunicazione situata» ha (a nostro avviso) ben evidenziato come il tipo di tecnologia disponibile diviene anche un vincolo, e non solo una risorsa (come comunemente si crede) per l’azione. ovviamente la situazionalità delle azioni non è una scoperta recente e appartiene a tutti gli ambienti dove vi sono strumenti di lavoro e arredi in generale. tuttavia quello che rende altamente situazionale un’azione, fortemente costrit-tiva la presenza delle tecnologie, è la loro densità e pervasività. Fenomeno decisamente molto più esteso che in passato.

gli esseri umani imparano a lavorare con le nuove tec-nologie in modi molto diversi da quelli che i progettisti (delle tecnologie stesse) si aspettano. in altri termini gli essere umani non sembrano adeguarsi alle tecnologie, ma proprio come ani-mali, trasformano l’ambiente tecnologico nel suo uso cercando

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creativamente di superarne i vincoli, di capovolgere a proprio favore gli impedimenti. È un gioco intermittente e riflessivo, in cui gli esseri umani sono di volta in volta agiti, manipolati, dalle tecnologie e manipolatori delle stesse.

affinché questo gioco, in cui a volte si è prede e a volte predatori, cessi e si evolva positivamente e costruttivamente, è necessario ripensare la progettazione tecnologica a partire proprio dalle scoperte che si fanno etnograficamente osserv-ando pratiche sociali in contesti di lavoro circoscritti. Queste scoperte, proprio perché ricche etnograficamente, non sono solo in grado di scoprire cosa non funziona ma anche di fornire dettagli importanti per rendere queste scoperte actionable ai fini delle progettazione.

ad esempio, osservando le pratiche lavorative dell’operatore nel tentativo di re-instradare un’ambulanza, abbiamo notato una serie di necessità o bisogni. in particolare:

– poter richiamare rapidamente l’attenzione del collega a cui ci si rivolge al fine di condividere un medesimo orienta-mento comune;

– poter richiamare rapidamente l’attenzione degli addetti nell’area isdn-radio (per lo stesso motivo di sopra);

– aver una risposta rapida sulla disponibilità delle ambu-lanze;

– sapere se ci saranno dei mezzi disponibili a breve e quali sono.

L’operatore, secondo la procedura standard, dovrebbe usare il dispositivo interfono (mediante cuffia) e il suo backup sms (Short Message System), strumenti predisposti per la comuni-cazione fra operatori mediante computer. tuttavia essi sono considerati dagli operatori inadatti a scambiare comunicazioni urgenti, poiché con questi strumenti il latore del messaggio non potrebbe sapere, ad esempio, se in quel momento il des-tinatario è disponibile a leggere e interpretare il messaggio in tempo utile; così gli operatori preferiscono le comunicazioni verbali faccia-a-faccia, la fisicità e tridimensionalalità dei movi-menti corporei, che tuttavia sono ostacolati dalla disposizione degli arredi. peraltro quest’ultimi non sono solo un ostacolo alla comunicazione in sé ma anche alla consapevolezza (situ-

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ational awareness) che il destinatario ti stia ascoltando. invece la comunicazione diretta faccia-a-faccia (anziché mediata dalla tecnologia) ha il pregio di ricevere un feedback immediato dal destinatario.

tutto questo avviene perché la progettazione, da una parte viene fatta non tenendo sufficientemente conto delle pratiche sociali che avvengono nel ��8 e dei principi cognitivi e comunicativi che guidano l’azione situata. dall’altra essa è troppo fiduciosa nelle capacità adattive, cognitive e di ap-prendimento degli esseri umani, per cui finisce per mettere il sistema informatico al centro del lavoro e gli attori sociali alla periferia, con la mission di adattare le proprie pratiche al sistema informatico.

Le conoscenze su cui si basa il progettista per ideare l’artefatto si basano spesso sulla sua esperienza personale e su conoscenze indirette; per cui egli tende a progettare per se stesso. e, a volte, nemmeno gli è di grande aiuto chiedere informazioni direttamente al committente perché quest’ultimo non sempre ha la consapevolezza dei suoi bisogni organizzativi. per esempio suchman ricorda che la semplice disponibilità di informazioni non è una condizione sufficiente per il manteni-mento di sicurezza ed efficienza operative. È necessario capire come l’informazione è usata, come le diverse interpretazioni della stessa situazione lavorativa si sviluppano e si mantengono, e come queste interpretazioni producano azioni coordinate. solo in questo modo è possibile capire realmente le pratiche di lavoro condiviso, e le loro caratteristiche situazionali. per cui, come sottolineano Bruni e gherardi, nel momento in cui si acquisisce la consapevolezza che compiti tradizionalmente concepiti come individuali (leggere, scrivere, parlare al tel-efono) hanno un’importanza collettiva perché supportano l’orientamento cooperativo del lavoro, allora il come si disegna la tecnologia che consente di svolgerli può divenire cruciale. non a caso, si è ormai sviluppato un approccio alla proget-tazione (detto user-centered design) orientato allo studio delle pratiche di lavoro (e di coordinamento) quotidiano, in modo che l’introduzione di nuove tecnologie non ostacoli, ma faciliti il lavoro di articolazione [�007, 57-8].

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Le società di consulenza che progettano sistemi informativi, reti informatiche, nuove procedure e flussi di lavoro, muovono spesso dall’assunto che una maggior efficienza passi per una maggior standardizzazione del processo lavorativo. tuttavia le molte ricerche condotte in questi anni mostrano anche che una razionalizzazione delle procedure (di per sé utile e necessaria) debba coniugarsi con il mantenimento di spazi riservati alla discrezionalità dell’attore. esse indicano che i sistemi tecnologici devono essere progettati incorporando in essi pratiche sociali situate. per cui autonomia e discrezionalità dovrebbero essere dei pre-requisiti per la progettazione di qualsiasi sistema; il quale le dovrebbe incorporare come costanti (anziché variabili marginali e devianti) del sistema stesso.

tuttavia non tutto può essere affidato alla tecnologia. per esempio quando ci troviamo di fronte ad attività altamente distribuite (come è il caso dei centri di coordinamento) le possi-bilità interpretative dovrebbero essere ridotte al minimo Bossen [�00�], essendo l’informazione usata da persone (distribuite nel tempo e nello spazio) non sempre in condivisione. in queste situazioni concentrare le informazioni rilevanti per il lavoro in un artefatto, rappresenta una soluzione limitata del problema. infatti lo stesso «pezzo» hard di informazione può assumere significati diversi a seconda dell’operatore (ad esempio l’autista d’ambulanza, l’equipaggio, l’operatore di centrale, il medico di centrale). per cui la progettazione di nuove tecnologie per supportare ambienti collaborativi non può limitarsi allo studio dei flussi di informazione e delle procedure formali, ma deve considerare come le persone «costruiscono» un’interpretazione condivisa della stessa informazione [Winthereik e Vikkelsø �005]. solo così è possibile evitare di «distruggere il lavoro cooperativo incapsulando procedure formali nei sistemi in-formativi» [schmidt e Bannon �99�].

L’osservazione delle pratiche situate mette quindi in luce come le «vecchie» (o analogiche) tecnologie (quelle della carta, della matita, del post-it, della parola, del nonverbale, del corpo, del faccia-a-faccia) siano tutt’altro che desuete. anzi le comu-nicazioni «fuori cuffia» (richieste urlate, grida, imprecazioni, ecc.) vengono dagli operatori preferite al sistema interfono e il

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suo backup sms perché ritenute più veloci, affidabili e precise. nel caso riportato nella sezione 6.�, proprio la comunicazione «fuori cuffia» fra operatori (un tipo di comunicazione non prevista dal sistema informativo e informatico), ha permesso a un infermiere di intercettare un’informazione utile e determi-nante per l’efficace conclusione delle operazioni di soccorso e ricovero di un paziente. Quindi i sistemi informatici, per poter funzionare adeguatamente, non possono fare a meno delle co-siddette «tecnologie soft», quelle a basso contenuto formale e ingegneristico. e la progettazione di sistemi efficaci non può trascurare l’alternativa dell’integrazione delle tecnologie digitali con quelle analogiche, anziché l’esclusione di queste ultime.

per cui studiare la tecnologia-in-uso aiuta non solo a comprendere più compiutamente e nel dettaglio le pratiche di lavoro, ma anche a fornire spunti essenziali per progettarla. infine occorre progettare al fine di portare fuori dal computer (esternalizzare) alcune conoscenze ivi immagazzinate, in modo da rendere più trasparente la tecnologia e i suoi contenuti. inventare quindi display pubblici della conoscenza che oltre a informare rendono (riflessivamente) più facile l’apprendimento tecnologico.