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AUTRICI: FRANCESCA SARTORI MARGHERITA RAULE (CLASSE 3B SCIENZE UMANE) VERONICA PASSARETTI (CLASSE 3A SCIENZE UMANE) Giuseppe Ungaretti La Memoria nei versi Colloqui Fiorentini - 2016

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AUTRICI:

FRANCESCA SARTORI – MARGHERITA RAULE

(CLASSE 3B SCIENZE UMANE)

VERONICA PASSARETTI

(CLASSE 3A SCIENZE UMANE)

Giuseppe Ungaretti

La Memoria nei versi

Colloqui Fiorentini - 2016

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È la Memoria il filo conduttore della poesia di Giuseppe Ungaretti. Quella memoria autobiografica

che è il sale stesso della vita di ognuno di noi, quell’immane bagaglio di esperienze vissute e

apprese che ci rende così diversi l’uno dall’altro. Quell’oscuro, ma meraviglioso, insieme di

processi che fa di ogni essere umano un’esistenza a sé stante, unica e irripetibile. Dice Ungaretti

stesso della sua opera:

“Il primo carattere della mia attività è autobiografico. […] Le mie poesie sono ciò che

saranno tutte le mie poesie che verranno dopo, cioè poesie che hanno un fondamento in uno

stato psicologico strettamente dipendente dalla mia biografia; non conosco sognare poetico

che non sia fondato sulla mia esperienza diretta”1

La Memoria della propria nascita e dei trascorsi d’infanzia in Egitto, degli anni frenetici e

meravigliosi, formativi e creativi, vissuti nella Parigi bohemienne dei grandi intellettuali e artisti

dell’inizio del XX secolo. La Memoria dei grandi dolori della vita, ma anche delle speranze e dei

sogni. La Memoria della grande letteratura italiana, che Ungaretti conosceva profondamente e dalla

quale traeva linfa compositiva.

Quella poesia dei nostri padri così intimamente studiata fino a poterla destrutturare per poi poterla

ricomporre in modo sublime, come nessun altro prima e dopo di lui:

“La memoria a me pareva un’ancora di salvezza: io rileggevo umilmente i poeti, i poeti che

cantano. Non cercavo il verso di Jacopone, o quello di Dante, o quello del Petrarca, o

quello di Guittone, o quello del Tasso, o quello del Cavalcanti, o quello del Leopardi:

cercavo il loro canto”2

Versi che, privati di ogni manierismo barocco “per tornare a meravigliarsi della sua originale

purezza”3, trasportano sentimenti in modo violento, quasi primordiale, e catapultano l’incauto

lettore direttamente nell’anima del poeta. Ma, la Memoria è anche quella del terrore e dell’anelito

alla vita vissuti nelle trincee della Grande Guerra. È qui che prende vita l’esigenza di alleggerire i

versi di ogni struttura superflua, quella necessità così tragica nei giorni passati nelle trincee, sotto il

fuoco nemico, quando, avvertendo la crudeltà della morte, esalta il proprio disperato attaccamento

1 Giuseppe Ungaretti, Vita di un uomo, Mondadori, I Meridiani, Milano 2005, p.511

2 G. Ungaretti, Ragioni di una poesia, in Vita di un uomo – Saggi e Interventi, Mondadori, I Meridiani, Milano 1974, p. 751 3 G. Ungaretti, Ragioni di una poesia, in Vita di un uomo – Saggi e Interventi, Mondadori, I Meridiani, Milano 1974

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alla vita e all’amore. È con questo stato d’animo che i sentimenti vengono tracciati, velocemente e

disperatamente, su pezzi di carta trovati chissà dove e consegnati agli amici più intimi. La Memoria

di Giuseppe Ungaretti che si fa poesia per consegnarsi all’immortalità.

A partire dagli anni ’20, e per tutto il periodo fascista, in Italia si affermò una nuova poesia che

rappresentò il passaggio definitivo dalla tradizione letteraria precedente alla poesia contemporanea.

Le caratteristiche di questa nuova poesia si possono riassumere nella brevità del testo poetico, in cui

le poche parole utilizzate vengono scelte con estrema cura per i loro effetti di suono e per la loro

capacità di evocare significati altri, oltre a quello meramente letterale, e l’utilizzo di analogie tra

immagini diversissime e distanti.

Abbandonando la ricercatezza che, fino a poco tempo prima, era stata la caratteristica dell’estetismo

decadente (mirabilmente rappresentato da D’Annunzio), questi nuovi poeti rifiutano ogni

ornamento e incentrano tutto il loro interesse sul testo.

I nuovi poeti ermetici scelsero la strada, più difficile, della poesia “pura” che non descrive, non

racconta e non spiega nulla ma rappresenta con poche e scarne parole la difficoltà di esistere.

Il termine "ermetismo" è così destinato a divenire sinonimo di oscurità e di indecifrabilità, spesso

volute e accentuate. La parola rinvia anche a quella tradizione ermetica della civiltà ellenistica, nella

quale si favoleggia di libri magici in cui si rivelavano segreti religiosi capaci di rendere l'uomo

partecipe della natura divina. In questo senso l'Ermetismo diventa sinonimo di conoscenza

esoterica, per pochi iniziati, relativa a una sfera di valori religiosi e assoluti.

A Firenze l’Ermetismo trova il suo terreno ideale. È qui che il “Caffè delle Giubbe Rosse” diventa

un luogo di incontro e di stimolante discussione divenendo presto famoso tra gli intellettuali.

La consacrazione del nuovo movimento avviene in due momenti precisi:

Nel 1936 Francesco Flora, un critico accademico aperto alle espressioni della letteratura

contemporanea, attento in particolare alla musicalità dell'espressione, pubblica il libro “La poesia

ermetica” che si ferma, tuttavia, a un ambito di considerazioni ancora generiche e superficiali.

Nel Settembre dello stesso anno, sulla rivista “Il Frontespizio”, il critico letterario Car lo Bo

pubblica un articolo dirompente dal titolo “Letteratura come vita”, che getta i fondamenti teorici

del nuovo movimento. In esso, Bo rifiuta categoricamente ogni idea di letteratura come pratica

consuetudinaria o esercizio professionale, ma la descrive come “la strada più completa per la

conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza”4

Aggiungerà, poco più tardi, Giuseppe Ungaretti:

4 C. Bo, rivista letteraria Il Frontespizio, Firenze 1938

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“Se il carattere dell’800 era stato quello di stabilire legami a furia di rotaie e di ponti […]

il poeta di oggi cercherà di mettere a contatto immagini lontane, senza fili”5

Per fare questo, ricorre anche alla figura retorica dell'analogia, che non è stata certo inventata dai

poeti ermetici, ma da loro è stata elevata a procedimento stilistico esemplare. L'analogia si può

considerare un paragone, una similitudine in cui è stato abolito il “come” che introduce il rapporto

tra le cose paragonate.

Carlo Bo rivendica, per i nuovi ermetici, il diritto alla letteratura per la vita, un inno alla professione

dei propri sentimenti senza lacci costrittivi in piena, totale, libertà di espressione:

“A questo punto è chiaro come non possa esistere […] un’opposizione fra letteratura e vita.

Per noi sono tutt’e due, e in ugual misura, strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per

raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad

attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi.”6

La nuova forma espressiva viene descritta quasi “violenta”, non meditata, non costruita, ma figlia di

un impeto potente che nasce direttamente dal cuore del poeta. Enfatizza, ancora, Bo:

“È una letteratura d’entusiasmo: e cioè non vive al di fuori dell’animo. È quindi fondata

soprattutto sul “testo”, su un’eternità di soluzione divisa tra la parola e l’inespresso, sul

discorso e il silenzio, su un dialogo di termini opposti”7

Ed ecco, è in quest’ultima affermazione che troviamo tutta l’essenza di quell’Ungaretti che, di lì a

poco, diventerà, forse, il massimo esponente dell’Ermetismo. L’importanza del testo sopra ogni

tentativo di raffinatezza, il testo spogliato di tutto il superfluo per farsi verità. Il risultato è una

poesia dai significati talvolta oscuri, spesso difficile da comprendere, in cui il poeta vuole esprimere

il profondo mistero dell’esistenza, la realtà nascosta dietro le apparenze, la solitudine e la sofferenza

che accompagnano l’esistenza umana.

In Ungaretti la scarnificazione del testo diviene una necessità interiore quando, nell’atrocità della

trincea, si troverà nella condizione di far esplodere i propri stati d’animo senza porre tempo in

mezzo, facendoli nascere senza poterli abbellire. Quei versi saranno una profonda meditazione sulla

5 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano 1974 6 C.Bo, rivista letteraria Il Frontespizio, Firenze 1938 7 C.Bo, rivista letteraria Il Frontespizio, Firenze 1938

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caducità della condizione umana, sulla sua miserevolezza davanti alla Morte, insieme a un inno alla

vita potente e straziante nella sua drammaticità:

“La guerra improvvisamente mi rivelava il linguaggio. Cioè io dovevo dire in fretta perché

il tempo poteva mancare, e nel modo più tragico […] in fretta dire quello che sentivo e

quindi se dovevo dirlo in fretta lo dovevo dire con poche parole […] che avessero avuto

un’intensità straordinaria di significato. E così si è trovato il mio linguaggio: poche parole

piene di significato che dessero la mia situazione di quel tempo”8

La poetica di Ungaretti spazierà dall’asciuttezza degli scritti dei giorni della guerra per farsi più

mite, più dolce, nei periodi successivi rimanendo, però, sempre fedele a quell’amore per la

Letteratura italiana che lo ha sempre ispirato:

“Non era l’endecasillabo del tale, non il novenario, non il settenario del talaltro che

cercavo: era l’endecasillabo, era il novenario, era il settenario, era il canto italiano, era il

canto della lingua italiana che cercavo nella sua costanza attraverso i secoli [...]: era il

battito del mio cuore che volevo sentire in armonia con il battito del cuore dei miei

maggiori di una terra disperatamente amata.”9

Il senso di mistero celato nei versi è straordinariamente sviluppato nel componimento Il Porto

sepolto, composto nel 1916, che assume una particolare importanza per intendere l’idea di poesia

che ne è alla base. Così ha scritto Ungaretti:

“Mi parlavano di un porto, di un porto sommerso, che doveva precedere l'epoca tolemaica,

provando che Alessandria era un porto già prima di Alessandro, che già prima di

Alessandro era una città. Non se ne sa nulla. Quella mia città si consuma e s'annienta

d'attimo in attimo. Come faremo a sapere delle sue origini se non persiste più nulla

nemmeno di quanto è successo un attimo fa? Non se ne sa nulla, non ne rimane altro segno

che quel porto custodito in fondo al mare, unico documento tramandatoci d'ogni era

d'Alessandria. Il titolo del primo libro deriva da quel porto. […] Il porto sepolto è ciò che di

segreto rimane in noi indecifrabile"10

8 Ungaretti commenta Ungaretti, La Fiera letteraria, 15-9-1963, cit: in Giorgio Luti, Giuseppe Ungaretti, Mursia, 1993,

pag. 112 9 Riflessioni sulla letteratura, in «Gazzetta del Popolo», 11 maggio 1935, ora in ‘Saggi e interventi’ , p. 276 10

Ungaretti, Il Porto sepolto (raccolta), in: Vita di un uomo, Mondadori, 1992, pag.519-20

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Il “porto sepolto” è il segreto stesso della poesia, nascosto nel fondo di un «abisso» nel quale deve

immergersi il poeta:

Il Porto sepolto

Vi arriva il poeta

e poi torna alla luce con i suoi canti

e li disperde

Di questa poesia

mi resta

quel nulla

d’inesauribile segreto

È come una dichiarazione di poetica. La poesia è un porto sepolto, una meta alla quale il poeta

perviene a fatica, scavando in se stesso, per ritornare poi con il tesoro dei suoi canti che donerà agli

altri. Anche al poeta, di questa impresa di scavo, resta qualcosa: il senso di un “inesauribile

segreto” (v.7) che è nulla ed è tutto. Vi si fondono, così, due temi propri di Ungaretti: la poesia

come conquista e scavo interiore e la poesia come consolazione suprema, una di quelle illusioni che

permettono di farsi coraggio, di continuare la fatica della vita.

La magia dei versi ci riporta al poeta al quale, dopo averli dispersi fra gli uomini, rimane il senso

segreto di un’inesauribile ricchezza, un nulla che è pure tesoro. Nel 1916, sul fronte del Carso, il

soldato semplice Giuseppe Ungaretti scrive in versi liberi la lirica I fiumi inizialmente inserita nella

raccolta Il porto sepolto e, dal 1942, integrata nella raccolta Allegria di Naufragi.

Rileggiamo insieme ciò che Ungaretti, ricordando il momento in cui compose la lirica, scrisse:

“Questa è una poesia che tutti conoscono ormai, è la più celebre delle mie poesie: è la

poesia dove so finalmente in un modo preciso che sono un lucchese, e che sono anche un

uomo sorto ai limiti del deserto e lungo il Nilo. E so anche che se non ci fosse stata Parigi,

non avrei avuto parola; e so anche che se non ci fosse stato l’Isonzo non avrei avuto parola

originale”11

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G. Ungaretti, Saggi e Scritti vari 1943-1970, Mondadori ‘I Meridiani’, Milano 1974

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I fiumi

Mi tengo a quest’albero mutilato

abbandonato in questa dolina

che ha il languore

di un circo

prima o dopo lo spettacolo

e guardo

il passaggio quieto

delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso

in un’urna d’acqua

e come una reliquia

ho riposato

L’Isonzo scorrendo

mi levigava

come un suo sasso

Ho tirato su

le mie quattro ossa

e me ne sono andato

come un acrobata

sull’acqua

Mi sono accoccolato

vicino ai miei panni

sudici di guerra

e come un beduino

mi sono chinato a ricevere

il sole

Questo è l’Isonzo

e qui meglio

mi sono riconosciuto

una docile fibra

dell’universo

Il mio supplizio

è quando

non mi credo

in armonia

Ma quelle occulte

mani

che m’intridono

mi regalano

la rara

felicità

Ho ripassato

le epoche

della mia vita

Questi sono

i miei fiumi

Questo è il Serchio

al quale hanno attinto

duemil’anni forse

di gente mia campagnola

e mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo

che mi ha visto

nascere e crescere

e ardere d’inconsapevolezza

nelle distese pianure

Questa è la Senna

e in quel suo torbido

mi sono rimescolato

e mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi

contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia

che in ognuno

mi traspare

ora ch’è notte

che la mia vita mi pare

una corolla

di tenebre

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È una carta d’identità dell’anima, è la poesia della consapevolezza che deriva dal recupero del

proprio passato attraverso la memoria. Immergersi nella corrente primordiale dell’Isonzo, che

personifica la guerra di trincea cioè l’esperienza più dolorosa, equivale a ricordare tutti gli altri

fiumi che hanno segnato il vissuto ricomponendone il tessuto lacerato come fossero affluenti del

grande fiume della vita.

Torna, così, potente il grande tema della memoria. Ungaretti fonde, per analogia, l’immagine del

fiume Isonzo con quelle dei fiumi che hanno scandito la sua esistenza e che sono simbolo di quattro

patrie e di quattro fasi della sua vita:

“Vi sono enumerate le quattro fonti che in me mescolavano le loro acque, i quattro fiumi il

cui moto dettò i canti che allora scrissi”12

L’Isonzo è il fiume che attraversa il Carso, la zona in cui Ungaretti prestò servizio militare durante

la prima guerra mondiale. È la parte più commovente e introspettiva della lirica, i versi nei quali il

poeta si identifica come un piccolo pezzo dell’universo e trova la consapevolezza di sé, dei suoi

rapporti con la natura e della condizione umana che sta vivendo.

Il Serchio è il fiume che scorre nella Lucchesia, dove ebbe origine la sua famiglia e rappresenta la

riscoperta delle proprie origini.

Il Nilo è il fiume dell’Egitto, dove Ungaretti nacque e trascorse la sua fanciullezza ed evoca la

stagione spensierata dell’infanzia.

La Senna è il fiume che attraversa Parigi, la città dell’inquieta giovinezza del poeta, della

formazione artistica e intellettuale, con la scoperta della propria vocazione letteraria, dove divenne

uomo e raggiunse la consapevolezza di se stesso.

Il tema portante del componimento è l’acqua, simbolo insieme dello scorrere del tempo e della vita

che dalle origini (rappresentate dal Serchio), giunge alla chiarezza del presente (richiamata

dall’Isonzo), alla maturazione dell’uomo che la guerra ha dolorosamente plasmato. Sospesi tra

questi due momenti si posizionano il Nilo e la Senna, ugualmente emblematici.

L’immersione nell’acqua assume, così, un valore rituale che rinvia idealmente alla cerimonia del

battesimo. La situazione può essere avvicinata, per certi aspetti, alla stesura de “Il porto sepolto”, il

cui primo verso (Vi arriva il poeta…) allude ad una sorta di immersione rituale e purificatrice nelle

12

G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Mondadori ‘I Meridiani’, Milano 2005, pag. 517

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acque primigenie, di tipo rituale ed iniziatico, cui segue una riemersione alla vita in cui la poesia,

strappata alla profondità del mare, viene sparsa nell’atmosfera luminosa della terra.

Il poeta paragona l’acqua che lo avvolge ad un’urna funeraria, con un’analogia di tipo religioso il

suo corpo è paragonato ad una reliquia come per sottolineare la sacralità della sensazione da lui

provata.

I fiumi ricostruiscono il suo passato. Lo aiutano a scoprire l'armonia con il mondo e con se stesso al

punto che la rievocazione termina con il ritorno al presente e causa nel poeta una malinconica

nostalgia di fronte alla precarietà della vita e alle difficoltà della guerra, in cui egli si sente fragile

come una “corolla di tenebre” (vv. 68-69).

Nella lirica, il poeta si muove attraverso diversi nuclei tematici:

- la guerra raffigurata attraverso l’ ”albero mutilato” (v. 1), che personifica il paesaggio desolato

e squarciato dalle bombe nel quale il poeta riesce, comunque, ad estraniarsi e a ritrovare pace e

serenità osservando il sereno paesaggio notturno;

- l’io lirico, ricordato attraverso il contatto rigenerante con le acque dell’Isonzo, che lo aiuta a

sentirsi nuovamente parte integrante dell’universo e in grado di godere della vita;

- il senso di precarietà che deriva dal non sentirsi più in armonia con il creato (“Il mio supplizio è

quando non mi credo in armonia” vv. 32-35);

- la rara felicità (vv. 40-41), contrapposta alla violenza della guerra, dà il via alla sua regressione

nella memoria;

- la precarietà della vita evocata dalla fragile “corolla di tenebre” (vv. 68-69).

Al termine di un travagliato percorso spirituale che lo porterà, nel 1928, alla conversione, Ungaretti

si accinge alla stesura della raccolta Il sentimento del tempo, che comprende tutte le poesie scritte

dal 1919 in poi e pubblicata nel 1933.

Il poeta vi infonde la percezione dell’ istante sospeso tra il passato e il presente, proiettato verso

l’eterno, ma sostituisce alla poetica dell’attimo una diversa sensazione del trascorrere del tempo.

La storia umana è qui percepita come espressione della fragilità al cospetto dell’eterno che si

consuma inevitabilmente per sublimarsi nella morte.

Nel corso della stesura, Ungaretti condivide pienamente le novità portate dall’Ermetismo esaltando

il verso libero, ma eleggendo anche a propri maestri Petrarca, i poeti barocchi, Leopardi e torna

all’uso dell’amato endecasillabo:

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“L’endecasillabo tornava a costituirsi in modo normale: cioè le parole venivano a mettersi

non una sotto l’altra o separate da isole di silenzi, ma una accanto all’altra”13

Lo scopo è quello di distinguersi dagli altri poeti dando poca importanza alla lunghezza della poesia

preferendo, invece, le emozioni che suscitano nel lettore i brevi versi scritti. Ungaretti cambia

radicalmente stile e dopo il panorama desertico o carsico de “Il porto sepolto”, delinea ora un

paesaggio di monti, alberi, boschi e marine, animato da ninfe e fauni, lo stesso che avevano cantato

i grandi poeti italiani e latini. Il suo linguaggio è scarno ed essenziale eppure lirico, più prezioso se

paragonato ai suoi precedenti scritti, gli spazi tra una strofa e l’altra vengono accuratamente dosati,

donando al componimento un ritmo simile al sofferto singhiozzo del pianto perché si vuole che le

poesie, soprattutto quelle scritte durante la prima guerra mondiale, trasmettano un senso di dolore. Il

titolo diviene parte stessa del componimento perché in esso il poeta racchiude tutto il significato

della poesia e, a volte, anche la sua morale.

Ungaretti ritiene il linguaggio poetico capace di recuperare il potere evocativo delle parole:

“Il linguaggio è sacro, se è legato al mistero della nostra origine, e all’origine del mondo;

se sentiamo che in noi costituisce la nostra responsabilità dando definizione universale e

sociale e soprannaturale alla nostra persona; se ci accorgiamo del Bene o del Male,

incalcolabili, che derivano dalla parola”14

La parola diviene, così, un mezzo potente per cogliere l’essenza profonda delle cose mediante lo

scavo interiore che porta ad improvvise “illuminazioni”.

E queste “illuminazioni” rimandano inevitabilmente all’estate:

“Chi segua le poesie del Sentimento vedrà che quasi tutte le poesie della prima parte

descrivono paesaggi d’estate […] oltre misura violenti, dove l’aria è pura, e hanno il

carattere, di cui m’ero appropriato, del barocco, perché l’estate è la stagione del barocco.

Il barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una

cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova integrità, il vero. L’estate fa come il

barocco: sbriciola e ricostituisce”15

13 Ungaretti commenta Ungaretti, La Fiera letteraria, 15-9-1963, pag. 827 14 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Saggi e interventi, Mondadori, Milano, p. 471 15

G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Tutte le poesie, Mondadori, Milano, 1969, pag. 530

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Di Luglio

Quando su ci si butta lei,

si fa d'un triste colore di rosa

il bel fogliame.

Strugge forre, beve fiumi,

macina scogli, splende,

è furia che s'ostina, è l'implacabile,

sparge spazio, acceca mete,

è l'estate e nei secoli

con i suoi occhi calcinanti

va della terra spogliando lo scheletro.

Giuseppe Ungaretti scrive Di Luglio nel 1931, al termine di un periodo difficile per la crisi

spirituale che lo aveva travagliato e il suo trasferimento a Roma avvenuto tra evidenti difficoltà

economiche. L’ambiente che lo circonda gioca un ruolo fondamentale nel suo animo che,

inevitabilmente, si riflette nello stile. Per sua stessa ammissione, il trasferimento a Roma gli infonde

un linguaggio barocco non sperimentato precedentemente e tutto proteso ad un effetto di durezza ed

immediatezza del testo.

È un barocco reinterpretato da Ungaretti, dove la natura viene vista come qualcosa di mitico e

animato, distante anni luce dalla prosa ridondante, ad esempio, di D’Annunzio (al quale viene,

talvolta, accostato) e dove:

…“tanto la sensualità dannunziana era ricca, prepotente e straripante quanto quella di un

poeta come Ungaretti appare estenuata, ridotta al suo diagramma essenziale, scavata alla

radice, incline ad esprimersi nei suoi strati più sottili e impalpabili”16

Ecco riaffiorare, nella poesia, la memoria autobiografica del poeta, il ricordo della sua fanciullezza

trascorsa in Egitto dove l’estate si presenta non con i colori sgargianti e il rigoglio della natura ma,

come furia distruttrice, diviene metafora del tempo che dissolve ogni cosa e, per antonomasia, della

storia intesa come continua metamorfosi.

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S. Solmi, “Primo e secondo tempo di Ungaretti” in “Letteratura italiana 900”, Vol. IV, ed. Marzorati, Milano, 1982

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L’incipit è spiazzante. L’estate non viene subito nominata ma vengono descritti i suoi effetti

devastanti sul mondo. È “Lei” (v. 1) che rende tristi anche le foglie colorate, che sgretola le rocce

ed evapora le acque. L’estate è furia che si ostina, “è l’implacabile” (v. 6) che, trascendendo la

dimensione spaziale, impedisce di distinguere le linee di divisione e di contorno fino a dissolvere

interamente l’immagine del reale. Il pensiero del poeta ricorre all’immagine del deserto, da lui

sicuramente conosciuto e in cui la luce abbagliante dilata l’orizzonte e impedisce di vedere gli spazi

nei loro giusti confini.

La tensione creata nei primi versi si stempera, finalmente, con l’indicazione del soggetto, il ritmo si

allenta e la vetta emotiva raggiunta nel verso “sparge spazio, acceca mete” (v. 7) si placa e

subentra la considerazione degli effetti che quest’azione ha prodotto nel suo cammino secolare. Il

senso della Morte conclude la poesia. L’ormai lento fluire del discorso devia verso una fissità

macabra (quasi espressionistica) che parte dagli “occhi calcinanti” (v. 9) dell’Estate-Morte per

terminare nello “scheletro” (v. 10) dissepolto e scarnificato della natura. Visti in chiave allegorica,

questi versi, secondo i critici Getto e Portinari, potrebbero rappresentare “una stagione della vita

umana, la maturità che, esplodendo, già si spoglia e consuma” per dissolversi nell’eterno.

Analizzando la poesia, il primo verso, che si traduce nell’uso di un verbo “forte” associato a

particelle monosillabiche (“…su ci si butta lei”, v.1), preceduto da un ineluttabile “Quando…” (v.

1), introduce un ritmo aggressivo e spezzato come se, prima dell’arrivo della furia disgregatrice,

tutto fosse incorruttibile. Si apprezza il periodare breve, basato su sequenze rapidissime, sull’unione

stringente fra un verbo d’azione e il suo complemento oggetto. La continua tensione è ottenuta

ponendo il soggetto, “è l’estate”, soltanto all’ottavo verso e ad esso segue l’insieme della

descrizione degli effetti dell’arsura estiva resi attraverso un linguaggio incalzante.

I versi “Strugge forre (v.4) […] acceca mete” (v.7), accentuano ciò che il poeta intende comunicare

usando un linguaggio impetuoso e devastante per voler trasferire al lettore gli effetti dirompenti che

l’estate provoca sulla natura. Dopo i primi quattro versi, la furia dell’estate sembra come dissolversi

e inizia il riferimento alle realtà naturali, le forre, i fiumi, gli scogli e all’intera dimensione spaziale

(spazio e mete).

Come anticipato, lo stile di Ungaretti sembra avvicinarsi alla poesia dannunziana, ma alla vitalità e

alla sensualità di questa fa da contraltare il prevalere di un destino, umano e spirituale, di

dissoluzione e morte. Una costante perplessità esistenziale ed una incertezza di fronte al mistero

delle cose.

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Tra gli Autori finora studiati nessuno come Giuseppe Ungaretti, uno dei più originali e significativi

poeti del Novecento italiano, ha suscitato in noi emozioni così forti.

Per Ungaretti soltanto il ricordo può e deve rimanere nel cuore di ogni uomo. È la Memoria che fa

sopravvivere il ricordo e ricordare significa comportarsi in modo tale da impedire altri mali e per

capire e ricordare è necessario rimanere vigili.

Citando, ancora una volta, il poeta:

“[…] A furia di memoria si torna, o ci si può illudere di tornare, innocenti. L’uomo che

tenta di arretrarsi sino al punto dove, per memoria, la memoria si abolisce e l’oblio è

illuminante: estasi, suprema conoscenza, uomo vero uomo – è dono di memoria. E il

miracolo è parola: per essa il poeta si può arretrare nel tempo sino dove lo spirito umano

risiedeva nella sua unità e nella sua verità, non ancora caduto in frantumi, preda del Male,

esule per vanità, sbriciolato nelle catene e nel tormento delle infinite fattezze materiali del

tempo […]”17

Nel corso della nostra ricerca, abbiamo trovato questo riferimento del critico letterario Leone

Piccioni, con il quale non possiamo non concordare e con il quale ci sembra significativo

concludere:

“M’accorgo che, forse solo, tra quante persone io abbia fin qui conosciuto […] Ungaretti

possedeva insieme uno spirito di profonda religiosità, ed un’intera, ampia, aperta libertà”18

17 G. Ungaretti, Vita d’un uomo. Visioni di William Blake , Milano, Mondadori,1965, ora [Discorsetto su Blake], in Saggi e Interventi , p. 597 18

L. Piccioni, Per conoscere Ungaretti, Mondadori, Milano 1986

Page 14: Giuseppe Ungaretti - liceojoyce.gov.it · 1 1 È la Memoria il filo conduttore della poesia di Giuseppe Ungaretti. Quella memoria autobiografica che è il sale stesso della vita di

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Bibliografia

G. Baldi, S. Giusso, M. Razetti, G. Zaccaria: Dal testo alla storia – Dalla storia al testo,

Letteratura italiana con pagine di scrittori stranieri – Vol.III, Ed.Paravia, 1995

M. Napoli, M. A. Chiocchio: Prima visione – Poesia e teatro – La Nuova Italia, 2011

G. Petronio: Civiltà nelle lettere – Vol.III - Ed.Palumbo, 1976

Ricerche su internet

Enciclopedia Treccani-Scuola on-line

Presentazioni del Corpo Docente dell’Istituto per la preparazione al Seminario su G.

Ungaretti