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Giovanni Paolo II - Tra cielo e terra

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La beatificazione di Karol Wojtyla il 1° maggio 2011 consegna al mondo e alla Chiesa una testimonianza cristiana esemplare. “Voce” dedica queste pagine al ricordo del Papa che visitò Brescia nel 1982 e nel 1998.

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iornalista, vaticanista, scrittore italiano di origine polacca, Gian-franco Svidercoschi, ha avuto modo nella sua lunga carrie-

ra di intessere un intenso rapporto con Giovanni Paolo II che apprezzava il suo interesse per argomenti polacchi. La vici-nanza con Karol Wojtyla Svidercoschi l’ha alimentata negli anni, dal 1983 al 1985, in cui è stato vicedirettore de “L’Osservatore Romano”. Con il Papa ha collaborato al libro “Dono e mistero” e lo ha seguito in tanti dei suoi viaggi in giro per il mondo. Dopo la morte di Giovanni Paolo II, pro-prio in virtù di queste frequentazioni, ha messo mano a “Storia di Karol Wojtyla” che ha fatto da filo conduttore per le sce-neggiature dei due film per la televisione “Un uomo diventato Papa” e “Un Papa rimasto uomo”. Svidercoschi ha dedicato gli ultimi anni della sua vita a raccontare, da diversi punti di vista e confrontandosi con altre figure che lo hanno conosciuto, il Papa giunto della Polonia. Eppure se gli si chiede, come avvenuto per questa intervista, un ricordo di Karol Wojtyla il giornalista non ha dubbi. “Il ricordo di Giovanni Paolo II che mi porto nel cuore

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non è quello delle adunate oceaniche di persone a ogni latitudine. Penso con no-stalgia all’uomo della preghiera, all’uomo che mi ha insegnato cosa significasse vi-vere di Dio”. Molte volte Svidercoschi ha avuto modo di pregare con Giovanni Pa-olo II, sia in circostanze gioiose e in altre drammatiche, come la sera in cui durante una cena con il direttore del “L’Osserva-tore Romano” Mario Agnes, venne comu-nicata al Papa la notizia del ritrovamento del cadavere di padre Popieluskzo. “Gio-vanni Paolo II – ricorda il giornalista – ci invitò a seguirlo nella sua cappella privata

e a metterci in preghiera con lui. Vidi un uomo totalmente perso in questa dimen-sione, capace di un intimo contatto con Dio”. Ma fra i ricordi che si affastellano nel cuore di Gianfranco Svidercoschi c’è anche quello della grande umanità di Ka-rol Wojtyla. “Ancora oggi – ricorda – pro-vo una grande nostalgia per l’umorismo del Papa, per la sua capacità durante i viaggi o in qualche momento conviviale, di saper ridere, di essere sereno. Era un uomo rimasto semplice, capace di chie-dere scusa anche all’ultimo dei suoi col-laboratori se pensava di avere torto o di avere sbagliato”. Si commuove ancora oggi Svidercoschi nel raccontare la te-stimonianza che gli ha reso chi ha potu-to essere vicino al Papa nelle ultime ore dalla sua vita terrena. Ricorda quanto gli ha raccontato Francesco, l’uomo che fa-ceva le pulizie negli appartament papali. Dopo che, nella mattina di quel 2 aprile 2005, Giovanni Paolo II aveva congeda-to alcuni cardinali giunti al suo capezza-le, chiamò a sé l’uomo che per tanti anni l’aveva servito nel silenzio. Non potendo quasi più parlare il Papa gli poggiò la ma-no sul capo, come per un’ultima benedi-zione. “Per più di una settimana – raccon-ta Svidercoschi – Francesco non ha volu-

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to lavarsi i capelli”. E dopo l’uomo delle pulizie è stata la volta di suor Tobiana, la superiora della suore che per tanti anni l’avevano “accudito” a Roma. “A lei – rac-conta ancora Gianfranco Svidercoschi –, in un polacco reso quasi incomprensibile dalla sofferenza, Giovanni Paolo II ha ri-volto le sue parole, quel ‘lasciatemi tor-nare al Padre” ormai diventata una frase storica”. Sono questi piccoli frammenti, pressocché sconosciuti al grande pubbli-co, che costituiscono il Wojtyla segreto che il giornalista si porta nel cuore.Ma c’è anche un Giovanni Paolo II pubbli-co che Svidercoschi vuole ricordare, un Papa su cui apparentemente è stato detto già tutto. “Eppure – afferma – ogni volta che mi devo confrontare con la sua figura mi trovo a meravigliarmi del grande fasci-no che continua a esercitare, un fascino che paradossalmente è più forte oggi del giorno della sua morte”. È una meraviglia, quella ricordata dal giornalista, che lo co-glie ogni volta che osserva la gente in so-sta davanti alla tomba di Giovanni Paolo II. “La loro – afferma – non è una sempli-ce preghiera, è invece un dialogo con un Papa che sentono ancora vivo, perché ha permesso loro di vivere un’esperien-za generatrice di Dio”. Tutti i papi hanno

avuto questo “mandato”, ma ciò che per Svidercoschi rende unica e ancora stra-ordinariamente viva l’esperienza di Gio-vanni Paolo II è l’essere stato realmente percepito come il Papa dell’incarnazione, capace di mostrare il volto umano di Dio. “Con la sua vita, con la sua sofferenza, con la sua passione, con il suo modo di vivere il rapporto con Dio – continua an-cora Svidercoschi – Giovanni Paolo II ha colmato quello che nel Concilio Vatica-no II era stato definito come lo scandalo della separazione tra fede e vita”. Karol Wojtyla, prima ancora di diventare Papa, ha dimostrato con la sua esistenza, prima alla Polonia e poi al mondo intero, come sia possibile superare questa divisione. “Il Papa – sono ancora considerazione del giornalista – ha mostrato a tutti come già sulla terra sia possibile iniziare l’incontro dell’uomo con Dio”.Nell’estrema poliedricità della figura di un Papa che ha attraversato due millenni ci sono aspetti a cui più di altri Svidercoschi crede si possa affidare la memoria di Gio-vanni Paolo II. “Karol Wojtyla – afferma – è stato veramente un uomo di Dio, capace di coltivare un intimo e fortissimo legame con il trascendente. La sua giornata era scandita dalla preghiera che veniva co-

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munque prima anche del più importante degli uffici legati al suo ministero”. Cita al proposito Svidercoschi una confidenza fattagli a suo tempo dal card. Camillo Ru-ini. Prima di un colloquio telefonico con il presidente statunitense Bush Giovanni Paolo II interruppe il pranzo per ritirarsi a pregare. “Giovanni Paolo II è stato un uomo totalmente dedito alla preghiera –ribadisce il giornalista –, capace di in-ventarsi parole sempre nuove con cui ri-volgersi al Padre. Ma il suo modo di pre-gare non aveva niente di bigotto, niente di costruito, perché il suo rapporto con Dio era naturale, diretto”.Fra le mille sfaccettature di Giovanni Pa-olo II un’altra è quella su cui Gianfranco Svidercoschi insiste in modo particolare. “Karol Wojtyla racconta è stato un uo-mo libero, capace di alimentare in ogni circostanza questa sua libertà interiore. Il suo profondo radicamento in Cristo l’ha reso estremamente libero, distaccato dal mondo, dalle cose, da sé stesso”. Il Papa che Svidercoschi ama ricorda è un uomo con uno stile di vita realmente francesca-no, capace di incarnare alla perfezione i canoni della povertà indicati dal Pove-rello di Assisi. “Pochi sanno afferma al proposito che Giovanni Paolo II è sta-to l’unico pontefice a non cambiare nulla dell’appartamento del suo precedessore. Gli unici oggetti che portò con sè da Cra-covia furono le fotografie dei suoi geni-tori”. Questa libertà, espressione di una sintesi riuscita tra vita spirituale e azione umana, è per Svidercoschi la cifra del lun-go pontificato di Giovanni Paolo II. “Que-sta libertà afferma l’ha portata in tutti gli angoli della terra, l’ha testimonianta soprattutto ai più poveri, agli oppressi”.C’è infine, ma l’elenco non esaurisce la grandezza del Papa venuto dalla Polonia, un ultimo aspetto che il giornalista sotto-linea ed è quello dell’umanità di Giovan-ni Paolo II. “Un aspetto che afferma –contribuisce a rendere comprensibile il grande fascino spirituale che ancora oggi caratterizza la sua figura”. Wojtyla è stato un uomo di Dio che ha saputo mantenere intatte le migliori caratteristiche dell’es-sere uomo. Il mondo di oggi tende a fare di questa caratteristica un aspetto eroico perché non è più capace di vedere una persona semplice e mite con le sue emo-zioni vivere il contatto quotidiano con la gente. “Giovanni Paolo II – ricorda al proposito Svidercoschi – amava ripetere

che la Chiesa non doveva limitarsi ad ac-cogliere in piazza San Pietro o nelle sue chiese la gente, doveva al contrario anda-re ad incontrarla dove questa vive la sua quotidianità fatta di gioia, di sofferenza, di dolore e di fatica”. Da questa convinzione prese le mosse sin dall’avvio del suo pon-tificato la necessità di portare il Vicario di Cristo in ogni angolo della terra. La santità è l’ultimo aspetto a cui Svider-coschi affida la memoria futura di Gio-vanni Paolo II. “Il suo rapporto con Dio, con la gente, con la sofferenza danno la misura della sua santità, la misura alta della vita cristiana, come il Papa – ricorda Svidercoschi – ebbe modo di definire la santità nel documento per il Giubileo del Duemila. Per tutto questo mi vengono i brividi quando sento ridurre Giovanni Pa-olo II alla figura di un Papa politico. Karol Wojtyla è stato un uomo di Dio che ave-va come riferimento il Vangelo. Spesso, anche dinanzi ai problemi più gravi non esitava a domandarsi e a domandare ai suoi più stretti collaboratori cosa avrebbe detto al proposito il Vangelo”. Un aspetto, quest’ultimo, che da solo conferma, per Svidercoschi, quell’acclamazione “santo subito” che si è levata da piazza San Pie-tro il giorno dei funerali di Giovanni Paolo II. “Una santità vissuta – ricorda ancora il giornalista – che ha portato Wojtyla ad aprire vie nuove come la visita alla sina-goga, l’incontro interreligioso di Assisi del 1986, l’intuizione delle Gmg”.Paradossalmente proprio questa fama di santità, il consenso universale “senza se e senza ma” di cui Giovanni Paolo II ha goduto quando era ancora in vita, rischia-no per Svidercoschi, di oscurare la com-pleta comprensione della sua grandezza. “Ho voluto intitolare uno dei miei ultimi libri ‘Un Papa che non muore’ – afferma al proposito Svidercoschi – proprio per-chè avverto il rischio che questo grande consenso che non accenna a diminuire neppure a sei anni dalla morte, possa li-mitare la conoscenza della grandezza di un Papa che ha saputo accompagnare la Chiesa nel nuovo millennio dandole pro-spettive nuove, una linfa rinnovata, com-battendo spesso contro mille resistenze sia fuori che dentro i palazzi vaticani, forse turbati sul principio da quello che con un certo spregio chiamavano ‘il po-lacco’. Oggi tocca a noi raccogliere i frutti di questa importante e straordinaria ope-ra di seminagione”.

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l 1º maggio Benedetto XVI presiede la cerimonia per la sua beatificazio-ne in piazza San Pietro. Sono passati meno di sei anni dalla morte di Karol

Wojtyla, avvenuta sabato 2 aprile 2005, vigilia della festa della Divina Misericor-dia, che il Papa polacco aveva istituito. Diventa beato nella stessa festa, una set-timana dopo Pasqua. Per i tempi abituali della Chiesa è diventato “santo subito”. Da più di mille anni non succedeva che un Papa elevasse all’onore degli altari il suo immediato predecessore. Giovanni Paolo II non è stato solo un

missionario, ha spiegato Benedetto XVI. Il suo zelo apostolico si spiega grazie alla preghiera, ha aggiunto il suo successo-re e stretto collaboratore per oltre due decenni. Il Papa ha tracciato un breve e personale profilo di Karol Wojtyla assi-stendo alla proiezione del documenta-rio “Pellegrino vestito di bianco” diret-to dal regista polacco Jarosław Szmidt e considerato una delle più importanti produzioni nella storia dei documenta-ri polacchi.Dopo la proiezione, il Vescovo di Roma ha sottolineato “i due cardini” della vita e del ministero del futuro Beato: “la pre-ghiera e lo zelo missionario”. “Giovanni

Paolo II è stato un grande contemplativo e un grande apostolo di Cristo. Dio lo ha scelto per la sede di Pietro e lo ha con-servato a lungo per introdurre la Chiesa nel terzo millennio”, ha affermato rife-rendosi alle parole che il cardinale Ste-fan Wyszynski, primate della Polonia, disse al momento dell’elezione a Karol Wojtyla: “A te far entrare la Chiesa nel terzo millennio”.“Con il suo esempio, lui ci ha guidati tutti in questo pellegrinaggio e adesso continua ad accompagnarci dal Cielo”, ha aggiunto il Papa, con un’espressione che ha ricordato le parole che pronun-ciò durante l’omelia dei funerali di Gio-

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vanni Paolo II. L’8 aprile 2005, infatti, il cardinale Joseph Ratzinger disse: “Per tutti noi rimane indimenticabile come in questa ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dalla sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo apostolico e un’ultima volta ha dato la benedizione Urbi et orbi. Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla fi-nestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre”. A sua volta il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le cau-se dei santi, in un’intervista rilasciata a “L’Osservatore Romano” ha detto che

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fede nella presenza di Dio e spirito mis-sionario sono i due pilastri dell’esempio di santità che papa Giovanni Paolo II ha lasciato al mondo. Secondo il porpora-to, papa Wojtyla ha lasciato alla Chiesa e alla società contemporanea “essen-zialmente due atteggiamenti”. “Il pri-mo è una grande fede nella presenza di Dio nella storia, perché l’incarnazione è efficace, vince il male: la grazia della presenza eucaristica del Signore supera tutte le barriere e i regimi antiumani”, ha affermato, ricordando che il Ponte-fice defunto “ha vissuto i regimi nazista e comunista, e ha visto l’implosione e la distruzione di entrambi”. “Il secondo at-

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teggiamento è il suo grande spirito mis-sionario. I viaggi del Papa erano attività missionaria vera e propria. Raggiunge-va i confini della terra per annunciare il Vangelo di Cristo”. Il cardinale Amato ha anche commentato l’iter della causa di beatificazione, che “ha avuto due fa-cilitazioni”. La prima, ha osservato, è stata il fatto che Benedetto XVI “ha subito concesso la dispensa dai cinque anni di attesa pre-scritti”, per cui la causa “ha avuto inizio quasi immediatamente dopo la morte di Giovanni Paolo II”; la seconda è stata “una sorta di corsia preferenziale: aven-do avuto la deroga, la causa si è trovata senza una lista d’attesa davanti, per cui ha potuto procedere senza l’impedimen-to di altri procedimenti in corso”. In questo contesto, l’accuratezza, “che è stata massima”, si è sposata con “una grande sollecitudine, una grande pro-fessionalità da parte della postulazio-ne”, “per cui il 19 dicembre 2009 il Papa ha potuto firmare il decreto sulle virtù eroiche”. È poi iniziato l’esame del miracolo – la guarigione dal morbo di Parkinson del-la suora francese Marie Simon Pierre Normand –, che “è stato studiato con grande attenzione, direi con pignoleria, anche perché su di esso c’era una gran-de pressione mediatica”, ha confessato il Prefetto del dicastero vaticano. “I me-dici, sia francesi, sia italiani, non hanno in alcun modo affrettato i tempi e han-no sottoposto tutto a un attento appro-fondimento”. “La celerità della causa non è stata a scapito né dell’accuratezza dell’iter pro-cedurale, né della professionalità nel presentare il personaggio – ha tenuto a sottolineare –. Del resto, la fama di san-tità era talmente diffusa e accertata che il nostro compito è stato agevolato”. Il cardinale Amato ha segnalato che i fede-li hanno esercitato non una “pressione”, quanto un “accompagnamento”. “Il sen-sum fidelium è quello che noi chiamia-mo, in termine tecnico, la fama di santità e di segni, che è indispensabile per una causa”. “‘Santo subito’ è una cosa buona, ma deve essere ‘santo sicuro’, perché la fretta non porta buoni frutti”. Nelle pagine che seguono proponiamo una lettura dei segni della santità di Giovanni Paolo II secondo i vari ambiti dell’esperienza esistenziale.

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iovanni Paolo II: un papa che sta passando alla storia per una lun-ga serie di primati, per le svolte culturali, politiche ed economi-

che delle quali è stato non solo testimone, ma anche artefice. Un uomo, un papa, un santo, capace di stare al passo – e, anzi, di precorrere – la nostra storia.Se scorriamo le ponderose biografie che lo riguardano, troveremo molti capitoli che ne illustrano le grandi opere, gli innu-merevoli viaggi, i ricchissimi scritti. Ma ben poco, al confronto, troveremo sulla sua vita di preghiera, che è stata in real-tà l’anima, la struttura portante di tutta

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la sua lunga e feconda vita. Un suo col-laboratore ricorda un episodio significa-tivo al riguardo: soltanto 13 giorni dopo l’elezione al soglio pontificio, Giovanni Paolo II chiese a coloro che lo accompa-gnavano in visita a un santuario maria-no alle porte di Roma che cosa fosse più importante per il papa nella sua vita, nel suo lavoro. “Forse è l’unità dei cristiani, la pace in Medio Oriente, la distruzione della cortina di ferro”, gli suggerirono. Rispose: “Per il papa la cosa più impor-tante è la preghiera”.È questione di priorità. All’inizio del suo cammino di pontefice, ignaro di tutto ciò che gli stava davanti, la certezza che tutto si sarebbe giocato lì, nel rapporto perso-

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nale e intimo con il Signore, si collocava al centro della sua missione di pastore della Chiesa universale.Certezza che, giorno dopo giorno, si fece sempre più incrollabile, granitica e che lo avrebbe sorretto e guidato nelle vicende più dolorose e sofferte del suo cammino.Una certezza nutrita costantemente da-vanti al Tabernacolo e sotto lo sguardo materno di Maria, in un colloquio inin-terrotto con quel Dio della storia che lo

aveva scelto per traghettare la sua Chiesa nel terzo millennio, in un tempo carico di tensioni, incertezze, paure… di fronte alle quali non esitò a gridare, durante la Messa di apertura del pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo!”.Si direbbe che la preghiera per papa Ka-rol fosse un attingere acqua sorgiva dal-le profondità nascoste e rocciose della terra. Lì, nel silenzio e nel buio, nasceva

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tutto, si radicava la sua fede e matura-vano tutte le scelte. E poi sgorgava lim-pida, gioiosa, serena, nel suo modo così spontaneo di incrociare volti e sguardi di un’umanità che ha saputo amare e promuovere in tutte le sue dimensioni, accogliendo e apprezzando il diverso, mettendo al centro l’uomo, immagine sublime di Dio.Da quella roccia segreta è scaturita una preghiera capace di parlare linguaggi

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portò ad indire un anno mariano in pre-parazione al terzo millennio.Ma ciò che soprattutto colpisce è il suo modo di pregare, la sua testimonianza, che ha fatto di lui un maestro di preghiera per ogni credente. Testimonianza che si è fatta sempre più esplicita con l’avanza-re dell’età e della malattia. Mano a mano che le forze venivano meno, che l’atleta amante delle passeggiate e dello sci in montagna non poteva più camminare, che il grande comunicatore non poteva più parlare, veniva alla luce il suo lin-guaggio più profondo, quello di un “uomo fatto preghiera”, aggrappato alla Croce durante quell’ultima Via Crucis seguita, ormai rannicchiato, nella poltrona della sua cappella personale.Quando una persona amata viene a man-care, l’eredità più grande che ci consegna – lo sappiamo bene per esperienza – con-siste in ciò che di grande e bello ha ama-to e trasmesso e che, in qualche modo, continua a vivere dentro di noi. Giovanni Paolo II, tra le sue tante preziose eredità, ci ha lasciato questa: una vita di preghie-ra semplice, confidente, fatta di piccoli e quotidiani gesti, mediata dalla materna protezione di Maria, capace di trasfigu-rare l’intera esistenza di un uomo. Una preghiera possibile. Anche per tutti noi.

molteplici, di raggiungere tutti e ciascu-no: non possiamo non ricordare le pro-lungate veglie delle Gmg, da lui pensate e fortemente volute perché migliaia di giovani potessero conoscere e incontrare Cristo; l’incontro ecumenico di preghiera dell’ottobre 1986 ad Assisi; la preghiera di richiesta di perdono presso il Muro del Pianto durante il Giubileo del Due-mila per le sofferenze inflitte al popolo ebraico; la sua devozione mariana, che lo

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uesto chiasso ha sentito Roma e non lo dimenticherà più”. So-no le parole, indimenticabili, pronunciate da Giovanni Paolo

II a Tor Vergata nell’agosto del 2000 du-rante la Giornata mondiale della gioven-tù di Roma. In quella notte due milioni di giovani raccolti in preghiera vissero, con il linguaggio dell’emozione e del sacrifi-cio, un’esperienza intensa di Chiesa. Quel Papa ammalato e tremolante che non si arrendeva neppure alla malattia tanto era grande il suo desiderio di comunica-re con la folla. Lui, Giovanni Paolo II, il

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papa dei cambiamenti storici operati con la pazienza del mediatore e la fermezza di chi confida in Dio, sapeva trovare nei “bagni di folla” le ragioni per una testi-monianza di fede. La veglia con i giovani a Tor Vergata non fu l’evento che segnò il record di fedeli presenti alle sue cele-brazioni. Pochi anni prima, nel 1995 a Ma-nila nelle Filippine, si contarono cinque milioni di persone. Ugualmente, nei molti viaggi apostolici in Africa o in America, furono molteplici gli incontri con le folle oceaniche. Anzi, volendo cercare di indi-viduare un format ai viaggi apostolici del Santo Padre, si nota la costante di mol-teplici incontri per categorie – autorità locali, sacerdoti, politici e grandi even-ti di popolo. E a ognuna di queste grandi adunate si registrava il risalto mediatico, la radicalità evangelica del messaggio tra-smesso e l’intenso coinvolgimento emo-tivo della folla partecipante. Tra le mille possibili testimonianze, fu di grande im-patto l’intervento di Giovanni Paolo II agli studenti della “High School” nel Madison Square Garden di New York, il 3 ottobre 1979. Arrivò in mezzo ai 15mila giovani americani, come suo solito, salutando e lasciando che i canti, gli slogan a lui in-dirizzati, le fotografie e gli applausi si moltiplicassero. Prese posto sul palco in

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si avvicinò il segretario col testo del di-scorso da leggere e uno sguardo che lo sgridava: “Santità, non si fa così!” Allora il Papa cominciò a guardare i giovani con gli occhi seducenti di chi può rinunciare anche alle parole in mezzo alla folla, a lui bastava anche solo uno sguardo silen-zioso per trasmettere la fede a migliaia di giovani. Pur senza parole sapeva, con grande passione, gridare ai giovani la ve-rità del Vangelo. Quello sguardo era ca-pace di provocare il consenso alla fede e di chiedere ai giovani di seguire Gesù. Giovanni Paolo II possedeva un carisma unico nel comunicare alle folle: annunzia-re il Vangelo con i gesti, con gli sguardi, con le mani e con il corpo. Ma non tutti hanno saputo apprezza-re questo grande dono. Nei molti anni del suo pontificato si sono, infatti, leva-te anche voci di preoccupazione per la ‘teatralità’ di quello stile: “Un Papa non può comportarsi come un giovane”; “non è una rockstar ma il successore di San Pietro, il segno della presenza di Gesù sulla terra”; “ha un ruolo istituzionale da rispettare”; “ci son troppe difficoltà orga-nizzative e costi da sostenere”. Va da sé che nessun profeta può vantare un consenso totale. Ma nell’epoca della comunicazione globale, degli strumenti

centro al palazzetto e si mise in silenzio. Poi, tra la sorpresa generale iniziò a dia-logare con i giovani attraverso la mimi-ca facciale. Gli schermi giganti trasmet-tevano in diretta i dettagli di quel volto in continua trasformazione che mostrava la complicità con i giovani: sorrisi, smor-

fie, strizzate d’occhio e movimento con la mano per salutare e incoraggiare. Tra la sorpresa generale iniziò a ‘giocare’ con i giovani mettendo le mani davanti agli oc-chi per imitare gli occhiali o un cannoc-chiale. La folla di giovani era in visibilio e i cerimonieri disorientati. A quel punto

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mediatici, della perfezione di voci e volti televisivi, esiste un’altra possibilità per trasmettere il Vangelo se non utilizzan-do i soli linguaggi comunicativi che oggi il mondo capisce? Oltre il carisma personale di papa Woytj-la, le chiavi per interpretare il suo amo-re per le folle stanno nel Vangelo e nella frase “Questo chiasso ha sentito Roma e non lo dimenticherà più”. È, infatti, lo stesso Gesù durante la sua vita pubblica a scegliere la doppia strategia comunica-tiva per costruire la prima Chiesa: da un

lato i grandi discorsi alla folle e dall’altro la formazione intima con i 12 apostoli. Il discorso della montagna con le Beatitu-dini, il miracolo della moltiplicazione dei pani, l’ingresso a Gerusalemme, sono so-lo alcuni esempi di come Gesù volesse incontrare le folle per offrire un primo annuncio capace di toccare il cuore e suscitare emozioni. Poi, ricorda ancora il testo sacro, Gesù chiamava in disparte i discepoli e a loro spiegava il senso del suo messaggio, li formava in modo ap-profondito sulla Parola e sulla volontà del Padre. Ecco perché, seguendo l’esem-pio di Gesù, anche ‘il chiasso’ delle folle ha rappresentato lo strumento comuni-cativo e la profezia di un Papa. Non solo “Roma non dimenticherà più quel chias-so”. L’intera umanità non dimenticherà più quel Papa che con le folle ha saputo dialogare affascinando, non per se stesso ma per ciò che rappresentava: l’amore di Dio per l’umanità.

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nevitabile che ogni ‘vicario di Cristo’ interpreti il suo ministero sul modello di Colui che glielo ha affidato e quindi nella forma dell’annuncio del Vangelo.

L’accento su questo aspetto è diventato abituale soprattutto dopo il Concilio Va-ticano II (1962-1965) nei cui documenti si è assunta la tripartizione del ministe-ro di Gesù secondo l’articolazione: pro-fezia, sacerdozio e regalità, e con essa si è descritta la missione di tutti i cristiani, in forza del battesimo resi partecipi del-la funzione profetica, sacerdotale e re-gale di Cristo. Se, a differenza di quanto era avvenu-to nell’epoca post-tridentina nella qua-le l’accento era caduto sulla funzione di governo, dopo l’ultimo Concilio, nella descrizione del ministero ecclesiastico in genere, l’accento è stato posto sulla funzione ‘profetica’, fu per due ragioni: la riscoperta del compito evangelizzato-re di Gesù, la constatazione che il Vange-lo non riusciva a modellare la vita delle persone umane come avrebbe dovuto e come, miticamente, si pensava fosse ri-uscito a fare nei secoli passati. La cosid-detta secolarizzazione sembrava sradica-re dal cuore e dalle menti delle persone umane qualsiasi riferimento religioso e soprattutto cristiano. Già lo stesso Con-cilio, stando al discorso inaugurale di Giovanni XXIII (11 ottobre 1962), si era proposto di trovare vie per presentare la verità cristiana in modo adatto agli uo-mini del nostro tempo. Su questo sfondo va letto il ministero di Giovanni Paolo II, che agli inizi del suo pontificato richiama la necessità di una ‘nuova evangelizzazio-ne’. Il luogo nel quale per la prima volta rimarca tale necessità è l’abbazia di Mo-gila in Polonia, in occasione del primo viaggio nel suo Paese natale nel 1979: là dove mille anni prima era stata piantata

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la croce, il Papa stimolava la Chiesa tut-ta a un nuovo slancio evangelizzatore. A fronte di una perdita del senso religioso della vita si doveva ricominciare un com-pito che, come aveva illustrato Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi (1975), è fondamentale per la Chiesa: la Chiesa esiste per evange-lizzare, aveva scritto il Papa bresciano, facendo eco alle proposte dei Vescovi ri-uniti in Sinodo per riflettere sulla evan-gelizzazione nel mondo contemporaneo

(Sinodo al quale il card. Karol Wojtyla aveva partecipato da protagonista). Sulla scorta di tale necessità, Giovanni Paolo II interpreterà il suo ministero come ob-bedienza al mandato di Cristo di portare il Vangelo a ogni creatura. In questa luce vanno letti i suoi viaggi, ma anche lo stile comunicativo della sua predicazione. Gli amanti di statistica hanno fatto il conto dei chilometri percorsi, dei Paesi visitati, dei discorsi pronunciati, delle persone in-contrate: i numeri sono impressionanti e

stanno a dire la passione evangelizzatrice di un uomo che aveva la preoccupazio-ne di invitare tutti ad “aprire le porte a Cristo”. Quel che ebbe a dire a Port-au-Prince nel 1983: “L’evangelizzazione deve essere nuova nell’ardore e nel metodo”, ha trovato attuazione esemplare in lui. Se nei corridoi vaticani ci si lamentava perché il Papa non governava la curia, non pare lo disturbasse più di tanto. Quel che a lui interessava era mostrare fattiva-mente quanto aveva scritto nella encicli-

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ca programmatica Redemptor hominis: l’uomo è la via della Chiesa. E l’uomo di-ventava gli uomini e le donne, i popoli, da incontrare direttamente per conoscere la loro condizione e per far conoscere che “le gioie e i dolori, le speranze e le ango-sce” loro sono anche quelli della Chiesa, come aveva scritto la Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gau-dium et spes, alla cui stesura il giovane Vescovo di Cracovia aveva contribuito durante il Concilio Vaticano II. Se vale l’adagio “le style c’est l’homme”, ripen-sando ai gesti, alle parole, al corpo sof-ferente di Giovanni Paolo II, si può dire che egli ha riproposto nella sua esisten-za l’assillo dell’apostolo Paolo per tutte le Chiese e per tutte le persone umane: l’evangelizzazione è diventata vita del-la sua vita, fino alla fine, per “portare a compimento ciò che ancora manca alla passione di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24).

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’onda mediatica dopo la morte di Giovanni Paolo II solo in pochissi-me occasioni accennò al suo pre-zioso contributo circa la visione del-

la persona e la sua corporeità, dell’amore, della sessualità, del matrimonio, della fa-miglia, della difesa della vita. Lo si definì come l’apporto meno originale e coraggio-so. Ma Giovanni Paolo II è stato un grande papa anche per aver aperto in questo cam-po prospettive e indicazioni e aver offerto una riflessione non scontata, con le cate-chesi sull’amore umano, dal 1979 al 1984, fin dall’enciclica Redemptor hominis, poi con Familiaris consortio, Dominum et vivificantem, Mulieris dignitatem, “Let-tera alle famiglie”, Evangelium vitae, ma non solo. Mons. Karol Wojtyla partecipò a una delle Commissioni conciliari per redi-gere la Gaudium et spes, alla quale spes-so rimanda nei suoi interventi. Sottolineo due passaggi ricorrenti, uno riguarda l’uo-

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mo, il cui mistero “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce…Poi-ché in Lui la natura umana è stata assunta, senza per questo venire annientata per ciò stesso essa è stata anche in noi innalzata a una dignità sublime” (n. 22). L’altro riguar-da la chiamata per ogni persona a realizzar-si in una modalità precisa, pur nei diversi stati di vita, pena la sua disumanizzazione e il fallimento di qualsiasi vocazione: l’uo-mo si realizza pienamente solo attraverso il dono sincero di sé (n. 24). Giovanni Paolo II aveva imparato ad amare l’amore umano. Nel suo insegnamento l’essere “a immagine e somiglianza di Dio” non si riferisce solo al singolo, ma all’uomo e alla donna creati per vivere nella comunione d’amore. Dal ‘Noi’ divino scaturisce il ‘noi’ umano: “Li creò maschio e femmina/ Per grazia di Dio ricevettero una virtù. Presero dentro di sé – nella dimensione umana – questo recipro-

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co donarsi che è in Lui” (Trittico romano). Anche nel corpo, che esprime la persona, è impresso questo dono originario. Proprio nella sua mascolinità e femminilità che per-mette la reciprocità e la comunione delle persone, la possibilità del dono reciproco. Non del dominio e dell’utilizzo dell’altro. Così il corpo umano non è solo un dato biologico ma porta in sé un senso, un valo-re da vivere. Un corpo per la comunione e la bellezza di un uomo “corpore et anima unus”, le cui scelte e atti non sono l’espres-sione di singole facoltà. Un uomo non divi-so in se stesso, che si possiede per potersi donare e per accogliere. Nessuna repressio-ne della sessualità e l’invito a non separare la differenza sessuale dal dono di sé e dalla fecondità, per un amore pienamente uma-no. La Familiaris consortio chiede che il disegno di Dio sull’uomo e la donna sia vis-suto. Grazie a essa abbiamo il direttorio di

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pastorale familiare, il sostegno ai consul-tori d’ispirazione cristiana e una formazio-ne specifica per sposi, sacerdoti e religio-si. Essa ha dato un impulso alla pastorale familiare a partire dagli sposi, dando loro una chiara identità e missione, che specifi-ca la grazia battesimale, in forza del dono ricevuto col sacramento del matrimonio: la grazia di Gesù Cristo lo Sposo, che ama e si dona all’umanità, che effonde lo Spirito sui coniugi perché possano amarsi come Lui ha amato. Ne consegue un compito ec-clesiale che passa attraverso la dimensione costitutiva della famiglia, non al di fuori o nonostante essa: essere e agire come co-munità d’amore che custodisce la vita. Pur-troppo si scommette pastoralmente ancora poco sul dono del matrimonio-sacramento e la famiglia è considerata un ‘settore’ della pastorale nonostante sia lo snodo obbliga-to per rifare il tessuto ecclesiale e sociale.

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ell’accingermi a scrivere qual-che riga su Giovanni Paolo II “malato e sofferente” vivo la stessa sensazione di chi ha il

compito di trasmettere lo stato d’animo che si prova davanti a una notte stella-ta o a un tramonto sul mare. Il compito è “incommensurabilmente” sproporzio-nato rispetto alle capacità dell’autore. Ci proverò, comunque, per l’amore che mi unì (e mi unisce) a questo grande Papa, dando per scontata una sicura goffag-gine. Ci proverò, senza retorica e senza apologia.Si potrebbe dire che Giovanni Paolo ha vissuto sulla propria carne tutte le tipo-logie di malattie che possono colpire un uomo: il male violento e acuto dell’atten-tato con l’imminente pericolo di vita, il male “passeggero” della protesi d’anca o dell’adenoma intestinale, la malattia cro-nica, progressivamente invalidante, della malattia di Parkinson. E in ciascuna oc-casione si è presentato ai suoi più vicini e al mondo intero con tutta la sua sem-plice umanità. Umanità fatta di ansia, di timore, di dolore vissuto e condiviso, di decisioni cliniche da prendere ascoltan-do i pareri dei medici che lo curavano, e pur sempre assai difficili da prendere.Un giorno, all’inizio della malattia di Parkinson, durante una liturgia in San Pietro, incontrò un vescovo di settore di Roma, mons. Giulio Salimei, che condi-videva la stessa malattia da qualche an-no; avvicinò le sue mani al volto del Ve-scovo, lo strinse e gli sussurrò: “Che fa-tica vivere con il Parkinson”. Il Vescovo si commosse fino alle lacrime: nessuna consolazione poteva essere più grande di quelle pochissime parole. Giovanni Pao-lo era così: non nascose mai, a nessuno, le sue sofferenze, nell’assoluta certezza

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che il dolore – così come l’amore – se condiviso “vale di più”.Anche per questo subì attacchi mediati-ci. Ci furono “grandi maestri del pensie-ro” che sentenziarono che la sofferenza richiede di essere nascosta e vissuta nel privato assoluto: si ha quasi il dovere morale di non turbare il mondo dei sani, con le sconcertanti immagini di un corpo malato e invalido, perché – si dice – la sofferenza toglie dignità all’uomo. Il Pa-pa, mostrandosi al mondo in tutta la sua fragilità fisica (ricordo la sua “maschera

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di dolore” durante la celebrazione euca-ristica a Sarajevo, intirizzito dalla tem-pesta di neve, ove la rigidità del gelo si sommava alla rigidità della malattia) ha testimoniato il contrario: è l’uomo che, privo della speranza che gli viene dalla fede, toglie dignità alla sofferenza.Giovanni Paolo II ha sofferto dolore fisi-co e ‘dolore morale’, vedendosi incapa-ce di compiere ciò che avrebbe voluto, e che sentiva sua missione, compiere. In Lui, come in ogni malato, i due dolori si fondono e confondono: mai, come nel dolore, ci accorgiamo di non avere un corpo, ma di ‘essere’ un corpo. E la ma-lattia tutto limita, serra nella sua morsa quest’essere ‘corpo’ e annulla forze fisi-che e spesso anche forze spirituali. “Per-ché soffro? Questa è la roccia dell’atei-smo”, grida Georg Buchner nel suo libro “La morte di Danton”.Giovanni Paolo II con il suo magiste-ro ci ha dato tante risposte, ma con il suo corpo ci ha dato una testimonianza e, quindi, una certezza. “Non esiste al-cun’altra ricetta se non il ricorso alla fe-de nel Dio crocefisso, che solo può salva-re il dolore dall’insignificanza e dal nul-la, trasformandolo da inutile e assurdo, in salvifico”; e ancora: “Il Vangelo della sofferenza significa non solo la presenza della sofferenza nel Vangelo, come uno dei temi della Buona Novella, ma la ri-velazione, altresì, della forza salvifica e del significato salvifico della sofferenza

nella missione messianica di Cristo e, in seguito, nella missione e nella vocazio-ne della Chiesa” (Salvifici doloris, 26). In numerose occasioni, ai medici che ebbero la “fortuna” di curarlo, amava ricordare che Dio non è venuto a spie-gare la sofferenza, ma in Gesù – Servo sofferente – è venuto a riempirla della sua presenza. E non è cosa da poco o un mero gioco di parole, così come non è una formula astratta: è la scoperta esistenziale di un “senso” laddove sembra proprio che non ci sia alcun senso. Il “non senso” è dispe-razione e la disperazione è dolore morta-le; il trovare un senso, il vivere un dolo-re carico di senso, è una via di speranza, che potrà non far approdare alla salute, ma che certamente conduce per mano alla salvezza. Così ha vissuto e testimo-niato la malattia il nostro amato Papa.Ora che sto concludendo, ho dinanzi agli occhi l’ultima fotografia con Lui, poche settimane prima di morire, con i segni quasi devastanti della malattia giunta al termine. Per descrivere quel volto, vor-rei far mie le parole di quel grande mi-stico medioevale che fu Meister Eckart: “Nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto. Nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più del dolore, nulla di fronte a Dio abbelli-sce l’anima più dell’aver sofferto”. Così possiamo immaginare il ‘nostro’ Giovan-ni Paolo II in paradiso.

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CALZATURE

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TRAVAGLIATO

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ons. Francesco Beschi è ve-scovo dal 2003, nominato da Giovanni Paolo II ausiliare della nostra diocesi. Dal 2009

è vescovo di Bergamo, ma a Brescia e ai bresciani ha dedicato più di trent’an-ni del suo ministero pastorale come vi-cario parrocchiale al Villaggio Sereno e in Cattedrale (1975-1989); come diretto-re dell’Ufficio famiglia (1987-2003) e del Centro pastorale Paolo VI (1989-2003); come vicario episcopale per la pastorale dei laici (1999-2003) e provicario genera-le (2001-2003); infine vescovo ausiliare e vicario generale (2003-2009). Un percor-so che ha affiancato nelle su varie tappe il pontificato di Wojtyla (1978-2005). Con

lui abbiamo fatto qualche riflessione sul Papa polacco, a partire da quanto è suc-cesso al momento della sua morte.Come ha vissuto quei momenti?Quando Giovanni Paolo II è morto ero in casa e, dopo essermi raccolto un momen-to in preghiera, ho seguito in televisione gli eventi. Sono stato colpito da un episo-dio in particolare. La tv locale, Teletutto, nel raccogliere le impressioni della gente ha intervistato una signora che dichiara-va il suo disappunto per essersi recata in Duomo trovando la porta d’ingresso chiu-sa. Da questo e da altri fatti mi sono reso conto di quanto in quel momento della storia, del mondo e della Chiesa, il Papa rappresentasse un punto di riferimento importante per tutti, anche per perso-ne lontane dalla Chiesa. Il giorno dopo,

in tutta fretta, insieme con altri e con il consenso del Vescovo, abbiamo deciso di aprire le porte a un pellegrinaggio a Roma per portare il nostro omaggio a Giovanni Paolo II. Sapevano che già si erano mes-si in moto in tanti e ignoravamo invece che tipo di risposta avrebbe raccolto la nostra proposta. Il nostro non era il de-siderio di esserci per esserci, ma piutto-sto di cogliere il senso di quello che stava avvenendo intorno alla figura del Papa. Il giorno dopo la sua morte siamo partiti in tanti e fra loro c’ero anch’io.Quali pensieri vi hanno accompagna-to durante il viaggio?Innanzitutto la meraviglia rispetto all’ade-sione di giovani e di anziani, di persone con motivazioni profonde, soprattutto da parte dei giovani legati a Giovanni Paolo

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II da sentimenti di affetto e di riconoscen-za. Abbiamo viaggiato in treno di notte e abbiamo dormito poco perché eravamo coinvolti dai ricordi di un pontificato così lungo, quindi ricco di momenti significa-tivi, comprese le sue indimenticabili visi-te a Brescia. Interrogandoci sulle ragioni che ci portavano a Roma, aveva grande rilevanza il tema della riconoscenza. De-vo dire che se c’è un criterio al quale pos-so riferire quel viaggio, anche in termini personali, è stato proprio il senso della riconoscenza.Ha avuto rapporti diretti con Giovan-ni Paolo II?Non ho avuto occasione di incontrarlo a Roma, anche se fu lui a eleggermi vesco-vo. Ho avuto modo invece di incontrarlo nel corso delle due visite a Brescia. La prima volta, nel 1982, ero da poco cura-to della parrocchia della Cattedrale, do-ve papa Wojtyla tenne alcuni incontri, in modo particolare con i giovani in piazza. Nel successivo passaggio all’interno del-la Cattedrale ho potuto salutarlo perso-nalmente. Fra l’altro di quella circostanza rammento un episodio singolare. Il Papa stava arrivando in piazza e ci si rese con-to che non si era provveduto a dargli un saluto significativo e solenne con il suo-

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no del campanone, del Pegol. In fretta e furia fui precettato per salire, da solo, a provvedere, contro ogni buona rego-la di sicurezza. Vidi così arrivare il Papa dall’alto mentre il Pegol, da me mano-vrato, lo salutava. La seconda volta che venne a Brescia (1998) l’incontro è stato molto più coinvolgente perché fu ospite del Centro pastorale Paolo VI, di cui ero allora direttore. Ho avuto dei momenti di familiarità con lui, in particolare durante un indimenticabile viaggio in ascensore, solo con lui. Desideravo che quel viaggio durasse il più a lungo possibile.Il Papa, con molta gentilezza e nonostan-te la evidente stanchezza, volle conosce-re la natura e le funzioni del Centro. So-prattutto voleva sapere di chi era ospite. E alla fine non mancò di esprimere il suo grazie particolare appunto per l’ospitalità.Come cristiano, come sacerdote e co-me vescovo, quali punti di riferimen-to le ha lasciato Giovanni Paolo II?Come cristiano senz’altro la passione missionaria, nel senso dell’essere cri-stiano nel mondo, nella storia con co-raggio e anche con una grande fiducia. Il non vergognarsi del Vangelo, il non aver paura erano espressioni che ricorrevano nei suoi ammonimenti. Nel segno di una presenza del cristiano che non vuole im-

porsi al mondo, ma che comunque non si sottrae all’impegno della testimonianza che deve dare al mondo contemporaneo. Come prete ricordo le parole, le riflessio-ni del Papa sul sacerdozio, in particolare nella Pastores dabo vobis, che rimane un punto di riferimento fondamentale. Negli anni, è una constatazione che fac-cio anche in questi giorni, una delle testi-monianze che mi sento di raccogliere, che spero di avere raccolto almeno in parte, è quella della vita di preghiera. L’ho ricorda-ta anche nell’invito ai miei sacerdoti per la Messa crismale del Giovedì Santo. Giovan-ni Paolo II si domandava: cosa deve fare il Papa? E rispondeva: la prima cosa che deve fare è pregare. Lo deve fare anche il prete. Un altro segno che raccolgo è stata la sua grande capacità di interloquire con i giovani. È un aspetto pastorale che sen-to molto come prete perché la proiezione, il dare ragioni di speranza credo che sia compito di tutti, ma soprattutto di coloro che sono chiamati a servire il popolo di Dio. Come vescovo, nell’insegnamento di Giovanni Paolo II colgo innanzitutto il sen-so di una grande comunione. Il Papa non è solo, è unito a tutta la Chiesa, al servizio della Chiesa. Non si può essere vescovi da soli. Si è vescovi per la Chiesa, al servizio della Chiesa, insieme alla Chiesa.

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distanza di sei anni il racconto mediatico del tramonto umano di Giovanni Paolo II è oggetto di molte analisi e approfon-

dimenti. In alcune facoltà universita-rie questo capitolo della recente storia giornalistica è un “case study ” e ci so-no tesi di laurea dedicate a una stagione che ha visto l’informazione cimentarsi con uno straordinario testimone. È giu-sto che sia così.Da parte mia tento un percorso che potrebbe sembrare lontano da quelli accennati.Un’immagine e una frase mi guidano in questo breve tratto della memoria. “È l’ultima fotografia di Giovanni Pao-lo II ed è mia, io ho fatto l’ultimo scat-to”. Con queste parole Pier Paolo Cito, fotoreporter dell’Ansa, mi ha mostrato nei giorni scorsi l’immagine di un vol-to sofferente e in parte nascosto dalle

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tende bianche della finestra alla quale era apparso per oltre 26 anni. Cito è un professionista serio, un fotoreporter che ha sempre rispettato i diritti e la dignità di persone uccise o in situazio-ni di estremo pericolo. Con le sue foto ha raccontato guerre, stragi e attentati, testimoniando fatti terribili senza mai offendere i morti e i vivi.Anche quell’ultima foto di Giovanni Pa-olo II, scattata da piazza San Pietro, era frutto del suo talento professionale.E quella foto Cito la custodisce con grande cura, si potrebbe dire con te-nerezza. Perché in quell’immagine è riassunta una scelta professionale: è possibile informare con completezza e tempestività senza ferire la dignità di una persona in situazione di estre-ma fragilità.Come il fotoreporter dell’Ansa molti media riuscirono nell’impresa, grazie anche a un Papa che aveva sempre da-to loro fiducia.Giovanni Paolo II, infatti, aveva inse-gnato che i media non hanno il compito e la responsabilità di entrare nel miste-ro: alla sua soglia si devono fermare e in questa sosta fatta di responsabilità e sensibilità grandi, possono far nascere domande e soprattutto offrire a tutti i

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motivi per varcarla. Anche quell’ulti-ma foto scattata da Cito aveva questo messaggio. Una fotografia non ha il sup-porto dell’audio o la dinamicità di una ripresa. È sempre in compagnia del si-lenzio, ma è proprio questo aspetto che rende il suo linguaggio è più profondo ed efficace di altri.Così accadde anche il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro.In quell’attentato Giovanni Paolo II, im-mortalato negli scatti di tanti fotografi, fu maestro e testimone nella sofferenza.La gente, grazie ai media, se ne accorse subito e lo sentì molto vicino alla fatica, alla sofferenza e alla morte che bussano alla porta di ogni casa.Anche allora il Papa pose una doman-da di fondo alla coscienza degli uomini e delle donne dei media: è più sacra la notizia o è più sacra la persona?La risposta è in un’etica fatta di rego-le professionali ma anche di sensibilità umane e spirituali che, mai rinuncian-do alla deontologia, vanno più in alto.La sofferenza e la morte chiedono ai me-dia di fermarsi alla soglia del mistero con la consapevolezza del limite, una consapevolezza che li mette al riparo dal delirio di onnipotenza. Un rischio, questo, che torna quando i media han-

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no la pretesa o la presunzione di capi-re e di spiegare ciò che non è nel loro vocabolario.E in quella primavera del 2005 il rischio si ripeté davanti a una frase.“Lasciatemi andare”: queste le parole riferite da chi era vicino al Papa che si stava spegnendo. Divenne presto il titolo di molti giornali. Fu però male interpretato quando si volle leggere in

quelle parole la richiesta di staccare la spina per porre fine a un’insopportabi-le sofferenza.In verità il Papa della Salvifici doloris mandava, dal letto diventato altare, un messaggio totalmente altro.Incomprensibile ai media perché toc-cava quella sete di infinito e quella vo-cazione all’eternità che non possono essere raccontate neppure con il lin-

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guaggio giornalistico. Siamo alla vigi-lia della beatificazione: il “Lasciatemi andare” ritorna ad essere la notizia che corre leggera su strade visibili e invisi-bili come quel soffio di vento che nel giorno dei funerali sfogliava le pagine del Vangelo posto sulla bara. Non un congedo ma un addio, un “ad Deum”, un “Vi affido a Dio”. Nell’immagine te-levisiva c’era l’annuncio di un appun-tamento non scritto. Finito il compito

dei media inizia quello della coscienza, là dove avviene il dialogo più autentico tra sofferenza e speranza, tra vita e mor-te, tra tempo ed eternità. Nell’ultimo scatto di Pier Paolo Cito c’è l’appello a camminare lungo questo sentiero dove è da costruire un’alleanza rinnovata tra il pensiero dei media e il pensiero del-la gente. Certamente l’appello tornerà in piazza San Pietro, come un soffio di vento, nella prima domenica di maggio.

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a Paolo VI a Benedetto XVI ogni pontificato ha visto nel pelle-grinaggio una occasione pri-vilegiata per rinnovare e con-

fermare la fede attraverso l’esperienza del viaggio e della visita a luoghi santi. La convinzione che motiva e avvalora lo spostarsi da un luogo all’altro accompa-gnata dal desiderio di potere “vedere” con i propri occhi una meta forte di significato e di valore hanno guidato i passi spesso appesantiti dall’età e dalla sofferenza di molti Papi tra i quali non è possibile di-menticare Giovanni Paolo II. È stato lui che grazie all’ausilio dei me-dia ha dimostrato al mondo come per un Pastore fosse prioritario vestire i panni del viaggiatore per andare alla ricerca di un incontro nel quale costruire un dialo-go di amore, ed è stata proprio la corri-spondenza di questo sentimento che dopo la sua morte ha portato persone di tutti il mondo, potenti e semplici fedeli, a in-dossare i panni dei pellegrini per rendere omaggio alla salma di Giovanni Paolo II e a ricambiare, attraverso un gesto concre-to, quell’incontro tanto desiderato, tanto voluto, tanto apprezzato. Per questo motivo anche un evento co-me la morte del papa si è trasformato in un’occasione privilegiata per ravvivare la fede attraverso l’esperienza del pellegri-naggio. Anche la macchina organizzativa si è messa in moto per fare in modo che questa possibilità potesse essere data al maggior numero di persone. Così è stato sin dagli istanti immediata-mente successivi all’annuncio della morte di Giovanni Paolo II. Brevivet, l’Ufficio diocesano per la pa-storale dei pellegrinaggi e il Segretariato oratori erano già in moto per permettere a tantissimi bresciani di potere andare a Roma per rendere omaggio alla salma del

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Papa nella Basilica di San Pietro. Quan-ti hanno vissuto quei momenti ricorde-ranno bene la lunga fila di persone (solo una piccolissima anticipazione di quello li aspettava a Roma, con quel serpento-ne umano immortalato da tante teleca-mere, migliaia e migliaia di persone si-lenaziosamente in coda per rendere l’ul-timo saluto a Karol Wojtyla) accodate in via Trieste per potere acquistare un bi-glietto dei due treni speciali in partenza dalla stazione di Brescia con direzione

Città del Vaticano. Oltre al treno l’orga-nizzazione dovette far ricorso anche a molti pullman per far fronte alle tantis-sime richieste di un popolo bresciano che voleva ardentemente poter incon-trare ancora una volta il Papa. Ragazzi, papa-boys, anziani, e tante, tante fami-glie, gruppi parrocchiali e di preghiera, associazioni sportive e culturali, giovani che avevano vissuto l’esperienza delle Giornate mondiali della gioventù. Du-rante il viaggio l’atmosfera era strana,

pervasa da un unico groviglio di senti-menti. Emozioni che univano la tristez-za del lutto alla gioia di rendere omaggio all’amato Papa, il tutto manifestato in un atteggiamento composto nella pre-ghiera e di comunione fraterna. Indimenticabili furono le parole pro-nunciate al microfono da mons. Fran-cesco Beschi, allora vescovo ausiliare, che si mise a capop di questo partico-lare pellegrinaggio non per dovere isti-tuzionale, ma perché, come per tutti gli altri bresciani, mosso dall’attaccamen-to al Papa. Nel corso di quella e lunga fatiocsa tra-sferta notturna in treno l’attuale Vesco-vo di Bergamo, ebbe a dire: “Questo è un viaggio sotto il segno della speran-za. Un viaggio che è preghiera per ricor-dare il Papa, che vive nel ricordo del e nel Signore. Da tutto il mondo stanno arrivando pellegrini come noi a Roma, suscitando lo stupore del mondo. Que-sto è uno dei tanti segni consegnati dal Papa al mondo”. Per Brevivet essere chiamata a coor-dinare con la diocesi quell’evento nel Bresciano ha rappresentato non solo un momento indimenticabile ma anche una occasione di crescita professionale ed ecclesiale.

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na mattinata di sole, leggermen-te velata da nubi passeggere. L’8 aprile 2005 è il giorno in cui si svolgono, in piazza S. Pietro, i

funerali di Giovanni Paolo II. Una Roma quasi ammutolita, dopo i giorni delle fol-le oceaniche giunte in Vaticano per ren-dergli l’ultimo omaggio, converge com-posta attraverso via della Conciliazione nell’abbraccio dell’emiciclo del Bernini. Sono presenti i rappresentanti di tutte le religioni del mondo e più di 200 tra ca-pi di Stato e di governo. Vi assistono in piazza oltre 300mila persone e, attraverso maxischermi, più di 2 milioni di persone riunitesi nelle piazze di Roma. Essere a San Pietro per i funerali di Karol Wojtyla è un privilegio. Per chi è lì la prima perce-zione è di vivere un momento unico nel-la storia. Mai così tante autorità si sono trovate insieme nello stesso luogo. Ma la sensazione più profonda, palpabile, è la

comunione spirituale che lega quel popo-lo al Pontefice che ha retto la Chiesa cat-tolica per quasi 27 anni. È la sensazione di chi si trova a condividere il momento del distacco da una persona cara, cono-sciuta, amata, familiare, come solo può esserlo stato per tutti Giovanni Paolo II. Lo si percepisce tra i vescovi, tra i sacer-doti, che occupano la zona più vicina al sagrato, nei diplomatici e nei rappresen-tanti delle religioni di tutto il mondo, ma soprattutto nella gente comune, dignito-samente composta nella tristezza e nella preghiera. Portano bandiere di ogni Pae-se, portano striscioni. Sono lì per rendere grazie a Dio per questo Papa che vorreb-bero “Santo subito”. È la fede della Chiesa

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che lo chiede e che trova riscontro quasi immediatamente nelle parole del card. Jo-seph Ratzinger che, in qualità di decano del Sacro Collegio, presiede le esequie e pronuncia l’omelia. “Per tutti noi dice Ratzinger rimane indimenticabile co-me in questa ultima domenica di Pasqua della sua vita, il Santo Padre, segnato dal-la sofferenza, si è affacciato ancora una volta alla finestra del Palazzo Apostolico e un’ultima volta ha dato la benedizione Urbi et orbi. Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla fi-nestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice. Sì, ci benedica, Santo Padre”.La bara del Papa è giunta sul sagrato della Basilica e viene collocata davanti all’altare. Sopra c’è un Vangelo aperto. Una brezza leggera scompiglia i para-menti sacri dei cardinali e gira le pagine della Parola di Dio. Poi il libro si chiude. Ratzinger parla della sequela: “Seguimi, dice il Signore risorto a Pietro, come sua ultima parola a questo discepolo, scelto per pascere le sue pecore. Seguimi. Que-sta parola lapidaria di Cristo può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto e amato papa Giovanni Pao-lo II, le cui spoglie deponiamo oggi nel-la terra come seme di immortalità con il

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cuore pieno di tristezza, ma anche di gio-iosa speranza e di profonda gratitudine”. Il decano dei cardinali, futuro Benedetto XVI, ripercorre tutta la vita del Papa de-funto dagli anni della giovinezza durante la guerra, a quelli del sacerdozio, da quel-li dell’insegnamento fino all’episcopato a Cracovia. E poi l’elezione alla cattedra di Pietro a Roma e il lungo pontificato. Le sue parole evocano in tutti immagini che

non hanno bisogno di ulteriori commenti tanto sono impresse nella memoria e nel cuore. La vita di papa Wojtyla è stata una risposta generosa e fedele alla chiamata d’amore di Cristo, un’adesione sincera a collaborare al suo disegno di salvezza per il mondo. E oggi, mentre l’umanità prega per lui, quel Papa prega per noi e benedi-ce. Benedice, anzitutto, la Chiesa catto-lica, intercede per l’unità dei discepoli di Cristo, prega per il dialogo tra le religioni e per la pace nel mondo. L’ultimo applauso della piazza consegna, al termine della celebrazione, la salma del Papa all’intimità della Basilica vati-cana. Solo in pochi assisteranno alla sua tumulazione. Tra questi la famiglia pon-tificia, il suo segretario particolare mons. Dziwisz e le suore polacche che lo hanno sempre accudito. Durante la cerimonia, sono state quasi in disparte, in costante preghiera. Sono stati gli affetti più cari e vicini al Papa e in quell’8 aprile le loro lacrime si sono mescolate con le nostre.Per chi lascia San Pietro, in quella matti-na, la sensazione forte che Giovanni Pa-olo II sia già beato è un’evidenza. “Santo” per la fede dei fedeli. Ora che, il 1° maggio 2011, il suo successore Benedetto XVI lo dichiara ufficialmente beato, quella sen-sazione diviene una certezza.

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ei volte. Sì, sei volte Giovanni Pa-olo II venne in terra bresciana: da giovane prete a Seniga, due volte in Adamello, una a Borno e poi le

due visite ufficiali a Concesio e Brescia. Perché queste visite? Potremmo dire, semplicemente, per amicizia. Il Papa ve-nuto dalla Polonia aveva il dono e il culto dell’amicizia. Una amicizia che non era mai disgiunta dalla gratitudine. E in ca-sa dell’amico e compagno di studi don Francesco Vergine in una calda estate del dopoguerra trascorse qualche gior-

no di vacanza fra il verde della Bassa di Seniga, scorrazzando in bicicletta fra strade di campagna non ancora asfalta-te. In compagnia dell’amico presidente della Repubblica Sandro Pertini venne a sciare in Adamello nel luglio del 1984 e in Adamello tornò nel luglio del 1988 rispondendo all’invito degli amici Alpini in Pellegrinaggio sulle cime della Grande guerra. Per amicizia verso il suo collabo-ratore card. Giovanni Battista Re nel lu-glio del 1998 dal Cadore arrivò a Borno per l’Angelus. E per ammirata amicizia verso il suo predecessore Paolo VI visi-tò due volte Brescia: il 26 settembre del

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1982 sostò in preghiera su tutti i luoghi cari a papa Montini, cominciando dalla casa natale e dal fonte battesimale di Concesio. Poi tornò il 19 e 20 settembre del 1998, a conclusione del centenario della nascita di Paolo VI. E in quella oc-casione proclamò Beato il laico camu-no Giuseppe Tovini. Filmati e articoli a parte, di queste due visite e dei discorsi pronunciati rimangono a testimonian-za due pubblicazioni, forse ormai esau-rite, ma ancora importanti. La prima è un agile volume stampato dall’Editrice La Scuola e intitolato “Il messaggio di Giovanni Paolo II a Brescia”, con un bel commento di mons. Enzo Giammanche-ri. La seconda visita è stata documentata nel volume “Brescia e il Papa”, edito da La Voce del Popolo e arricchito da foto-grafie. Entrambi i volumi furono curati dei rispettivi Comitati diocesani sorti in occasione delle due visite, per la prepa-razione e l’organizzazione. A distanza di anni, ripensando a quelle visite e, soprattutto, rileggendo i discor-

si raccolti nelle pubblicazioni seguite, ci si accorge che Giovanni Paolo II, come ebbe a dire il vescovo Giulio Sanguine-ti nell’omelia della messa di suffragio tenuta in Cattedrale all’indomani della morte, ha scritto alla Chiesa bresciana una sorta di “lettera enciclica” i cui temi principali sono preziosi cartelli indica-tori per il presente e il futuro, dentro la effervescente storia del Duemila. E per i bresciani è motivo di orgoglio cogliere che tali indicazioni sono in perfetta con-tinuità con il pensiero e il sentimento di Paolo VI, da lui definito “caro e grande… padre e maestro”, smentendo ogni falsa interpretazione di un pontificato di cor-rezione se non di rottura nei confronti del magistero e degli atti montiniani. Non è certo facile né possibile riassu-mere tale “enciclica” per i temi diversi affrontati nei luoghi toccati nelle sue vi-site. Si potrebbe, tuttavia, parlare legit-timamente di tre fedeltà raccomandate da papa Wojtyla ai bresciani: al cristia-nesimo, al Concilio, alla nostra tradizio-

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ne cattolica. Giovanni Paolo II è tornato insistentemente sulla necessità di non rompere con la vita cristiana in un tempo di secolarizzazione, ateismo e materiali-smo. Il Vangelo di Cristo, creduto e vis-suto, è stato portatore non solo di frut-ti spirituali ma anche di civiltà: in terra bresciana il cristianesimo ha contribuito non poco a plasmare l’ethos di un popo-lo laborioso e buono, accogliente anche se a prima vista un poco brusco e intro-verso. Il cristianesimo ha portato arte, cultura e una svariata gamma di opere umanitarie. A Brescia il cristianesimo è sempre stato vivo, vero e non formale, autentico, generatore di bene e fermento anche per la comunità civile. Un cristia-nesimo affascinante anche quando è sta-to esportato attraverso un numero sor-prendente di missionari sparsi nei cinque continenti. Poi Giovanni Paolo II ha rac-comandato la fedeltà al Concilio, porta-to a termine proprio dal bresciano papa Montini. Un Concilio che non va tradito ma nemmeno rinnegato. Quel Concilio che significa essere Chiesa capace di portare il Vangelo all’uomo contempora-neo, percorrendo le vie della nuova evan-gelizzazione. Infine la fedeltà alla nostra forte tradizione cattolica che significa prima di tutto un laicato credente e pra-ticante che non ha mai avuto complessi di inferiorità nelle responsabilità civili, politiche e professionali che riguardano ogni cittadino. Un laicato che ha espres-so figure eccezionali fra le quali spicca

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Giuseppe Tovini. Un laicato che dalla fe-de cristiana ha tratto ispirazione per un umanesimo alto, felice, aperto che ha saputo conciliare profitto e solidarietà, economia e carità, interesse privato e bene pubblico. Un laicato che, sempre in comunione con i pastori, ha dato vi-ta ad una costellazione di istituzioni nel campo educativo, culturale, assistenzia-le. Esiste una “via bresciana” positiva nel cattolicesimo italiano, fatta di promo-zione e difesa della famiglia, di grande attenzione all’educazione, di sensibilità sociale e di attenzione alle povertà. Né va dimenticato che questa via è fatta an-che di attenzione alla terra, al territorio, alla natura. Al creato, insomma. Ammi-rando le bellezze dei monti bresciani ha ribadito anche questa peculiarità da non smarrire, insieme alle altre. Papa Wojtyla, ora Beato, interceda per-ché i bresciani sappiano continuare il cammino della loro storia, forti e saldi in queste tre fedeltà.

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n oratorio, una piazza e un cen-tro sportivo. Abbiamo scelto questi tre luoghi simbolo della vita delle comunità bresciane

per raccontare le tante iniziative nate per ricordare e rinnovare la memoria di Giovanni Paolo II. L’indomani della morte del Papa polacco in tutto il mondo si fece largo il deside-rio di ricordare la sua figura attraverso luoghi e monumenti. Anche nel Bresciano non mancano que-sti esempi: siamo andati a Nave, Gavar-do e Gargnano per cercare di raccontare come tre spazi possano diventare motivo di ricordo e di annuncio del messaggio sempre vivo di Karol Wojtyla.In diocesi sono due gli oratori dedicati alla figura del Papa polacco: Gargnano e Ponte di Legno. A Gargnano, in particolare, i giovani dell’oratorio gardesano come tanti altri loro coetanei si erano ritrovati, il 2 aprile 2005, a pregare con le lacrime agli occhi per “il Papa amico dei giovani”. Il cura-to di allora, don Francesco Mattanza, si mise in ascolto delle richieste di giova-ni, che fecero visita a Roma alla salma di Giovanni Paolo II. Dal 2005 al 2007 (l’intitolazione dell’oratorio risale al 10

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novembre 2007) fu approfondita la figu-ra di Wojtyla negli organi di comunione (consiglio pastorale e consiglio dell’ora-torio) e in alcuni incontri appositi con i giornalisti Luigi Accattoli e Gian Franco Svidercoschi, con padre Antonio Sicari e con il filosofo Rocco Buttiglione sull’en-ciclica Veritatis splendor. Alcuni parrocchiani, a titolo persona-le, andranno a Roma per la beatifica-zione; la comunità, invece, sta pensan-do di strutturare degli appuntamenti. Don Omar Zanetti, curato dal 2010 di Gargnano, ha in animo di soffermarsi nel prossimo anno pastorale sulla figura del Pontefice, che tanto ha trasmesso e comunicato ai giovani. Più avanti, ma-gari, ci sarà tempo anche per un viaggio sulle sue orme per rendere omaggio e vedere da vicino i luoghi che sono ormai entrati nella storia della Chiesa. In provincia, come nel resto dell’Italia, ci sono vie e piazze dedicate. Nello spe-cifico a Nave l’idea fu avanzata dai con-siglieri Pedrali e Rossi poco prima delle elezioni del 2006. Chi conosce il Comu-ne della Valle del Garza sa che la vita del paese ruota attorno al centro storico e alla nuova piazza oggi dedicata a Giovan-ni Paolo II che raccoglie al suo interno la farmacia comunale, il presidio locale dell’Asl, la guardia medica e gli ambula-

tori medici. Per la cerimonia fu chiamato il card. Giovanni Battista Re che insie-me a mons. Lorenzo Ceresoli benedisse la piazza e il monumento “Alla famiglia” dell’artista locale Luigi Bertoli. Nella scultura mamma e papà si guardano in-tensamente, stringendo nell’abbraccio due figli. Le figure spiccano sopra un blocco di mattoni, riunite in una struttu-ra che supera di poco i tre metri d’altezza e ottenuta dalla lavorazione di sei metri cubi di materiale espanso, poi tagliato, scavato e lavorato con sapienza sino a ottenere un modello rivestito di vetrore-sina e d’una patina protettiva che richia-ma il colore del bronzo anticato. In una società nella quale la famiglia è la cellula fondamentale è quasi d’obbligo ricordare il valore di questo istituto da rispettare e promuovere così come ha fatto in vi-ta Giovanni Paolo II. In occasione della beatificazione a Nave verrà esposto un grande telo con l’immagine del Pontefice e le bandiere dell’Italia e del Vaticano. In molti ricordano anche le immagini di un Pontefice sciatore, a suo agio sulle vet-te delle montagne e amante dello sport. C’è chi, come a Gavardo, ha pensato be-ne di dare un nome al complesso sporti-vo costruito nei primi anni Ottanta: l’inti-tolazione a Karol Wojtyla risale al 3 set-tembre del 2006. È importante analizzare

l’attività sportiva alla luce del messaggio lanciato da Giovanni Paolo II al Giubileo del Duemila: “Le potenzialità educative e spirituali dello sport devono rendere i credenti e gli uomini di buona volontà uniti e decisi nel contrastare ogni aspet-to deviante che vi si potesse insinuare, riconoscendovi un fenomeno contrario allo sviluppo pieno della persona e alla sua gioia di vivere. È necessaria ogni cura per la salvaguar-dia del corpo umano da ogni attentato alla sua integrità, da ogni sfruttamento, da ogni idolatria”.

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e iniziative per la beatificazione di Giovanni Paolo II in programma a Roma prenderanno il via nella se-rata del 30 aprile. Presso il Circo

Massimo i pellegrini potranno partecipa-re a una veglia di preghiera e ringrazia-mento a Dio per la vita e il ministero di Giovanni Paolo II, presieduta dal card. Agostino Vallini. Organizzata dalla dio-cesi di Roma la veglia inizierà alle 20 per concludersi alle 22.30. È previsto un in-tervento, con un collegamento video, di Benedetto XVI. La prima parte della ve-glia sarà costituita da una celebrazione della memoria incentrata sulle parole e sui gesti di Giovanni Paolo II. La celebra-zione sarà animata dal coro della diocesi di Roma e dall’orchestra del conservato-rio di S. Cecilia diretta da mons. Marco Frisina. Sono previsti gli interventi di al-cuni stretti collaboratori del Papa come Joaquín Navarro-Valls e il card. Stanisław Dziwisz. e la toccante testimonianza di suor Marie Simon-Pierre, la cui guarigio-ne miracolosa ha aperto la via per la be-atificazione. Al termine della prima parte della veglie è previsto il canto del “Totus tuus”, composto per il 50° dell’ordinazio-ne sacerdotale di Giovanni Paolo II e tan-te volte eseguito alla sua presenza nelle celebrazioni. La seconda parte sarà tutta imperniata sulla celebrazione dei misteri luminosi del rosario che furono introdot-ti proprio dal papa Giovanni Paolo II. Il cardinale vicario Agostino Vallini presen-terà in sintesi la personalità spirituale e pastorale del Beato. A questo momento farà seguito la recita del rosario in colle-gamento diretto con i santuari mariani di

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Łagniewniki a Cracovia, di Kawekamo-Bugando, in Tanzania, di Notre Dame du Lebanon-Harissa, con la basilica di Sancta Maria de Guadalupe a Città del Messico e con il santuario di Fatima. Dopo la con-clusione della veglia prenderà il via in otto chiese del centro storico di Roma la notte bianca della preghiera che accompagnerà i fedeli sino alla prime ore di domenica 1° maggio e all’appuntamento in piazza San Pietro con S. Messa di Beatificazione pre-sieduta da Benedetto XVI. Partire dalle 10 in piazza San Pietro La partecipazione alla celebrazione, come da tempo annun-ciato, non è regolata da singoli biglietti,

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tuttavia l’accesso alla piazza e zone adia-centi sarà sotto la tutela della sicurezza pubblica. Subito dopo la cerimonia della beatificazione le spoglie del nuovo Beato saranno esposte per la venerazione nella Basilica di San Pietro, davanti all’Altare della Confessione. La venerazione proseguirà fino all’esau-rimento del flusso dei fedeli. Le giornate dedicate alla beatificazione di Giovan-ni Paolo II si concluderanno il 2 maggio sempre in piazza San Pietro. Il card. Tar-cisio Bertone presiederà alle 10.30 la S. Messa di ringraziamento per la beatifica-zione del Servo di Dio. Imponente è an-

che il dispiegamento dei mezzi di comu-nicazione per dare copertura all’evento. La Rai ha messo in palinsesto per la se-rata di sabato 30 aprile un programma in diretta da piazza San Pietro condotto da Lorena Bianchetti e Massimiliano Ossini che accompagneranno i telespettatori in un viaggio per ricordare e conoscere meglio la figura di Giovanni Paolo II, con ospiti e testimonianze, in costante colle-gamento con il Circo Massimo. Su Rai1, la domenica mattina, la diretta della ce-lebrazione della Santa Messa presieduta da Benedetto XVI. Anche Tv2000 darà grande risalto alle giornate trasmettendo,

a partire dalle 20 di sabato 30 aprile, la diretta veglia del Circo Massimo. Alle 23 ritrasmetterà la veglia della Gmg del Giu-bileo del Duemila. Interamente dedicata alla beatificazione di Giovanni Paolo II la mattinata di Tv2000 del 1° maggio con programmi dedicati all’evento che pren-deranno il via alle 8.05. Dalle 8.45, poi, la diretta da piazza San Pietro. Molti saran-no i bresciani che seguiranno “dal vivo” le giornate romane. Tante le parrocchie e i gruppi che, appoggiandosi ad agenzie o compiendo uno sforzo organizzativo in proprio, saranno a Roma per la beatifica-zione di Giovanni Paolo II.

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a Congregazione per il culto divi-no e la disciplina dei sacramenti ha emanato un decreto che rego-la il culto liturgico riservato al

beato Karol Wojtyla. Il testo dispone che nell’arco dell’anno successivo alla beatificazione di Giovanni Paolo II, os-sia fino al 1° maggio 2012, sia possibile celebrare una Santa Messa di ringrazia-mento a Dio in luoghi e giorni signifi-cativi. La responsabilità di stabilire il giorno o i giorni, come anche il luogo o i luoghi del raduno del popolo di Dio, compete al Vescovo diocesano per la sua diocesi. Si dispone che nel calen-dario proprio della diocesi di Roma e delle diocesi della Polonia la celebra-zione del Beato Giovanni Paolo II, pa-pa, sia iscritta il 22 ottobre e celebra-ta ogni anno come memoria. Quanto agli altri calendari propri, la richiesta di iscrizione della memoria facoltativa del Beato Giovanni Paolo II potrà esse-re presentata a questa Congregazione dalle Conferenze dei Vescovi per il loro territorio, dal Vescovo diocesano per la sua diocesi, dal Superiore generale per la sua famiglia religiosa. La scelta del Beato Giovanni Paolo II come ti-tolare di una chiesa prevede l’indulto della Sede Apostolica, eccetto quando la sua celebrazione sia già iscritta nel calendario particolare: in questo caso non è richiesto l’indulto e al Beato, nel-la chiesa in cui è titolare, è riservato il grado di festa.La sera del 7 aprile ha avuto luogo nel-la Basilica Vaticana la traslazione del corpo del Beato papa Innocenzo XI dal vano sotto l’altare della cappella di San Sebastiano, che accoglierà le spoglie di Giovanni Paolo II dopo la beatificazio-ne. Nella cappella di San Sebastiano, dove sono stati ultimati i lavori di re-stauro e rinnovamento degli impianti di illuminazione e amplificazione, il vano sotto l’altare è ora predisposto per ac-cogliere il corpo di Giovanni Paolo II dopo la beatificazione. Il feretro con-tenente le spoglie di Giovanni Paolo II è stato estratto dalla sua tomba, nelle Grotte Vaticane, il 29 aprile, e colloca-to il 1° maggio davanti all’Altare della Confessione della Basilica di San Pie-tro per la venerazione, dopo la sua be-atificazione.

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interattivi. Su una parete del camion c’è il primo abito talare pontificale, quando Karol diventò Giovanni Paolo II. In pic-cole teche, il suo breviario, un diario, il primo passaporto, le ampolle per le funzioni. E il primo paio di sci di Karol giovane studente, poi attore, poi semi-narista. L’idea del museo mobile non ha convinto subito tutti, si è imposta poi col viaggio del camion. C’è sempre il ri-schio, dice padre Adam Boniecki, ami-co di una vita di Karol Wojtyla e chiama-to da lui a fare “Tygodnik Powszechny” (fu la prima testata libera nell’Impero sovietico) di ridurre a un’icona lui che fu un Papa vivo e un uomo straordina-rio. Ma sugli schermi interattivi, e negli ingrandimenti in bianco e nero sulla sua gioventù, l’uomo Wojtyla ha la meglio sulla retorica.

Un camion bianco e giallo lungo 18 metri, una specie di museo mobile che narra la vita di papa Wojtyla percorre in questi giorni la Polonia. È forse l’ini-ziativa più originale, in occasione della sua beatificazione. In pochi metri qua-drati all’interno del camion vengono presentate foto d’epoca e i suoi abiti talari, oggetti personali e sei schermi

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Abbonamento presso il Centro per le Comunicazioni Sociali di via Callegari, 6 - 25121 Brescia.

Per qualsiasi informazione:Ufficio abbonamenti Tel: 030 44 250e-mail: [email protected]: 030 280 93 71

Naturalmente l’augurio di

buona Pasqua non significa

solo: possa tu vivere il giorno

di Pasqua in serenità e gioia.

Questo è certamente importante,

ma nell’ottica della fede non

basta. Ci vuole anche quello

che Paolo scrive ai Colossesi

(e che ascoltiamo nella Messa

di Pasqua): “Voi siete morti e la

vostra vita è nascosta con Cristo

in Dio!” (Col 3,3) C’è dunque un

senso in cui facciamo esperienza

di morte e c’è un senso in cui

facciamo esperienza di una vita

nuova. Quella che muore è la vita

‘mondana’ intendendo con questo

termine una vita che si riduce

alle dimensioni del ‘mondo’ e

non cerca altro se non quello che

il mondo può dare. È mondana

l’esistenza del ‘consumatore’ che

vive solo di ciò che compera e

usa; dell’arrampicatore sociale

che accetta compromessi per

conquistare una poltrona ambita;

del libertino che pensa e vive

il sesso senza alcun impegno

personale; e così via. La Pasqua

uccide questa vita.

L’esistenza nuova che la Pasqua

offre è “nascosta con Cristo in

Dio.” Dio entra dunque nello

spazio della nostra vita e la fa

grande; non è una vita che arriva

solo fino al limite del mondo; sa

guardare anche oltre, sa aprirsi

al mistero di Dio, è fatta anche

di fede e di speranza. Una vita

che sa di essere preceduta e

sostenuta dall’amore di Dio, che

a questo amore è riconoscente

e che cerca di esprimere la

riconoscenza accettando

cordialmente la vita stessa, gli

altri, il mondo. San Francesco

sa apprezzare lo splendore del

fuoco, l’utilità dell’acqua, la

bellezza di un prato fiorito. Ma

vive tutte queste realtà del mondo

aperto a Dio, lodando Dio; la

sua è un’esistenza nuova, non

mondana, che sa vedere il mondo

come creatura di Dio.

Si tratta, dice ancora San Paolo,

di un’esistenza ‘con Cristo’. Il

modello e l’origine di questa

esistenza nuova è Gesù, la sua

esperienza di Dio, il suo modo

di vivere nel mondo. Gesù

appartiene a pieno titolo alla

famiglia umana. Come scrive

Paolo ai Galati, egli “è nato da

donna, nato sotto la legge.”

(Gal 4,4) E tuttavia vive la sua

esistenza davanti al Padre; sa

di essere amato dal Padre, di

ricevere tutto dal Padre; a sua

volta ama il Padre e fa quello che

il Padre gli chiede (Gv 14,31).

Non cerca successi o guadagni

mondani, ma desidera solo

che la sua vita dia gloria a Dio

(Gv 12,27-28). Per questo vive

nel mondo come una persona

libera, che le promesse non

possono irretire e le minacce

non spaventano. “Il mio cibo –

dice – è fare la volontà di colui

che mi ha mandato e portare a

compimento la sua opera.” (Gv

4,34) Con questo stile di vita Gesù

introduce nel mondo la volontà

di amore del Padre e il mondo

diventa capace di esprimere

questo amore che lo supera

immensamente.

La vita cristiana è vita ‘con Cristo’

nel senso che la forma di vita

di Cristo diventa nostra. Stare

con Gesù, ascoltarlo, guardarlo

suscita nei discepoli pensieri e

desideri nuovi. Gesù lava i piedi

ai suoi discepoli; è un esempio

che i discepoli debbono imitare.

Ma è di più perché il gesto di

Gesù, rivolto direttamente a loro,

muove dentro di loro una serie

inedita di sentimenti e di affetti:

al vedere il maestro che amano

e che stimano piegato ai loro

piedi debbono sentirsi per forza

imbarazzati; debbono capire

quanto sia inutile cercare posti

di prestigio; debbono cominciare

a desiderare di essere loro stessi

servi. Fiorisce così la vita ‘con

Cristo’. Dunque vita nuova, vita in

Dio, vita con Cristo; questo dice

e fa la Pasqua. Allora, di cuore,

buona Pasqua a tutti! Possiate

(possiamo!) risorgere con Cristo

per una vita nuova!

È nella debolezza che esprime la sua forza, trasforma i cuo-

ri con la sua mitezza, raccoglie il nord, il sud, l’est e l’ovest

in un abbraccio cosmico (Ef 3, 17-19). La modalità della

croce, cioè il travaglio pasquale che fa scaturire l’inattesa

vita dal nulla mortale, è inscritta negli elementi, nei dina-

mismi viventi, è la forma con cui siamo stati creati. Ogni

frammento ne porta il segno costitutivo, come un’immagi-

ne cui conformarsi (Rm 8, 29). Nel legno della croce scorre

una linfa che dà vita a tutto il cosmo: scorre oltre il dolore e

le memorie, come realtà indipendente ma al tempo stesso in-

dissolubilmente legata ad ogni evento trascorso. Come pace che

perenne si distende nel fondo dell’anima. L’albero della croce, la

croce che fiorisce, è in mezzo al primo giardino ed è nella piazza della

nuova Gerusalemme, dove Dio abita con gli uomini per sempre; all’om-

bra di questo albero di vita andremo a sederci: là lui passerà a tergere le

lacrime di ognuno (Ap 21, 1-6).

Per una Chiesa

capace di servire

Sanpolino.

“Ricuciamo

la Solidarietà”

Roma Express.

Con il soffio caldo

di Cristo nel cuore

Giuseppe De Rita.

Un Paese senza

legge né desideri

Il Brescia trema, ma lo

sguardo è al futuro

Vescovo e fornai

per il riposo festivo

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lacrime d

Alla vigilia di un fine settimana ad “alta densità” giovanile per la Chiesa bresciana è utile chiedersi ancora una volta quale segno potrà lasciare in noi questa esperienza. Ogni anno, infatti, le Palme rappresentano un giorno privilegiato d’incontro, di preghiera comune, di condivisione dove, in qualche modo, tutta la comunità diocesana si protende verso le nuove generazioni e celebra l’inedita forza e l’intensa freschezza di un Vangelo giovane. Certo non è l’unico momento dell’anno. L’attenzione delle parrocchie bresciane verso l’educazione alla fede dei ragazzi è costante e continua. Ne sono prova la cura per l’iniziazione cristiana, la vita degli oratori, i grest e la miriade di attività che non cessano di impegnare

sacerdoti, catechisti ed educatori. Ma in questa domenica dell’anno, dove la lungimiranza di papa Giovanni Paolo II ha collocato la celebrazione ordinaria della Giornata mondiale della gioventù, ha un sapore diverso. È con le Palme che la nostra diocesi diventa protagonista del gusto di camminare con i suoi ragazzi per dire loro la gioia e la bellezza della fede in Gesù.All’occhio dei più distratti, ma anche dei maliziosi, potrebbe sembrare un atto “muscolare” della Chiesa per dire che c’è, ma non è così. È vero, oltre duemila ragazzi invaderanno venerdì sera la stazione ferroviaria per andare a Roma dove, ormai attesi e trattati da vip (parcheggiano addirittura i pullman in Piazza S. Pietro), porteranno l’entusiasmo dei loro 13 anni in mondovisione durante la Messa col Papa, e con striscioni e cartelli segnaleranno a mamme apprensive e incollate ai teleschermi la loro presenza accanto a Benedetto XVI. Altresì, sabato sera, oltre cinquemila

giovani segnaleranno ai bresciani che esistono ancora ragazzi che sanno pregare e ascoltare la parola di un Vescovo. Questo sarà visibile a tutti, ma ciò che più conta forse, come già diceva qualcuno di famoso, l’essenziale, che è invisibile agli occhi, resterà nascosto ai più e si giocherà nel cuore di ciascuno. Il giorno giovane della nostra Chiesa è, infatti, un’occasione che parte dal cuore e arriva al cuore della comunità. Nel cuore, anzitutto, del nostro vescovo Luciano che vive sempre con entusiasmo questi istanti. Ce ne siamo accorti fin dal suo ingresso a Brescia davanti ai giovani di piazza Duomo, ma anche ogni volta che ha incontrato i bambini nell’Agorà a settembre o nelle parrocchie. Quando parla del Vangelo il vescovo Monari trasmette la convinzione che sta per dire qualcosa di decisivo per la felicità e la vita di chi ascolta, ma quando ne parla ai ragazzi e ai giovani i suoi occhi si illuminano della luce dell’amore di un padre

per i suoi figli più amati. Il cuore è, poi, quello dei preadolescenti che saranno a Roma Express. Irrequieti, distratti, alla prima avventura fuori casa, desiderosi di divertirsi e fare amicizie. Forse non godranno dell’arte e dei monumenti, ma, per esperienza, sappiamo che quando arriva il Papa scatta anche in loro qualcosa di unico.“Ho visto il Papa... Mi è passato vicino!”. Sarà l’emozione, ma anche in queste parole c’è la gioia di sentirsi parte della Chiesa. Un piccolo segnale, che sarà magari decisivo se raccolto poi nella cura della propria parrocchia. Infine il cuore degli adulti, genitori, educatori e sacerdoti. I più attenti, in questi momenti, sapranno intravedere luci, forse chiamate. È sempre capitato, alle Palme come alle Gmg. Capiterà anche a Madrid quest’estate. I cristiani di domani si generano solo nella gioia, quella che adulti significativi sanno istillare in esperienze quotidiane traendo dal vissuto le energie per scelte evangeliche. Anche quest’anno sarà così.

“Ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli in-fatti è la nostra pace” (Ef 2,13). È qui paradossalmente definito un mistero: la croce di Cristo, pietra angolare del cosmo-tempio, è strumento della pace. Pace garantita da

una croce: come è possibile? Garantisce l’unità tra i “due” che abitano in noi, tra me e l’altro, tra un popolo e l’altro,

tra l’umanità e Dio stesso. La sua carne è il luogo concreto nel quale è possibile la conciliazione. Lui è il punto nel quale

si annulla la legge, è speranza di fronte all’inevitabile condanna

prevista per il cuore dell’uomo, che non sta alla prescrizione. Vive-

re non sarà per merito della legge, ma per la forza di attrazione della

croce: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Giovanni

12, 32). La samaritana, l’adultera, Zaccheo, Levi, Nicodemo guardano a

colui che tende loro la mano; sono ancora peccatori ma potentemente

attratti dalla forza di un amore invincibile: “Egli infatti è la nostra pace”.

Alla ricerca della sicurezza

I Santi e i Beati camuni sulle vetratedella chiesa

Il consiglio pastoralesull’annunciodel Vangelo

L’umanità di fronte alle sfide del clima

Il Bresciain casadel Genoa

Un fronte comune contro gli infortuni

ctra

nel si ann

previstre non sa

croce: “Io, q12, 32). La sacolui che tendattratti dalla fo

Ci risiamo. È quasi tempo di nuo-

ve elezioni. In questo caso am-

ministrative, per 29 tra i Comuni

bresciani. Entro il 16 aprile alle

ore 12 dovranno essere presenta-

te le liste con i nomi dei candidati

sindaci e consiglieri comunali.

Sembra riguardi poche migliaia

di cittadini, ma non è mai vero. In

Italia ogni tornata elettorale, or-

mai, ha il sapore dell’ultimatum

sulla politica nazionale del gover-

no di turno. Massima attenzione,

quindi, da parte degli osservatori.

Il rischio reale è che l’impatto

nazionale divenga talmente ec-

cessivo da fagocitare ciò che più

vale quando si tratta di eleggere

sindaci e consigli comunali, ov-

vero un dibattito serio in loco sui

problemi e sul futuro della vita

delle comunità in cui viviamo.

Mi permetto, allora, qualche sot-

tolineatura, che nasce a margine

di un intervento che il prof. Luca

Diotallevi ha tenuto nei giorni

scorsi ai membri del Consiglio

presbiterale della diocesi di

Brescia sul rapporto Chiesa e

politica, a cui aggiungo qualche

applicazione per il presente. La

domanda da cui mi muovo è:

come i cattolici bresciani posso-

no dare un contributo in questa

stagione preelettorale? Con quale

ruolo? Escludo dal discorso colo-

ro che già sono scesi in campo in

una parte politica. Essi, natural-

mente, giocheranno una partita

da protagonisti. Penso agli altri,

i laici delle nostre parrocchie:

cosa faranno o saranno solo

spettatori passivi in attesa di vo-

tare il 15 o 16 maggio? Ricordava

Diotallevi: “È urgente riprendere

consapevolezza, da parte di ogni

cattolico, delle grandi opportuni-

tà ermeneutiche che l’esperienza

sociale e l’insegnamento della

Chiesa ci comunicano anche a

proposito della politica. Nella

recente Settimana sociale di

Reggio Calabria si è parlato di

un’agenda di speranza per il

paese”. Applicazione: perché i

cattolici dei nostri paesi chiamati

al voto non si fanno promotori di

momenti e dibattiti in cui porre

ogni schieramento davanti alla

necessità di dare quei segni e quei

progetti di speranza da realizzare

nella futura amministrazione del

loro Comune, magari traducendo

in bresciano l’agenda di Reggio

Calabria? Ciò sarà possibile se i

laici riprenderanno forza per una

presenza che sia fermento ovun-

que vi sia pensiero e capacità di

progettare perseguendo il bene

comune. Ai pastori varrà la pena

non chiedere opinioni politiche,

ma di illuminare il percorso per

mettere in evidenza chi cerca il

bene possibile della comunità e

manifesta quelle competenze e

quella creatività necessaria per

affrontare bisogni e sfide future.

“Un passaggio culturale cruciale

sarà - diceva ancora Diotalle-

vi - quello di desacralizzare e

deideologizzare la coppia de-

stra/sinistra”. Qualcuno l’ha già

capito. Crescono, infatti, anche

nel nostro territorio proposte

politiche che mirano a rappre-

sentare attraverso liste civiche

le esigenze più concrete del

territorio. Il bello sarà provare a

smascherarne i luoghi comuni e i

tratti di ambiguità. Ciò vale anche

per la Lega, naturalmente, che,

in queste amministrative, pare

tenda ad andare sempre più da

sola. “Di straordinaria attualità,

sotto tanti profili, - concludeva

il professore - resta in questo

momento la lezione di Luigi

Sturzo e di Alcide De Gasperi”.

Da loro impariamo a verificare

se non è vero che non è più in

ragione di un’ideologia che si

produce un programma, ma è

un programma (se adeguato) a

poter produrre una certa alleanza

politica. Nella ricerca, infatti, di

buone mediazioni forse potremo

costruire, anche in campo locale,

una buona azione politica e ci

salveremo dagli eccessi e dalle

posizioni estremiste e radicali

che non hanno mai prodotto

nulla di buono. Almeno tentiamo.

“Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua

con voi” (Lc 22,15). È stato al termine, o all’interno, dei

segmenti più incisivi del dolore, che mi sono ritrovata

ad offrire, come ultima-unica risposta rimasta per dare

senso alla vita. Spreco, lode, schiacciamento del cuore

come uva, ciotola di lacrime preziosamente conservate

per una speranza di vita oltre l’evidente, per una crescita

del dopo, invisibile nell’ora. Riuscire ad offrire il dolore è

sempre stato un dono ricevuto, in quanto vetta alta da toc-

care per chi, come me, non è abituato alla scarsità di ossigeno

dei santi arrampicatori d’alta quota. Dono nato dalle gocce di

vita dello stupore, poiché sempre le piccole creature hanno spin-

to alla partecipazione ad una vita cosmica più ampia, un evolversi

lento o rapidissimo verso la realizzazione dell’universo, dove ogni più

piccolo atomo di offerta e ogni minimo gesto di bene va a vantaggio

di tutti, moto che allarga le sue onde oltre le possibilità dello sguardo.

Il vento elettorale soffia anche su Brescia La Via Crucissegno di devozione

popolare Il Progetto formativo e la Regola di vitadel Seminario

La dignità umana va oltre il cervello Quindici milioni per la competitivitàdell’azienda

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semcare pdei sanvita delloto alla partelento o rapidispiccolo atomodi tutti, moto c

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QUEST'ANNO NON AVERE DUBBI SU COSA REGALARE.... VIENI A TROVARCI....

PUNTO CASA

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