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GORDIMER Nadine (1991) seconda parte 1) Mandela; “Scrivere ed essere”; Saggi; “Il non plus ultra dei safari” a) All’inizio di questa seconda relazione su Nadine GORDIMER (Nobel 1991), abbiamo il dovere di citare Nelson Mandela, dal momento che abbiamo scelto, come fatto di riferimento per distinguere le due relazioni, proprio la liberazione del grande leader del movimento contro l’apartheid. Mandela viene liberato nel 1990, quando il presidente sudafricano Frederik De Klerk apre ad una politica di liberalizzazione e di conciliazione. La Gordimer, “sudafricana bianca”, che si è schierata da sempre per i diritti civili e politici dei neri, negati dall’apartheid, ha aderito all’ANC (African National Congress) di Mandela, offrendo un autorevole apporto al corso della storia del suo paese. La sua conoscenza di Mandela risale al 1964, al tempo del processo che porterà al carcere per ventisei anni il capo storico del movimento antisegregazionista, il quale aveva iniziato con la lotta armata, mentre poi ha scelto il metodo del dialogo e del confronto, anche duro, ma pacifico. Il rapporto della Gordimer con Mandela è diventato anche una forma di amicizia, tanto che l’uomo politico non si ritrarrà dal rivolgersi a lei anche con confidenze personali, come quella in cui, per così dire, si sfoga con amarezza per essere stato abbandonato dalla moglie. In occasione del conferimento del premio Nobel per la pace a Mandela nel 1993, come leggiamo nel saggio “Cosa significa Mandela per noi” [nel volume “Vivere nella speranza e nella storia”], la Gordimer scrive all’inizio: “Nelson Mandela è oggi l’uomo famoso per eccellenza. Uno dei pochi che ha segnato il ventesimo secolo come un’epoca di progresso per l’umanità, al contrario di chi lo ha reso turpe con i l fascismo, il razzismo e la guerra…”. Più avanti lo cita come un leader sostenuto da una “carica di energia che deriva dai bisogni degli altri e dalle loro richieste”. Nel finale poi sottolinea che Mandela “quando parla del Sudafrica come la patria di tutti i sudafricani, bianchi e neri, crede in quello che dice. Proprio come quando, in tribunale, dichiarò solennemente di essere pronto a morire per questo ideale.” Dopo la morte di Mandela nel 2013, la Gordimer, che l’aveva conosciuto di persona, disse : “Noi sudafricani siamo fortunati ad averlo avuto con noi… Madiba era un democratico naturale, una cosa piuttosto inusuale in Africa. In un continente che ha lottato per decenni per liberarsi dalla dominazione straniera e raggiungere la libertà, è raro trovare qualcuno che non basi la sua azione sull’odio o il risentimento.” b) Scrivere ed essereè il titolo con cui è conosciuto il discorso tenuto a Stoccolma nel dicembre de 1991 dalla Gordimer, in occasione della consegna del premio Nobel. Di esso ricordiamo tre cose. 1) L’inizio solenne, che richiama il Vangelo di Giovanni: “In principio era il Verbo. Il Verbo era presso Dio, indicava la Parola di Dio, la Parola della Creazione. Ma lungo i secoli di cultura dell’uomo, la parola ha acquisito altri si gnificati, profani oltre che religiosi…”. 2) Il valore della parola, che l’uomo ha cominciato ad incidere sulla pietra, poi sui papiri, sulle pergamene, sulla carta stampata e via scrivendo; mediante la parola cerchiamo di interpretare i segni che ci provengono dalla società e dal mondo di cui facciamo parte. Poiché l’essere è costantemente rimodellato dalle circostanze e dai diversi livelli di consapevole zza, lo scrittore, per “attraversare gli abissi dell’aleatorio e assoggettarli alla parola” ha bisogno di una intensa concentrazione interiore. 3) La verità dei romanzi. Ogni vero scrittore accende una luce che illumina il labirinto dell’esperienza umana, dell’essere. “Per quanto mi riguarda, ho già detto che nessuna delle cose reali che scrivo o dico sarà mai tanto veritiera quanto i miei romanzi.” c) Il discorso di Stoccolma ci porta a dedicare una parte della nostra consueta premessa alle raccolte di “saggi” della Gordimer, in due almeno dei quali esso è riportato. Le raccolte fondamentali dei “saggi” sono tre: “Vivere nell’interregno” (1988), con saggi che si riferiscono al periodo precedente al 1990/1, esaminato la volta scorsa; “Scrivere ed essere. Lezioni di poetica” (1994) e “Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo(1999).

GORDIMER Nadine (1991) seconda parte · distinguere le due relazioni, proprio la liberazione del grande leader del movimento contro l’apartheid. Mandela viene liberato nel 1990,

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GORDIMER Nadine (1991) seconda parte

1) Mandela; “Scrivere ed essere”; Saggi; “Il non plus ultra dei safari”

a) All’inizio di questa seconda relazione su Nadine GORDIMER (Nobel 1991), abbiamo il

dovere di citare Nelson Mandela, dal momento che abbiamo scelto, come fatto di riferimento per

distinguere le due relazioni, proprio la liberazione del grande leader del movimento contro

l’apartheid. Mandela viene liberato nel 1990, quando il presidente sudafricano Frederik De Klerk

apre ad una politica di liberalizzazione e di conciliazione. La Gordimer, “sudafricana bianca”, che si

è schierata da sempre per i diritti civili e politici dei neri, negati dall’apartheid, ha aderito all’ANC

(African National Congress) di Mandela, offrendo un autorevole apporto al corso della storia del

suo paese. La sua conoscenza di Mandela risale al 1964, al tempo del processo che porterà al

carcere per ventisei anni il capo storico del movimento antisegregazionista, il quale aveva iniziato

con la lotta armata, mentre poi ha scelto il metodo del dialogo e del confronto, anche duro, ma

pacifico. Il rapporto della Gordimer con Mandela è diventato anche una forma di amicizia, tanto che

l’uomo politico non si ritrarrà dal rivolgersi a lei anche con confidenze personali, come quella in

cui, per così dire, si sfoga con amarezza per essere stato abbandonato dalla moglie.

In occasione del conferimento del premio Nobel per la pace a Mandela nel 1993, come leggiamo

nel saggio “Cosa significa Mandela per noi” [nel volume “Vivere nella speranza e nella storia”],

la Gordimer scrive all’inizio: “Nelson Mandela è oggi l’uomo famoso per eccellenza. Uno dei

pochi che ha segnato il ventesimo secolo come un’epoca di progresso per l’umanità, al

contrario di chi lo ha reso turpe con il fascismo, il razzismo e la guerra…”. Più avanti lo cita

come un leader sostenuto da una “carica di energia che deriva dai bisogni degli altri e dalle loro

richieste”. Nel finale poi sottolinea che Mandela “quando parla del Sudafrica come la patria di

tutti i sudafricani, bianchi e neri, crede in quello che dice. Proprio come quando, in tribunale,

dichiarò solennemente di essere pronto a morire per questo ideale.”

Dopo la morte di Mandela nel 2013, la Gordimer, che l’aveva conosciuto di persona, disse: “Noi

sudafricani siamo fortunati ad averlo avuto con noi… Madiba era un democratico naturale,

una cosa piuttosto inusuale in Africa. In un continente che ha lottato per decenni per liberarsi

dalla dominazione straniera e raggiungere la libertà, è raro trovare qualcuno che non basi la

sua azione sull’odio o il risentimento.”

b) “Scrivere ed essere” è il titolo con cui è conosciuto il discorso tenuto a Stoccolma nel

dicembre de 1991 dalla Gordimer, in occasione della consegna del premio Nobel. Di esso

ricordiamo tre cose. 1) L’inizio solenne, che richiama il Vangelo di Giovanni: “In principio era il

Verbo. Il Verbo era presso Dio, indicava la Parola di Dio, la Parola della Creazione. Ma lungo

i secoli di cultura dell’uomo, la parola ha acquisito altri significati, profani oltre che

religiosi…”. 2) Il valore della parola, che l’uomo ha cominciato ad incidere sulla pietra, poi sui

papiri, sulle pergamene, sulla carta stampata e via scrivendo; mediante la parola cerchiamo di

interpretare i segni che ci provengono dalla società e dal mondo di cui facciamo parte. Poiché

l’essere è costantemente rimodellato dalle circostanze e dai diversi livelli di consapevolezza, lo

scrittore, per “attraversare gli abissi dell’aleatorio e assoggettarli alla parola” ha bisogno di una

intensa concentrazione interiore. 3) La verità dei romanzi. Ogni vero scrittore accende una luce che

illumina il labirinto dell’esperienza umana, dell’essere. “Per quanto mi riguarda, ho già detto che

nessuna delle cose reali che scrivo o dico sarà mai tanto veritiera quanto i miei romanzi.”

c) Il discorso di Stoccolma ci porta a dedicare una parte della nostra consueta premessa alle

raccolte di “saggi” della Gordimer, in due almeno dei quali esso è riportato.

Le raccolte fondamentali dei “saggi” sono tre: “Vivere nell’interregno” (1988), con saggi che si

riferiscono al periodo precedente al 1990/1, esaminato la volta scorsa; “Scrivere ed essere. Lezioni

di poetica” (1994) e “Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo” (1999).

Il volume “Scrivere ed essere. Lezioni di poetica” (1994) comprende, in particolare, le “Norton

Lectures” tenute dalla Gordimer ad Harvard nel 1994. Nel primo saggio, “La costola di Adamo:

narrazioni e realtà” si parla di autobiografia ed immaginazione, e si riconosce che la propria

esperienza personale è sempre fonte dei romanzi, ma che la narrativa mira soprattutto a scoprire e

registrare “il mondo dell’uomo”. Interessante è il saggio dedicato alla “Trilogia del Cairo” di

Nagib Mahfuz (Nobel 1988), che termina con questa dichiarazione: “Quasi mezzo secolo dopo il

periodo ritratto nelle pagine conclusive della trilogia di Mahfuz, nel mondo alternativo

continua, a opera di scrittori alternativi, la ricerca di quella Patria che è la verità, non

delimitata da muri, confini, regimi. Essa viene perseguita, tra gli altri, nei romanzi del

nigeriano Chinua Achebe e dell’israeliano Amos Oz”. Nel saggio dedicato agli scritti

rivoluzionari, annotiamo l’osservazione che durante l’apartheid non si dissero e non si scrissero

molte cose, perché, oltre alla censura, c’era il rischio che una parola avventata potesse costare la

vita “di chi parlava, di chi scriveva, e di altri”.

Seguono in appendice il discorso di Stoccolma, e un saggio su Joseph Roth.

Nel volume “Vivere nella speranza e nella storia. Note dal nostro secolo” (1999) la Gordimer

torna a riflettere sulla letteratura e sulla responsabilità degli scrittori, sul ruolo della donna, sul

percorso sociale e politico del Sudafrica, sui momenti storici di svolta del XX secolo. Vi compaiono

anche ritratti, saggi o carteggi con autori di grande spessore, dai “Nobel” Nagib Mahfuz , Günter

Grass e Kernzaburö Öe a Joseph Roth e Leopold Senghor. Nell’ultimo saggio del volume, intitolato

“Il nostro secolo”, la conclusione parte dal giudizio critico dell’illustre storico Eric Hobsbawm, il

quale definisce il nostro secolo “senza dubbio il più sanguinario di cui si abbia memoria…”. La

Gordimer aggiunge però che in esso si è visto un progresso senza precedenti nella tecnologia e in

ciò che l’intelligenza umana può conoscere, e si augura come conquista da perseguire l’impegno

“ad assumere, all’interno dell’ < incessante avventura dell’uomo >, il controllo delle nostre

conquiste, ponendoci domande sincere e riflettendo sulla verità di ciò che è stato fatto”.

Il volume comprende anche il saggio “Cosa significa Mandela per noi”, citato all’inizio nella

nota dedicata a Mandela, e il discorso di Stoccolma.

d) Nadine Gordimer nel 2005 si è resa promotrice di un’importante iniziativa umanitaria con la

pubblicazione di una preziosa, eccezionale, antologia, intitolata “Storie”. Sono ventuno racconti dei

più noti narratori, suoi contemporanei, di tutto il mondo [vi sono compresi, oltre a lei, altri quattro

premi Nobel, Gabriel García Màrquez (1982), Kenzaburo Öe (1994), José Saramago (1998) e

Günter Grass (1999)], i quali hanno offerto ciascuno gratuitamente un proprio testo, accettando che

i proventi fossero devoluti alla “Treatment Action Campaign” a sostegno della lotta contro l’Aids,

molto diffusa in Sudafrica. La stessa Gordimer precisa che i racconti, scritti secondo stili

vivacemente personali, testimoniano come si possa usare meravigliosamente la parola, per celebrare

la vita, “proprio quella vita negata alle persone che soffrono di Aids”. Infatti si può individuare

un filo tematico comune, quello della speranza, ovvero della ricerca “di una possibile via di fuga al

dolore”, in direzione di “una luce che metaforicamente possa illuminare il buio di questi nostri

giorni contrastati.”

Il racconto della Gordimer, che diventa il primo testo che analizziamo oggi, è il penultimo della

serie, ed ha un titolo, “Il non plus ultra dei safari”, ricavato da un annuncio pubblicitario sulle spedizioni di caccia grossa, di un quotidiano londinese del 1988.

Il racconto è narrato, in prima persona, da una bambina di una decina d’anni, costretta a fuggire

da un villaggio del Mozambico, dove infuria la guerra. Il padre è al fronte, a combattere contro i

“banditi”, e la madre, allontanatasi da casa per andare allo spaccio a comperare un po’ d’olio, non

vi ha fatto più ritorno. “Forse ha incontrato i banditi. Se li incontri, quelli ti ammazzano. Al

nostro villaggio erano già venuti due volte… la terza volta non c’era più niente da portar via,

né olio, né cibo, così avevano dato fuoco alla paglia e i tetti delle case erano crollati.” Tocca

alla nonna, ancora lucida ed intraprendente, trascinare nella fuga, insieme ad altri profughi, i nipoti

[sono tre: la bambina, un maschietto un po’ più grande di lei, ed un altro maschio, piccolissimo],

oltre che l’impacciato e confuso nonno. Devono attraversare le zone incolte (il bush), ed anche il

vasto “Kruger Park”, dove, se non c’è una guida sicura, si corre il rischio di mettere a repentaglio la

vita, incappando in quegli animali, compresi i leoni, che i bianchi vanno ad incrociare, o ad

ammirare, nei loro safari. Il nonno, purtroppo, si perde nell’erba folta e altissima, e non viene più

ritrovato. Il gruppo che giunge nel campo profughi del Paese vicino, trova alloggio per lunghi mesi

sotto un’enorme tenda comune, in cui ciascuno si ritaglia un piccolissimo spazio per le esigenze

vitali. I disagi, invero, sono molti e si soffre la fame, ma i bambini possono frequentare le scuole del

vicino villaggio, e la nonna, che ha trovato modo di fare qualche lavoretto, può anche comperare

delle scarpe: “Non c’è nessun altro bambino nella tenda con delle vere e proprie scarpe per

andare a scuola.”

Nel finale del racconto arrivano al campo profughi dei controllori, che fanno anche delle

fotografie, per vedere come si vive sotto la tenda. Alla nonna vengono rivolte delle domande sulle

intenzioni per il dopoguerra. La donna, forse stanca, forse disillusa, risponde che vuole fermarsi lì, e

non pensa al suo paese, dove non c’è più neanche la casa. Ora è proprio la piccola orfana a reagire

positivamente, e a tracciare una prospettiva di speranza, che coinvolge anche la mamma e il nonno:

“Io ci tornerò. Io ci tornerò attraverso il Kruger Park. Dopo la guerra, se non ci saranno più i

banditi, la mamma forse sarà lì ad aspettarci. E forse quando abbiamo lasciato il nonno, era

solo rimasto indietro, forse è riuscito a trovare la strada, adagio adagio, attraverso il Kruger

Park, e sarà lì anche lui. Saranno a casa, e io mi ricorderò di loro.”

2) Tre brevi precisazioni

a) Due citazioni, che rispecchiano convinzioni care alla Gordimer.

La scrittura rende evidente la realtà. Il breve racconto“In visita da George” termina con queste

parole: “Se questo l’ho sognato, mentre camminavo, mentre camminavo per le strade di

Londra, e il subconscio di ciascuna e ogni altra vita, passata e presente, mi sfiorava nel

cammino, cos’è che lo rende reale? Scriverlo.”

Chi scrive racconti fa vivere e dà senso ad un mondo più grande: “Noi scrittori di racconti

abbiamo una strana capacità di entrare nella vita degli altri…. Di raggiungere universi che

stanno oltre il mondo di cui disponiamo….. trovare il senso da dare alla vita”

b) Il tema della sessualità è presente nell’opera della Gordimer in modo aperto ed insistente. Pur

sfiorando o affrontando senza remore qualche scabrosità, non lascia però l’impressione né di una

sottile morbosità né di una soddisfatta rivincita contro un atavico tabù. Sembra invece una tranquilla

conquistata “libertà”, che non vuole giudicare e non si scandalizza né si compiace, ma considerando

normali le azioni sessuali, le descrive, se è il caso, ed in ogni caso, con indicazioni puntuali.

c) La scrittura della Gordimer è “raffinata e affilata”: bisogna accostarsi ad essa con pazienza, e

con amore. La narrazione, lontana da ogni sentimentalismo, non coinvolge molto emotivamente, ma

più frequentemente fa pensare. Lo stile può apparire complesso, fin troppo allusivo. E’ essenziale e

spezzato nello stesso tempo. Si mescolano esposizione narrativa, monologo interiore e dialogo

intenso, con il supporto di una sottile ironia.

3) “Nessuno al mio fianco” (1994)

E’ il primo romanzo della Gordimer scritto dopo la liberazione di Mandela, e rispecchia un

periodo in cui il l’abolizione dell’apartheid ed il confronto fra il presidente aperturista De Klerk e lo

stesso Mandela fanno sperare in una stagione nuova. Gli sviluppi sono però ancora imprevedibili,

ed è troppo presto per parlare di libertà per tutti, di parità di diritti, di uguali opportunità sociali, e

insomma, di democrazia compiuta. Sono stati fatti dei passi, ma permangono discriminazioni e la

violenza scoppia ancora a tratti dall’una o dall’altra parte. Sullo sfondo di questo quadro storico-

politico si svolgono le vicende del romanzo, che convergono e ripartono da due centri, che a loro

volta si intrecciano, cioè da due coppie di personaggi, una di bianchi, gli Stark, e una di neri, i

Maqoma.

Ma non è un romanzo storico né un’opera di esplicito contenuto politico-sociale. In primo piano

ci sono anche l’aspetto realistico e psicologico del vivere e quello esistenziale e filosofico del

significato della vita. L’epigrafe iniziale, tratta da Proust, dice “Non dobbiamo mai aver paura di

andare oltre, perché la verità è ancora più oltre”. L’oltre può essere quello della nuova stagione

del Sudafrica, ma anche quello della conclusione a cui arriva la protagonista Vera Stark: “< Adesso

voglio scoprire la mia vita. La verità, alla fine. Nient’altro. >”. La seconda epigrafe è i due versi

di un “haiku” giapponese del XVII secolo, da cui deriva il titolo del romanzo, “Nessuno al mio

fianco su questo sentiero / il calar della notte in autunno”: qui non sembrano entrare i motivi

politici, ma il tema esistenziale della solitudine e della malinconia, collegato con lo sfondo delle

tenebre, o della brutta stagione o magari anche della vecchiaia.

Lasciamo lì questa complessa interpretazione dei significati, ma facciamo posto al contenuto,

così come si ricava dalla lettura, che già di per sé richiede calma ed attenzione, sia per mettere a

fuoco di capitoletto in capitoletto la presenza dei vari personaggi, sia per mettersi in sintonia con

uno stile intenso ma talvolta un po’ complesso.

Un giudizio critico sottolinea che la Gordimer sa narrare insieme la storia personale e quella

politica, e sa soffermarsi scrupolosamente sui dettagli e nello stesso tempo condurre una narrazione

di amplissimo respiro.

a) La realtà politica e sociale del Sudafrica non tarda a comparire. Nelle primissime pagine, la

rassegna dei presenti alla festa per un anniversario di nozze di Vera e Bennet Stark, ci offre una

panoramica di bianchi e di neri, che in vario modo hanno partecipato alla vita politica degli anni sia

dell’apartheid sia delle successive aperture: “…donne e uomini bianchi che avevano partecipato

attivamente alle campagne contro la detenzione senza processo, contro la deportazione forzata

delle comunità, contro l’esclusione dei neri dal diritto di voto, insieme con leader

studenteschi… che avevano sostenuto gli operai in sciopero. C’erano anche un paio di pastori

neri militanti e un altro pastore afrikaner, scomunicato per eresia quando aveva condannato

la segregazione, un medico nero che aveva nascosto e curato i giovani militanti feriti negli

scontri di strada con la polizia e l’esercito, capi della comunità nera che avevano guidato le

azioni di boicottaggio, qualche reduce bianco dei raduni di strada del vecchio Partito

comunista, delle campagne di resistenza passiva degli anni cinquanta e delle manifestazioni

della Congress Alliance… E alcuni altri mancavano, quelli che erano in clandestinità, non

ancora convinti che fosse sicuro mostrarsi in pubblico, perché i negoziati con il governo per

l’amnistia politica non erano definitivi…”.

Altrettanto significativo è il ritorno gioioso e festante degli esuli, dopo anni di sofferenze: “Gli

aerei carichi di esuli che arrivavano ogni giorno erano attesi all’aeroporto da folle che

cantavano e ballavano e… un’ondata di voci cadenzate li accoglieva insieme con l’abbraccio

di volti festanti… e tra gli abbracci la processione che li accompagnava fuori dal terminal, a

riprendere il possesso di una vita ritrovata, era come un indescrivibile carnevale tra quanti ne

sono mai stati celebrati…”

E’ indice di un nuovo clima anche il modo in cui si svolgono le riunioni nei luoghi pubblici: “Le

riunioni, per tanto tempo vietate, erano diventate ora una sorta di luna park di sentimenti

liberati, con cantanti sul palco, cibi bevande consumati simbolicamente insieme, garruli

decibel stereofonici che rompevano il silenzio di molti anni, con un proprio servizio

d’ordine…”.

Se seguiamo poi la storia di Vera, che lavora per molti anni al Centro di assistenza legale, a tutela

dei diritti in particolare dei neri, e che poi entra nella Commissione Tecnica per le questioni

costituzionali, ci imbattiamo in continue problematiche aperte di carattere sociale e politico, dalla

proprietà e distribuzione della terra alle risorse economiche e alla casa dove abitare, dalle

manifestazioni di protesta agli episodi di violenza, sia di chi vuol difendere i privilegi che sempre

ha avuto, sia di chi vuol ottenere con la forza ciò che il nuovo corso promette, dai rapporti tra

bianchi e neri, migliorati ma non risolti, alle divisioni interne allo stesso movimento di liberazione.

[Nelle pagine finali troviamo anche una pagina che curiosamente richiama il dibattito, oggi, in

Italia, sulla legge elettorale e la riforma della Costituzione. All’interno della “Commissione Tecnica

per le questioni costituzionali”, di cui fa parte anche Vera, si discute “della base per la

rappresentanza proporzionale, dei partiti che dovevano qualificarsi col cinque o il dieci per

cento dei voti, dell’approvazione delle mozioni del governo o del voto della maggioranza dei

due terzi, della percentuale necessaria per l’elezione del presidente, per gli emendamenti della

costituzione e per quelli della Carta dei diritti, dell’estensione dei poteri e dei doveri da

attribuire alle legislature regionali, e così via.”]

Nell’ultimo capitolo ci sono alcune osservazioni che sintetizzano le intenzioni positive che

animano le persone più responsabili: “E i fallibili esseri umani che componevano la

Commissione erano impegnati nel compito di trovare il modo di proteggere tutti senza recare

danno o pericolo a nessuno”. E c’è un altro efficace riferimento biblico: “la violenta fratellanza

di Caino e Abele poteva essere trasformata in un’altra proclamata fratellanza…”. Non

mancano però corruzione e scandali, come quelli scoppiati in alcune imprese finanziarie, in un

“intrico di prestiti, debiti, trasferimenti di fondi da una compagnia all’altra, accompagnato

dall’accusa che queste erano solo facciate di copertura del Movimento”. Non manca neppure il

riferimento ad un mondo presente, violento e burocratico insieme “che si esprimeva in corpi

bruciati e insanguinati, nella passione del rifiuto, nella ribellione alle istituzioni, nel

tradimento della polizia e dell’esercito che dovevano proteggerli, nella collera rivolta contro sé

stessi, nella prolissità dei documenti.”

b) Ma passiamo dalla situazione politica e sociale, alla “storia” dei personaggi, ribadendo che

sono due le famiglie di riferimento, gli Stark ed i Maqoma, i cui percorsi più volte si incrociano. In

entrambe le famiglie le donne svolgono un ruolo non inferiore, anzi per alcuni aspetti più rilevante

di quello degli uomini.

Gli Stark [Bennet detto Ben, e Vera], la coppia di bianchi ma non razzisti.

Il romanzo inizia con un enigmatico “E quello chi era?”, riferito allo…sconosciuto, la cui faccia

è cerchiata d’inchiostro in una foto-cartolina, ritrovata da Vera dopo quarantacinque anni. E’ la

faccia del giovane, affascinante, Bennet Stark, conosciuto, durante una vacanza di amici in

montagna, dalla giovanissima [ma già sposata con un soldato impegnato in guerra in Egitto] Vera,

la quale se ne innamora, ricambiata, e lo sposerà dopo il divorzio, definito al ritorno del marito, con

il quale peraltro ella ha un ultimo incontro amoroso: il figlio che nasce, Ivan, è figlio dell’ex marito

o di Ben? Questo dubbio è uno degli elementi che incidono sulla coppia Bennet-Vera, all’apparenza

riuscitissima, ma minata da una sottile fragilità psicologica, dovuta - concluderà Vera - ad una

forma di forzata dipendenza, per cui l’uno non poteva vivere senza l’altra.

Bennet, per assecondare Vera, determinata nel lavoro e nell’impegno umanitario, fallisce sul

piano professionale [non realizza l’iniziale vocazione di artista (“scolpiva legno e modellava

creta”), diventa insegnante, poi consulente commerciale…], e si dedicherà ai “Bagagli

promozionali” (una modalità di vendita), pensando a guadagnare qualcosa per arrotondare lo

stipendio di Vera, più che per il lavoro in sé [“Era Vera la sua vocazione, e l’iniziativa dei

‘Bagagli promozionali’ aveva proprio lo scopo di provvedere a lei”]; con il vecchio padre, che

gli Stark ospiteranno, malato, in casa, prima che muoia, non ha un buon accordo; con gli stessi figli

ha un rapporto non semplice [non capisce o non accetta l’omosessualità della figlia Annick (o

Annie), di dodici anni minore del primogenito Ivan, il quale peraltro, per parte sua, realizza una

fortunata ed apprezzata carriera professionale nel mondo internazionale delle banche, ed alla fine

accoglierà a Londra il padre Bennet, quando questi, liquidati i “Bagagli promozionali”, “non

sapeva che cosa fare, e per non darlo a vedere era partito per Londra per far visita a Ivan, che

si era separato dall’ungherese…”.

Aggiungiamo che Ivan, lanciato in carriera, fallisce sul piano sentimentale, non solo per la

separazione dall’ungherese, che nemmeno era la sua prima donna, ma anche per le disavventure del

figlio Adam, arrestato più volte in Inghilterra per ubriachezza ed eccesso di velocità, e mandato in

Sudafrica dai nonni per un po’ di tempo. Quanto alla figlia Annick, laureata in medicina, la

relazione omosessuale con una ragazza di colore, Lou, biologa, dello Zaire, è vissuta da lei con

disinvoltura; per il padre, Bennet, invece è una cosa incomprensibile [l’avvocato Lazar, del Centro,

potrebbe andar bene per lei…], mentre la madre, Vera, ne discute con lei, e si sente quasi colpevole,

per come l’ha educata, o non l’ha saputa educare; per la cronaca, Annick e Lou adotteranno una

bambina.

Vera è la figura di maggior rilievo del romanzo, perché impersona nel suo sentire e nel suo agire

sia l’aspetto storico-politico della lotta contro l’apartheid, sia l’aspetto psicologico-esistenziale del

senso della propri vita.

La prima pagina, della cartolina ritrovata dopo quarantacinque anni, si conclude con le parole “la

realtà della sua innocenza, per sempre”. Vera considera naturale la sua scelta di lasciare il primo

marito, sposato nell’infatuazione della giovinezza, ma poi nei decenni del matrimonio con Bennet

vive uno strano disagio, difficile da chiarire anche per lei, perché c’è una consonanza piena con un

uomo che appare come l’ideale intravisto lassù in montagna, e c’è pure l’appagamento sessuale, ma

nello stesso tempo una sorda, inespressa, insoddisfazione, o bisogno, la porta ad avere l’amante [gli

incontri nell’appartamento uno-due-uno] senza avvertirlo come un tradimento. Arriva però anche il

giorno in cui capisce di avere tradito il marito, che pur vede tutto in lei. I suoi impegni di lavoro,

che comportano l’assistenza legale ai neri, ai deboli, agli indifesi, riempiono le sue giornate, e la

cerchia delle amicizie la lusinga, ma c’è qualcosa che non quadra del tutto, e che cova. Alla fine,

quando, partito Bennet per l’Inghilterra, Vera vende la propria casa, e va a vivere nella dépendance

della residenza di Zeph Rapulana, e la figlia Annick, scandalizzata, le domanda che cosa vuole

sperimentare di nuovo, lei risponde con le parole che abbiamo già riportate: “< Adesso voglio

scoprire la mia vita. La verità, alla fine. Nient’altro. >”

Vera, che potremmo dire ambigua, o immatura, o complessa, o magari (giocando sul suo nome)

troppo “vera”, sul piano dei sentimenti e della vita privata, presenta invece un profilo dinamico,

fortemente motivato, senza sbavature, sul piano dell’impegno sociale e della responsabilità

personale nei confronti soprattutto degli oppressi e di chi è vittima di pregiudizi e di violenze.

Vera Stark lavora dapprima come impiegata e poi, da laureata, in uno studio legale, ma, dopo la

nascita di Annick, sceglie di impegnarsi nel Centro di assistenza legale, dove si distingue per

intelligenza e generosità, dedicando del tempo al lavoro anche a casa, per studiare i casi o preparare

i rapporti, e non evitando le uscite di ricognizione o di raccolta di prove e di elementi: “La signora

Stark è un’istituzione del Centro di assistenza legale… La sua pacata asprezza durante le

riunioni, quando esprime il proprio disaccordo su qualche questione politica (e il fatto che così

spesso abbia dimostrato di avere ragione), la sua perspicacia, quand’è seduta immobile e

attenta, con la sua zazzera di capelli castani spruzzati di bianco, l’angolo sinistro della bocca a

volte arcuato in una smorfia che può esprimere impazienza o comprensione, nel riconoscere e

distinguere la verità, o come lei direbbe, i fatti dalle fantasie partorite dalla miseria e

dall’impotenza di coloro che si rivolgono al Centro, queste qualità fanno di lei la collega ideale

a cui si rivolgono tutti, dal direttore alla telefonista, per avere l’ultima parola.”

Più in avanti Vera assumerà responsabilità pubbliche importanti, entrando nella Commissione

Tecnica per le questioni costituzionali.

Un caso che la occupa vivamente è la vertenza con Tertius Odendaal, un ricco proprietario di

fattorie e terre, su una delle quali, a Odensville, si sono insediate in capanne di fango e paglia molte

famiglie di neri, i cosiddetti squatters (gli abusivi) [In un’altra circostanza sono descritti così questi

squatters: “Lungo i muri di mattoni rossi e tra le pareti dipinte in verde dell’ospedale erano

radunate persone che sembravano sacchetti di plastica e di carta gettati al di là del recinto. Le

donne erano sedute in terra con le ginocchia piegate sotto le gonne e i grembiuli, circondate da

bambini che s’aggrappavano e s’arrampicavano su di loro; gli uomini erano accovacciati con

la testa china sulle ginocchia, un mozzicone di sigaretta tra le dita penzoloni, oppure

appoggiati ai muri, e talvolta alzavano lo sguardo dalle loro scalcagnate scarpe da

ginnastica…”]. La gente di Odensville ha come portavoce “il signor Rapulana”, un nero “che

aveva frequentato le scuole per neri in cui aveva imparato a leggere e a scrivere in afrikaans”,

il quale, a colloquio, insieme a Vera, con Odendaal cerca di rassicurare costui, deciso allo sgombero

forzato, con una frase conciliante, anche se forse sibillina: “Meneer Odendaal, non abbia paura.

Non le faremo alcun male, né a lei, né a sua moglie e ai suoi figli…” Di fatto però succede che

un attacco armato al campo di Odensville, “sparando e trascinando fuori la gente”, giustificato

da Odendaal come difesa contro gli squatters armati di sassi e bastoni, provoca nove morti e 14

feriti, tra i quali lo stesso Rapulana, che ne riferirà a Vera, che ha bisogno di sapere come sono

andate le cose. Solo successivamente la causa per il terreno di Odensville sarà vinta.

“Il signor Rapulana”, Zeph Rapulana, entra nella vita di Vera, nel senso che le sue parole e i suoi

gesti, compresa quella volta in cui lui le si avvicinò “prendendole stranamente un braccio sopra

al polso con la mano sinistra, e lei vi posò sopra timidamente la sua”, esprimono qualcosa che

va al di là della conoscenza sessuale o dell’amicizia, ma dà un senso di sicurezza, “come se, nel

loro continuo rapporto attraverso il Centro, appartenessero a un unico sesso e conciliassero

insieme le rispettive esperienze, lui come uomo e lei come donna.” Proprio nella dépendance

della nuova villetta di Rapulana si ritirerà Vera, a riflettere sulla propria vita.

Diverso è il rapporto di Vera con altri due personaggi significativi. Oupa, un nero che è stato in

galera a Robben Island, e ora, impiegato e anche autista del Centro, è benvoluto da Vera, che lo

considera quasi come un figlio. Essi durante una missione di lavoro lontano, in campagna, vengono

aggrediti, derubati e feriti, e, mentre Vera si riprenderà, Oupa alla fine non ne uscirà vivo. Invece

Otto Abarbanel, che viene in contatto con il Centro perché fa documentari sulla situazione in

Sudafrica per una rete televisiva austriaca [a lui, chiamato “figlio di Hitler”, Vera dice un giorno: “I

nazisti non sono finiti con la guerra in cui sono morti i tuoi genitori, sono risorti qui”], diventa

l’amante di Vera. Proprio dopo un rapporto con lui nell’appartamento uno-due-uno Vera si sente

coinvolta così da avvertire di aver tradito Bennet: “…mai prima né dopo in vita sua lei si sentì

così trasformata e congiunta con un uomo in una così ardente sensazione. E quelli furono il

giorno e il luogo del tradimento di Bennet, l’uomo che lei aveva scelto”.

I Maqoma [Didymus detto Dily e Sibongile detta Sally] coppia di neri, reduci dall’esilio.

Il romanzo è distinto in tre parti, la prima breve, le altre due molto più lunghe. Anche la seconda

parte inizia, come la prima, con una domanda: “Ma non sai chi è?”. Con l’abolizione

dell’apartheid ritornano anche gli esuli in Sudafrica, e si ritrovano persone, rimaste lontane per un

tempo più o meno lungo. Tra i neri che ritornano ci sono anche i coniugi Maqome, i quali ritrovano

dopo vent’anni Bennet e Vera Stark. Per la verità, cinque anni prima, una mattina Didymus aveva

fatto una rapida comparsa a casa di Vera, consegnandole un pacchetto da spedire, ma per il resto

egli aveva avuto, all’estero, incarichi da dirigente nell’ambito del terrorismo di lotta contro la

segregazione, ed si era dovuto anche curare per una brutta malattia a Mosca.

Per Didymus e Sibongile ci accontentiamo di osservazioni più sintetiche..

Ora, nella nuova situazione interna ai movimenti rivoluzionari, Didymus, che in esilio era un

capo, viene messo da parte [“E’ pazzesco” dirà un tale], non ottenendo l’elezione nel Consiglio per

un posto nel settore legale, come aveva desiderato, e non viene neanche cooptato, ma riceverà

soltanto l’incarico di scrivere la storia degli esuli. Si comporta con dignità, quasi con distacco [E’

un “affare mio”], anche se è tentato di pensare che la storia si è fermata con lui, ed anche se

talvolta egli constata che il modo di agire, in passato, era migliore, più incisivo. Ad esempio, alla

richiesta della moglie, che gli chiede, dopo il ricevimento ad un’Ambasciata, cosa pensi della serata,

dell’ambasciatore e di tutto quanto, risponde: “Come tutte le altre volte, ormai. Si scambiano

convenevoli con stranieri per stabilire alleanze, accordi commerciali, magari forniture di

armi, se ne avessimo ancora bisogno. Si mangia e si beve con amici e nemici, anche se questi

hanno bevuto il tuo sangue. Lo facevano anche i nostri padri sotto un albero, ma loro avevano

già pronto il coltello.”

Didymus, comunque, è contento che il Movimento abbia avuto la legittimità politica.

La moglie, Sibongile, che prima aveva operato in retroguardia, senza sporcarsi troppo le mani,

viene eletta, grazie all’appoggio di un’organizzazione di reduci e di donne. A proposito

dell’esclusione del marito, ella in privato, in casa, esplode, parlando di un complotto contro di lui,

perché in esilio aveva sostenuto una tesi contraria agli altri circa gli sbarchi sulla costa. Sibongile

acquisisce dunque un ruolo di primo piano, e comincia con determinazione una vita politicamente

attiva, che comporta viaggi, trasferte, incontri con personalità, partecipazione a Convegni e via

dicendo. Si sono rovesciate le posizioni tra i due coniugi, e Didymus e non osa frenare la moglie,

neanche quando la vede lavorare troppo. Ella a sua volta si ricorda di lui anche quando è lontana;

una volta, al ritorno da un paese straniero [per combinazione, è lo stesso in cui Didymus aveva

dovuto svolgere a suo tempo interrogatori pressanti], gli porta un bastone da passeggio di ebano.

Le vicende della loro giovane figlia, Mpho, che frequenta gli amici di famiglia, compresi gli

Stark, riguardano soprattutto la vita privata; tra l’altro, resterà incinta di Oupa, e abortirà,

nonostante la nonna abbia cercato di dissuaderla, dichiarandosi disposta ad aiutarla.

In conclusione, possiamo ribadire che Nadine Gordimer osserva e rappresenta con acutezza la

società sudafricana del suo tempo, ed insieme indaga la psicologia ed il comportamento dei

personaggi, non esclusa - non è un dettaglio minore - la vita sessuale, svolgendo il racconto con uno

stile di classica fattura, ma talora un po’ complesso.

4) Note sui romanzi successivi

Dopo “Nessuno al mio fianco” (1994) la Gordimer pubblica altri quattro romanzi, all’ultimo dei

quali, Ora o mai più” (2012), dedicheremo uno spazio più abbondante, mentre per quelli intermedi

ci limitiamo a brevi note.

“Un’arma in casa” (1998) non è un giallo, benché al centro ci sia un omicidio, e una buona metà

del romanzo sia dedicato al processo. Duncan, un giovane architetto, ha ucciso un amico sorpreso a

letto con la sua ragazza, usando la pistola che i genitori tenevano in casa per un’eventuale difesa. I

genitori assistono al processo, scoprendo nel figlio lati di cui non si erano mai resi conto, e

ripensando al loro metodo di educazione. Vi compaiono tanti temi cari alla Gordimer, compresi

quello del razzismo [che l’avvocato del figlio sia un nero è per qualcuno un problema], e quello

dell’identità sessuale.

La coppia del romanzo “L’aggancio” (2001) sono una ragazza bianca, ricca, insofferente del

proprio ambiente privilegiato, Julie, ed un arabo immigrato, povero ma colto, Ibrahim. A partire dal

loro primo incontro in un garage di Cape Town, le sorprese non mancano. Quando Ibrahim è obbligato a tornare al suo paese, Julie, sorprendendo tutti, decide di seguirlo. Quando poi Ibrahim è

pronto ad emigrare negli Stati Uniti, la ragazza, che ha lottato per essere accettata dalla nuova

famiglia mussulmana, decide invece di restare.

In “Sveglia!” (2006) il protagonista, Paul Bannerman, giovane direttore di un’associazione

ambientalista sudafricana, è costretto ad un forzato isolamento da un cancro alla tiroide, che

richiede cure di tipo radioattivo. Abbandonando temporaneamente la moglie e il figlio, si trasferisce

in casa dei genitori, dove ha trascorso l’infanzia, ed ha tempo e modo di riflettere sulla sua vita. Al

ritorno tra i famigliari e nella realtà complessa del lavoro, si rende conto che le cose sono cambiate.

5) “Ora o mai più” (2012)

Si tratta dell’ultimo romanzo della Gordimer, la quale in un’intervista rilasciata poco dopo la

pubblicazione, dichiarò: “Ho un cancro al pancreas e mi procura molto dolore. Quando ho

scritto il mio ultimo romanzo non lo avevo, non era ancora incominciato, e quello che ho

scritto non ha nulla a che vedere con la malattia. La mia energia era immutata, e anche la mia

attività intellettuale. Guardavo alla vita come ho sempre fatto. Non so quanto riuscirò a

parlare. Non mi sento molto bene.”

Il titolo inglese, “No Time like the Present”, oltre alla traduzione dell’edizione italiana Feltrinelli

[“Ora o mai più”], potrebbe anche tradursi con “Il momento è adesso”. Questa espressione è

riportata più volte nel romanzo, come una reminiscenza delle letture fatte da un personaggio, il nero

“Baba”, il quale ha potuto, eccezionalmente, leggere i libri della biblioteca pubblica, quando ai neri

ciò non era consentito. Egli, “preside di una scuola per bambini neri nel villaggio”, la utilizzava,

come se fosse una “vecchia massima da sussidiario”, per richiamare gli alunni e i figli, quando

tendevano a rinviare i loro doveri o i loro impegni, e l’aveva presente anche quando ha deciso di

mandare la figlia Jabu a studiare fuori dal Sudafrica, per offrirle l’occasione, praticamente

impossibile in patria, di una formazione e crescita personale veramente matura.

Applicata al romanzo nel suo insieme, l’espressione può assumere più di un significato: potrebbe

alludere, in piccolo, all’occasione appena citata degli studi all’estero di Jabu, oppure, potrebbe

riguardare, in grande, la “rivoluzione” del periodo di Mandela e del dopo-Mandela, da sostenere e

rinforzare, nonostante le difficoltà permanenti di carattere politico, economico ed anche razziale,

oppure ancora, potrebbe riferirsi al proposito finale (che sembra poi non realizzato) dei due

protagonisti, Steve e Jabu, di trasferirsi dal Sudafrica in Australia, per la delusione di una

rivoluzione non pienamente compiuta.

La vicenda del romanzo, pur richiamando, in generale, la storia recente del Sudafrica, abbraccia,

in particolare, gli anni dal 2004 al 2009, cioè dall’abolizione dell’apartheid alla vigilia dell’evento

“mondiale” di celebrazione e di augurio, avvertito come il riconoscimento internazionale della

nuova realtà socio-politica del Sudafrica, cioè i Campionati del mondo di Calcio di Johannesburg

del 2010 [“ < L’anno prossimo abbiamo i Mondiali, già tanta eccitazione… gli stadi in

costruzione, gente… >”].

I protagonisti del romanzo sono fondamentalmente due, ora marito e moglie: Steve, un bianco di

madre ebrea ma di famiglia laica (i benestanti Reed) [“…Suo padre era un gentile, laico,

ufficialmente cristiano praticante, sua madre ebrea…”], e Rebecca Jabulile, detta Jabu, una

nera, zulu, profondamente radicata nella tradizione africana [“…battezzata nella chiesa metodista

di cui uno dei suoi nonni era stato pastore, suo padre, preside di una scuola per bambini neri

nel villaggio…”].

I due, con un passato di clandestinità e di carcere, sono rientrati in Sudafrica dallo Swaziland,

dove entrambi hanno partecipato attivamente ai movimenti di “Lotta”, e di organizzazione armata,

contro l’apartheid, e dove si sono conosciuti e si sono sposati. Lui vi si era recato in più di un’occasione durante gli studi universitari, con il proposito, appunto, di dare concretamente il

proprio contributo di sudafricano bianco ma contrario alla politica di segregazione, mentre lei -

come abbiamo già detto - vi era stata mandata a studiare dal padre (il “Baba”). Il rientro

dall’“esilio” avviene, dapprima in forma semiclandestina, a Glengrove Place,

Il breve capitolo introduttivo comincia appunto con le parole “Glengrove Place.”, che è un

quartiere periferico di Johannesburg. Nello stesso capitoletto, di soli sei paragrafi, tre cominciano

rispettivamente con “Lei era nera, lui era bianco.”, “Lei era nera,”, e “Lui era bianco.”, ad

indicare una condizione di “colore della pelle”, che ha segnato, anche tragicamente, la storia del

Sudafrica, e che in qualche modo perdura nonostante la liberalizzazione dei primi anni Novanta.

Steve e Jabu passano presto ad una sistemazione più decorosa, in un “Quartiere residenziale”,

presentato come un piccolo microcosmo, dove c’è anche una comunità di omosessuali, i “Delfini”,

tutti comunque progressisti, che frequentano una piscina, attorno alla quale talvolta la gente brinda

per le feste [uno dei “Delfini”, Marc, che è un artista, un giorno si presenterà però sposato con una

donna].

Il rientro dovrebbe portare, sia pure gradualmente, ad una vita “normale”, ma non tutto riesce

appieno, perché ci sono le differenze culturali, e perché la democrazia non si realizza nel modo che

avevano sognato [E’ significativa questa annotazione: “In quello che è conosciuto come il nuovo

ordinamento del paese tutto esplode, e poi si trascina, divenuto in un modo o nell’altro

quotidianità. Il paese vive la sua adolescenza.”. Invece, in un confronto di Jabu con suo padre,

accanito sostenitore del nuovo presidente del Sudafrica, eletto nel 2009, Jacob Zuma, già accusato

di corruzione, racket, evasione fiscale e stupro, la figlia denuncia la “democrazia senza

opposizione” e la megalomania di un dittatore che ha speso “una fortuna per una delle sue case in

cui passerà solo pochi giorni all’anno, mentre non si raggiunge neanche lontanamente

l’obiettivo degli alloggi promessi alla nostra gente che abita nelle baracche.”]. Comunque,

Steve e Jabu svolgono lavori che assicurano loro una vita più che discreta, hanno due figli, e

tengono contatti e relazioni sia con ex-compagni di Lotta sia con gente conosciuta successivamente.

Jabu, che ha cominciato col fare l’insegnante, diventa poi avvocato. Continua la sua vocazione

di donna politicamente e socialmente impegnata, dedicandosi alla difesa dei diritti dei deboli e degli

sfruttati, impegnandosi con convinzione al Centro per l’assistenza legale. La fama e la stima, di cui

gode, le consentono di essere assunta, sia pure a tempo parziale, anche in uno studio legale

affermato, che assicura una più alta retribuzione.

Steve, che ha compiuto studi di scienze, dapprima si occupa, nel campo chimico, di vernici, ma ha

sfruttato le sue conoscenze tecnico-scientifiche per la confezione di materiale esplosivo durante il

periodo della “Lotta”. E’ poi passato alla carriera accademica come professore associato nella

facoltà di Scienze all’università, curando studi, che lo segnalano per la loro validità.

C’è un lungo capitolo del romanzo che riguarda la partecipazione di Steve, come delegato del

Preside, ad un Convegno scientifico di studi ambientali, a Londra, dove egli, ancora poco

conosciuto a livello internazionale, incontra scienziati di varie nazionalità e di varie

specializzazioni, che discutono sulle tossine presenti nella produzione industriale e nei prodotti

domestici. Da rilevare, in particolare, che egli entra nelle grazie proprio della guida addetta alle

relazioni umane, incaricata di rispondere alla richieste degli illustri ospiti. Si tratta di una donna [il

nome, Lindsay Wilson, viene inizialmente scambiato come nome maschile], efficiente ed

autorevole, la quale durante l’intervallo del Congresso, di fine settimana, invita Steve in una

residenza di campagna di proprietà della famiglia [“una vecchia fattoria inglese usata come casa

per il weekend”, con annesso un “mulino”, utilizzabile per la notte quando sono in molti], dove i

due trascorrono ore rilassanti a contatto con la natura, e vivono poi una notte d’amore, che appare

come un episodio singolo, anche se appassionato: “Una realtà fuori dalla realtà. Reale solo in se

stessa”.

Steve e Jabu hanno una figlia e un figlio. La maggiore, Sindiswa, detta Sindi, nata durante il

periodo della clandestinità, cresce da ragazzina aperta al mondo, e frequenta con profitto una scuola

mista. Il minore, Gary Elias, sente di più l’attaccamento alle tradizioni e l’orgoglio dei maschi,

sceglie la scuola di soli maschi, e ed è quello che viene più spesso e più volentieri, durante la

vacanze, al villaggio materno, dove trova amici con cui fa combutta.

Nella parte finale del romanzo, quando si prospetta il trasferimento della famiglia in Australia,

entrambi non hanno difficoltà a pensare alla nuova vita, nonostante un po’ di nostalgia per le

amicizie che debbono lasciare: basti vedere la gioia con cui Gary Elias sogna la bicicletta nuova,

che ha visto in una fotografia di quella casa che potrebbe diventare la loro in Australia.

Fa parte, in pratica, della famiglia, anche se è solo l’aiutante di casa, una donna nera, Wethu, che

risiede in una specie di cottage ricavato dal pollaio, e che si dimostra fedele, tanto che, quando si

parla del possibile trasferimento in Australia, si discute se portare anche lei.

Se ci spostiamo sulle famiglie d’origine di Steve e Jabu, e sui loro reciproci rapporti, troviamo

nella donna, in Jabu, una corrispondenza molto più profonda e un clima di condivisione più marcato

con i propri parenti e con la gente del villaggio zulu, da cui è partita, e a cui ritorna periodicamente.

Ella, pur essendosi, per così dire, emancipata, grazie anche all’esperienza di studio e di lotta politica

all’estero, sente ancora vivo il legame, che potremmo definire tribale, con i famigliari, e soprattutto

con il padre, Elias Siphiwe Gumede, chiamato familiarmente il “Baba”. Al villaggio è accolta

sempre con affetto, e con una specie di ammirazione, ma sono singolari gli incontri con il padre,

“Anziano della chiesa metodista e Preside della scuola maschile”, un uomo autorevole, anche se

di poche parole, che ha ancora una certa influenza sulle scelte della figlia.

Steve invece tiene rapporti più formali con la famiglia di Jabu, e con i propri genitori, Andrew e

Pauline, i quali, più razionale il padre e più “artista” la madre, sono comunque disposti ad accettare

le scelte di ciascuno dei figli, in particolare la militanza di Steve e l’omosessualità di Alan, il

minore, “purché lui sia felice”. Di Alan va anche detto che è l’unico dei tre fratelli, ad avere

passione per l’arte e per la poesia. Del secondo fratello, Jonatha, rimasto legato alla tradizione

ebrea della famiglia, ricordiamo che coinvolge un giorno, con un invito inatteso, Steve e Jabu alla

celebrazione del “bar mitzvah” di suo figlio Ryan: si tratta di una cerimonia di iniziazione, con cui

il ragazzo ebreo, raggiunta l’età richiesta, promette solennemente di essere fedele al giudaismo e

viene ammesso a partecipare all’intera vita della comunità. Particolare curioso: alla cerimonia nella

sinagoga, Jabu è l’unica donna nera presente.

Tra i “compagni” della Lotta, che vivono questo momento di tormentato passaggio alla

democrazia, citiamo Jake, che, quasi a dimostrare che neanche con la pace si è debellata la

violenza, subisce una grave lesione alla spina dorsale a causa di un’aggressione, e che esprime la

sua amarezza per i ritardi e la mancanza di tensione morale, con un gesto, “quell’altro gesto di

Jake, il braccio allargato, rinvii, rinvii, rinvii, la cosa finirà dimenticata.”

Tra i colleghi d’università di Steve troviamo Lesego, professore di Studi africani, un docente nero

di una disciplina insegnata una volta da professori bianchi. Egli fa anche parte di un’associazione

che difende i profughi che arrivano da altri Stati africani, che hanno trasformato “la loro

liberazione in una lotta per il potere con la propria gente”.

Ad un certo punto si prospetta per Steve e Jabu l’eventualità, o l’opportunità, di lasciare il

Sudafrica, con tutta la famiglia. Steve potrebbe ottenere abbastanza facilmente un incarico

universitario a Melbourne. Più problematico forse l’inserimento di Jabu nel mondo delle aule

giudiziarie. Nell’animo dei due sudafricani, ancora relativamente giovani, si è insinuata, sia pure

con differente motivazione e consapevolezza, una specie di delusione perché la libertà non ha

portato il Paese ad un sistema di vita democratico veramente positivo. Anche se nell’animo dei due

ex militanti della Lotta rimangono, come imperativo morale, i germi dell’impegno per una società

più giusta, forse il passato non è del tutto passato, ed il corso della storia può prendere altre vie.

[[ Gli aspetti della “rivoluzione” non completa sono molteplici.

Vi sono deprecabili residui di razzismo, magari alla rovescia [La “Discriminazione Positiva”], nel

senso che si manifestano veri o presunti favoritismi verso i neri. Ad esempio, a proposito degli studi

universitari, agli studenti neri è concesso di accedere senza i titoli adeguati, con la conseguenza che

i loro “Esiti”, i loro diplomi, non hanno un giusto riconoscimento: “< … dove sta il

‘miglioramento’ nel far laureare studenti che affronteranno una professione senza gli

strumenti per fare il lavoro che dovrebbero fare? Che senso ha? Così la gente sarà felice di

dire: visto, stupidi neri! Significa perpetuare l’idea razzista della ‘inferiorità del cervello dei

neri’, è apartheid agghindato da Black Economic Empowerment >”]

Vi sono giochi di potere, disorganizzazione, disservizi, tanto che delle nuove generazioni si pensa

che cosa faranno “della farsa in cui si sta trasformando la libertà”.

Vi sono voci diffuse, ma anche episodi concreti, di corruzione e di scandali, che coinvolgono

spesso personaggi di primo piano [Una lamentela denuncia “sentenze che riguardano ministri e

funzionari pubblici di rilievo influenzate a loro favore dal governo.”. Una voce ti invita a dire le

cose come stanno [“chiama la corruzione con il suo nome”, ed un’altra si augura che cambi “la

storia dei condoni per gli amici”].

Vi sono sacche inestinguibili di povertà [“lavoratori che prendono uno stipendio pari al

prezzo dei sigari di un ministro”], e la disoccupazione fa spavento [“Il 23 per cento di

disoccupazione a livello nazionale, e senza contare i tizi la cui occupazione è farti fare

manovra ai parcheggi…”].

Vi sono tensioni sociali, che sfociano in scioperi e manifestazioni: “Gli scioperi, sono loro il

datore di lavoro negli ultimi mesi, telecomunicazioni, trasporti, elettricità, tutti i servizi

pubblici dai netturbini in su, si stanno impadronendo del paese con i blackout e le strade in

cui non si può andare sono loro a comandare dimostranti a tempo pieno…” ]]

In verità, la prospettiva di abbandonare il Sudafrica per l’Australia non è affrontata da Steve e

Jabu a cuor leggero, o con egoismo, come se essi avessero ormai scelto la strada tranquilla della vita

privata. Si capisce, infatti, che essi si pongono la domanda se il lasciare il Sudafrica risponde ad una

giustificata buona ragione professionale e di condizione di vita, o se non corrisponde magari ad un

tradimento dei loro ideali.

Più disinvolta e spontanea, nonostante qualche naturale rimpianto tipico dei ragazzi, è la reazione

dei figli, per i quali il nuovo affascina sempre.

Le ultime parole del romanzo [“Il momento che contiene una vita. < Io non vado. >”]

sembrano dire che alla fine Steve e Jabu, con i figli, non partono per l’Australia, ma restano in

Sudafrica, come del resto ha fatto nella sua vita la Gordimer, che ha deciso di non trasferirsi,

nemmeno nei momenti di maggior difficoltà, in un altro Paese.

In questo romanzo “ancora una volta la Gordimer dimostra di essere una narratrice

magistrale, all’apice delle sue capacità”: sintesi condivisibile di un giudizio su un romanzo scritto

alle soglie dei novant’anni. Lo sfondo è realistico [“sguardo scrutatore, fisso, attentissimo”: scrive

il Daily Telegraph]. La Storia e le storie si intrecciano, mostrando valori, promesse e delusioni, luci,

ombre e sfumature. Si possono cogliere l’amore per la libertà, civile e personale, per la verità, laica

e rispettosa, per la vita, in tutte le sue manifestazioni, dalla riservata interiorità alla naturale ed

esplicita sessualità.

Va anche detto che vi è, nel romanzo, una ricchezza straordinaria di particolari, di annotazioni, di

giudizi, e che, per commentarlo, si può partire da punti di osservazione diversi. E prevale la

sostanza sulla decorazione: l’uso degli aggettivi è molto parco, e le immagini e le similitudini non

eccedono mai. Ne basti una, che si trova in una pagina verso la fine: un vecchio pianoforte

rovesciato per terra in mezzo ai tasti bianchi strappati è paragonato ad “una creatura che ha perso

i denti.”

Forse si richiede un po’ di pazienza per adattarsi allo stile asciutto ed allusivo, raffinato e

complesso. Talvolta nella stessa frase bisogna capire che cambia il soggetto, oppure nei dialoghi

bisogna individuare il susseguirsi delle voci. Talvolta la pagina quasi esige che venga riletta, per

assaporarne lo spessore.

6) Raccolte di racconti

Le principali raccolte di racconti, pubblicate dopo il 1990/91 sono tre: “Il saccheggio”(2003),

“Beethoven era per un sedicesimo nero” (2007) e “Racconti di una vita” (2010). Ci accontentiamo

di pochi riferimenti.

6 a) “Il saccheggio” (2003)

Sono testi composti prevalentemente nel tempo del ritorno del Sudafrica a una nuova stagione di

speranza, con la fine dell’apartheid e l’ascesa di Nelson Mandela. Resta un passato con cui fare i

conti e che, nonostante la svolta, mostra ancora ferite, traumi e contraddizioni non risanate.

Sono dieci racconti, i più di taglio realistico e qualcuno con aspetti visionari o simbolici. Ne

citiamo tre.

“Il saccheggio”, che dà anche il titolo all’intera raccolta, e che richiama “La Tempesta” di

Shakespeare, rimanda a uno scenario quasi biblico. C’è una catastrofe, un terremoto “il più

violento mai rilevato da quando siamo in grado di misurare i presagi apocalittici”, che fa

ritirare le acque, in modo che “lo strato più segreto del nostro mondo rimase scoperto sul fondo

del mare”. E ci sono i sopravvissuti che in questo “nudo silenzio” saccheggiano tutto quello che

trovano. Ma la Gordimer propone “un’inversione di rotta all’immaginazione”, con la figura epica

di un uomo che corre come gli altri, ma solo, ed invece di prendere, cerca fino a che trova quel

“certo oggetto”, che ha sempre desiderato per tutta la vita ed “è come se l’impossibile fosse

vero.”

Sorprendente è “Somiglianze”, in cui incontriamo dei barboni insediati negli spazi verdi di un

campus universitario. Non ci sono difficoltà ad accettarli, ed anzi alcuni professori si uniscono a

loro, anche il prof. Jepson: “Jepson, il professor Jepson, che non solo aveva una reputazione

internazionale di fisico nucleare ma era anche venerato dai ragazzi come il membro della

facoltà su cui si poteva sempre far affidamento per difendere i diritti degli studenti contro

l’autoritarismo, il nostro vecchio prof., il nonno illuminato di tutti quanti, camminava per il

corridoio sbottonato, sporco, con le pupille dilatate, inconsapevole di noi che ci ritraevamo, in

silenzio, per lasciarlo passare”. Però col passar del tempo appaiono invadenti e fastidiosi, ed una

mattina, all’improvviso, non ci sono più: “Se n’erano andati da sotto i cespugli e da dietro le

tribune, o qualcuno aveva trovato il odo di liberarsi di loro. Ma sono sempre con noi.

Semplicemente altrove.” Allegoria di una pacifica, ma difficile, convivenza nel nuovo Sudafrica?

Non abbiamo spazio per esaminare nei particolari il racconto “Come da protocollo”, una storia

d’amore tra il sottosegretario Chabruma, africano, e Roberta Blayne, di origine inglese, funzionaria

di un’organizzazione umanitaria internazionale. Oltre al tema della sessualità, vi sono quelli del

colonialismo e della differenze di culture.

6 b) “Beethoven era per un sedicesimo nero” (2007)

E’ singolare il titolo della raccolta, che è anche quello del primo racconto. Il paradosso vuole

indicare il cambiamento di cultura, che si sta verificando in Africa e nei rapporti con l’Africa. Se un

tempo tutti desideravano avere almeno una goccia di sangue bianco nelle vene, oggi al contrario,

avere almeno un sedicesimo di sangue di colore può essere un indice di nobiltà sociale. Nei

racconti si intrecciano i problemi del Sudafrica con quelli delle persone, i rapporti di coppia, i lutti, i

tradimenti, la solitudine… Anche qui tre citazioni.

Nel primo racconto, “Beethoven era per un sedicesimo nero”, il professore di biologia Frederick

Morris dell’università di Johannesburg ripercorre la propria storia familiare, soffermandosi, tra

l’altro, sul bisnonno, un bell’uomo, che si affermò nel mondo delle gemme ad Amsterdam e non

fece mai più ritorno in Africa. Nell’ultima pagina leggiamo questa considerazione: “Dunque, io da

dove vengo. Qual è il punto di tutta questa storia. Discutibile. Di che genere di rivendicazione

hai bisogno? Gli standard del privilegio cambiano con ogni regime… Uno scalino in più verso

la classe dirigente, qualsiasi essa sia. Un sedicesimo… Una volta c’erano neri che, poveracci,

volevano rivendicare il loro essere bianchi. Adesso c’è un bianco che, poveraccio, vuole

rivendicare il suo essere nero. Il segreto è lo stesso.”

Nel racconto “Sognando i morti” troviamo un chiaro riferimento personale della Gordimer, che

si ritrova, sognando, attorno al tavolo di un ristorante cinese a discutere di problemi attuali [la

politica del Medio Oriente e dell’Europa dell’Est, la condizione della donna nel tempo…] con tre

amici ormai scomparsi, il critico letterario Edward Said, il giornalista inglese Anthony Sampson e la

nota scrittrice Susan Sontag. I tre amici svaniscono, lasciano il tavolo, dove rimane il vuoto di

un’attesa delusa: “Da sola nel ristorante cinese… Sono rimasta seduta al tavolo, tu non sei

arrivato, troppo tardi. Non verrai. Mai”

Tutta particolare è la trilogia finale che, dietro il titolo complessivo, “Finali alternativi”, presenta

tre storie, indicate come “Il primo senso”, “il secondo senso”, “Il terzo senso”. In ognuna,

attraverso uno dei sensi (vista, udito e olfatto) i protagonisti scoprono il tradimento del partner.

Lapidaria è nel terzo dei racconti l’espressione: “Annusa su di lui l’odore di un’altra donna”.

6 c) “Racconti di una vita” (2010)

Di quest’ultima raccolta, che è una breve antologia di tutti i racconti della Gordimer, sono solo

due quelli dell’ultimo periodo. Nel primo, “Tassa sul parcheggio”, troviamo che il vasto campo

dell’economia può prevedere anche forme elementari di occupazioni spicciole, come calzolaio,

parrucchiera o rivenditore di cianfrusaglie, che consentono di campare senza restare inoperosi. E’ il

cosiddetto “Settore Informale”, che riduce il numero dei mendicanti, e coinvolge chi lo sceglie in

una qualche responsabilità. La “Tassa sul parcheggio” è quella… mancia che versano gli

automobilisti a coloro “che indicano alle macchine la via verso un parcheggio libero” e che si

producono in un “repertorio di gesti, avvertimenti, incoraggiamenti perché il guidatore arrivi a

occuparlo con successo”. Anche lì c’è chi organizza gli spazi in modo che ciascuno abbia la

propria area, e “lui” si è riservato il posto privilegiato davanti alla chiesa. “L’uomo” ha stabilito

buoni rapporti con i clienti, e, in particolare, ad una giovane coppia “che caso vuole è bianca”

assicura il posto ma anche chiede un aiuto di scarpe o vestiti dismessi. Ma nel periodo di Natale

l’uomo trova qualche lavoretto nei negozi, per poi ritornare al parcheggio. Nel secondo, “La

Seconda Venuta”, un Cristo in jeans arriva in Africa, ma si trova deluso, come dimostrano anche le

ultima parole del racconto: “Il mare è morto”.