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1 GRABIAN DI FERDINANDO TOL JARI

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GRABIAN

DI

FERDINANDO TOL JARI

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Nota dell’autore. Caro lettore, dire che il romanzo offerto è completamente gratuito non è del tutto esatto. Infatti, benché il racconto sia un dono di libero accesso offerto a tutti coloro che ne vorranno usufruire, ciò che si chiede in cambio è una piccola percentuale di pazienza. Se è vero, come presumo, che ad ognuno di noi sia capitato almeno una volta di acquistare un libro solo perché ben presentato o troppo pubblicizzato, per poi accorgersi che lo stesso non era di suo gradimento non riuscendo ad andare oltre le prime pagine, ritengo che se tu, amico lettore, avrai un po’ di pazienza e riuscirai ad andare oltre ciò che può sembrare in principio confuso, troverai in fine che c’è un senso a questo apparente caos. Forse, troverai anche possibile porre riflessioni che non hai mai considerato, e magari resterai soddisfatto di aver concesso questo breve periodo di pazienza… Solo dopo, e solo se riterrai che il racconto ti abbia comunicato qualcosa e che sia valsa la pena di leggerlo fino in fondo, potrai, se lo desideri, dare un libero contributo in cambio… Qualunque sia la tua scelta e il tuo giudizio, comunque, io ti ringrazio di essere passato di qui concedendomi uno spazio del tuo tempo… In qualunque modo, io ti auguro, “buon viaggio”… ciao, Ferdinando.

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GRABIAN “il grande bianco”

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“GRABIAN – IL GRANDE BIANCO” Di Ferdinando Tol jari

Benché alcuni luoghi citati nel racconto siano geograficamente esistenti e molti degli eventi storici cui si fa riferimento realmente avvenuti, questa rimane un’opera di fantasia. Personaggi, luoghi e avvenimenti specifici sono immaginari. Fatta eccezione per i contesti geografici o storici in cui parti del racconto vengono inseriti, qualsiasi rassomiglianza o riferimento con persone, cose, fatti o località esistenti o esistiti, è puramente casuale. I° Pubblicazione. Finito di scrivere Settembre 2011. © Copyright, Ferdinando Toaiari. Tutti i diritti riservati. Ogni riproduzione, anche parziale e con qualsiasi mezzo, deve essere preventivamente autorizzata dall’autore.

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Dedica. Inizialmente per questo racconto non erano previste dediche particolari, ma nel proseguo dello svolgimento si è manifestata con sempre più intensità la necessità di riconoscere e rendere quindi omaggio alla fonte di ispirazione da cui ha preso spunto l’intero racconto. Non racconterò attraverso quali sorgenti di rivelazione mi sia poi giunta l’esigenza di onorare questa fonte ispiratrice, limitandomi a dire che si tratta di un elemento che ha contribuito in modo particolare a formare la mia creatività. Per tali ragioni ho ritenuto che fosse corretto citare questa fonte e renderle quindi il tributo meritato inserendola come un soggetto praticamente protagonista del racconto stesso, unico elemento reale al quale mi sento in dovere di porre un ringraziamento caratteristico. È d’obbligo quindi fare ora una lieve rettifica alla nota riguardante le allusioni ai luoghi e personaggi di fantasia che compongono questo racconto, rivelando che non tutto è irreale. Esiste, infatti, un fiume denominato “Tregnon”, sulle rive del quale era mia abitudine passeggiare. Non è semplice spiegare in quale modo poi giungano le ispirazioni da cui prende spunto un racconto o un qualsiasi altro principio di creatività artistica, ma la fonte primaria attorno a cui poi tutto ha preso a girare in questo racconto è giunta proprio da quel fiume che tanto ha significato per me negli anni di esplorazione in un età ormai lontana. Ecco perchè desidero rendere omaggio a questo fiume, dedicando a lui il racconto. Al fiume Tregnon, che con i suoi molteplici aspetti ha contribuito alla mia formazione creativa…

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“Ieri ho sognato un giardino. Nel sogno con me c’era un uomo. Lui mi girava le spalle, solo perché non vedessi il suo viso…” Ivan Graziani, “Fuoco sulla collina” “Perché a volte è così difficile spiegare il comportamento di certe persone? Perché non si tiene conto abbastanza del fatto che un essere umano è la somma di tutte le creature che egli porta in sé, ignorando il più delle volte chi siano quelle creature e cosa vogliano realizzare attraverso lui." Omraam Mikhaël Aïvanhov "L’essere umano è disceso dalle regioni celesti attraverso un processo chiamato “involuzione”. Via via che procedeva in questa discesa nella materia e si allontanava invece dal Fuoco primordiale, si è caricato di corpi sempre più densi, sino al corpo fisico; esattamente come quando in inverno, dovendo affrontare il freddo, siamo costretti a indossare vestiti sempre più pesanti, partendo dalla maglia e dalla camicia, sino al cappotto! Per riprendere ora il cammino verso l’alto, l’essere umano si deve svestire, simbolicamente parlando, spogliarsi di tutto ciò che lo appesantisce: invece di cercare di accumulare, deve imparare a rinunciare, ad alleggerirsi, a liberarsi. È l’accumulo che favorisce la discesa. Ogni pensiero, sentimento o desiderio ispirato dall’istinto di possesso viene a incollarsi ai suoi corpi sottili come fa la brina sui rami degli alberi in inverno. Occorre che il sole della primavera ricominci a brillare perché la brina si sciolga e l’uomo ritrovi il suo vero essere." Omraam Mikhaël Aïvanhov

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Prologo Non è mai stata mia abitudine alzarmi presto la mattina, fatta eccezione per quando mi capita di avere degli incarichi. Nel mio lavoro ci si può permettere lunghi periodi di riposo perché ogni incarico equivale ad un compenso prestigioso. Certo non è un lavoro che chiunque può fare e in alcuni casi lo si potrebbe definire anche pericoloso. Io comunque ho imparato a selezionare, comprendendo con l’esperienza che in questi tempi certi rischi possono essere evitati. Per tale ragione e soprattutto perché ho indirizzato la mia attività verso casi di tipo extraconiugale, tradimenti, infedeltà e altre similari imprese, posso dire di essere uno che non rischia molto e guadagna bene, visto che chi richiede i miei servigi, spesso, fa parte di una categoria di persone facoltose. Eppure, non è da tutti poter guadagnare addirittura senza neppure dover esercitare, ma quando questo avviene, riesce difficile sottrarsi alla tentazione del facile profitto, mancando di valutare che in questo mondo nulla viene elargito senza dover dare qualcosa in cambio. Ciò nonostante, tale condizione non sembrava sussistere quando quella mattina, pur essendo privo d’incarichi, mi svegliai di buon’ora… ovviamente, non per mio volere. Avevo sentito suonare il campanello, ovvero, avevo sentito un ronzio fastidioso dal sapore elettrico penetrare la mia mente senza sogni, tanto era profondo il mio sonno, e ritardai ad alzarmi perché lo svegliarmi d’improvviso causava in me notevoli difficoltà a destarmi senza qualche minuto di stordimento. Anzi, senza nemmeno degnarmi di imprecare, mi ero voltato dall’altra parte e chiudendo gli occhi avevo rischiato di addormentarmi di nuovo, se il fastidioso ronzio elettrico non si fosse fatto più insistente. Aprendo a fatica gli occhi, osservai la sveglia. Suppongo che per qualunque persona comune le nove non siano considerate un orario troppo mattiniero, ma io non mi consideravo in quella fascia di persone ordinarie abituate ad alzarsi presto anche quando non lavorano e questa volta il privilegio di un’imprecazione non me lo negai. Ad ogni modo ero ormai sveglio, seppure non abbastanza da permettermi movimenti rapidi e scattanti, anzi, se vi fosse stato qualche involontario osservatore a scrutarmi, quelli che mi avrebbe visto fare sarebbero sicuramente parsi più movimenti da bradipo che da essere umano, e in tale mala voglia mi apprestai a scendere fino alla porta. Ma fui probabilmente veramente lento, così, quando aprii non trovai nessuno ad attendermi ma solo un pacco lasciato sui gradini e una busta che un presunto fattorino con altre consegne da fare, e sicuramente più impegnato di me, doveva aver lasciato per proseguire il suo giro. Non vi era mittente ma solo l’indirizzo del destinatario, vale a dire il mio. Lo presi e, dopo una veloce analisi senza convinzione, tornai in casa posandolo distrattamente sul tavolo, quindi accesi la radio per ascoltare le notizie del giorno e successivamente uscii per andare a fare colazione in un bar vicino a casa. Fu quindi solo dopo un paio d’ore quando, rientrato, mi dedicai al plico che se non fosse rimasto in vista sul tavolo forse avrei perfino dimenticato. Pensai che doveva trattarsi di una proposta di lavoro, indagine nel mio caso e, siccome trattavo la mia attività con una certa vanità, non mi entusiasmai più di tanto nel doverlo esaminare. Ancor prima di aprirlo considerai che dentro doveva esservi una relazione eseguita dal committente e ponderai con noia se fosse il caso di visionarla. Non perché non fossi interessato ad un eventuale ingaggio, ma piuttosto perché il pacco, imballato con della semplice carta grigia di seconda mano, era piuttosto consistente e voluminoso. Sovente avveniva che qualcuno fornisse relazioni scritte dei suoi sospetti, ma non mi era mai capitato di trovarmi di fronte ad una così spessa documentazione. Certo, pensai, le condizioni potevano essere due: o si trattava di un paranoico, o di qualcuno veramente ricco. Ad ogni modo, ad alleviare la mia preoccupazione, vi era una semplice busta che probabilmente introduceva il lavoro, e così decisi di dedicarmi alla lettera stabilendo dalla più semplice presentazione, se era il caso di approfondire o no. La busta era chiusa con un esibizionistico sigillo in ceralacca scarlatta che faceva pensare alle lettere nobiliari dell’epoca del romanticismo che però, in uno come me, suscitò solo una scontrosa ironia, sicuramente in contrasto con la probabile intenzione teatrale che l’oscuro committente doveva aver supposto di produrre. Presi la lettera tra le mani e, facendo pressione con i pollici, spezzai il sigillo. La ceralacca s’infranse con facilità senza opporre alcuna resistenza, ma qualcosa, forse il lieve rumore simile alla plastica dei vassoi dei cioccolatini, o i fragili frammenti di briciole rosse che caddero sulla superficie del tavolo, o

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quell’odore che fino ad ora avevo sentito solo attraverso la cera delle candele, mi provocarono una sorta d’emozione che per un istante mi condusse a dubitare sulla mia carenza di romanticismo. Ricomposi la mia dignità e ignorando con decisione l’inopportuna debolezza sentimentale tirai fuori un foglio di carta piegato in tre lati come se lo stesso formasse una seconda busta. Lo guardai con una certa diffidenza prima di aprirlo, scoprendo, quando lo distesi, che vi era sempre meno romanticismo in ciò che stava avvenendo, ma decisamente, dal mio punto di vista, considerevolmente più apprezzabile. Senza nessuna costrizione, infatti, dal foglio piegato a busta scivolarono fuori due banconote da cinquecento euro. Le guardai stupito, meditando su più possibili varianti d’inganno, quindi mi occupai del foglio sul quale non vi era nessuna introduzione, ma semplicemente un invito che diceva: “Questo solo per leggere la prima pagina della documentazione che segue. Se deciderà di leggere il resto, riceverà la stessa cifra per ogni pagina della medesima. Se deciderà di lasciar perdere, rimetta il pacco sulla soglia di casa sua prima di domani mattina. Se ciò non avverrà, riceverà sul suo conto bancario un bonifico relativo all’importo pattuito”. Rimasi esterrefatto a fissare l’inusuale ingaggio, anche se, a dire il vero, non vi era nessuna richiesta d’indagine e nessuna proposta di lavoro, se non quella di perdere qualche giorno per leggere… Guardai il calendario per assicurarmi che non fosse il primo di Aprile ma poi, ben consapevole che non era il giorno degli scherzi per eccellenza, per assicurarmi di ricordare bene il girono in cui, per non fare niente, avrei guadagnato così tanto. Era il primo giorno d’estate del 2025, ed era di Sabato. Per un attimo mi soffermai su una sensazione che tal volta mi coglieva con uno strano senso di smarrimento, come se mi capitasse di credere che quello in cui vivevo non fosse il mio tempo. Era qualcosa che avveniva soprattutto quando affrontavo il tipico brusco risveglio che avevo subito quella mattina, ma era anche un pensiero che spesso attribuivo alla mia condizione propria di vita e, per una strana coincidenza, per la prima volta intuii come tali sensazioni mi sorprendessero sempre con il preavviso di un odore immaginario che si manifestava nella mia mente, un’essenza particolare che solo in quel momento tuttavia riuscivo a definire. Si trattava di un profumo rimasto impresso nella memoria dall’infanzia che, seppure piacevole, era originato da una sorta di trauma che mi riconduceva al ricordo di quando da bambino, cresciuto ed educato in una famiglia rigidamente cattolica, venivo praticamente costretto a partecipare alla santa messa domenicale. Obbligo che detestavo e dove l’unica cosa che apprezzavo nell’angusta chiesa, era per l’appunto, il profumo della cera sciolta delle candele davanti agli altari. Ero nato nel 1971, in un periodo di cambiamenti in cui i tempi mutavano rapidamente senza quasi dare spazio a chi li viveva di rendersi conto di un passaggio troppo repentino tra l’antico e il moderno, e io spesso mi ero sentito come in una specie di limbo in cui non riuscivo né a mantenere il contatto con le tradizioni, né ad adattarmi al mondo tecnologico che si evolveva troppo rapidamente. Sorrisi, come per esorcizzare i ricordi e tornai quindi ad occuparmi dell’insolita offerta. I mille euro già consegnati erano solo per leggere un foglio, il primo, il che significava dover aprire il pacco e conseguentemente scoprire di che tipo di compenso si trattava. Strappai così la carta ordinaria che legava il plico, considerando comunque l’ipotesi di uno scherzo osservando la voluminosità del documento, vedendo subito senza sorpresa che le pagine erano numerate e stampate con caratteri ordinari che non avrebbero reso troppo impegnativa la lettura richiesta e istintivamente, ma professionalmente senza leggere nessuna riga non compresa nell’accordo, controllai il numero di pagine che lo componevano: 321. Feci un rapido calcolo, più per incredulità che per necessità. Semplicemente per leggere, qualcuno mi offriva trecentoventunomila euro. Più di quanto potessi guadagnare in cinque anni di lavoro e abbastanza, considerati i risparmi degli anni precedenti, per ritirarmi. Mi convinsi ancora di più che doveva trattarsi di uno scherzo perché nessuno sano di mente poteva pensare di spendere una cifra simile solo per far leggere una relazione. Comunque, non mancai di considerare che avrei potuto facilmente verificare se si trattava di un inganno, in quanto se il giorno dopo avessi trattenuto il plico, com’era scritto nella lettera, tale somma sarebbe stata depositata sul mio conto corrente. Non considerai nell’immediato chi potesse essere il misterioso cliente, valutando superficialmente che doveva trattarsi di qualcuno per cui già avevo lavorato. Erano molti i clienti che, per anonimia chiedevano di saldare i loro conti attraverso un bonifico bancario presso una banca svizzera che

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assicurava a me e a loro l’anonimato fiscale. Io dovevo solo provvedere a fornire le coordinate bancarie, ma in questo caso non vi era alcun indirizzo o telefono a cui comunicarle, per questo dedussi che si trattasse di un cliente che già in passato doveva essere rimasto soddisfatto dei miei servigi e di chi fosse quindi, non me ne preoccupai più del dovuto. L’unica cosa su cui ritenevo di dovermi concentrare, era che quei soldi erano solo per leggere, e se poi si fosse verificata l’esigenza di un’indagine e avessi ritenuto la cosa troppo rischiosa, non ero vincolato da alcun contratto. Cominciai pertanto, a leggere quel foglio che sicuramente mi avrebbe dato ulteriori istruzioni e possibilità di comprendere. Lo estrassi e lo osservai. Era scritto in caratteri piuttosto piccoli, differenti dal resto dei successivi fogli, ma la cosa non mi sorprese, giacché lì, dovevano essere descritte le modalità del contratto che avrebbe svelato ogni mistero. Tuttavia già l’inizio avrebbe dovuto condurmi a dubitare che in quella pagina avrei trovato istruzioni amministrative, dal momento che già le poche righe iniziali davano più il senso di un’introduzione narrativa piuttosto che un contratto d’ingaggio, che avrebbe forse dovuto farmi riflettere maggiormente su quanto, in un futuro non molto lontano, mi sarei trovato ad analizzare con più considerazione. La relazione, infatti, iniziava con una semplice parola scritta in grassetto al centro del foglio, come fosse un titolo, che citava banalmente:

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Avvertimento

1 “…Mi sento in dovere di avvisare, chiunque volesse ascoltare il mio racconto, di non sottovalutare la potenza dell’immaginazione, della fantasia o dell’illusione. Per questo è mio dovere consigliare di non essere avventati o superficiali e, nel caso doveste percepire dubbi, tormenti o insidie dopo aver inteso questo suggerimento, invitarvi a riflettere bene prima di proseguire. Mi sembra corretto dare questo avvertimento perché io stesso non so, di quanto mi accingo a raccontare, si possa considerare come realtà dei fatti descritti. Non lo so, perché di ciò che sto per esporre non sono certo di avere la totale cognizione. Ma è bene evidenziarlo fin dal principio perché la follia non è una cosa così scontata come può sembrare. Se per follia, infatti, s’intende una sorta d’anomalia che rende le persone diverse, qualsiasi cosa si consideri per diversità, io credo di non poter essere giudicato in questo modo, o per lo meno, non nella realtà e nella maniera in cui ho vissuto questi avvenimenti. L’inconveniente però sta proprio in questo, e in quanto tali avventi mi costringono a mettere in dubbio l’incolumità della mia mente. Una leggenda Peul dice che vi sono tre tipi di follia: la follia di chi possedeva tutto e ha poi improvvisamente perso tutto, quella di colui che non aveva nulla e che ha acquisito tutto inaspettatamente ed infine, il malato mentale. Se la mia è follia, allora, è in una di queste tre condizioni che la si può considerare, ma decidere se e quale possa essere, certamente, non sarò io a poterlo determinare. Forse, potrebbe stare addirittura in tutte e tre. Ciò nonostante, penso che vi sia un altro tipo di follia che tuttavia non sono in grado di descrivere e di cui posso dirvi solamente che è proprio da questa che vi voglio mettere in guardia. Il fatto è che molto spesso, in età infantile, mi capitava di chiedermi se tutto non fosse altro che un sogno e la realtà che stiamo vivendo il prodotto dell’immaginazione di un corpo apparente che sognava di esistere in una realtà prodotta dalla mente, allo scopo di cercare un’esistenza per la quale accettare di vivere, come se, per essere più precisi, avessimo la possibilità di vedere in anticipo la vita che ci attendeva e decidere quindi successivamente se viverla o no. Era un pensiero frequente perché mi capitava spesso di svegliarmi nel cuore della notte ansimando in preda ad un attacco d’ansia, ravvisando così d’essere stato vittima di un incubo e forse, nel timore che la paura degli incubi potesse non cessare mai, questi pensieri che mi concedevano una consapevolezza ingenua per la quale avrei potuto scegliere di non vivere una vita piena d’incubi mi aiutavano a superare la paura che essi mi lasciavano nella memoria. Comunque ci fu un periodo in cui, per il troppo ipotizzare questa possibilità, rischiai veramente di confondere la realtà con l’immaginazione e per molto tempo, nell’età infantile, ebbi il dubbio di non essere io stesso reale. Ricordo in particolare che un giorno, forse a causa proprio di questo mio stress da irrealtà, mentre me ne stavo solo nella mia stanza, ad un certo punto provai un senso di mancanza, come se le forze e le energie del mio corpo, per un piccolo breve istante, mi avessero abbandonato. Rammento che intorno a me tutto diventò di uno strano color giallo ocra, ogni cosa svanì, il suono si fece silenzio e tutto ciò che rimase fu quel vuoto giallo ocra. Fu tutto molto intenso e allo stesso tempo rapido perché, quando ripresi il controllo dei colori, ero sul punto di cadere. Ricordo che il mio corpo era proteso in avanti nella completa incoscienza di come avesse potuto trovarsi in quella posizione e pensai che ero stato sull’orlo di uno svenimento. Ma non avevo fatto in tempo a cadere al suolo, perchè l’istinto, rianimatosi improvvisamente, mi aveva permesso di proteggermi dalla caduta protendendo le mani in avanti. Non provai paura ma un senso di strana meraviglia. Non ho mai raccontato a nessuno questo fatto, ma da allora cominciai a rendermi conto di quanto fosse stupido il mio pensiero. Fu da quel giorno che gli incubi cominciarono a farsi meno frequenti, seppure più nitidi. Le immagini, infatti, restavano più focalizzate nella memoria, al punto che attraverso quei frammenti potevo iniziare a costruire una trama, giacché avevo l’opportunità, con la resistenza del ricordo, di scoprire che l’incubo era ricorrente, ossia, sempre lo stesso. Il luogo in cui mi trovavo era una grotta e l’oscurità era lievemente rischiarata da un non definito quantitativo di candele. Ma proprio quando avevo cominciato a distinguere una trama, gli incubi cessarono… Interruppi la lettura per qualche secondo e, non so con quanto sarcasmo pensai che era ironica l’allusione alle candele cui lo sconosciuto scrittore accennava, facendomi pensare ad una coincidenza dal tempismo quasi irriverente e mi domandai, conseguentemente, se questa persona non mi conoscesse

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così bene da aver osato prendermi come spunto per un racconto. Ciò avrebbe spiegato molte cose, per prima, la necessità di avere il mio consenso a pubblicare un’opera della quale sarei stato ispiratore. Certo io non ricordavo di aver mai avuto incubi, anzi, per tutta la vita non ricordavo proprio di aver mai sognato. Ma quello spunto sulle candele che mi collegavano ad un ricordo che poteva comunque divenire un buon pretesto per quanto scriveva questo folle, forse a qualcuno lo avevo raccontato. L’idea di poter essere il protagonista di un racconto tuttavia mi fece sorridere e in un certo senso mi provocò una sorta di orgoglio al limite dell’alterigia e la cosa, invece che infastidirmi, cominciò a piacermi. Così continuai a leggere con una certa leggerezza.

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Avvertimento 2

“…Io avrei tranquillamente presupposto che, con il cominciare a ricordare e il conseguente diminuire dell’ansia, da cui mi ero lasciato prendere nei tempi passati, probabilmente avevo iniziato a dominare circostanze della realtà grazie alle quali la psicanalisi avrebbe potuto dare una giustificazione degli incubi. Ed effettivamente fu questo che dedussi e accettai come soluzione. Non pensai nemmeno lontanamente che il cessare dei sogni, perché ormai sogni e non più incubi li consideravo, aveva avuto esito in sincronia con altri eventi che stavano accadendo nella mia realtà, anche se probabilmente, se lo avessi fatto, con l’aiuto della psicanalisi, a questi stessi eventi avrei potuto attribuire l’origine dei sogni. Solo che adesso non posso più esserne certo e dal momento che molte delle cose che descriverò appaiono legate ad un tempo di cui quasi potrei non avere cognizione, sempre più spesso mi ritrovo a considerare se la mia sottrazione al tormento notturno sia dovuta alla cessazione degli incubi o se, quasi con più convinzione, al vivere gli incubi stessi come fossero la realtà dominante. In pratica, ciò che con difficoltà sto cercando di definire, è se gli incubi siano cessati e la mia realtà sia effettiva o se, al contrario, ad un certo punto gli incubi abbiano preso una consistenza tale da rendermi realtà ciò da cui, in un tentativo di risoluzione e comprensione, ho deciso di vivere per potermene davvero liberare definitivamente. È strano come possa ora, a distanza di tanti anni, capire che in verità quel pensiero iniziale non sia mai del tutto svanito, ma se da bambino immaginavo l’eventualità di essere un sogno, da adulto quel ritorno d’immaginazione aveva preso un'altra forma. Nella mia infanzia e durante l’adolescenza avevo vissuto momenti straordinari a livello immaginativo, ma da adulti vivere tra i sogni può verificarsi devastante. Era per questo motivo che avevo totalmente rimosso tali astrazioni e fu probabilmente per lo stesso motivo che, quando esse si riaffacciarono alla mia mente, la considerazione che ne avevo era diversa. Non è certo possibile vivere una fantasia prospettica per poi decidere di realizzarla o no, ma durante quegli anni in cui ancora ero in bilico tra la realtà e la fantasia, mi capitava di sentire storie, vedere film o leggere libri in cui si parlava di spiriti che vivevano una vita totalmente regolare solo perchè non si rendevano conto di essere morti. Ed era in questo senso che avevo cominciato ad indirizzare i miei pensieri: “E se fossimo tutti morti e non ce ne rendessimo conto? Se fosse accaduto un evento catastrofico, come per esempio un terremoto, e tutti noi che facevamo parte di questa realtà fossimo morti così rapidamente da non potercene rendere conto e, intrappolati in una non realtà limbica, avessimo proseguito la nostra vita come se nulla fosse avvenuto?” A salvarmi da questa irrazionale insidia mi era venuta in soccorso la ragione. Intorno a me la vita si svolgeva nella più consueta normalità, tutti erano reali e tutti erano vivi, perché se così non fosse stato, nessuno avrebbe potuto morire. Invece ogni tanto accadeva che qualcuno moriva… e non si può morire due volte, non nella stessa vita. Fu così che uscii definitivamente dai miei incubi, dai miei tormenti e dalle mie allucinate congetture. Eppure è proprio nel suo proseguire regolare che la vita può stupirti, confonderti e sorprenderti con l’imprevedibilità del caos che, con il tocco di una bacchetta fatata, può insinuare nell’animo il tormento e il dubbio perfino attraverso il ricordo, dimenticato o volutamente trascurato, di un ragazzino. Così, proprio quando meno te lo aspetti, gli eventi prendono un nuovo corso, riconsegnandoti a quei dubbi che proprio per la certezza e la consapevolezza che non possono esservi dubbi, diventano quasi una speranza. Conseguentemente, immergersi nell’illusione diviene una via di fuga, come quando si fantastica sull’essere il vincitore della lotteria, immaginando il cambiamento della propria vita attraverso utopie che i più possono permettersi solo nella propria immaginazione e, mentre ciò avviene, si può notare la serenità e la felicità del volto sognante un attimo prima del risveglio nella realtà deprimente… Per questo non è consigliabile fantasticare troppo, perché si rischia di confondere la realtà con la fantasia e, quando ciò avviene, il risveglio può andare oltre la devastazione mentale. Io avevo superato quel tempo perché allora avevo capito quanto fosse illusorio e irreale, ma quando il tempo tornò da me, il desiderio dell’illusione divenne quasi una necessità al punto che, in tale bisogno, ripresi a considerare la possibilità di vivere una realtà alternativa dove certi eventi, divennero per me ragione

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di confusione, al punto che, come quando ero bambino, ad un certo momento, non potevo più convincermi d’essere reale e, forse, raccontare può aiutarmi a risolvere questo dubbio, sebbene la verità potrebbe rivelarsi talmente atroce, da farmi riflettere se effettivamente ne valga la pena. Tuttavia, la soluzione rimane una soltanto e, da quanto riuscirò a scoprire, potrò effettivamente dedurre se la follia possa avere una distinzione diversa da quanto una realtà comune può farci intendere per follia… a questo punto il mio raccontare potrebbe avere un senso, l’unica cosa che resta da definire è se raccontare per chi vive nel sogno, o nella realtà…” Rimasi come allucinato con il foglio stretto tra le dita e una domanda quasi ironica nella mente: “Ma che follia è questa?” Osservai con rapidità la pagina senza vergognarmi ad ammettere che non ci avevo capito niente e, accantonando la possibilità di essere stato un’ispirazione per lo scrittore, sostituii la persuasione di poter essere il protagonista di uno stupido romanzo con l’idea che dovevo avere a che fare con un folle. Doveva trattarsi di un disperato che forse aveva studiato filosofia e, nel cercare di calarsi nella parte di un nuovo luminare, doveva essere ammattito. Forse era stato in psicanalisi e l’analista, probabilmente più squilibrato di lui, doveva avergli consigliato di scrivere le sue memorie o le sue demenziali idee e successivamente, non trovando nessuno disposto a leggerle, era giunto all’ulteriore disperazione che lo aveva condotto a pagare per trovare qualche ammiratore. Sorrisi divertito perché se, così era, la sua pazzia doveva essere devastante. Oppure era devastante ciò che scriveva se era disposto a pagare così tanto. Ciò nonostante, dopo un po’ il senso d’ironia si affievolì. Non poteva trattarsi di un’assurdità come quella che avevo formulato. Se uno aveva così tanti soldi da spendere, un libro poteva permettersi di produrselo. Doveva esserci qualcosa sotto, ma in quel primo foglio, che mi era stato chiesto di leggere dietro compenso, non vi era nessuna richiesta di indagine né offerta di lavoro e tanto meno indizi da cui cominciare a svolgere una possibile analisi. Si trattava semplicemente di una banalissima pagina di quello che appariva l’inizio di un romanzo di cattiva qualità o di un diario di memorie cervellotiche e io non ero un amante della letteratura, di qualunque genere fosse stata. Rapidamente elaborai una possibile lista di chi poteva prendersi gioco di me. Non avevo tanti amici, ma grazie al mio lavoro conoscevo molte persone e avevo parecchi contatti tra collaboratori, commissionanti e indagati, e tra una di queste categorie doveva esserci sicuramente qualcuno che aveva deciso di farmi uno scherzo idiota, per vendetta o per divertimento. Se era così mi sarei divertito ad assecondarlo vedendo fino a che punto sarebbe stato disposto ad arrivare. Non valutai quindi più di tanto l’ipotesi che dietro l’assurdità potesse esserci veramente un compenso, ma più semplicemente l’ironia di qualche burlone che presto avrei scoperto e, senza darmi più di tanto fastidio, mi recai in palestra come avevo programmato per quel giorno. Non ero uno che cercava sistemazioni, né avevo mai pensato di avere storie impegnative, ma mi piacevano le belle donne e in una palestra si facevano sempre buone conoscenze sotto questo punto di vista, ed era più per tale motivo che ci andavo piuttosto che per fare attività fisica. Del resto ero un avventuriero e, come tutti gli esseri umani, pure io avevo delle debolezze e dei bisogni da soddisfare. Non consideravo la possibilità di essere coinvolto in storie di tipo vincolante, anzi, le evitavo proprio, così stavo molto attento nel non rendermi particolarmente interessante. Malgrado tutto però, e in un modo che non avevo compreso come fosse avvenuto, ad un certo punto mi trovai a conversare sulla realtà e l’irrealtà dell’essere con la ragazza verso la quale avevo rivolto il mio interesse da qualche giorno. Si chiamava Felona, nome alquanto stravagante e insolito, ma per il quale io non mostrai alcuna curiosità, del resto era tutt’altro ad attrarmi della giovane preda. La ragazza frequentava da poco la palestra, forse meno di un mese, ma non aveva impiegato che pochi giorni ad attirare la mia attenzione. Era alta poco meno di me, che con il mio metro e ottanta mi definivo un semi gigante, portava capelli lunghi sempre sciolti, lisci e neri come le ali dei corvi, contrastanti con il glaciale azzurro degli occhi contornati da lunghe sopraciglia. Aveva un viso dai lineamenti delicati e indossava sempre completi attillati che evidenziavano le sodi parti anatomiche che più di tutto attiravano la mia attenzione. Aveva ventisette anni, il che significava che entro pochi mesi avrebbe avuto esattamente la metà della mia età. Ma questo non rappresentava un problema. Sotto l’aspetto fisico, dicevano, mostravo almeno dieci anni in meno di quanti ne avevo, mentre sotto l’aspetto morale, comunque fossero andate le cose, sapevo che, come ogni altra storia precedente, una

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volta avuto a che fare col mio lavoro, la relazione si sarebbe dissolta da sola e, se così non fosse stato, avrei trovato un modo per forzarne la dissoluzione. Perciò di lei non mi interessava conoscere altri aspetti che andassero oltre la fisicità, non era mia intenzione creare le condizioni per generare un legame di tipo affettivo complicato, quindi raramente chiedevo perfino che cosa facessero nella vita le mie prede e, non essendo abituato a inoltrarmi in anomale stravaganze, quel nome insolito passò in modo quasi voluto nella più completa indifferenza della mia ignoranza, sebbene non mi rendessi conto che l’argomento di cui si discuteva creava una sorta di alchimia dalla quale la ragazza appariva evidentemente attratta, tanto che fu lei a chiedermi se ci potevamo rivedere, magari in un contesto più intimo. Non riuscivo ancora ad intuire che già mi ero sbilanciato con quel genere di conversazione, ma fu così che mi trovai a concordare l’appuntamento più veloce della mia vita. Ci saremmo incontrati per una cena la sera dopo e naturalmente io non le rivelai che dell’essenza esistenziale non mi importava nulla, né tanto meno le rivelai che, se non fosse stato per un’assurda lettura fatta poche ore prima, io nemmeno avrei mai preso in considerazione una pur lontana teoria dell’irrealtà. Giunta la sera, poiché non amavo cucinare, mentre mi apprestavo ad uscire per recarmi al solito ristorante dove ormai ero un ospite fisso, guardai il plico di fogli e, solo in quel momento, valutai che il narratore non si era riferito a me direttamente ma a: “Chiunque volesse ascoltare il suo racconto”. Banalmente mi trovai a domandarmi se io potessi essere il primo cui lo aveva sottoposto o se già altri avevano avuto la stessa proposta chiedendomi, in questo caso, se qualcuno lo avesse mai assecondato. Non so se fu l’orgoglio, la follia o la semplice volontà di verificare fino a che punto questo avventato maniaco era disposto a spingersi, ma so che una sorta di presunzione mi condusse a convincermi che se quella era una sfida, io certo non potevo perderla. Con un sorriso che, se mi fossi osservato allo specchio avrei potuto definire diabolico, mi convinsi quindi che si trattava sicuramente di uno scherzo idiota e che l’indomani il burlone si sarebbe rivelato e pentito. -Vuoi giocare? Va bene, vediamo fino a che punto sei disposto a spingerti- dissi compiaciuto a me stesso, perchè nonostante fossi certo dello scherzo, io già avevo guadagnato mille euro senza fare niente e un appuntamento con una ragazza per la quale avevo messo in preventivo un periodo compreso tra i quindici giorni e un mese di lavorazione, prima di convincerla ad uscire con uno che aveva quasi il doppio dei suoi anni. Non fosse stato per la convinzione dello scherzo, l’indomani avrei messo il plico sulla soglia di casa aspettando di vedere chi sarebbe venuto a prelevarlo per scoprire l’identità del burlone, invece il giorno seguente nemmeno mi ricordavo del pacco e, come mia abitudine, mi alzai che il sole era già alto. Dopo una rapida puntatina al bar per la solita veloce colazione, andai a correre nel parco. Quando rientrai feci una doccia e poi mi recai al ristorante per il pranzo, a quel punto avevo completamente rimosso l’assurdo scherzo che aspettavo di smascherare fino quando, al ritorno a casa, non fui attirato dal lampeggiare dell’icona sullo schermo del computer che avvertiva esserci un nuovo messaggio nella casella di posta elettronica. Mi avvicinai con disinvolta noncuranza restando nella più totale tranquillità, fino al momento in cui verificai, e non senza sorpresa, che il messaggio aveva un indirizzo particolare, ossia, privato. Mi sedetti alla scrivania e accertai di aver letto bene il mittente, appurando che il messaggio proveniva dalla mia banca in Svizzera. Riflettei come chi riceve un regalo e cerca di scoprire che cosa contenga il pacco prima di scartarlo, considerando che in quel periodo non ricordavo scadenze, quindi aprii il messaggio e osservai stupito per ben tre volte la notifica di avvenuto pagamento. Sul mio conto riservato erano stati depositati in forma anonima ben trecentoventunomila euro. -Cristo Santo-. Ricordai solo in quel momento l’evento del giorno precedente rendendomi conto che, inconsapevolmente, avevo accettato l’incarico. Più inconsciamente però, non riuscivo a credere a quanto accadeva perché in quel momento non potevo concepire l’idea che non si trattasse di uno scherzo e la possibilità che la mia convinzione potesse essere errata mi spiazzò al punto da provocarmi una certa ansia. Ricontrollai ancora il messaggio per convincermi che stesse veramente accadendo ma, mantenendo il mio scetticismo, tornai a convincermi che presto sarebbe avvenuto qualcosa che avrebbe reso il tutto semplicemente ridicolo. Tuttavia, la cifra era reale e subito contattai la banca per avere, oltre che ad una conferma, ulteriori informazioni. Non ricevetti nessuna indicazione su chi era il depositario della somma, ma la garanzia che tutto era avvenuto in modo regolare, quello sì.

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Ero stupito, incredulo e stordito ma, allo stesso tempo dovevo accettare il fatto di essere anche un professionista, il che implicava che, se ero stato pagato, avevo un incarico. Conseguentemente al senso del dovere quindi, mi recai nello studio dove avevo lasciato il pacco, lo osservai quasi con timore reverenziale prima di agire, quindi sollevai il primo foglio già letto e osservai il secondo. In caratteri giganti appariva quello che sembrava il titolo di ciò che continuavo a considerare il romanzo di qualche scriteriato eccentrico e, mantenendo la mia idea sull’assurdità di tale follia, fissai l’attenzione sulle gigantesche didascalie. Su quel secondo foglio c’erano solo quattro parole che probabilmente dovevano dare il senso di un titolo, ma a me, davano solo un ironico senso di gratitudine, giacché solo per quelle quattro parole, avrei guadagnato altri mille euro. Mi sovvenne un solo pensiero: “Pazzesco”. Poi, iniziai a leggere:

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Il primo confine: l’illusione

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Tutto scorre… “…Si può pensare che tutto sia fortuito nella vita, casuale, imprevisto o involontario, un evento del tutto ordinario, naturale e passeggero… Si può pensarla così, e lasciare che tutto scorra secondo una conseguente casualità prodotta dalle circostanze, di cui ci si può ritenere più o meno responsabili, valutando comunque che non si può sapere quel che avverrà in un futuro vicino o lontano, in conseguenza alle nostre scelte, ai nostri pensieri, alle nostre considerazioni. Si può quindi pensare in definitiva, che la vita sia come un fiume che scorre seguendo un tragitto determinato, a volte veloce, a volte calmo, a volte carico d’ostacoli altre senza barriere e che in fine, comunque la si voglia vedere, non sia possibile deviare dal corso di tale corrente, ma solo accettare di lasciarsi trasportare con l’unica alternativa che forse il fiume possa avere delle diramazioni verso le quali si può essere indirizzati, per scelta o per forza. Quello che non possiamo tuttavia ignorare è che il fiume ha un punto d’arrivo. Può sfociare in un altro fiume più grande e da qui proseguire fino al mare, poi dal mare all’oceano e ciò, conduce inevitabilmente a chiedersi se tutto sia veramente superfluo, ordinario e… casuale. Io, devo essere sincero, avrei voluto continuare a pensarla così. Avrei voluto continuare a pensare che la mia vita era un evento scontato, dove le molte domande si risolvevano con una semplice alzata di spalle, senza congetture, senza riflessioni, senza complicazioni esistenziali. Una vita monotona forse, ma comunque una vita in cui, alla consapevolezza di una scadenza, si finiva con la rassegnante e vana aspettativa dove il dubbio lasciava quella consolazione che, ad ogni modo, finché c’era vita c’era speranza, poi semplicemente, si sarebbe visto… A quale scopo affannarsi nella ricerca di un qualcosa che non si conosce e che non si sarebbe mai potuto conoscere? Perché mai forzare una natura, quella umana, fatta di una comprensione limitata, nella quale l’oblio dell’ignoranza permette di starsene sereni a coltivare campi, fabbricare palazzi, costruire macchine e generare figli, senza immaginare la sterilità degli spazi della mente, la demolizione dei pilastri del pensiero, l’arrugginire degli ingranaggi emotivi e l’annientamento dello spirito? Che senso può mai esserci nel lasciare la comoda realtà determinata dalla cognizione di tutto ciò che esiste ed è tangibile, per inoltrarsi nel labirinto del caos, dell’ignoto, e finire per abbandonarsi al dubbio? Perché? Perché mai un uomo avrebbe dovuto uscire dal suo giardino e capire, appena fuori, che non sarebbe mai più potuto tornare indietro?..” “La storia che sto per raccontarvi vi sembrerà assurda, improbabile o fasulla. Potrete dire che è surreale, inventata, falsa e perfino che è il frutto di una mente malata. Ma questo è tuttavia comprensibile, io stesso del resto, se non l’avessi vissuta e quindi verificata, direi lo stesso. Nonostante ciò, anche a questa reazione vi è una spiegazione, ma non ve la dirò, lascerò che siate voi ad interpretarla e definirla. Non è facile nemmeno capire da quale punto iniziare. Se la mia fosse ancora una mente razionale, direi che l’inizio si trova in qualche momento recente, ma la verità è che non saprei individuare con precisione tale punto, così devo spingere la mia mente molto indietro nel tempo per cercare di capire dove poter collocare quel momento. Non avendo quindi punti di riferimento, dovrei valutare che una mente coerente cercherebbe certamente in uno spazio in cui la propria memoria possa riconoscersi ma, non avendo più nemmeno tale raziocinio, sono costretto a valutare quello che una qualunque mente ragionevole considererebbe di fare e quindi, sebbene si tratti di un tempo privo di memoria, l’inizio di tutto, o meglio, quello che potrebbe essere considerato l’inizio per ognuno di noi, si possa collocare nel giorno della propria nascita. È lì che, razionalmente, ha inizio la storia di ognuno. Solo che io, non sono più sicuro nemmeno di questo. In un certo senso, è come cercare di definire quale sia il centro del mondo. Probabilmente, se interrogato ad un esame di geografia, chiunque risponderebbe che il centro del mondo si trova nel punto di intersezione tra il parallelo dell’Equatore e il meridiano di Greenwich, senza comprendere che, in realtà, il centro del mondo è, per ognuno, il posto in cui lui stesso si trova. È da quel punto, infatti, che può partire per ogni direzione, ovunque egli sia. Ma se poi si vogliono abbattere certi limiti e andare oltre le barriere di ciò che siamo abituati a considerare solo perché lo conosciamo, lo stesso

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individuo potrebbe giungere a comprendere che quel punto, per lui, non è solo il centro del mondo, ma il centro dell’universo. Ecco perché oggi per me, considerare il giorno della mai nascita come l’inizio di tutto, mi genera dei dubbi. È ovvio tuttavia che non ho né prove né capacità per rendervi concreti questi concetti e tutto ciò che posso darvi è solo una mia folle e inspiegabile convinzione. Quindi, non essendo io in grado di condurvi oltre il confine dell’assurdo, e non avendo nemmeno le facoltà di risalire con la memoria a quel giorno in cui ho lanciato il primo grido disperato in questo mondo, sono costretto a riconoscere che non posso fare altro che ricercare tra quel tempo che la mia limitata memoria mi concede di rammentare e, pensandoci bene, anche a valutare che, in effetti non serve la storia di una vita per descrivere quanto mi accingo a raccontare. Direi ora che il mio nome non ha molta importanza e che io sono solo un testimone involontario di quanto avvenuto. Lo direi, se la mia mente fosse ancora razionale ma, pur rischiando di essere ripetitivo, devo confermare che quanto accaduto mi impedisce di concepire il fatto che uno possa essere testimone involontario giacché, ogni evento vissuto, per quanto la propria condizione sia superficiale, ci rende protagonisti e ci conduce a riflettere su quanto tale evento possa essere casuale, il che mi riconduce a considerare che nulla in questa vita, in questo mondo o in questo universo, sia effetto di una casualità. Considerato ciò, mi giunge ora impossibile valutare che anche il nome che ci viene assegnato, primo dono che riceviamo nella vita, non sia casuale. Quindi, forse, è proprio da qui che devo iniziare. Il mio nome è Tommaso D’amanti. Non è un nome semplice lo so, eppure, assolutamente non casuale. Per tutti sono comunque sempre stato semplicemente Tom, e il mio centro del mondo è Casterba, un paese anonimo della Pianura Padana, tra le nebbie dell’Italia. Sono nato nel mese di Settembre, il giorno 18 dell’anno 1971, che pure non è una data casuale, nel segno della Vergine. Il suo, era Demetrio Dilago, nato nel Gennaio dell’anno precedente, precisamente il giorno 25, nel pieno dell’inverno sotto il segno dell’Acquario, e per tutti, il “Mage”. È di lui che racconterò, o meglio, è a causa sua che racconterò…” Ecco, avevo un nome, anzi due. Ma nessuno era compreso nella lista delle mie conoscenze. Non avevo mai sentito nominare né l’uno né l’altro e non ricordavo di essermi mai imbattuto in tali nominativi in nessuna delle mie indagini. Riflettei un po’. Se l’autore voleva restare anonimo poteva aver benissimo inventato nomi e località, perché da questi dati avrei potuto intercettare altre due informazioni piuttosto rilevanti. Ma non avevo mai sentito nominare nemmeno un paese chiamato Casterba e non escludevo che anche questo fosse un indirizzo di fantasia, tuttavia, se l’autore voleva intimorirmi o lanciarmi una qualche sorta di messaggio, tra le righe di quello scritto doveva trovarsi qualcosa di autentico, era inevitabile: nessuno riesce a restare totalmente nell’anonimato. Per quanto indifferente o imperturbabile, l’animo umano non riesce a sottrarsi totalmente ad un minimo di presunzione e, dato che di questo ero convinto, cominciavo a persuadermi che su una cosa non mentiva, e da lì potevo iniziare a tracciare il mio, anzi, il suo profilo. Se la mia deduzione era esatta e il suo era un racconto autobiografico, non vedevo il motivo per cui mentire sulla sua età, dalla quale, doveva pensare l’anonimo, difficilmente si sarebbe potuto scoprire un’identità se tutto il resto era fasullo. Ma, forte della mia convinzione, potevo iniziare da lì la mia indagine. Diceva di essere nato nel 1971 e, facendo un rapido calcolo, dal momento che non era ancora giunto Settembre, l’anonimo scrittore non aveva ancora cinquantatre anni. Mi sorpresi solo in quel momento a capire la condizione di un tale facile calcolo perché, se avessi riflettuto più lucidamente, avrei compreso che non avevo necessità di fare alcun calcolo. L’anno di nascita dell’anonimo era il mio stesso anno. L’anonimo aveva la mia stessa età, e faceva parte quindi di una fascia che comprendeva la gran parte dei miei clienti. Sembra che verso quell’età si cominci a diventare parecchio paranoici, specialmente se si è così ricchi da pagare per far leggere la propria biografia, e che il timore d’infedeltà coniugale possa superare anche le più indiscutibili relazioni, tuttavia, se questo individuo era già stato mio cliente, doveva trattarsi di qualcuno che questi timori li aveva avuti in tempi precedenti. Non mi soffermai a fare congetture sulla natura della sua precedente richiesta, né a valutare quale fosse stato l’esito e preferii concentrarmi sull’attuale condizione. Ripensai a ciò che aveva scritto e il fatto di nominare un'altra figura di sesso maschile nel dattiloscritto mi conduceva alla conclusione che stesse parlando dell’uomo con cui la moglie doveva

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averlo tradito e, se tale tradimento era stato scoperto, la mia ricerca doveva limitarsi ai casi risolti con l’avvenuto smascheramento, che non erano pochi. Dedussi poi che non doveva essere passato molto tempo dall’avvenuta risoluzione del caso poiché le reazioni a questo tipo di trauma erano diverse tra loro, ma due erano quelle che non mancavano mai: nella prima prevaleva la rabbia, istintiva, vendicativa e spesso distruttiva; nella seconda la depressione, più lenta nella reazione ma allo stresso tempo riflessiva e metodicamente indirizzata verso la vendetta. Chi aveva scelto di scrivere la storia del suo patito tradimento doveva far parte della seconda categoria, poiché la vendetta qui consisteva non nell’attacco fisico ma piuttosto in quello psicologico, dove il tradito cercava di generare il senso di colpa nel traditore. Ma questa era un’analisi psicologica che non m’interessava e che non potevo comunque trattare, così lasciai da parte le insidie congetturali su come poteva ridursi una mente depressa e, ignorando di poter avere a che fare con uno che poteva essere divenuto maniaco depressivo, mi concentrai su ciò che sapevo fare meglio: indagare. Dovevo limitare il campo della ricerca, e dal momento che avevo appena appurato che la depressione poteva dar esito ad azioni meno immediate della rabbia, dedussi che avrei potuto limitare l’arco di tempo in cui valutare il termine dell’indagine nei tre anni precedenti. Così, senza rendermi conto che avevo già dato inizio ad un indagine che nemmeno mi era stata commissionata, alzai il telefono e chiamai un’amica che lavorava presso gli uffici amministrativi della regione. Certo avrei potuto fare da solo semplicemente digitando Casterba su internet e avrei potuto ottenere le informazioni che desideravo, ma pensai che questa era una buona occasione per mantenere un rapporto che ancora poteva tornarmi utile. Nel mio lavoro si fanno molte conoscenze e si acquisiscono parecchi agganci indispensabili per le ricerche e, tra le altre informazioni, ne avevo avuta una di molto importante: l’apparente sconosciuto abitava in zona. Diceva che Casterba era un piccolo paese della bassa pianura padana, zona in cui io stesso abitavo e quindi, da buon investigatore, potei ancora dedurre che l’anonimo doveva essere della zona se si era rivolto a me. Quando la voce dall’altro lato della cornetta rispose con un tono professionale e annoiato, le feci cambiare umore salutandola con le riverenze e le attenzioni dovute ad una vecchia ma utile conoscenza. Sentii la sua voce ravvivarsi, come se il mio intervento avesse il potere di animare una giornata monotona. Sapeva di che cosa mi occupavo e forse il sentirsi coinvolta le dava quella sensazione d’avventura che quasi tutti gli impiegati ministeriali, specie se femmine, sognano di avere nella loro deprimente quotidianità. Così, più per mantenere l’indispensabile contatto, le domandai di fare una ricerca per me e le diedi le informazioni che avevo su quel paese chiamato Casterba nella zona padana. Mi disse di attendere e sentii il rumore di pulsanti digitati su una tastiera. Passarono alcuni minuti perché probabilmente la ricerca non dava esiti immediati e la mia collaboratrice voleva offrire un buon servizio. Dopo un po’ risentii la sua voce. -Mi spiace- disse -non risulta nessun paese con questo nome. Forse non è corretto perché mi risulta solo un Casterra- quasi esultai -ma non si trova nella pianura padana. È un comune della Valpolicella nel veronese- mi informò. La mia esultanza si affievolì ma non si demoralizzò. -Grazie- le dissi -mi sei stata molto utile-. Conoscevo la Valpolicella, un territorio ben noto per i suoi prodotti gastronomici e pregiati vini ma soprattutto perché qualche anno prima avevo avuto occasione di svolgere delle indagini in quel territorio chiamato Lessinia di cui la valle era parte. Casterra era un comune vicino ad un paese che avevo avuto occasione di conoscere bene e che ricordavo a causa di un famoso parco nelle vicinanze, caratterizzato da un percorso di cascate che avevo visitato mentre svolgevo l’indagine. Certo non aveva nulla a che fare con la pianura padana ma se, come ritenevo, lo scrittore era della mia zona, le due località potevano essere entrambe parte dell’ipotetica indagine che, ero convinto, prima o poi mi sarebbe stata commissionata. Io abitavo in un paese sulle rive del fiume Mincio, tra Verona e Mantova, una zona tipica della pianura padana, e la Lessinia, in particolare la Valpolicella, non era molto lontana, raggiungibile in non più di un’ora, quindi dedussi che forse, uno dei due protagonisti poteva essere di quelle parti. Per un momento mi sentii coinvolto al punto da decidere di continuare a leggere e osservai il secondo capitolo, immaginando che andando avanti trovato altri indizi. Così abbassai gli occhi ma

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nell’allungare la mano per raccogliere il foglio, l’orologio da polso mi fece notare che il tempo stava passando velocemente ricordandomi che quella sera avevo un appuntamento importante. Decisi senza difficoltà che il romanzo, diario o biografia come la si volesse definire, poteva attendere e lasciai con noncuranza tutto il materiale sul tavolo, senza preoccuparmi di riporre i vari documenti in un cassetto sicuro della scrivania. Non avevo mai subito intrusioni nella mia abitazione e ormai, tra la troppa sicurezza e la frenesia degli impegni extralavorativi che sempre si riducevano all’ultimo momento, cominciavo ad essere piuttosto superficiale nei riguardi della segretezza e della sicurezza e, forse, troppo fiducioso nella buona sorte. In tenuta da sera Felona era anche più attraente che in tenuta sportiva e l’inaspettato insieme di bellezza ed eleganza mi provocò un’insolita sensazione che portava il mio apprezzamento nei suoi riguardi ad assegnarle un tipo di attenzione che poteva diventare pericolosa nei confronti delle mie abitudini, e per un momento mi trovai smarrito tra i pensieri dei rischi di un coinvolgimento emotivo più complesso del consueto. Comportandomi comunque da perfetto gentiluomo, l’accolsi con lusinghieri complimenti e, pur compiacendomi per la sublime visione, cercai di considerarla nel modo in cui avevo considerato tutte le mie precedenti avventure, vale a dire, nulla di più che una leggerezza passeggera. Tuttavia sapevo ancora troppo poco di lei e, ignorando che presto mi si sarebbe rivelato un altro aspetto che me l’avrebbe resa ancor più affascinante, non osai portarla al ristorante dove andavo tutti i giorni, ma azzardai all’intimità di un localino ben più suggestivo e indicato per una cena galante. La portai in un accogliente locale di un altro paese sempre sulle rive del fiume Mincio e, non so se per conseguenza dell’ambiente o se a causa dei dialoghi impegnati, l’effetto che ne conseguì dovette essere molto stimolante e provocatorio perché, nel successivo svolgersi dell’appuntamento, quando nel rientrare le domandai se voleva fermarsi a bere qualcosa da me prima di concludere la serata per le ultime confidenziali battute, lei accettò senza indugi né esitazioni, il che, devo essere sincero, un po’ mi sorprese. Non sarebbe stata la prima volta che mi capitava ma Felona mi aveva dato la particolare sensazione che non sarebbe stata una da prima serata, invece, dopo un veloce ultimo drink, nemmeno dopo dieci minuti che eravamo saliti nel mio appartamento, già stavamo a letto assieme… Non è mia intenzione vantarmi delle conquiste, né descrivere i particolari delle avventure amorose ma era la prima volta che restavo, felicemente, stupito. Forse perchè avevo valutato Felona con meno istintività di quanto avessi mai fatto, presupponendo un corteggiamento più dilungato nel tempo prima di giungere all’obiettivo del rapporto intimo e ciò si rivelò piuttosto compromettente, perché questo suo atteggiamento allontanava da me la percezione che l’attrazione iniziale provata per lei, non era stata solo di tipo fisico. Dormii profondamente e, come al solito, la mattina mi svegliai tardi. Molto tardi. Ricordando quanto era avvenuto guardai al mio fianco pronto a sorridere ma, con incredula sorpresa scoprii che la ragazza non c’era più. Maledicendomi mentalmente mi alzai con rapidità e imprecai contro me stesso per la mia stupida indifferenza. Valutare che non tutti facevano il mio lavoro e che quindi vi era una remota possibilità che quei “non tutti” dovessero avere degli impegni da rispettare era la prima cosa di cui avrei dovuto preoccuparmi in modo da poterla accompagnare al lavoro, o a casa a prepararsi, dimostrando così il mio interesse nei suoi riguardi per farle credere, ancora per un po’, che le mie erano intenzioni serie. Invece l’avevo lasciata andare via e senza nemmeno accorgermi che si era alzata. Saltai perfino la sosta in bagno per andare dritto in sala da pranzo pur mancando perfino della speranza di trovarla ancora lì, ma dove invece, giungendo con maldestra irruzione, Felona stava per stupirmi di nuovo oltre a darmi, in un certo senso, delle motivazioni per quella mia insolita attrazione nei suoi riguardi. -Ciao- mi salutò mentre teneva tra le mani un foglio. “Dannazione” fu la prima cosa che pensai, immaginando che stesse leggendo il documento segreto e bloccato dalla sorpresa restai incredulo a fissarla. Troppo convinto delle mie certezze sull’universo femminile che mi avevano indotto a pensare che la serata si sarebbe conclusa in maniera diversa, ora imprecavo tra me per la mia noncuranza nel mettere al sicuro il documento e i certificati vari relativi alla mia professione che ora rischiavano di compromettere la mia identità mentre valutavo che sul tavolo di fronte a lei vi era tutto ciò che poteva rovinarmi.

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-Dormito bene?- domandò con aria sincera. Dominai con fatica l’istinto, ma non dovetti riuscirci abbastanza bene. -Sì- risposi, pensando che la maniera migliore per dissimulare la mia preoccupazione fosse quella di giustificare il mio sonno prolungato -devi scusarmi sai, sono in vacanza e tendo a perdere il ritmo quando non ho obblighi da rispettare…- dissi banalmente mentre ancora cercavo di capire come comportarmi -non vorrei averti causato dei problemi, forse tu avevi degli impegni… vuoi che ti accompagni da qualche parte? Devi andare al lavoro?- sperai di distrarla da ciò che stava esaminando. Guardò l’orologio e istintivamente io feci lo stesso. Un quarto alle undici, più tardi del solito. -Se andassi al lavoro adesso mi troverei a dover giustificare troppe cose, uno come te lo dovrebbe sapere non credi?- La guardai con aria colpevole e non dissi nulla. Allora lei scoppiò in una risata. -Non preoccuparti, ho la fortuna di potermi permettere orari molto flessibili- specificò, ma questo non bastò a farmi rilassare, soprattutto perché la domanda successiva mi spiazzò letteralmente. -Allora di che caso ti stai occupando in questo periodo?- mi domandò e, come un dilettante, restai senza parole. -Come?- balbettai -non so di che cosa tu stia parlando- risposi con la più inutile e affermativa delle risposte. Era un classico: negare l’evidenza con imbarazzo era come ammetterla. -Sei un investigatore, no?- espose con più chiarezza allora, e solo in quel momento mi sovvenne il pensiero che io di lei non sapevo nulla. Come già definito, non era mia abitudine concedere troppa confidenza alle persone. Cosa della quale ora cominciavo a pentirmi, ma prima di quel momento non era mai stato un problema. Ora però tutto cambiava, Felona era in casa mia da meno di dodici ore e già sapeva che cosa facevo, o lo supponeva. Se disgraziatamente avesse avuto qualcosa a che fare con il caso di cui mi occupavo, la mia carriera d’investigatore sarebbe finita. Cercai di capire con chi avevo a che fare ma solo adesso mi rendevo conto che pure le sue frequenze in palestra erano state troppo poche perché avessi avuto il tempo di farmi un’idea su di lei. Per un attimo il panico mi colse, poi però mi sovvenne che io un caso non ce lo avevo e comprendendo che non potevo lasciarmi fregare dall’ansia ristabilii il controllo di me stesso. Sorrisi con imbarazzo -ma che dici? Che cosa ti fa presumere una follia simile?-. Sventolò il foglio che teneva tra le mani. Per un attimo fui sollevato perché non era parte del documento segreto, poi mi sentii un completo imbecille. Come investigatore privato avevo l’autorizzazione a girare armato e, per giustificare tale autorizzazione, era necessaria una licenza. Avrei potuto e dovuto arrabbiarmi se quella di Felona fosse stata un’invadente ricerca ma la ragazza non aveva dovuto fare molta fatica a scoprire la licenza perché, nella mia superficiale negligenza, l’avevo lasciata tra tutti i documenti relativi alla mia professione sul tavolo dello studio prima di uscire la sera dell’appuntamento. -Beh non è come credi- cercai la tipica affermazione con cui qualcuno cerca di prendere tempo. -Spero solo tu non stia indagando su di me- ironizzò lei, apparentemente inconsapevole del danno che poteva arrecarmi. La guardai con espressione divisa tra la supplica e il timore. -No, certo che no. Anche se dovrei a questo punto- dissi rassegnato. Lei si godette l’attimo del mio tormento con ironia -che succede, sei preoccupato?- Pensai che non dovevo girarci troppo intorno -senti Felona, il mio è un lavoro basato su tanti fattori, tra i quali la segretezza…- -Non starai per dire che adesso mi devi uccidere spero- continuò a ironizzare. Io sorrisi cercando di sembrare disinvolto -certo che no, ma devi capire…- -Non devi preoccuparti, il tuo segreto con me è al sicuro. Basta che mi sposi- disse e a quel punto io provai quel terrore che non ricordo d’aver provato nemmeno davanti ad un’arma puntata. Lei scoppiò in una nuova risata. -Accidenti- disse -sembra che tu stia per avere un infarto. Calmati, stavo scherzando. Non ho intenzione né di smascherarti né di sposarti- si avvicinò -io sono una psicologa e ho già capito che tipo sei tu-. La guardai sentendomi un idiota, capendo per la prima volta che cosa doveva provare una di quelle persone che il mio lavoro contribuiva a denunciare. Io ovviamente non avevo mai avuto a che fare con i

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sospettati su cui indagavo ma in quel momento potevo immaginare che cosa provassero quando il cliente, che mi aveva commissionato l’incarico, li andava a smascherare. -Sei una psicologa?- replicai, cominciando a capire che se avessi saputo qualcosa di più su di lei forse avrei anche potuto intuire le sue intenzioni. -Certo sono una psicologa e so già più di quanto tu non possa immaginare su di te-. -Davvero?- risposi, passando ad un atteggiamento di sfida -e che cos’altro avresti scoperto?- -Beh, che non hai intenzione di impegnarti in una relazione seria, che non sei in vacanza ma che stai lavorando e che ti senti piuttosto sicuro di te…- -Davvero? E questo da cosa lo avresti dedotto?- -Vediamo. Uno dei segnali fondamentali è la tensione sessuale…- -Cosa?- esclamai incredulo. -È tipica di chi fa un determinato esercizio ma teme una conseguenza, e tu temi la conseguenza che un rapporto intimo comporti la richiesta di un impegno da parte dell’occasionale partner. Inoltre non mi hai chiesto se faccio uso di anticoncezionali, e questo aumenta la tensione, perché una minima distrazione in questo senso diverrebbe piuttosto compromettente, dico bene?- Dovetti ammettere le sue ragioni -e tu fai uso di anticoncezionali giusto?- azzardai a mia volta dell’ironia. Lei non rispose e proseguì. -Stai lavorando perché tu non mi sembri proprio il tipo da discussioni intellettuali sull’esistenzialità e ti senti troppo sicuro di te, al punto da lasciare documenti importanti in bella vista- sventolò i vari permessi sui quali spiccava ben definita la mia professione e il mio nome, che spesso evitavo di rivelare per restare nell’anonimato. -Allora, che tipo di nome è Donato Mastammi? Sta per “ma stammi” lontana?- Non so se cercava d’essere divertente o se fosse semplicemente indignata e nel dubbio cercai di restare neutrale. -Potrebbe anche stare per “ma stammi” vicina- risposi. -Sì potrebbe, ma tu sei più un tipo da prima ipotesi. E comunque sembra quasi un nome inventato, il che non mi stupirebbe-. Cercai di fare l’offeso anch’io a quel punto -beh, non si può dire che il tuo sia un nome altrettanto realistico- dissi, accorgendomi un istante dopo d’essermi compromesso ancor di più. -Appunto- proseguì infatti lei -un nome insolito come il mio dovrebbe servire a stimolare una certa attenzione in chi cerca un approccio serio con una ragazza, tu invece nemmeno l’hai notata la stranezza, il che aggiunge un’ulteriore prova del tuo interesse ad un “non” impegno. E comunque il mio nome ha un significato e un senso molto profondo, ma questa tua disattenzione mi conduce alla riflessione su come ti sia venuta l’idea di iniziare un approccio con quei discorsi sulla realtà o irrealtà delle cose. Da lì non sarei mai risalita alla tua professione, il che mi fa pensare che in questo momento tu abbia a che fare con un caso che riguarda qualcosa o qualcuno che si occupa di cose simili-. La guardai sorpreso, pensando che sarebbe stata una valida socia. Sorrisi -senti Felona, io mi occupo di infedeltà coniugali e le mie indagini sono più divertenti che pericolose. Tuttavia la segretezza è indispensabile…- -Accidenti, infedeltà coniugali. È per questo che temi le relazioni impegnative? Hai avuto troppe esperienze negative causate dal tuo lavoro evidentemente- m’interruppe con una diagnosi precoce. -Per favore non scherzare-. Mi guardò per la prima volta con serietà dall’inizio della mattina. -Non devi preoccuparti, del resto anch’io sono nelle tue stesse condizioni. Sono vincolata dal segreto professionale e ogni cosa che un paziente mi riferisce è protetta da questo legame…- La osservai con sospetto, incerto se quello che mi stava dando era un suggerimento e valutai che forse ad attirarmi così tanto in lei era quel lato diabolico che ancora non avevo scoperto. -Mi stai dicendo che se io diventassi tuo paziente, tu non potresti rivelare nulla?- Il suo viso si trasformò in un’espressione sorpresa -non era questa la mia intenzione, ma se hai bisogno di garanzie… beh, sì, potrebbe essere una soluzione-. Sorrisi con perfidia -va bene, quanto è la tua parcella?- a questo punto però lei mi fissò offesa. -Così mi fai sembrare una sgualdrina- evidenziò. -No, non fraintendermi… io volevo solo…-

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-Se vuoi essere un mio paziente devi chiedere un appuntamento e avere qualche disturbo mentale, il che non sarebbe difficile da trovare-. Percepii la sua indignazione che non potevo biasimare. -Per favore Felona, io non volevo…- cercai una soluzione veloce -…l’appuntamento richiesto non potremmo considerarlo quello di ieri?- -Impossibile- obiettò con schiettezza. -Perché?- -Siamo stati a letto assieme, il coinvolgimento tra paziente e medico metterebbe in seria difficoltà la mia professione, quindi se tu vuoi essere considerato un mio paziente la richiesta deve essere successiva al nostro rapporto. E non è detto che io accetti-. Allargai le braccia in senso d’incredulità -ma io non oserei mai…- -E chi me lo conferma? Sei inaffidabile nei rapporti sentimentali, perché dovrei credere che lo sia in quelli professionali?- -Ora mi offendi-. -È possibile, ma tu cerchi le tue garanzie, io le mie-. -Va bene, che cosa vuoi?- -Voglio sapere perché il tuo approccio con me era basato sull’esistenzialità e sulla realtà e irrealtà delle cose. Voglio capire quanto tu ti senta veramente coinvolto da questo argomento-. Riflettei. -Dovrei parlarti del caso a cui sto lavorando e come sai…- -Va bene. Il mio onorario è di cento euro l’ora. Dimmi qualcosa di te e sarai vincolato dal segreto professionale. Dopo di che non sentirai più parlare di me- lo disse con rabbia e non volevo che fosse questo il sentimento con cui si concludeva il nostro rapporto, il che mi fece sentire meschino. -Va bene- accettai il rischio -il fatto è che non si tratta nemmeno di un caso e quindi te ne posso anche parlare. È successo che due giorni fa ho ricevuto un pacco e una lettera… pensavo che la documentazione contenesse una relazione su un possibile ingaggio, invece…- Le spiegai cosa era successo senza rivelare più del dovuto, limitandomi a giungere alla questione che aveva introdotto tra i miei pensieri l’argomento esistenzialità. Sembrò soddisfatta e soprattutto sincera nel mostrare di credermi. -Se un paziente venisse da me raccontandomi cose del genere, potrei dedurre una perdita d’identità che lo rende quasi una doppia personalità, quindi la mia diagnosi per te è: perdita di identità e rischio di vivere una doppia personalità. Ora puoi pagarmi la retta e sentirti vincolato dal segreto professionale con me-. La fissai incredulo perché non potevo credere che tutto si concludesse così. Presi il portafogli e feci per consegnarle il denaro ma quasi immediatamente fui preso da uno strano stato d’animo e ritrassi la mano. -Non può essere tutto così determinato- dissi e lei mi guardò con finta sorpresa, come se si aspettasse quella mia reazione. -Cosa c’è che non va? Io volevo solo sapere quali fossero le tue motivazioni per intavolare un dialogo su argomenti che raramente uomini che sono fuori dal mio studio trattano, tu mi hai dato la tua motivazione, io ho tratto le mie conclusioni. Tutto qua-. Mi sentii nuovamente offeso -vuoi forse dire che, perché non sono uno schizzato che frequenta il tuo studio, non sono degno della tua considerazione?- -No, voglio dire che sei semplicemente una persona ordinaria, il che riduce il mio interesse per te. Inoltre adesso sei anche tu un paziente- prese il denaro dalle mie mani e lo infilò veloce nelle sue tasche. Quasi mi lasciai prendere dall’ilarità -sei veramente astuta, se non fosse per il fatto che dici di essere un medico ti direi di farti visitare- ironizzai, poi mi sovvenne un’idea balorda che l’istinto non riuscì a controllare -e se ti facessi leggere quello che ho letto io fino ad ora, potresti fare una diagnosi sul misterioso scrittore?- le domandai. Lei mi guardò quasi compiaciuta -sì, ma lui non sarebbe vincolato- rispose. Io sorrisi divertito. Presi il documento e le consegnai l’introduzione contenente l’avvertimento -e comunque io non sono un tipo ordinario- dissi con finto sdegno.

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Lei mi fissò, sorrise e poi abbassò lo sguardo sui pochi fogli che le avevo consegnato. La sua espressione si fece seria al limite del preoccupante e io dedussi che fosse dovuto a quell’intrigante e quasi minaccioso “avvertimento” col quale iniziava l’opera. Mi allontanai per sistemarmi e lasciarle il tempo di leggere. La trovai molto pensierosa quando tornai -che ne pensi?- le domandai. Mi guardò -interessante, e stimolante-. -Stimolante?- -Certo. Direi che la mia diagnosi potrebbe essere azzeccata. Ma qui, oltre alla perdita d’identità, abbiamo a che fare con uno che nemmeno pensa di poter essere reale. È come se il misterioso cliente ti stesse chiedendo di indagare proprio su di lui, per confermargli che esiste- espose con una valutazione di tipo ospedaliera ma che io stesso avrei dovuto prendere in considerazione. -Diamine, non ci avevo pensato- risposi -ad ogni modo non mi è stata commissionata nessuna indagine- le riferii. -È ovvio- disse allora lei -se costui crede di essere irreale, tutta la sua realtà è irreale e quindi anche tu sei irreale e la tua stessa indagine-. Per un momento mi sentii sollevato. Se accettavo quella possibilità potevo escludere la congiura di una vendetta o di un complotto contro di me, tuttavia mi parve di fluttuare nel vuoto e non riuscivo a trovare la meritata tranquillità, anzi i timori sembravano aumentare in me. -Ma tutto questo non ha senso… come può uno che si crede irreale commissionare un’indagine a qualcun altro che crede irreale?- Lei sorrise -è questo il punto, vedi? In questo soggetto la realtà diventa irreale finché qualcuno non gli darà qualche conferma. Direi che hai un caso aperto- concluse, ma per una sorta di timore, rifiutai di accettarlo. -Ma non è possibile. L’unica cosa che questo tizio mi ha chiesto di fare è di leggere quel suo insulso romanzo e per questo mi ha già pagato. È uno stupido scherzo…- -E chi pagherebbe per fare uno scherzo?- disse allora lei, e io la fissai come se tra noi ci fosse già quella complicità tipica degli amanti. -Ma tu da che parte stai?- -Da quella di nessuno- rispose -la cosa è interessante ma io non sono coinvolta e tu non vuoi che lo sia, perciò adesso me ne vado- girò su se stessa e si avviò verso l’uscita. In quel momento una sorta di panico tornò ad assalirmi -ehi no, aspetta- lei si fermò e mi guardò mentre io cercavo di capire se il panico era dovuto al timore di perderla o a quello di dover affrontare da solo un’indagine che cominciava a spaventarmi. -Che ne diresti di leggere il capitolo successivo? Così, solo per sapere se manterresti la tua opinione- le domandai. Lei rifletté e, per quel tempo, io mi sentii come chi si trova nel bel mezzo di una profonda nebbia padana per la prima volta, smarrito e incapace di orientarsi. -Va bene- disse -ma sappi che questo potrebbe essere considerata una seconda seduta-. Sorrisi divertito e le porsi il successivo capitolo. Lei mi guardò con aria stizzita -il paziente parla, la psicologa ascolta- disse. Io la guardai a mia volta indispettito -non ti piacerà come leggo- l’avvertii, poi iniziai:

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Ritorno a Casterba… …I ricordi sono una parte essenziale della nostra vita, anche se apparentemente la considerazione che essi trovano nella nostra memoria è limitata ad una banale nostalgia di quanto si vorrebbe cambiare se si potesse tornare indietro. Come già espresso però, una volta usciti da quel giardino, indietro non si torna più e rimpiangere determinate scelte fatte, o non fatte, non causa altro che una statica inerzia. Ciò che siamo è ciò che abbiamo creato con le nostre certezze o incertezze, con le nostre scelte o rinunce, con i nostri errori o successi. Che poi errori o successi siano determinabili in considerazione di un giudizio soggettivo, rimane appunto, una cosa soggettiva. Ad ogni modo di lui, in un paese rurale come il nostro, non sarebbero stati in molti a ricordarsi, se non fosse per la celebrità che acquisì proprio andandosene. Ricordo che quando lo incontrai la prima volta, ai tempi delle scuole elementari, io nemmeno sapevo chi fosse. Allora la cosa non mi stupì, ma ero solo un bambino che ancora poco conosceva perfino della formazione strutturale e mentale di un piccolo borgo come quello dove abitavo. Ovviamente è una considerazione che posso fare solo adesso, giacché a quel tempo non potevo ragionare con l’esperienza di adulto. Per quanto giovane io potessi essere (avevo solo sei anni), già conoscevo quasi tutti gli abitanti del paese che non oltrepassava le mille anime. In particolar modo, conoscevo quasi tutti i miei coetanei e coloro che erano di poco più o meno giovani. Mi sarebbero bastati ancora pochi anni per poter dire di conoscere ogni abitante del paese, vecchio o giovane, maschio o femmina, buono o cattivo… e questa era una cosa del tutto normale per chi abitava a Casterba: tutti sapevano tutto di tutti e tutti sapevano chi erano tutti… tranne lui. Demetrio conosceva pochi paesani pochi paesani conoscevano lui. Certo tutti sapevano che Pietro Dilago aveva un figlio di sette anni e tutti sapevano chi era Pietro Dilago, ma pochi conoscevano direttamente quel figlio che, conseguentemente, appariva come una sorta di anomalia. Non ci volle molto a capire che Demetrio generava una forma d’inquietudine nei propri compagni che nel giudicarlo strano, assecondavano la sua indole reticente, evitandolo come se fosse un virus da debellare. Pareva quasi che vi fosse il timore di subire un contagio, come se la sua indifferenza a tutto ciò che riguardava la consuetudine, fosse una malattia. Da parte mia, so solo che molte volte mi ero soffermato, come attratto da un’inspiegabile seduzione, a osservarlo durante quelle pause ricreative, quando mentre tutti noi ragazzini sfogavamo le nostre eccessive energie costrette alla reclusione durante le ore di lezione, lui se ne gironzolava tra i giardini dei cortili della scuola alla ricerca di insetti o piante da osservare. Ricordo in particolare, e credo che questo sia stato uno degli eventi che hanno scatenato in lui lo sdegno e il biasimo verso le persone dotte, o presunte tali solo perché in possesso di un diploma, un episodio avvenuto quando frequentavo la quarta elementare. Come ogni giorno, quando giungeva la primavera, lui si estraniava dai compagni nell’esplorazione del prato adiacente la scuola. In questo prato vi erano due grossi cipressi, dentro i quali si nascondevano un sacco di insetti strani. Ricordo che lui non era solito richiamare l’attenzione di nessuno quando trovava, dal suo punto di vista, qualcosa di interessante. Aveva un rispetto incredibile per la natura e le sue creature, ma quel giorno una ragazzina piuttosto curiosa che lo aveva osservato esaminare qualcosa che teneva tra le mani, le si era avvicinata per vedere cosa stesse facendo. Tra le cortecce dei cipressi Demetrio aveva trovato un interessante esemplare di cervo volante, uno dei più grandi coleotteri esistenti al mondo e, mettendogli la mano davanti, aveva atteso finché questi non aveva camminato fin dentro la sua stessa mano. Per lui era una cosa del tutto normale e lo stesso insetto sembrava starsene tranquillo. Quando la ragazzina le aveva chiesto cosa stava facendo, per lui era stato altrettanto naturale mostrare l’insetto, o meglio, per come lo vedeva lui, il suo amico. Ma se per lui un insetto come quello rappresentava qualcosa di speciale e affascinante, così non era per la ragazzina che invece aveva lanciato un grido di terrore. A nessuno di noi ovviamente un insetto di quel genere sarebbe apparso tanto affascinante e io ricordo come fosse stupita e sconvolta l’espressione di Demetrio nell’apprendere quanto ribrezzo provocava in noi quella creatura. Naturalmente eravamo accorsi tutti a vedere che cosa avesse spaventato la curiosa, e l’insegnante, una cinquantenne che per noi era solo una vecchia autocrate, presa da ribrezzo pure lei, subito aveva

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gridato a Demetrio di gettare via quel mostro. Aveva usato proprio queste parole: “Getta via quel mostro”. Contrariato Demetrio aveva ribadito che non era un mostro e subito aveva cominciato a descrivere le caratteristiche del coleottero di cui noi tutti ignoravamo perfino l’esistenza. Ma l’insegnante stizzita e terrorizzata quanto la ragazzina curiosa, aveva colpito con forza la mano di Demetrio facendo volare lontano lo sventurato coleottero e poi, con un’azione che oggi definirei macabra e crudele, era corsa verso l’innocuo insetto e con la potenza del gigante lo aveva schiacciato sotto il peso del suo piede. Demetrio aveva urlato con tanta disperazione che il suo grido rimase impresso nella mia memoria per molti giorni a seguire. Era corso verso l’insegnante e incurante della sua autorità l’aveva spinta via con forza tale da rischiare di farla cadere a terra. L’insieme dell’azione aveva creato prima l’ilarità degli alunni accorsi a vedere cosa stava accadendo per quel grido disperato nel quale si intuiva il preludio ad un pianto, poi si era trasformata in occasione di divertimento per come veniva trattata la maestra e, infine, confusione tra un misto di dileggio e allo stesso tempo timore per come successivamente si era comportato lo stesso Demetrio che, indifferente alle imprecazioni e alle minacce dell’arcigna maestra, aveva raccolto l’insetto ormai privo di vita e, mentre vedevo i suoi occhi inumidirsi, immaginando lo sforzo che doveva fare per trattenere le lacrime, nell’ignorare la voce stridula dell’insegnate prima che altri docenti giungessero a intervenire, avvicinava l’insetto al proprio viso per sussurrare delle parole. Fu quel gesto a trasformare il senso d’ilarità dei curiosi alunni da divertimento a timore. Credo che per tutti quella divenisse la conferma che Demetrio non era completamente normale e forse, fu in quel momento che per me cominciarono a cambiare le cose. Fu lì che probabilmente ebbe inizio il mio tradimento verso me stesso. Io non vedevo stranezze in lui ma più precisamente una similitudine con quel mio modo di pensare e di pormi tutte quelle domande sull’origine della nostra natura. Allora quelle parole sussurrate, le ritenni espressioni di perdono, ma oggi, le valuterei in un modo diverso. Parole che volevano rimandare ad un ringraziamento del quale, se non mi fossi lasciato intimorire e avessi azzardato a domandargli delucidazioni, avrei anche saputo comprenderne il riferimento. Ma intorno a me si stava manifestando la realtà del pensiero esteriore, quello in cui cominci a percepire l’insidia malevola di chi ti osserva e giudica, e quegli umori, divisi tra il timore e la canzonatura che infine conducevano ad un'unica risoluzione, realizzavano in me la consapevolezza che la diversità poteva generare problemi e condizioni che io non ero pronto ad accettare e in quell’unirmi alla massa di curiosi, cominciai a contaminare e imbrogliare la mia natura. Ad ogni modo Demetrio fu richiamato dal preside stesso e obbligato a chiedere scusa all’insegnate. Era stata una sfida entusiasmante e ricordo molto bene quel che disse. “Io non ho commesso nessun delitto. Lei invece sì” aveva detto indicando l’insegnate. Era stato punito per questo e da allora gli era stato proibito di recarsi in giardino. Da quel giorno aveva smesso di comunicare con gli insegnanti, limitandosi a rispondere alle interrogazioni o alle domande riguardanti le lezioni, prendendo le distanze da tutto ciò che rappresentava una qualsiasi forma di autorità. Non fosse stato per il suo leale rispetto delle regole e delle leggi, lo si sarebbe potuto definire un anarchico. Era evidente ad ogni modo già da allora, che il suo futuro a Casterba non sarebbe stato dei più solari. Dopo quell’episodio la sua reputazione d’ambiguo era aumentata e non poche erano le occasioni in cui i coetanei trovavano modo di schernirlo. Eppure, quando tornò, dopo venti anni di esilio, tutto il paese, o quello che ne restava, si radunò per festeggiarlo. Fu un grande evento, uno di quelli che scuotono la monotonia dello scorrere del tempo dall’inerzia dell’invariabilità quotidiana. Uno di quegli eventi che non tutti i piccoli paesi possono immaginare di poter sfruttare e nel quale anche un indigeno si sente fiero di essere parte di una comunità che può vantare tra i suoi generati una celebrità. Uno di quegli eventi per cui un comune dalle poche risorse, diventa disposto perfino a investire denaro. Ma si trattava di un’occasione per mostrarsi al mondo, o per lo meno a quella piccola parte di mondo che per Casterba rappresentava una conquista. A documentare la grande manifestazione, infatti, che in realtà non era altro che un comitato di bentornato incorniciato dalle musiche eseguite dalla piccola banda del paese, abbellito dalla

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partecipazione della giunta comunale che dispensava discorsi di encomio e concluso con la cena offerta dall’unico ristorante del paese, vi erano le telecamere delle emittenti televisive locali che avrebbero contribuito alla breve notorietà di Casterba, con la speranza che fosse solo il principio. Nel discorso di presentazione tenuto dal sindaco, infatti, era emersa la possibilità che l’ospite tornato dal passato fosse disposto a collaborare con il suo particolare contributo alla stesura di un libro documentaristico e storico riguardante Casterba e le zone limitrofe. Un progetto che, pensavo io, doveva essere stato improvvisato in tempi recenti, ideato dall’illuminazione che potersi avallare di un nome tanto prestigioso non poteva che portare benefici. Così Demetrio era stato subito ingaggiato e sembrava pure che lui stesso si fosse reso disponibile. In effetti il suo non doveva essere un impegno così complesso. Si sarebbe occupato della parte fotografica, immortalando nelle immagini che avrebbe realizzato, i più suggestivi luoghi della zona. Sì, perché era di fotografia che Demetrio si occupava ed era attraverso questa sua arte che ora veniva riconosciuto come un figlio di Casterba e festeggiato come colui che era stato un tempo ospitato dai generosi cittadini di quel territorio che gli aveva dato l’opportunità di scoprirsi così talentuoso. Il suo successo, in parte, era da attribuire a Casterba, o almeno così dovevano ritenere i suoi illustri abitanti perché, nel bene e nel male, erano stati loro a spingerlo verso la scoperta della fotografia, consegnandogli parte di quelle qualità che, come un antico sùmbolon, erano rimaste ritualmente custodite nella memoria del territorio. Ora, se lui poteva ritenersi degno di quell’ospitalità, era proprio attraverso quella metà che aveva portato con sé e che tornava ad unire alla metà lasciata in quella memoria collettiva che, non fosse per la notorietà conseguita, di quel frammento non avrebbe avuto ricordo. Era come se Casterba, con i suoi insegnanti severi e con la sua ristretta mentalità in cui un professore poteva permettersi di dire che un giovane figlio d’agricoltori non aveva altro futuro davanti a sé che quello del lavorare nella campagna, si ritenesse fautore del suo successo. Come se tali comportamenti avessero scatenato nel figliol prodigo la reazione nella quale era emerso il desiderio di esprimere quanto forte potesse essere la volontà di dimostrare a tutti quanto si sbagliavano. In queste, che potevano essere comunque elucubrazioni involontarie, Casterba ometteva di considerare le antiche origini dell’ospitalità, e accogliendo Demetrio come un ospite ignorava i vincoli cui inviavano. A tal proposito, i ricordi del passato mi portarono alla memoria una lezione dei tempi del liceo classico, quando la docente di letteratura, in una lezione sull’Iliade, aveva raccontato di un particolare poco conosciuto ai meno esperti del mondo classico, in cui si evidenziava come accogliere un ospite nella propria casa non rientrasse tra le cortesie occasionali. Tale condizione, aveva spiegato, implicava l’instaurarsi di un legame indissolubile, regolato da una serie di diritti e doveri molto rigidi, primo tra tutti il dovere di non uccidere, offendere o ledere in alcun modo il proprio ospite, col quale si restava in xenìa per tutta la vita, termine che nel mondo greco riassumeva appunto il concetto dell’ospitalità e dei rapporti tra ospite e ospitante che si reggevano su un sistema di prescrizioni e consuetudini non scritte ma riassunte in tre specifiche regole di base: il rispetto del padrone di casa verso l’ospite; il rispetto dell’ospite verso il padrone di casa; la consegna di un “regalo d’addio” all’ospite da parte dell’ospitante. Tradotto in questo senso, si poteva dire che ogni regola stava per essere rispettata: Demetrio tornava non più come cittadino di Casterba, ma come ospite; Casterba lo onorava con il rispetto dovuto all’ospite; Demetrio ricambiava l’ospitalità dimostrando il suo rispetto offrendo i suoi servigi; e la fotografia infine, rappresentava quel regalo, ossia quel sùmbolon di riconoscimento. Ciò che si ignorava era che quel ritorno implicava un nuovo vincolo, perché Demetrio era già stato ospite un tempo di Casterba, e quel sùmbolon con cui era partito, avrebbe dovuto, in caso di nuova partenza, essere sostituito con un nuovo sùmbolon, e sotto questo aspetto, per i servigi resi dall’ospite, evidentemente a Casterba nessuno considerava ciò che in cambio questo nuovo vincolo implicava. …Conclusi la lettura del secondo capitolo e guardai Felona: -Che ne pensi?- le domandai. Lei stava ragionando in modo analitico e forse stava già tracciando un profilo del possibile paziente. -È interessante il suo riferimento al sùmbolon e allo specifico modo di descriverlo. È evidente che hai a che fare con qualcuno che parla attraverso un codice- commentò.

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-Questo l’avevo capito- risposi -ossia, avevo capito che dovevo valutare il concetto di un enigma nascosto tra le righe. Io però non sono un esperto di simboli e, sinceramente, non avrei valutato la cosa da questo punto di vista. Tu ne deduci qualcosa?- Mi guardò contrariata -i simboli sono un elemento fondamentale in psicologia e ti consiglio da questo momento di fare molta attenzione a ogni riferimento di questo genere. Tu lo definisci un romanzo di bassa qualità, ma in realtà questo individuo non voleva scrivere nessun romanzo, e comunque non sarebbe poi così di bassa qualità visto i contenuti. Forse tecnicamente, ma non per i contenuti. Vedi, quando si riferisce al “giardino” per esempio, parla del paradiso terrestre comune a molte tradizioni religiose e in particolare a quello biblico. L’uscita dal giardino sta a significare quando si comincia a prendere coscienza di sé. Il passaggio dalla nudità a quello del coprirsi indica il momento in cui il bambino comincia ad avere cognizione del suo essere, a quel punto è come se il tempo cominciasse a scorrere e quando il tempo comincia a scorrere non si può più tornare indietro, ecco il perché del riferimento all’uscita dal giardino. Nella Bibbia un Cherubino viene posto alle porte dell’Eden con due spade fiammeggianti a impedire che chi ne esce possa rientrare, semplicemente perché lo scorrere del tempo non può essere interrotto- spiegò. -Interessante- commentai io con una superficiale noia -ma questo in che modo potrebbe aiutarmi?- Lei era assorta nei suoi ragionamenti e non notò la mia deconcentrazione, elemento che avrebbe dovuto farmi considerare la serietà con cui analizzava ciò che a me appariva ancora un’astrusa assurdità e, nel mio carattere presuntuoso, nemmeno tanto involontariamente tornai ad osservare l’improvvisata assistente sotto l’aspetto fisico, distraendomi ad osservarle le gambe limitatamente coperte dal mini abito che poco lasciava alla fantasia e quasi non l’ascoltai mentre proseguiva. -È evidente che lo scrittore fa riferimento ad un periodo preciso. Il simbolismo dell’uscita dal giardino o paradiso, come lo si vuole intendere, indica un momento cruciale. Un momento in cui una qualche convinzione, una qualche condizione o una qualche certezza è venuta a mancare e costui si è trovato a dover affrontare una nuova realtà-. -La realtà di non sapere se essere reale- dissi istintivamente destandola dalla sua meditazione e lasciandomi sorprendere nella mia esplorazione. Nell’attimo d’esitante silenzio mi osservò con disapprovazione e io provai un senso di smarrimento, intuendo che quel rapporto non ancora ben definito stava subendo un’inopportuna risoluzione. -Sì, è possibile- rispose indignata. Imbarazzato cercai di trovare una scusa plausibile, ma la classica frase “non è come pensi” mi sembrava del tutto fuori luogo e, non trovando altre soluzioni, cercai di distrarla mostrando nuovo interesse per le sue valutazioni. -E del resto che mi dici?- cercai di incoraggiarla ad approfondire le sue deduzioni. Ma il danno ormai era fatto e ora lei sembrava più interessata al mio atteggiamento indecoroso e immaturo piuttosto che al testo dall’attraente potenziale simbolico. -Non molto. Esclusa la parte simbolica sembra una normale storia autobiografica, come dici tu, un diario- si limitò a rispondere, sorvolando con fatica. Le proposi un sorriso conciliante -tutto qui? Non puoi aggiungere altro?- -E che cosa pretendi? Lui non è mica un mio paziente e questa non è la mia indagine- guardò l’orologio con evidente irritazione -adesso devo proprio andare- annunciò poi, ma sembrò dirlo solo per evitare di pronunciare qualcos’altro. -Ehi no, aspetta un momento. Non puoi lasciarmi qui in questo modo. Se già ero confuso prima adesso come pensi che stia? Ho bisogno del tuo aiuto per scoprire chi è questo pazzo- mi sentii improvvisamente spaventato e disorientato come chi viene abbandonato in una città che non conosce. -Ma non hai detto che non avevi ricevuto nessuna richiesta di indagine?- obiettò lei, mantenendo la sua indignazione. -Sì, ma ormai l’indagine è già avviata e poi, è sottointeso che chi paga vuole in cambio qualcosa-. Lei mi fissò con perfido divertimento. -Vero. Triste ma vero- sorrise e prendendo la sua borsa si avviò verso la porta. -Ehi no, aspetta. Io non sono in grado di decifrare quei… simboli come li chiami tu-. -E certo non li decifrerai sbirciando sotto la mia gonna- disse finalmente sfogando il suo disappunto, e io in un certo senso ne fui felice.

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-Senti mi dispiace- dissi con tono sincero, ma ancora incapace di controllare la mia boriosa natura, non riuscii a sfruttare l’occasione che mi veniva offerta per risolvere in mio favore l’ottusità che già mi aveva compromesso -non però che quel vestito mi dia molte vie di scampo- malignai senza rendermene conto e, quando me ne pentii, era già troppo tardi. -Mi dispiace, ma io ho un lavoro serio e non posso perdere tempo con uno che teme di impegnarsi oltre un interesse istintivo e il dattiloscritto di uno sconosciuto-. -Ma che significa? Andiamo, credevo che la cosa ti entusiasmasse-. -In effetti sì- ammise già sulla porta -ma credevo che la cosa avesse una certa importanza anche per te-. La guardai incerto se il riferimento fosse al manoscritto o a quello che c’era stato tra noi e nell’incertezza cercai di prendere le redini della situazione con goliardia. -E dai, non vorrai veramente rinunciare per una così banale stupidaggine. Sei una donna attraente, che un uomo ti rivolga certi interessi dovrebbe gratificarti-. -Solo quando l’uomo in questione non è un imbecille- la sentii rispondere e senza irritarmi ammisi a me stesso che me lo ero meritato. -E va bene, sono un imbecille e ti chiedo scusa. Non mi comporterò mai più in maniera scortese. Ma ti chiedo di capire che non posso sopprimere certi istinti-. Mi morsi la lingua maledicendo troppo tardi il mio stupido orgoglio maschilista. -Mi sorprende che i tuoi istinti ti permettano di risolvere i casi di cui ti occupi-. -Beh, non puoi paragonarti a donne attempate deluse e ormai avvizzite- pensai di averne detta una giusta finalmente ma evidentemente, ciò che pensavo io non si accordava con l’ideologia dell’universo femminile. -Una donna è sempre una donna, giovane, vecchia, avvizzita o appariscente- replicò decisamente contrariata. -Devo andare- disse quindi, più rassegnata che convinta -io ho un lavoro, e di responsabilità- si espresse in modo spregiativo con evidente riferimento al mio di lavoro, ma a quel punto pensai di poter riprendere il controllo. -Sì, hai un lavoro di responsabilità- l’incalzai -e se non te ne sei dimenticata, io sono un tuo paziente- dissi mascherando la disperazione in un surrogato di convinzione. -Allora prenota un appuntamento, questo è il mio biglietto da visita- lasciò un tagliando vicino alla porta e rapidamente uscì lasciandomi incredulo a fissare il vuoto: “da non crederci” dissi tra me e, dimenticando che era ora di pranzo, osservai di nuovo il dattiloscritto e quasi stregato, ripresi a leggere:

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L’ospitalità perduta “…Per i motivi descritti, la fotografia, per il momento, poteva essere considerata l’oggetto di quel sùmbolon spezzato che ora tornava a congiungersi con la comunità del paese. A dodici anni, infatti, Demetrio aveva ricevuto in regalo dal padre, che aveva intuito da molto tempo che il figlio non era destinato ad imitarlo nel lavoro agricolo, una macchina fotografica. Niente di speciale, una compatta con mirino oculare per inquadrare il soggetto e un tasto per scattare la foto che regolava da sé messa a fuoco e tempi d’esposizione. Era però quanto di più un agricoltore, che non fosse mio padre, poteva permettersi a Casterba. Pietro Dilago possedeva poche decine d’ettari di terra, che in un futuro non molto lontano sarebbero passate nelle proprietà di mio padre che invece controllava la gran parte dei possedimenti agricoli che si espandevano anche oltre i confini del paese. Quel regalo però fu l’avvento che cambiò la vita di Demetrio e che l’avrebbe avviato verso la notorietà che nel tempo presente sarebbe stata festeggiata da quasi tutto il paese. E fu una bella festa. Demetrio era stato trattenuto per quasi tutta la manifestazione da esponenti più o meno noti della politica e della cultura locale, ma durante la conclusiva cena al ristorante, le prestigiose pietanze, avevano lentamente distratto l’attenzione dall’artista, e finalmente Demetrio era stato disponibile anche per i meno facoltosi. Non che io potessi ritenermi una persona comune a Casterba. Avevo ereditato il patrimonio di famiglia e ora gestivo l’impero di mio padre ed ero, a livello provinciale, anche più noto di Demetrio. Tuttavia, qualcosa che mi portavo dentro ancora da quegli anni d’infanzia, mi rendeva più vicino ad un’umiltà che non sapevo interpretare ma che mi impediva di pavoneggiarmi e reputarmi al di sopra dei miei compaesani. Così in quell’occasione che aveva avuto il potere di riunirci tutti dopo tanti anni, io mi ero aggregato ai vecchi compagni e amici dell’infanzia, radunati assieme ad un unico tavolo. Presumo nessuno dei vecchi compagni avesse notato l’inquietudine che mi rendeva nervoso. Apparivamo, chi più chi meno, tutti spensierati e, per una sera, distratti dai quotidiani problemi. Ma io, che tra tutti ero certamente considerato quello che di problemi non doveva proprio averne, sentivo una certa agitazione nel tornare ad incontrare quell’amico che più di ogni altro, potevo definire: “Amico”. Ma qualcosa mi tormentava e non capivo, o forse non volevo considerare, che quel ritorno portava con sé vecchie vicende del passato. Memorie che al momento non apparivano così rilevanti, ma che proprio in quella irrilevanza manifestavano la realtà di essere state per troppo tempo ignorate e sepolte in una parte della mente lasciata incolta. Ma come da ogni seme sepolto, prima o poi si sarebbe generato un frutto… e il passato di ognuno è carico di semi sepolti. Sempre per una considerazione che non si riesce mai ad esaminare nell’immediato, quella vecchia lezione sull’ospitalità tornava ad aleggiare nella mia memoria. Era stata molto efficace l’inventiva dell’insegnate nel trovare spunto in quella storia tratta dall’Iliade in cui veniva narrato lo scontro tra uno dei più potenti ma forse meno noti guerrieri del poema. Un guerriero che tra i greci si distingueva per il suo furore in battaglia: Diomede, figlio di Tideo che seminava morte tra i nemici arrivando perfino a ferire gli dei Afrodite e Ares accorsi in aiuto dei troiani. Il poema raccontava che ad affrontarlo in campo era sceso Glauco figlio di Ippoloco, desideroso di sfidare il più forte tra gli avversari. Ma quello scontro avrebbe avuto un esito del tutto inatteso e, anziché concludersi con un epica lotta, si sarebbe risolto in un celebre dialogo. L’abile insegnante aveva una rara qualità retorica che sapeva usare sapientemente per attirare l’attenzione degli studenti e quando descriveva la lezione quasi sembrava recitare dando inizio all’interpretazione in modo sempre enfatico e appariscente. Aveva esordito con queste parole “Sarebbe stato Diomede il primo a parlare”, per introdurre la lezione che attraverso l’Iliade ci avrebbe condotti a comprendere il significato del termine “Sùmbolon”, proseguendo nella sua interpretazione, aggiungendo all’enfasi la gesticolazione delle mani e l’espressività del viso proprio come un attore “chiedendo chi fosse mai quel valoroso guerriero visto mai prima nella battaglia gloriosa e che adesso superava tutti in coraggio: E’ figlio di un padre infelice chi affronta il mio furore, se sei qualche dio venuto qui dal cielo non voglio combattere contro gli dei celesti ma se tu sei dei mortali che mangiano ciò che produce la terra, avvicinati e subito toccherai il confine di morte”. Aveva declamato, simulando la propria personale interpretazione dell’eroe greco.

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“Magnanimo figlio di Tideo, era stata la risposta di Glauco, perché domandi della mia stirpe? Com’è la stirpe delle foglie così è quella degli uomini. Le foglie il vento le riversa per terra e altre le salva e fiorendo ne genera quando torna la primavera, così la stirpe degli uomini l’una cresce e l’altra declina, però se tu vuoi, puoi conoscer bene la nostra stirpe, la conoscono in molti.” Ora, a distanza di tanti anni, posso apprezzare l’efficacia delle sue interpretazioni riconoscendo come quelle lezioni siano rimaste impresse nella mia mente al punto di poter ricordare addirittura i passi del poema . “E a questo punto il racconto di Glauco deviava sui ricordi” proseguiva l’abile insegnante “riferendo le fasi salienti delle vicende della propria famiglia, soffermandosi in modo particolare sull’antenato più nobile della sua stirpe, ossia, Bellerofonte, di cui raccontava di quando Antea, moglie del re di Argo, innamoratasi dell’eroe gli proponeva di unirsi a lui di nascosto dal marito. Ma Bellerofonte, nobile e leale rifiutava. Allora la donna, sentitasi respinta, ideava la sua vendetta attribuendo al giovane proprio la colpa che non aveva commesso, accusandolo di aver cercato di farle violenza e chiedendo vendetta al marito. A questo punto, Proetos avrebbe affidato all’eroe una tavoletta da consegnare al re Iobates, suo suocero, contenente nel messaggio la richiesta di uccidere Bellerofonte. Ma quando Bellerofonte aveva raggiunto Iobates, il re lo aveva festeggiato con un banchetto per nove giorni, e solo dopo avergli conferito questa accoglienza aveva letto il messaggio. Solo allora, scoprendo che doveva uccidere il suo ospite, rispettoso delle regole dell’ospitalità decideva di imporre a Bellerofonte il compito di annientare la terribile chimera. Questo perché Iobates era nell’assoluta impossibilità di uccidere l’ospite, macchiarsi del sangue di colui con il quale si era condiviso il cibo, avrebbe costituito la più grave delle empietà. Udito il nome di Bellerofonte e il racconto delle sue vicende, Diomede aveva piantato la lancia al suolo in segno di rinuncia a combattere contro chi non riconosceva più come avversario ma come un ospite antico, perché tramite il racconto della sua discendenza, Diomede aveva potuto ricordare che suo nonno Eneo aveva un giorno ospitato proprio il nonno di Glauco. La xenìa, aveva a quel punto spiegato, linfa che scorre attraverso le generazioni, era per gli antichi greci una realtà geneticamente trasmissibile che durava al di là della vita dei singoli e vincolava le loro discendenze, pur senza essersi mai incontrati né tanto meno ospitati, Glauco e Diomede così si riconoscevano sotto tale vincolo, ossia congiunti dal rapporto dell’ospitalità attraverso quel legame che aveva unito i loro antenati. Il ricordo dell’ospitalità che aveva legato Eneo a Bellerofonte era vivo nella memoria di Diomede grazie ad una coppa d’oro che egli possedeva ancora nella sua casa di Argo e gli stessi Glauco e Diomede stabilivano così di risaldare l’antico legame con un nuovo scambio avvenuto proprio sul campo di battaglia, monito e testimonianza per i due eserciti che avevano avuto l’opportunità di apprendere che oltre alla banalità del male e alla necessità del dare la morte, poteva anche esserci un’alternativa al non combattersi. Questo era quanto avevo appreso in quei lontani tempi, ma poca importanza gli avevo attribuito, senza valutare che così, in un tempo successivo avrei potuto rivelare come la coscienza umana prevarica la saggezza divina e, succube di un vincolo d’orgoglio, percepisce nel proprio animo la condizione del dialogo e del confronto pacifico come una debolezza, preferendo dare dimostrazione della propria superiorità non con l’intelligenza ma con la forza bruta, avvicinandosi in somiglianza più all’istinto bestiale che all’intelletto di cui tanto si fa vanto. Ancora non comprendevo in che modo quel ricordo avrebbe dovuto farmi capire ciò che si stava smuovendo in me e, nella mia agitata condizione in cui ancora prevaleva l’orgoglio di sentirmi moralmente giusto, tramutavo i due guerrieri dell’Iliade in me stesso e Demetrio, come se percepissi nel mio profondo un conflitto. Ma se nell’Iliade quel conflitto si era concluso con la tregua e il rispetto tra i due, nella realtà della mia condizione io percepivo come se si stesse tramutando in una sorta di estensione dove i due combattenti tornavano dal regno di Ade per concludere ciò che avevano lasciato in sospeso attraverso una serie di rinascite che vedevano concludere il loro ciclo tramite me e Demetrio. Non so per quale ragione provassi tale sensazione, ma era come se percepissi che l’amicizia con Demetrio si stesse manifestando per ciò che veramente era, o per ciò che io cominciavo a temere che fosse: uno scontro del quale non avevo cognizione. Io ero Diomede e Demetrio era Glauco che, dopo aver atteso che le famigerate regole dell’ospitalità si perdessero dalla memoria degli uomini, tornava

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a sfidarmi per dare conclusione all’epico scontro. Uno scontro che si combatteva con armi diverse, ma che, nella mia rianimata immaginazione, aveva avuto origine molto prima. Era successo qualcosa negli anni che avevano preceduto la sua partenza. Qualcosa che aveva avuto la capacità di trasformare le nostre vite. Ma tutto ciò poteva essere facilmente giustificabile nel passaggio del tempo, nel cambiamento di età e nella comprensione di certe responsabilità, eppure, era come se io mi stessi convincendo che in qualche modo, il corso della mia vita avesse subito una deviazione nella quale mi ero perso qualcosa. Ciononostante non avevo ragione di ritenere che la mia vita fosse scorretta o che in essa vi fosse qualcosa da rimpiangere. Semplicemente, avevo realizzato ciò che era mio dovere ed ero diventato l’adulto che dovevo essere. Ma qualcosa sembrava turbare quell’equilibrio che mai prima d’ora avevo messo in discussione e fu per non so quale motivo che, nel riavvicinarmi ai ricordi del passato lontano, cominciai a vedere in Demetrio una figura che aveva avuto un ruolo predominante in quello che sarebbe stato il mio futuro, con tutto ciò che ne sarebbe risultato dagli eventi seguenti e per questo il suo ritorno, più che gioia, mi generava una sensazione più vicino al tormento. C’era qualcosa nel passato che doveva essere rimasto in sospeso. Qualcosa che doveva concludersi, ed era per questo, credevo, che Demetrio era tornato; ed era successivamente per questo che, come Diomede, lo vedevo come l’avversario non combattuto ma accettato, solo perchè con lui si era instaurato un legame che tra noi esisteva fin dall’età infantile ma che ora, pareva non dover più sussistere perché il sùmbolon, non aveva più essenza. L’ospitalità era diventata ormai una cortesia ridotta ad un interesse superficiale, e come ogni cosa iniziata, doveva avere un termine. Diomede e Glauco avevano uno scontro in atto mai concluso e adesso, forse, era giunto il momento di portarlo al termine, poiché, come aveva detto lo stesso Demetrio un tempo, ogni simbolo è una rivelazione che va interpretato, compreso e concluso. Avevo iniziato nell’assoluta indifferenza ma ora cominciavo a sentirmi sempre più coinvolto e quasi paranoico giacché, senza capirne bene il motivo, stavo iniziando a pensare che perfino l’intervento imprevisto di Felona aveva un senso. Forse volevo semplicemente crearmi una condizione che mi permettesse di riallacciare un legame con la fascinosa donna, giustificai nella mia mente, e il dattiloscritto poteva essere un espediente, ma qualunque fosse la ragione con cui cercavo di giustificare la necessità di continuare ad occuparmi dell’indagine, non riuscivo ad impedirmi di percepire, più che una curiosità, una necessità e, nell’assurdità delle mie legittimazioni, come un principiante mi sentii intrappolato in qualcosa che andava oltre ciò che mai avrei pensato di poter considerare: indagare su qualcosa che non esisteva. Tutto ciò, per uno come me, era e doveva restare assurdo e, con ciò che si manifestava in un sorriso, la mia mente razionale impiegò pochi secondi a farmi percepire il rischio di avventate supposizioni, così, adeguando il mio raziocinio, imposi a me stesso un autorevole superficialità e gettando con noncuranza i fogli sulla scrivania come non avessero alcuna rilevanza, mi obbligai a non lasciarmi coinvolgere oltre, di finire la lettura come previsto dal fantomatico accordo e dimenticare tutto non appena conclusa l’ultima riga. Cercai quindi di riposare con serenità… ma nonostante gli sforzi, la mia tranquillità era stata corrotta e l’indomani potei constatare come l’ansia non concedeva spazi alla distensione mentre l’illogico documento continuava a perseguitare i miei pensieri. Era già sera quando presi il cellulare e osservando il biglietto da visita digitai il numero di telefono. Sentii più volte squillare e quando cominciavo ad imprecare pensando che tra non molto avrei sentito una voce registrata avvisarmi che il telefono della persona ricercata era spento o irraggiungibile, finalmente la voce familiare rispose: -Pronto?- sentii dire. -Chi sono Diomede e Glauco e cosa c’entrano con la storia dei simboli?- dissi senza nemmeno identificarmi, con una velocità logorroica nella quale le parole parevano superare il pensiero. Sentii il classico silenzio imbarazzato di chi cerca di capire da che cosa sia stato travolto, poi giunse la risposta, ma non fu certo quella che mi aspettavo. -Sei in crisi vero?- -Non ho voglia di scherzare. Tu mi hai incasinato con questa storia dei simboli e ora mi ritrovo a dover capire perché mai mi s’introducano degli estranei in una vicenda che non ha alcun senso- risposi irritato.

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-Per te ovviamente sono estranei, ma non certo per lo scrittore-. -Non psicanalizzare per telefono, io ho bisogno di capire…- -Come paziente o come privato?- -Non metterti a fare domande ridicole…- -Vieni da me tra mezz’ora- disse allora non lasciandomi nemmeno il tempo di valutare perché mai avesse ceduto così rapidamente. -Al tuo studio intendi?- non osai rischiare di innervosirla. -No, sono già a casa- mi dettò l’indirizzo e per un certo tempo restai interdetto, incapace di capire se la giovane psicologa stava cercando di adescarmi o se fosse veramente interessata ad aiutarmi nell’assurda indagine. Quando arrivai da lei mi trovai accolto da una donna che non sembrava più di una ragazza, il che mi disorientò ancor di più nel giudizio che potevo avere su di lei. L’avevo vista in tenuta sportiva, in tenuta professionale e ora in quella informale, con jeans, sandali e maglietta bianca, e delle tre non sapevo quale mi attraesse di più. Mi trovai disorientato, prima dall’aspetto confidenziale, mentre ciò che mi ero aspettato era una condizione che la contraddistinguesse per quello che era, ossia una dottoressa, poi per la semplicità del suo appartamento, che non assomigliava affatto a come presupponevo dovesse essere un appartamento da psicologi. L’arredamento era oltre il limite del minimalismo, non fosse stato per un angolo cucina dove un pensile fungeva da tavolo per il pranzo o la cena, la casa era totalmente spoglia. Immaginai che almeno il bagno dovesse essere completo degli arredi e pensai a come fosse la camera da letto, poi i miei pensieri furono interrotti dalla sua esortazione a seguirla. Passando attraverso una sala completamente vuota la vidi avviarsi verso una porta e un sottile ironico pensiero mi condusse a credere che stavo per scoprire quella stanza che pensavo non mi avrebbe mai fatto visitare. E in effetti era così. Dietro la porta mi si presentò una sorta d’ambulatorio arredato con una scrivania, una poltrona e un lettino, il tutto oscurato da una luce soffusa che doveva avere presumibilmente lo scopo di rilassare. Sulla parete dietro la scrivania vi era l’unico tocco che alludeva alla sua professione, una libreria con molti volumi messi in ordine che non mi preoccupai di esaminare. Restai invece ad osservare il suo comportamento con evidente imbarazzo e avversione. -Stai scherzando- le dissi osservandola sedersi sulla poltroncina. Lei mi guardò con sorpresa allargando le mani in segno d’incomprensione. Cercai di controllare l’orgoglio che mi faceva pensare d’essere ridicolo. -Non vorrai veramente che mi metta lì- indicai il lettino. Lei restò nel suo disinteresse. -Come vedi non ho molti posti in cui farti accomodare, ma puoi restare in piedi se preferisci. Molti pazienti lo fanno, li fa sentire più normali-. La guardai e questa volta non riuscii a controllarmi -ehi, io non sono matto-. -Nessuno lo è. O almeno nessuno lo è nella propria regolarità. È l’idea del distendersi che fa scattare quella sorta di pregiudizio, e comunque, se ti può servire uno psicologo non cura i matti. Ad ogni modo io non ho tempo da perdere e tu nemmeno visto che la visita la devi pagare, quindi fa un po’ come vuoi, puoi parlare stando in piedi o rilassarti sul divano. Oppure, se la cosa t’infastidisce, te ne puoi andare-. Per un momento provai il desiderio di strozzarla. -Io ti pago per assicurarmi il segreto professionale, non per farmi analizzare-. -Vedila un po’ come vuoi. Tu per me resti un paziente e se accetto denaro è solo per questa ragione. E ora se vuoi procedere… paziente- aggiunse l’aggettivo con sottile ironia. La guardai con aria di sfida quasi convinto a lasciar perdere e andarmene via, ma se lo avessi fatto avrei perso l’unica possibilità di andare oltre qualcosa che non riuscivo a comprendere e nel rilassarmi sentii il bollore dell’orgoglio ridursi, così quando mi distesi sul divano lo feci con un sorriso più vicino al divertimento che alla rassegnazione, ma non sapendo come funzionasse una terapia, restai in silenzio. -Allora?- domandò dopo un po’ lei. -Allora cosa?- dissi io. -Allora parla, o te lo sei scordato? Il paziente parla lo psicologo ascolta-.

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Alzai lo sguardo e la fissai come a chiedere se mi stava prendendo in giro, poi compresi che non aveva senso continuare a sfidarla, era evidente che su quel terreno non avrei mai potuto batterla. -Voglio sapere di Glauco e Diomede. Il misterioso scrittore ne parla nel seguito del suo bizzarro racconto-. -In che termini?- domandò. Mi sentii preso in giro, ma più che da lei dalla mia stupidità. Non ricordavo certo tutto il testo scritto ma comprendevo che la sua domanda era plausibile. -Non so, non ricordo bene. Parla d’ospitalità e altre stupidaggini dell’antica Grecia- dissi irritato. -Non mi stupisce- iniziò allora lei -l’episodio omerico di Glauco e Diomede è uno dei più importanti per comprendere il concetto d’ospitalità presso gli antichi greci. I due si scontrano sul campo di guerra ma scoperto un antico legame di ospitalità rifiutano di combattersi e si scambiano le armi per risaldare l’antico legame. È un'altra rappresentazione di simbologia-. -Sì, descrive anche questo, ma cosa c’entra col resto?- non riuscii a nascondere la mia ansia. -Non saprei, non aggiunge molto a quello che già abbiamo letto-. -No, lui descrive i suoi ricordi relativi a questo episodio dell’Iliade e poi aggiunge di avere la sensazione che i due guerrieri siano tornati a combattersi. Ora che il concetto d’ospitalità si è perduto dalla memoria degli uomini i due guerrieri possono portare a termine quello scontro mai avvenuto e secondo questo folle, lui e il suo amico sono la reincarnazione di Glauco e Diomede-. La dottoressa mi guardò pensierosa. -Decisamente interessante questo individuo- commentò -è ovvio che è afflitto da un senso di colpa, ma per una qualche ragione non sa di che cosa si tratta-. -Che vuoi dire?- -Solitamente i sensi di colpa vengono repressi, nascosti fino al punto da essere dimenticati. Quando ciò avviene la condizione psichica del soggetto diventa distruttiva. Tuttavia, per quanto il soggetto si sforzi di nascondere a se stesso la realtà, lui è ben consapevole di quale sia la condizione generativa del senso di colpa. Qui però, sembra che il nostro soggetto non abbia compreso l’origine del suo malessere che viene denotato nel tirare in ballo il concetto di vite precedenti. La confusione o la disperazione lo conduce a rintanarsi in concetti indimostrabili, così come quando nelle difficoltà uno che mai ha creduto in certe astrazioni si rintana nella preghiera, lui rigetta le sue colpe in tempi che non crede veramente di aver vissuto, ossia, le vite precedenti, e forse è proprio per questo che vuole che tu indaghi-. -Ma che follia è mai questa? Su cosa dovrei indagare? Sui viaggi nel tempo? E poi, su chi dovrei indagare?- -Magari se continui a leggere puoi capirne qualcosa di più-. Sospirai -non ho portato con me il documento-. Lei allargò le braccia -non so che dirti-. -Non posso continuare a leggere e poi venirtelo a raccontare, non c’è un'altra soluzione?- -Torna domani col manoscritto-. -Non riuscirò ad impedirmi di continuare a leggere quando rientrerò-. La vidi sorridere. -Ho il viva voce, puoi telefonare…- La guardai facendole capire che la cosa non mi entusiasmava, tuttavia, dopo mezz’ora circa ero al telefono e come un idiota leggevo ad alta voce:

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Risveglio dal letargo “…Era stato Val ad attirarlo al nostro tavolo. Si era alzato in piedi e con la sua nota esuberanza lo aveva chiamato ad alta voce, ma non con il nome con cui era noto al mondo, ma con quello noto a Casterba. E fu proprio quel nome, gridato come segnale, a scuotere ancor più in me l’incompresa agitazione. Non so se avvenga così anche per gli orsi che vanno in letargo durante l’inverno, non so se anche loro, ad un certo punto, sentono quel richiamo, quel segnale che come un rito li incita al risveglio. Ma non credo che per loro sia così tormentoso come lo fu per me. Io so solo che quando si avvicinò, qualcosa si smosse in me, come un masso che si stacca dalla cima di una montagna, rotola giù per la valle, precipita nel fiume e ne rompe gli argini, lasciando che l’acqua esca oltre le barriere e cominci a seguire una nuova rotta. Era come se dentro di me, la foresta incantata si fosse destata e tutte le sue creature avessero ripreso a gridare. Eppure, tutte quelle entità, gli spiriti dei boschi, i signori della foresta, le ninfe e le maranteghe dell’acqua, folletti streghe o elfi come li si volesse chiamare, non c’erano più da tempo. Lui stesso lo aveva confermato, prima di andarsene. Per venti anni se ne era stato in giro per il mondo a produrre, come direttore della fotografia, filmati per documentari televisivi o fotografie per riviste naturalistiche prestigiose, creando così, giorno dopo giorno la notorietà che lo avrebbe reso la leggenda di Casterba. E per quegli stessi venti anni io avevo costruito la mia di notorietà, attraverso il silenzio di quegli occultati spettatori dei boschi e dei fiumi che stavano in attesa di vedere come si sarebbe concluso l’epico scontro che forse solo io continuavo a immaginare, e attraverso il vuoto che la sua assenza aveva lasciato intorno a me. Niente più mormorii notturni, niente più visioni allucinogene e niente più domande senza risposte. Solo il presente con la sua concretezza, con le sue regole, le sue morali e i doveri di cui ogni persona razionale e responsabile avrebbe dovuto occuparsi. Semplici e naturali disposizioni di una società che aveva bisogno di un ordine prestabilito e organizzato, dove le ideologie di anarchia da liceale incosciente o le fantasie di un ribelle senza alcuna esperienza di vita rivelavano tutta la loro inconscia improduttività. Venti anni di assoluta, monotona, tranquillità. Venti anni in cui di Tommaso D’amanti ogni cittadino di Casterba e dintorni poteva verificare ogni movimento e azione incorrotta e declamare la sua nobile serietà. Venti anni di onorata ed eccellente reputazione costruita sull’integrità morale e sulla lealtà sociale. Venti anni di visibilità, mentre di lui, Demetrio, si potevano solo individuare notizie sui canali di ricerca specializzati nel settore. Certo era noto che aveva lavorato con le più importanti riviste mondiali come il National Geographic o il Times, si sapeva che aveva collaborato con le più grandi equipe documentaristiche del pianeta lavorando per produttori come la BBC. Durante quella sera lui stesso aveva raccontato di aver partecipato ad un progetto su un documentario nelle foreste amazzoniche che lo aveva tenuto impegnato per più di due anni. Lo si poteva trovare perfino su internet se si digitava il suo nome, ma restava comunque un nomade di cui si poteva solo costatare la notorietà, ma di cui non si sapeva null’altro, ed era abbastanza facile comprendere come sotto i finti entusiasmi lo si considerava dai presenti alla serata, intellettuali o no che fossero. Era l’anonimo che aveva conquistato il mondo e che ora tornava da vincitore a riscuotere ciò che Casterba gli aveva negato, e io sapevo che cos’era quel che cercava. Solo che le cose erano cambiate, gli anni avevano trasformato le vite di noi tutti, e ciò che lui aveva desiderato in un tempo nel quale di Demetrio Dilago Casterba non aveva alcuna considerazione, adesso era per lui ottenibile. Ciò che nessuno comprendeva però, non era che quanto era tornato a riscuotere fosse il rispetto rifiutatogli da Casterba, perchè Demetrio non cercava né gloria né vendetta, e seppure questa la si potesse definire nobiltà, era ciò che io avrei voluto considerare, perché percepivo, in quel richiamo che giungeva dal mio lontano letargo, che il risveglio poteva essere più traumatico di quanto potessi immaginare… Forse perché in tutti questi anni, Diomede, l’invincibile eroe, aveva perso parte dalla sua potenza mentre Glauco invece aveva trascorso tutto il suo esilio ad allenarsi e a prepararsi per lo scontro finale, per abbattere l’unico ostacolo che gli impediva di appropriarsi del suo nuovo sùmbolon e, come colto da una paranoia maniacale, osai pensare che ogni cosa pareva essersi svolta in un modo

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premeditato, affinché si potesse giungere all’attuale condizione, come fosse stato tutto organizzato, od occasionalmente, prestabilito. Nei decenni che precedevano il terzo millennio, a Casterba la cultura contadina non generava molta istruzione, o, per essere più precisi, non generava diplomati o accademici in quantità rilevante. In tempi di abbondanza, in un paese agricolo come quello, il mondo del lavoro era considerato più nobile di quello dello studio e questo faceva sì che tra noi giovani, pochi fossero quelli ad intraprendere l’avventura universitaria e molti quella del lavoro. Io ero stato un privilegiato, se così mi si può definire, con un futuro già scritto: figlio unico cresciuto sotto la guida di un padre imprenditore e proprietario di un’azienda agricola che mi aspettava come erede. Inevitabile per me finire tra i pochi che avrebbero intrapreso la via degli studi per divenire prima un perito agrario e poi, attraverso la carriera universitaria, un dottore in economia e commercio. Non so quanto questa condizione abbia influito sul mio modo di essere, non so quanto si possa definire che la mia condizione fosse un privilegio e quanto il mio livello culturale abbia potuto influenzare il mio pensiero, resta il fatto che io a Casterba non ero un anonimo e che a quei tempi ero certo più popolare di quanto lo fosse lui oggi. Ma come già detto, lui per me non era mai stato anonimo. C’era sempre stato nel suo modo d’essere, nel suo sguardo nostalgico, nel suo enigmatico silenzio, qualcosa che mi attraeve. Qualcosa che mi impediva, al contrario dei miei coetanei, di non ignorarlo o irriderlo come fosse una sorta di anomalia del sistema, come si direbbe oggi, un’imperfezione di configurazione nei dati naturali, o come si sarebbe detto allora, un balordo o, con più inettitudine, uno scemo. Ma in definitiva, non c’era nulla di anomalo in lui. Era semplicemente uno che amava starsene in disparte, e che dialogava più volentieri con i fiumi piuttosto che con la gente. Sì, lui ascoltava i fiumi, e aveva insegnato a sentire la loro voce anche a me. La voce dei fiumi, degli alberi, delle rocce, degli insetti e di tutti quegli abitanti del bosco che ad un certo punto, avevano cessato di mormorare e se ne erano andati, prima di lui, o con lui… Ecco perché adesso anch’io desideravo essere come coloro che lo vedevano solo esteriormente sotto l’aspetto della leggenda ma che, dietro le maschere, rivelavano invidia, gelosia e disprezzo. Ecco perchè anch’io adesso avrei preferito considerarlo come l’anomalia del sistema, così avrei potuto continuare a vivere nella mia tranquilla pregiudiziosa ignoranza, senza dover ricordare che in tempi passati, non solo avevo avuto concezioni strane su come potesse essere illusoria la realtà in cui stavamo vivendo, ma che pure, di tale illusione, avevo potuto fare esperienza, e adesso, pensare che non potevo più ignorare quel passato che con lui tornava, e con esso rischiare di dover mettere in discussione tutto ciò per cui avevo lavorato innalzando le mie barriere mentali contro l’insidia della follia, mi sembrava troppo insopportabile…” Restai in silenzio ad osservare il vuoto del capitolo che si concludeva e ascoltai il leggero ronzio dell’elettricità statica prodotta dal telefono in viva voce attendendo che dall’altra parte giungesse un qualche segnale di vita. -Allora, che ne pensi?- dissi dopo un po’, temendo che la psicologa si fosse addormentata. Ma quando invece rispose infastidita, compresi come fosse contenta di poter tornare ad analizzare l’enigmatico documento. -Sto riflettendo- si limitò a dire e io non osai aggiungere altro prima che fosse lei a riprendere. -Il capitolo si chiude così?- domandò dopo un po’. -Sì. Sotto l’ultima parola vi è uno spazio bianco, poi devo voltare pagina- in quel momento sarei stato disposto a pagare per vedere la sua espressione e me la immaginai sdraiata seria sul divano per matti, con lo sguardo rivolto verso il soffitto e le mani che intrecciavano le dita all’altezza del mento in un atteggiamento nervoso, come se l’intreccio stesse a significare la difficoltà di districarsi da un ingarbugliato tormento, e per un attimo ebbi la visione di una ragnatela d’acciaio che la imprigionava. -Questo ti dice qualcosa?- osai domandare, più per scacciare quella visione che mi procurava inquietudine che per avere un effettivo responso. -È piuttosto complesso. Riprende il contesto del sùmbolon, ma aggiunge elementi incostanti. Quel riferimento al letargo rivela una sorta di stordimento relativo a qualcosa che aveva rimosso e che costringe in un certo senso la sua mente a ricordare quasi forzatamente ciò che ha cercato di dimenticare. Poi accenna ancora al conflitto tra Glauco e Diomede, il che continua a far pensare che veda nell’amico un avversario. Disprezza chi lo giudicava uno scemo, forse perché lui stesso ad un certo punto ha iniziato ad essere come loro e al tempo in cui scriveva il suo romanzo era pentito

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d’essersi confuso a essi… ma c’è quel riferimento a ciò che il misterioso fotografo è tornato a riprendersi, qualcosa che in quei tempi non ha potuto avere e che ora invece può conquistare…- -Scommetto che si tratta di una donna- ipotizzai, ma con serietà. -Sì, per questo ho usato il termine conquistare- precisò indispettita lei -il punto è che questo Tommaso è pervaso da un senso di colpa e il suo tentativo di scagionarsi, o di rifiutare tale colpa, lo conduce a creare quella realtà alternativa che lo porta alla concezione di vite passate, come se cercasse di spostare la sua colpa in un tempo di cui non ha cognizione e che di conseguenza non può essere responsabile, ma da come descrive i fatti sembra che si senta come se avesse defraudato l’amico di qualcosa, il che lo trattiene inevitabilmente legato al tempo presente… sebbene non dobbiamo dimenticare che il tempo presente di cui parliamo è per noi il passato-. -Già- confermai ricordando con superficialità che il documento faceva riferimento a tredici anni prima. -Forse quella donna è adesso sua moglie?- dissi tradendo la mia deformazione professionale che ormai mi aveva abituato a decifrare i conflitti coniugali. Mi morsi la lingua pensando che il mio non era stato un buon intervento. Se fosse stato così semplice, tutto ciò che rendeva la situazione tanto affascinante per lei sarebbe diventata banalità e senza indugio sperai di sbagliarmi. Ora più che mai sentivo la necessità della sua collaborazione, e non potevo permettere che le mie banalità compromettessero il fragile rapporto che si stava nuovamente instaurando. -È possibile- le sentii dire però, e un senso d’ansia mi colse improvviso -questo spiegherebbe perché si sia rivolto a te, ma la cosa mi stupirebbe assai- ammise. -Che cosa c’è sull’altro capitolo?- Cercai di ironizzare per mascherare la mia ansia -non è che poi mi presenti una parcella troppo costosa?- -Non faccio terapie telefoniche- disse irritata, il che mi fece comprendere che non le importava nulla dei soldi e che non era il caso di farla irritare con inutili stupidaggini per non rischiare di innervosirla e indurla a mandarmi all’inferno lasciandomi così solo in quel labirinto, quindi girai il foglio e velocemente lessi ad alta voce:

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La collina “…-Allora Mage, ne avrai conosciute di donne nei tuoi viaggi…- Mage era il nome con il quale era conosciuto a Casterba, e che per sua stessa ammissione non gli era stato assegnato per caso. Per lui, nulla era un caso. Lui stesso lo avrebbe detto e seppure anche questo sia un pensiero che riesco a valutare solo adesso, quel sopranome fa parte dei fatti della vita che, per quanto banali o superficiali, servono a far comprendere come nulla nella storia di un uomo, o di una donna, avvenga per caso. Nell’agreste Casterba, nessuno praticamente era conosciuto con il suo vero nome. Tutti avevano un nomignolo che inevitabilmente finiva per diventare il nome con cui veniva poi riconosciuto. Una sorta di nome indiano, una specie di totem acquisito per una dote, per un gesto, per un aneddoto o per semplice ironia. Era poi quasi inevitabile che tale epiteto subisse delle alterazioni e che infine, a causa della pigrizia umana che limita ogni cosa, divenisse una semplice abbreviazione, e lui, malgrado la sua notorietà, restava ancora per noi tutti, “il Mage”. Mage, era la semplice diminuzione di Magellano, lo storico esploratore che per primo aveva circumnavigato il globo. Era stato grazie a lui che avevamo scoperto la collina, ovvero ciò che dalla collina si poteva fare. Non si trattava di una vera e propria scoperta. La collina era nota agli adulti di Casterba, e altrettanto nota era la profonda fossa che il fiume Tregnon aveva scavato nei suoi pressi attraverso la quale era nata la leggenda della Marantega che abitava tra le sue acque. A quei tempi le acque dei fiumi erano ancora limpide e praticabili, e a noi ragazzini piaceva fare bagni e tuffi nelle afose giornate d’estate. L’acqua scura della fossa, poteva diventare un’invitante tentazione per marmocchi incuranti dei possibili pericoli come eravamo noi. Così, per tenerci lontani da luoghi ritenuti pericolosi, come la collina, ci venivano raccontate storie di pericolose e malvagie creature che abitavano nei pressi dei medesimi posti. Storie di creature decisamente fiabesche e innaturali, che un adulto avrebbe compreso come invenzioni ma che, alla suggestionabile mente di un bambino figlio di una cultura minore, non ancora influenzato dall’invasione dei mostri televisivi che avrebbero tolto spazio ad ogni chimera, prendevano la stessa equivalenza all’uomo nero che si nasconde negli armadi. A causa di tali racconti, mai ci eravamo spinti oltre il confine della collina e nulla sapevamo di che cosa ci fosse oltre la coltre di arbusti e roveti che la dominavano. Demetrio però era un esploratore, e su lui le storie degli anziani non avevano lo stesso effetto che avevano sugli altri, anzi, più creavano mistero e più divenivano attraenti. Quando ci raccontò di aver osato andare oltre il confine che nessuno di noi azzardava superare, eravamo ancora dei bambini suggestionabili e nessuno aveva voluto crederci. In parte per i timori generati da quelle creature che noi consideravamo reali, in parte perché, pensare che uno sciocco come lui potesse avere quel coraggio, era dalla maggior parte di noi inaccettabile. Fu una delle poche volte in cui vidi emergere un orgoglio che, negli anni successivi, se avessi saputo mantenerne il ricordo, avrei definito inusuale, non suo. Ma in fondo, era anche lui un essere umano e alla derisione subito aveva reagito con istinto fiero e altezzoso. Era un ragazzino timido, più propenso alla fuga che all’attacco, o almeno così sembrava, ma quel giorno si difese con ardore, quasi come se l’onore che doveva difendere non fosse nemmeno il suo. Ma questo, lo avrei capito molto più tardi. Lo avrei compreso in un futuro nel quale ormai tendevo a rifiutare determinate cose. Ciò che aveva fatto infuriare Demetrio spingendolo conseguentemente alla reazione difensiva, non era la rabbia nel sentire offendere il proprio orgoglio, ma la necessità di difendere ed esigere il rispetto che apparteneva a qualcosa di più grande e che noi neppure potevamo idealizzare nel nostro limitato pensiero. Disse che eravamo dei creduloni e fifoni, e che nei fiumi non esisteva nessuna creatura malvagia. Nella natura, precisò, non esisteva nessuna creatura malvagia. Gli spiriti della natura si adiravano solo con chi non li rispettava, aveva detto, e tutti di nuovo lo avevano deriso. Ma lui, che coi fiumi ci parlava, sapeva bene quel che diceva, ed io ero rimasto stupito dalle sue parole ad un punto tale che lo stesso giorno gli avrei chiesto di accompagnarmi oltre la collina e mostrarmi ciò che aveva scoperto. Fu uno dei momenti più intensi della mia adolescenza, e fu anche uno dei momenti in cui avrei potuto percepire l’instaurarsi del conflitto in me. Da molto tempo avevo cercato di comprendere cosa vi fosse

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oltre lo sguardo dei suoi occhi e da altrettanto tempo avevo desiderato conoscere cosa celassero i suoi pensieri e finalmente avevo trovato l’occasione per penetrare in quel labirinto che necessitava di una guida per poter essere esplorato. In quel momento Demetrio diventava il mio filo d’Arianna perché sentivo che attraverso di lui avrei potuto ricevere molte risposte alle infinite domande che mi ero sempre posto, scoprendo cosa fosse reale e cosa fosse illusione. Ma allo stesso tempo, come se il destino stesse gestendo uno di quei giochi d’abilità in cui bisogna scoprire sotto quale guscio si nasconde l’oggetto misterioso, c’era quel timore di avvicinarsi troppo ad una trappola insidiosa, come se un cacciatore avesse posizionato la sua tagliola nella quale, se l’orso destato avesse finito per metterci la zampa, avrebbe rischiato di restare mutilato per sempre. Ricordavo ancora come mi ero sentito quando nell’episodio del cervo volante avevo preferito restarmene anonimamente nascosto tra la folla dei beffeggianti, timoroso che il prendere le sue difese mi avesse spinto verso l’inevitabile marchio di amico del balordo, spedendomi inevitabilmente verso un giudizio che avrebbe rischiato di avviarmi nella direzione dell’isolamento discriminatorio. Così lo avevo fatto di nascosto, attendendo le ore pomeridiane e cercandolo dove sapevo che nessuno lo avrebbe trovato, vale a dire, tra le isolate strade sterrate della campagna solitaria. Era ovvio che gli anziani volessero tenerci lontani da quel luogo. La collina era un tratto di terra che si alzava appena fuori i confini di Casterba. Non era una vera e propria collina, e seppure allo sguardo di un ragazzino ogni cosa prendesse un aspetto decisamente più grande facendola sembrare più imponente di quanto non fosse, essa non era altro che un semplice tratto di terra che si innalzava ad un livello di nemmeno una decina di metri rispetto il terreno pianeggiante. Ma lo faceva in un modo informe che si diceva essere stato creato da una serie di rifiuti gettati nell’antichità, quali ceramiche, terrecotte e altri ciottolati che la rendevano intrattabile a livello agricolo e conseguentemente una superficie inutile dove, vista la sua improduttiva attrattiva economica, l’erba cresceva senza che nessuno se ne prendesse cura. Così per salirci era necessario oltrepassare una barriera di rovi le cui spine erano dure e affilate. Non so come il Mage le avesse superate, ma era evidente che ci era andato molte volte e che nelle diverse occasioni aveva finito per tracciare un sentiero, scoprendo un passaggio come un vero esploratore. Ad un certo punto, ricordo, mi trovai avvolto dai roveti, in una sorta di galleria che lui conosceva bene, ma poi, una volta giunti sulla sommità, la collina sembrava spezzarsi e precipitare come un fiordo verso il fiume che passava sotto. Oltre il fiume si stendeva altra terra incolta, dominata da un bosco di pioppi e il paesaggio appariva surreale, una sorta di giungla selvaggia di indubbio fascino anche per chi non era come Demetrio. In quel punto il fiume aveva scavato una fossa perché la corrente era costretta ad un rallentamento da una brusca curva e così, dall’alto della collina, si poteva osservare un colorito più scuro dell’acqua. Osservai il Mage scendere verso il fiume per un tratto della ripida discesa e fermarsi in un punto in cui la parete, modificandosi come uno scivolo, proponeva uno stretto tratto pianeggiante che consentiva di stare seduti. Mi avvicinai a lui e ammirai la sua contemplazione che sembrava quasi ieratica. -Non hai paura?- ricordo di avergli chiesto. Si era seduto portando le mani giunte sul petto inclinando la testa verso il basso in modo che le punte delle dita gli andassero a toccare la bocca. Scosse lentamente il capo per farmi segno di no, poi disse qualcosa che mi avrebbe condizionato per tutta la vita, o almeno, per quella parte di vita in cui tali parole restarono nella memoria. -No, da questo lato del fiume non ci sono nature malvagie-… Se il giorno successivo avessi esposto anche queste parole nel mio racconto, avrei certo contribuito ad alimentare le dicerie sulla sua stranezza e pazzia, ma qualcosa mi aveva trattenuto dal farmi burle di lui perché a quelle parole io, avevo provato un brivido che non si poteva definire di paura o di freddo, ma piuttosto di timore reverenziale, come se avessi sentito che effettivamente qualcuno, o qualcosa, stava comunicando con lui. Ero però anch’io un ragazzino le cui capacità di controllo avevano un limite, e non ero riuscito a trattenermi dal raccontare che Demetrio c’era stato veramente oltre la collina e che io ero andato con lui. Non avevo svelato nessun segreto in fondo, giacché lui stesso ne aveva parlato, ma la possibilità di rendermi audace agli occhi degli altri compagni mi aveva fatto agire senza riflettere sulle conseguenze del mio gesto. Fu per questo che quando, con un gruppo di coetanei, mi recai da lui per chiedergli di portarci tutti alla collina, il timore di essere considerato un traditore, per un momento mi fece raggelare.

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Era ovvio che se gli altri ora credevano alla storia della collina era perché io avevo raccontato di esserci stato, tradendo la fiducia che lui mi aveva concesso. Ma il mio gesto si stava solo rivelando una ulteriore conferma che la mente umana agisce in modo particolarmente assurdo, deridendo coloro che proprio in conseguenza alla loro diversità potevano compiere speciali scoperte o esplorazioni, e dando invece credito a chi di tali scoperte faceva uso per una più consolidata popolarità, sebbene delle medesime scoperte non avesse alcun merito. Tuttavia, quando mi guardò, il suo sguardo era serio, ma non severo. Non credo che a quei tempi nemmeno lui sapesse controllare le sue emozioni, e non credo che ancora avesse cominciato a considerare le circostanze della vita come eventi degni di riflessioni, ma già qualcosa rivelava nei suoi occhi pensieri e considerazioni. Quella volta non vi era ammonimento in lui, né indignazione, tuttavia, avevo colto come una sorta di ammonimento… Ero entrato nel labirinto e avevo scelto la mia guida e ora, in questo tempo, per quanto cercassi di convincermi che da molto ne ero uscito, cominciavo a temere con orrore di essermi invece inoltrato troppo in profondità a siffatto labirinto nel quale ancora non avevo incontrato il Minotauro e che per molto, molto tempo, avevo perso il mio filo, addentrandomi, o meglio, inabissandomi sempre più nell’intricata rete di cunicoli del profondo ipogeo. E ancora, non riuscivo ad accettarlo…” Attesi nuovamente in silenzio. -Ecco, è come prevedevo- sentii dire dopo un po’. Capii che continuare a far ironia per sdrammatizzare qualcosa che appariva diventare sempre più serio non aveva senso, io stesso del resto non riuscivo a sottrarmi all’attrazione del documento che progressivamente si faceva sempre più coinvolgente. -Che intendi dire?- limitai la mia domanda. -Che non è semplice come potrebbe sembrare. Qui non abbiamo a che fare con un’infedeltà coniugale o qualcosa di simile. Certo si parla di tradimenti, ma non siamo nemmeno sicuri che vi sia qualcuno da tradire. È decisamente un soggetto interessante e ancora non comprendo se i personaggi che ha creato siano reali o fantasiosi…- -È l’ipotesi da cui abbiamo iniziato ricordi? Capire se questo soggetto vive nella realtà o nell’irrealtà- attesi di sentire una risposta ma per un lungo periodo, o almeno per quello che appare un lungo periodo quando si sta al telefono, ci fu silenzio, poi, come se tutto all’improvviso sembrasse non avere più alcuna importanza, la sua voce si riaccese nel ricevitore con un affermazione a dir poco, in quella circostanza, sconvolgente. -È tardi, meglio andare a dormire ora- la comunicazione s’interruppe così bruscamente che anche se avessi voluto dire qualcosa non avrei potuto e lo stupore mi lasciò senza parole. Sentii lo scatto dell’interfono che veniva spento, poi percepii come una sorta d’impotenza che mi dava l’impressione di un vuoto da panico che valutai come quello di cui deve soffrire un claustrofobico. Per un attimo, forse per rabbia, presi a riflettere sulla sua sanità mentale e successivamente maledissi perfino l’avidità e l’orgoglio che mi avevano condotto ad una sorta di sfida che ora avrei preferito non aver accettato, presumendo che quella notte il mio non sarebbe stato un sonno tranquillo. Al contrario, dormii profondamente. …Dicono che tutti sognano e che chi dice di non sognare in realtà non ricorda semplicemente ciò che ha sognato. Qualunque fosse la verità, io non sognavo o non ricordavo di aver sognato, per questo forse la mattina mi svegliavo più riposato di tante persone che di giorno sembravano aver passato la notte in bianco. Tuttavia capitava anche a me di avere dei giorni in cui al risveglio provavo la sensazione di non aver riposato, soprattutto quando quel risveglio avveniva in modo brusco e precipitoso come stava accadendo sempre più spesso negli ultimi giorni. Era di nuovo il campanello della porta che suonava freneticamente a causarmi il risveglio non desiderato. Un suono fastidioso che in principio mi aveva fatto credere di ricordare, più che un sogno, un incubo che solo la realtà del capire che il suono era concreto mi faceva intuire che ancora una volta non ricordavo i miei sogni. Imprecai irritato. Era la seconda volta in meno di una settimana che il fastidioso campanello osava interrompere il mio sonno e valutai la possibilità di staccare i fili che lo alimentavano. Cercai di ignorarlo, ma solo per pochi secondi perché il ronzio era così insistente e fastidioso che se fosse durato ancora un po’ avrei potuto rischiare d’infuriarmi più di quanto già ero. Con l’ira che aumentava sempre più saltai giù dal letto, non presi la pistola, ma solo perché ero certo che solo la mia espressione poteva già essere micidiale e

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deciso ad affrontare l’inopportuno seccatore con una serie di imprecazioni e maledizioni corsi alla porta senza nemmeno vestirmi. Spalancai la porta con violenza e la voce mi si congelò in gola. Solo dopo averla sentita parlare ringraziai di aver usato la biancheria intima la sera prima per coricarmi, altrimenti adesso potrei raccontarvi di quanto imbarazzo avesse pervaso quel momento, piuttosto che dirvi che me ne stavo stupidamente confuso di fronte al volto serio di Felona che, per nulla sconvolta dalla mia scapigliata presenza, mi domandava cosa ci facevo ancora a letto. Restai così stupito che se non avesse preso lei l’iniziativa di entrare in casa scansandomi via dall’entrata, probabilmente sarei rimasto inerte tutto il giorno a fissarla con la bocca spalancata. -Che ti prende? Che cosa ci fai qui?- riuscii solo a domandarle imbarazzato. Lei osservò il disordine che regnava in casa mia, poi mi osservò contrariata. -Mi stupisce che con i tuoi ritmi tu possa risolvere qualcosa-. Guardai l’orologio che segnava le dieci passate. -Si dà il caso che in questo periodo io non stia lavorando- mi giustificai senza sapere il perché, ma lei mi incalzò. -Niente affatto bello mio. Si dà il caso che tu sia nel bel mezzo di una vicenda piuttosto intricata per la quale mi pare di aver capito che sei già stato pagato e quindi hai un ingaggio. E si dà il caso anche che da quanto appare tu non sappia nemmeno fare il tuo lavoro-. -Ma come ti permetti?...- osai irritarmi, ma quando mi avvicinai lei mi bloccò parandomi davanti alcuni fogli. Mi arrestai imbarazzato -cosa sono?- domandai. -Realtà- rispose lei. -Come?- -Chi ha scritto questo documento non racconta fantasie ma cose reali- disse allora la donna e io mi sentii avvolgere da una considerevole confusione. -Da che cosa lo avresti dedotto?- -Il nome. Ricordi quello che scrive nell’ultimo capitolo? Inizia dicendo che nulla è per caso e poi fa riferimento ai nomi, quel primo dono che riceviamo, come dice all’inizio del racconto, quindi fa riferimento al modo in cui si creano i totem… qualcosa cui deve dare particolare importanza e quindi, tutti questi nomi devono necessariamente essere veri. Questo tizio è uno che crede nella consacrazione e non oserebbe mai profanare qualcosa che per lui è sacro. Così, questi nomi devono essere reali- spiegò e a quel punto la mia ira si trasformò in divertimento. -E mi hai buttato giù dal letto per questo? Per una semplice deduzione psicologica?- le girai le spalle come a farle intuire che le sue paranoie non conducevano da nessuna parte. -Mia piccola investigatrice, tu sarai anche una buona psicologa, ma in questo lavoro le deduzioni hanno un valore effimero. Capisco che l’avventura possa entusiasmarti, ma ti consiglio di continuare a fare il tuo lavoro e lasciare questo ai professionisti- provai un momento di orgoglio perché ciò che avevo detto lo avevo fatto con l’intenzione di umiliare, una specie di piccola vendetta per quel suo tono di superiorità dimostrato in precedenza, e mi sentii soddisfatto nel percepire la sua introduzione ferita nell’orgoglio. -Se dobbiamo lasciare questo lavoro ai professionisti allora il primo che dovrebbe smettere sei proprio tu. E comunque se ti dessi la briga di osservare quel foglio capiresti che le mie non sono semplici deduzioni - si sfogò, e il mio orgoglio si spense. -Cosa vorresti dire?- esclamai posando gli occhi sul foglio che mi aveva consegnato. Sembrava una ricerca idrografica sui fiumi. -Che cosa significa?- le domandai spiegazioni non avendo voglia di mettermi a leggere qualcosa che potevo evitare, visto che lei già sapeva. Riprese i fogli e cominciò a spiegare -nell’ultimo capitolo questo tizio ci dà nuovi elementi e in precedenza ha parlato di una figura chiamata Marantega-. -Sì la ricordo anch’io, la cita assieme alle fate e ai folletti della natura, ma non mi sembra di aver mai sentito nulla di questo genere. Voglio dire, di elfi fate e streghe ne ho sentito parlare, ma di questa cosa qui…-

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-Io invece so di una leggenda in cui si parla di questa Marantega, ma so anche che si tratta di una figura del folclore veneto. Inoltre nella leggenda di cui ti parlo la si definisce una creatura dell’acqua e questo tizio sembra avere un certo rapporto con i fiumi-. -E allora? Dove dovrebbe condurci tutto questo?- Sembrò spazientita dal mio non comprendere e lo evidenziò con una smorfia. -Cita il nome di un fiume nell’ultimo capitolo, e pensa un po’?- dovette entusiasmarsi alla vista della mia perplessa intuizione. -No, non dirmelo- dissi incredulo strappandole i fogli dalle mani. -Proprio così. Quel fiume è reale. Non è stato facile trovarlo perché è un fiume di quarto ordine e sulle cartine spesso questi corsi d’acqua non sono segnati. Ma alla fine l’ho trovato sebbene abbia dovuto disturbare un’amica che si occupa di geologia territoriale per averne conferma. Tuttavia esiste, e non è neanche lontano, attraversa gran parte del territorio del basso veronese. Proprio qui vicino- espose trionfante. Rimasi stupefatto -da non crederci, e questa intuizione l’hai avuta semplicemente per un nome?- -No, dall’importanza che questo individuo riserva al nome, ovvero dall’importanza che la persona di cui parla attribuisce al nome. È abbastanza evidente che tutto quello di cui lo scrittore racconta, lo ha appreso dall’uomo di cui narra. Forse lo paragona ad una sorta di sciamano o di maestro e probabilmente deve avere qualcosa in sospeso con lui. Per i nativi americani i totem erano la rappresentazione della loro personalità e una sorta di guida spirituale alla quale fare riferimento nelle avversità…- -Una guida? Mi sembra piuttosto confuso, se rappresentavano se stessi attraverso il totem, come potevano consideralo anche una guida?- Sorrise -è confuso per chi ragiona per convenzioni. La caratteristica cui rimanda il totem è un modo per conoscere se stessi. I nativi ricevevano il loro totem grazie a delle prove estreme, come il sopravvivere da soli all’interno di una foresta, costretti al digiuno o al freddo. Il totem spesso si manifestava in sogno o in una sorta d’allucinazione, oppure per effetto di un incontro che appariva come predestinato. Il coyote per esempio era simbolo di sopravvivenza, la volpe dell’adattamento, il corvo della magia e così via. Essere detentori di un totem significava avere le caratteristiche dell’animale o dell’oggetto di cui esso era rappresentante e significava avere la consapevolezza che tali requisiti erano in proprio possesso, di conseguenza queste caratteristiche potevano diventare una guida nel momento del bisogno. Una forma di coscienza del sé che conferiva una certa sicurezza… e questo tizio si riferisce all’esploratore Demetrio come una guida. Tutto è collegato-. -Considera Demetrio il suo totem?- -Certo che no, che stupidaggine dici? Ma è ovvio che lo considera una figura fondamentale per giungere alla risoluzione del suo enigma, che ora è anche il tuo-. La guardai tra meraviglia e timore -ma come fai? Come fai a saltare da un argomento all’altro in questo modo?- le dissi. Lei non mostrò nemmeno orgoglio, prese il fascicolo dal tavolo e lo spinse verso di me. -Hai già letto il capitolo successivo?- mi domandò. Negai con la testa. -E cosa aspetti?- Sorrisi rassegnato, presi il fascicolo e inizia:

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…le cose non cambiano “ ...-Accidenti Demetrio, tu sì che sei un vero esploratore, sei il Ferdinando Magellano di Casterba-. Ecco, era proprio in questo modo, attraverso delle semplici e sottovalutabili condizioni che già a quel tempo il destino cominciava a darmi segnali che il caso non era da considerare come tale. Se Val aveva potuto dire una cosa del genere, infatti, vi era un motivo. Solo due giorni prima, appunto, durante l’ora di storia Val aveva appreso dall’insegnante chi era Ferdinando Magellano, che aveva parlato agli alunni dei grandi esploratori dei tempi antichi, soffermandosi in modo insistente proprio sul navigatore Magellano che per primo aveva circumnavigato il globo. Così, grazie ad un tempo relativamente breve tra la lezione e la scoperta di Demetrio, Val aveva potuto associarlo al famoso esploratore, designando quello che sarebbe stato il suo futuro nome a Casterba. Da quel giorno Demetrio sarebbe stato ricordato da noi tutti come il Magellano di Casterba, e di lì a poco la pigrizia l’avrebbe ridotto in quel diminutivo che l’avrebbe definitivamente fatto divenire: “il Mage”. La collina avrebbe inoltre cominciato a far cambiare anche qualcos’altro nella sua condizione. Certo non sarebbe mai stato ritenuto un modello d’ispirazione, la sua popolarità non sarebbe divenuta dominante, ma le considerazioni su di lui sarebbero mutate. Restava per tutti un tipo strano, ma chi aveva avuto il coraggio di affrontare la collina e le sue insidie, non poteva restare indifferente a certe stime e da quel momento i coetanei avrebbero cominciato a vederlo con un pizzico di rispetto in più. Non avrebbero mai ammesso di ammirarlo, questo no, ma quel cambiamento gli avrebbe permesso di ottenere il suo ruolo nella collettività di Casterba senza più rischiare l’emarginazione totale. Da quel momento, tutti avrebbero saputo chi era il Mage e forse, da quel momento io avrei dovuto comprendere che Demetrio non era diventato il Mage casualmente, ma piuttosto, come se lui stesso avesse deciso di divenirlo. Sulla collina, eravamo in tanti quel giorno, compresi coloro che in un futuro non lontano sarebbero divenuti un gruppo di amici fedeli, seppure il tempo stesso avrebbe decretato che nessun legame è così solido da poter affermare che fossimo una compagnia indissolubile, e coloro che invece, malgrado tutto, avrebbero continuato a considerare il Mage come l’anomalia di Casterba. Persone che erano presenti anche a quella serata in suo onore e che ancora ragionavano in modo infantile, presenti solo per poter trovare ancora in lui difetti che dessero qualche motivazione per ritenere che in fondo il Mage non aveva fatto nulla che loro non avessero potuto fare o sicuramente, qualcosa che non era inferiore a ciò che erano divenuti. Fu un momento divertente l’intervento di Val, il cui nome non era il diminutivo di Valentino, in quanto lui si chiamava Riccardo,ma il diminutivo di Valium. La sua vivacità che negli anni sarebbe divenuta dinamismo, esuberanza, eccesso ed espansività, ci aveva indotto a consigliargli di fare uso di Valium per darsi una calmata. Lui era divenuto così Valium, e la pigrizia lo aveva fatto diventare Val. Certo Demetrio dovette pensare che non molte cose erano cambiate a Casterba, e lui era sicuramente troppo accorto per lasciarsi coinvolgere dall’esuberanza di Val. Aveva compreso che nel modo in cui lo stesso Val non era cambiato, anche la gran parte dei presenti era rimasta allo stesso livello del tempo infantile o adolescenziale, e gli era stato facile intuire che se avesse risposto alla domanda di Val nel modo in cui tutti si aspettavano, vantandosi cioè delle molte presunte conquiste fatte, avrebbe solo dato un pretesto per paragonarlo ad un qualunque comune individuo a coloro che attendevano solo un motivo di poter continuare a credere di non essergli in nulla inferiori. Ma anche reagendo in modo contrario, limitandosi a dire di non aver conosciuto nessuna donna, avrebbe dato lo stesso, se non peggior pretesto. Si limitò così ad un commento superficiale, discreto e rispettoso nei riguardi della natura femminile, ottenendo l’approvazione della categoria considerata. Ma io, pur nel riconoscergli una notevole dignità, non potei fare a meno di dubitare se tale risposta fosse rivolta alla valutazione dell’intera rappresentativa femminile presente, piuttosto che ad una sola di esse. Se lui aveva potuto stabilire, infatti, che a Casterba non erano molte le cose ad essere cambiate, io invece, dal modo in cui volse lo sguardo timidamente verso di lei, mi convinsi che in lui niente era cambiato…” -Allora, qualche nuova intuizione?- le domandai visto che il capitolo si chiudeva in modo così rapido.

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Lei mi fissò -sta introducendo argomenti nuovi. Commenta i limiti della mente umana che resta ferma su concetti arcaici e non riesce a superare determinate visioni. Sembra un punto piuttosto importante per lui-. -E cosa significa?- -Apparentemente nulla- disse ansiosa -ma sta per rivelarci qualcosa di importante, avanti, continua a leggere- mi ordinò. Era evidente il fascino che provava nell’elaborare la psiche di quello che io ancora consideravo un folle e mi fu impossibile osservarla tra un misto di divertimento, invidia e gratitudine per quel suo entusiasmo e, senza indugiare ripresi:

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7 Perché sei tornato?..

“…Il cuore della notte aveva ripreso a pulsare, e quella notte, sapevo, non avrei potuto evitare di sentirlo. Ero stato contento di rivederlo, e avevo mascherato dietro quella convinzione i presagi oscuri che per un determinato tempo mi avevano fatto pensare che sarebbe stato meglio per me non essere presente alla serata, così come non ne avevano preso parte tutti e quattro i suoi fratelli. Dopo vent’anni di silenzi, era stato difficile per loro accettare che tornasse come se nulla fosse accaduto. Loro, non avevano dimenticato, io invece sì, ossia, così pensavo. Credevo di aver dimenticato ogni particolare di quei giorni lontani, ma in realtà li avevo solo meticolosamente messi in disparte. Del resto, non c’era più spazio nella mia vita per fantasie e racconti irrazionali e nel costruire il mio mondo professionale, con tutte le sue responsabilità e conseguenze, calandomi nella parte del perfetto uomo d’affari e padre di famiglia, avevo scordato ogni considerazione e apprendimento che in quei tempi mi avevano quasi fatto diventare ascetico. Non avevo più considerato il caso come evento e l’evento come effetto, e di conseguenza, non avevo considerato che un giorno, il destino mi avrebbe ricondotto nel suo mistico delirio. Si possono avere dei periodi di tregua nella vita, ma il destino è come l’ombra, non la si può dividere dal corpo, solo nasconderla spegnendo la luce. Il problema è che per vedere la luce è necessaria e di conseguenza, diviene impossibile annullare l’ombra. Avrei capito di lì a poco, che il destino non ci impone il suo volere. Avrei capito quanto sa essere paziente, così come avrei capito che nonostante ciò, il volerlo ignorare, era solo la manifestazione del nostro stato di inferiorità. Ufficialmente lui era tornato perché una nota casa editrice gli aveva offerto il posto di responsabile grafico di una rivista naturalistica nel proprio organico. Aveva affermato di essere stanco di fare il giramondo e che desiderava fermarsi. Quella era un’ottima opportunità e nessuno aveva sospettato della sua sincerità, sebbene la sede ufficiale dell’editoria fosse a Milano. Io però, percepivo sensazioni insolite, le stesse che avevano risvegliato quel richiamo ormai dimenticato da troppi anni. Avevo continuato ad osservare il suo comportamento senza evitare di notare come il suo raccontare fosse distaccato, come se di ciò che narrava non gli importasse molto o, peggio, non se ne rendesse nemmeno conto. Invece, a differenza degli altri, non avevo evitato di notare come il suo sguardo, a volte furtivo, a volte più intenso, continuasse a posarsi su di lei, con un’espressione di malinconica tristezza. Forse anche lei se ne era accorta e magari si sentiva lusingata delle sue attenzioni, ma l’imbarazzo era evidente e io, che conoscevo la loro storia, anzi, ne avevo fatto parte, non potevo fare a meno di pensare che nelle intenzioni di Demetrio vi fosse ancora il desiderio di conquistarla. Se avessi continuato a pensare a Diomede e Glauco, avrei forse potuto comprendere in quella parte l’elemento scatenante della battaglia. Diomede e Glauco non si erano scontrati per Elena, ma a causa di Elena. Era stata Elena il simbolo principale dell’epica guerra che avrebbe condotto molti guerrieri a scontrarsi sulla spiaggia di Troia, e tuttavia, se si ragionava, quale colpa aveva avuto Elena? Al suo rapitore, Paride, era stato promesso il suo amore in cambio di un giudizio e lei quindi non aveva potuto sottrarsi ad un sortilegio divino. Lei pertanto, impossibilitata a sottomettersi al volere degli Dei, null’altro aveva avuto che il ruolo del pretesto, per far sì che due nazioni, due eserciti, due eroi e due guerrieri, potessero avere l’opportunità di confrontarsi. E se avessi continuato a pensare in questo modo, forse sarei riuscito a giungere al quesito essenziale: quale era la ragione di quel confronto? Ma non ero in grado di ragionare così, non ancora. Per farlo, avrei dovuto rischiare troppo. Avrei dovuto mettere in discussione ogni cosa, perfino la razionalità, ed io non ero disposto ad impazzire. La serata si era protratta fino a notte inoltrata e alla fine ci eravamo trovati soli, lui, io, e Val. Mancavano soltanto due a completare il gruppo, e la mattina successiva, io sapevo dove avrei trovato il Mage. Il piccolo cimitero di Casterba non è certo un cimitero monumentale, ma nella sua intimità mi ha sempre dato la sensazione di un luogo di pace. I cimiteri dei piccoli paesi, sono praticamente libri di storia che si possono leggere attraverso i personaggi le cui vicende si tramandano di generazione in generazione, così come si creano le leggende e le storie mitologiche.

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-Ciao- lo salutai arrivandogli alle spalle. Lui se ne stava in contemplazione davanti alla tomba del padre, vicina a quella della madre. Sembrava completamente assorto ed ero convinto che non mi aveva sentito arrivare, eppure mi salutò senza nemmeno voltarsi, come se avesse saputo che sarei giunto. -Ciao Tommaso-. Lui i diminutivi non li aveva mai usati “il nome che portiamo, è il primo dono che riceviamo in questa vita. È qualcosa di sacro” ricordai ciò che mi aveva detto in un tempo che appariva molto lontano, riferendosi al nome con il quale non mi chiamava nemmeno mia moglie. Ripensai alle parole dimenticate, e per un momento riflettei sulla mia scelta di andarlo a trovare in quella mattinata. Percepii dentro di me che non era stato il desiderio di stare da solo con un vecchio amico che mi aveva mosso a tale impulso, ma una sorta di incontrollabile necessità. Quando avevo sentito il cuore della notte risvegliarsi, avevo percepito anche l’inconscia necessità di conoscere, o meglio, di avere conferma del vero motivo per cui era tornato, e non avevo riflettuto sulle conseguenze che il mio gesto avrebbero potuto avere, così fui costretto a farlo in quel momento e, dubitando della correttezza di tale scelta, esitai. Nei cimiteri, vige quella sorta di rispetto, definito tale solo perché non lo si vuole considerare imbarazzo. Quando si incontra un parente in visita alla tomba dei propri cari, specie se non lo si vede da molto tempo, ci si sente quasi in obbligo a salutarlo ma poi, inevitabilmente non si trovano parole da esprimere perché non si sa quali siano i suoi pensieri e non si sa mai se il tuo intervenire possa essere un gradito contributo o un’invadente intrusione. Ma io ero lì perché sentivo che la visita alla tomba del padre era solo uno dei passaggi che lo avevano condotto nel suo ritorno a Casterba, ma allo stesso tempo, era un’occasione per deviare dalla mia reale presenza lì, così, vincendo l’imbarazzo, lo affiancai e gli posi una domanda che non era quella per cui mi trovavo al suo fianco. -Ti manca?- sapevo quanto era legato al padre, spesso lo aveva descritto come il suo eroe e mai aveva osato dire qualcosa di irrispettoso nei suoi confronti. -Alloggio in un hotel di Forlìa, te lo avevo detto?- Forlìa era il centro più vicino e sviluppato urbanisticamente a Casterba. Distava circa cinque chilometri e lo si poteva definire un paese moderno. Attraversato da una statale regionale contava quasi diecimila abitanti ed era provvisto di una stazione posizionata lungo una rilevante rete ferroviaria che lo rendeva piuttosto importante. -Sì- risposi, ma senza stupirmi più del dovuto perché sapevo che ora avrebbe cominciato a raccontare, e ricordavo bene che il suo raccontare non era mai insensato. Per quanto il suo discorso sembrasse deviare dall’iniziale quesito, egli stava rispondendo alla mia domanda. -Ho fatto un giro per il paese- cominciò a dire -ho visto che non è cambiato molto-. -È un paese di campagna, un paese che non si può trovare se non ci si decide di andare. Non importa a nessuno di Casterba. La popolazione diminuisce, l’industria non ci ha toccato e a differenza del resto del mondo qui il traffico è ridotto. Non abbiamo nemmeno bisogno di semafori o rotatorie, e tanto meno di hotel-. Sorrise -già. Ho fatto visita alla mia vecchia casa, ma non sono entrato. L’ho guardata da fuori. Ho visto che è stata ristrutturata, è divenuta una bella villetta bifamiliare. Ha un altro aspetto, un bel giardino, un nuovo perimetro delimitato da quelle belle recinzioni moderne in acciaio. Non c’è quasi più niente di quello che era un tempo- guardò la tomba con la foto del padre e come se entrasse in un altro spazio, un’altra dimensione, un altro tempo, la sua espressione si fece triste, più di quanto lo fosse generalmente. -Sai, loro non mi hanno mai perdonato di essere mancato al funerale- disse. Intuii che parlava dei suoi fratelli di cui solo una delle due sorelle gli era inferiore di età. Tutti si erano sposati e tutti avevano figli. Nipoti che lui nemmeno conosceva. La casa che ricordava era una vecchia dimora rurale, con un ampio cortile e un appezzamento di terra di qualche ettaro che il padre aveva lavorato prima di cederne la custodia al mio, divenendo un dipendente salariato sul suo stesso suolo. Ora di quella terra che nessuno aveva continuato a lavorare, alla famiglia era rimasto molto poco mentre il resto era stato assimilato tra i possedimenti della mia casata quando alla guida dell’azienda ancora vi era mio padre, ed ora era tra le mie proprietà. Il grande cortile era divenuto il giardino di cui aveva parlato e la bella ringhiera moderna aveva sostituito quella antica fatta di cemento, mentre nelle due villette, ottenute abbattendo una parte della

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casa, abitavano le sorelle. In questo modo si era come cancellato un pezzo di storia al quale soltanto a lui, paradossalmente, sembrava ancora importare qualcosa, e di tutto ciò che aveva rappresentato l’antico podere non restava nulla che rispecchiasse le caratteristiche della famiglia che lui ricordava. -Sanno che sei tornato. Tutti in paese lo sanno- gli dissi. -Sì. Ma non ho voluto dare loro noia. Mi avrebbero ospitato se lo avessi chiesto, ma non mi tratterrò a lungo, una volta definiti i termini del contratto cercherò casa nei pressi della città-. -E che noia avresti mai dato se si tratta solo di pochi giorni?-. -Te l’ho detto Tommaso, loro non mi hanno perdonato, e non credo lo faranno mai. Che letizia può mai esserci nell’ospitare qualcuno che si disprezza?… e chi è disprezzato, come potrebbe tollerare di vedere la sopportazione e l’indifferenza di chi dovrebbe volergli bene?- La sua tristezza sembrava profonda, ma non per l’odio che si sentiva addosso, ma più per il fatto che nessuno avrebbe capito le sue ragioni. Io non dissi nulla e dopo un po’ lui riprese. -Ero in Africa a quel tempo, e per quanto fossi lontano, per quanto non mi fossi presentato al funerale, io ero più vicino a lui di quanto chiunque altro lo fosse stato quel giorno- non mi stupii, e attesi di sentire le sue ragioni. -La mia vita non è stata un grande successo, se si esclude il fatto di essere ritenuto un personaggio importante in un paese per nulla importante- iniziò a dire, e io mi resi conto che la sua infelicità, adesso, toccava anche la dimensione umana. -In effetti, la mia vita non appare di rilevante importanza agli occhi di chi guarda semplicemente con la visione di un insieme collettivo. Quando si vive immersi in un contesto sociale, ci si aspetta dei conseguenti modelli sociali, ci si conforma ad un metodo che si accetta come autorità. Ciò che non è conforme, non è normale e chi non segue tale contesto è un individuo anomalo, quando lo si vuole giudicare in modo dignitoso; degenerato quando lo si vuole disprezzare. Mi rendo conto che non è possibile comprendere gli altri, e quindi non posso certo dire che nessuno mi ha mai compreso, tuttavia è molto più semplice comprendere una collettività e io, a mio favore, essendo stato un nomade solitario, posso avvantaggiarmi di questo fattore. Il singolo non è comprensibile perché non viene nemmeno valutato e quindi io, posso sinceramente dire, forse più degli altri, di non essere stato compreso- lo ascoltai perché, come già avevo presupposto, sapevo che ogni sua parola non doveva essere sottovalutata. Lui mi stava comunicando qualcosa che, sebbene potesse sembrare una giustificazione, conteneva in sé una sorta di lezione. Tutte queste cose però, come molte altre, le avrei capite molti anni dopo. -Loro non mi hanno mai perdonato la mancanza al funerale di nostro padre- ripeté -e sicuramente non avrebbero potuto comprendere che io, forse, più di tutti quelli che erano presenti fisicamente alla cerimonia, al suo funerale c’ero. C’ero eccome-. -Mi trovavo in Africa, a documentare le usanze di una tribù ritenuta primordiale- riprese perdendosi in ricordi che sembravano pervenirgli solo in quel momento -ma credimi- disse quasi distogliendo l’attenzione dei suoi stessi ricordi -non ho mai visto tanta primitività come nelle moderne metropoli al confronto di quanto fossero avanzate quelle tribù indigene- lo fissai intuendo che la sua allusione non era all’evoluzione tecnologica, ma a qualcosa che forse le grandi metropoli civilizzate cui si riferiva, ormai non potevano più considerare. -Durante una notte feci un sogno agitato di cui al risveglio non ricordavo molto. Sprazzi di immagini in cui mi era parso di vedere il volto di mio padre. Ho tanti bei ricordi di lui. Era un uomo forte, un gran lavoratore e soprattutto saggio. Tuttavia, dopo che nostra madre se ne era andata, all’improvviso, era ben presto invecchiato. Aveva perso la voglia di vivere e nei due anni successivi, prima che io partissi per i miei viaggi, aveva perso tutto il suo vigore, era deperito e la tristezza lo aveva logorato al punto che in quei due anni sembrava ne fossero passati venti per lui- alternava ricordi del tempo passato a Casterba a ricordi dei suoi viaggi. -Quando mi alzai, alle prime luci dell’alba, un anziano che stava seduto appena fuori della sua capanna fumando una pipa mi guardò e sorridendo, con un gesto della mano mi invitò a raggiungerlo. Mi diede una sensazione di pace, eppure io sentivo dentro me un vuoto incolmabile e una profonda tristezza. L’anziano continuava ad invitarmi a raggiungerlo, ma sarebbe stato inutile, io non capivo quello che diceva. Allora un ragazzo, che aveva fatto esperienze nel mondo civilizzato, mi si avvicinò

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“vuole che tu vada da lui” mi disse. Lo guardai intimorito. “Non aver paura” continuò il ragazzo “qualcuno ti ha fatto visita stanotte, e lui lo sa. Vuole solo rivelarti il messaggio”-. -Entrato nella capanna il vecchio mi fece sedere di fronte a lui. Tra di noi vi era un cerchio di pietre. Lì il vecchio accese un fuoco con degli arbusti secchi e aggiunse delle foglie di non so che albero. Dopo un po’ cominciò a cantare una specie di mantra e mentre il fumo mi avvolgeva cominciai a percepire una sorta d’oblio inebriante. La voce del vecchio si fece sempre più lontana, la mia mente sempre più pesante. Non so in che modo sia avvenuto, così come non è possibile capire quale sia l’istante in cui si passa dalla veglia al sonno, ma i ricordi di quella visione sono ancora nitidi, come se il mio fosse stato un viaggio non nel sogno, ma nella realtà. Mi trovai improvvisamente su una collina verde, se si potesse cercare di descriverla, la potrei definire una prateria irlandese. Dalla sommità della collina si vedeva, stagliato su un cielo azzurro intenso, un edificio circolare di un bianco candido come l’avorio. Era una costruzione imponente. Una sorta di tempio con un immenso colonnato. Era evidente però che la struttura era solo un perimetro. Dall’alto infatti si vedeva che non vi era soffitto, era come un immenso giardino e le sue porte non erano sbarrate. Io ero lì davanti e sapevo che lui, mio padre, era all’interno del giardino. Con me vi erano anche le mie sorelle. Tuttavia solo io mi avvicinai al tempio, poi, non so come, mi trovai all’interno. Mio padre e mia madre mi stavano osservando, erano felici. Non vi fu nessun dialogo tra noi, non a parole almeno, ma ricordo che mi accompagnarono come guide a visitare il grande monumento bianco. I colori dominanti erano quelli del verde intenso dell’erba, dell’azzurro del cielo e del bianco dei marmi che costituivano il monumento. Passeggiai con loro in quel pacifico giardino, poi mi trovai di nuovo davanti alla porta e mi fu chiaro che dovevo uscire. Avrei voluto restare, tanta era la pace di quel luogo, ma con una percezione compresi che mio padre mi stava dicendo che per me non era ancora tempo di stare lì e che quanto mi era stato concesso era già più di quanto un’umana concezione potesse avere. Dovevo andare. La percezione allora mi fece domandare ancora un istante, per invitare le mie sorelle a salutarli, ma a quel punto potei percepire la tristezza che anche nei paradisi è percepibile. Compresi che a loro, per una sorta di limitazione, non era concesso entrare e che il mio tempo era scaduto. Non fui io a muovermi ma piuttosto il tempio che sembrò allontanarsi da me. Osservai mio padre sorridermi e poco più lontana mia madre fare lo stesso. Ebbi ancora il tempo di vederli l’uno al fianco dell’altra avviarsi tra le vie del giardino tra nuove forme di fontane che si stavano formando, poi mi ritrovai sulla collina e intorno a me solo il vuoto e la solita malinconia che questa volta però, mi rallegrava…- -Quando mi risvegliai l’anziano sorrideva. Quella sera la tribù del villaggio organizzò una fasta in cui si danzava attorno ad un falò al ritmo di tamburi e flauti. Un omaggio alle anime che avevano ritrovato la loro dimora mi spiegò il ragazzo. Fu un’esperienza indimenticabile… Ma loro non avrebbero potuto comprendere, né accettare che io mio padre, lo avevo già salutato-. Restai in silenzio, sapevo che mi aveva raccontato quella storia perché riteneva che fossi l’unico in grado di comprenderla e quasi per una sorta di devota onestà mi sentii in obbligo di essere corretto con lui. -Mage, io non sono più quello di un tempo, e forse dovresti cominciare a pensare che anche tu non lo sei-. Mi guardò, deluso ma riconoscente -non la senti più neanche tu la voce del fiume vero? Il canto della notte e i sospiri degli spiriti, vero?- Da tempo ormai non li sentivo più. Avevo smesso di sentirli ancora prima della sua partenza, e anche lui, credo, aveva smesso di sentirli. Il fatto è che le sue parole, pronunciate quel lontano giorno sulla collina, mi avevano scosso al punto che qualche tempo dopo non potei evitare di domandargli che cosa aveva voluto dire. Avevamo preso ad andarci tutti i giorni sulla collina, al punto che il passaggio aperto dal Mage era diventato un vero corridoio non più arduo da superare. Eravamo così entusiasti che, seppure ancora bambini, avevamo cominciato a vantarci con le ragazzine della nostra età con l’orgoglio di chi può dimostrare il proprio coraggio. Del resto, ai tempi della collina avevamo già undici anni e la natura di bambini si andava lentamente spegnendo, e a quell’età non era nemmeno insolito aver voglia di esibirsi davanti alle marmocchie, già pronti alla competizione con la vita per conquistare, oltre ad un cuore femminile, una rispettabile stima, ignari di quanto ciò potesse influire su un orgoglio che in

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futuro avrebbe potuto essere causa di discordie, conflitti e, malgrado ancora non si potesse dire di averne una, perdita di identità. E la collina, per dei bambini ancora sprovveduti che continuavano a credere, pur sentendosi già uomini, alle grottesche storie di maranteghe e fantasmi, dava un’opportunità da non sottovalutare. Tuttavia, la collina stessa aveva rischiato di diventare un luogo noioso perché una volta lì, l’unica cosa che restava da fare era contemplare il paesaggio. Molti di noi avevano ancora timore delle leggende narrate dagli anziani e per quanto il fiume fosse invitante nessuno osava sfidarlo. Dimostrare di aver avuto il coraggio di affrontare la collina era già una grande prova, ma che cosa ci sarebbero dovute venire a fare le ragazzette se alla fine tutto si risolveva in una semplice spedizione esplorativa? Le avevamo condotte con noi e loro ci erano tornate per un po’. Ma la mente femminile non ragiona come quella maschile. È quasi contorta, ella non si accontenta di una conquista, vuole sempre qualcosa di più, è sempre alla ricerca di nuovi stimoli, di nuove emozioni. Un uomo, ragazzo o bambino, ha solo necessità di dare dimostrazioni di coraggio, di forza e qualche volta, di saggezza. Una donna, ragazza o bambina, ha bisogno da dare un senso a tali dimostrazioni. A quale scopo conquistare una vittoria se poi non si sa nemmeno giustificare per che cosa ci si è battuti? A cosa serve il potere se poi l’unico scopo per cui lo si usa è l’interesse proprio? A che serve raggiungere una meta se poi, una volta raggiunta, non si sa cosa farsene? In queste diversificazioni incomprensibili per noi, era strano sentirci dire che non aveva senso andare in quel luogo solo per dimostrare un coraggio che forse non era nemmeno tanto speciale eppure io, qualcosa di quell’assurda dissomiglianza, la comprendevo, nello stesso modo in cui intuivo che la vera sfida era il fiume, sebbene a quel tempo non comprendessi come il fiume e le ragazze fossero due cose distinte, restando convinto che vincere il fiume significava conquistare il rispetto dei ragazzi e l’ammirazione delle ragazze. Vincere il fiume significava vincere il drago, solo che ancora non sapevo chi era il vero drago e tanto meno sapevo che, come veniva raffigurato nel dipinto di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, per sconfiggere la bestia, era necessario proprio l’apporto di una donna. C’era un particolare però, mentre noi avevamo cominciato a frequentare la collina, il Mage aveva smesso di venirci e io ricordavo ancora le sue parole: “Non ci sono nature malvagie da questo lato” aveva detto, ma che cosa significava? Quando glielo chiesi mi guardò con sospetto. -Dovete stare attenti- mi disse -ogni luogo è protetto dagli spiriti della natura, essi non tollerano gli abusi, né la mancanza di rispetto- io lo ascoltai, ma stranamente, le sue parole non avevano lo stesso effetto delle leggende raccontate dagli anziani. -Non crederai veramente a queste storie?- gli avevo risposto con una certa ironia. In lui però l’ironia sembrava non esistere. In quel momento per un breve e troppo sfuggevole istante, ebbi la percezione di comprendere quale fosse la sua vera diversità. Una diversità che avrei iniziato a comprendere diversi anni dopo quando, divenuti stretti amici, in una conversazione confidenziale mi aveva confessato la sua sensazione di essersi sempre sentito un vecchio e più precisamente, di essere nato vecchio e che la sua età non aveva mai conosciuto la disinvoltura e la spensieratezza tipica di un bambino. -Se non credi alla mia verità, perché temi le leggende degli anziani?- mi domandò, ed io compresi quanto stupido fosse il mio atteggiamento. Lo guardai con imbarazzo, avrei voluto scusarmi, ma non sapevo in che modo. -Perché non ci vieni più sulla collina?- gli avevo domandato allora. -E voi? perché continuate a tornarci?- rispose con una domanda sensata, in quanto essa conteneva la risposta alla mia, ma io ero ancora troppo limitato per comprenderlo e con ingenuità risposi -è eccitante, e ci fa sembrare più forti-. -Ho commesso un errore- mi disse -non avrei dovuto condurvi là-. -Perché?- Mi guardò, poi mi domandò se avevo voglia di vedere una cosa. Quel giorno mi condusse lungo le rive del fiume Tregnon. Intendiamoci, non era un fiume come quelli che siamo abituati a considerare, era un corso d’acqua la cui profondità, esclusa la fossa della collina, poteva raggiungere al massimo della piena i due metri e le sue rive, nella loro più ampia larghezza raggiungevano forse gli otto metri. Il luogo dove mi condusse però era suggestivo e per un certo senso, intimidatorio. Attraverso una

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stradina sterrata lo seguii fino ad un punto in cui il fiume la attraversava. Lì un ponticello costruito con assi di legno le cui sponde erano protette da una precaria ringhiera anch’essa di legno, permetteva di passare oltre. Il Mage si fermò al centro del ponte e io, per una ragione incerta, esitai a seguirlo. Quando mi guardò sembrò soddisfatto. Allora io, sentendomi come sfidato, mi decisi a seguirlo, ma nel passare sul ponte percepii inquietudine e disagio. Mi fermai al suo fianco e istintivamente mi voltai ad osservare verso il lato destro, si percepiva un senso di tranquillità. -Lo senti?- disse allora. Io sentivo qualcosa, ma non avrei saputo dire che cosa fosse, ricordo solo che ero inquieto. -Questo ponte segna un confine. Da quel lato vi è benevolenza- indicò verso destra dove io stavo osservando. In effetti, sul lato destro la campagna si apriva come una radura e vi era molta luce, le acque del fiume poi sembravano rallentare e scorrere con calma. Erano visibili i pesci e, se la mia vista avesse potuto oltrepassare l’orizzonte oltre la curva che faceva sparire il fiume al di là della distesa di campi coltivati, e poi inoltrarsi più in profondità, avrei potuto scorgere anche la collina. Restai ad osservare lo scorrere del fiume e mi sentii in pace, poi però la voce del Mage mi portò in una realtà cupa e insidiosa. -Da questo lato invece…- mi costrinsi a girarmi e vidi che lui, senza timori, stava sul lato sinistro del ponte e fissava con decisione il fiume che scorreva verso di noi. Io non riuscivo ad avvicinarmi e osservai nella direzione verso la quale era rivolta la sua attenzione restando sul lato destro del ponte -…vi è oscurità-. Sentii un brivido. Da quel lato il fiume appariva all’improvviso, sbucando da una curva che lo faceva sembrare come un aggressore in attesa della vittima da assalire. Era nascosto da un piccolo bosco di platani e la curva aveva una conformità tale da far sì che le acque, come strozzate da una stretta di terra, trovandosi sotto l’influsso di una pressione idraulica, si gettassero nel corso che le conduceva al ponte con una violenza che, alla vista di un bambino, poteva essere associata a quelle di rapide montane. Forse a causa del bosco, forse per la posizione di nord ovest, il lato sinistro era in ombra e appariva buio, oscuro. -Che cosa vuoi dire?- gli domandai. -Molti anni fa- iniziò a raccontare -la natura è stata profanata. Su quelle rive uomini malvagi hanno compiuto atti sgraditi alla natura-. -Parli delle guerre del medioevo?- si sapeva che in queste zone erano state combattute guerre medievali e in alcuni punti si potevano ancora trovare delle rovine o, se si era fortunati, dei reperti che avrebbero potuto attirare l’attenzione di collezionisti o archeologi. -L’uomo non combatte solo contro l’uomo. Ogni volta che l’uomo compie azioni immorali, coinvolge l’intera natura, non solo quella umana, e gli spiriti della natura ne conservano la memoria. Così gli spiriti che stanno da questo lato sono ostili e avversi. Loro proteggono la natura e ogni uomo che si inoltra oltre questo confine, dovrebbe sapere che non riceverà favori da loro. Vieni avvicinati, se stai da questo lato, puoi percepire la loro agitazione- mi invitò, ma io esitai, e non mi avvicinai. Allora lui sorrise -perché hai paura adesso Tommaso? Io non sono un anziano, eppure, tu credi a quello che dico?- non sapevo più cosa pensare, non sapevo se mi stava prendendo in giro o se fosse dannatamente serio, ma sapevo che su quel ponte non ero sicuro. Tuttavia, scosso dal suo atteggiamento di sfida, come se non volessi accettare che potesse prendermi in giro, osai avvicinarmi alla sponda sinistra e un freddo intenso mi avvolse. Per un istante ebbi l’impressione di entrare all’interno di un’oscurità irreale, come se un eclissi totale di sole si fosse manifestata in pochi secondi e per quell’istante il ponte, il fiume e il bosco, mi parvero avvolti dall’oscurità. Sussultai e barcollai, al punto che sentii la presa del Mage sul mio braccio trattenermi con forza. -Lo senti Tommaso?- mi disse -fa più freddo da questo lato-. Era vero, o forse era solo un’impressione, ma sta di fatto che strattonai per liberarmi dalla sua presa e ansioso indietreggiai per raggiungere nuovamente il lato destro del ponte, quello sicuro. Poi guardai oltre la strada, non sapendo che cosa potesse nascondere quel tratto che ancora non avevamo percorso. -Che cosa c’è oltre il ponte?- gli domandai. -Ancora non lo so- disse lui -ma quello che serve a te ora ce l’hai-. Lo guardai dubbioso -che cosa vuoi dire?-

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-La collina sta sul lato benevolo, gli spiriti sono ancora propensi laggiù. Puoi portare i tuoi amici e le tue amiche e far loro impressione affrontando il fiume. Diventerai un eroe, è questo quello che volevi sapere no?-. -Tu lo hai già fatto?- gli domandai. Lui rivolse lo sguardo al lato sinistro e io sentii, oltre il freddo del lato oscuro, anche quello della malinconia. So che avrebbe voluto dirmi qualcosa che mi avrebbe svelato molti anni dopo, ma si limitò a rispondere con altri termini. -Io non ho nulla da dimostrare Tommaso, per questo non torno più alla collina…- Il ricordo passò tra i miei pensieri veloce, in un modo che quasi nemmeno me ne accorsi, e in quel momento non riuscii, o non volli, valutare che ogni istante di questa vita non può andare perduto. Per quanto lo si voglia ignorare, dimenticare o rimuovere, tutto ciò che si è vissuto è qualcosa che fa parte di noi, così come ci appartiene un braccio, un occhio, il cuore e il cervello, anche ciò che abbiamo vissuto e che consideriamo solo come semplice passato o ricordo, è una parte che in nessun modo possiamo estirpare. fuggendo ai ricordi quasi intimorito, tornai a fissarlo e scuotendo il capo mi parve quasi di confermare un rifiuto che mi allontanava dal passato per bloccarmi in una realtà che consideravo sicura. -Dimentica quelle cose, questa è la realtà- dissi con una forza che non riusciva a convincermi -forse le tue sorelle non capiranno, ma forse anche tu ti stai illudendo-. Il suo sorriso si fece malinconico e deluso -no, hai ragione- disse. Allora lo guardai e come per dovere, dimenticando tutte le considerazioni fatte poco prima e, decidendo di rivelare le mie vere intenzioni, osai sfidarlo -perché sei tornato?- gli domandai, facendogli intuire che dubitavo della sua voglia di rivedere i luoghi della gioventù. Lui mi guardò come se ne fosse compiaciuto, ma poi girò lo sguardo più volte alla ricerca di qualcosa. -Dov’è?- mi domandò. Sapevo a che cosa si riferiva, e sapevo che anche quello non era un diversivo. -Laggiù- dissi, e indicai una lapide lontana. Si incamminò e la raggiunse. Ma io sapevo che non era nemmeno per questo che era tornato. Si fermò davanti alla lapide e in silenzio lesse il necrologio inciso sul marmo, poi i suoi numeri, ovvero, le date di nascita e morte –Marco Aplicante 18 - 06 - 1970 – 11 – 08 - 1997 –. -Ho sentito raccontare che si è trattato di un incidente- mi disse, ma io non avevo voglia di parlarne, tuttavia risposi. -Sì, così dicono-. -Ma tu non ci credi- costatò. Lo guardai perché sapevo che la sua non era una domanda ma un’affermazione, e di questo proprio, non avevo voglia di parlare, così tornai al mio investigativo ruolo. -Perché sei tornato Mage?- lo spronai di nuovo con un perentorio ordine, e solo quando lui si girò a fissarmi compresi che avrei preferito non rispondesse a quella domanda. -Sono tornato per lei Tommaso- confermò senza esitazione, e io provai un brivido raggelante…” -Ebbene?- dissi alla conclusione del capitolo. Nella meditazione di Felona era ormai evidente che anche in lei la confusione si stava facendo sempre più complessa. Si strofinò gli occhi con le mani in un atteggiamento di stress. -È complesso, veramente complesso- ammise. -Non ci trovi un senso nemmeno tu vero?- dissi allora io con un pizzico di delusa incomprensione. Lei scosse il capo -è assurdo, mescola ricordi del presente e del passato, solo che pure il presente di cui parla sta nel passato, e poi ci sono tutti quei riferimenti simbolici che paiono avere un senso un momento e nessuno nell’altro…- -Aspetta un momento- la interruppi, e in quel momento il panico dovette essere esplicito sul mio volto. -Che ti prende?- domandò lei quasi spaventata. La osservai con l’espressione di chi riceve una rivelazione divina -il presente di cui narra è… è pure passato- balbettai incapace di razionalizzare ciò cui pensavo. -Sì- disse lei affermando ciò che già era evidente -racconta della vita da ragazzi che avviene in un periodo compreso tra gli anni 70 e 90 del secolo scorso, e poi racconta del ritorno di questo fotografo

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sensitivo, che avviene agli inizi del secondo decennio del ventunesimo secolo, ma ora siamo nel 2025, quindi, mancano almeno tredici anni al nostro tempo-. -Questo documento è in circolazione da tredici anni?- sembravo parlare da solo mentre ponderavo l’assurdità della rivelazione percepita. -No, sarei più propensa a pensare che tredici anni siano il tempo occorso a scriverlo- propose però la psicologa senza riuscire ancora a comprendere la mia perplessità. -Se così è- rivelai -non potrei in alcun modo conoscere questo individuo-. A quel punto comprese la mia ansia e la sua espressione si fece austera. Mi guardò come se avessi una malattia incurabile e non sapesse come confortarmi. -In che sorta di caos mi sta conducendo questo pazzo? Deve trattarsi per forza di uno scherzo- tornai ad avallare la mia ipotesi iniziale, ma era evidente che ora lo facevo per timore. Lei mi guardò e per la prima volta osò essere invadente -di un po’, quanto ti ha pagato questo tizio per leggere il documento?- -Non ci crederesti- risposi. -Capisco che non me lo voglia dire, ma sospetto che non si tratti di un cifra sottovalutabile se ti sei lasciato tanto coinvolgere-. Sospirai -mi ha pagato mille euro per ogni pagina del documento. In totale trecentoventunomila euro- le rivelai. La sentii fischiare nell’atteggiamento di chi vorrebbe fare un esclamazione di quelle che è meglio non dire. -E secondo te uno sborserebbe una cifra simile per uno scherzo? O è esageratamente ricco o esageratamente idiota- affermò. -Sì hai ragione- dissi mentre la mia mente vagava altrove -ma se questa cosa è seria, che cosa significa?- Felona era troppo intelligente e intuitiva per non comprendere che ora in me si stava designandosi la paura -perché improvvisamente hai paura?- Certo avrei potuto prendere la mia aria spavalda come facevo sempre e negare, ma non avevo la forza per farlo. -Fino a pochi minuti fa ero convinto che non vi fosse alcuna insidia in questa follia. Voglio dire, ho preso in considerazione la possibilità di una vendetta, chiunque faccia il mio lavoro la prende in considerazione, ma l’ho quasi subito scartata… insomma, in che modo uno potrebbe vendicarsi in questo modo? Sinceramente per un po’ ho anche immaginato che poteva essere divertente… ma adesso tutto prende un altro aspetto. Insomma, chi è questo tizio? Io pratico da circa dodici anni e questo qui scrive da prima che io cominciassi a farlo. Chi è? Cosa vuole da me? Ha premeditato tutto? E se è così, come poteva sapere cosa sarei divenuto? Prima di mettermi a fare l’investigatore sono stato un militare nella polizia di stato, è lì che ho imparato i trucchi del mestiere, e nei primi anni investigavo su questioni ben più pericolose. Come poteva prevedere che mi sarei indirizzato verso un ramo investigativo meno rischioso ma più vicino a questo contesto? Sono stato perfino avvertito di andare avanti solo dopo aver riflettuto e io non l’ho fatto abbastanza. Comincio a temere di avere a che fare con qualcosa di più grande di un semplice rimborso, capisci? Dopo tutto questo, che cosa potrei pensare che potrebbe succedere se decidessi di interrompere la lettura adesso? E una volta conclusa la lettura, che cosa dovrei aspettarmi?- Fissai Felona come a cercare in lei, più che risposte, un aiuto. Ma lei stessa non sembrava avere risposte adeguate. -Credo che a questo punto dipenda tutto da te-. -Che vuoi dire?- -Beh, sei disposto a rinunciare? In fondo non mi sembra che il contratto abbia delle clausole, non sembra nemmeno un contratto-. Riflettei, sì, era vero, non vi erano clausole, il che mi metteva in condizione di interrompere il mio impegno, ma ormai avevo troppi dubbi e certo non ero disposto a restare con l’odore della paura addosso. -Sì potrei farlo ma…- -La cifra è troppo attraente? È quella a spingerti ad andare avanti?-

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Improvvisamente mi resi conto che dei soldi non mi importava più nulla e scossi il capo. -Ora, se devo essere sincero, dei soldi non mi importa per nulla… mi sento come inseguito da spettri contro i quali non so come combattere ma allo stesso tempo, sento di non poter evitare di affrontarli-. Lei restò in silenzio per un po’, e quasi parve avere compassione per me. -Va bene- riprese dopo -fammi vedere una cosa- si diresse al computer e cominciò a digitare dei tasti. -Che cosa cerchi?- le domandai. -Conferme- disse lei. -Di che genere?- -Abbiamo dei nuovi indizi su cui lavorare no?- subito dopo esultò -eccolo- esclamò. -Che cosa?- -Forlìa. Ricordi? Il fotografo dice di alloggiare in un hotel di Forlìa. Ebbene questo paese è reale, e non è nemmeno lontano. Forse dovresti andarci-. Provai un brivido raccapricciante -da solo intendi?- Lei allargò le braccia -mi stai chiedendo di seguirti?- -Ho bisogno di aiuto per risolvere questo caos. Fino ad ora lo valutavo semplicemente un romanzo stupido, ma adesso…- la mia espressione era eloquente e, probabilmente, già sufficiente a convincerla, ma pensavo che a questo punto meritava di più e ormai lontano dai miei principi le proposi un incentivo piuttosto interessante -ti darò metà della somma, ci stai?- le proposi. Lei sorrise -non mi interessano i soldi- disse, ma la sua non era un’affermazione di rinuncia. -La situazione però t’intriga giusto?- la provocai accantonando un po’ di tensione. Inclinò la testa con fare complice -non mi dispiacerebbe una vacanza in questo periodo- suggerì. -Bene, che ne diresti di una visita alle suggestive località del basso veronese?- la cartina geografica collocava la posizione di Frolìa in un triangolo tra Verona, Mantova e Ferrara. -Offri tu?- Sorrisi entusiasta -è il minimo che potrei fare, sarai mia ospite- confermai. -Ci sto, ma non metterti in mente strane idee- disse con evidente allusione a ciò che avrebbe dovuto restare un rapporto puramente professionale. Provai un senso di sollievo -prometto che sarò bravo- dissi alzando le dita come un boy scout. Le vidi un sorriso divertito sul volto -bene, quando si parte?- -Direi anche subito-. Dopo aver messo in valigia poche cose la accompagnai al suo alloggio a prendere qualche suo effetto personale e poco dopo eravamo in viaggio verso Forlìa, un centro di modeste dimensioni che raggiungemmo in poco più di un’ora di strada. Non sembrava una località turistica, ma di sicuro era una zona di grande passaggio. Un crocevia tra le tre città vicine, e non fu difficile trovare un accogliente hotel. Prenotai due camere separate e dopo aver sistemato le nostre cose raggiunsi Felona nella sua stanza. Avevo con me il documento e, una volta seduti a fissarci glielo passai. -Che significa?- mi domandò. Sorrisi un po’ perfidamente -beh, ora non sono più tuo paziente- mi presi una piccola rivincita. Lei sorrise, e forse per un cortese tentativo di distrarre la mia tensione, senza opposizioni prese a leggere:

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L’anima gemella… “…Virginia. Per lei se ne era andato, per lei era tornato. La sua rivelazione non fece altro che confermare i miei timori, ma ancora non sapevo, o più semplicemente volevo ignorarlo, quale ne fosse la ragione. Di fatto non riuscii ad approfondire l’argomento e banalmente balbettai un’altra domanda -che farai con le tue sorelle? Sapranno comunque che sei in paese- dissi senza avere nessuna ragione per conoscere le sue intenzioni come un qualunque curioso, ma sentivo che il suo ritorno stava risvegliando troppe questioni del passato con le quali ero certo di aver chiuso. Evidentemente però, il passato non aveva chiuso con me. -Andrò a trovarle, non posso evitarlo. C’è una cosa che devo fare- disse, e come se temessi che ogni sua azione potesse rischiare di smuovere altri tormenti, non osai domandargli che cos’era che doveva fare. Nella mia mente in quel momento vi era troppa confusione e il pensiero correva ancora indietro nel tempo, quando, per quell’ignota assurda mania che coglie quasi tutti gli uomini quando ritengono di poter essere d’aiuto agli altri, mi ero lasciato coinvolgere dal suo di tormento. I risvolti di quella lontana vicenda, lo vedevo adesso, avrebbero mostrato i loro effetti in un tempo futuro che io però, credevo già essere passato. Evidentemente, mi sbagliavo. Come uno sciocco avevo inventato una scusa banale e mi ero allontanato volendo convincermi ancora che nella loro storia io mi ci ero trovato coinvolto per una combinazione di eventi fortuiti e per una serie di coincidenze casuali, ma ormai ero troppo conscio del concetto che non vi era casualità negli eventi e il fatto che avessi presagito i suoi propositi me ne dava conferma, così come sentivo che io stesso ancora ero vincolato a quella vicenda mai iniziata e mai conclusa. Chiuso nel mio studio, quel giorno, dopo la mattinata trascorsa a discutere con lui, mi ero isolato non per assolvere compiti professionali, ma per riflettere sul perché di quella situazione, su quale fosse la ragione che mi spingeva ad indagare sulle sue motivazioni e su come cercare di restarne fuori. La memoria non aveva impiegato molto a portarmi indietro nel tempo, nel giorno afoso di un’estate di vent’anni prima, nell’anno che dava l’avvio all’ultimo decennio del secondo millennio, quando scosso da una sensazione di smarrimento, gli avevo posto quella domanda: -Te ne vai per lei vero?- La notizia che aveva deciso di partire mi aveva colto con un malessere strano. Erano passati molti anni ormai da quando le voci dei fiumi, degli alberi e di tutti gli spiriti della natura avevano smesso di mormorare e noi eravamo divenuti persone comuni. Uscendo dall’età infantile per inoltrarci in quella adolescenziale, molte cose erano cambiate. La fine delle nostre esplorazioni, il chiudersi di quel ciclo di pensieri sull’indagine esistenziale, l’insinuarsi di desideri adulti, il cambiamento fisico e l’instaurarsi di nuovi rapporti, ci avevano definitivamente spinto fuori dal giardino fatato sospeso tra realtà e illusione per condurci all’interno del grande labirinto di terra, nel quale ogni via sembrava portarci verso un’unica realtà fatta di concretezze, razionalità e frenetiche responsabilità quotidiane, ovvero, nella normale consuetudine di una regolare vita professionale dove io mi trovavo alle prese con i miei studi e lui lavorava da apprendista fotografo nel vicino Valbordi, comune di cui Casterba era una frazione. Non era più il bambino strano dei tempi infantili, malgrado tutto però, una reputazione è come un marchio impresso col fuoco, difficile se non impossibile da cancellare, e quella sua indole introversa che lo aveva caratterizzato da sempre gli era rimasta addosso come un tatuaggio e per quasi tutti i paesani, nonostante l’atteggiamento fosse mutato già dai tempi della collina, lui restava un tipo ambiguo. A quel tempo non passeggiava più per le campagne in solitaria, ma frequentava parchi naturalistici dove realizzava, sotto la guida del titolare dello studio, servizi fotografici per matrimoni o per aziende pubblicitarie. Era stato da lì che aveva cominciato a collaborare come fotografo free lance per reportage commissionati da giornali locali. Ed era stato sempre in quegli anni che si era formato uno stravagante gruppo di amici che le voci nascoste dei detrattori definivano ambiguo e strampalato. Un gruppo di quattro fantasiosi artisti, dove ognuno a loro modo aveva una sua maniera di esprimere la propria creatività, sia con l’azione che con le parole. Quattro singolari elementi che qualcuno avrebbe potuto definire quattro dannati, tra i quali io, che mi definivo il quinto incomodo, rappresentavo l’anomalia. Non era un gruppo fisso, tra loro non avveniva come tra tutte le normali compagnie di paese dove gli elementi che le formavano si davano appuntamenti concordati per incontrarsi e poi decidere con

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animate discussioni come passare le serate, sempre monotamente uguali. Loro erano originali personalità che condividevano inconsuete passioni e si incontravano senza nessun accordo preventivato, per caso, durante il lavoro o all’inizio del giorno in un bar a fare colazione; o alla fine del giorno, quando il sole cominciava a calare e le ombre del tramonto alimentavano ed esaltavano come un elisir le doti creative. Raramente capitava di vederli tutti e quattro assieme, ma comunque fosse, quando li si incontrava, succedeva di vederli discutere delle loro estrosità che potevano riferirsi a ciò che era avvenuto durante la giornata, a ciò che sognavano, a ciò che desideravano o anche, a nulla di rilevante. Di ogni cosa discutessero ad ogni modo, si vedeva in loro la sincerità e la sicurezza che il condividere anche la più delle esuberanti stranezze, la persona con cui la spartivano non avrebbe riso, se non per piacere, e non avrebbe espresso giudizi sfavorevoli, ma semplicemente approvato e poi mantenuto come una riservata confidenza personale. Oltre a Demetrio, di cui l’originalità vi è già nota, c’era Val, l’eccentrico, quello che si poteva definire l’avventuroso. Lui, sebbene attraverso circostanze non effettivamente spontanee, avrebbe intrapreso lo studio delle lingue straniere. In un certo senso ne era stato costretto, e tale scelta aveva, almeno in principio, un ideale diverso da quello che poi l’avrebbe notevolmente agevolato nel mondo professionale. Il suo presupposto a quel tempo non era di farne una professione, ma piuttosto quello di avere una motivazione per viaggiare con il supporto delle risorse familiari. Sfruttava ogni occasione che l’università gli dava per poter andare all’estero e quando non era in giro per l’Europa come uno zingaro, passava più tempo sui treni che in famiglia. La sua enigmaticità era meno nota in paese, ma solo perché lui stesso, probabilmente, ne era all’oscuro. La sua era un’ambiguità ingenua, che gli permetteva di discutere con filosofia quando incontrava Demetrio e altri come lui, e di divenire una persona comune, con interessi comuni e intelletti comuni, quando si trovava con persone di vedute meno aperte. Per questo Val non era mai stato considerato un anomalia, perché sapeva stare e accettare, ingenuamente, la vicinanza della collettività. E quella stessa collettività, ingenuamente, riteneva che i suoi ambigui incontri con personaggi stravaganti fosse una pura forma di cortesia, come evidentemente dovevano pensarlo di me. Poi c’era Marco, il musicista, conosciuto semplicemente come “il Canta”, pigro diminutivo di cantautore. Si poteva dire che lui più di tutti fosse quello che somigliava maggiormente a Demetrio, anche se le sue fantasie non andavano così oltre l’immaginario come quelle del Mage. La sua ambizione era quella di divenire un cantante, interprete dei suoi scritti musicali, ma le sue risorse economiche però lo costringevano a dedicare più tempo al lavoro di muratore che alla passione per la musica e, sebbene sentirlo suonare la chitarra fosse notevolmente piacevole, era evidente che le doti autodidatte non l’avrebbero mai condotto nell’olimpo delle celebrità canore. In lui l’animo artistico era talmente forte, che tale passione avrebbe finito per rendere il suo destino, il più tragico. Era il più simile a Demetrio perché nell’appunto, il suo interesse per la musica lo conduceva ad un’esistenza isolata. Le sue serate le passava in casa o in qualche locale a suonare con occasionali gruppi di musicisti improvvisati, e quindi la sua vita sociale si limitava alle piccole discussioni in quei fortuiti incontri e su di lui, le malelingue, ovviamente, discorrevano da malelingue. E in fine c’era Vincent, il giocatore. Le sue origini erano quasi del tutto ignote. Di lui si sapeva che era originario della Francia e che la sua famiglia si era trasferita a Casterba quando ancora era neonato. La sua più grande abilità consisteva nell’azzardo. Anche lui era muratore, come Marco, ma anziché doti canore egli aveva grandi capacità dialettiche e nonostante la mancata formazione culturale era in grado di stupefacenti riflessioni. Ma i suoi istinti prevaricavano le doti. Amava il vino, le belle donne e il gioco d’azzardo, ed erano amori che infine lo avrebbe condotto ad un tormentato futuro. Quando Demetrio tornò, infatti, lui era già un alcolizzato che si era giocato ogni cosa, lavoro, famiglia, amici. Erano tuttavia sempre quegli stessi istinti che ne avevano fatto una specie di idolo tra i compaesani. Vincent appariva come il tipico dannato ribelle dall’anima maledetta, quel personaggio che non manca in nessun paese, per quanto piccolo, ma che però, a differenza degli altri, lo rendeva affascinante cosicché a lui ogni cosa era concessa, perfino il privilegio di soffermarsi a discutere con il fotografo o il musicista senza essere per questo giudicato uno di loro, ossia, l’idiota che ogni villaggio, per quanto piccolo, possiede. Ma io, che con loro non avevo niente da condividere, vedevo oltre ciò

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che la maschera della realtà aveva da proporre. Quella sincerità, ingenua o no che fosse, quella possibilità di poter condividere ogni sorta di pensiero senza dovermi preoccupare di come sarei stato giudicato o a come io stesso potevo giudicare ciò che sentivo, quella mancanza di vincoli di comportamento o di immagine che trasportava verso una libertà impensabile, provocava in me un’attrazione che quasi non riuscivo a spiegarmi o che forse, come molte altre cose della mia vita, semplicemente volevo ignorare. Non volevo accettare, probabilmente, che quell’attrazione fosse il sintomo di un legame ancora non completamente tagliato con l’irreale mondo fiabesco dell’infanzia dal quale già da molto tempo, per non dire già dall’inizio del suo sorgere, avevo cercato di fuggire, ma semplicemente come l’opportunità di un istante di tregua dai doveri e dalle oppressioni. Per questo apprezzavo e a volte desideravo soffermarmi con loro. Loro che non giudicavano il mio aspetto curato invece che trasandato, che non si preoccupavano di essere impolverati di calce o di avere le scarpe sporche di terra di fronte alla mia eleganza. Loro che non discutevano di economia, politica o altro come fossero dei mali da debellare ma che sapevano entrarci dentro con analisi approfondite che potevano invece far capire perché, in definitiva, tali argomenti si trasformavano in malattie da eliminare. Io mi soffermavo con loro perché ne avevo bisogno, mentre allo stesso tempo mi costringevo a realizzare la mia vita in un contesto per il quale credevo fosse regolare mantenere certe distanze da false illusioni, senza rendermi conto che quelle false illusioni di cui io non avevo necessità, per molti altri erano l’unico modo per sopravvivere. False illusioni che vedevo smarrirsi in quella che in definitiva era la conclusione di ognuno: un ruolo prestabilito nel quale ogni comune persona si identificava come ogni altra comune persona, convincendosi che tale monotonia, benché diversificata da attività differenti, era ciò che ci sosteneva e ci rendeva regolari, benché in definitiva non facesse altro che renderci tutti automi. Forse per questo mi dicevo che non era poi così tragico mantenere quei contatti, perché alla fine tutto tornava nella realtà. Perfino Demetrio lavorava, ma forse, proprio in quel suo lavoro insistevo a non voler vedere ciò che oggi definirei più un volere del destino che un caso. Forse proprio in quel lavoro volevo costringermi a scorgere la normalità di un individuo che aveva avuto la capacità di rendere i miei dubbi dei tormenti, perché se riuscivo a scorgere quella normalità allora, avrei potuto definitivamente liberarmi dai dubbi e convincermi che tutto era regolare, che mai avevo sentito le voci della natura e che la notte non aveva un cuore pulsante. In quel lavoro, volevo e potevo solo identificare quel Demetrio di cui necessitavo, perché se anche lui era come gli altri, allora anch’io potevo essere come lui senza il timore di sentirmi folle. Ma quel tormento non cessava, perché per quanto mi sforzassi, e per quanto l’atteggiamento di Demetrio fosse divenuto ordinario, comune e normale, io continuavo a percepire quel gioco assurdo del destino incitarmi a muovere il mio pedone sulla scacchiera, senza sapere quale sarebbe stata la mossa successiva, né mia, né dell’avversario. Era successo che quando il padre aveva portato i primi rullini di fotografie a sviluppare, quelli realizzati con la famosa macchina compatta, il gestore del negozio era rimasto così impressionato dai dettagli che il giovane riusciva a cogliere che riconoscendo in lui un potenziale talento, gli aveva offerto di lavorare come suo assistente. Era un uomo sulla cinquantina, sposato ma senza figli e forse in Demetrio aveva visto quell’erede cui tramandare la sua esperienza. Si chiamava Giovanbattista, e forse l’esperienza che voleva tramandare al figlio adottivo, non era semplicemente quella professionale. Demetrio lo chiamava “il grande bianco”, per via dei suoi centonovanta centimetri d’altezza e dei suoi capelli e baffi bianchi diceva, ma io pensavo che quel nome avesse un altro significato. Giovanbattista non era solo un buon fotografo, ma anche un buon osservatore, un buon ascoltatore e soprattutto, un buon mentore. Non aveva solo consigli professionali da dispensare, ma anche saggezze di vita, e credo che il grande bianco sia stato un’abbondante fonte di spunti e ispirazioni per Demetrio. Ad ogni modo, avrei dovuto capirlo che in fondo la mia era solo un'altra illusione. Io, in definitiva, non ero molto diverso da loro, semplicemente, non avevo mai compreso chi ero, e avevo accettato di essere ciò che credevo di dover essere. Così i ricordi mi riconducevano indietro nel tempo provando quasi le medesime sensazioni e lo stesso senso di nausea che avevo provato in quella serata, quando di quel bizzarro gruppo si erano già disperse le origini e le abitudini e apprendere che lui, quello a cui ero più legato e quello che forse meglio di ogni altro aveva la capacità di tenere viva la fiamma della

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ricerca trascendente, stava per andarsene, mi provocò una nauseante sensazione di abbandono. Come se il raggiungere infine ciò che cercavo, ovvero la conferma della normalità che il suo disinteresse dimostrava, stesse strappando via una parte di me stesso facendomi sentire come un cane che, una volta raggiunto il ramo lanciato, non sapeva che farsene…” Quell’ultimo capitolo se ne era andato senza apparenti novità, se non quella introdotta dalla dolce e corretta lettura che la voce di Felona sapeva imprimere allo scritto. Ci guardammo pensando probabilmente la stessa cosa. -Credi che esista anche questo Valbordi?- le domandai con apparente serenità. Lei annuì -temo di sì- disse, e quando scendemmo per la cena, ci fermammo prima al bancone, ufficialmente per un aperitivo, ma realmente, con la scusa di chiacchierare, per avere informazioni dal barista. -Conosce un paese chiamato Valbordi?- domandò Felona mentre le serviva l’analcolico. -Certo- rispose in tutta scioltezza l’uomo -si trova a circa quattro chilometri da qui- ci informò e ci indicò la strada per raggiungerlo informandoci che era sicuramente un borgo molto più suggestivo di Forlìa. A suo dire Forlìa si era lasciato troppo trascinare dall’idea, di stampo politico presumo, di diventare un centro di rilevante importanza. Le caratteristiche le aveva, commentava, sicuramente la posizione geografica era buona, ma le amministrazioni comunali non avevano saputo sfruttare né il territorio né le risorse, così, proseguiva nella sua nostalgica descrizione, Forlìa aveva finito per restare un paese il cui sviluppo industriale aveva finito più per limitarlo piuttosto che espanderlo. Valbordi, proseguiva poi, non era un paese molto industrializzato, ma se qualcuno voleva vedere qualcosa d’interessante da quelle parti, certo Valbordi offriva molto più di Forlìa, dove l’attrazione principale era la stazione. A Valbordi invece vi era un castello medievale ancora in ottimo stato ci aveva spiegato, e le ultime amministrazioni comunali avevano puntato molto sul territorio e su ciò che il paese poteva offrire anche a livello naturalistico. Ci spiegò che si stava per creare un parco e che molti luoghi cominciavano ad essere presi come riferimenti per una possibile attrattiva turistica, come ad esempio il vecchio mulino. Fu molto cordiale e prolifico e non sospettò che il suo descrivere questo paese suscitava in noi timori piuttosto che favori. Lo salutammo per andare a cena e lui sorrise compiaciuto di aver potuto, forse per la prima volta, esprimersi come un cicerone. La cena non era stata niente di speciale, del resto ci trovavamo in una località in cui gli ospiti erano comunemente gente di passaggio, che non si fermavano per questioni turistiche ma solo di lavoro, in quello che appariva un hotel solamente perché in origine la prospettiva era stata quella che lo sviluppo industriale avrebbe fatto sì che Forlìa sarebbe divenuto un centro di rispettabile prestigio ma dove ora la qualità, non aveva più alcuna priorità. Decidemmo quindi di prendere un caffé fuori, solo per fare un giro e farci un’idea di che tipo di paese fosse Forlìa. Ci trovammo ad avere a che fare con un semideserto in cui la gente sembrava timorosa o annoiata. Il traffico giornaliero che attraverso le arterie stradali piuttosto importanti faceva sì che vi fosse un gran scorrere di veicoli di ogni genere, dai mezzi pesanti ai furgoncini, dagli autobus alle utilitarie, dalle potenti motociclette quasi da pista agli scouter, di sera si spegneva quasi completamente e i veicoli di passaggio si potevano quasi contare. Qualche vecchio azzardava una passeggiata serale e noi finimmo per appartarci in una specie di birreria, un pub dove pochi giovani e qualche coppia sembravano quasi dei temerari e subito non mancammo di osservare come la nostra presenza non esitasse ad attirare sguardi più sospetti che stupiti, il che ci dava la conferma di come quel paese non fosse abituato agli estranei. Io non mi preoccupai molto dell’ambiente circostante, le gambe di Felona, che indossava un miniabito che rendeva inevitabile condurre lo sguardo alle sue cosce, mi attraevano molto di più, oltre a distrarmi dagli ultimi tormenti. Prendemmo il nostro caffé e discutemmo un po’ dell’impressione che avevamo di Forlìa e quindi, una volta compreso che Forlìa non aveva nulla da offrire a ciò che poteva interessare a noi, decidemmo di rientrare all’hotel. -Che ne dici se ci facciamo un altro capitolo?- le proposi. -Stavo pensando la stessa cosa- rispose lei. -Bene- dissi subito con baldanza -da me o da te?- domandai visto che avevamo camere separate. -Il documento è rimasto nella mia camera- mi ricordò. -Bene, allora da te- osai un po’ di spavalderia nella quale lei dovette percepire anche una certa concupiscenza.

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-Sì, ma non ti illudere e togliti dalla testa certe idee- bloccò subito i miei entusiasmi. Sorrisi -leggi tu?- -Solo se la smetti di continuare a sbirciare sotto la mia gonna- mi apostrofò come già aveva fatto non molto prima, questa volta però, forse per la confidenza ormai instaurata, osai replicare. -Ci proverò, ma anche tu però, sembra che lo faccia a posta, è forse una sorta di prova?- sorrise con malizia e per un momento pensai che questa mal nascosta esplorazione generava una sorta di attenzione che in fondo le piaceva, rendendola più umanamente donna di quanto nella sua professione cercava di celare. La seguii in silenzio soddisfatto della sua reazione, anche se quando entrammo nel suo alloggio si assentò per qualche minuto e quando tornò indossava jeans e maglietta priva di scollatura. -Mi vuoi proprio punire- provocai allora con palese ironia. -Lo faccio per te- rispose -così resti concentrato su ciò per cui siamo qui- quindi si sedette, prese il documento e riprese a leggere:

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Radici… “…Certo qualcosa era cambiato, così come dall’infanzia si passa all’adolescenza, sentivamo ormai che ci stavamo per avviare verso l’età adulta e che il tempo non può essere fermato come in una fotografia. Sapevo che prima o poi le cose sarebbero mutate, così come ogni realtà è destinata ad avere una conclusione. Ma a questa consapevolezza non avevo mai voluto cedere, e in quel momento, più che mai, mi rendevo conto che, a differenza di quei quattro che nella loro astrusità sembravano aver ben conscia l’idea di ciò che avrebbero voluto fare della loro vita, io che non avevo mai dovuto preoccuparmi di progettare il mio futuro, ero forse l’unico che non sapeva cosa fare. Avevo avvertito un senso di vuoto cogliermi, simile a quello che si percepisce in occasione di un tradimento perché non potevo impedirmi di sentirmi in qualche modo collegato a Demetrio e nel vuoto percepito avevo provato come la sensazione di una profonda ferita squarciarmi la pelle ed estirparmi un tratto di anima, quasi potessi considerare lui come la mia anima gemella. Ora so che se ci avessi creduto di più, intuendo che non era un anima gemella che stavo perdendo ma un anima consimile, avrei cercato di fermarlo. Ma a quel tempo l’idea astrusa che lui fosse la mia anima gemella, prendeva un significato diverso in me e l’idea che potevo confondere la mia personalità mi fece agire in modo diverso e, malgrado tentassi di capire le sue ragioni, non forzai per farlo desistere dalla decisione. Quello che capisco oggi, forse, è che per questo esistono persone attratte dallo stesso sesso. Noi umani, nella nostra limitata concezione, siamo convinti che ogni cosa sia razionale e corretta solo in ciò che è concreto per come lo concepiamo noi e quindi limitiamo tutto a quel che vediamo, conosciamo e reputiamo giusto per noi, senza necessità di andare oltre la barriera del visibile per non correre il rischio di dover dubitare della nostra logica e, conseguentemente giudichiamo e decretiamo. Così quando ci riferiamo al concetto di anima gemella, subito la interpretiamo come l’unione di una coppia formata da sessi differenti, rifiutando che poter credere diversamente possa avere una sua regolarità solo perché ritenuto illogico per natura e, timorosi che ammettere il contrario possa renderci vulnerabili, creiamo noi stessi in primo luogo le differenze. Ma in che modo possiamo noi pretendere di conoscere quali siano le leggi della natura? Io ero etero, eppure mi sentivo attratto dal fascino del Mage come se in realtà fosse lui la mia anima gemella, quale ordine vi era in questa legge della natura, visto che per natura non potevo sottrarmici? La verità, o meglio, quello che io intendo per verità oggi, è che noi abbiamo bisogno, probabilmente, di una compagnia che ci accompagni lungo una strada che non conosciamo e che, fatta assieme a qualcuno fa meno paura, ma ciò non significa che la nostra risoluzione sia nel trovare l’unione perfetta. Forse quell’unione fa parte del viaggio, ma sentendo quel distacco, quell’abbandono, io percepii come, oltre ciò che siamo abituati a concepire, vi fosse qualcosa di più grande e illimitato al punto che, limitarlo noi come esseri umani ad un confine così riduttivo, era alla soglia del sacrilego. Un sacrilegio manifestato proprio nell’arroganza del nostro giudizio, tanto presuntuoso da poter credere noi di avere diritto e competenza di generare le leggi della natura, giungendo così ad ignorare che quell’infinito ci appartiene… ma non come esseri umani. Come esseri umani siamo divisi e soli, e per questo sentiamo l’esigenza di unirci con amicizie o amori, ma al di là di tutto questo, come anime, siamo parte di quell’immenso infinito, un infinito dove non si può essere divisi ma un tutt’unico grande spirito. Era questo che percepivo. Ma allora, non potevo pensare che quel grande infinito si stava dividendo ulteriormente. Ripresi a ricordare il tempo della domanda che mi avrebbe ricondotto nel labirinto per il resto dei miei giorni. -Me ne vado perché ho avuto una buona offerta di lavoro Tommaso- aveva risposto, ma era evidente la mancanza di sincerità. -Puoi avere uno studio tutto tuo lo sai, fra pochi anni il tuo principale cesserà l’attività e tu la puoi rilevare- gli avevo risposto. Lui mi aveva guardato fermandosi in modo riflessivo, intuendo probabilmente la mia ansia -uno resta fermo in un posto se sente che quello è il suo posto Tommaso- aveva replicato infine, capendo che non avrei accettato altre invenzioni.

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-Quindi questo non è il tuo posto?- lo avevo provocato. In quel momento più risposte dovettero vagargli nella mente, e nel silenzio che lasciò trascorrere, probabilmente, ponderava quale fosse la più adatta. -Mi sono innamorato di un sogno Tommaso, e devo comprenderne la ragione-. -E non puoi farlo restando qui?-. Sorrise -no, non posso farlo se il sogno resta con me-. -Ma tu sai che è questo il tuo posto- continuai a sollecitarlo, senza comprendere che stavo solo compromettendo me stesso. -Se questo è il mio posto Tommaso, allora significa che non è il tuo, né quello di tutti coloro che vi si fermano- disse…” La pausa che sentii mi fece comprendere che il capitolo si chiudeva lì. -Tutto qui?- domandai. Felona alzò gli occhi dallo scritto e mi guardò come se fossi idiota -e ti pare poco?- replicò. Proposi la mia classica espressione d’incomprensione e dopo una pausa in cui cercavo delle parole con cui giustificarmi, quasi con naturalezza esposi le mie impressioni. -Beh, tutto quello che ho compreso io è che questo tizio, questo Tommaso, sospetta di poter diventare omosessuale e questo non gli piace-. -Tu osservi solo una parte del disegno e non riesci a contestualizzarlo nella sua totalità. Ascolti un capitolo e ti limiti a considerare ciò che hai letto o sentito. Per questo non riesci a fare progressi. Qui si tratta di analizzare tutto nell’insieme, non puoi scindere un capitolo dall’altro, e te lo dimostra attraverso i titoli, ricordi? Il capitolo precedente lo denominava “l’anima gemella”, ma solo in questo fa riferimento all’anima gemella, è una costruzione fatta apposta per condurti a questa comprensione. Le divisioni sono fatte solamente per introdurre qualcosa, ma questo qualcosa fa parte del tutto, è un'altra cosa che ti ha appena spiegato in questo capitolo: “Come esseri umani siamo divisi e soli, e per questo sentiamo l’esigenza di unirci con amicizie o amori, ma al di là di tutto questo, come anime, siamo parte di quell’immenso infinito, un infinito dove non si può essere divisi ma un tutt’unico grande spirito”- lesse nuovamente parte del capitolo -se non riesci a unire i tasselli non capirai niente-. Mi apostrofò, e io mi sentii leggermente offeso. -Che ci dovrei fare? Io non sono un lettore, nessuno mi ha mai sottoposto una relazione che andasse oltre le tre pagine. Non sono abituato a queste cose-. -Beh, dovrai cominciare ad abituarti. Ora dimmi, non ricordi nulla degli altri capitoli?- -Sì, certo- feci uno sforzo riflessivo -ma non riesco ad unirli nell’insieme. Mi sembra che ogni uno sia a se stante e che per ogni uno vi sia un aumento di follia-. Sorrise rassegnata dalla mia ingenua limitazione condizionata da una mancanza d’impegno intellettivo e con una sorta di comprensione cercò di guidarmi tra il suo mondo analitico. -Quando ha introdotto Elena nel racconto?- -Quando parlava dei due guerrieri troiani?- lo dissi in forma di domanda, così come fanno i bambini che temono di rispondere in modo errato quando interrogati. -Sì, dei due guerrieri che si sono affrontati in quella guerra- mi corresse giacché uno solo dei due era troiano -propose l’enigma nel quale domandava fino a che punto si poteva ritenere Elena la causa della guerra-. -Ma lei fu causa della guerra- dissi riprendendo un po’ di sicurezza, sottolineando la responsabilità della donna accingendo ai miei ridotti ricordi scolastici nei quali il poema epico dell’Iliade veniva presentato come una guerra combattuta per una donna, che tradotto in senso maschile significava: “A causa di una donna”. Lei scosse il capo -quello che lo scrittore intende, è che Elena era sedotta da qualcosa che non poteva contrastare. Prima dell’Iliade vi sono altre vicende che precedono il conflitto, una di queste è il noto giudizio di Paride- la guardai facendole intendere con un’espressione ebete che ignoravo questa versione, o elemento come lo volesse intendere. E lei iniziò la lezione. -Paride era principe di Troia, ma a causa di una profezia, secondo la quale sarebbe stato la causa della rovina della città, alla sua nascita venne portato lontano e fu allevato da un pastore, di conseguenza egli crebbe come un pastore. Il mito racconta che quando Zeus allestì il banchetto per festeggiare le nozze tra Peleo e Teti, i futuri genitori di Achille, tutti gli dèi furono invitati, tranne Eris, la dea della

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discordia. Irritata ma allo stesso tempo perfida e geniale, per vendicarsi la dea si presentò al banchetto e gettò sul tavolo una mela d’oro con incisa sopra la frase “Alla più bella”. Tra Era, Atena e Afrodite si accese una fervente ostilità che scatenò, appunto, discordia e tensione tra gli dèi, e Zeus, chiamato a risolvere la questione, stabilì che a decidere sarebbe stato un uomo. Discese sulla terra le tre dee incontrarono Paride e a lui sottoposero la questione. Ovviamente le dee, ben lontane dall’essere nobili come noi immagineremmo che dovrebbe essere una divinità, offrirono dei doni al giovane per accattivarsi i suoi favori. Atena gli promise l’invincibilità in battaglia, Era ricchezza e poteri immensi, Afrodite invece le promise l’amore della donna più bella del mondo, Elena. Paride, che ancora ragionava come un pastore e non come un principe guerriero, favorì quest’ultima-. Si fermò e mi guardò come a chiedere se avessi capito -beh, ognuno ha le sue priorità-. Si limitò a sorridere e proseguì -quello che lo scrittore intendeva, alludendo ad Elena, era che lei non poteva essere ritenuta colpevole, in quanto vittima di una forza che non poteva contrastare. Non era in grado di sottrarsi a Paride perché sotto l’influsso di una divinità, di una forza che aveva messo in atto le sue potenze per portarla all’incontro con Paride, come promesso. Per questo chiede quanta responsabilità si poteva veramente attribuire a Elena-. Mi guardò e finalmente la mia serietà dovette sembrarle idonea. Il fatto stava nella condizione che io stesso cominciavo a valutare cose che mai avevo considerato. Il destino, il caso, la sorte, per me erano state fino ad ora tutte cose astratte. Io ero uno di quei tipi per cui il giorno era giorno e la notte era notte perché così doveva essere e che mai si era chiesto il motivo del perché così dovesse essere. -Sarebbe come a dire che non abbiamo scelta… ma allora, che senso avrebbe tutto ciò che facciamo?- dissi, supponendo che ognuno di noi messo di fronte ad una simile evenienza porrebbe la medesima domanda. Lei però scosse il capo -no, non credo che l’autore volesse limitarsi a tanto. Questo scritto è favolosamente complesso. La questione che vuole dimostrare secondo me, è che abbiamo sempre una scelta, ma a volte la nostra possibilità di scegliere è limitata dalle scelte degli altri…- -Elena non poteva sottrarsi al volere divino, lo hai appena detto tu- le feci notare allora io. -Lei no, ma Paride sì. La scelta di Elena era condizionata, ma Paride che a quel punto era consapevole di ciò che stava per scatenare, aveva ancora una possibilità di scelta, così come l’aveva avuta nel suo giudizio…- -Tutto ha origine quindi da una conseguenza scatenata altrove…- -Teoria del caos: una farfalla sbatte le ali a Londra e a Pechino scoppia un temporale- replicò con un nuovo enigma lei, e io la guardai come un ciclista travolto da un treno su un tratto di strada senza binari. Felona rise -credo che l’intenzione dello scrittore sia semplicemente quella di rendere l’idea di come le nostre scelte possano condizionare non solo la nostra realtà ma anche quella degli altri. Gli alchimisti usavano la metafora dell’arazzo per cercare di darne una dimostrazione, secondo cui, se tu tiri un filo da un lato, essendo l’arazzo un intreccio di fili, inevitabilmente modificherai l’intero lavoro, in alcune parti in modo evidente in altre in modo lieve. Ma ciò che noi facciamo qui, può avere conseguenze ovunque…- -La conclusione quindi è che ad ogni scelta consegue un effetto e che l’esito potrebbe riguardare non solo noi… e secondo te questo è semplice?- -Assolutamente no. Per questo dico che lo scritto è favolosamente complesso. Lo vedi? Lui parla di radici e ti conduce da tutt’altra parte-. -Sarebbe questo quindi che vuole dire quando esprime il concetto che uno resta dov’è se sente che quello è il suo posto?- -Esatto, bravo, vedo che cominci ad entrare nello spirito analitico-. -Va bene, ma cosa c’entra l’anima gemella?- -In questo senso molte cose. L’amico gli fa notare che quello è il suo posto, facendo riferimento probabilmente ai suoi dialoghi con i fiumi e gli spiriti della natura. In questo modo gli fa capire che lì lui ha un legame. Ma questo Mage risponde che se quello è il suo posto, allora non è il posto degli altri che al contrario non hanno lo stesso legame. Così il suo partire diventa una sorta di sacrificio in cui egli abbandona ciò che gli appartiene per far comprendere come sia necessario perdere qualcosa per comprenderne il valore. Il suo ritorno trionfale, metaforicamente, rappresenta l’esempio di come

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l’essere indagatore possa condurre ad una conquista che il crescere come una pianta costretta in un vaso non può realizzare. È necessario dividersi per comprendersi, il maschile diventa femminile, l’ombra luce e così via… quello però che lo scrittore esprime, è come lui non sia riuscito a comprenderlo e lo fa ammettendo la sua responsabilità, ovvero l’aver voluto ignorare la sua personalità, simile a quella dell’amico. Per questo parla d’omosessualità, egli cerca di giustificarsi, come se nel suo sentirsi attratto dal fascino del Mage lo scrittore si sentisse vittima di una forza invincibile…- -La natura quindi diventa la rappresentazione divina, è questo che intendi? Lui tira in ballo l’omosessualità per dire che non si può contrastare ciò che si è. Ma, se mi è concesso, non credo che il paragone possa essere raffrontabile-. -Bravo. Qui sta la differenza tra accettazione e giustificazione: “La natura che non possiamo contrastare è quella che ci appartiene: Elena è vittima dell’amore per Paride, e questo è parte di lei, così come l’omosessualità è parte di chi la vive per sua natura… Tommaso è vittima solo di ciò che vuole ignorare e conseguentemente cerca di incolpare qualcun altro. La verità è che lui rinnega la sua natura indagatrice del mistero e così finisce per tradire se stesso… e a quel punto le sue scelte non saranno più razionali-. Sorrisi compiaciuto -sono stato promosso?- non riuscii a sottrarmi all’inopportuna ironia e subito vidi oscurarsi l’entusiasmo della psicologa. -No- rispose irritata. Abbassai gli occhi in segno di scusa -vuoi che legga il prossimo capitolo?- le domandai per farmi perdonare. Lei mi pose il documento senza parlare. Guardai quella che era la mia mentore, e non ebbi bisogno di esprimere parole per farle intendere che ricordavo come già nel capitolo precedente avesse fatto riferimento all’affermazione con cui intitolava il nuovo capitolo. La vidi compiacersi e incoraggiato dal mio ristabilito contegno, incuriosito, iniziai la lettura:

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Innamorato di un sogno… “…Era abbastanza ovvio, ma a quel tempo non ero ancora in grado di capire questi ragionamenti. Le piante sono radicate al suolo e stanno ferme nel loro luogo d’origine per crescere, svilupparsi, evolvere e poi morire. Le si vede sbocciare come erba, le si vede poi crescere e manifestarsi nel tronco. Le si vede diramare i loro rami nel cielo e le radici nella terra, le si percepisce lavorare nella loro interiorità che si esprime nelle foglie, nei fiori, nelle bacche e nei frutti, ma in tutto questo vi è uno sviluppo, una crescita e un’evoluzione. L’essere umano si lega ad un luogo senza essere trattenuto da nessuna radice. Lavora, come una pianta, ma il suo sviluppo si limita alla concezione di ciò che lo circonda e ciò che genera è solo esclusivamente un concetto materiale. Egli ha ideali non compresi perché, a differenza delle piante, non capisce il proprio esistere e lavora solo per un profitto che alla fine dei suoi giorni, potrebbe non aver prodotto frutti. Si potrebbe vedere nei figli, forse, il frutto degli uomini, ma se l’eredità che i padri lasciano ai figli è quella di un concetto riconducibile al semplice proseguimento della discendenza solo per poter mantenere il possesso dei beni cumulati, ecco che anche in questo frutto vi è una semplice e speculare condizione di sfruttamento. Ai figli, i padri lasciano solo la responsabilità di un loro ideale smarrito, e il frutto di una pianta mal nutrita non può essere che acerbo. Dovevo capirlo allora quel suo concetto, invece dovetti prendere il posto di mio padre alla guida dell’azienda per comprendere che, in definitiva, io non facevo altro che eternare una discendenza fatta di affari, contratti e compromessi. Una vita che in conclusione avrei finito per tramandare a mio figlio e che alla fine dei giorni non mi avrebbe consegnato altro che una monotona esistenza che nel suo beneficio di agiatezza, avrebbe comunque rischiato di portarmi alla conclusione di aver sprecato la mia occasione. Ma non lo feci, eppure, sapevo che tutto ciò che il Mage diceva aveva un significato che andava oltre le parole, così come sapevo che quando diceva di essersi innamorato di un sogno non lo intendeva solo in senso letterario, e a tal proposito i ricordi che stavo rivivendo nell’isolamento di quel giorno mi condussero molto indietro nel tempo. -Ho mentito sai?- mi disse in quella sera che risaltava ora alla mia memoria. Eravamo noi due soli perché era così che avveniva. Parodiando il fumetto dei fantastici quattro, l’ambiguo gruppo era stato soprannominato i balordi quattro. Era noto a tutti che i quattro erano legati da un’amicizia vincolata dalle ambizioni e dagli interessi artistici che a Casterba erano giudicati come inutili sciocchezze da perditempo. Agli occhi dei paesani, i quattro artisti, o meglio: i fannulloni, erano destinati a fare una brutta fine. Eppure, tra tutti loro, io ero l’unico a non lavorare. Forse per questo non ero considerato uno dei balordi, o forse più semplicemente, tra tutti ero il più illuso e, nascosto dietro il mio paravento evitavo di pensare che la mia era la famiglia più autorevole a Casterba e che molti degli abitanti del paese dipendevano dal lavoro che la nostra azienda dispensava. Il mio era un privilegio di comodo, al quale comunque non ero disposto a rinunciare, e per tale motivo cercavo di celare la mia stima per i quattro. Avveniva così che i miei fossero quasi incontri clandestini. Era raro, come già descritto, che i quattro si incontrassero tutti assieme e di solito, quando succedeva, capitava in orari notturni. Non posso dire quanto il destino li manipolasse, ma non posso nemmeno evitare di considerare, alla luce di quanto ci ha condotto a ciò che siamo oggi, quanto indeterminabile fosse il calcolo delle probabilità delle circostanze che permettevano il verificarsi degli incontri. Dovendo ancora ripetermi, infatti, devo rammentare come non fosse mai stato prestabilito tra loro un incontro. Avveniva così, per esempio come in quella sera, che il Mage si trovasse a passeggiare per la città in cerca di soggetti della notte per fare esperienza di fotografia notturna, che Marco uscisse da un locale dove si era esibito con un’improvvisata band musicale, che Val scendesse dal treno dopo un’escursione ideata senza preavviso e che il Giocatore se ne uscisse, magari dopo aver perso gran parte del suo stipendio e aver bevuto qualche whisky di troppo, da una bisca clandestina e che io mi trovassi nei paraggi dopo una conferenza sull’agricoltura e il mondo aziendale che ne girava attorno, alla quale avevo partecipato in rappresentanza di mio padre. Succedeva quindi che il Canta seduto sotto un lampione a suonare la chitarra divenisse un soggetto per il Mage, che il Giocatore un po’ brillo improvvisasse qualche ritornello stonato, che il flash della macchina fotografica attirasse il Viaggiatore e che dal richiamo delle voce nella notte, un futuro imprenditore come me, venisse attratto come il miele attira le mosche.

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Era così che avveniva, ci si incontrava in conseguenze di circostanze misteriose alle quali nessuno dava importanza e che per tutti, o almeno quasi, restavano occasioni generate dal caso e comunque opportunità da sfruttare per conversazioni suggestive che potevano svolgersi ovunque, anche al chiaro di luna sulle rive del fiume che scorre. Come avvenne quella sera. Poi ci si scioglieva e ognuno se ne andava per conto proprio così come era capitato lì per caso. Ma io avevo un legame profondo che era iniziato molti anni prima. Al tempo del suo principio i dialoghi erano più fantasiosi, tuttavia, ogni volta, sentivo che la conversazione non mi aveva del tutto gratificato. Era come se qualcosa restasse sempre sospeso nel vuoto. Loro erano fatti così, non avevano bisogno di approfondire, di andare oltre qualcosa di naturale, spontaneo e ordinario. A loro bastavano le proprie menti e magari era proprio quel vuoto e quell’isolamento a concedere il più grande spunto riflessivo. Ma io avevo bisogno di una presenza che mi aiutasse a decifrare quel vuoto, una sorta di elaboratore in cui io inserivo i dati e questi, come un decodificatore, mi conducesse alla soluzione dell’enigma mentale, e quell’elaboratore era Demetrio, il mio legame profondo…” Fermai la lettura per un istante e osservai Felona che assorta nell’attenzione dell’ascolto non si accorse del mio sguardo furtivo, nel quale riflettevo su come la condizione appena descritta dallo scrittore sembrasse simile alla mia con lei. Felona era la mia interprete così come per lui lo era Demetrio. “…Se gli altri tre potevano darmi una gratificazione momentanea, con lui era differente. Lui poteva condurmi oltre perché il suo vuoto, il suo silenzio, ne ero certo, era veramente la sua migliore compagnia. Nel suo vuoto egli elaborava ciò che gli altri magari lasciavano svanire e nel suo vuoto io percepivo ancora l’esigenza di introdurre la mia presenza, come se necessitassi di collegare, attraverso il presente ambiguo, il passato cancellato, al futuro incerto. Così avevo preso ad invitarlo, non come un tempo a passeggiate nella natura, ma a prendere un caffé in qualche locale, giungendo infine ad ospitarlo quasi abitualmente direttamente a casa, dove potevo avere l’occasione di approfondire indisturbato ogni singola conversazione. Continuavo a considerare il suo filosofeggiare e la mia esigenza di assecondarlo come uno svago, una sorta di sconnessione dall’ordinario impegno quotidiano dove, pur credendomi idoneo e naturale, in realtà recitavo un ruolo che lentamente mi stava trasformando in una marionetta manovrata da fili invisibili, senza rendermi conto che questi fili erano governati da entità che sovrastavano la mia volontà e andavano oltre ciò che potevo immaginare e considerare come effettivo. Dovevano essere molte queste entità che si alternavano nel manovrare i miei fili, ma la più potente di esse, stava definitivamente prendendo il sopravvento e a mia insaputa, in una maniera subdola, lo stava per fare proprio in quella sera…” Guardai Felona con un’espressione che rasentava il panico da rivelazione. -Sta descrivendo la condizione in cui non può sottrarsi a quel volere più forte di lui- dissi quasi sconvolto. -Esattamente come Elena- mi fece notare allora lei -E questa condizione si chiama destino? Se è così allora veramente non abbiamo facoltà di controllo- dissi con sgomento. -A meno che non ce ne rendiamo conto. Lui parla di ricordi, attraverso i quali comprende che la sua mancanza di controllo sugli eventi è determinata dall’incapacità di valutarne le conseguenze. Ecco, è questo il controllo. Ovvio che non possiamo comunque predire il futuro, ma meditare prima di agire può aiutare- espose la sua teoria. -È questo quindi che cerca di farci comprendere? Semplicemente che dobbiamo pensare prima di agire?- -Se a te pare semplice- disse con superficialità, quindi mi invitò a proseguire. “…Allora non sapevo se lui pensava che io fossi l’oggetto di una sua missione immateriale, per quanto mi riguarda mi consideravo semplicemente quell’amico di cui anche lui aveva bisogno, ma oggi, se dovessi dare un senso a tutto, probabilmente lo vedrei sotto quell’aspetto di missionario. Nelle serate a casa mia non si discuteva più delle voci dei fiumi e degli spiriti della natura, semplicemente si approfondiva qualche argomento che io introducevo, giacché ero io quello che aveva bisogno di elaborare. Ma quella sera qualcosa cambiò. Il destino ci da sempre dei segni, ci pone sempre delle alternative e delle vie di fuga. Il fatto che fosse lui a prendere l’iniziativa quella sera, avrei dovuto valutarlo, era uno di quei segni.

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Ma come di consueto, la mente umana ragiona per contrari ma allo stesso tempo li sottovaluta a priori, perciò di ogni convinzione non avviene quasi mai che, di ciò che istintivamente si elabora, il suo contrario possa avere una rilevanza tale da far riflettere sull’effettiva idoneità del proprio pensiero e, soprattutto, quando si pensa di poter essere risolutori dei problemi altrui, l’egocentrismo umano non ha rivali. È proprio il credere di poter risolvere i problemi degli altri che rende l’uomo arrogante e presuntuoso, soprattutto perché in questo atteggiamento non vi è mai un completo disinteresse ma piuttosto, anche se magari a livello inconscio, una consapevole e subdola vanagloria nella quale ci si sente meritevoli di un riconoscimento. Ed era in questo modo che il destino giocava la sua carta migliore, dopo aver mischiato da vero professionista del gioco d’azzardo il mazzo, in modo che ogni carta potesse essere assegnata secondo la sua disposizione. Solo la settimana prima aveva fatto in modo di organizzare quell’incontro a cinque, predisponendo ogni movimento come se tutto fosse stato regolato da una sincronicità meticolosa, portandoci sulle rive del fiume Adige ad indagare sui nostri ricordi più lontani. Non sembrava niente di più anormale del solito, voglio dire, a contatto con loro ogni argomento poteva essere stravagante e allo stesso tempo intrigante. Indagare nel profondo dei nostri ricordi, andando alla ricerca di quello più lontano nel tempo, non appariva niente più di una consueta indagine nella quale ognuno di noi poteva trovare uno spunto riflessivo da cui potersi chiedere perché mai la sua memoria avesse cominciato proprio da lì a mantenere dei ricordi. Era questa la cosa più affascinante che si creava in queste conversazioni, il fatto che per quanto l’argomento trattato potesse sembrare il più indifferente possibile, si finiva sempre con l’indagare all’interno di se stessi. Per questo tra loro non vi era possibilità di esprimere giudizi negativi su cosa aveva detto chi: ognuno di loro era giudice di se stesso. Ma era stata una notte anomala e forse io, proprio a causa della mia diversità, avevo potuto notare quell’inquietudine insolita in Demetrio e, forse per la prima volta, potei intuire dei timori nel suo sguardo. Solo adesso posso cominciare a dedurre che quell’inquietudine poteva essere associata ad una sorta di consapevolezza che qualcosa stava definitivamente cambiando, o meglio, una consapevolezza che si stava giungendo al punto di non ritorno, oltre il quale, nessuno di noi due, o addirittura nessuno di noi cinque, avrebbe più potuto tornare indietro o fermare quell’ingranaggio che ancora non era giunto al suo moto perpetuo. Demetrio, durante la discussione, aveva semplicemente affermato che il suo ricordo più lontano risaliva al primo giorno di scuola. Ce lo descrisse superficialmente, come un ricordo di poca importanza e nell’immediato a nessuno parve esserci qualcosa di strano in questa sua superficialità, ma io, che avevo imparato ad indagare ogni sua affermazione, non potevo evitare di intuirlo quel distacco, insolito e improprio. Ma ancora non avevo la capacità, nonostante i miei personali approfondimenti, di comprendere verso quali illogici misteri la scelta di condividere i miei tormenti con lui mi stava conducendo. Anche nel momento in cui confessava la sua menzogna, ancora non ero in grado di intuire che mi stavo lasciando trascinare sempre più nell’abisso, e nella mia umana curiosità lo invitai a spiegarsi meglio. -Riguardo al mio ricordo più lontano- disse -ho mentito-. Io riflettei un istante, poi sorrisi e ignaro che il destino iniziava a svelarmi il suo losco gioco, lo assecondai con un rimprovero verso me stesso. -Sì certo, avrei dovuto capirlo. Ora che ci penso, in effetti, sembravi piuttosto distratto e superficiale. Tuttavia non credo che sia una cosa grave-. -No, infatti- rispose lui -il fatto è che il ricordo di cui avrei dovuto raccontare non era relativo al primo giorno di scuola, quel giorno in realtà non lo ricorderei nemmeno se non fosse che il ricordo che avrei dovuto rivelare invece, è legato alla notte successiva a quel primo giorno- disse, e a quel punto la mia indiscrezione mi impedì ancora di valutare se era il caso di approfondire impedendomi di percepire i segnali d’allarme fatti di brividi che parevano volermi avvertire, e mi indusse invece ad indagare. -Che cosa intendi?- volli sapere, e mentre lui iniziava a raccontare, il destino predisponeva le ultime carte del suo gioco, tenendo tra le sue mani quelle vincenti e consegnando nelle mie quelle perdenti, con un unico jolly che rappresentava la speranza di cui in un giorno lontano, forse, ne avrei compreso il senso.

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Era il Novembre del 1986, avevo sedici anni. Io conoscevo molte delle storie riguardo i suoi fantasmi dell’infanzia. Fantasmi che non erano folletti o spiriti della natura che io potevo solo immaginare, ma fantasmi fatti di suoni, luci e ombre. Fantasmi con un volto dei quali lui parlava con la stessa semplicità con cui un cuoco può parlare di spaghetti al pomodoro. I suoi erano fantasmi reali. Reali quanto quei sogni che definiva viventi. Vidi i suoi occhi farsi tristi, di quella malinconia solita che lo coglieva ogni volta che il suo parlare, o ricordare, fosse in qualche modo legato ad un tormento che non avrebbe voluto condividere, come se avesse il timore che tale tormento potesse essere trasmesso come un virus. Molti anni dopo avrei compreso che quella mia sensazione era una realtà e che lui veramente sapeva che il tormento di cui era ambasciatore, gli era stato affidato per essere trasmesso come una sorta di untore. -Quel giorno, ricordo- raccontò -mia madre mi accompagnò a scuola. Io non ero mai uscito di casa se non per andare a passeggiare nella campagna, così non ero abituato ad affrontare la gente. Non conoscevo nessun bambino della mia età, ma non fu traumatico come lei temeva. Mi adattai senza difficoltà, perché per me si trattava solo di una nuova esperienza. Alcuni bambini piangevano, altri sembravano rassegnati, altri erano spavaldi. Io ero semplicemente tranquillo, sebbene non conoscessi nessuno- raccontava come se ignorasse che io stesso avevo vissuto le medesime sensazioni un anno più tardi, ma era evidente che doveva farlo. -Eravamo in ventiquattro alunni a frequentare il primo anno. L’insegnante ci radunò e ci mise in fila, poi ci dispose in ordine d’altezza e ci condusse alla nostra aula- i ricordi relativi al primo giorno di scuola, lo ammetto, a me parevano tanto superflui che a stento io stesso li ricordavo. Forse per questo sentiva l’esigenza di descrivere ciò che era avvenuto, come se tentasse di risvegliare pure in me il ricordo di quei tempi, forse per fare in modo che potessi immedesimarmi il più possibile in quello stato che, ripeto, se avessi saputo comprendere quanto avrebbe influito sul futuro, vicino e lontano, avrei avuto anche l’opportunità di considerare quanto lasciarmi effettivamente coinvolgere. -Lì vi erano quattro file di sei banchi ognuna. L’insegnante decise che le file laterali sarebbero state occupate dagli alunni maschi e le centrali dalle femmine, quindi assegnò i posti mettendo davanti i più piccoli in ordine di altezza-. Cominciavo effettivamente ad immaginare come erano andate le cose, ricordando come ogni alunno sperasse di essere assegnato a qualsiasi posto che non fosse il primo della fila. Un anno più tardi a me era andata bene, finendo al centro dell’aula, ma per lui era stato diverso: Lui era finito in quei banchi che tutti volevano evitare, i primi. -Io ero il più basso della classe, assieme ad un altro compagno e a due compagne, i quattro quindi che dovevano occupare i banchi davanti- si fermò per un istante e sembrò pensare. -Vedi Tommaso- riprese poco dopo -io credo che esista un ordine in cui anche il caso non può essere considerato caos. Quel giorno io avrei potuto essere assegnato alla fila di sinistra e non a quella di destra, e lei avrebbe potuto essere spostata nella fila successiva a quella cui invece fu assegnata-. Cercai di immaginare, ma mi riusciva difficile capire ciò cui alludeva, sebbene intendessi che parlava di una ragazza. -Avrebbe potuto essere più alta di me, o viceversa, ma invece, tutto si svolse come se fosse stato prestabilito. Io fui assegnato al primo banco della fila di destra, e lei al primo banco della fila a fianco. Se non fosse stato perché ci potevamo quasi definire compagni di banco, io forse non l’avrei neppure notata-. Stavo cercando di focalizzare, ma seppure cominciassi a comprendere ciò che stava per rivelarmi, ignaro ancora di quanto stava per avvenire, ancora non riuscivo a capire di chi parlava, ma sorrisi -c’è di mezzo una ragazza vero?- dissi. Non poteva essere che così dal momento che ognuno di noi aveva avuto come vicina di banco una ragazza, tuttavia potevo solo immaginare che la storia di cui stava parlando fosse semplicemente legata ad un ricordo e a una successiva conclusione, non certo che quel ricordo fosse invece ancora molto attuale. -L’avevo notata appena, non più di quanto non avessi fatto con gli altri miei compagni e forse non l’avrei nemmeno ricordata se non fosse stato per quel sogno- mentre lui parlava io cercavo di anticipare la rivelazione tentando di ricordare e capire chi era la ragazza, elencando velocemente

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nella mia memoria tutte le alunne della sua classe. Ma potevo solo fare supposizioni su ognuna di loro, poiché non potevo sapere come fosse stata disposta la classe che mi aveva preceduto un anno prima. Poi, l’allusione al sogno attirò la mia attenzione portandomi ad evitare di distrarmi e conducendomi a quella concentrazione che, definitivamente, mi allontanava da ogni possibile elusione dai coinvolgimenti e, attendendo che fosse lui a rivelare il nome fatale, entrai in quel ruolo che avrebbe condizionato il resto della mia vita. -Avvenne la notte stessa, e da allora non passa un girono senza che mi svegli e non pensi a lei-. Mi stava rivelando un amore segreto, e la rivelazione andava talmente oltre la mia immaginazione che, invece di rifletterci sopra come potrei fare oggi, quasi mi misi a ridere. -Così il tuo ricordo più lontano, è legato ad un amore segreto- dissi con ironia. Solo dopo che il suo sguardo si fece ancora più malinconico cominciai a valutare le circostanze di quell’amore. -Aspetta un momento Mage, avevi solo sei anni a quel tempo- lui annuì. Non fu complicato fare un rapido calcolo -vuoi dirmi che sono undici anni che ti porti dentro questo segreto senza aver mai avuto il coraggio di rivelarti a lei?- di nuovo annuì. Non sapevo se deriderlo o se comprenderlo, ma potevo intuire la sua sofferenza e improvvisamente la mia mente si aprì con un’istantanea che mi riportò in un preciso attimo del passato in cui io avevo avuto occasione di entrare in quell’aula perché l’insegnate mi aveva mandato a chiedere un libro alla sua collega, avendo così l’occasione di vedere, seppure per pochi minuti, come gli alunni erano disposti, specialmente quelli della prima fila, e potei attraverso quell’istantanea vedere l’immagine della bambina del sogno, come se io stesso fossi entrato nel suo sogno e nel passato. -Virginia. Era Virginia la bambina seduta accanto a te- affermai come se stessi partecipando ad un quiz televisivo e avessi vinto il primo premio. Lui si limitò ad annuire. -Hai sognato Virginia e da allora ne sei innamorato?- -Proprio così- rispose senza indugi. Non so come interpretare oggi quella sua risposta priva di esitazioni. Non so quanto fosse consapevole, o convinto, di avere un ruolo preordinato dal destino. Valutando i fatti successivi, dovrei dedurre che ancora fosse lui stesso all’oscuro delle sue percezioni, ma ciò mi condurrebbe inevitabilmente ad affermare che allora il destino ha veramente già scritto ogni ruolo, e preferisco pensare che la sua fu piuttosto una strategia. Undici anni di tormento sono lunghi e forse anche lui stava cominciando a pensare che probabilmente era preferibile vedere una speranza infranta che continuare a mantenere vivo il tormento. -Virginia- dissi, e senza rendermi conto di assecondare, attraverso l’arroganza di chi si sente in grado di risolvere i problemi altrui, il gioco subdolo del destino, esultai, perché già mi immaginavo come risolutore del suo tormento. Nei paesi rurali, in un tempo in cui la cultura contadina aveva tra i suoi valori più affermati la concezione religiosa, la chiesa aveva un ruolo importante. Oggi io penso che il Mage fu tra tutti noi uno dei più fortunati. La sua famiglia era abbastanza indulgente e di una mentalità più aperta e probabilmente evoluta, al punto che a Demetrio non era imposta alcuna autorità. Era stato educato secondo l’insegnamento, la cultura e la formazione prevista dalla società, ma alla fine era stato lasciato libero di fare le sue scelte e il Mage non era uno che doveva entrare in una chiesa per trovare Dio, né aveva bisogno di un’istituzione che glielo rendesse concreto. Lui Dio lo trovava nel sibilo del vento, nel sussurro dei fiumi, nel fruscio degli alberi, nel fuoco, nell’aria, nella terra e nell’acqua. Lui Dio lo trovava ovunque, perfino nei sogni, e quindi, finito il tempo in cui era stato costretto a causa di un obbligo sociale, a seguire le lezioni di catechismo, aveva chiuso ogni rapporto con quell’istituzione che pretendeva di conoscere il volere divino. Io invece non ero riuscito a sottrarmi a quell’istruzione e adattamento che, più che necessari, apparivano obbligatori per non essere esclusi dalla realtà di una società ancora troppo radicale e per un gioco vizioso dal quale è difficile riuscire a districarsi, con la chiesa avevo ancora forti legami. La mia era un’età in cui non ero obbligato a seguire il catechismo che si svolgeva due volte la settimana nelle ore pomeridiane, ma molti ragazzi venivano coinvolti dalla parrocchia come assistenti. Era difficile tenere un gruppo di bambini di età compresa tra i sei e gli undici anni, così il parroco si avvaleva del sostegno di alcuni così detti “volontari”. Non starò a dirvi

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quanto quel volontariato fosse del tutto spontaneo e quanto fosse frutto di un plagio mentale, sta di fatto che io ero tra i ragazzi che ne facevano parte, così come ne faceva parte Virginia. Fu senza riflettere che proposi la mia intermediazione -sai che lei fa parte del gruppo di catechesi con me vero? Se vuoi posso intercedere per te- gli proposi. Non si mostrò molto entusiasta e io non saprò mai cosa pensò in quel momento. -Tu pensi che possa esistere un amore infinito?- mi disse. Ero giovane a quel tempo, troppo giovane per cercare di capire che nelle parole del Mage vi era un significato diverso da quello che intendevo io. A quell’età si ha dell’amore un concetto troppo elevato, come qualcosa che trascende l’umana coscienza, in un certo senso si potrebbe dire che forse è l’unico momento in cui si ama davvero, perché si è incoscienti del vero significato di tale sentimento e per tanto si crede di amare veramente. Servono molti anni per comprendere che quello che si crede un sentimento puro e nobile in realtà non è così trascendente come lo si valuta a quell’età, ed era in questo modo che io consideravo, a quel tempo, anche le parole di Demetrio…” Conclusi la lettura e la guardai -qualche altra intuizione?-. Lei scosse il capo -no, qui sembra veramente limitarsi a descrivere un episodio della loro vita, sebbene credo che questo sia il cuore del racconto-. -Tuttavia sei riuscita a precederlo- le feci notare. -Cosa?- rispose lei colta da imbarazzo. -Le radici cui si riferiva- le rammentai -hai interpretato ciò che intendeva prima che lo esprimesse lui. Ricordi? Questo capitolo lo inizia facendo riferimento al modo di svilupparsi delle piante, di cui tu avevi già parlato prima. Forse per questo ti sfugge qualche possibile intuizione, cominci a precederlo- lo dissi come per elogiarla, ma lei parve preoccupata, come se quel dettaglio non le fosse gradito. -Già, tu invece inizi a diventare perspicace- rispose con un tono di voce elusivo. Non riuscii ad interpretare quel suo distacco che sembrava dovuto al non apprezzare elogi, ma nemmeno me ne preoccupai e, ancora incapace di sottrarmi alla mia personalità cercai di sdrammatizzare. -Imparo in fretta- scherzai. Lei sorrise, non so quanto sinceramente e quanto forzatamente, ma notai il suo instabile umore che denotava una sorta di timore, come se temesse di rivelare qualcosa che non voleva venisse scoperto, e io, di queste cose me ne intendevo. Si alzò rapida -è tardi, meglio andare a dormire- disse sbrigativamente. Osservai l’orologio, era quasi mezzanotte ma sembrava che né io né lei fossimo veramente stanchi. -Se vuoi leggo un altro capitolo- le proposi leggermente confuso, ma lei scosse il capo. -Meglio di no, rischieremmo di fare troppa confusione. Andremo avanti domani- disse perentoria. -Va bene- accettai -e magari facciamo una visitina a questo Valbordi, che ne dici?- -Ci penseremo domani- rispose ancora sbrigativamente. Allora capii che non aveva intenzione di discutere oltre e rassegnato tornai nella mia camera. Nel frigo bar c’erano alcune bottiglie di bibite, ne presi una e pensai che il giorno seguente avrei fatto bene a far portare dei liquori. Mi sedetti a sorseggiare la bevanda e osservando il documento, stranamente, ripensai a come l’umore di Felona fosse tanto lunatico e si fosse fatta improvvisamente pensierosa dopo che le avevo fatto notare come riusciva a precedere le allusioni dello scrittore. Tuttavia nella mia mentalità maschilista mi convinsi che era tipico dell’atteggiamento femminile e valutai che nel mio insistere probabilmente aveva dovuto intuire una sorta di indiscrezione per far inoltrare la notte e poi approfittare di un’atmosfera che avrebbe potuto insinuarsi tra noi… in altre parole valutai che aveva pensato che ci stavo provando e animato da un orgoglio maschile, semplicemente, sorrisi… La mattina seguente la trovai nella sala d’attesa a leggere una rivista, e poiché lei era più mattutina di me dovetti fare colazione da solo. Mi avvicinai -allora, si va a Valbordi?- le proposi. Lei mi guardò riflessiva -perché invece non cerchiamo di scoprire qualcosa di più prima?- Lo sguardo che le proposi fu chiaramente enigmatico. -È possibile che la nostra visita si concluda in un giro turistico senza sapere ciò che cerchiamo, non credi?- mi spiegò le motivazioni del suo esitare. Io la guardai perplesso -ma noi non sappiamo cosa stiamo cercando- la misi allora in difficoltà.

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Ma lei doveva aver previsto tutto -esatto, e visto che tra non molto sarà ora di pranzo, tanto vale attendere e proseguire con la lettura- disse scocciata facendo nuovamente notare la mia brutta abitudine di dormire fino a tardi la mattina. -Va bene- le risposi, ma goliardicamente mi presi una piccola rivincita -però io mi sono appena svegliato e ancora non focalizzo bene, dovrai leggere tu-. Sorrise con ironia. Ci avviammo verso la sala riservata agli ospiti, e poiché dovevamo essere gli unici, nessuno ci disturbò. Lei prese il fascicolo e prese a leggere:

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L’amore eterno… “…Non aveva acconsentito a eleggermi tramite tra loro, ma nemmeno aveva rifiutato, e io consideravo il suo silenzio come un tacito accordo. La realtà dei fatti sta forse proprio nell’impossibilità di sostenere certi tormenti, e in questo il Mage si stava dimostrando un comune essere mortale. Per undici anni aveva mantenuto e sopportato quel tormento di cui chiunque abbia avuto un amore segreto può capire la pena, e il Mage era troppo intelligente per non sapere che un segreto poteva restare tale solo se non lo si fosse mai svelato a nessuno. Il rivelarlo, anche se all’amico più fidato, con la classica raccomandazione di non raccontarlo a nessuno, equivaleva a renderlo pubblico a tutti. E io credo che ciò che lui voleva fosse proprio questo. Un amore di quel genere è disarmante, distruttivo, al punto che si preferisce tenerlo segreto piuttosto che vederlo distrutto, finché il segreto non finisce per logorare lo scrigno stesso. C’è chi ha detto che è meglio aver amato e perduto che non aver amato mai, ma si potrebbe anche dire che è meglio aver amato in segreto piuttosto che non avere più nemmeno la speranza. Io credo che in cuor suo il Mage sapeva che tra loro non sarebbe nata nessuna storia d’amore e, in definitiva, il segreto contribuiva a mantenere viva quella tormentosa speranza che gli permetteva di vivere la sua favola nella stessa maniera in cui si vive un sogno. Ecco, forse adesso, facendo questa considerazione, posso cominciare a pensare che anche a quel tempo lui conosceva già il suo destino, e fosse altrettanto consapevole di quel che faceva. Era giunto per lui il momento di separarsi dal sogno, sebbene questo non lo avrebbe separato dal tormento. Probabilmente, lui che col destino sembrava essere consapevole di giocarci, ancora non sapeva quali fossero le carte nelle mani dell’avversario, ma di sicuro era certo che quella mano lui l’avrebbe persa, come sapeva che non poteva sottrarsi al gioco ormai iniziato e che a volte si vinceva perdendo. La mia mediazione aveva avuto esito, ma gli sviluppi da me sperati si erano invece rivelati nelle cognizioni del Mage, ed era passato un bel po’ di tempo da quando lei gli aveva comunicato che non provava nei suoi confronti lo stesso sentimento, ma fu solo allora, nella sera che precedeva la sua partenza, che cominciai a capire cosa intendeva dire con l’espressione “amore infinito”. …Ne aveva parlato altre volte, in diverse circostanze, anche se, dopo che mi aveva rivelato il suo segreto, io continuavo a identificare in Virginia l’oggetto di tale argomento, e non riuscivo ad andare oltre una barriera invisibile che mi confinava al di qua di una visione limitata che non prevedeva altri spazi oltre il visibile o lo sperimentabile. -Tu credi che sia possibile che due anime si incontrino in un determinato spazio del tempo, e si leghino ad un punto tale da divenire indivisibili per l’eternità?- Non era successo nell’immediato. Tutto si era svolto con dei tempi che parevano quasi controllati da un fattore esterno. Inizialmente io avevo lasciato perdere, alludendo al suo segreto solo in circostanze scherzose, poi avevo iniziato a insistere per avere il suo consenso a intermediare per lui, infine cominciai a rivelargli che ogni tanto parlavo di lui a Virginia. Ogni volta lui non reagiva nel modo che ci si aspetterebbe, con cenni di approvazione o con rimproveri di rifiuto, semplicemente, pareva accettare ogni avvento, come se in realtà avesse dentro di sé la consapevolezza di un qualcosa che doveva essere. E quel qualcosa, in effetti, stava realmente avvenendo, solo che la mia ingenuità ancora mi impediva di comprenderlo. Io e Virginia stavamo diventando amici. Io l’avvicinavo per parlarle di Demetrio, ma discutere di lui significava anche introdurre argomenti inconsueti che parevano avere strani effetti sulle caratteristiche femminili. Era come se le ragazze avessero un filtro ricettivo che le attirava in modo particolare verso argomenti che si inoltravano nell’indagine della psiche o del surreale. In qualunque donna, per quanto banale potesse sembrare, magari ad un livello superficiale o inconscio, quell’attrazione prendeva sempre una certa evidenza, ovvero, anche se lei stessa magari non se ne rendeva conto, gli occhi rivelavano quel canale ricettivo che impulsivamente la costringeva se non ad approfondire, a percepire una sorta di irresistibile attrazione. Ovvio che non tutte erano allettate e sedotte dall’argomento, alcune avevano l’immunità a quell’attrazione che in quest’ultime si risolveva solo in un flebile lampo subito dimenticato, ma Virginia era del primo tipo e per quanto la si potesse considerare ordinaria, a tali conversazioni non era né indifferente né scettica, e il mio introdurre gli argomenti che avrebbero dovuto farle comprendere che Demetrio, e non io, era l’uomo con cui

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avrebbe potuto approfondire oltre ogni limite quella sfera surreale, sortiva l’effetto di compromettere sempre più la possibilità che ella potesse intravedere in lui, se non un amante, un amico con cui condividere idee che altrove non sarebbe stato possibile. Non mi rendevo conto che lei la vedeva in me tale figura, mentre Demetrio restava nei suoi pensieri semplicemente un soggetto senza interesse. Virginia era una bella ragazza. Non era quel tipo di donna dal fascino fatale, non ancora almeno. Lei era del tipo semplice, moderata nel comportamento e nell’espansività. Ancora le mancavano quelle qualità che l’avrebbero resa provocante al punto da poter essere considerata un oggetto del desiderio, ma non si poteva nemmeno dire che passasse inosservata. Sembrava che a lei mancasse l’estro provocatorio, ma il conoscerla meglio e il frequentarla in maniera più costante, comportava anche la conseguente conoscenza di questo suo lato nascosto e la crescente percezione che in un futuro non troppo lontano, tale oscuro lato, sarebbe emerso. Non posso dire di essere arrivato al desiderio morboso, né di essermi realmente innamorato, ma non posso nemmeno negare di essere giunto a fantasticare su di lei. Nonostante tutto però, vi fu una sorta di compromesso che giunsi ad instaurare con me stesso. Non so per quale strana ragione, ma una sorta di rispetto mi induceva ad avere per lei quel riguardo che spesso manca tra un sesso e l’altro. Divenimmo amici sinceri, e il nostro rapporto d’amicizia proseguì anche quando finalmente il segreto del Mage non fu rivelato e con esso la motivazione delle mie attenzioni per lei. Inizialmente si era risentita accusandomi di averla lusingata solo per uno scopo che non era quello che aveva creduto, ma poi aveva apprezzato il mio altruismo. Tuttavia il Mage restava per lei un perfetto estraneo per cui non provava alcuna attrattiva. Mi fu difficile convincerla a dargli un’opportunità e persuaderla che se lo avesse conosciuto avrebbe potuto cambiare opinione su di lui, perché malgrado tutto, anche lei faceva parte di una maggioranza istituzionale che prevedeva l’ausilio di concetti, preconcetti, valutazioni e giudizi, e come per tutta quella maggioranza, il Mage era uno strano ragazzo che non destava curiosità ma che poteva compromettere. Accettò di ascoltarlo solo, disse, per fare un piacere a me e per scaricare quel suo tormentato segreto che, le avevo rivelato, durava ormai da undici anni. Non so che cosa avvenne tra loro la sera che li feci incontrare, so solo che il Mage mi disse che era stata molto delicata nel spiegarle che lei non provava gli stessi sentimenti e, seppure la malinconia del suo sguardo apparisse ancora più profonda, quasi sembrava soddisfatto di come erano andate le cose, anziché deluso. Anche con lui la mia amicizia proseguì, nonostante io percepissi il suo imbarazzo nel comprendere che l’aver reso pubblico il segreto, che, appunto perché segreto era divenuto di dominio pubblico, aveva contribuito ad ingrandire il sarcasmo a lui rivolto tra le persone dalla mentalità limitata che calcolavano l’intelligenza da quanto uno riusciva a prendere in giro qualcun’altro. Poi il tempo continuò a far sì che tutto continuasse a procedere in quel modo che sembrava prestabilito, giungendo alla sera in cui parlò dell’amore infinito. Io l’avevo guardato con un senso di colpa crescente perché in definitiva mi sentivo responsabile nell’aver contribuito ad infrangere la sua favola. Percepivo il suo tormento e capivo che era qualcosa che andava oltre le classiche storie d’amore che si leggono nei romanzi o si vedono nei film e che, in definitiva, si vivono anche quotidianamente. Quello era stato un amore trascendente, vissuto come un obbligo perché non era nato da un attrazione fisica, ma assegnato da un sogno o, come a Elena di Troia era stato impossibile sottrarsi alla seduzione di Paride perché soggiogata dal volere divino, vincolato da un potere superiore. E proprio perchè nato in un età in cui non si poteva assolutamente parlare di attrazione fisica, puro e genuino. E per questo comprendevo che le classiche parole di conforto, non potevano avere alcun senso. Tuttavia non avevo altre parole per cercare di consolarlo e non reagii diversamente da chiunque altro. -Forse dovresti fartene una ragione Mage. In definitiva l’amore è così. Le storie iniziano e finiscono finché non arriva quella giusta. La vita del resto è fatta di esperienze no?- per un momento, nel prolungato silenzio che lasciò intercorrere, ebbi come l’impressione di avergli trasmesso qualcosa di importante, come se fossi riuscito a fargli comprendere qualcosa che forse lui non aveva mai valutato. Ma la mia era solamente l’espressione di una realtà con la quale ognuno può confrontarsi, ed era impensabile che lui la potesse accettare così com’era. -Sì, la vita è fatta per fare esperienze. Ma se queste esperienze non fossero destinate a restare vaghi ricordi di un tempo limitato?- disse, ed io, devo ammetterlo, provai un senso di confusione tale, che non riuscii a dire niente.

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-Ti sembra possibile- proseguì allora lui -che uno, all’età di sei anni, si trovi in una condizione per cui, vedendo per la prima volta una persona, provi quel sentimento che supera ogni altra esperienza? Un amore come quello che ho provato io necessita di un percorso piuttosto complesso. Generalmente due persone si attraggono prima fisicamente, e poi subentra l’amore, se queste due persone sono fatte l’una per l’altra. Io ho saltato quel passaggio. Ho provato per lei un amore così intenso che in undici anni mai l’attrazione fisica ha avuto il sopravvento sul sentimento- mi guardò con sguardo disarmante -ti sembra possibile questo?- Scossi il capo in segno che non sapevo che cosa dire e timidamente cercai di trovare una risposta razionale -la psicologia umana è… enigmatica. Io penso che in definitiva, può succedere, voglio dire, a te è successo no? Questo dovrebbe significare qualcosa-. Mi rendo conto adesso di quanto banali fossero state le mie parole e di quanto sconvolgente fosse stata la sua risposta. -E se il mio amore per lei giungesse da un’esperienza precedente?- aveva replicato. Lo avevo osservato decisamente sconvolto -non ti seguo Mage. Stai prendendo in considerazione cose che io forse non riesco a valutare…- lo dissi quasi sussurrando, rendendomi conto di quanto in profondità le concezioni tradizionali, sociali e religiose, avevano intaccato il mio animo. Lui annuì come rassegnato, ma era evidente una certa delusione, così come era evidente che qualcosa stava definitivamente mutando…” -Tu che cosa risponderesti?- me lo domandò tanto all’improvviso che quasi non mi accorsi nemmeno che era una domanda. La guardai confuso -il capitolo è finito?- cercai di eludere la risposta. -Certo. Che cosa risponderesti?- ripeté rapidamente e io mi sentii preso nella morsa del panico che deve cogliere ogni uomo sposato o fidanzato che si sente porre una domanda dalla cui risposta dipenderà l’intero umore giornaliero della compagna. -Devo proprio rispondere?- replicai. Lei rise istericamente -perché tanto timore? Il resto della tua vita non dipenderà da un’ipotesi, voglio solo sapere come avresti reagito in questa condizione, se fossi stato al posto di Tommaso, che cosa avresti risposto?- -Ma la cosa non ha senso, io non posso sapere quali fossero i suoi stati d’animo, non posso rispondere per lui- cercai ancora di svincolarmi, come se dalla risposta che avrei dato a quella domanda dipendesse effettivamente parte della mia sorte futura. -Hai paura di rivelare qualche segreto?- -È che non vedo il senso della domanda- insistei. Lei sprofondò nella poltrona -voglio solo capire quante possibilità hai di scoprire con chi hai a che fare-. -E in che modo se mi è consentito?- -Nel modo migliore. Voglio capire fino a che punto ti senti coinvolto-. -Ma perché? A che cosa ti servirebbe?- -A me forse nulla, ma a te moltissimo. Se non riesci a capirlo da solo io devo condurti alla comprensione, è questo il lavoro di uno psicologo. Nel momento in cui avrai una cognizione di quanto tu ti senta coinvolto, la tua visione dell’insieme cambierà. È ovvio che non puoi affrontare questa indagine come una qualunque altra indagine, con lo stesso distacco voglio dire, e il coinvolgimento può essere un punto di forza se lo comprendi e lo controlli, altrimenti rischierai di lasciarti rovinare-. A quel punto toccò a me sorridere -non pensavo che l’indagine finisse per rivolgersi verso di me. Tu vuoi sapere cosa avrei risposto solo per analizzarmi- dissi temendo un tranello da parte sua -la tua è deformazione professionale non credi?- l’accusai sarcastico. Mi lanciò una smorfia stizzita -credi di poter sostenere un confronto di questo genere?- riprese, e una sorta di confusione mi colse perché dalla sua reazione più indignata che offesa, non riuscivo a valutare se il confronto di cui parlava era quello tra me e lei o tra me e lo scrittore. -Di che tipo di confronto stai parlando? A cosa alludi?- -Non certo a quello che pensi tu- mantenne la sua indignazione. -Perché, secondo te a cosa alludo?-

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-Pensi che a me interessi competere con te? Se è così toglietelo dalla testa, non saresti nemmeno un avversario temibile. Io non sono qui per gareggiare. Sono qui per due motivi: uno è che tu me lo hai chiesto, l’altro è perché questo caso, e parlo di caso a livello psicologico, mi interessa particolarmente e io ho capito fino a che punto me ne sento coinvolta, tanto da comprendere che ho dovuto cominciare a controllare tale impulso. La questione quindi riguarda te, ma se non sei pronto a confidarti probabilmente ci sono ancora molte cose che ti limitano, tra le quali la paura, e questo implica un’incognita piuttosto complessa. Se non sei pronto a sostenere un confronto con me, credi di poterlo sostenere con questo tizio? Era questo il senso della domanda, ora sta a te: credi di poter sostenere questo confronto?- -Contro chi dovrei confrontarmi? Che cos’è che dovrei essere pronto a sostenere?- lo domandai quasi intimorito, ma era evidente che dal mio pensiero era scomparsa ogni traccia di arroganza. -Rivelazioni- pronunciò soltanto. -Rivelazioni? Che razza di rivelazioni?- -È come immaginavo- ribatté lei -vedi, avresti fatto prima a rispondere-. -Ma che diavolo stai dicendo? Cominci a farmi innervosire- dissi. -Hai perso la tua perspicacia vero? Non è durata poi così tanto. Ripassa questo concetto “Tu credi che sia possibile che due anime si incontrino in un determinato spazio del tempo, e si leghino ad un punto tale da divenire indivisibili per l’eternità?”- rilesse -noti niente?- aggiunse in fine. -Sì, è il classico discorrere degli innamorati, ma questi dialoghi si frantumano col tempo, non stupirti per le mie reticenze, quelle cose non durano e se è questo che vuoi sapere di me ti basta chiederlo: io non voglio legami- dissi senza rendermi conto del mio tono isterico. -Sei un idiota- fu la risposta furibonda che ricevetti ma, invece che rabbia, questa mi provocò stupore. -Questo tizio ti sta rivelando qualcosa che va oltre l’immaginabile. Ti sta dicendo che Demetrio lo stava contaminando con le sue credenze, in pratica è come se ogni domanda che si sentiva rivolgere, la stesse adesso rivolgendo a te. Ma tu sei il classico che esteriorizza e che concentra tutto su se stesso. A lui non importa niente di quello che vuoi o non vuoi, e nemmeno a me se credi che io possa provare attrazione per te. Quindi smettila di pensare che qualcuno stia cercando di intrappolarti e concentrati su ciò che stai facendo. Dimentica di essere il punto focale, non sei tu il centro dell’universo, tu sei solo una pedina. Finché continuerai a ragionare come se tu fossi la vittima o l’oggetto del desiderio, non comprenderai niente. Ti è più chiaro il concetto adesso?- si addirò talmente che la sua ira non mancò di attirare l’attenzione delle poche persone che si trovavano nei paraggi della sala, mentre io me ne restavo inebetito come un pugile sotto una raffica di pugni che giungevano da ogni parte e non riusciva ad evitarli. -Ma…- non sapevo cosa dire e ridicolmente iniziai a balbettare -io non mi sento l’oggetto del desiderio… è solo che non capisco più niente…che senso ha tutto questo?- Lei parve calmarsi -il confine che divide la sanità dalla follia è un sottile velo. Forse tutto ciò che sta cercando di fare è di metterti in guardia. Ha iniziato con un avvertimento ricordi? Quindi ora più che mai cerca di dirti di essere prudente e di non sottovalutare quello che scopri, come invece stai facendo. Io aggiungerei anche di non sottovalutare ciò che provi, è importante che lasci scorrere le emozioni e che le esprima se è necessario-. -Vuoi dire che sta cercando di avvisarci che se continuiamo a indagare potremmo diventare pazzi?- -Te l’ho detto, il confine è sottile, ma non è a me che è stato assegnato l’incarico. Comunque sì, potrebbe essere. Magari questo tizio ti conosce meglio di quanto non credi e forse dovresti cominciare ad intromettere un’altra possibilità all’alternativa dello scherzo, che ancora evidentemente non hai escluso- appariva seriamente preoccupata. -Che sarebbe?- domandai mascherando con difficoltà i timori che già mi assalivano. -Il castigo- pronunciò lei decisa, e io provai un brivido. Ancora non avevo smaltito i timori che si erano innescati in me solo pochi giorni prima ed ora mi si prospettava qualcosa che non avevo considerato, e che decisamente, poteva competer con la paura già provata ad un livello, se non simile, maggiore. -E’… un’ipotesi assurda, chi mai potrebbe desiderare di volermi castigare? Io non ho nemici, e poi perché mai?..- dissi, ma già mi sentivo un povero illuso. Lei mi guardò con l’espressione compiacente con cui si guarda un ingenuo -con il lavoro che fai?-

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Improvvisamente mi sentii il mondo crollare addosso. Non avevo mai considerato il ramo del lavoro che avevo scelto pericoloso, ma solo perchè nella specifica categoria erano improbabili scontri fisici o armati. tuttavia dovevo pur considerare che il mio lavoro consisteva nello smascherare inganni e tradimenti, e qualcuno forse poteva non esserne rimasto compiaciuto. In quel momento più che mai mi resi conto di quanto importante fosse capire chi era il folle che mi stava minacciando e, probabilmente, dovetti impallidire. -E tu credi che questo tizio potrebbe essere così abile da cercare di condurmi alla follia? Credi veramente che potrebbe farlo?- -Sarebbe una punizione straordinariamente e diabolicamente perfida, non credi?- La guardai sconvolto -ed è possibile indurre la follia?- domandai di nuovo senza più voglia di scherzare, ma il suo silenzio fu più essenziale di un inutile dubbio di conforto e forse per la prima volta, potei veramente comprendere la paura. -No, non credo all’amore eterno, così come non credo che vi siano punti del tempo in cui un destino s’intreccia per l’eternità, forse perché non credo nell’eternità- risposi, sincero ma nervoso, nel tentativo di non pensare alle ipotesi appena azzardate. Felona mi osservò, non so quanto soddisfatta o preoccupata, e non ribatté alla mia risposta, semplicemente tornò a posare gli occhi sul documento e lesse:

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…Le radici dell’odio “…Non fosse stato per quel cambiamento forse tra me e Virginia avrebbe potuto nascere qualcosa. Io avevo imparato a conoscerla e certo, devo ammetterlo, nella semplicità che l’aveva distinta fin prima dell’incontro con Demetrio, non avevo escluso che lei avrebbe potuto essere la donna giusta per me. Io ero stato educato ad un certo contegno, secondo una chiara disciplina nella quale dignità e serietà erano necessari. Lei era così: seria, disciplinata e dignitosa. Mi ero imposto di non lasciarmi coinvolgere sentimentalmente da lei per rispetto e lealtà verso l’amico. Ma quando se ne era andato, avrei potuto considerare quel vincolo sciolto e abbandonarmi all’attrazione che pian piano si era insinuata in me. Ma era avvenuto qualcosa prima della sua partenza. Ogni nostra azione produce una reazione, ogni reazione una conseguenza. La mia, era stata quella di mettere in evidenza un legame che, seppure platonico, non aveva mancato di attirare l’attenzione dei limiti mentali di Casterba. Ben presto la notizia dell’amore segreto aveva finito per divenire un devastante movente di satira di cui Demetrio era il punto focale, ma che inevitabilmente aveva finito per coinvolgere più o meno indirettamente anche lei, portandola così a subirne i conseguenti effetti. Ciò, aveva prodotto la reazione. Non sopportando di essere accostata a lui per quello stato di inadeguatezza che la sua immagine procurava, ed essendo ancora in un’età nella quale riesce difficile valutare le giuste modalità di reazione, lei aveva iniziato la sua metamorfosi. Frequentando nuove amicizie, aveva imparato a conoscere il suo lato oscuro, provocatorio, sensuale e seducente. Così il suo carattere era cambiato, tanto quanto il suo aspetto. Diciassette anni sono un’età in cui un corpo femminile può già esibire doti di maturità fisica che sovrastano quella mentale, ancora non raggiunta, sufficienti ad attirare morbose attenzioni, e lei aveva imparato ad usarle quelle doti, per distinguersi e mutare le attenzioni nei suoi riguardi, in modo tale che, diventando oggetto di desiderio, si allontanassero da lei beffe e derisioni di cui altrimenti sarebbe rimasta vittima. In conseguenza a ciò che i timori di un accostamento dannoso avrebbero potuto causare alla sua immagine e quindi, per separarsi da tali insidie e differenziarsi dall’inadeguata opinione che non voleva si costruisse attorno a lei, imitando le giovani coetanee, esuberanti ma apprezzate dalla platea degli spasimanti, aveva cambiato il suo modo di vestire, il taglio dei capelli e perfino il suo atteggiamento, cominciando a mascherarsi con acconciature al limite della moda dark. Non era più la ragazza semplice con cui avrei potuto condividere la mia vita sentimentale, ma una femmina fatale, oggetto del desiderio con la quale, come tutti a quel punto, avrei voluto e potuto desiderare condividere solo le mie notti. Ma questo avrebbe risolto solo la condizione relativa al piacere che nella vita familiare che io progettavo, non aveva la priorità. Come il cardine su cui ruota la porta, mi rendevo conto di essere stato il punto fondamentale su cui si fondava la risoluzione del destino di due persone. Era stato in quel periodo che una serie di sogni avevano ripreso a sconvolgermi. Sogni in cui vagavo per una vasta prateria dominata da una distesa di erba verde dove in lontananza si scorgeva un muro. Era tutto lì. Il cielo azzurro, la prateria verde e quel muro, alto, lungo, infinito. E io camminavo fino a giungere in prossimità del muro invalicabile. E allora cominciavo ad avanzare al suo fianco, con la speranza che potesse terminare da qualche parte. Ma questo muro era infinito, più lungo della grande muraglia cinese. Era un confine entro il quale io ero limitato. Poi finalmente cominciavano ad intravedersi delle porte, ma anche queste erano infinite e ogni una poteva condurre verso un oltre di cui non conoscevo la sorte. Non so in che modo, ma era come fossi consapevole che ogni porta non conduceva semplicemente al di là del muro dove forse proseguiva la distesa della prateria, ma in una diversa condizione, dimensione, strada: ogni porta nascondeva una diversa soluzione, e diveniva impossibile perfino decidere quale aprire. Solo la disperazione mi spingeva dopo tante esitazioni, ad affidarmi al caso, cercando di aprire le porte senza pensare a cosa avrei trovato al di là, ma le porte, oltre a nascondere misteri da incubo, erano pesanti. Tanto pesanti che per aprirle occorreva una forza sovrumana sicché, ogni qual volta cercavo di aprirne una, ero costretto a desistere per la mia debolezza. Alla fine, solo una porta si presentava

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socchiusa, ma dallo spiraglio del lieve varco penetrava una luce intensa, così forte da far male agli occhi e da rendermi impossibile osservare cosa ci fosse oltre la piccola breccia, costringendomi conseguentemente a superare anche quella… poi il sogno finiva e io mi svegliavo con una strana sensazione di malinconica mestizia. Non so dire quanto non fossi stato in grado di concepire la perfidia dell’animo umano prima di allora, ma nell’inverno del lontano 1986, quando il Mage era a pochi mesi dalla sua maggiore età e io lo rincorrevo a un anno di distanza, i giovani di Castrba me ne stavano per dare un esempio lampante. E nonostante tutto quello che sarebbe accaduto, gli avvenimenti mi avrebbero inevitabilmente avvicinato ancor di più a Virginia, rendendomi comprensibile quanto fosse forte il demone della tentazione, mentre mi avrebbero allontanato sempre più da Demetrio, rivelandomi quanto fosse indegna la mia volontà. Adesso, sono costretto ad ammetterlo che le mie nobili doti erano solo una farsa. La verità era che Virginia mi spaventava, sia nella veste decorosa, che in quella dissoluta e per ogni evenienza io trovavo la soluzione in quell’esigenza di essere ciò che dovevo essere per soddisfare il volere degli altri anziché il mio. La giustificazione uccide la virtù, aveva detto Socrate, e io ero diventato davvero bravo a trovarne una ogni volta, sebbene fosse sempre la stessa. Ciò in cui non ero bravo, era ad intendere quanto il filosofo greco avesse ragione, non comprendendo come di quella giustificazione ne avessi fatto una convinzione. Se avessi saputo liberarmi dei miei timori, avrei potuto ammettere di desiderare Virginia, e avrei anche potuto possederla. Ma ero un codardo, fuggito dall’illusione di dominare il mio pensiero quando avevo rifiutato di accettare gli argomenti di Demetrio, e dal timore del giudizio quando avevo nascosto il mio desiderio dietro la necessità di un’immagine dignitosa, dovuta per riconoscimento a chi su di me aveva fatto troppo affidamento. Ecco, queste erano le mie giustificazioni irreali: io dominavo me stesso perché riuscivo ad accontentare gli altri. La verità stava però in ciò che noi ignoriamo, ossia nel riflesso di ciò che crediamo: io accontentavo gli altri perché non ero in grado di dominare il mio pensiero, finendo per essere io stesso dominato dagli elementi esterni. Ero una mente che ragionava secondo il volere di ciò che in me si voleva vedere, una sorta di prostituta che dava ai clienti ciò che desideravano in cambio di un onorario che nel mio caso consisteva nel respingere le responsabilità verso chi mi imponeva tale condizione. In questo modo potevo dire: non è colpa mia perché è così che la società mi vuole. Non potevo non pensarci in quella notte di ricordi, e non potevo evitare nemmeno certe considerazioni. Vent’anni prima, a Casterba il Mage era considerato un perdente, un fallito, uno stupido. Ora era una celebrità che aveva girato il mondo, che si era costruito una cultura multietnica e che aveva fatto della sua passione una professione vincente. Era ricco, e questo tutti lo sapevano, ma soprattutto, era apprezzato e ammirato. Adesso era uno che tutti avrebbero voluto avere come amico, ma soprattutto, e questo io non potevo sottovalutarlo, era uno che poteva facilmente riprendersi ciò che gli era stato tolto. Ripensai al ricevimento, con i pensieri che si confondevano caoticamente tra ricordi di un lontano passato e di un recente presente, e rividi le foto che durante la cerimonia di bentornato aveva mostrato. Foto che non erano mai apparse sulle riviste mentre parlava di luoghi che nessuno di noi aveva mai visitato. Molti tra noi avevano viaggiato, ma come turisti, e da turisti spesso si giunge a conoscere solo le cose migliori di un luogo. Nessuno di noi aveva mai vissuto con gli sciamani della Siberia o con i Curanderi delle Ande, né era mai stato a contatto con gli indigeni dell’Amazzonia. Nessuno di noi aveva filosofato con gli aborigeni dell’Australia né ascoltato le leggende degli Inuit del nord America. Nessuno di noi aveva vissuto tra i terremotati di Haity o gli alluvionati dello tsunami in Tailandia. Nessuno di noi aveva partecipato ai rituali Maori o alle cerimonie dei monaci buddisti. Così quanto avevamo potuto apprendere dalle sue esperienze non era bastato a consacrare Demetrio al rango di celebrità, ma ad esaltarlo al livello di eroe, ed ora, tra tutti quei pensieri confusi, potevo osservare anche come lei, Virginia, dopo che la conferenza si era conclusa e a notte inoltrata quasi tutti se ne erano andati, finalmente trovava la possibilità di avvicinarlo. Mentre lo salutava con affabilità, non potevo dimenticare lo stato d’animo, causato in gran parte da lei, con il quale lui se ne era andato

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vent’anni prima, né le conversazioni al limite del commuovente che ci furono tra me e lei nei tempi successivi… Io avevo fatto la mia parte, lei la sua. Ma il segreto era stato svelato e per Demetrio era iniziato un periodo di perfida aggressione da parte degli stolti giovani di Casterba. Il fatto era che più volte il Mage aveva contestato senza grandi riserve le stupide azioni, spesso vandaliche, dei giovani che sembravano non avere altro modo per mostrare la loro forza. Mai aveva apprezzato chi, per mostrare il suo valore osava bere alcolici fino al limite del coma, e poi si vantava delle proprie sbronze. Era contro il fumo e la droga, non apprezzava l’esibizione del lusso né l’esaltazione dell’immagine, ma nel bel mezzo degli anni ottanta, laddove l’improvvisa abbondanza non era gestibile dai limiti culturali, tutte queste contrarietà rappresentavano un’offesa per chi invece ne faceva un vanto, e i suoi giudizi contribuivano solo ad aumentare il disprezzo che i coetanei avevano per lui. Quel triste evento, fu un’occasione troppo allettante per chi desiderava spregiarlo, e lui sapeva di essere nell’occhio del ciclone, e che tutti i finti sorrisi e i dissimulati discorsi in sua presenza, mascheravano la derisione e l’umiliazione che la vigliaccheria permetteva di esprimere solo in sua assenza. Tutto ciò non lo avrebbe comunque toccato, non fosse stato che nemmeno lei, ad un certo punto, parve essere immune da tale influsso negativo. Fu per liberarsi dell’indesiderato accostamento alla sua figura che iniziò ad assecondare le derisioni e, successivamente, per mettere ancora più distanza tra loro, a fare in modo da evitarlo completamente. Ciò che non poteva sapere era che, probabilmente, Demetrio tutto questo lo aveva messo in preventivo e che, paradossalmente, proprio quel mutamento messo in atto per allontanare da sé il suo fantasma e avvicinare le attenzioni degli altri, l’avrebbero condotta in fine, a quel temuto isolamento. Così, nei tempi successivi, quando aveva iniziato ad usare mezzi di seduzione audaci divenendo quell’oggetto del desiderio che ancora non aveva svelato a sfavore della sua genuina nobiltà, la vanità aveva preso il sopravvento su di lei e Demetrio, divenuto un fastidioso fardello di cui liberarsi, per un non ben compreso motivo, pareva, nonostante tutto, assecondare gli eventi. La rottura completa, ma più precisamente, la delusione totale, avvenne nell’estate successiva. A quel tempo era ancora in vigore l’obbligo di prestare servizio militare. Eravamo in tempo di pace, se si esclude quel timore, forse mai veramente esistito, del conflitto atomico che si sarebbe potuto scatenare tra le due grandi potenze del tempo divise solo da un fragile muro. Il muro di Berlino doveva ancora cadere e la guerra fredda tra Russia e America sosteneva un equilibrio precario ma stabile, così quell’obbligo di prestare servizio militare diveniva un anno di fastidiosa noia per sfuggire alla quale, nelle antiquate caserme italiane, si praticava il fenomeno del nonnismo, termine con cui veniva definita una serie di comportamenti prepotenti nei quali i membri più anziani prevaricavano sulle reclute con atti di predominio e di umiliazione che le classi degli ufficiali tendevano a minimizzare ritenendolo un mezzo efficace nella regolazione delle gerarchie all’interno della truppa. Tale pratica però era ben conosciuta e proprio negli anni ottanta aveva cominciato a divenire un fenomeno cui i notiziari televisivi non mancavano di dare risalto a causa delle informazioni che giungevano su episodi di rilevanti gravità. Sarebbe stato proprio questo fenomeno che avrebbe condotto lentamente alla conclusione del reclutamento obbligatorio, ed era prevalentemente per questo fenomeno che molti giovani temevano e cercavano di evitare l’arruolamento. Il Mage e Val erano stati i primi della loro classe a ricevere l’avviso di reclutamento, nell’estate del 1987. Uno dei metodi più ricercati dai giovani per ingannare ed evitare l’autorità, era quella di sostenersi contrario ad ogni tipo di violenza e all’uso delle armi attraverso un termine che si diceva “obiettore di coscienza”. In questo modo si poteva ottenere l’esonero dal servizio militare a condizione di prestare per l’anno richiesto, in alternativa, servizio civile. Ma riuscire ad essere esonerati non era tanto semplice. Occorrevano grandi mezzi. Così Demetrio, che non disponeva né di mezzi economici né di aiuti esterni, aveva accettato senza riserve di compiere il suo dovere, pur essendo contrario a ogni condizione di imposizione. Ma per Val fu diverso. La sua famiglia era forse tra le più cattoliche che io conoscessi in tutto Casterba e aveva conoscenze molto prestigiose. Conoscenze vicine alla chiesa, la quale aveva praticamente la maggiore autorità nel settore degli obiettori. Non fu difficile così per Val

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evitare il servizio di leva a favore di un servizio minore che avrebbe svolto per qualche comunità cattolica. Ma tutto questo non è particolarmente importante al fine di quanto avvenne, perché la sera in cui ci trovammo riuniti per festeggiare a suon di birre l’evento che, di fatto, sanciva il passaggio dall’adolescenza all’età adulta di un uomo, il fato volle che lei, con un gruppo di amiche, fosse presente. La domanda obbligatoria era a quale corpo militare si era stati assegnati e in quale zona del paese si sarebbe reso il servizio. Il Mage rivelò con un entusiasmo ironico che sarebbe stato un artigliere e che avrebbe reso il suo servizio tra le alpi del Friuli. Ci furono risate di scherno e auguri goliardici. Se dovessi vederla nello stesso modo in cui consideravo le cose a quel tempo, dovrei dire che il Mage non fosse del tutto immune dall’accattivarsi favori e, forse per la prima volta ingenuamente, avrebbe pensato che il fascino della divisa poteva essergli favorevole. Sono certo che non abbia mai saputo rinunciare del tutto alla possibilità di riuscire, se non a conquistarla, a farsi apprezzare da lei, ma non ci fu nessuna reazione da parte di lei, fino a quando invece Val non fece l’annuncio che lui avrebbe evitato il servizio, omettendo, dietro la finta ideologia della sua contrarietà alle armi, oltre il timore di affrontare tale prova, di aver accettato l’intromissione della sua famiglia che attraverso le proprie conoscenze era riuscita a farlo esonerare dall’obbligo armato a favore dell’obbligo civile, sottostando così però all’autorità familiare che in futuro, oltre a potenziare il dovere di essere cattolico, avrebbe influenzato e limitato la sua ricerca della libertà dimostrando così che nulla era concesso per nobiltà e premura, ma che ogni offerta aveva un prezzo, e Val, evidentemente, non era immunizzato da tale clausola. Anche lui aveva le sue catene invisibili e il mito del ribelle che aveva rappresentato fino a quel giorno stava per svanire, consumarsi e finire, tradito dall’incapacità di resistere alle proposte e alle offerte subdole e ammaliatrici del destino. Tutti erano consapevoli che il servizio civile, considerato quasi una vacanza, era solo una via di fuga per sfuggire ad un dovere di cui si temeva più lo stato sociale che l’imposizione delle autorità, ma per lui ci fu un’ovazione e soprattutto, un’esultanza inaspettata. Virginia aveva gioito alla sua dichiarazione e con un rapido sguardo sdegnoso diretto al Mage, aveva affermato di concordare con la sua scelta mentre disprezzava chiunque impugnava un’arma. Il Mage era troppo perspicace per non capire il messaggio celato in quella frase, e troppo avveduto per cercare di far capire che non l’aveva scelto lui quel dovere e non commentò, invece alzò il suo boccale di birra e si unì ai festeggiamenti in onore di Val, ma dopo che le esultanze si erano prolungate, qualcosa in lui cambiò e, in un atteggiamento che mai mi sarei aspettato, proferì in una provocazione che non avrei potuto immaginare. Devo ripetere che, se avessi saputo ragionare e considerare i fatti come posso considerarli e valutarli oggi, avrei potuto dedurre che probabilmente vi era in lui un preciso intento, ma allora in me vi era solo l’intelletto e la balordaggine di un adolescente e, con lo stesso stupore degli altri, ascoltai sorpreso le sue parole. -Certo è una grande conquista poter dimostrare la propria devozione alla pace e mi complimento con te Riccardo per avere avuto l’opportunità di sfuggire all’obbligo di impugnare un’arma. Tuttavia, non riesco ad impedirmi di pensare come sarebbe interessante e istruttivo verificare verso chi andrebbero indirizzate certe simpatie in caso di guerra-. Come se tutti fossero stati consapevoli che stava per accadere qualcosa, quando aveva iniziato a fare il suo brindisi a Val, si era creato il silenzio, e alla fine del commento, vi era il gelo. Nessuno di noi considerava possibile l’avvento di una guerra ma, per un breve singolo istante, tutti dovettero provare un brivido tormentoso raggelarli e per la prima volta io fui certo che anche le menti meno intellettuali, per quel piccolo breve istante, furono in grado di provare quel timore che li aveva condotti a riflettere su loro stessi e sulla realtà che stavano vivendo. In quel momento, io vidi il terrore negli occhi di ognuno di loro e quasi ne fui compiaciuto, poi tutto finì. -La guerra è stupida, e solo gli stupidi possono accettarla- commentò una delle ragazze presenti. Un’ovazione spezzò il silenzio e approvò la finta bionda, ma quel grido liberatorio, ne sono certo, non era diretto a lei ma al timore che le sue parole erano riuscite a far svanire dalle menti retrograde.

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Compresi tutto questo osservando il lieve sorriso del Mage che, invece di sentirsi continuamente sconfitto, pareva sempre più vittorioso. -È facile in tempi come questi affermare di essere contrari alle armi- rispose alla ragazza -oggi noi viviamo una realtà in cui la guerra sembra un evento assurdo e impossibile nel nostro territorio, ma non dimenticare ciò che avvenne solo quattro anni fa alle Falkland, per non parlare di ciò che sta accadendo in Libano o di quanto sia durata la dittatura di Duvalier a Haiti. Le donne di questi paesi, credo, non sarebbero tanto d’accordo con te. Non dimenticare che la storia ci ha dato modo di capire che l’assurdo e l’impossibile non esistono. Le armi e le guerre sono stupide, certo, ma l’uomo è per sua natura stupido e malgrado tutte le nostre buone intenzioni, guerre e atrocità esisteranno sempre- sorseggiò poca birra e concluse -io mi auguro che non ve ne sia mai necessità, ma nel caso, sarei curioso di vedere da chi andresti a farti proteggere- osservò Val, quindi alzò ancora in suo onore il boccale di birra pieno per metà, non lo finì e poggiandolo sul tavolo se ne andò. Io lo guardai allontanarsi percependo non la sua ira, non la sua malinconia; non il suo disprezzo, ma la sua tristezza e il suo tormento, come fosse consapevole di un triste presagio. Nello stesso tempo incrociai lo sguardo di Virginia e nella sua finta arroganza vidi l’incompresa afflizione che ancora non riusciva a intuire ma, tra le cose peggiori che tale condizione mi stava rivelando, vidi il sorgere delle radici di un odio che non le apparteneva. È triste comprendere come l’odio spesso non sia spontaneo ma che trovi piuttosto origine in una condizione che viene trasmessa come un virus, e Virginia sembrava esserne stata contagiata. L’ostilità che la spingeva ad odiare Demetrio non era nata da una sua volontà, ma da un’esigenza che le era stata imposta da un volere esteriore generato da un condizionamento sociale, e nel lasciarsi coinvolgere dal vizio collettivo cedendo definitivamente al contagio dell’odio, senza accorgersene si avviava verso lo smarrimento che l’avrebbe condotta alla perdita della sua identità e successivamente, al fallimento di una realizzazione evolutiva verso cui tali condizioni la stavano conducendo, e io, come un vigliacco ozioso, restavo inerme ad osservare il compiersi di un destino del quale, in un futuro lontano, mi sarei sentito responsabile. I fatti che si sarebbero verificati da lì a soli tre anni dopo in Kossovo e un anno più tardi nel Golfo persico, ci avrebbero fatto pensare molto a quelle frasi. Nel 1992, quando il Mage era in giro per il mondo già da un anno, il conflitto in Somalia ci avrebbe ricondotto, quasi senza volerlo, su quelle stesse parole. E gli eventi che si sarebbero scatenati come un’onda di tsunami, violenta e imprevedibile fino a condurci a nove anni più tardi, avrebbero finito per gettarci completamente all’interno di quella realtà di terrore in cui, al nostro fianco era preferibile avere un soldato piuttosto che un pacifista…” -Accidenti, pesante questo- commentai dopo la pausa di silenzio che lo sconvolgente capitolo aveva generato in noi, intuendo che pure lei era rimasta scossa quanto me. Gli argomenti che si introducevano, che sembravano per la prima volta portare il racconto verso una dimensione reale, turbavano più di quanto avessero fatto gli episodi onirici narrati fino a quel punto che, pur trovando modo di far riflettere, potevano restare comunque elementi senza riscontri, che lasciavano quindi spazi di dubbio alla mente e la possibilità di poter decidere di poterli ignorare. Ma l’inserimento improvviso di realtà cui non si potevano ammettere dubbi, rendeva il tutto più concreto, al punto da limitare perfino la possibilità di considerare il resto come fantasia e portandoci a comprendere come l’oggettività umana fosse triste e cruda. Lei restò in silenzio, ma io non potevo accettarlo perché qualcosa in me si stava agitando. -Che ne dici? Perché all’improvviso introduce elementi così attuali, reali e drammatici?- Alzò il viso e mi guardò con i suoi occhi scuri -ti ha sconvolto vero?- Un po’ m’irritai perché quasi ne sembrava felice -perché, a te no?- -Al contrario, sono molto turbata. Sei ancora convinto che questo sia il lavoro di una mente malata?- mi domandò subito dopo. -Non so più che dire- risposi sinceramente. -Ti sconvolge perché dopo averti condotto attraverso fatti che potrebbero essere considerati fantasia, improvvisamente ti porta nella realtà che, paradossalmente proprio attraverso l’iniziale immaginazione ti rivela quanto sia primitivo l’intelletto umano. Per quanto ci sforziamo di convincerci che siamo migliori o superiori, in realtà non siamo differenti dalle bestie e quando certe esigenze ci spingono ad una conquista, sia essa necessaria per sopravvivenza o solo condizionata dall’orgoglio e dalla smania di

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dominio, riveliamo la nostra vera natura sottomessa agli istinti. Tutto questo, inevitabilmente, ci spaventa perché in fine comprendiamo quanto siamo inaffidabili e soprattutto, quanto possiamo essere crudeli-. Mi era difficile accettarlo e lasciai che l’istinto razionale cercasse di trovare un’alternativa a ciò che volevo rifiutare -tuttavia trovo di cattivo gusto confondere drammi di così grandi livelli a discorsi di così dubbia ragionevolezza-. -È proprio qui la questione. Tu pensi, o vuoi convincerti che nulla di quanto hai letto fino ad ora possa essere reale, e hai bisogno di qualcosa che te lo renda concreto, e questo qualcosa deve essere per forza potente-. Mi lasciai prendere da un impeto indignato -non vorrai dirmi che ammiri questo pazzo- mi irritati -è un fanatico. Talmente vendicativo da augurarsi che scoppi una guerra per castigare le sue vittime-. -È umano- smorzò con semplicità la mia rabbia -quella vendetta di cui tu parli lo rende simile a noi, per questo ti fa irritare. Finché lo vedevi come qualcosa d’astratto, una specie di oracolo fantasioso che può esistere solo nelle leggende lo potevi anche ignorare, ma adesso che scopri che ha debolezze e sentimenti come ogni uno di noi ti spaventa perché non lo puoi più considerare come qualcosa che può non esistere-. Mi sentii maledettamente vulnerabile e nel mio silenzio lei affondò la sua spada. -Speravi che stessimo cercando un fantasma non è così? Ma hai avuto timori fin dal principio e cercavi solo delle conferme alla tua razionalità. Speravi ancora che tutto si sarebbe risolto in un ridicolo scherzo così avresti potuto continuare a vivere nella tua tranquilla ignoranza. Ora però che i tuoi timori cominciano a vacillare la paura si fa sempre più concreta…- -Paura? Io non ho paura- mentii, ancora conscio della considerazione meno valutata inizialmente della punizione. Di paura ne avevo eccome, e la verità che volevo ignorare si rivelava invece nelle parole di Felona: io avrei preferito che quell’anonimo rimanesse una fantasia, e accettarlo come realtà mi procurava solo un ulteriore e sempre più profondo senso di ansia.. -Certo che ne hai. Hai paura di scoprire che possano esistere realtà che potrebbero mettere in discussione ogni tua convinzione. Hai così necessità di conferme da non renderti conto che perfino l’accettare di non rifiutare l’allettante ingaggio è dovuto a questa tua esigenza: la tua razionale visione ti spinge a pensare che chiunque avrebbe ceduto all’allettante offerta, perché l’uomo è debole e cede facilmente di fronte alle lusinghe e al facile profitto. La visione razionale ti spinge a vedere solo difetti negli uomini, così puoi giustificare i tuoi, e non ti rendi conto che nelle parole di questo personaggio non vi è né desiderio di vendetta né auguri di presagi funesti, ma solo il semplice intento di voler far comprendere quanta ipocrisia vi sia in tutta questa razionalità, e lo fa con una semplicità disarmante, tanto grande quanto le tragedie che gli uomini hanno bisogno di vivere per poterla comprendere. Ma noi queste cose non le vogliamo sentire, non le vogliamo vedere per il timore di scoprire che sono parte di noi, e per questo, quando ci troviamo di fronte a persone come queste preferiamo allontanarle, emarginarle e definirle folli…- Provai un senso d’umiliazione assalirmi e una certa irritazione accompagnarlo -tu stai delirando- riuscii solo a dire, senza comprendere che cominciavo a essere impertinente. -Mi insulti per vendetta, vedi? Sei come lui-. -Ma cosa stai dicendo?- cercai di reagire -io non mi sto vendicando- -Ci sono molte forme di vendetta, ma il desiderio di ferire è un suo sinonimo, poco conta che sia con una spada o con la lingua, e questo sentimento ci rende tutti uguali: o vorresti negare che tu non hai mai desiderato vendicarti di qualcuno?- -Certo che no, ma non ho mai desiderato che scoppiassero conflitti bellici per questo-. -Solo perchè le circostanze erano differenti-. Mi mise alle strette e io sentii di non poterle tener testa, senza rendermi conto che il motivo era che aveva ragione. -Mi stai accusando ingiustamente e non sono disposto ad accettarlo-. -Forse perché percepisci la verità nelle mie parole-. -Non ho più voglia di stare ad ascoltare le tue accuse- quasi gridai e nel farlo mi alzai allontanandomi a passi veloci. Lei non cercò di fermarmi e io non mi voltai perché sapevo che se lo avessi fatto avrei visto il suo sorriso soddisfatto, come se avesse ritenuto di aver vinto una gara, comprendendo così che

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in realtà fuggivo solo dalla paura di dover ammettere verità che contenevano troppe responsabilità e capire che, per quanto avessi creduto di essere differente dal resto dei rappresentanti della razza umana, in definitiva, altro non ero che uno dei tanti, con paure, timori, tormenti e convinzione di non essere come gli altri, come invece lo siamo tutti. Uscii all’aperto sotto lo sguardo del custode che senza difficoltà individuò la mia ira e non azzardò nemmeno a farmi un saluto, quindi cominciai a passeggiare avanti e indietro a passi veloci nel piazzale dell’hotel. La tensione era forte in me e sentivo la difficoltà di trattenere la rabbia. Una serie di pensieri cominciarono a vagarmi nella mente, pensieri che andavano dall’orgogliosa presunzione di non poter permettere a nessuno di giudicarmi come aveva fatto Felona, al timore che la stessa potesse aver ragione sul fatto che l’ira era tanto più forte quanto più si comprendeva che certi giudizi non erano infondati. Ma io non potevo permettermi di cedere a determinate debolezze perché se avevo dei difetti non potevano essere peggiori di quelli di molte altre persone, ma cercare di sopprimerli, o peggio ancora, rivelarli, significava rischiare di compromettere le mie certezze e di intaccare quella sicurezza che mi permetteva di essere quello che ero nel mio lavoro e nella vita in generale, ma nonostante tutto non riuscivo a liberarmi delle rivelazioni che cominciavano a emergere come le bolle dell’acqua oltre i cento gradi, e improvvisamente sentii l’inutilità del resistere a ciò che si può solo nascondere perché, come nel gioco del nascondino, prima o poi si finiva per fare una mossa che rivelava la propria posizione e si finiva per essere smascherati, trovandomi di conseguenza, quasi involontariamente, a dare ragione alla psicologa: avevo paura di lasciar emergere i miei limiti, perché ero consapevole che questi limiti avrebbero potuto diventare un ostacolo. Fermai i miei passi frenetici e quasi con un sorriso ironico ricordai un vecchio fumetto che avevo letto da bambino. Uno di quelli che narravano le avventure di Asterix, il piccolo eroe gallico creato da René Goscinny e Albert Uderzo, in cui si raccontava di un popolo del nord che non conosceva la paura e che per questo era in grado di affrontare qualunque cosa al mondo, fossero mari in tempesta, popoli nemici o mostri mitologici, finché non si erano scontrati col villaggio di Asterix e, sconfitti, capirono che cosa fosse la paura. Da quel momento questi avventurieri non erano più stati in grado di affrontare alcunché. Sentii la mia rabbia sbollire e rivendendo la mia stupida reazione mi vergognai di me stesso dandomi dell’idiota da solo. Restai ancora nel piazzale per qualche decina di minuti però, perché l’orgoglio mi impediva ancora di ritornare da lei, sapendo che l’avrei trovata con quel sorriso trionfante stampato sul viso. Decisi che non le avrei chiesto scusa se l’avessi trovata in quell’atteggiamento, ma quando mi avvicinai lentamente a lei, che ancora attendeva nella saletta, la vidi seria e per niente ansiosa, come se per lei, e probabilmente da buona psicologa doveva essere così, quella mia reazione fosse del tutto normale e scontata. Avevo deciso di non scusarmi e avevo trovato anche una giustificazione per farlo, ma quel mancato trionfalismo mi spiazzò perché annullava ogni mia condizione di comodo, tuttavia l’orgoglio che non desisteva ancora mi teneva prigioniero, così mi sedetti davanti a lei e non dissi nulla. -Colui che intraprende il viaggio della vendetta, scavi prima due tombe- disse dopo aver compreso che non avevo alcuna intenzione di scusarmi. -Cosa?- dissi non convinto di che cosa aveva detto, o per essere più sinceri, del perché l’avesse detto. -Confucio- puntualizzò allora -chi intraprende il viaggio della vendetta deve scavare due tombe, una per la sua vittima, una per se stesso, è questo quello cui conduce la vendetta-. -Sembra che molti abbiano trovato giovamento nella vendetta, magari Confucio non ha mai dovuto provare questo desiderio perché non aveva donne da farsi soffiare o amici da cui farsi tradire- tornai a schernire con la mia ritrovata tracotanza. Non mi guardò nemmeno -fu emarginato e perseguitato al punto da dover fuggire rischiando la vita perché i suoi insegnamenti infastidivano le classi dominanti della Cina del 500 avanti Cristo in un’epoca dominata da guerre tra stati feudali, dominata da anarchia, instabilità politica e diffusa corruzione. Visse di umili mestieri e fu tradito da uno dei suoi allievi prediletti. Avrebbe avuto molto per cui desiderare la vendetta, ma rimase fedele ai suoi principi e infine ciò lo condusse a divenire ambasciatore e rispettato uomo di corte- solo dopo alzò il viso e mi guardò, o mi studiò, per capire che cosa stessi pensando mentre io cercavo di nascondere il ricordo di come io stesso, in fondo, avevo provato molte volte il desiderio di vendicarmi su certi superiori che avevo dovuto sopportare durante il periodo al servizio delle forze dell’ordine, appurando che molti erano i sistemi di vendetta, tra cui quello di fare una carriera più prosperosa per poter poi rivalermi su coloro che avrebbero dovuto

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successivamente prendere ordini da me … E al mio successivo silenzio, Felona affondò il colpo con una semplice domanda: -Tu invece, hai trovato giovamento nella tua vendetta, o nel tuo desiderio di vendetta?- Di nuovo restai in silenzio cercando una possibile risposta, ma la verità era che non avevo trovato alcun giovamento e ora invece sentivo l’angoscia di chi, oltre all’incapacità di scusarsi, doveva ammettere a se stesso la propria debolezza e stupidità. -Io non cercavo vendetta- dissi però lasciandomi guidare dall’istinto che m’impediva di accettare di sentirmi sconfitto. Lei sorrise, non disse niente ma se avessi potuto leggere il suo pensiero sono certo che le avrei sentito dire qualcosa del genere: “Visto? Rinneghi te stesso nascondendoti dietro le tue paure, le stesse che ti condurranno a quella tomba che devi scavare prima di intraprendere questo viaggio”. Ma suppongo immaginassi di aver letto tale pensiero perché in realtà era ciò che pensavo io, e come se di riflesso ella avesse potuto percepire veramente ogni mio pensiero, quasi confermò. -Vedi? È per questo che non posso concepire il suo desiderio di vendetta. Sicuramente questo Mage aveva un pensiero troppo penetrante per sottovalutare queste cose, la vendetta corrode e lui non viene descritto come un distruttore. La sua visione è protesa verso il futuro, non si augura conflitti bellici ma non dà per scontato che le cose non possano cambiare e cerca solo di far emergere quel dubbio che, se ognuno di noi fosse in grado di ammettere, lo condurrebbe a considerare più profondamente la necessità di meditare prima di fare affermazioni troppo rassicuranti-. -Affermazioni del tipo: io non ho paura di nulla?- cedetti in fine lasciando chiaramente trapelare l’insinuazione nei miei riguardi. Per un momento ebbi la sensazione di percepire in lei una sorta d’orgogliosa stima per se stessa, come se avesse pensato, per un breve secondo, di esser riuscita a far breccia in un cuore duro o in un’anima gelata come la mia. -Mettersi in discussione è l’unica maniera che abbiamo per migliorarci, credo che fosse questo che voleva far intendere- riprese subito dopo annullando quel velo di trasparente soddisfazione che avevo immaginato. Una specie d’illuminazione a quel punto mi colse, e non so chi tra me e lei sarebbe rimasto più stupito dall’affermazione che stavo per fare. Non so dire in che modo mi giungesse la percezione, non era la prima volta che mi capitava e credo che sia successo a molti, ma prima di allora non avevo mai considerato certe intuizioni al di là di semplici reminiscenze improvvise della memoria, mentre in quel momento, la sensazione che provavo era più quella di aver ricevuto un suggerimento, del quale non potevo comprendere né l’origine né la provenienza, ma che si faceva udire nella mia mente più come una voce che come un pensiero, sebbene il tutto fosse stato così rapido da indurmi un istante dopo a tornare a valutare l’insieme come un semplice ricordo immagazzinato emerso semplicemente nel momento giusto. -Questo mette fuori gioco Glauco e Diomede- dissi allacciando il contesto di quel capitolo a quanto era stato letto in un principio che uno come me avrebbe dovuto aver già dimenticato. Fu il modo in cui lei mi guardò che mi fece pensare a quanto fosse strano per me ricordare i precedenti concetti di un racconto che fin da subito avevo sottovalutato e preso poco seriamente. Il fatto era che la mia memoria era abituata a lavorare su dettagli tecnici, le mie indagini si svolgevano su fatti reali, raccolte di dati personali e annotazioni d’eventi e spostamenti veramente avvenuti. Mai mi ero impegnato con qualche articolo di natura letteraria come quello, e che la mia memoria fosse in grado di stupirmi adattandosi ad un esercizio per il quale non era stata allenata, per un momento, mi rese orgoglioso. -Accidenti, bravo- ricevetti i suoi complimenti -finalmente cominci a sentirti coinvolto- parve volermi far notare come il mio atteggiamento stesse cambiando, poi riprese la sua analisi. -È un’intuizione formidabile la tua, bravo. Credo che sia un punto fondamentale, qualcosa che deve condurci a considerare come nulla sia causale in questo racconto e come ogni passaggio sia concatenato all’altro. Tuttavia questo esclude Glauco e Diomede solo per ciò che riguarda il conflitto bellico-. -Che vuoi dire?- -Ricordi quando alludeva al pensiero di credere che Glauco fosse tornato per concludere la battaglia sentendosi svincolato dal legame dell’ospitalità? Ebbene ora ci dice che questo vincolo è inscindibile,

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se dovesse fare riferimento ancora ai due guerrieri probabilmente ora direbbe che i due erano tornati per confermare nuovamente quel vincolo, come se fosse loro dovere ritualizzarlo con una cerimonia che impedisse loro di perderne la memoria-. -Già, è vero- mi sentii trasportare dall’entusiasmo -sotto questo aspetto sembra quasi avere tutto un senso- sentivo ancora in me quella sensazione strana che mi aveva colto poco prima quando avevo avuto quella sorta di percezione di ricevere suggerimenti da una fantomatica fonte di informazioni che avrei potuto contestualizzare nella circostanza di un’entità invisibile, come l’amico invisibile dei bambini o, per chi ci credeva in una diversa età, un angelo consigliere. Ma quando lei mi guardò con gli occhi che cominciavano a brillare di una strana luce e mi pose la sua domanda, tutto sembrò svanire. -Davvero? Sotto quale aspetto?- mi domandò, e improvvisamente io non seppi più cosa dire, percependo che il consigliere se n’era andato, forse infastidito dall’arroganza di sentirmi ora un perfetto analista. Cominciai a gesticolare con le mani mentre alle labbra sentivo affiorare parole confuse che non avrebbero dato senso a nessuna frase. Mancava poco che cominciassi a sudare perché era come se in me vi fosse una spiegazione che la mia mente riusciva a formalizzare ma che le parole non riuscivano a descrivere, e più mi sforzavo di renderla intuibile più lo stesso concetto finiva per sfuggire. -Non lo so- riuscii finalmente a pronunciare, ma al contrario di sbloccare un discorso descrittivo queste parole portarono solo più confusione e tutte le sensazioni intuitive che avevo avuto nell’arco di un periodo troppo breve per riuscire ad analizzarle con le dovute modalità, svanirono nel vuoto della mente razionale. -Non so spiegartelo- ammisi -ma è come se qualcosa mi dicesse che questo ha un senso… ma io non sono bravo a interpretare certe intuizioni e tutto quello che posso dire è che la mia è solo… una sensazione- ammisi sconsolato. Mi preparai a sentirmi deridere, invece vidi un’espressione comprensiva sul suo volto e quasi una sorta di piacevole conforto mi pervase. -Sei semplicemente impreparato ad accogliere cose di cui non hai mai tenuto conto, ma qualcosa comincia a farti cambiare…- parve voler aggiungere dell’altro, qualcosa che la mia mente interpretava come una sorta di avvertimento, ma quel qualcosa in più che mi attendevo non ci fu e una nuova assurda sensazione mi fece pensare che lei stessa fosse stata bloccata da una sorta di entità immaginaria simile a quella che avevo vagheggiato io poco prima. -Ora dobbiamo cercare di interpretare i sogni- riprese poi improvvisamente, e ogni astratta congettura si cancellò definitivamente dalla mia memoria. -I sogni?- dissi tornando alla mia condizione d’incomprensione. -Certo, ora che abbiamo stabilito che in questo testo nulla è lasciato al caso, diviene importante, essenziale, oserei dire, concentrarsi sui particolari, e i sogni diventano a questo punto dettagli fondamentali-. -Non capisco, a me sembrano irrilevanti, se dovessi considerare lo scritto come un racconto letterario probabilmente li classificherei una sorta di intermezzo, aggiunto solo per rendere il racconto più variegato-. -Bravo, e sarebbe una giusta critica letteraria la tua. Ma come tu stesso hai ammesso, noi non stiamo giudicando un’opera letteraria. Devi restare concentrato sulle tue intuizioni, non reprimerle come se te ne vergognassi-. -Io non mi vergogno del mio intuito-. -Allora continua a seguirlo. Smetti di razionalizzare per un po’ e cerca di entrare nella mente di questo scrittore. Se sei riuscito a collegare l’interpretazione apparentemente inconcepibile di un collegamento tra la realtà dei conflitti reali e quelli illusori della mitologia, dovresti comprendere che più un particolare appare insignificante e più cose potrebbe rivelare- mi fece notare, e io cominciai a percepire realtà nascoste nelle sue parole che ancora non consideravo. Non mi sentii più di dover cercare qualche elemento da sfruttare per ironizzare, ma più audacemente, di dover cercare di capire. -Va bene- cercai di essere deciso ma c’era un timore troppo alto in me e questo mi rendeva nervoso e poco attento, e lei lo aveva intuito da tempo.

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-Se non ti decidi a liberarti dei tuoi tormenti non potrai andare oltre. Le intuizioni che ti giungono ti arrivano da momenti di lucidità in cui la tua mente riesce a liberarsi dagli altri pensieri e affanni. C’è qualcosa che ti affligge, e questo da quando hai scoperto una realtà che non consideravi giusto?- La guardai con la classica espressione di chi cerca conforto, ma incapace di rivelarmi. -Puoi fare due cose- disse allora lei -o decidi di confidarti, o decidi di restare nel tuo scrigno chiuso a chiave-. Cercai il coraggio di aprirmi e con difficoltà confessai -se questo capitolo esclude il desiderio di vendetta, mi chiedevo, potrebbe essere possibile che chi mi ha mandato questo documento non sia quella che sta cercando e non abbia desiderio di punirmi in qualche modo?- sentii una certa timidezza assalirmi temendo che rivelare quella mia paura potesse rendermi vulnerabile alla preda della sua mente troppo acuta a confronto dei limiti, invece, della mia. Temevo di sentirmi deriso da un’abbondante sarcasmo e per un attimo mi pentii d’essermi confessato, invece, con mio grande stupore, ciò che ottenni, anche se non in modo esplicito, fu proprio quel conforto che cercavo. -Dunque è questo che ti sta terrorizzando?- le sentii dire. Non risposi, ma annientando il mio orgoglio, rassegnato annuii. -Non voglio rischiare di impazzire- dissi alludendo alla possibilità che la vendetta del presunto vendicatore puntasse a questo. A quel punto lei sorrise, ma con indulgente comprensione -ancora non so che cosa stia cercando costui e quali siano le sue volontà, ma ti prometto che veglierò su di te affinché questo non avvenga- cercò di tranquillizzarmi. La guardai come se vedessi in lei un sicuro rifugio per la mia mente pensando che nessun’altra figura meglio di una psicologa poteva fare una promessa simile e, confortato, mi sentii al riparo dall’aggressione di chiunque avesse voluto attaccarmi, come se cominciassi a credere negli angeli custodi e nello stesso tempo, un sentimento più intenso mi fece osservare Felona con ciò che non si poteva definire stima ma piuttosto, un sentimento al quale da sempre mi ero tenuto alla larga: l’amore. -Penserai che sono un idiota vero?- -Non ti ho mai ammirato tanto come in questo momento- disse invece lei e io non riuscii a evitare di arrossire. -Che dici, andiamo avanti?- le sentii allora proporre per rompere il momento d’imbarazzo. -Certo- risposi deciso io stesso a chiudere quella parentesi come non si fosse mai aperta -ma io non sono in grado di interpretare i sogni, perciò, dimmi tu cosa ne pensi-. Le vidi il volto illuminarsi, come potrebbe succedere ad un goloso che gli si dicesse di assaggiare tutti i dolci di una pasticceria per giudicare quale fosse il migliore. Immaginai che i sogni dovevano avere un fascino particolare per lei e nell’addentrarsi nell’interpretazione dei tratti onirici descritti nel racconto, mi parve di vederle perdere quell’autocontrollo che, sebbene celato da una superficiale ottemperanza, distingueva una disciplina acquisita probabilmente negli ambienti cui la sua carriera l’avevano educata. -È particolare come inserisce i sogni all’interno dei capitoli e deduco che non siano gettati lì a caso. In questo capitolo descrive un sogno fatto di muri e di porte…- iniziò ad analizzare. -Porte pesanti che non riesce ad aprire- puntualizzai allora io. -Già- quasi lo sussurrò osservandomi con ammirazione, poi proseguì -ricordi quando descrisse la visione di Demetrio relativa alla morte del padre?- -Sì- risposi -ma quella era una visione, non un sogno-. -No, era il sogno che lo sciamano gli stava facendo rivivere perché lui non era stato in grado di ricordarlo- mi fece notare allora lei e improvvisamente in me scattò una reminiscenza e un’incontrollabile senso indagatore che mi portava ad avere intuizioni che non pensavo di poter contenere. -Sì è vero, hai ragione, tuttavia quello era il sogno di Demetrio, mentre qui lui descrive un suo sogno- precisai. L’intuito che mi rendeva più riflettente verso quel tipo d’indagini che non mi erano del tutto consone, parevano animare più lei di me. -Sì è vero, ma l’insieme delle cose deve spingerci a considerare il tutto nella sua totalità. Il sogno di Demetrio ci conduce in una dimensione più spirituale che reale- disse, e io cominciai a sentirmi confuso.

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-Che vuoi dire?- le domandai senza temere di ammettere la mia estraneità alla comprensione dell’argomento che stava introducendo. -È ovvio che l’autore ci sta dando indicazioni su come ogni condizione non sia sottovalutabile…- ripensai alla pagina introduttiva, quella che avevo potuto leggere libero da ogni vincolo in cui l’autore sembrava appunto avvertire di non esporsi ai contenuti del documento senza prendere in considerazione le eventuali conseguenze cui tale azzardo avrebbe condotto, e ancora colto da un’insolita intuizione, valutai se tale avvertimento potesse contenere in sé la profezia di un’apertura o di un’introduzione a concetti, elementi, nozioni e realtà oggettive mai considerate prima, ma non osai rivelare questo mio pensiero a Felona e la lasciai proseguire. -Quindi introduce elementi che ci spingono a considerare la realtà e l’irrealtà…- di nuovo non potei fare a meno di dimenticare che era stato proprio attraverso questo argomento che avevamo cominciato a frequentarci e di conseguenza ad intraprendere questa anomala avventura -…Un muro nei sogni simboleggia i confini di un luogo sacro e, se interpretato attraverso una prospettiva ascetica, indica la necessità di scoprire i nostri limiti spirituali ed emotivi…- -Quindi Tommaso potrebbe alludere ad una crisi mistica?- osai intromettermi. Annuì distrattamente, come se non se ne rendesse conto -sì, ma che si smuove attraverso dei fatti reali. È come se Demetrio stesse cambiando tattica- disse e io fui certo di non riuscire più a seguirla. -Che intendi dire?- Lei cominciò a parlare rapidamente come se temesse che le sue intuizioni potessero sfuggirle dalla mente e non fosse più in grado di recuperarle. -Diomede e Glauco ci conducono verso una dimensione suggestiva, irreale, leggendaria, essi si scontrano per scoprire un legame, un vincolo, e Demetrio istruisce Tommaso negli anni infantili e adolescenziali verso dottrine dello stesso genere, suggestive, leggendarie e apparentemente irreali… lo sta spingendo verso la via ascetica, spirituale. Ma la volontà di Tommaso, o meglio la volontà di chi lo circonda, lo spinge ad allontanarsi da questa condizione e per perderne la concezione si rifugia nella realtà materica, fisica e sperimentabile, ossia quella giustificabile e dimostrabile. Così Demetrio per condurlo nuovamente verso questa via, passa attraverso la realtà dominante- espose rapidamente e io cominciai ad avere mal di testa. -Se fosse così, significherebbe avere a che fare con una mente geniale- osservai a mia volta meditabondo, intuendo sempre più le ossessioni di chi aveva scritto quel racconto e le difficoltà, se tale racconto fosse stato veramente ispirato da una storia vera, di sottrarsi ai timori che tale personalità sarebbe stata in grado di suscitare -ma perché dovrebbe fare una cosa simile?- -Questa è una bella domanda. Ma ti rivelerò una cosa: c’è stato qualcuno che ha detto “se non trovi le risposte, cerca le domande”-. -A sì? E chi è stato a dire una cosa così insensata?- -Non lo so, è una citazione anonima, ma se ci pensi bene, non è poi tanto insensata. Tu non conosci una risposta e poni una domanda no? È quello che hai appena fatto-. -E la risposta?- la provocai. -Vediamo se riesci a seguirmi- accolse la provocazione -il muro rappresenta comunque un confine. Una linea divisoria tra l’interno e l’esterno, quindi è necessario comprendere quale sia l’interno e quale sia l’esterno, tuttavia, il fatto che ci siano delle porte potrebbe far pensare che il protagonista sia all’interno, che a sua volta indica la riservatezza e se il muro ci sta bloccando, come in questo caso, indica una sorta di prigionia, delle nostre paure, delle difficoltà, dei nostri dubbi o dei nostri limiti…- -E che cosa ti fa supporre che il protagonista sia bloccato?- -Le porte pesanti che cerca di aprire ma che non riesce nemmeno a muovere-. La conversazione stava cominciando a coinvolgermi in un modo che non avrei potuto immaginare. -Questo ci conduce di conseguenza a dover analizzare anche quelle porte…- dissi meditabondo. -Già, ma l’interpretazione non è difficile qui: se in sogno troviamo delle porte chiuse che non riusciamo ad aprire, significa che noi stessi ci stiamo creando degli ostacoli-. -Ma nel sogno c’è anche una porta semi aperta dalla quale intravede una luce folgorante…- -Che non riesce ad affrontare… le porte indicano un passaggio, la luce indica spiritualità… lui non riesce ad affrontare quella porta ed è come se in pratica la chiudesse, ciò significa il rifiuto o la paura di quello verso cui conduce la porta, il timore di ciò che sta dietro, o fuori…-

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Nel silenzio successivo un'altra sorta di suggerimento parve coinvolgermi in un modo che, per un momento mi procurò un timore tale da farmi desiderare di non volerlo considerare, come se in me si stesse smuovendo qualcosa che non volevo facesse parte di me e per un momento, mi parve di provare lo stesso timore che lo scrittore ignoto stava cercando di svelarmi. -Un sogno premonitore?- sussurrai, quasi non volessi che a questa mia domanda vi fosse una risposta. Lei mi guardò sospettosa -a cosa stai pensando?- -Alle sue paure- rivelai allora -ora sono cambiate. Prima aveva paura ad aprirsi verso nuove prospettive, ma adesso lui teme di essere l’artefice dell’odio… di aver spinto Virginia a conoscere quel lato oscuro che l’ha resa consapevole di che cosa sia l’odio e di averla quindi contagiata… gli ostacoli che si crea, sono i suoi sensi di colpa- dissi, ma nuovamente con una sensazione che mi faceva quasi credere che tali pensieri non fossero nemmeno miei. Lei restò in silenzio, come a volermi lasciare uno spazio per riflettere, e ciò su cui stavo riflettendo io in quel momento, era se volevo addentrarmi in questa sconosciuta realtà o se continuare a rifiutarla. Ma probabilmente avevo vissuto per troppo tempo nell’ipocrisia di una sola realtà, pura e tangibile, e quel silenzio riflessivo non impiegò molto a ricondurmi in questa condizione. Io non potevo accettare che vi fosse qualcosa al di fuori di noi che sfugge al nostro controllo ed ero consapevole che lasciar introdurre insinuanti insidie nella mente rischiava di provocare traumi che potevano condurre alla follia. Per un momento il suggeritore tentò ancora di intromettersi con una rapida intuizione che conduceva al pensiero che quelli erano proprio i timori da cui lo scrittore aveva voluto mettermi in guardia, ma scacciai via in fretta, come si fa con una mosca, la presenza del suggeritore, rifiutandomi di credere che qualcuno potesse suggerirmi pensieri non miei e, scacciando ogni probabile rischio tornai a essere me stesso. -È troppo assurdo, questo è sicuramente il racconto di un visionario. Io non credo nelle premonizioni e soprattutto non sogno…- non so perché lo dissi, ma mi sembrò che annullare il sogno come qualcosa di superfluo potesse rafforzare le mie convinzioni. Prima che l’amarezza notai la delusione negli occhi di Felona e mi sembrò di poter comprendere come anche in lei vi fosse un conflitto. La delusione sembrava denotare una sorta di compassione che poteva indurla anche ad una comprensiva condizione di indulgenza, nella quale forse avrebbe voluto rivolgersi a me nella tipica professionalità della sua attività, cercando di condurmi premurosamente verso la verità che cercavo o che lei credeva dovessi scoprire. L’amarezza poi, che sembrava prendere il dominio sulla delusione, mi dava la sensazione che quella sua dominante essenza benevola venisse contrastata da una sorta di dittatore, come se le fosse impedito, da una forza più grande della prima, di comportarsi come avrebbe desiderato. Ma da tutto ciò io dedussi che in fondo anche lei era solo una persona umana e che il suo carattere non era molto diverso dal mio, valutando così i suoi Diomede e Glauco come umiltà e orgoglio, e dove, come nella più grande maggioranza dei caratteri, il secondo prevaleva sul primo. -Tutti sognano- disse quindi con arroganza, e la successiva affermazione mi fece sorridere dandomi la conferma che ciò che valutavo corrispondeva alla realtà. -Tu semplicemente non ricordi i tuoi sogni, del resto come potresti farlo visto il modo in cui dormi?- L’allusione al mio sonno pesante mi diede la sensazione di un’accusa, e questo confermò la mia teoria: anche lei cedeva facilmente all’orgoglio. Il mio discriminare i sogni doveva in qualche modo averla infastidita e la sua reazione l’aveva condotta al cercare di umiliarmi. -Ma la vuoi smettere di farmi notare il mio dormire?- cercai di sdrammatizzare non avendo intenzione d’alimentare l’incendio che potevo far scoppiare. -Ti faccio notare semplicemente quello che sei- gettò verso di me il documento -vai avanti- disse poi. Io la osservai divertito, presi il documento e feci per iniziare, ma prima che potessi farlo lei aggiunse una frase, e io non potei provare un brivido. -E cerca di non dimenticare ciò che hai intuito fino ad ora…- lo disse quasi sussurrando, in un modo però che tale sussurro potesse sembrare un evidenziatore. Dubitai un istante, e compresi che per quanto avessi cercato di evitare certe intuizioni ormai, non potevo più fare a meno di pensare che nella mia realtà erano stati introdotti nuovi elementi, quindi abbassai gli occhi e presi a leggere:

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Il tempo scorre… …E così, dopo aver assolto i suoi doveri se ne era andato, dicendomi che partiva perché aveva ricevuto una buona proposta di lavoro. Assieme a lui anche il gruppo degli ambigui si era dissolto. Val, dopo il servizio civile, sotto le pressioni familiari aveva accettato di iscriversi all’università per studiare lingue straniere. Il tempo con lui avrebbe fatto il resto, conducendolo attraverso una certa disciplina imposta dalla famiglia ad arginare e limitare quasi tutta la sua estroversia, tra tutti sarebbe divenuto colui con la professione più nobile, a svantaggio però del suo lato ribelle e avventuroso. Per Vincent era stato diverso. L’eredità culturale familiare limitata al dovere lavorativo dove la disciplina praticata attraverso la pigrizia consisteva nell’indifferenza che ognuno doveva cavarsela da solo, lo aveva spinto verso un inevitabile deriva. Magari, se avesse avuto una diversa istruzione e la possibilità di cogliere più opportunità le cose sarebbero andate diversamente. Ma il destino non sembrava avere il senso dell’equità, così per ognuno che riceveva di più, necessariamente qualcuno doveva avere di meno. E durante il suo anno di servizio militare Vincent aveva avuto l’unica opportunità che la sua competenza gli aveva permesso di valorizzare, rafforzando la propensione per il gioco e l’alcol. Quando era tornato la sua mente ormai annebbiata non sembrava trovare più spazio per filosofie astruse. Aveva conosciuto una ragazza e per qualche tempo io avevo creduto che qualcosa ogni tanto poteva cambiare. Si era sposato, ma i vizi avevano avuto il sopravvento su di lui giungendo di conseguenza a collezionare anche quello dell’infedeltà. Quando quella che era divenuta sua moglie lo aveva lasciato il loro figlio, o figlia, non era ancora nato. Lei se ne era andata appena saputo di essere incinta senza dirgli nulla, così non seppe mai di avere una figlia. Dei quattro, a mantenere quasi intatto il proprio ruolo, era rimasto solo Marco, ma la sua era una personalità fragile, troppo incline ad una malinconia di tipo inopportuno e in lui si percepiva una sorta di negatività che portava verso ossessioni maldisposte e pensieri pericolosi, così avevo cominciato a evitarlo per non farmi coinvolgere da quel suo pessimismo avverso. In fondo, dovevo ammetterlo, l’unico che mi importava ascoltare era Demetrio. Ma le sue ideologie sembravano scomparse durante quell’anno che forse, come dicevano in molti, aveva veramente la capacità di far cambiare le persone. Io non lo avrei mai potuto appurare perché a causa dei miei studi avrei raggiunto l’età dell’esonero all’obbligo, ma potevo comunque verificare che lui non sembrava più lo stesso. Era tornato, congedato e assolto dall’obbligo nell’autunno del 1989, ed era partito nei primi mesi del 1991, all’età di ventuno anni, e in quel periodo poco più lungo di un anno aveva evitato di parlare dei fatti che accadevano nel mondo, come se non gli importasse più nulla del destino e della stupidità degli uomini. Io sentivo che stavo per perdere qualcosa e quando il vuoto della sua assenza si affermò in me come una perdita insostenibile, il destino parve offrirmi come alternativa al perduto legame l’unica persona attraverso la quale potevo ancora percepire un rapporto con lui: Virginia. Sembrerà strano perché lei aveva cambiato personalità e le occasioni che avevamo di parlare ormai erano poche, anzi, per un certo periodo eravamo divenuti due perfetti estranei. Diciotto anni del resto, sono un’età bizzarra, strana, capricciosa. Certo già da molto prima ci si ritiene adulti, ma diciotto anni sembrano la meta definitiva nella quale si crede di divenire indipendenti o, per lo meno, lo si vuole dimostrare. Le famiglie, specie quelle di stampo antiquato, hanno ancora un piccolo potere, ma non sono più in grado di controllare la vita dei figli e, in tempi che cambiavano rapidamente come quelli in cui eravamo noi, quel potere si indeboliva notevolmente giorno dopo giorno e Virginia non sembrava disposta a rinunciare al lato trasgressivo da poco scoperto. A Casterba non ci voleva molto per divenire celebrità. Si poteva essere celebri per essere degli assi del volante, si poteva essere celebri per essere dei grandi piantagrane, si poteva essere celebri per essere dei promettenti sportivi o anche grandi ubriaconi, si poteva essere celebri per qualità maldestre, vizi e qualche volta anche, per pregi valenti. Io ero una celebrità, credevo, per valori e moralità familiare, ma nel piccolo mondo di Casterba e dei suoi dintorni, la celebrità migliore la si acquisiva attraverso l’immagine, e Virginia aveva acquisito una popolarità quasi holliwoodiana, e tutto ciò lo doveva a Demetrio. Il suo cambiamento avvenne in quell’età compresa tra i diciassette e diciotto anni, e fu per i successivi tre anni che noi restammo quasi estranei l’uno all’altra, fino all’allontanarsi di Demetrio.

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Non fu mai immorale, nonostante molte fossero le insinuazioni che si erano generate sul suo conto, e quando si innamorò, restò fedele all’uomo che poi avrebbe sposato. Ad ogni modo, preciso, ciò avvenne solo dopo che Demetrio se ne fu andato, come se per lei averlo allontanato con l’umiliazione non fosse stato sufficiente. In quel breve periodo che lui era rimasto, infatti, lei aveva sedotto e lusingato, seppure platonicamente, quasi tutti i coetanei. Il suo sembrava un assurdo gioco in cui pareva lanciare un chiaro messaggio che indicava che poteva avere chiunque avesse voluto solo per far capire a Demetrio che lui non aveva speranze. Così, a 22 anni aveva conosciuto Massimo Briglia, figlio di un impiegato di banca con un futuro da contabile, non eccessivamente ricco ma abbastanza facoltoso da potersi permettere un’immagine celebre. Era indubbio che facessero una bella coppia, almeno dal punto di vista estetico, ma un rapporto basato sull’apparenza, celava troppe insidie dietro l’aspetto ingannevole della perfezione. Io avevo da poco conosciuto Anna, la ragazza che sarebbe poi divenuta mia moglie. A dire il vero con lei non avevo molto in comune, ma è stato solo a distanza di anni che ho cominciato a pensare che forse in lei vedevo solo la possibilità di sganciarmi da tutto ciò che mi legava al passato, e a ciò che del passato avrei voluto mantenere. Lei era molto professionale e difficilmente le nostre discussioni toccavano argomenti trascendentali, l’esatta condizione necessaria per allontanare il pensiero da Demetrio, ed era l’esatto opposto di Virginia, con la quale avevo instaurato un legame che avrebbe potuto avere delle conseguenze più impegnative e che inevitabilmente mi avrebbero tenuto legato a quel passato da cui volevo fuggire. Ma nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a liberarmi di nessuno dei due. Dopo che il nostro impegno di volontariato catechistico era cessato e dopo che Demetrio aveva subito la sua umiliazione, io e lei ci eravamo allontanati, ma senza una precisa motivazione e senza che vi fosse rancore o forse, perché entrambi cercavamo di convincerci che le cose andavano come dovevano andare. Io più di lei poi, pensavo che il fato doveva essere manovrato da un volere oscuro e maligno, per cui attraverso di lui avevamo scoperto proprio quel nostro lato oscuro che l’entità maligna voleva far emergere. E le cose poi, erano andate nel modo per cui entrambi sapevamo di non poter condividere una storia sentimentale perchè tra noi si era creata una barriera invalicabile eretta dal nostro personale rapporto col maligno emissario di quel lato oscuro: Demetrio. Lei sapeva che a trattenermi era la lealtà verso di lui, e io sapevo che a fermare lei era la consapevolezza che questa mia lealtà avrebbe compromesso un rapporto che avrebbe finito per divenire quasi un rapporto a tre. Per questo, probabilmente, le nostre scelte furono rivolte verso direzioni opposte e, inevitabilmente, sbagliate. Il dialogo tra noi riprese in quel periodo. Demetrio era via da un anno, entrambi avevamo iniziato una relazione da poco e Casterba era tornato nella sua anonima quotidianità che stranamente, generava in me una certa irritabilità. Fu con questa irritabilità, con la quale cominciavo a perdere gran parte della stima che avevo nei confronti dei compaesani che, in una consueta serata al bar, mentre prendevo il classico caffé del dopo cena osservando il notiziario alla televisione, sentendo la stessa ragazza che aveva contestato Demetrio, commentando ciò che accadeva in Africa usando espressioni del tipo “in quelle zone”, dando l’impressione che l’Africa per lei non fosse null’altro che una ammasso di terra maldestramente rovesciato da Dio per errore nel mezzo dell’Oceano e lasciata lì solo per una sorta di negligenza, sarebbe stata necessaria una decisiva e dirompente azione dell’esercito. Guardandola con perfidia mi rivolsi a lei con un’ironica affermazione -forse sarebbe più adeguato l’intervento degli obiettori di coscienza non credi?- Lei mi aveva guardato con evidente ira, ma io non le avevo dato il tempo di rispondere ed ero uscito. Non so perché lo fece, ma quando fui fuori tra la nebbia del freddo invernale, una voce mi apostrofò e voltandomi avevo visto Virginia. -Ti manca veramente Demetrio eh?- mi disse accendendosi una sigaretta. Ricordo che la guardai confuso tra un contrasto di emozioni. Ero contento che lei fosse lì, ma allo stesso tempo triste di vedere quel suo cambiamento. Lei stessa non sembrava a suo agio in quel ruolo. Sembrava quasi recitare e, come quegli attori che dopo aver interpretato una parte restano legati al personaggio per il resto della loro carriera, allo stesso modo lei sembrava vincolata dal dover essere così come era divenuta, trasformata dalle esigenze di un pubblico che la voleva solo in quel modo. In definitiva, era divenuta

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una di noi, così come avevano cantato i Pink Floyd molti anni prima, anche lei era divenuta un altro mattone nel muro e aveva finito per prendere il posto che le era stato assegnato nel quotidiano scorrere del tempo, e il suo viso, dietro quel fascino provocante, mascherava una nascente infelicità che presto si sarebbe tradotta in una reale desolazione. Era stato in quel tempo che i nostri dialoghi erano ripresi, entrambi consapevoli che non potevamo e non volevamo andare oltre, ma coscienti pure che non potevamo negarci quello spazio che appariva, seppure a livello inconscio, come la nostra ancora di salvezza, anche se a generarlo fosse quell’unico punto di congiungimento che era anche l’unico argomento di cui cercavamo d’evitare di parlare. Trovai quindi strano che fosse proprio il suo fantasma, tornato in quella fredda serata di nebbia che non invitava a viaggi fuori paese, a restaurare il nostro dialogo, ma probabilmente non poteva che essere diversamente. Le sorrisi amaramente -mi manca la possibilità di evadere da una quotidianità stressante e ipocrita- le avevo risposto. Lei si avvicinò e, come se davanti a me ci fosse una persona diversa da quella che avevo imparato a conoscere nei giorni di volontariato catechistico, percepii in lei come una sorta di provocazione. -Era questo che ti dava? Evasione?- La sua espressione seducente quasi mi spaventò e mi ritrassi -ti capita mai di aver voglia di qualcosa di nuovo? Di diverso?- dissi con imbarazzo, e lei si avvicinò di più. Penso, adesso, che quello fu l’ultimo disperato tentativo di opporsi all’assurdo vincolo che entrambi ci eravamo imposti. L’ultimo assurdo tentativo di capire che stavamo commettendo un errore. L’ultimo disperato tentativo di abbattere i timori che sembravano renderci consapevoli di un destino che ci spaventava. L’ultimo disperato tentativo di distruggere ciò che Demetrio rappresentava per l’una e per l’altro. L’ultima possibilità che avremmo avuto. Se avessi saputo ragionare come Demetrio, forse lo avrei capito e avrei dedotto che il destino aveva usato un sistema subdolo per farci incontrare ma che, tuttavia, era ciò che avrebbe dovuto essere. Ma io non ero Demetrio e lei ancora non era in grado di comprendere. Mi guardò e questa volta la sua provocazione si fece esplicita -sì certo, mi capita spesso, ma tu ti riferisci a parole, io invece…- lasciò la frase in sospeso ed io ebbi la certezza che, se avessi osato in quel momento, le nostre vite avrebbero preso un’altra direzione. Ma ero ingenuo e altrettanto ingenuamente corretto. Lei aveva un fidanzato e io un onore. Poco contava se quel fidanzato appariva solo un’alternativa a qualcosa che non era esattamente ciò che desiderava. -Sei cambiata Virginia- le dissi allora illudendo le sue aspettative -quasi non ti riconosco più- e in questa affermazione rinnegai la mia anima. Le vidi abbassare gli occhi delusa e nel gesto di gettare via la sigaretta l’espressione della sua rinuncia, come se gettasse via quell’ultima opportunità accettando in quella mia ammissione la comprensione che nulla sarebbe stato diverso. -Sono una donna Tom- rispose -che cosa dovrei fare? Tu parli di sogni astratti, cerchi distrazioni illusorie e non ti rendi conto che il tempo scorre-. La guardai confuso -hai solo ventidue anni- dissi come se non comprendessi perché parlasse come una vecchia. -Sì lo so. Ma se mi guardo indietro un istante fa mi appare lontano secoli e i giorni dell’infanzia invece mi sembrano trascorsi solo da pochi secondi. È questo che cerchi no? Le paure della gente, i loro pensieri… Ebbene questi sono i miei pensieri, queste le mie paure, e sai come emergono? Per caso. Il tempo scorre via ma noi non ce ne accorgiamo, sai come lo ho capito?… la settimana scorsa, scherzando con uno studente fuori corso quando mi ha detto la sua età, istintivamente gli ho detto che era vecchio e lui mi ha risposto: ricordati che oggi tu sei giovane e carina, ma un domani non molto lontano ti sveglierai e senza essertene accorta ti ritroverai quarantenne… ho provato un brivido Tom- disse, e io la vidi la sua paura, e per un momento mi parve di sentire parlare Demetrio. Avrei dovuto comprenderlo che non era un caso e che in quel momento mi si stava rivelando un collegamento che non era solo tra lei e lui, ma tra noi tutti, invece provai solo una disarmante tristezza perché in quel momento l’unica cosa che riuscivo a comprendere era quanto fosse traumatico per una mente abituata alla consuetudine, scontrarsi con delle realtà mai considerate. Mi guardò tristemente, delusa forse dal fatto di non sentire nessuna parola di conforto -che cosa dovrei fare Tom? Aspettare qualcuno che non riesce a divincolarsi da un passato troppo opprimente?

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Non posso rischiare di lasciar scorrere il tempo restando a guardare. Voglio vivere la mia vita e credo di essere libera di decidere con chi condividerla. Tu mi consideri responsabile della partenza del tuo amico e non riesci a liberarti della sua ombra, ma non puoi chiedere a me di attendere un tempo che forse non ci sarà mai. Io sono quel che sono così come tu sei quel che sei, e lui era quel che era… non è il mondo a volerci così, siamo noi a decidere come essere. Per qualcuno è giusto, per altri è sbagliato. Comunque sia, non faremo mai la cosa giusta per come la vedono gli altri, e in mezzo a tutto questo, il fiume del tempo scorre, e io non voglio rischiare di risvegliarmi in un giorno giunto senza che me ne sia accorta e scoprire di aver sprecato il mio tempo-. Mi lasciò senza parole. Avrei voluto dirle che lei a Demetrio non aveva dato alcuna opportunità, non lo aveva nemmeno voluto conoscere un po’ meglio. In un certo senso stava facendo ipocrisia sulle sue stesse parole: aveva giudicato e condannato senza dare alla controparte nessuna occasione. Ma era giovane, e aveva commesso uno di quei tanti errori di gioventù: l’integrità morale aveva preso il sopravvento e con essa aveva condotto la vanità. Ma nello stesso modo io stavo commettendo un altro di quegli errori che avrei intuito solo col tempo. In realtà lei mi aveva spaventato. Le sue erano state parole dure ma esplicite. Aveva cercato di farmi fare quella scelta che io non potevo fare e giustificarla con la paura di tradire un amico era solo una difesa meschina: la verità era che io avevo paura di quel legame, e dentro me un allarme di cui ignoravo l’origine mi esortava a fuggire e ancora mi nascosi dietro la convinzione di sapere che cosa fosse giusto, non per me, ma per gli altri. Rifiutai di credere al suo corteggiamento e tornando a pensare ai tormenti delle rivelazioni del destino, non osai replicare. -Vieni, ti accompagno a casa- le dissi allora semplicemente. Ci avviammo e davanti alla porta di casa mi domandò perché mi ero irritato così tanto con la sua amica. Risposi che detestavo l’ipocrisia e quando lei disse di non capire, le riportai alla memoria le parole dall’amica sulla contrarietà alle armi non molti anni prima. La vidi farsi seria e compresi che in lei vi era una sensazione di disagio, come se sentisse dentro di sé un tormento del quale si sentiva responsabile o del quale, io la facevo sentire responsabile. Due anni dopo si sarebbe sposata, e otto anni più tardi, mentre tutto il mondo osservava inorridito il crollo delle torri che ci avrebbero condotto nuovamente a ricordare quella sera e quelle parole, l’amore fatto di idealismi fiabeschi aveva ceduto il passo ad una quotidiana noia, e tutto ciò che ci eravamo aspettati dall’illusoria visione di una vita fatta di sogni, desideri e progetti dai risvolti incantevoli, non era rimasto che un rituale dagli effetti opprimenti, fastidiosi e ordinari. Quando finimmo la lettura era ora di pranzo e fu seduti al tavolo che discutemmo del capitolo. -Che cosa ne pensi?- le domandai. Superficialmente, con una vaga estraneità, spostò il tutto verso la mia vocazione -un apparente intrigo sentimentale, ma sei tu l’esperto in questo, quindi tu che ne pensi?- Era evidente che ancora non aveva smaltito l’irritazione per il dialogo precedente e, conscio di dovervi porre rimedio, descrissi ciò che pensavo, solo per poter avere poi, attraverso la sua opinione, l’opportunità di comprendere che mi sbagliavo. -Sembra che l’autore ipotizzi che Demetrio sia l’elemento usato dal destino per far incontrare loro due. È ovvio che prova un sentimento più profondo dell’amicizia per Virginia, ma non ha il coraggio di ammetterlo, come se ne avesse paura. Forse considera Demetrio una sorta di servo del destino e questo lo conduce ai suoi timori. La mia supposizione è che l’autore ci stia svelando la sua futura infedeltà coniugale e il suo tradimento che avverrà proprio con Virginia e tutto questo discorso altro non è che il tentativo di giustificare le sue azioni- esposi. Lei gustò un altro boccone -è una giusta e buona analisi, ma quale sarebbe allora il suo scopo? Perché coinvolgerti in questo modo?- -Per quella che è la mia esperienza in materia, forse vuole cercare di farsi perdonare e sta allestendo un teatrino attraverso il quale io dovrei cercare di trovare un modo per farlo comprendere alla moglie tradita, o forse, un sistema per evitare di dover pagare ciò che la legge potrebbe condannarlo a pagare. Del resto, sappiamo che si tratta di una persona molto ricca e in questi casi i soldi sono sempre la causa maggiore di interessi-. -Quindi il tutto si concluderebbe ad una semplice infedeltà?-

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-Beh, se dovessi partire dal presupposto che il caso è stato affidato a me, dovrei concludere che sia così-. -Tuttavia qualcosa non ti convince giusto?- disse. -Vorrei solo conoscere la tua opinione- cercai di farla sentire più coinvolta. -Concordo con te- disse però con semplicità allora, allora, una certa irritabilità in me si fece poco controllabile. -Ma insomma si può sapere cosa vuoi?- trattenni a stento la mia ira. -Devo conoscere i tuoi dubbi- reagì allora lei con altrettanto impeto -devo sapere che cosa vuoi tu perché le mie valutazioni vanno oltre il semplice coinvolgimento del vincolo matrimoniale e legale. Ma devo capire se sei disposto a valutare questo oltre perché, se è come dici tu, il mio ruolo qui non ha alcuna rilevanza. Probabilmente hai ragione, tutto si risolve in una questione di percentuali e quindi la faccenda è puramente di tua gestione, questo consiglia che io non ho alcuna autorizzazione a essere qui e nessuna facoltà perché questo non è il mio campo, il che conduce tutto a un'unica condizione: tu che cosa vuoi da me?- In quella che per uno come me poteva sembrare un’analisi complessa percepii una verità ineluttabile: il caso era mio e lei era solo un’intrusa, non c’entrava niente con quel folle che aveva scritto l’assurdo documento, quindi l’unico motivo per cui potevo continuare a coinvolgerla, e per il quale lei si sarebbe lasciata coinvolgere, per quanto difficile da ammettere, ero solo io. -Va bene, d’accordo. Ammetto che sono molto perplesso e che non sono convinto delle mie deduzioni, o forse che cerco solo di comprenderle meglio… e tu hai ragione, qualcosa non mi convince- feci un’ammissione piuttosto generica sperando che fosse sufficiente per lei. La vidi rilassarsi e per un momento sperai di aver ragione. -Quali sono i tuoi dubbi?- mi domandò allora apparentemente senza nessun altro intento, ma io esitai e lei si innervosì di nuovo. -Non sto cercando di psicanalizzarti, non sei più un mio paziente. Voglio solo sapere perché dovrei continuare a darti le mie opinioni visto che la mia presenza non appare indispensabile- ripeté, ed io, forse come aveva fatto Tommaso in quell’ultimo capitolo, ebbi come la percezione che mi stesse dando un ultimatum, l’ultima occasione per poter continuare a beneficiare dei suoi pareri professionali. -Perché inscenare una così complessa storia?- cominciai allora a liberarmi delle mie domande -che senso ha tirare in ballo miti, sogni, allucinazioni? Non sarebbe più semplice dire è successo per questo e per quello e ora devo trovare una scappatoia per salvare il mio patrimonio? E poi, perché mai un Demetrio che crede di aver incontrato l’anima cui è legato per l’eternità, dovrebbe fare in modo che questa si leghi a qualcun altro? Questo è assurdo. Questo… fotografo, filosofo, profeta o mago da strapazzo non può desiderare che sia così…- -Quindi ora valuti la possibilità di un qualcosa che va oltre il tangibile?- Percepii l’insidia di un tranello. -Non sono ancora pronto a questo, ma devo ammettere che qualcosa mi ha scosso. Forse ho intuito quello che cerca lo scrittore, ma quello che non riesco a comprendere adesso è: cosa sto cercando io?- Lei annuì in senso d’approvazione -ecco, è questo che volevo sapere. I tuoi dubbi sono più sensati di quanto non credi. Non esistono verità che noi possiamo dare per certe, ma a volte osare andare oltre i limiti può essere utile a migliorare noi stessi, e in questo modo anche il nostro lavoro. Forse ciò che lo scrittore vuole è che tu cominci a valutare proprio queste condizioni perché francamente, se ciò che lui vuole è una giustificazione per il suo comportamento, non so in che modo potrai farla comprendere a colei che ha tradito, a meno che tu non riesca a provare le sue stesse sensazioni. Questo potrebbe essere il motivo per cui ha scritto un documento così corposo e per il quale è disposto a pagare così tanto perché qualcuno lo legga, ma non un qualcuno qualunque, ma un qualcuno che lo possa aiutare a risolvere le sue questioni. Osservandolo da un punto di vista professionale, un punto di vista che riguarda la tua professione, sta cercando di convincerti per trovare un alleato affidabile, un professionista-. -E vuole plagiarmi?- -No, non credo. Vuole solo farsi comprendere. Tuttavia in principio egli ti avverte, quindi non vuole la tua follia, ma solo la tua sincerità. È ovvio che comprende la difficoltà del dover ammettere realtà mai considerate. Vuole solo che tu ne tenga conto per poi poter svolgere al meglio il tuo ruolo-.

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-È questo ciò che credi?- -La verità?- La guardai con delusa e sconvolgente mestizia, non certo di voler sentire ciò che lei intendeva per verità. Sospirai nel cercare un rilassamento che non arrivò, infine sconsolato annuii -sì-. -Se dovessi considerare la condizione da un aspetto puramente sociale, direi che, sì, potrebbe essere una buona diagnosi. Ma la teoria del semplice imbroglio coniugale non mi convince. Se questo scrittore fosse un mio paziente e dovessi valutarlo sotto l’aspetto relativo alla mia professione, direi che non sto seguendo la pista giusta. Ma, detto questo, io non sono qui per lo scrittore, sono qui per te, sei tu che mi hai voluta coinvolgere e ora ne devi accettare le conseguenze. Ora so che cominci a dubitare e questo ti conduce a considerare nuovi orizzonti. Devi concedere a questo scrittore una grande capacità persuasiva. In questo capitolo introduce solo il suo coinvolgimento emotivo e comincia a rivelare la sua comprensione di commettere errori, ma ancora non accetta di essere lui responsabile delle sue scelte. Ha continuamente bisogno di una giustificazione, il che è tipico del genere umano: ogni conseguenza viene giudicata esternamente, come se i responsabili fossero coloro che stanno al di fuori, colpevoli di farci agire nel modo scorretto- finì il dolce che nel frattempo ci era stato servito, poi mi guardò. -Andiamo, vediamo che cosa c’è nell’altro capitolo-. Pensavo che saremmo andati a visitare Valbordi, ma poi dedussi che quella visita poteva attendere. Qualcosa mi metteva in ansia e ora desideravo scoprire sempre più di quello sconosciuto balordo, così la seguii nella saletta e sedendomi di fronte a lei l’ascoltai leggere:

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Le grida degli spiriti… …Erano stati anni che non saprei ben definire se fantastici o nostalgici. So solo che prima e durante i nostri rispettivi matrimoni, tra lei e me ci furono molte occasioni di conversazioni. Allora consideravo che avevamo fatto la cosa giusta perché ritenevo che certe confidenze si potevano fare solo da amici e non da coniugi, così ero giunto a considerare che con Virginia avevo fatto la mia scelta migliore. Se avessi ricordato le sue parole però, avrei potuto comprendere cosa intendeva quando parlava dello scorrere del tempo e della nostra incapacità di controllarlo. Ma l’animo umano è fatto di arroganza e le certezze di riuscire a dominare ogni cosa ci impediscono di concepire determinate conoscenze. Otto anni non erano poi così tanti, eppure in un periodo apparentemente breve, per quella che era la mia concezione, non avevo compreso quanto le cose fossero cambiate. Se lo avessi fatto, avrei potuto riconoscere come la realtà di svegliarsi un giorno e accorgersi che intorno a noi tutto era cambiato senza avere avuto il tempo di rendercene conto, era concreta e tangibile. Otto anni prima ero spaventato dall’idea di una relazione mentre ora mi ritrovavo sposato e insensatamente convinto di essere felice. Avevo ereditato l’azienda familiare, e nel calarmi nella parte a me assegnata da un destino che credevo di dominare come tutto il resto, come lei, mi ero piegato alla consuetudine di una vita ordinaria. Molto spesso mi capitava di osservare la sua solitudine. Casterba era divenuto quasi un paese fantasma. I giovani se ne andavano, solo chi non aveva alternative restava. Forse era stata la volontà di volerlo tutelare, quel paese, o forse era stata l’incapacità di liberarmi di un passato fatto di ricordi ai quali non potevo rinunciare, che mi aveva fatto donare una cospicua somma in denaro perché si potesse costruire un parco dove le famiglie che ancora non abbandonavano le proprie radici potessero portare i loro figli a giocare o forse, era stata semplicemente l’arroganza di sentirmi un benefattore. Non so nemmeno io quale fosse stata la vera ragione, o magari, semplicemente, la volevo solo ignorare. Sta di fatto che le domeniche trascorse a passeggiare tra gli alberi vicino alle rive del fiume, con il laghetto artificiale che rendeva suggestivo l’ampio spazio naturale e i vari giochi attrezzati per i bambini, spesso si tramutavano in angoscianti tormenti. Era stata usata la collina per recuperare lo spazio da assegnare al parco, ma solo quando l’altura fu liberata dai rovi e dalle sterpaglie e spianata in un modo tale da ridurne l’area ad un delicato rilievo, provai come la percezione di una profanazione. Là dove il fiume ci aveva dato spazio per i nostri tuffi eroici era stato costruito un ponte che collegava al lato opposto, quello occupato dai pioppi che, per permettere l’estensione del parco erano stati quasi tutti abbattuti. E nel silenzio provocato dai ricordi sepolti, l’allontanamento degli spiriti dell’acqua dalla loro casa e la tristezza dei fantasmi degli alberi, si aggirava lei, triste e solitaria nelle domeniche in cui da sola, mentre quel giovane romantico di un tempo divenuto marito annoiato se ne andava allo stadio ad entusiasmarsi per una partita di calcio, passeggiava come uno spettro tra i fantasmi. Lei era diventata maestra di scuole elementari mentre lui si era realizzato come contabile e aveva un ruolo rilevante in un’importante banca della città. Tuttavia, malgrado la sicurezza economica, la noia non conosceva prezzo e il loro rapporto aveva inevitabilmente subito la classica alterazione che col tempo finiva per allontanare piuttosto che avvicinare. Era avvenuto così che dopo otto anni i due fossero quasi completamente estranei e che in quel famigerato 2001, la squadra di calcio con la quale il contabile sembrava aver sostituito la propria moglie, disputasse un torneo internazionale giocandosi le qualificazioni ad un turno successivo nella lontana Inghilterra. Per assistere all’evento l’uomo sarebbe stato via tre giorni. Io, come dirigente, ero spesso impegnato tra contratti e riunioni che mi portavano molte volte a rincasare piuttosto tardi. Non era raro che tornassi a notte inoltrata trovando Anna già a dormire. Inoltre lei, che lavorava nel centro epidemiologo di Verona era al contempo anche più impegnata di me e non rare erano le notti che lei stessa passava in sede di lavoro. Le occasioni, se avessi voluto tradirla, non mi sarebbero mancate, e neppure le giustificazioni. Tuttavia, mai avevo pensato ad una simile evenienza né mai, credevo, lo avrei fatto. Ma quella sera, quando la incontrai sola all’uscita del supermercato, subii uno strano impulso. Lei era vistosamente logorata, fisicamente. Nonostante fosse ancora bella, il tempo, quello che scorre senza dare tregua e che ti fa scoprire in un determinato giorno qualsiasi la sua severa crudeltà, aveva

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concretizzato i propri effetti e realizzato i suoi più grandi timori. Virginia, rassegnata e inerte, si era lasciata annientare ed io l’avevo vista spegnersi lentamente. I nostri dialoghi erano passati dall’abitudinario incontro settimanale a incontri sempre meno frequenti e nel tempo che scorreva avevo potuto assistere al suo declino fisico e psicologico. Da tempo aveva abbandonato l’immagine di donna fatale, tornando alla semplicità che le apparteneva per natura, ma quel ritorno era stato accompagnato dalla tristezza e dalla quasi inevitabile conoscenza che il fiume del tempo scorreva troppo rapido portando tutte le conferme che aveva cercato di evitare. Quel giorno riconobbi in lei la definitiva tristezza debilitante e, come persuaso dalla necessità di portare quel classico conforto, dopo averla aiutata con la spesa, la invitai a bere qualcosa assieme. Non credo di poter ricordare una serata così intensa da quando mi ero sposato. Qualche tempo dopo, quando nacque il mio primogenito, lei era già madre di una splendida bambina da sei mesi, una figlia che avrebbe riportato un’apparente armonia nel suo matrimonio. Potrebbe sembrare che certi eventi abbiano veramente il potere di cambiare le cose e le persone. Massimo sembrava davvero essersi riavvicinato al ruolo che doveva avere, ma la sua era solo una maschera di finto altruismo dietro la quale non negava, con vanto, di sostenere quel ruolo solo per dovere verso la figlia. Io tuttavia cercavo ancora di negare a me stesso l’evidenza e, ormai consolidato nella mia convinzione cha la famiglia fosse tutto, fingevo di vedere in lei una ritrovata e meritata serenità. E fu forse per evitare di vedere un’evidenza errata che lentamente tornai a staccarmi da lei. Così, quando i nostri figli avevano già sei anni, ebbi l’occasione di incontrarla in quel parco che io avevo fatto costruire proprio per l’armonia delle famiglie. Non che in quei sei anni ci fossimo più rivisti, era impossibile a Casterba, ma i nostri incontri erano tornati ad essere quasi anonimi, limitati dai classici rapidi saluti di chi aveva troppe cose da fare per fermarsi e parlare con un vecchio o, in questo caso, una vecchia amica. Quel giorno però, non potei più nascondere a me stesso che in lei non c’era una ritrovata serenità, ma solo il fantasma di una finta armonia espressa per la serenità della giovane figlia che tuttavia non era sufficiente a far risplendere il sorriso e il viso dei sedici anni. Non potevo fingere di non vedere come gli anni che avevano preceduto la nascita di Nausica avessero lasciato un segno indelebile nei suoi occhi spenti che lasciavano intravedere il pensiero dubbioso e tormentoso del chiedersi come sarebbero andate le cose se le scelte fossero state diverse e assieme, l’evidente angoscia che la rendevano consapevole che quel giorno in cui si sarebbe svegliata accorgendosi all’improvviso che il tempo era fuggito via, era giunto. Osservandoci per un istante potemmo percepire entrambi il richiamo di un passato del quale non riuscivamo a liberarci e il tormento si risvegliò in lei, così come in me si erano risvegliate le grida degli spiriti, che Demetrio stava riportando tra noi. -Ci siamo- quasi esultai -ha rivelato il suo tradimento in fine-. -Ne sei certo?- -Sta scritto lì. Voglio dire, lo ha scritto lui. È evidente, seppure non esplicito, che la figlia di Virginia non è figlia di suo padre-. -Se qualcuno ti ascoltasse direbbe che stai delirando-. -Ma è evidente, voglio dire che la persona che la figlia crede essere suo padre in realtà non lo è, perché lei è figlia di Tommaso-. -Pensi allora che quello che vuole chiederti sia di rivelare la verità alla figlia piuttosto che il tradimento alla moglie?- Restai in silenzioso imbarazzo per un po’ -non ci avevo pensato- ammisi -ma potrebbe essere una possibilità, il che si farebbe molto complicato- ammisi. -In che senso?- domandò lei. -Io sono abituato a rivelare inganni e tradimenti, non che ne vada fiero, ma questo non mi ha mai comportato rammarichi. Voglio dire, sono persone adulte che hanno fatto delle scelte, in un certo senso hanno commesso dei crimini dei quali io non mi sento responsabile. Ma qui sarebbe diverso. Questa fanciulla non è responsabile di una scelta sbagliata di cui lei è solo il frutto, e se fosse stata ingannata per tutto questo tempo, io dovrei essere colui che potrebbe causarle un trauma da non sottovalutare-. -Quindi temi le conseguenze, non solo per lei ma anche per te. Dovresti affrontare non solo le colpe degli altri, ma, in un certo senso, anche la tua- espose con strana semplicità, e se in altre circostanze probabilmente mi sarei adirato, questa volta ascoltai in reverenziale silenzio, privandomi dell’illusione

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che avrei potuto ignorare quella che invece si dimostrava come inevitabile approvazione. Non mi ero mai ritenuto responsabile dei gesti altrui, fino a quel momento, ma ora dovevo ammettere a me stesso che il mio non era un lavoro totalmente nobile. Ricavavo i miei profitti dalle avversità altrui e, sebbene non ne fossi diretto responsabile, io ero l’emissario d’informazioni che in un modo o nell’altro avrebbero comportato effetti sia sui mandatari che sui destinatari. Potevo essere la causa di conseguenze che non avrebbero avuto degli esiti positivi, sia da un lato che dall’altro, sia nel fisico che nella mente. Ero io stesso un ambasciatore del lato oscuro delle persone sulle quali, in fine, speculavo. La mia espressione doveva rivelare tutti i timori che provavo in quel momento, giacché Felona osservandomi notò il mio totale smarrimento. -Stai provando emozioni nuove vero?- non me lo disse con arroganza e io, rassegnato e sconfitto, annui -sto realizzando che il mio non è un lavoro nobile, e per realizzare questa comprensione ho dovuto coinvolgere un’innocente. La cosa peggiore però, è che fino ad ora ho pensato solo a giudicare il mio lavoro come qualcosa di superficiale, qualcosa che non comportava compromissioni e dal quale non avrei avuto illazioni. Ora capisco però che è così solo perché pensavo a me stesso- mi sentii come privato delle forze. -E questo ti spaventa, giusto?- precisò allora lei. So che avrei dovuto adirarmi perché mi sentivo esaminato, ma invece provai sconforto, probabilmente perchè percepivo troppe verità. -È assurdo, dovrei essere contento, insomma, se questo è l’obiettivo non rischio ripercussioni dovute ad una vendetta, e invece adesso, preferirei quasi essere proprio la vittima di una rivendicazione, tutto questo per te ha senso?- -Ne ha eccome- rispose la psicologa con una calma disarmante, ma io ero talmente sconvolto che non volli sapere le sue ragioni. -In questa storia tutto è nuovo- ammisi. -Sai, io considererei questa un’opportunità. Hai scoperto in definitiva che non sei un uomo di cemento, stai scoprendo un lato di te che volevi ignorare. Questo però può diventare un punto di forza. Più cose conosci di te e più facile può diventare il tuo compito. Comprendere che in definitiva in ogni essere non vi è solo l’ombra ma anche la luce può solo aiutarti a considerare meglio il tuo successivo comportamento…- Le sue parole mi parvero apparentemente insignificanti, ma evidentemente dovettero avere invece la forza di smuovere qualcosa che nel mio animo sembrava non essere esistito fino a quel momento, e tale condizione si rivelò in modo disarmante. -Sto valutando che forse, non tutti i casi che ho risolto sono stati dei successi. Tra loro vi erano persone che forse avevano dei motivi per comportarsi in un modo apparentemente immorale, mentre chi sembrava essere dalla parte della ragione, forse tutte le ragioni non le aveva…- sentii una rabbia ingiustificata crescere in me mentre ponderavo su come avrei fatto meglio a seguire quell’avvertimento iniziale e osservai Felona con occhi carichi di sgomento. -Se non riesco più a mantenere questo distacco, non potrò più fare il mio lavoro- svelai più a me stesso che a lei. Il suo conforto divenne più materiale. -Forse non dovresti vederla in questa condizione drammatica-. -Stai scherzando? Non saprei cos’altro fare, diventerei una persona inutile-. -Secondo te quindi, avere delle motivazioni nobili su cui riflettere ti renderebbe inutile?- mi riprese. -No, hai ragione, ma in che modo comprendere quale sia la cosa giusta allora? Che cos’è giusto per l’uno e sbagliato per l’altro? E in che modo posso tutelare me stesso da queste scelte?- Lei sembrò più stupita dalla mia incapacità di imparare da queste condizioni avverse, piuttosto che comprendere quanto fosse difficile per me incanalarle nel mio pensiero. -Salvaguardi te stesso semplicemente facendo la scelta giusta, e la scelta giusta la percepisci tu, nel tuo profondo, ma devi prima imparare a conoscere te stesso per valutare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Ora questo lavoro ti sta mettendo alla prova, ma c’è qualcosa che ancora non sei riuscito a valutare però, qualcosa che potrebbe essere fondamentale per farti risolvere questi enigmi- disse, ed io la guardai come se non fosse possibile che vi fosse qualcosa che poteva sconvolgermi ulteriormente. -E che cosa potrei dover aggiungere a questo punto?-

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-Osserva- mi disse -più ci addentriamo dentro questo lavoro e più cose cambiano. Nel capitolo precedente pensavamo che fosse solo il tradimento che dovevi smascherare, ora si mostra una nuova condizione, ma se non fosse nemmeno quella che questo fantomatico scrittore vuole risolvere?- La guardai confuso, non essendo certo di voler sapere che cosa potesse ulteriormente confondermi -saresti in grado di presupporre altre alternative?- le domandai, temendo che potessero esservene, giacché queste da sole apparivano troppo onerose. -E se il suo parlare di tradimenti fosse di natura diversa… se non fosse né verso la moglie né verso la figlia che vuole indirizzare le sue attenzioni?- -Alludi a Demetrio?- dissi con timore. -Pensaci. Lui ha una relazione con la donna di cui l’amico è innamorato, e non solo una relazione ma addirittura una figlia-. -Sarebbe questo Demetrio allora che dovrei cercare, e dirgli tutto questo?- impallidii nel brivido che provai. -È certo un'altra opportunità. Ma facciamo un passo oltre- sapevo ormai che quando usava quel termine “oltre”, intendeva qualcosa che io non ero in grado di valutare e che non ero certo di voler calcolare. -Lui considera Demetrio qualcosa di particolare, quasi trascendentale… e se tutti questi personaggi fossero veramente fittizi e il loro riferimento volesse indicare qualcos’altro? Questo scrittore usa un linguaggio simbolico, e tale linguaggio va decifrato per interpretare altre cose. Se Virginia rappresentasse ciò che lui considera il tangibile, il materiale ed il fisico, e Demetrio invece fosse la rappresentazione dell’irreale, dell’invisibile e dello spirituale?- Provai un senso di vertigine -dovrei cercare dei fantasmi allora?- Lei scosse il capo -no, quello che voglio farti comprendere è che non dobbiamo saltare a conclusioni troppo azzardate. Tutte queste ipotesi ci conducono a distrazioni che portano solo confusione. È vero, ora sei turbato, ma tutto è ancora confuso. Dobbiamo comporre l’intero puzzle se vogliamo capirne il disegno. Che dici, leggiamo un’altro capitolo prima di far visita a Valbordi?- Devo ammettere che se quel giorno ero attratto dall’idea di far visita al borgo, adesso la cosa mi appariva molto secondaria e quasi con ansia annuii, nella speranza che il successivo capitolo potesse condurci nel concreto di una vicenda in cui non esistevano fantasmi o persone fittizie perché ora, per quanto assurdo potesse sembrare, desideravo che ognuna di quelle persone fosse semplicemente reale e che ciò che avrei dovuto fare non fosse altro quanto per cui ero stato pagato: leggere. Lei allora posò di nuovo gli occhi sul documento e cominciò:

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Solo ciò che possiamo sopportare… Questo tempo, quello in cui la incontrai al parco, era già il presente e di lì a poco la notizia che Demetrio stava tornando sarebbe giunta a risvegliare i fantasmi. Ancora non potevo evitare di ripensare a come le si era avvicinata alla fine della serata, con uno sguardo che esprimeva solo rimpianto. C’è chi dice che vi è un equilibrio nel mondo, e forse nell’universo intero. Io non potevo, né volevo discutere di tale equilibrio che nella mia ristretta concezione restava un argomento astratto. Io non sapevo se esisteva veramente un equilibrio così vasto, ma di certo sapevo che esisteva a Casterba, e lì, tale equilibrio non poteva essere minacciato. Io non potevo permetterlo. Gli eventi del passato avevano contribuito a crearlo, e ognuno aveva avuto il proprio ruolo e la sua opportunità per renderlo tale. Ciò che era stato doveva essere accettato per come era avvenuto e per ciò che aveva realizzato. Sconvolgere tale armonia rivangando eventi di un passato lontano equivaleva a frastornare una serenità che forse non esisteva in nessun altra parte di questo mondo caotico e conflittuale. Demetrio aveva sbagliato ad andarsene, era stato lui a rinunciare ed ora non aveva alcun diritto di tornare con l’arma del suo acquisito prestigio a disseminare discordia, e questo, era quello che ero deciso a dirgli. Così la mattina seguente mi alzai presto per recarmi a Forlìa dove si trovava l’hotel in cui alloggiava. Sapevo che c’era qualcosa in tutto questo che non era regolare, ma allora non avevo modo di comprenderlo. Quando giunsi all’hotel lui stava facendo colazione. Per la verità, era seduto ad un tavolo con l’aria di chi stava nell’attesa e per un momento ebbi la sensazione che stesse aspettando proprio me. Quando lo raggiunsi, infatti, non finse nemmeno sorpresa. -Tommaso- esclamò -quale piacevole sorpresa- disse, ma la sua espressione non tradiva tale emozione, al punto che la mia risposta sovvenne istintiva e incontrollabile. -Mi stavi aspettando?- gli domandai. Osservai la valigetta posta sulla panca vicina a sé e successivamente il suo accigliarsi. -Avevamo appuntamento?- mi domandò. Sorrisi. -No, ma sembravi quasi in attesa di qualcuno-. Rise a sua volta -sto aspettando il caffé, mi fai compagnia?- -Sono qui per questo- dissi allora. Si rivolse al cameriere e chiese di aggiungere un caffé all’ordinazione, poi mi fissò. -Allora Tommaso, qual è il motivo della tua visita?- -Ti devo parlare-. -Sì certo, questo lo intuisco. Ma sei certo di fare la cosa giusta?- Mi spiazzò perché quel suo commento lasciò in me la tormentosa sensazione che sapesse di cosa volevo discutere ma, rinunciando a cercare di capire come fosse possibile lo assecondai: -E tu sei certo di fare la cosa giusta?- Arrivò il caffé. -Io non sono mai certo di niente Tommaso, ma seguo l’istinto-. -E il tuo istinto ti dice di sconvolgere la vita degli altri?- lo provocai. Sorrise senza imbarazzo e in un modo che non gli era consueto scherzò, nel tentativo di distogliere l’attenzione dall’argomento introdotto. -No, il mio istinto mi dice che oggi è un’ottima giornata per iniziare il servizio fotografico, sai, devo fare in fretta perché la settimana prossima devo concludere per il contratto con la casa editrice- guardò la valigetta e diede un colpetto con la mano -sai, le foto per il libro ambientalistico del comune…- Lo bloccai irritato. -Non fare finta di niente, sai bene cosa intendo- lo aggredii facendogli intuire che non accettavo di essere trattato come uno sciocco. Ma ingenuamente non capivo quanto invece lo ero. Demetrio mi stava solo dando una delle tante opportunità per divincolarmi da qualcosa che avrebbe potuto essere

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di difficile sopportazione per quelle solite menti che menzionavo spesso, ma tra le quali reputavo di non potermi identificare, non ancora pronte a certe rivelazioni. Sorseggiò il caffé fumante. -Il mio istinto Tommaso, mi fa comprendere che il destino mi guida lungo una strada che io devo seguire. Se questo cammino prevede che debba essere così, allora io non mi posso opporre-. -Che ne sai tu del destino?- ribadii con rabbia sottolineando con una mimica facciale che reputavo arrogante la sua certezza di conoscere le leggi di qualcosa in cui io non credevo. -Purtroppo non ne so nulla, altrimenti lo avrei già risolto. Ma dimmi Tommaso, quante opportunità ci sono che un bambino si innamori a sei anni di una fanciulla mai vista prima? Potremmo dire le stesse che un fratello si innamori della sorella?- Lo guardai con sospetto, non intuendo, in parole che già gli avevo sentito pronunciare in un tempo quasi dimenticato, quale nesso potesse avere un simile paragone, ma comprendendo come invece certe cose apparentemente inspiegabili, possano indurre a credere in quel qualcosa che io potevo invece definire inesistente. Ma come a quel tempo la reazione che avrebbe dovuto condurmi ad una diversa valutazione fu sopraffatta dall’istinto e da questo mi lasciai condurre ancora alla concezione che, se non potevo intuire le allusioni alla sua affermazione, potevo invece ben intendere la conferma alla sua decisa intenzione a voler ancora provare a instaurare un rapporto con Virginia. -Che cosa vi siete detti ieri sera?- gli domandai a tradimento. Non finse nemmeno di non sapere a che cosa alludevo e rispose senza ipocrisia. -Abbiamo parlato Tommaso, solo parlato. Per non più di dieci minuti- mi rassicurò, e per un momento, percependo la sua sincerità, mi sentii sollevato. Poi finì il caffé e aggiunse: -Quindi l’ho invitata a passare una giornata con me-. Se una meteora in quel momento avesse sfondato il tetto non avrei potuto restare più sconvolto. -Una giornata? Un’intera giornata intendi?- alzai la voce senza accorgermene. -Sì, domenica per l’esattezza. Suo marito sarà fuori per due giorni. Sai, una trasferta sportiva, così…- Con un certo ribrezzo provai una strana sensazione di già vissuto e nel sentirmi aggredire da coscienze che non volevo accogliere lo interruppi con irruenza concentrando l’attenzione sul suo gesto attuale piuttosto che sui miei passati. -Hai intenzione di corteggiarla ancora?- lo aggredii cercando di controllare il tono della voce in modo che non sembrasse minaccioso, ma il risultato non fu quello desiderato. -Non ho mai smesso di farlo Tommaso. In ogni mio pensiero lei è presente e in ogni mia immagine c’è qualcosa che la ricorda. Forse perfino tu sei troppo superficiale da non essertene accorto, ma se le mie fotografie sono state tanto apprezzate, è perché in ogni angolo del mondo che ho fotografato, in ogni luogo della natura che ho ammirato, io vedevo il suo volto…- -Ma lei ormai è sposata, ha una famiglia e il suo matrimonio ha finalmente trovato un equilibrio- mentii sapendo che quell’equilibrio non c’era. Ma non era una menzogna compiuta, era solo una rivelazione dei fatti così come era nella regolare realtà di una famiglia media -saresti disposto a sconvolgere tutto ciò? Saresti disposto a distruggere la sua vita e quella della sua famiglia? Saresti pronto ad affermare che è questo ciò che vuoi? Che è questo il vero senso dell’amore?- Mi guardò e la sua apparente calma si tramutò nel consueto aspetto malinconico, quello in cui io riuscivo a riconoscerlo, e per un momento ebbi l’illusione di essere riuscito a farlo ragionare nel modo in cui io consideravo fosse lecito ragionare. Ma dimenticavo che avevo a che fare con qualcuno che non considerava vi fosse un modo lecito di ragionare. Il suo volto si rattristò ancor di più, seppure io credessi che non fosse possibile, e con un sussurro, quasi non volesse pronunciare quelle parole, concluse -vi è molto di più della vita a rischio, Tommaso, anche se so che tu non lo puoi comprendere, non ancora almeno-. Non sapevo se la sua fosse arroganza o saggezza, ma in quel momento la mia preoccupazione e la controllata ira, mi impedivano sia di volerlo capire sia di valutarlo. C’era qualcosa in me che si voleva opporre alla sua insistente bramosia, ma nello stesso tempo vigeva un conflitto che mi impediva di capire per quale motivo continuavo a volermi intromettere nella vita degli altri e in particolare, nella sua. -Tu non puoi scomparire per vent’anni e poi pretendere di ritornare nella vita delle persone per sconvolgerle. Il passato non può essere ricostruito. Ciò che è stato è stato e di questo devi fartene una

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ragione. Se la ami veramente, devi lasciarla stare. Lei non è pronta a sopportare un’altra esperienza traumatica come quella cui la stai sottoponendo- predicai con tutta la retorica possibile, ma lui mi guardò con aria soddisfatta. -Hai detto cose giuste Tommaso- mi apostrofò, e per un momento mi sentii orgoglioso, ma poi proseguì -e hai ragione su una cosa in particolare: il passato non può essere ricostruito, ma proprio perché è stato eretto come una base, un fondamento sul quale va amplificato un edificio sempre più imponente e robusto, o come una strada che può essere solo prolungata, ed è su ciò che è già stato costruito che si deve continuare a erigere, in particolar modo se quanto è stato costruito ha seguito regole e leggi corrette-. Lo guardai con arroganza -e tu che ne sai di quanto siano corrette le leggi che hanno costruito il tuo edificio? Molto spesso gli edifici si devono abbattere perché non sono idonei- gli feci notare. -Solo quelli costruiti dall’uomo Tommaso- disse però lui -su quelli edificati dal destino, l’uomo non può metter mani, solo assecondarli-. -Ma tu non puoi sapere che cosa vuole il destino da te- lo aggredii mentre lui prendeva la valigia con l’attrezzatura fotografica. Mi guardò senza severità, ma con un’intensa serietà nella quale mi parve di percepire un’accusa che voleva forse indicarmi quanto presuntuoso fosse il mio voler osare dire agli altri ciò che non potevano fare come se invece io, sapessi tutto ciò che era possibile fare o non fare. -Tu parli di incapacità di sopportare e io mi chiedo quanto ne possa sapere. Non hai mai dovuto farti carico di responsabilità che ti possano dare una simile esperienza Tommaso, e quando ne hai avuto l’occasione, le hai sempre scansate. Posso dirti una cosa però al riguardo: io ho sopportato un tormento e un’angoscia per la quasi totalità della mia vita. Ho amato un illusione per trentasei anni e ho vissuto la solitudine per quaranta. A nessuno viene dato di sopportare più di quanto non possa, e presto te ne potrai rendere conto. La questione però è questa: tu che giudichi tanto le capacità di sopportazione degli altri, sei pronto a scoprire quanto siano consistenti le tue?- Con un brivido raggelante sentii l’angoscia assalirmi. Chiunque altro avrebbe risolto la questione pensando ad un ridicolo dialogo senza nessuna concretezza, ma io non potevo permettermi questo lusso. Demetrio mi stava dimostrando la verità dei suoi fatti, il passato era costruito su basi non progettate dagli uomini e non poteva essere abbattuto come un edificio costruito di mattoni e cemento, ma solo assecondato, e nelle sue parole io sentivo emergere sempre più la realtà di qualcosa che mi si stava svelando come un segreto che io non volevo apprendere e tremai al pensiero di che cosa significava ‘scoprire quanto era consistente la mia capacità di sopportazione’. Era il mio illusorio altruismo a permettermi di divincolarmi da ogni responsabilità che mi si avvicinava, e ancora fuorviai l’argomento insistendo sul desiderio di volerlo fare desistere dall’incontrare Virginia. -Vorrei parlare con te ancora di Virginia- gli dissi e lui sorrise. -Come vuoi- rispose -possiamo farlo mentre mi accompagni a fare fotografie- mi invitò. Lo guardai incerto mentre si avviava, consapevole che da quello che avrei scelto in quel momento, sarebbe dipesa la costruzione di un futuro che proseguiva sulle strade del passato. Per un momento pensai che abbandonare tutto sarebbe stata la cosa migliore, ma quel presagio che mi spingeva ad insistere stava scavando nel profondo di un qualcosa che, sebbene ancora non lo comprendessi, mi riguardava. Il suo sorriso ironico avrebbe dovuto farmi capire molte cose, una delle quali era che se lui era tornato, non era solo per Virginia, ma anche per me. Non so quanto la mia espressione potesse apparire sconvolta, ma capii che non potevo nasconderlo dal modo in cui Felona mi osservava, così come potevo intuire ciò che pensava. -Mi pare di riconoscermi sempre più in questo Tommaso- dissi senza attendere che lei lo chiedesse. Scosse il capo -lo fai solo adesso, dopo aver intuito certe condizione del tuo essere- cercò di farmi notare, ma credo che per una volta, fui io a stupirla. -Sì me ne rendo conto. Ma ciò non fa altro che avvalorare le mie intuizioni: anche lui ha dovuto scontrarsi con se stesso prima di capire-. -Ma noi non sappiamo ancora con chi o che cosa si sia dovuto scontrare-. Sentii crescere in me una sorta d’irritabilità. Sembrava che lei avesse pronta ogni opzione per le mie fragili convinzioni. -Sta raccontando di quanto ha vissuto e fa chiaramente comprendere che di tutto ciò che rivela ora, al momento dei fatti non era consapevole- le feci notare senza orgoglio ma piuttosto con una certa

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irritazione, di come cominciavo ad analizzare le circostanze. Lei annuì compiaciuta, ma non lasciò scampo al mio trionfo. -C’è un piccolo dettaglio che non consideri-. -E sarebbe?- -Lui sta compiendo il percorso a ritroso. Prima di essere distaccato e superficiale, era coinvolto e riflessivo. Tu quando sei diventato così?- Ragionai senza vanto -credo di essere sempre stato così- ammisi deluso non ricordando un qualche periodo della mia vita in cui l’orgoglio e la presunzione avessero lasciato spazio a riflessioni e modestia. -Quindi, se tu fossi come Tommaso, dovresti fare un ulteriore passo-. -Dovrei tornare ad essere come sono sempre stato quindi?- la cosa quasi mi entusiasmò. Scosse il capo come rassegnata -devi intuire di che tipo di evoluzione si parla in questo contesto. Le allusioni di Demetrio qui sono piuttosto esplicite-. -A che cosa ti riferisci precisamente?- cercai di comprendere. -Innanzitutto osserva questa- indicò il foglio con un dito e lesse: -Quante opportunità ci sono che un bambino si innamori a sei anni di una fanciulla mai vista prima? Potremmo dire le stesse che un fratello si innamori della sorella? inserisce il contesto dell’incesto- mi fece notare. La osservai decisamente contrariato con un certo ribrezzo al pensiero di un simile obbrobrio, ma cercai di assecondare quello che invece in lei sembrava entusiasmo. -Capisco che voi psicologi siate affascinati da questi contesti scandalosi, ma io proprio non me ne sento attratto- lei sorrise, probabilmente già valutando la possibilità che le si stava propinando di demolire il mio sarcasmo. -Questo ti fa onore. Certe cose nella natura ci mostrano ciò che comporta una visione distorta di quel che dovrebbe essere corretto, il che equivale a concepire la necessità di regole da rispettare e onorare. Ma l’incesto è una costante spesso riscontrata nelle varie mitologie più importanti come quella egizia, greca o nordica, e talvolta era anche praticato per consolidare la supremazia di una dinastia. Simbolicamente rappresenta un tentativo di rafforzamento, di una condizione, di un ideale, strettamente legato alla persona verso cui è attribuito…- -Demetrio sta cercando di dire a Tommaso che lui sta soltanto rafforzando le sue convinzioni?..- -È una possibilità…- disse, ma poi parve dubitare. -Che ti succede? Non sei convinta?- Per un momento sembrò estraniarsi dal mondo, allora la chiamai e quasi ebbi l’impressione d’averla svegliata da un sogno. -No, stavo solo valutando la possibilità che, come nella mitologia, non tutto sia simbolico-. Rabbrividii -stai congetturando che Demetrio stia parlando di un incesto reale? E chi ne sarebbe l’artefice? Le sue sorelle lo odiano e Tommaso non ha mai accennato ad avere sorelle-. Attese un istante, poi tornò alla sua professionale indagine -no, hai ragione, probabilmente la sua è solo un’allusione simbolica-. -Quindi abbiamo dedotto che Demetrio invita Tommaso a considerare la sua autorità, ma tu hai parlato di diverse allusioni, quali sono le altre?- la mia curiosità prevaricava la concezione dei timori che ogni scoperta poteva condurmi e lei, perplessa, mi guardò per un istante forse valutando se proseguire o no, come se fosse intimorita da qualcosa che io avrei potuto dedurre un timore verso la mia persona, senza immaginare che magari anche lei cominciava a subire condizionamenti che la portavano oltre un semplice coinvolgimento professionale, ma addirittura personale. Ma deduco ripensando a quel momento, che dovette dirsi che ormai aveva iniziato e, come fosse stata sotto il vincolo di un contratto, non poteva più esimersi dal suo ruolo. -Ecco, osserva qui- indicò un altro punto -dice che vi è molto di più della vita a rischio, ma che cosa si può rischiare più della vita?- Per un momento cercai di ritrovare la mia ironia -il patrimonio di famiglia?- sorrisi. Lei dovette percepire che il mio era solo un sarcasmo isterico e non si infastidì come aveva fatto in altre circostanze -l’unica cosa cui può alludere, è l’anima- lo disse tuttavia con una certa serietà, come se chiedesse pure a me di rimanere concentrato su quanto stavamo analizzando.

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-Sì l’ho intuito, ma speravo che non lo dicessi- ironizzai ancora, ma con molta mestizia. Felona osservò la mia depressa espressione che tuttavia non rivelava tristezza ma piuttosto, timore. -Ebbene, ti concedo pure qualche sorta di svago, comprendo quanto possa essere arduo affrontare simili concetti quando non li si abbia mai considerati, tuttavia esorcizzarli con l’ironia non ti rende ormai immune dall’averli concepiti. Vedi, il prossimo passo potrebbe anche essere che tu possa decidere di considerarli come condizioni astratte, irreali e non vere, ma qualcosa di questa esperienza ti resterà sempre. È questo ciò che si intende con il detto: “L’ignoranza è un bene”. Solo che la nostra esistenza è fatta di scelte e qualcuna di queste scelte può condurre a scoperte fastidiose. Non potrai più negare a te stesso i tuoi dubbi… tuttavia, come viene espressamente dichiarato in questo contesto, a nessuno viene dato di sopportare più di quanto non possa…- -Sì, ma ammettere questo significa accettare l’esistenza di quel qualcosa che tu dici che potrei anche decidere di ignorare-. -Per questo ti è concesso di scegliere. Se decidi di ignorarlo significa che non lo puoi sopportare- semplificò, e la cosa mi parve estremamente assurda nella sua semplicità, che non mi era possibile accettarla. -Come posso ignorarlo ormai, se già ho cominciato a dubitare?- -Ti sembrerà impossibile ma ti sei dato da solo le risposte. Stuart Chase ha detto che per coloro che credono nessuna prova è necessaria, per coloro che non credono nessuna prova è sufficiente. La questione è tutta lì. I tuoi dubbi ti conducono solo verso la verità, ossia quella che per te è la verità. Se non credi in queste cose, nessun dubbio potrà condurti al farlo; se invece credi anche minimamente nella possibilità che vi sia una realtà che va oltre il dubbio, nessuna certezza potrà convincerti del contrario. La scelta è molto facile da compiere perché in realtà la scelta è già fatta-. Io non sapevo nemmeno chi fosse Stuart Chase, e in quel momento poco mi sarebbe importato scoprire che era stato un economista americano i cui scritti riguardavano argomenti di semantica generale secondo la quale si affermava che gli esseri umani erano limitati nelle loro conoscenze dalla struttura del loro sistema per cui non potevano sperimentare il mondo direttamente, ma solo attraverso le loro astrazioni. -Quindi non ho scampo- dissi. Lei però non era del mio stesso avviso, non lo era mai. -C’è sempre un’alternativa. Sta a noi decidere. Vedi, se accetti che il destino ti abbia condotto a questa distinzione, puoi anche accettare che le pure coincidenze ne siano l’effettiva causa. Questo racconto ti è capitato tra le mani e tu hai scelto di leggerlo, e per tua scelta ora puoi dedurre che contenga delle verità che prima non conoscevi. Ma puoi anche considerare che sei stato indotto a farlo e che tutto sia solo un inganno, e in questo modo giungeresti alla facile conclusione che nulla di quanto è scritto qui sia corretto per quanto ti concerne e di conseguenza convincerti che il destino non esiste e tu sei padrone del tuo fato. Può sembrare assurdo, ma è molto semplice-. -No, non lo sembra più quando inizi a dubitare, e certe scelte non semplificano ma complicano- contestai allora io. -È ovvio- proseguì però lei -ogni scelta implica un cambiamento. Per esempio, anche la banale scelta di decidere come vestirsi comporta cambiamenti. Oggi sei sportivo e chi ti vede ti giudica per uno sportivo, domani sei elegante e chi ti vede ti giudica per un intellettuale. Ma è dalla scelta che fai tu che la tua condizione muta. Se tu vesti ogni giorno alla stessa maniera, ne tu né gli altri potranno avere opinioni differenti, e tanto meno dubbi-. -Questo non mi aiuta. Noi stiamo parlando di scelte da fare secondo ciò che è il nostro sentire. Vestire in un modo o nell’altro implica semplicemente indirizzare il giudizio degli altri in un determinato contesto-. -Esatto. Ma la condizione non è affatto fuorviante. Nelle nostre scelte infatti dobbiamo tenere conto di molte cose. Ciò che vogliamo essere dipende anche da come vogliamo che gli altri ci considerino e di conseguenza dobbiamo capire se siano le nostre scelte a condizionare il giudizio degli altri, o se siano gli altri a condizionare le nostre scelte. Come vedi è sempre di scelte che stiamo parlando-. -A volte però non ci sono possibilità, le nostre scelte sono obbligate-.

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-Perché è quello che vogliamo credere, ma la libertà di scelta non è condizionata se la scelta sta dentro di te. Sotto minaccia ciascuno può farti dire che tu sei un aviatore, ma se tu ti senti un marinaio, nessuno può sottrarti alla tua convinzione-. -Sarei comunque costretto a vivere da aviatore-. -Sempre per scelta. C’è chi decide di adattarsi e chi decide di ribellarsi-. -E se il ribellarsi significa rischiare la vita?- Lei si limitò a sorridere, e io, come un allocco restai a considerare come stessi veramente rispondendo da solo alle mie domande -…c’è molto più della vita a rischio…- sussurrai parafrasando le parole da lei lette poco prima. Felona mi guardò soddisfatta -devi solo capire adesso, se sei disposto a sopportare il peso delle tue decisioni, e poi, fare la tua scelta- disse, quindi mi lasciò nel mio silenzio, poi, come avessi bisogno di una distrazione m’incitò -che ne dici di fare quella visita a Valbordi adesso?- La guardai e annuii -sì, credo che sia giunto il momento- risposi. -Bene- ribatté lei -così mentre tu guidi io leggo un altro capitolo-. Non ero abituato nemmeno ad ascoltare la radio mentre guidavo, ma non mi fu difficile concentrarmi sulla lettura mentre, dopo poco che avevo avviato la macchina lei prese a leggere:

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La verità vi farà liberi… …Aveva detto che l’avrebbe incontrata domenica, il che mi dava quattro giorni di tempo per convincerlo, così pensai che accompagnarlo nelle sue escursioni fotografiche poteva essere un’occasione per sfruttare al meglio quel tempo. Ma io purtroppo ancora pensavo da abitudinario della normale quotidianità nella quale anche i più grandi problemi non comportano visioni che superano l’immaginazione e ogni valutazione si riflette in ciò che la realtà ci permette di concepire, di conseguenza, non valutavo la complessità del dramma in cui mi stavo calando da attore protagonista. -Sei venuto in macchina?- mi domandò osservando la Mercedes parcheggiata davanti al modesto hotel. Lo guardai incerto -stai scherzando?- Allargò le braccia facendo intendere che no, non scherzava. -Beh, sono sette chilometri da qui a Casterba, pensavi veramente di farteli a piedi?- lo dissi con la spontaneità di chi considera regolare l’uso quotidiano di una macchina per coprire una simile distanza e, con altrettanta spontaneità rispose lui. -Non lo so Tommaso, io pensavo di sì. Ma io non possiedo una macchina, quindi per me è normale, credo, presupporre che sette chilometri non siano una distanza così impossibile-. Restai quasi interdetto e in parte mi sentii offeso -non dire scemenze Mage- gli risposi invitandolo a prendere posto in auto. Quando ci avviammo, in un momento di tregua, approfondii come se non avessi altro di meglio da dire -se non hai una macchina come ti sposti?- gli domandai. -Generalmente a piedi- disse lui -a meno che non debba fare un viaggio che mi porta da uno stato all’altro o distanze che non si possono coprire in un giorno. Ma per questo ci sono i treni, gli aerei o altri mezzi dei quali di solito si occupa chi richiede la mia competenza- . Lo guardai incredulo -quindi se non fossi venuto io avresti fatto sette chilometri a piedi?-. Di rimando lui guardò me con altrettanta perplessità -anche di più. Dopo che sarò giunto in paese dovrò seguire dei percorsi di esplorazione, anche se conosco già il posto- disse. -Quindi per te sette chilometri non sono una distanza degna di un mezzo di trasporto?- -No. Ho passato giorni interi a camminare per realizzare i miei reportage…- -Mi stai prendendo in giro?- dissi indignato, ma lui non rispose, non nell’immediato almeno. -Hai visto quell’albero?- proferì quindi dopo un po’ improvvisamente. -Quale albero?- risposi sorpreso. Lui si limitò a sorridere e a quel punto potei verificare che la persona che mi stava seduta a fianco era lo stesso Demetrio che mi aveva fatto vedere per la prima volta il fiume, e mi domandai se ora volevo veramente vedere quell’albero con il quale era riuscito a farmi capire come, nella frenesia ormai automatica della mia vita, mi sarebbe stato impossibile vederlo nel modo in cui lo vedeva lui. Giungemmo in centro al paese in poco più di cinque minuti, lui scese e cominciò a guardarsi intorno. -Quante cose sono cambiate- disse. Io mi meravigliai. Nella mia consuetudine mi sembrava che non fosse cambiato nulla nell’umile paese -a me sembra tutto uguale a com’era un tempo, se si esclude la diminuzione della popolazione- dissi. Lui prese la sua attrezzatura -beh, questi marciapiedi non c’erano vent’anni fa, la strada era più rovinata e ai lati crescevano ciuffi d’erba ti ricordi? A volte passavano mesi prima che l’amministrazione decidesse di farla tagliare e spesso diveniva difficile osservare oltre- mi fece notare, e come fosse una cosa mai esistita io la ricordai quasi come un’illusione. Si incamminò a piedi lungo la strada ma nell’immediato io non valutai quale direzione aveva preso e, ancora disorientato dalle motivazioni che mi avevano spinto a cercarlo, lo seguii senza considerazioni. Affrettai il passo perché essendo partito senza preavviso mi aveva un po’ distanziato. -Lungo questa strada c’era un’estesa fila di pioppi ricordi? E questo fossato era molto più ampio, ora sembra un semplice solco tra la terra e la strada- mi fece notare, e improvvisamente mi resi conto che stava percorrendo la strada che lo avrebbe condotto alla sua vecchia abitazione. Un presagio tormentoso mi mandò un segnale ambiguo, come se solo in quel momento mi rendessi conto che stavo per essere coinvolto in qualcosa da cui avrei dovuto restare estraneo. Ricordai la fila di pioppi e anche

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il fossato che d’inverno gelava permettendoci di improvvisarci pattinatori su ghiaccio, ma lo feci con superficiale disinteresse perché qualcosa di nuovo ora sconvolgeva la mia mente. -Dove stai andando Mage?- gli domandai preoccupato. -Sai- cominciò lui -una volta ho letto la frase di uno scrittore in cui affermava che tutto sta nel cominciare, poi il resto viene da sé. Ho potuto costatare che è vero e quando non so come cominciare cerco uno spunto apparentemente insignificante, e il resto viene da sé- disse con calma serenità. Io però, quella serenità la stavo perdendo sempre più -vorrei sbagliarmi Mage, ma ho l’impressione che tu sappia esattamente da dove cominciare- gli feci notare. -Infatti- rispose lui -questo non è uno di quei casi, ma se devo fare un reportage sul paese in cui sono nato e vissuto per oltre venti anni, perché non iniziare da dove tutto ha avuto principio?- Sentii nuovamente la sensazione di tormento lanciarmi un avviso di pericolo, ma la distanza da coprire era ancora breve e la sua casa era già troppo vicina per riuscire a divincolarmi. -Credi che sia una buona idea?- gli dissi ricordando più a me stesso che a lui, che i suoi familiari non erano nemmeno andati ad accoglierlo all’arrivo. -A me pare di sì- rispose, ma senza dare la riposta che io cercavo veramente. -Intendo dire se credi che sia una buona idea che io ti accompagni- esposi con più precisione, allora si fermò e mi guardò intensamente. -Tu hai pensato che fosse una buona idea venire da me questa mattina?- -Non era per questo che sono venuto- gli feci notare. -E’ vero, ma ogni azione comporta delle conseguenze e tu non ne hai tenuto conto, nemmeno quando io ti ho chiesto di accompagnarmi. Avresti dovuto chiedere dove volevo andare non credi?- mi sentii come intrappolato e preso in giro. -Ma tutto questo non ha senso- replicai senza sapere cosa rispondere. Lui sorrise -ne ha Tommaso, credimi. Ne ha- disse, e di nuovo con la sua semplicità riprese il cammino. Io lo inseguii e protestai -ma tu lo sapevi dove volevi andare, anche tu avresti potuto dirlo-. -Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto. Da tutto questo puoi solo accettare una cosa, che sta nell’apprendere, o nel non apprendere. Tutto qui-. -Ma che scemenze vai dicendo? Per te è tutto un gioco come lo era quando eravamo ragazzini?- Si fermò di nuovo, e questa volta mi guardò con seria severità. -Non è mai stato un gioco per me Tommaso. Questa è la differenza tra me e te- mi accusò. Io ammutolii e lui riprese il cammino. -Allora, non dovevi parlarmi?- mi ricordò come a sottolineare che io mi ero intromesso nel suo spazio introducendomi nei progetti che lui aveva per quel giorno. Io guardai avanti, entro poco più di cento metri saremmo stati davanti al cancello della residenza. Non sarei riuscito a sfruttare quel giorno per i miei scopi, ma lo intuivo troppo tardi. -Forse dovremmo parlare di qualcos’altro in questo momento- gli dissi allora. Il timore di essere coinvolto in qualcosa che avrebbe potuto essere molto imbarazzante in quel preciso istante mi spaventava più del non riuscire a convincerlo a farlo desistere dall’incontrare Virginia. Si fermò ancora -ti ascolto- dichiarò e io, sommerso dall’imbarazzo, non seppi cosa dire. Gesticolai con le mani come a introdurre un discorso, ma dalle mia labbra non uscivano parole. -Hai paura che possa metterti in una condizione spiacevole?- domandò allora lui. Mi avvicinai -non sono nemmeno venute al tuo ricevimento, non sono venute ad accoglierti al tuo arrivo- gli ricordai -cosa credi che succederà quando suonerai alla loro porta?- Lo vidi rattristarsi. -Probabilmente nulla. Continueranno ad odiarmi come fanno da vent’anni, ma non lo scopriremo mai se non proviamo. Inoltre io devo tornare laggiù, anche se incontrerò persone che forse non mi vogliono incontrare-. Sapevo che quell’incontro non sarebbe stato sereno, ma allo stesso tempo vedevo in lui un’esigenza che quasi necessitava di sostegno, tuttavia non mi sentivo in grado di dargli ciò che cercava e ricordando la citazione biblica che lui era solito riportare: “La verità vi farà liberi”, ingenuamente decisi che la verità poteva farmi libero. -Non credo che io dovrei essere qui in questo momento. Sono un intruso tra di voi non ti pare?-.

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Lui sorrise -nulla avviene per caso dicevamo un tempo ricordi?- rispose però lui come se avesse intuito il mio richiamo al passato e con altrettanta scaltrezza avesse voluto annullare il mio spunto. -Sì, ma se vi sono questioni da risolvere tra di voi, io cosa c’entro? Sono un estraneo-. -Non necessariamente- disse però lui a sorpresa e io lo guardai senza comprendere. -Tu sei il proprietario delle terre che un tempo erano loro, sei inevitabilmente coinvolto-. Mi sembrò un’accusa. -Non vorrai coinvolgermi in questioni finanziarie di cui nemmeno sono responsabile- mi indignai allora esprimendo io un’accusa nei suoi riguardi. Il suo sorriso però mi fece comprendere che la sua era solo un’innocua provocazione e con una percezione di cui avrei fatto volentieri a meno, compresi che io non ero lì per questo. -È rimasto qualcosa in sospeso quaggiù Tommaso, e io devo risolvere- mi annunciò rivelando enigmaticamente il motivo per cui era realmente andato alla sua vecchia dimora, che non aveva nulla a che fare con il resoconto fotografico, solo che prima che potessi rendermene conto e cercare di divincolarmi, lui aveva già suonato il campanello. Scossi il capo -che ci faccio veramente io qui Mage?- lo rimproverai. Mi guardò come se comprendesse e condividesse il mio disagio -c’è qualcosa che devo fare, e se tu sei qui, significa che pure tu devi esserci. Il destino non sbaglia amico mio, e il destino ha voluto che tu questa mattina mi venissi a cercare. Deve esserci una ragione non ti pare?- -Se c’è, io non la comprendo e al contrario di te, penso che il destino possa sbagliare, anzi, credo che abbia sbagliato già troppe volte- dissi con rammarico, ma una giovane ragazza si stava già avvicinando e definitivamente, non potevo più fuggire. Era Vanessa, sua nipote, ma lui non l’aveva mai vista, o per lo meno così pensavo. Forse non sapeva nemmeno di avere una nipote e per un istante pensai di avvertirlo, ma quando la giovane fu davanti a noi con la sola barriera del cancello che ci divideva, lui non sembrò avere nessuna reazione di sorpresa e con la stessa meraviglia che apparve sul viso della giovane quando si presentò, restai sorpreso pure io. -Ciao- le disse con calma -sono Demetrio, tuo zio- le annunciò. Il viso della giovane parve illuminarsi con un sorriso di gioia. -Mio zio? Oddio non ci posso credere- la sua esultanza fu tale che non mi parve nemmeno vera. Mi aspettavo ostilità nei suoi riguardi, in fondo era cresciuta in una famiglia che non doveva mai aver parlato bene di lui e tale reazione mi confuse. -Posso entrare?- domandò poi il Mage. Fu a quel punto che la felicità della giovane si attenuò. -Vuoi parlare con la mamma?- le domandò, ed era evidente il suo imbarazzo. -Se tua madre vorrà parlarmi sì, volentieri- rispose. Vanessa aprì il cancello e ci fece entrare, solo successivamente guardò verso di me e mi salutò in modo cortese dandomi del lei. Era una di Casterba, dove tutti conoscevano tutti, o per lo meno conoscevano me, l’imprenditore più importante del territorio. Io le sorrisi con fare amichevole e annuii al suo saluto. Quindi si rivolse al Mage. -Puoi aspettare qui?- le domandò. Demetrio la guardò, poi osservò la proprietà tutto intorno e indirizzò il suo sguardo in un punto preciso che si trovava all’interno del giardino. -Per te va bene se aspetto laggiù, nel giardino?- le domandò. Vanessa sorrise come se il suo fosse un gioco -sì certo- disse divertita, poi corse verso la casa. Il Mage si avviò e io lo seguii da vicino. -Sei sicuro di volere che io resti?- cercai ancora di liberarmi dall’inusuale vincolo. -Se le cosa ti infastidisce puoi pure andartene, ma sappi che io non sono qui per parlare con le mie sorelle- e a quel punto compresi che il mio coinvolgimento, per quanto lo riguardava, non era per avere una testimonianza di quanto sarebbe accaduto tra lui e i suoi familiari, ma per un motivo che doveva essere legato a un qualcosa che, come nel passato, secondo lui, sarebbe servito a comunicarmi cose che avrebbero dovuto andare a beneficio di una conoscenza mai approfondita, e a quel punto il conflitto in me si fece ancora più intenso, incerto se veramente volevo tornare a vivere momenti come quelli di un’infanzia che avevo rimosso. Si fermò in un punto preciso e attese, dopo un po’ vidi la nipote al fianco della mamma avvicinarsi. Demetrio attese che fosse vicina. -Ciao Loredana- la salutò.

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Il viso di lei era chiaramente contrariato -ciao- rispose rigidamente -ne hai del coraggio a farti rivedere- disse con ostilità. Il Mage la guardò negli occhi. -Non pretendo che tu capisca, ma sarò ben lieto di spiegarti se vorrai ascoltarmi-. -Non hai niente da spiegare perché non c’è niente da capire. Sappi che legalmente non ti spetta più niente-. La tensione si fece quasi palpabile. Osservai Vanessa farsi timorosa mentre il mio imbarazzo cresceva a dismisura. Demetrio scosse il capo -non sono qui per riscuotere nulla, quello che mi serve è solo un po’ di tempo e ciò che ti chiedo è che tu me lo conceda-. -Io non voglio parlare con te, e nemmeno Marcella-. Disse riferendosi alla seconda sorella. Gli occhi di Demetrio si fecero cupi e tristi -sì lo comprendo, e mi dispiace. Avrei molte cose da raccontarvi, ma credo che ciò che voi vogliate da me siano solo scuse. Io ve le porgo, anche se non potrete capirle. Il tempo che mi occorre però, non è quello delle scuse. Puoi scacciarmi se vuoi, io qui non sono più niente, ma c’è qualcosa che devo fare, e devo farlo in questo giardino. Concedimi questo tempo e poi ti garantisco, che se è questo ciò che vuoi, non mi rivedrai più-. Per la prima volta il Mage parve vulnerabile e per la prima volta percepii l’odio della vendetta forte come mai avrei potuto. Potevo quasi vedere una spada tra le mani della sorella, pronta ad abbattersi sulla sua testa e tranciarla. Era un’occasione unica che mai avrebbe potuto ripetersi. In quel momento ebbi la chiara sensazione che se qualcuno avesse voluto veramente fargli del male, impedirgli di restare in quel giardino sarebbe stata la più grande atrocità, una cosa che forse valeva per il Mage più della stessa vita e, nello stesso modo in cui lo percepivo io, ne ero certo, lo percepiva anche Loredana. Ciò che più mi stupiva però, era che probabilmente il Mage stesso voleva che fosse così. Qualcosa, in quel momento, sembrò quasi trasportarmi oltre la razionalità e come se avessi la facoltà di leggere i pensieri, percepii il maligno desiderio di Loredana di scacciarlo via, consapevole che non vi era migliore e nessuna altra vendetta. Ma quando la razionalità mi riportò nel mondo reale, vidi l’istante di esitazione portare gli occhi di Loredana verso quelli della figlia e con lei potei leggervi dentro la più grande compassione. Fu quello sguardo, credo, a sciogliere il cuore di ghiaccio di Loredana, mentre Demetrio restava nell’attesa. Furono attimi di tensione, poi Loredana spezzò il silenzio. -Fai ciò che devi e poi vattene- quindi guardò Vanessa -vieni torniamo in casa- le ordinò, ma la ragazza esitò. -Non posso restare?- domandò con apprensione, come se sospettasse che ciò che sarebbe avvenuto lì avesse in qualche modo un qualcosa che la riguardava, una sorta di legame forse che lei percepiva, ma non con suo zio, piuttosto, con se stessa e il suo futuro. Loredana si fermò, guardò prima la figlia e poi il fratello. Demetrio sorrise -non farò niente di male, niente follie. Starò semplicemente qui, e poi… non avrò mai più occasione di rivedere mia nipote-. -Non l’hai mai vista prima di oggi, che differenza può fare ormai?- disse con un’improvvisa malinconica e rassegnata tristezza Loredana. Di nuovo mi sentii trasportare nell’irrazionale sentendo la mente del Mage che avrebbe voluto rispondere: “Ti sbagli, sapessi quante volte l’ho vista”, ma contemporaneamente percepivo anche la convinzione con cui sapeva sarebbe stato inutile cercare di spiegare, intendendo che sarebbe stato impossibile per lei capire. In effetti, malgrado tutto, lo sarebbe stato pure per me. Loredana non disse niente, semplicemente si girò e si allontanò -resta pure- acconsentì, poi con mia grande sorpresa. Fissò Demetrio negli occhi -dirò a Marcella e agli altri che sei passato, e comunicherò le tue scuse. Addio Demetrio- si congedò freddamente da lui. Non credo che si videro più. Io restai il tempo necessario per vedere Demetrio avvicinarsi ad un punto preciso e poi inginocchiarsi per terra. Poi lo vidi guardare Vanessa. -Vieni avvicinati, ti voglio raccontare una storia- le disse proprio come uno zio che parla a una nipotina, sebbene Vanessa ormai avesse già diciotto anni. A quel punto sentii che la mia presenza lì non era più costretta. In un modo che non capivo, era come se una forza maggiore mi stesse svincolando da una sorta di obbligo.

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Oggi penso che il destino mi aveva condotto laggiù con lui perché dovevo assistere a qualcosa, e ciò che richiedeva il mio ruolo si concludeva lì, ma in realtà, analizzando meglio i fatti e le sensazioni provate, il destino mi stava solo offrendo la possibilità di scegliere. Mi ero sentito come vincolato e quasi costretto a giungere fino a quel punto, nel momento in cui tutto si svelava e risolveva ma, come ad ogni appuntamento importante verso il quale ero stato condotto, alla fine, la scelta di assistere o fuggire, veniva lasciata a me. -È meglio che io vada Demetrio- ricordo di aver detto come temendo che l’attimo di tregua potesse svanire e tornare a costringermi con quelle catene inconsce che non potevo vedere. Non dovetti nemmeno cercare una scusa e lui non parve nemmeno volermi fare desistere dalla mia rinuncia. Semplicemente mi guardò con un triste sorriso nel quale io non percepii l’amarezza per la mia rinuncia -ci vediamo domani?- disse come a invitarmi a proseguire ciò che avevo lasciato in sospeso, e io risposi di riflesso -alla stessa ora-. Tornò al suo impegno e non sembrò nemmeno sentirmi quando mi avviai, non facendo nulla per trattenermi come aveva fatto in precedenza. Quando concluse stavamo passando a fianco del cartello limitrofo che ci accoglieva a Valbordi, un paese che non sembrava affatto così speciale come ci era stato descritto dal custode dell’hotel o come forse ci aspettavamo, almeno in quell’introduttivo arrivo. La periferia, se di periferia si poteva parlare per un paese della superficie di soli trenta chilometri quadrati che contava una popolazione di poco superiore ai tremila abitanti, ci accoglieva con dei giganti di cemento: capannoni prefabbricati che come guardiani avevano ben poco di accogliente. Una misera zona industriale appariva poco produttiva e la distesa di campagna che dominava l’intera valle si evidenziava invece come l’unica vera fonte di lavoro e di guadagno per il paese. Tuttavia i grandi trattori che si sentivano e intravedevano lavorare nei campi facevano pensare che per quanto estesa fosse la campagna, solo una minima parte degli abitanti del paese probabilmente lavorava in quel settore ormai industrializzato. -Non sembra così accogliente come ci era stato descritto- commentai. Felona doveva essere perplessa quanto me, probabilmente perché lei stessa si era fatta le medesime aspettative. -Magari il centro è meglio- azzardò a dire mentre incontravamo le prime abitazioni, villette appariscenti di recente costruzione i cui proprietari dovevano aver pensato che la periferia poteva dare loro in qualche modo una tutelata tranquillità, seppure non si poteva immaginare che Valbordi fosse un luogo caotico. Giungemmo in breve ad un incrocio, uno dei pochi rimasti regolati da semafori e alla luce rossa fermai l’auto. Dei cartelli indicatori blu segnalavano altre località vicine, mentre uno bianco indicava la direzione del centro. Sorrisi considerando che non doveva essere poi così difficile capire dove fosse, pensando allo spreco del costo di un cartello non necessario. -Bene, tra poco lo scopriremo- risposi alla supposizione di Felona -e di quanto hai appena letto che mi dici?- approfittai della breve pausa, sebbene l’ultimo capitolo non sembrasse aver dato ulteriori spunti di meditazione, ma Felona mi sorprese. -Potrei dire molte cose, ma voglio soffermarmi ad analizzare questi inizi di capitoli-. Il semaforo era ancora rosso -sarebbe a dire?- cercai di comprendere. -Come li intitola, fino ad ora lo abbiamo trascurato, ma ogni titolo introduce gli argomenti o rimanda a determinate considerazioni. La verità vi farà liberi, è una citazione biblica- m’istruì, ma questa volta potei vantarmi un po’ anch’io delle mie limitate conoscenze. -Sì, questo lo so, l’ho sentito in un film, e ogni tanto io stesso ho fatto uso di questa citazione-. -Davvero?- mi guardò -e funziona?- Io le rimandai uno sguardo incerto -sì- dissi -a volte funziona- osai rispondere. -Bene, allora dimmi che cosa hai compreso della verità- mi domandò, ma non seppi comprendere se la sua era provocazione o serietà e la mia risposta proseguì nella direzione logica del discorso già intrapreso che mi teneva agganciato all’uso della citazione. -Che ha effetto solo su chi si lascia intimorire dai condizionamenti religiosi- risposi con un pizzico di superficialità. -Questo perché il più delle persone percepiscono la verità come una cosa esteriore, relativa alla verità degli altri, e nessuno considera la propria-. -Non ti seguo- ammisi, e questo era vero perché lei già viaggiava su un binario differente dal mio.

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-Nessuno vuole conoscere veramente se stesso, e l’uso dei testi sacri è un ottimo espediente per rinviare verso altri obiettivi le responsabilità. Chiunque si senta affrontato da un testo sacro si sente inevitabilmente posto sotto giudizio, e non un giudizio qualunque, ma un giudizio divino, per questo molte persone si lasciano intimorire quando si citano frasi bibliche, talmudiche, vediche o di altro genere. Ma i testi sacri, di qualunque origine, parlano direttamente a noi stessi, non sono rivolti all’esterno, e chi li legge deve comprendere che il testo sta dicendo a lui quello che è scritto, e non che ciò che sta scritto deve essere divulgato dal lettore- cercò di sintetizzare, credo, ma tale semplificazione rese il tutto assurdamente più caotico. -Sì, giusto- risposi io fingendo palesemente di aver capito il suo discorso - che senso ha divulgare ciò che è già scritto dal momento che ognuno lo può leggere da solo?- Lei non si innervosì -ti sembrerà strano, ma la tua ironia ha colto pienamente nel segno. In effetti è come quando a scuola ti dicevano di fare una ricerca, in realtà lo scopo era quello di farti studiare, non di riprodurre ciò che già stava scritto in un libro. Trascrivere non ha alcun senso visto che comunque lo puoi ritrovare in ogni momento sullo stesso libro da cui hai copiato-. La guardai con decisa sorpresa, o forse dovrei dire con la decisa meraviglia di chi scopre quanto grande sia la sua stupidità nel comprendere una cosa elementare cui però mai si è prestato attenzione. -Stai cercando di farmi capire quanto sarebbero semplici certe situazioni se solo ci impegnassimo un po’ a prestare la giusta attenzione?- -No, sto cercando di dire che le cose sono semplici solo nella misura in cui noi le semplifichiamo, e sono complicate nella misura in cui noi le vogliamo complicare-. Non ero certo di aver compreso -non credo che ci sia molto da complicare in una frase come quella, “la verità vi farà liberi”, è più che altro una condizione morale. Significa che devi dire la verità se non vuoi rischiare la galera-. -Dal tuo punto di vista, o da quello giuridico se per te è preferibile, ma moralmente ciò non fa molto onore a chi ne usurpa l’utilità solo per un fattore di comodo usando i testi sacri per manipolare il pensiero e le concezioni della gente. Ma il concetto è: che cos’è per te la verità?- Il discorso si divulgò in una maniera tale che non mi accorsi della luce verde e restai fermo al semaforo -prego?- le domandai incerto. -La verità, che cos’è per te? Se tu stessi leggendo la Bibbia, questa frase sarebbe rivolta a te dalla Bibbia stessa e quindi per comprendere cosa il libro vuole dirti devi avere una tua concezione della verità- mi invitò a riflettere. -Beh, vediamo, in questa circostanza direi che il libro mi sta dicendo che la verità è ciò che mi rende libero, perché è più facile sostenere la verità piuttosto che la menzogna- pensai di essermela cavata bene. -Giusto- riprese allora lei -ma quella che tu ammetteresti è la tua verità, e se tale fosse in contrasto con la verità di chi ti ascolta, per esempio io, tu per me mentiresti-. La osservai con stupore, meraviglia e smarrimento -ma se dovessimo vederla da questo punto di vista, nessuno direbbe la verità- dissi allibito per la sua incoerenza -questo tuo ragionamento, se messo in pratica condurrebbe all’anarchia e al caos più totale, la verità va intesa come una regola cui il soggetto deve sottostare-. -Sì, giusto, ma chi impone le regole, come fa a decidere quale sia la verità?- -Il tuo è un discorso senza logica, un mondo senza regole condurrebbe nel caos più totale. Vorresti un mondo così?- Attese un istante, poi rispose -no, ed è quello che questo tizio ci sta dicendo dall’inizio del racconto esponendolo attraverso dei simboli. Quando ci dice che la natura esige rispetto, ci dice che vi sono regole da rispettate, così quando ci parla di omosessualità ci dice che vi sono infrazioni tollerabili mentre quando ci parla di incesto ci riferisce di altre che invece non possono essere accettate. Nel primo caso forse, possiamo vedere un’infrazione, ma senza conseguenze avverse o malvagie, nel secondo invece le conseguenze ci sono, e possono essere evidenti. È un altro modo di interpretare la lettura simbolica, così, quando ci parla di verità, dobbiamo capire che cosa vuole veramente intendere. La verità umana è fatta di regole umane, imperfette e frangibili. Non a caso secondo Platone le leggi avrebbero dovute essere state fatte da persone che una volta finita la compilazione avrebbero dovuto tornare a vivere nella società, dopo aver dimenticato di essere state loro a scrivere quelle leggi. Con

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questa consapevolezza tali persone avrebbero dovuto per forza scrivere delle leggi giuste, perché loro stessi le avrebbero subite, e noi lo abbiamo appena dimostrato, se tu o io dovessimo scrivere delle leggi le scriveremmo secondo la nostra concezione del giusto e sbagliato, e secondo la nostra concezione della verità…- Sorrisi con un’alterata espressione di sarcasmo -la tua è pura utopia, per quanto io possa essere d’accordo con te. La cosa tuttavia non risolve la questione: esiste una verità che non è assoluta, ma secondo la nostra concezione del giusto o sbagliato, è quanto di più vi si avvicina- sentenziai. -È possibile- replicò allora lei -ma se la verità che consideriamo noi non è la verità che ci chiede di considerare il testo sacro?- mi confuse nuovamente mentre il semaforo tornava rosso. -Accidenti- imprecai accorgendomi che avevamo perso la nostra occasione di superare l’incrocio -alla faccia della semplicità- le dissi -mi stai facendo impazzire lo vedi? E in quale altro modo la dovremmo considerare?- -Ti ricordi di quando abbiamo ragionato sulle domande e di come quando non si conosce una risposta sia necessario cercare la domanda?- -Certo che me lo ricordo, mi pareva una stupidaggine e tu mi hai dimostrato il contrario, e allora, cosa c’entra adesso?- -C’entra eccome perché vedi, il vangelo di Giovanni cita testualmente: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, non dice “comprenderete la verità”, ma “conoscerete”, il che cambia le cose-. -Ma in che senso? Mi sembra che tu stia veramente complicando quanto hai detto essere semplice- lei scosse la testa. -Rifletti un momento, se qualcuno ti domanda come ti chiami tu ti presenti e a quel punto uno può dire di conoscerti, almeno per nome, quindi quando Giovanni dice “conoscerete la verità” è possibile che non intenda la verità in senso letterale come potremmo interpretarla noi, ma figurato-. -Vuoi dire che farebbe riferimento a una persona fisica?- -O a qualcosa che va oltre, visto che si parla di un testo sacro. Se qualcuno domanda cosa sia la verità, noi dobbiamo capire cosa sia la verità prima di poter rispondere, ma visto che abbiamo compreso che la verità intesa per come la interpretiamo noi è solo soggettiva, forse dovremmo cambiare la domanda e chiederci non cosa sia la verità, ma piuttosto “Chi sia la verità”-. Restai stupefatto, e solo il suono del clacson dietro di noi mi riportò nella realtà in cui di nuovo stavo perdendo l’occasione di sfruttare la luce verde del semaforo per superare l’incrocio. Lasciai la frizione e partii con uno slittamento delle gomme sull’asfalto -è assurdo- dissi avviandomi -e comunque che cosa centrerebbe con tutto il resto? Perché è andato a casa sua e che cosa ha fatto in quel giardino?- Sentii un’esclamazione di meraviglia da parte di lei e concentrandomi sul paese vidi un centro che non avrei immaginato. Valbordi, dominato da un ristrutturato castello e da abitazioni che parevano rimandare ad un antico borgo medievale, ci apparve come una piccola città storica in miniatura. Parcheggiai nel piazzale davanti il castello e, meravigliati più per l’inattesa sorpresa che per l’effettivo fascino del piccolo centro, scendemmo dalla macchina e osservammo intorno a noi. Tutto era concentrato in una ristretta area circostante il castello. Non molto lontano vi era la chiesa del paese con un’insegna di marmo che evidenziava la sua antica appartenenza al dodicesimo secolo mentre un parco creato da poco con giardini e marciapiedi di chiara fattura moderna sembravano tracciare un percorso tra la piazza dove in un palazzo storico era situata la sede del comune, la chiesa e il castello, e al centro una statua suggestiva che doveva essere stata realizzata da uno scultore locale, rappresentava in uno stile surreale un guerriero coperto da un’armatura che, spezzandosi in diverse parti evidenziava la natura femminile del soldato nei particolari che ne stavano celati sotto. Dalla parte spezzata dell’elmo fuoriusciva una folta capigliatura e la breve parte di viso rivelata mostrava un occhio che lo scultore aveva saputo rendere incredibilmente espressivo dando l’impressione che la combattente fosse furiosa ma triste allo stesso tempo. Nella parte spezzata del petto invece un seno da amazzone lasciava intravedere il particolare più evidente della natura femminile della guerriera, mentre il movimento impresso, con la spada sguainata pronta a protendersi in avanti, accentuava il senso dell’azione. Era certamente una statua ben fatta, impeccabile nella sua esecuzione tecnica e splendida nel suo lucido e levigato color bianco marmoreo. Ci soffermammo ad ammirarla perché, in effetti, pur essendo arte moderna in un contesto storico, non stonava ma contribuiva a rendere completo e affascinante il piccolo centro. Ci dirigemmo poi verso il castello osservando le due imponenti torri e leggendo la targa

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di marmo a fianco dell’arco dov’era situata l’entrata per le visite che informava essere del tredicesimo secolo. Un secondo cartello informativo, meno suggestivo e più tradizionale, informava che nel castello erano situate la sala consiliare, l’ufficio del turismo e la biblioteca comunale, poi, un po’ meno evidenziato, vi erano gli orari di apertura al pubblico. Nel pomeriggio gli uffici e le visite iniziavano le loro attività alle sedici e trenta. Osservai il mio orologio, erano le sedici passate da poco, così decidemmo di entrare in un piccolo locale lì vicino, ordinammo qualcosa da bere e nell’attesa proseguimmo la lettura del documento. La disputa di sguardi non lasciava alternative, io avevo guidato, a lei toccava leggere, così, senza poi tanto esserne dispiaciuta, Felona sfogliò di nuovo il documento e riprese:

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E sotto scorre il fiume… …La mattina successiva, come la precedente, lo trovai ad attendermi davanti ad una tazza di caffé. Mi unii a lui e non accennai per niente al giorno prima. Non desideravo sapere che cosa era avvenuto dopo che me ne ero andato, cominciando a credere che l’ignoranza era un bene, ma restavo convinto che se Demetrio voleva farmi conoscere qualcosa avrebbe trovato un modo per farlo. Il giorno precedente mi aveva trascinato in quell’inganno per una ragione, ne ero certo e, come per sfida, lasciai che fosse lui a prendere l’iniziativa. Se lo avesse fatto, avrei avuto le mie conferme e avrei potuto accusarlo apertamente del paranoico plagio della mia mente. Ma Demetrio non accennò a nulla di ciò che mi aspettavo e per un istante ne restai deluso. Sempre nell’arco di quel breve istante, fui addirittura tentato di provocarlo e, rendendomi conto per una volta di come la mia volontà fosse fragile, imposi a me stesso l’ordine che mi ero imposto e rifiutai l’invito della curiosità ad istigare. Una sorta di orgoglio mi pervase e con un sorriso beffardo pensai che se Demetrio aveva ragione sul destino, e che se il destino mi aveva condotto laggiù per un motivo, il destino stesso avrebbe fatto in modo di rendermi conscio di quanto era avvenuto in quel giardino, continuando a negare che la mia curiosità di conoscere era più forte della volontà del non sapere e non esaminando così, che nello stesso momento in cui pensavo di averlo raggirato, il destino si stava preparando a darmi dimostrazione di quanto non fosse possibile imbrogliarlo. -Allora, dove si va oggi?- dissi mascherando dietro una fragile allegria i timori che mi tormentavano. Demetrio finì il caffé -vorrei dirti che è una sorpresa, ma non credo che i luoghi di Casterba possano più sorprenderti ormai- . -Credo proprio di no- risposi. Non sapevo quanto mi sbagliavo, lui invece ne sembrava ben consapevole. Ci avviammo con la mia auto e come il giorno prima mi fermai in centro. Lui mi guardò -vai ad ovest, verso il fiume- mi disse. -Non vuoi camminare?- ironizzai. -Cammineremo, non preoccuparti, cammineremo-. Mi avviai verso ovest, come mi aveva chiesto e ben presto superai i confini del paese. -Non devi fotografare Casterba?- gli feci notare. -Un cartello limitrofo non significa fine di un territorio Tommaso, tu che ne possiedi la maggior parte dovresti saperlo-. Sorrisi -è un’insinuazione?-. Anche lui sorrise -voglio fare delle foto al vecchio mulino. Prima di andarmene qualcuno produceva ancora farina ricordo-. Provai un senso di sconforto nel comprendere che stavo per informarlo di qualcosa che non sapeva. -Il mulino è stato chiuso. Il proprietario è morto e nessuno ha raccolto la sua eredità. Del resto a chi interessa ormai fare un lavoro divenuto monopolio dell’industria?-. Lo vidi amareggiarsi -l’ho saputo. Ho chiesto del vecchio mugnaio, mi sarebbe piaciuto scambiare qualche parola con lui. Lo ricordo come un omone dall’aria gentile ma triste-. -Beh, la sua non è stata una storia allegra- dissi. Saverio, quello che da tutti era stato conosciuto come il “mugnaio”, aveva macinato il grano nel suo mulino ad acqua mantenendo la tradizione di famiglia, proseguendo nell’eredità che gli aveva lasciato il padre che ancora macinava quando gli scambi di prodotti in ben poche occasioni avvenivano con un pagamento in forma di denaro. Io lo ricordavo quando ancora passava per il paese con un piccolo furgoncino a vendere la farina alle famiglie di Casterba, ma mio padre mi aveva raccontato di come, in anni precedenti, il suo viaggiare per il paese fosse a cavallo di una bicicletta con la quale trainava un carrello per trasportare i sacchi. Era stato nei tempi in cui cominciavano a circolare più veicoli a motore piuttosto che biciclette che aveva perso la moglie mentre aspettava un figlio in un incidente. Un autista che doveva aver viaggiato troppo a lungo per avere ancora riflessi lucidi l’aveva travolta in una giornata invernale di nebbia e ghiaccio. Furono due i drammi in quel tempo, la perdita subita dal mugnaio e la disperazione di quell’autista che in seguito si seppe aveva tentato di suicidarsi. Forse proprio la compassione per

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quella disperazione aveva aiutato il mugnaio a superare il suo dramma, con la comprensione che la sofferenza di chi era stato causa dell’involontario incidente, forse, poteva anche essere maggiore della sua. Il mulino era tutto ciò che gli era rimasto, ciò che gli poteva far mantenere vivo il ricordo della famiglia perduta e ciò per cui i suoi antenati avevano lavorato. Ciò per cui non poteva cedere. Ma non avendo eredi, la proprietà era stata abbandonata ed ora era ridotta ad una sorta di rudere. -Mi pare un buon motivo per rendergli omaggio, non credi?- -Resterai deluso da quello che vedrai. Il mulino è ormai un rudere-. Il sorriso che gli vidi parve sarcastico -la gente ama la tristezza Tommaso. Per quanto possa sembrare un paradosso le persone se ne nutrono, ma non ne comprendono la ragione. Credono che osservare le miserie degli altri li distragga dalle proprie, ma non appena sentono qualcuno lamentarsi di qualcosa subito esaltano i propri problemi come se non potessero accettare che qualcuno soffra più di loro. Le persone sono strane, aspirano alla libertà e alla felicità ma esaltano la prigionia e la tristezza, e ancora non ne comprendono la ragione. Ma è per questo che la storia del mulino farà un gran effetto, te lo garantisco-. Lo guardai percependo in me una sorte di malumore. Benché non me ne fossi mai preoccupato, dovevo ammettere che le sue erano parole veritiere, le persone sembravano apprezzare la tristezza come se fosse un cibo raffinato da ordinare al ristorante. Quello che non riuscivo ad accettare però era quell’accusa con la quale definiva l’incapacità di queste persone di non comprendere perché fossero tanto attratte dalla tristezza. -Forse non la comprendono perché non dovrebbe esistere- lo provocai -non credi?- Mi guardò facendomi capire che intuiva tutta la mia indignazione, ma non rispose alla domanda, ovvero, non lo fece nel modo che mi aspettavo. -Ogni cosa ha una ragione di essere in questo mondo, altrimenti perché dovrebbe esserci? È tutto qui il mistero Tommaso-. Spontaneamente preferii rinunciare ad inoltrarmi in quella conversazione, probabilmente per un istinto di protezione verso me stesso, anche se ancora non capivo che in quelle poche parole Demetrio mi aveva dato l’unica risposta possibile e per non peggiorare la mia condizione psichica, lasciai perdere e continuai il viaggio. Il mulino faceva parte del territorio di Casterba, ma stava oltre i confini delimitati dalle insegne e bisognava fare un giro di circa cinque chilometri oltre l’ultimo confine segnalato. La proprietà, o meglio, ciò che restava della proprietà, era dominata da un grande cortile dove entrai e parcheggiai l’auto. La casa, costruita con il vecchio stile degli anni precedenti le grandi guerre, dominava come un antico guardiano sulla campagna circostante e dietro di lei il fiume, che in quel tratto raggiungeva forse la sua massima estensione, scorreva lento, calmo e tranquillo prima di giungere alle chiuse che lo costringevano, un tempo, a cedere parte delle sue acque ad un canale artificiale dove una serie di riduzioni forzavano i placidi flussi in violenti correnti che con la loro forza facevano girare le pale del mulino mettendo in movimento la macina dalla quale si sarebbe ricavata la farina. Demetrio scese dalla macchina e si fermò a contemplare la decadenza dell’intera struttura, osservando con riverente tristezza ciò che doveva apparirgli come un mausoleo. Io mi avvicinai -è triste vero?- dissi, ma lui alzò un braccio e sibilò una volontà di silenzio. -Ascolta- pronunciò quindi sussurrando. Io mi misi in ascolto, ma non sapevo di che cosa. -Lo senti?- domandò allora. Una serie di rimembranze avrebbero dovuto farmi ricordare quei suoi improvvisi silenzi di venerazione, ma quei tempi li avevo cancellati e proprio attraverso ciò da cui tentavo di fuggire rischiavo ora di lasciarmi trascinare verso il tunnel delle memorie. -Che cosa?- gli domandai. Lui mi guardò, poi, senza rispondere, estrasse la macchina fotografica e per la prima volta potei osservare l’abilità della sua arte. Lo vidi osservare attentamente ogni particolare dell’ambiente e come se stessi assistendo ad una celebrazione sacra non osai intralciarlo. Passarono alcuni secondi, forse qualche minuto mentre i suoi occhi parevano scrutare la prospettiva migliore, o forse la luce. Poi vidi le sue mani alzarsi lente e accostare il mirino oculare al viso. Osservai la direzione verso cui puntava l’obiettivo e nel vedere la macchina zoomare verso le finestre della casa pensai che forse la sua scelta non era stata la più indovinata. Ma il sole, che spuntava da dietro, oscurava parte della struttura e forse, pensai, quello che stava cercando era un tipo di effetto ombra. Fu solo dopo aver sentito l’otturatore aprirsi e chiudersi in quel veloce clic che appresi con ciò

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che stava per dirmi, non senza meraviglia, che nel silenzio reverenziale con il quale aveva atteso di individuare il punto fotografico da immortalare, non era stato in concentrazione visiva: -Se ascolti bene, gli oggetti che ci circondano, di qualunque cosa siano fatti, ti parlano- disse muovendo alcuni passi. -Cosa?- gli domandai non certo di aver compreso bene. Si fermò, rivolse l’obiettivo verso un altro punto e scattò di nuovo. -Sono loro a chiamarti, sono loro a dirti dove osservare e poi, a darti il permesso di ritrarli-. Provai un brivido. Per scattare le sue foto usava la vista solo per calcolare prospettive e luci, ma utilizzava l’ascolto per trovare i soggetti, solo che non era un ascolto tradizionale. -Stai scherzando?- gli dissi. Sentii un altro scatto, poi lo vidi dirigersi verso il retro e quando lo raggiunsi lo vidi quasi in estasi davanti al fiume, con lo sguardo di chi incontra un amico dopo lunghissimi anni. Uno sguardo che non aveva avuto per me. -Non lo senti più vero?- disse allora, e io provai ancora quel brivido che avrei potuto definire di timore se avessi voluto essere modesto. Ma quello che sentivo era puro terrore. Non risposi e restai in attesa. Non so per quanto, sicuramente non pochi secondi e nemmeno minuti. Se avessi avuto un orologio avrei potuto calcolare forse un quarto d’ora prima che le sue azioni tornassero al lavoro. Scattò una foto del fiume calmo -è così che scatto le mie foto Tommaso- disse rispondendo alla domanda precedente -ascoltando la voce dei soggetti e chiedendo loro il permesso di ritrarli. Loro mi danno il consenso e mi mostrano la migliore prospettiva. A volte però sono contrari, non per ostilità, ma per un’esigenza di rispetto- disse, e io ancora restai in silenzio. Si girò e fotografò le pale lacerate disfatte e ferme del mulino con il canale artificiale dai rilievi logorati dalla mancata manutenzione -e a volte sono loro a ringraziare per rispetto. Qui è esistita una condizione di pace, di armonia, in cui la grande tristezza ha potuto trovare risposte a domande su una realtà dall’apparenza incomprensibile. L’acqua che scorre ha condotto la sua voce e la sua saggezza oltre le barriere dell’odio e dell’avversione perché l’anima che dimora qui aveva necessità di comprendere-. -L’anima che dimora qui?- dissi io spaventato, come se temessi veramente che in quell’edificio esistesse un fantasma. -L’anima di uno spirito Tommaso, uno spirito della natura che sussurra a tutti coloro che passano da qui. A tutti coloro che possono ascoltare, anche se non sanno sentire, di quanto questo luogo sia stato permeato di benevolenza, di comprensione e di saggezza, e di quanta pace e serenità sia ancora possibile ricevere e riconoscere quaggiù se solo lo si sa intendere. Uno spirito che considera sia inutile e ipocrita sprecare l’energia di questa condizione, ed è triste, perché nessuno di quanti passano nelle vicinanze di questi luoghi riesce a comprendere la difficoltà che un uomo ha sopportato per rendere tale regno tanto pacifico-. Attese qualche istante, poi si avvicinò al fiume e si chinò ad accarezzare l’erba che cresceva sulle rive -qui- riprese poi con un tono che di nuovo mi fece rabbrividire -si è combattuta una battaglia, dove l’odio è stato sconfitto dalla comprensione. Qui si è svolta una ricerca dove la tristezza ha condotto alla cognizione che la morte, per quanto tragica e triste, ha una sua logica ed un senso…- -Un senso?- replicai con un accento di disapprovazione -e quale sarebbe? Sembra che tu voglia elogiare la tristezza e la sofferenza Mage. Non sarai anche tu una di quelle persone che si cibano di tormenti?- quasi non mi accorsi dell’ingiuria espressa nelle mie parole. Lui si alzò e prese a camminare lungo le rive del fiume -come potresti dire che cosa sia la felicità se non hai conosciuto la sofferenza? Credi che un uomo allegro, gioioso e spensierato possa dirti che cosa sia la felicità? No, se vuoi conoscere cosa sia la felicità lo devi chiedere a chi ha sperimentato la tristezza, il dolore, la sofferenza. Queste sono le persone che possono parlarti di felicità -. Lui continuava a camminare e io continuavo a seguirlo -vuoi dire quindi che lo scopo della morte è farti apprendere la felicità?-. -Lo scopo della morte, se proprio vuoi cercarne uno, è farti comprendere la vita. Tu non ascolti Tommaso-. -E devi morire quindi per sapere che cos’è la vita?-

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-Devi morire- rispose -per comprendere di non aver vissuto Tommaso. Questo è il triste destino di molte persone. La vita non esisterebbe senza la morte perché senza la morte la vita non sarebbe nemmeno considerata. Come potresti sapere di essere vivo senza sapere di dover morire?- -Questa è la cosa più assurda che abbia mai sentito Mage. La morte porta solo sofferenza, non c’è nulla di buono nella morte-. -Davvero? Eppure si sono viste scene di esultanza alla morte di un dittatore, e c’è pure chi gioisce per la morte di una persona antipatica…- -Il tuo è un subdolo inganno. Non è questo che intendevo…- -Devi stare attento a ciò che dici, l’inganno è sempre in agguato e come vedi può insinuarti in qualunque momento-. -Va bene saccente presuntuoso- mi irritai -resta il fatto che comunque dittatori e carnefici sono provocatori di sofferenze e dolori, sono anche loro indispensabili?- -Sempre nello stesso presupposto di una conoscenza. Potresti desiderare la pace senza sapere che cosa sia la guerra?- -E non potrebbe esserci semplicemente la pace e basta?- -Sì. Ma come potresti riconoscerla se non avessi avuto modo di confrontarla con qualcosa? Immagina Tommaso, di essere nato in una dimensione dove esiste solo la luce e null’altro e quindi tutto ciò che tu hai visto è sempre stato solo e semplicemente luce. Sapresti dire che cosa sia la luce?- Per un momento mi sentii svuotato e come se realmente mi stessi staccando da ogni materiale consistenza, mi parve di fluttuare in un vuoto inconsistente, dove nulla aveva senso, tranne il pensiero che in quel vuoto non avevo percezione di alcunché, come se nulla di ciò che fluttuava in tale dimensione avesse un significato e di nulla potessi avere conoscenza perché tale vuoto, non era confrontabile con nulla. Non so quanto durò tale condizione, mi parvero solo pochi istanti, ma non poté essere così perché quando la mia mente si riallacciò alla realtà mi trovavo in un posto che da tanto tempo avevo cercato, seppure in maniera inconsapevole, di evitare, e la camminata che ci aveva condotto fin lì non poteva essere durata pochi secondi. -Allora Tommaso, cosa mi rispondi?- la sua domanda sembrava posta come se per lui quell’arco di tempo ipnotico in cui io mi ero estraniato dal mondo non fosse esistito. Come se la sua concezione lo avesse reso consapevole che io ero da un’altra parte con la mente e semplicemente, avesse atteso il mio ritorno per lasciarmi esplorare quella realtà sonnambula di cui quasi non avevo avuto coscienza. Ma ciò che riuscii a valutare io nell’immediato, era che mi trovavo in un luogo nel quale non avevo presupposto saremmo stati e l’istintiva reazione fu legata al pensiero di non apprezzarlo. -Che ci facciamo qui?- domandai come se lui potesse e dovesse spiegarmelo. Mi guardò -sperimentiamo Tommaso- disse -sperimentiamo. La vita può essere tragica, ma se noi abbiamo scelto di viverla vi è sicuramente una ragione- disse, e io mi irritai. -Non ho più voglia di sentire le tue ideologie sull’infinito Mage. Dimmi che cosa ci facciamo qui- lo aggredii. Lui girò lo sguardo nella direzione opposta e osservò il ponte sul fiume. -Sei più stato sul ponte Tommamso?- mi chiese allora -lo hai mai attraversato?- Cercai di controllare la mia irritazione perché la percepivo generata dalla paura. Il ponte mi aveva ricondotto a memorie lontane e per un nesso ancora incompreso sentivo un’analogia tra quei ricordi e la strana conversazione appena avuta. Ricordai soprattutto quando mi aveva parlato delle guerre combattute nelle vicinanze del fiume e delle presenze bonarie e malvagie che si opponevano da un lato e dall’altro. -Possiedo tutta la terra circostante Mage. Certo che ci sono stato sull’altro lato del ponte- dissi con arrogante orgoglio, ma per lui non fu difficile frantumarlo. -Non ti ho chiesto se sei stato dall’altro lato, ti ho chiesto se hai mai attraversato il ponte- precisò, e di nuovo provai un tormentoso senso di panico. Erano passati quasi quaranta anni da quando mi aveva condotto la prima volta in quel luogo e solo adesso mi rendevo conto che quel ponte io, non lo avevo mai attraversato. Ero stato sull’altra riva decine, forse centinaia di volte era vero, ma raggiungendola sempre attraverso strade che non prevedessero l’attraversamento del fiume e in particolare, di quel ponte. Lo vidi riprendere a scattare foto e muoversi in direzione del ponte. -Aspetta Mage- cercai di fermarlo, ma lui non era tipo da obbedire a un ordine privo di un senso.

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-Vi sono diversi tipi di morte Tommaso, non solo quella fisica, e noi, sperimentiamo, semplicemente, sperimentiamo- continuò invece a dire incurante della mia resa di fronte al passaggio -siamo anime che cercano di comprendere cosa sia la pace e per questo creiamo la guerra. Ma tra la comprensione e l’ignoranza, vi è un ponte da attraversare e solo l’accettare che nel fiume che vi scorre sotto fluiscano tutte le conoscenze di cui necessitiamo può condurci al considerare che, solo dopo aver compreso, il nostro desiderio può essere quello di non desiderare- si avviò sul ponte e si apprestò ad attraversarlo. -Aspetta Mage- cercai ancora di fermarlo, ma inutilmente. -È la tua occasione Tommaso- gli sentii dire mentre si allontanava, e nel tempo che parve fermarsi potei intuire molte cose: che il desiderare di non desiderare ciò cui ci si rifiutava di voler essere poteva spiegarsi solo con la comprensione che, una volta intuito che cosa fosse il male, l’accettarlo non significava approvarlo ma piuttosto il non volerlo sperimentare ne praticarlo; che la morte era parte della vita, ma che la vita era comunque più potente perché ovunque la vita continuava a sussistere, se fosse stato il contrario, nulla sarebbe esistito; che la morte stessa quindi, era un’alleata della vita e che il comprenderlo poteva rendere più accettabile la perdita e che spesso, era proprio per questo che capitava di perdere qualcosa o qualcuno: per rendersi conto del privilegio cui eravamo beneficiari per poter, con tale comprensione, realizzare al meglio il nostro dono di esistere e non dover alla fine dei nostri giorni considerare di aver vissuto inutilmente. Ma compresi anche che forse vi era un'altra realtà che si celava nelle parole da lui stesso espresse, e che fossimo veramente noi a decidere di sperimentare la vita e che, di conseguenza, la nostra esistenza non fosse frutto di un caso; compresi che questa esperienza, se così doveva essere, era una nostra scelta perché avevamo deciso di imparare qualcosa, seppure ancora mi era oscuro a quale scopo. Ma tra tutte queste intuizioni, in quell’attimo di tempo fermo, compresi pure che solo attraversando quel ponte potevo vincere i miei timori e che solo seguendolo forse avrei potuto capire come fermarlo, perché ciò che lui voleva era che attraversassi il ponte. Solo allora avrebbe accettato di darmi un’opportunità. Ma quando il tempo riprese a scorrere lui era già sulla riva opposta e proseguiva il cammino mentre un dubbio troppo atroce riconduceva il mio pensiero nel rifugio mentale nel quale non era accettabile ammettere quanto avevo percepito in quei brevi istanti come realtà, e con quel tormentato istinto annientatore, la paura mi fece comprendere che quel ponte, non lo avrei attraversato… Guardai Felona con aria insoddisfatta. -Deluso?- mi domandò allora lei. -Mi aspettavo di scoprire che cosa avesse fatto in quel giardino- ammisi. -Quindi non hai seguito questo capitolo?- si preoccupò. -No, al contrario, l’ho seguito eccome, e devo dire che un po’, almeno all’inizio, mi ha commosso, poi mi ha spaventato. Tuttavia restavo legato al capitolo precedente, mi aspettavo che succedesse qualcosa che ci avrebbe ricondotti a quel giardino, in modo da capire quale fosse la giusta domanda-. -Credo che non vi sia una giusta domanda, penso che vi siano molte domande e che tutte portino semplicemente alla risposta che noi desideriamo, che non sarà necessariamente quella giusta. In questo momento però, mi piacerebbe capire qualcosa di più sulle tue sensazioni, hai detto di esserti emozionato e poi di aver avuto timore, perché?- -Non mi stai psicanalizzando vero?- -Lo faccio in ogni momento se è proprio questo che vuoi sapere, quindi non chiederlo più e se la cosa non ti va a genio, puoi proseguire da solo- si indignò. -No, va bene, scusami, io stavo scherzando. È ovvio, siamo due professionisti che non riescono a dividere il piacere dal lavoro ed è comprensibile…- -Allora? Vuoi temporeggiare o preferisci proseguire?- si spazientì mentre io non potevo cancellare il mio imbarazzo. -Va bene, va bene, non ti innervosire- riflettei cercando di prendere tempo -è che continua a tornarmi la sensazione che tu sembri precederlo ogni tanto- ammisi. Lei mi guardò sorpresa, non so se dallo stupore per non averlo notato o se per quello che poteva sembrare un complimento di perspicacia -che cosa intendi?-. -Hai accennato solo questa mattina al detto sull’ignoranza, ed ecco che questo lo introduce nel successivo passaggio. Tommaso non vuole sapere che cosa sia avvenuto in quel giardino e lo giustifica

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proprio attraverso l’ignoranza, in modo da far comprendere che il non sapere spesso semplifica le cose. Ma lui certe cose già le conosce, la sua ignoranza è precisamente solo un ignorare, un fingere di non sapere. Poi sembra sfidare il destino e la sua sfida alla fine gli si ritorce contro. La storia del vecchio mulino è triste, ma la presunta presenza degli spiriti la rende un po’ lugubre… e per finire c’è quel ponte che ogni tanto ritorna. Il fatto è che è molto confuso e non capisco il perché di questo passaggio. Voglio dire, l’autore ci racconta una vicenda ma non la conclude lasciandola in sospeso, e poi passa oltre raccontando qualcosa che sembra non avere alcun collegamento…- -E così non riesci a vederne il nesso?- -No, proprio mi confonde- risposi, ma non evitai di notare quasi un distacco in lei, come se ancora stesse in parte pensando a ciò che le avevo fatto notare io poco prima. -Eppure ancora una volta ti rispondi da solo, dovresti ascoltare di più ciò che dici- si affrettò a riferire dopo un attimo di esitazione . La guardai con inevitabile smarrimento -non capisco- ammisi. -Lo hai detto tu stesso: non capisci il perché di questo passaggio e poi aggiungi che lascia tutto in sospeso. Ebbene, il ponte ha una chiara connotazione simbolica, rappresenta il collegamento tra una riva e l’altra e un ponte è sempre sospeso. È un passaggio, e in quasi tutte le tradizioni i ponti che rappresentano collegamenti di tipo spirituale, sono definiti ponti spada, che si assottigliano sempre più divenendo sottili fili taglienti. Rappresentano le difficoltà e la necessità di affrontare prove pericolose. Il ponte rappresenta una tradizione fra due stati interiori in conflitto, tuttavia è necessario attraversarlo. Eluderlo, come ha fatto Tommaso fino a ora, non risolve nulla…- -Quindi questo capitolo altro non è che una riva opposta? Scoprire che cosa ha fatto in quel giardino dipende dal capire il senso di questo intermezzo?- -Credo che il giardino ci svelerà molte cose, ma evidentemente prima di raggiungerlo bisogna comprendere altre condizioni, percorrere altre vie-. -Una via che passa sopra un ponte, e sotto il quale scorre un fiume… e il fiume rappresenta la vita che scorre, giusto?- -Il fiume rappresenta molte cose, lo scorrere dell’acqua può rappresentare il procedere delle forme, della fertilità, della morte e del rinnovamento. Si può considerare la discesa delle acque verso l’oceano, la risalita della corrente e anche, la traversata da una riva all’altra. Direi che quest’ultima concezione è quella più attinente al nostro caso e la traversata corrisponde al superamento di un ostacolo che separa due ambiti. Tommaso non riesce ad attraversare il ponte, e tutto ciò che sta apprendendo da Demetrio a mio avviso, non sono altro che nozioni, o protezioni se le vogliamo vedere in questo modo, per attraversare il ponte-. -Protezioni?- domandai sempre più confuso. -Esistono tradizioni iniziatiche che fanno uso dei sogni per giungere a determinate consapevolezze, ma i sogni sono pericolosi-. Sorrisi -vedi che faccio bene a non sognare?- tornai a ironizzare. Lei non si lasciò influenzare dalla mia scortesia e proseguì -sognare è una pratica naturale e quando questo avviene non si corre nessun rischio perché si resta in una sfera personale, protetta. Ma quando il sogno è indotto e quindi si compie un viaggio forzato, secondo queste tradizioni, si fa irruzione in una dimensione proibita nella quale non si potrebbe entrare. È come se si possedessero le chiavi di un palazzo proibito al pubblico. Chiunque si introduce in questo palazzo è soggetto alle misure di sicurezza di tale ambiente e necessita di protezione per poter proseguire. Oppure come quando si viaggia in uno stato straniero, per passare la frontiera hai bisogno di un passaporto, poi necessiti di una guida e di qualcuno che garantisca per te se devi fare determinati affari. Ecco, è così che funziona, se non possiedi questi requisiti, sei a rischio di ogni legge di quel luogo-. -E il passaporto, la guida e i garanti li devi avere prima di partire giusto?- -Esatto-. -Quindi Demetrio gli sta offrendo queste garanzie?- -È una possibilità- osservò l’orologio -è ora, il castello sta per aprire, andiamo a visitarlo?- Restai un po’ incerto, tutte quelle novità che io mai avevo considerato cominciavano a prendere in me una certa attrazione, ma come succedeva con lo scritto, cominciavo a pensare che ogni cosa richiedeva

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dei tempi per essere ben compresa, rinunciai quindi a insistere per avere altri dettagli e accettai di optare per la visita. Giunti al castello fummo accolti da una giovane commessa che ci osservò stupita quando la informammo che eravamo interessati alla visita. Disse di attendere un attimo e si allontanò, la sentimmo quindi discutere con quella che doveva essere la responsabile. Dopo un po’ tornò -scusate- ci disse -ma non siamo preparati a ricevere visitatori nei giorni feriali-. -Davvero?- domandò Felona apparentemente interessata -eppure la guida dice che si tratta di una località piuttosto frequentata dal turismo- sventolò il piccolo opuscolo che aveva preso all’entrata. La giovane commessa bionda sorrise imbarazzata -sì infatti. La nuova giunta comunale ha puntato molto sul turismo e ci stiamo impegnando parecchio, ma ancora non siamo a livelli professionali. Nei giorni festivi abbiamo diverse comitive, l’assessorato alla cultura è riuscito a prendere accordi con l’ufficio del turismo della città e alcuni operatori turistici hanno inserito le fonti di interessi di questa zona tra le loro attrattive. Quelle che arrivano per il momento sono comitive organizzate di stranieri in visita alla città. Sono pochi ancora i turisti fai da te, specie nei giorni feriali come dicevo- spiegò, poi ci invitò a seguirla e con orgoglio cominciò a descriverci il maniero, dalla storia alla struttura ai reperti che erano situati nelle varie sale. -La torre di sinistra, recentemente ristrutturata è sicuramente la parte più importante- ci disse guidandoci verso le scale che la salivano -da sopra si può osservare quasi tutto il centro e avere una visuale del territorio circostante- ci informò, e una volta giunti sul terrazzo del torrione restammo piacevolmente meravigliati da un panorama che non avremmo immaginato. Valbordi era situato in una specie di conca e dal basso non si sarebbe detto che la valle che lo circondava fosse così entusiasmante. Oltre il piccolo centro storico e le abitazioni circostanti, si poteva osservare una distesa di campi coltivati, ma anche una serie di boschi e prati dove, tra uno scorcio e l’altro si poteva osservare lo scorrere di quello che si poteva definire un fiume. -Meraviglioso- commentò Felona -quello è un fiume?- -Sì- rispose la ragazza -non è un fiume importante, ma si raccontano leggende su di esso-. -Davvero? Che tipo di leggende?- si interessò Felona, e anch’io cominciai a sentirmi attratto. -Beh, ce n’è una in particolare che riguarda una creatura mitologica, che racconta di una guerriera invincibile perché si diceva essere una semidea, figlia di una divinità. La storia ce la consegna come una combattente di natura nordica durante il periodo delle invasioni avvenute nel medioevo, di essa si racconta che era una condottiera e che il suo esercito era imbattibile. Probabilmente la storia tramandata oralmente ha contribuito e elevarne il prestigio e poi il folklore locale l’ha trasformata in una sorta di eroe mitologico-. -Chi è la protagonista di questa leggenda? Io sono molto attratta dalla mitologia- non so se Felona era sincera o cercasse solo di scoprire qualcosa, ma propendevo più per la sua leale sincerità, sembrava proprio interessata alla leggenda. -Era chiamata Marantega- svelò allora la giovane -si diceva che fosse una creatura acquatica, figlia di Reititia, una dea pagana dell’antica civiltà veneta, e che non fosse una vera guerriera ma piuttosto una protettrice della natura…- non nascondo lo stupore che entrambi provammo a quella prima descrizione. Io ricordai di come nei primi capitoli del documento ci fossero stati degli accenni a questo nome: “Marantega”, seppure descritto come uno spirito delle natura, ma il collegamento era chiaro, perché la ragazza stessa l’aveva definita una protettrice della natura e se lo avevo notato io, di certo non poteva non averlo fatto Felona. -Lei offriva i suoi servigi a chi rispettava la natura, combatteva per la protezione della natura e quindi, secondo la leggenda privilegiava gli eserciti i cui condottieri avevano un occhio di riguardo per il territorio. La statua che sta al centro della piazza la rappresenta perché è divenuta il simbolo del paese. È stata prodotta da un artista locale e il progetto prevede che attorno venga costruita una fontana per suggellare la sua appartenenza al regno acquatico, un po’ come nelle grandi città d’arte. Si racconta che Marantega fu tradita da uno dei condottieri per cui combatté e che restò vittima della sua stessa vendetta…- Io e Felona ci osservammo increduli di sentire così tanti collegamenti con la nostra vicenda in quel racconto -come si chiama il fiume?- domandò poi improvvisamente Felona interrompendo la ragazza nel momento in cui sembrava entusiasmarsi di più.

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-Quello?- sembrò incerta sulla risposta -si chiama Tregnon…- Lo avevamo trovato. -Ma è un fiume minore, sebbene il suo ruolo nella leggenda sia di fondamentale importanza. I racconti folcloristici lo hanno designato come dimora della Marantega e attorno alle sue rive, in alcuni tratti almeno, il progetto dell’ente ambientale prevede siano costruiti dei parchi naturalistici…- -E il mulino?- la interruppe di nuovo Felona, e la ragazza a questo punto la guardò con sospetto. -C’è un progetto sul mulino, ma lei come fa a sapere della presenza di un mulino? Non è ancora stato inserito nell’opuscolo- domandò. Felona dovette intuire il suo azzardo e cercò, con successo devo dire, di rimediare. -Avevo uno zio che abitava da queste parti e siccome io scrivo su un giornale, quando ho saputo del tentativo di rilanciare turisticamente questa zona ho pensato di venire a vedere. Pensavo che il mulino fosse compreso tra le attrazioni…- La ragazza parve rianimarsi al sentir dire che la sua visitatrice era una giornalista, e ogni suo sospetto e reticenza svanì -lungo le rive del fiume c’è un mulino è vero, ma a dire il vero è fuori dei confini di Valbordi, anche se sta sempre nel suo territorio, è nella frazione di Casterba e c’è un progetto per ristrutturarlo e renderlo un ristorante dove proporre piatti tipici…- -Casterba?- lo esclamammo assieme e lo stupore della giovane fu decisamente evidente. -Sì- disse un po’ riluttante. Felona, più svelta di me a riprendere le redini della situazione rimediò abilmente a quell’impulso simultaneo che avrebbe generato sospetti perfino nel più ingenuo dei custodi di castelli. -Qui non si fa accenno a nessun Casterba, e nemmeno sembra segnato sulle cartine geografiche- obiettò. La ragazza non nascose un leggero impaccio -sì, la storia di quel paese è un po’ complicata. Non lo si può più definire un paese ormai perché è una sorta di borgo disabitato. Lì la giunta comunale ha difficoltà a intervenire perché tutte le terre sono di proprietà di una grande multinazionale agricola, tuttavia si è recuperata la chiesa del quindicesimo secolo sulla quale si stanno facendo studi dei suoi affreschi, poi c’è il mulino e in fine, la parte più complessa, la ristrutturazione del vecchio parco giochi proprio sulle rive del fiume…- A quelle parole entrambi osservammo la giovane guida come se di fronte a noi ci fosse veramente la Marantega. -Perché il paese è stato abbandonato?- domandò Felona. La giovane abbassò gli occhi come se quella di Casterba fosse una ferita che non si voleva commentare. -Beh, riguardo la leggenda e il folklore locale, gli anziani di un tempo solevano spaventare i bambini raccontando che Marantega era una specie di strega che viveva tra le acque del fiume e nei pozzi. Facevano questo perché volevano intimidire i bambini in modo che stessero lontani dalle zone di pericolo, ed era una soluzione efficace. Poi, col tempo queste condizioni mutarono, i ragazzini non subivano più certe influenze e così un imprenditore fece costruire un parco per le famiglie e lo intitolò alla Marantega, a quel punto la figura mitologica venne mutata in protettrice. Per far sì che i bambini frequentassero il parco con le famiglie, veniva raccontato che la Marantega proteggeva le acque e che il parco era sicuro perché lei vegliava sui suoi ospiti. Questo avveniva sempre per fare in modo che i bambini giocassero nel parco e non si allontanassero, era un sistema per averli sotto controllo e una speranza per assicurare un futuro al paese. Il desiderio dell’imprenditore era che Casterba non venisse dimenticato e attraverso il ricordo delle tradizione indurre i giovani a non desiderare trasferirsi in altre località. Ma tragicamente, fu proprio questa nobile iniziativa a generare la sorte avversa, come se il destino cui si cerca di fuggire finisca per essere incontrato proprio sulla via per evitarlo…- provai un brivido perché per un momento mi sembrò di trovarmi di fronte non ad una giovane guida inesperta, ma piuttosto, un’anziana saggia spuntata da un’illusione allucinogena di un tempo passato… -e una volta, un ragazzino più spavaldo degli altri si allontanò dalla zona protetta sotto la sfida di non temere le altre aree del fiume esterne al parco, forte della convinzione che ad ogni modo, in quello stesso fiume non vi erano pericoli. Ma vi è un luogo lungo il fiume in cui la conformazione geologica lo rende quasi, seppure per un breve tratto di non più di una trentina di metri, simile ad un torrente di montagna dove si formano piccole cascate e la corrente sembra farsi turbolenta. Questo ragazzino si avvicinò a

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quel punto e per dimostrare il suo coraggio ai coetanei, nel tentativo di attraversare sui sassi scivolosi finì per cadere nell’acqua. Il panico fece il resto e il piccolo annegò. La tragedia sembrò gettare sul paese una specie di maledizione, anche perché gli altri bambini cominciarono a raccontare di aver visto una creatura afferrarlo e tirarlo giù. Quando il corpo del ragazzino fu tirato fuori dall’acqua vi erano rami spezzati aggrovigliati attorno alle sue gambe. Rami secchi che dovevano essere caduti nel fiume dagli alberi del bosco vicino e che probabilmente causarono un senso di allucinazione nei compagni che li indusse a credere che quei rami fossero gli artigli della Marantega, e così un po’ alla volta il parco cominciò ad essere abbandonato giacché i bambini cominciarono a temerlo. Successivamente l’imprenditore che aveva costruito il parco cedette tutte i suoi possedimenti alla multinazionale e l’avvento delle tecnologie industriali rese la manodopera quasi totalmente superflua riducendo la forza lavoro di una percentuale drastica, così con il decadimento della risorsa lavorativa più grande che era appunto l’agricoltura, scomparve gran parte delle risorse occupazionali. I giovani cominciarono ad abbandonare il paese mentre i vecchi si trasferivano con loro o finivano in qualche casa di riposo, o a riposare nei cimiteri… quindi la grande industria un po’ alla volta si impossessò di tutto e ora ciò che resta del paese sono pochi ruderi, un cimitero quasi abbandonato e qualche piccola risorsa che si sta cercando di recuperare- concluse la triste storia. Felona attese in reverenziale rispetto, poi domandò -è lontano questo paese fantasma?- Scoprimmo che distava poco più di cinque chilometri in direzione sud e subito pensammo che dovevamo andarci, ovvero, io lo pensai, Felona, preferì attendere. Così rientrammo all’hotel e dopo una doccia e prima di pranzo, nella camera di Felona, mi accomodai per sentire leggere:

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Il battito di un cuore lontano… …Tornando a casa ebbi come l’impressione di essere un giocatore di scacchi la cui scacchiera aveva come caselle nere il passato e bianche il futuro, racchiuse da una cornice di legno che, come quel ponte, rappresentava un’esile presente. Su questa scacchiera non vi erano molte pedine, o almeno non ve ne erano molte nella partita che stavo giocando io. L’unica cosa certa era che a condurre il gioco, non ero io. Forse avevo fatto le mosse sbagliate e forse era giunto il tempo di cambiare gioco. Non mi restava molto tempo, con Demetrio avevo già sprecato due giorni senza concludere niente se non lasciarmi trascinare ulteriormente in contesti dai quali mi ero staccato da troppo tempo e nei quali non volevo essere ricondotto, così, intuendo che non sarei riuscito ad allontanarlo dal suo intento, decisi di dirottare le mie attenzioni sulla controparte in causa. La chiamai la sera stessa, giacché essendo la sua mente meno complessa, farla ragionare sarebbe stato più facile e forse sarei riuscito a convincerla dell’assurdità del loro progetto. Forse sarei riuscito a convincerla della non nobiltà dei principi di colui che era tornato a corteggiarla. Non riconoscevo quale fosse la ragione della mia insistenza, ma era come se percepissi che dallo svolgersi degli eventi di quei giorni, sarebbe dipeso il mio futuro, seppure continuassi a credere che era per il bene di altrui persone che lo facevo. -Ho bisogno di parlarti- le dissi senza nascondere la mia ansia. Lei mi invitò a casa sua, ma non potevo affrontarla davanti alla famiglia, così la esortai a prendere qualcosa fuori. Ovviamente non potevo sperare che un appuntamento così improvviso non mancasse di imprevisti e giustamente lei, per ovvi motivi che non starò a spiegare, rimandò all’indomani. Mi fu difficile accettare che quel ritardo limitava sempre più i tempi, ma ero fiducioso che lei fosse molto più comprensiva e malleabile di Demetrio. Così disertai l’escursione fotografica del venerdì e attesi il pomeriggio, quando dopo la fine della giornata lavorativa Virginia mi avrebbe atteso per quel drink. Non ci incontrammo al bar del paese, troppa indiscrezione a Casterba. Eravamo seduti al Book, una specie di circolo alla periferia della città. Una sorta di pub letterario dove spesso venivano organizzate serate culturali e dove l’atmosfera era accogliente e tranquilla. Parlammo un po’ di noi, ma non passò molto tempo perchè il dialogo si indirizzasse all’argomento per cui l’avevo invitata. Dopo un po’, infatti, senza tanti giri di parole, lei stessa mi invitò a esprimere ciò per cui avevo apprensione. Cercai di introdurre l’argomento e i miei relativi dubbi con discrezione, ma mi accorsi dall’espressione delusa di lei quanto l’indiscrezione fosse superflua. -Mi sembra di trovarmi a una sera di più di vent’anni fa Tommaso, solo che al posto tuo c’era lui- disse -con lo stesso imbarazzo e con una risposta da dare che sapevo bene quale fosse ma che mi costava una gran fatica. Fosti proprio tu a mettermi in quella condizione ricordi?- sorrise. Io non potei evitare di fare lo stesso -eravamo dei ragazzi allora, tu avevi solo diciassette anni. Le cose sono cambiate te ne rendi conto vero?- Con uno sguardo rivelatore mi fissò indignata -oh certo che me ne rendo conto. Sono cambiate molte cose Tom, e tutte sono andate nel modo inverso a come le avevamo previste- parlò al plurale, come se intendesse coinvolgere anche me in quel suo ricordare, e forse era proprio questa la sua intenzione, solo che io non compresi se voleva rendermi responsabile con l’intenzione di farmi notare che pure io non avevo esattamente avuto ciò che speravo, o se la mia complicità era relativa solo a quel particolare periodo della nostra vita. Optai per la seconda alternativa perché in realtà io non credevo che la mia vita fosse un fallimento. -La mia vita non è stata come l’avevo immaginata. Ho rinunciato a molte cose. Dovrei dire di essere felice è vero, ho un lavoro, una famiglia, una figlia adorabile… eppure è come se non avessi nulla. È tutta qui la vita Tom?- La domanda mi spiazzò perché non so in quante occasioni io stesso mi fossi posto la medesima questione e nemmeno so quale sia stato il momento in cui tale concetto fosse sorto. Forse è un po’ come il sonno che ti coglie nell’istante in cui non lo puoi concepire. Così come nessuno può dire quale sia il momento in cui si passa dalla veglia al sonno, allo stesso modo nessuno probabilmente percepisce quale sia il momento in cui la vita passa dall’entusiasmo alla noia. Ma il mio silenzio fu piuttosto rivelatore perché ormai io dalla vita non mi aspettavo altro e l’unica risposta che potevo dare

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era che sì, la vita era tutta qui. Ma io non avevo molto su cui recriminare data la circostanza che in fondo mi costringeva a condividere l’opinione di chiunque mi conoscesse che ero nato fortunato e che non avevo mai dovuto realmente affrontare problemi dai quali non avrei potuto uscirne senza una soluzione, vista la mia posizione privilegiata, e da questo silenzio lei dovette percepire una sorta di tradimento. Forse si aspettava che io le dicessi che non era così, che nella vita vi erano molte altre cose oltre l’avventura e la notorietà, ma non avevo colto quel momento in cui si dovrebbe comprendere che a volte mentire è più utile della verità, e in quella nota di desolante ammissione silenziosa, ella ebbe il pretesto per fare le sue rivelazioni. -Lui mi ama ancora Tom- disse con fermezza, e io percepii come se la terra sotto i piedi si sgretolasse privandomi della solida stabilità su cui sempre mi ero appoggiato. -Come fai a dirlo?- -Gliel’ho letto negli occhi- rispose con la più classica delle sentenze. Non riuscii a trattenere uno sbuffo ironico -andiamo Virginia, queste sono frasi da telenovela. Sono passati ventiquattro anni da quella sera. Le persone cambiano, io sono cambiato, tu sei cambiata, e anche lui è cambiato. Lui ti odiava quando se ne è andato- marcai su quelle parole, come se volessi convincere più me stesso che lei, ma non potevo dimenticare come gli occhi di Demetrio fossero diversi a quel tempo. -Perché mi fai questo Tom?- la vidi quasi piangere -se n’è andò perchè non poteva sopportare di starmi vicino senza avermi, e tu lo sai bene. Ero io che lo odiavo. Ma l’odio non è mai stato un sentimento che avrei potuto pensare di coltivare nel mio essere, eppure riuscii a generarlo. Solo dopo ho compreso che non odiavo lui, ma voi-. La fissai sorpreso -io? E cosa c’entro io- replicai non accettando l’accusa. -Fosti tu l’artefice della rivelazione Tom, e conseguentemente l’artefice di tutte le dicerie e le malelingue che ne seguirono. Fu un periodo stressante per me. Era lui l’oggetto di scherno dei nostri compaesani è vero, ma io ero l’oggetto di collegamento per la loro perfidia. Nel perverso desiderio di volerlo umiliare io ero divenuta la leva su cui fare perno e con lui stavo per finire nel bersaglio del crudele disprezzo. Se non l’avessi allontanato da me, sarei rimasta per sempre associata a lui e a tutto ciò che lui rappresentava per Casterba a quel tempo. Io ero immatura e sciocca, ma non riuscivo ad accettare di rischiare di divenire oggetto di derisione, non a quel tempo-. Ripensai al suo cambiamento improvviso e compresi come inevitabilmente, non potevo sottrarmi alla responsabilità di aver avuto un ruolo determinante in tale metamorfosi. -Fu allora che iniziai a conoscere l’odio e le sue varie sfumature. A quell’età si crede di essere adulti, ma si è ancora bambini e la cattiveria che ancora si esprime è la stessa che un bambino manifesta per cercare di apparire più grande. Noi eravamo così, e ogni espediente è favorevole in quelle circostanze per vincere una battaglia. Io presi una decisione: non volevo essere l’esclusa e per far questo dovevo liberarmi di lui e rendermi attraente agli occhi di tutto il resto-. Abbassò lo sguardo lasciando intendere quanto male le faceva ricordare. -Avrei dovuto cercare di conoscerlo meglio, dargli un’opportunità, fregarmene di ciò che si diceva intorno a noi, ma non ebbi la forza per farlo, e il destino mi ha punita-. Il destino, ancora lui si stava intromettendo tra me e la mia missione. Era una parola che tornava troppo spesso in questi giorni e cominciavo a detestarla, imponendomi di non volerla considerare come l’inevitabile segno che solo i più sensibili possono intendere come circostanza. -Avremmo dovuto conoscerlo meglio entrambi- risposi allora intenzionato a non lasciarmi penetrare dall’angoscia -ma forse solo per comprendere che il lasciarlo andare via era la cosa migliore- cercai di intromettere la mia subdola velleità mirata a sconsacrare e rendere angusta la vera personalità di Demetrio, in modo da renderlo meno affascinante di quanto appariva ora ai suoi occhi. Lei mi fissò quasi disgustata. -Cosa vorresti dire? Tu lo veneravi, lo consideravi l’alternativa alla noia, un’isola della mente su cui fuggire… era questo che mi dicevi di lui: poteva condurti dove tu non osavi spingere l’immaginazione, ricordi?-. Era vero, le avevo detto questo e per un istante non seppi come reagire per abbattere quella rappresentazione di lui.

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-Sì, è vero. Ma ero un ragazzo sognante. Allora vedevo il mondo come uno spazio senza confini e Casterba mi spaventava. Il futuro mi spaventava…- inorridendo mi sentii aggredito dalle mie stesse parole, e non osai continuare per il timore di comprendere che stavo rivelando qualcosa a me stesso. Così, fu solo con il pensiero che proseguì la mia frase “pensare di restare confinato a Casterba mi terrorizzava. Avevo tutto un mondo davanti, una vita e un universo che mi attendevano… lui mi permetteva di fuggire da questo terrore… ma se lo avessi assecondato che cosa ne sarebbe stato di me? Il confine di Casterba mi terrorizzava solo perchè sapevo che questo era il mio posto e ancora non sapevo come affrontarlo o meglio, come accettarlo…” non lo espressi, ma nei miei occhi tale comprensione e manifestazione fu evidente, e lei la percepì nella sua totalità. -E non pensi che la stessa paura e gli stessi timori potevo percepirli anch’io? Che cosa abbiamo risolto Tom? Guarda ciò che siamo diventati. Tu sei l’ombra di tuo padre e io una triste illusa, moglie di un marito che rimane legato a questo fallimento di matrimonio per dovere verso sua figlia, non certo verso me. Siamo il fantasma di un passato fatto di sogni, realizzati solo agli occhi di chi ci vuole così. Ci siamo ribellati per orgoglio Tom, ma a che cosa? La nostra disubbidienza ci si è ritorta contro e ora la vogliamo giustificare con un’integrità morale di cui siamo vittime. Credi veramente che sia questo ciò che volevamo dalla nostra vita?- La guardai, ma non potevo cedere a quel momento di sconforto. Lei non capiva che la realtà non consisteva nella visione di Demetrio. -Io credo di sì Virginia. La realtà è fatta di solide certezze e non di teoriche illusioni-. Di nuovo le vidi quello sguardo accusatore -le teoriche illusioni hanno condotto Demetrio lontano, mentre noi siamo ancora qui, nei nostri confini- mi disse e un’intuizione mi diede la possibilità di pensare di aver trovato la via giusta. -Le illusioni di Demetrio lo hanno condotto lontano perché lui ha rifiutato ogni responsabilità Virginia, non dimenticarlo. Ha abbandonato tutto, non si è preoccupato di nessuno, non è nemmeno tornato al funerale di suo padre- mi sentii meschino dopo aver ascoltato e creduto alle giustificazioni che Demetrio, perché si fidava di me, mi aveva confidenzialmente rivelato, ma dovevo giocare tutte le mie carte. -Credi che avrebbe potuto realizzare le stesse cose se si fosse preso qualche responsabilità? Se avesse dovuto provvedere alle esigenze di qualcuno e prendersi cura di una famiglia? Come credi che sarebbe andata a finire tra voi due, pensi che sarebbe riuscito a rinunciare al suo mondo per te?- pensai di aver colpito i suoi sentimenti e aperto una breccia nelle sue convinzioni, ma ancora mi sbagliavo. -Forse non avrebbe realizzato parte dei suoi sogni, ma magari avrebbe realizzato parte dei miei non credi? L’amore del resto non è questo? Rinunciare a qualcosa per qualcuno-. -E’ ridicolo, e tu come ti saresti sentita a vederlo confinato in un perimetro a causa tua?- -La rinuncia deve essere reciproca Tom. Tu sei convinto che avrebbe dovuto essere lui a rinunciare ai suoi sogni e non consideri che avrei potuto essere io invece disposta a rinunciare ai miei? Tu non lo credi possibile perché ritieni che questa illusione di benessere sia corretta, ne devi essere convinto altrimenti rischieresti di intromettere dubbi nella tua realtà che ritieni ancora un valore cui non puoi rinunciare e non capisci di esserne invece schiavo. Così mi vuoi convincere che non sarei riuscita a condividere i suoi sogni, gli stessi che tu mi hai sottratto e che ora vuoi impedirmi di realizzare, ma solo perché tu ne hai paura-. -Paura?- quasi balbettai -ma che stai dicendo? Sembri quasi delirare. Io non ho nessun sogno da realizzare… ho tutto ciò che desidero…- ma nella mia incapacità di reagire con fermezza alle sue rivelatrici parole, che ancora non volevo accettare, la vidi sorridere nostalgicamente. -No Tom. Tu non hai realizzato niente perché i tuoi sogni li hai buttati via, certo che non fossero loro a farti vivere, e ora temi che se io non posso più condividere la tua stessa realtà perché quella di Demetrio mi appare migliore, si possa spezzare quell’instabile equilibrio che hai creato dentro te stesso. Io ti servo così perché tu sei come ogni altra persona di questo vile posto: hai bisogno che tutti siano così come sono per non dover mettere in discussione ciò che tu stesso sei: uno di loro-. Concluse con un’amarezza che mi lasciò senza parole e l’unica cosa che riuscii ad aggiungere fu una specie di supplica -non andare con lui domenica-. Mi guardò sorpresa che io sapessi del suo appuntamento e intuì, di conseguenza, che già avevo cercato di dissuadere lui.

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-Perché, perché insisti tanto Tommaso? In fondo è la mia vita. Vent’anni fa ti sei intromesso e oggi lo fai di nuovo. Cos’è che ti spinge a pensare che cosa sia meglio per me?- Era il bivio, quello che vedevo nel sogno e come nel sogno, non sapevo né come vi ero arrivato, né quale strada prendere. Non sapevo affatto perché lo stavo facendo, ma sentivo un irresistibile bisogno di insistere. -Siamo amici Virginia, ti chiedo di riflettere. Demetrio è ora un uomo affascinante, è facile farsi attrarre da lui oggi, ma sei certa che lui sia la soluzione a quelli che tu consideri i tuoi problemi? Non ci pensi alla tua famiglia, a Massimo, a Nausica, loro che cosa c’entrano, come reagiranno?- Mi guardò silenziosa e in lei parvero scorrere infiniti pensieri. -Massimo- sospirò delusa -amava la mia immagine e quando la donna fatale che ero divenuta tornò ad essere la donna semplice che sono sempre stata, ha cercato quell’immagine altrove. Avrei dovuto continuare a fingere di essere ciò che non sono perché lui mi restasse fedele. Ma quanto sarebbe durata? Uno come lui non resiste al richiamo dell’istinto. Tu non lo conosci come lo conosco io. Ha cominciato a tradirmi dopo pochi mesi che eravamo sposati e ancora mi domando come sono riuscita a sopportarlo… forse per quella debolezza che a volte costringe noi donne a sentire comunque l’esigenza di avere qualcuno vicino per quell’istinto più animale che umano in cui la femmina ricerca la protezione del maschio… o forse solo per rispettare quell’immagine che gli altri vogliono vedere di te mostrando che tutto va bene…- fece una pausa e io quasi mi lasciai coinvolgere dal dramma di quella tristezza. -Ma da quando c’è Nausica le cose sono cambiate- dissi. Vidi il suo volto illuminarsi, ma di una luce fredda perché Nausica era tutto ciò che ancora le faceva credere che la vita non era un tormento e sorridendo parve condurre il suo sguardo altrove. -Sai Tom- riprese allora con voce calma e suadente -una notte d’estate di qualche anno fa, Nausica è venuta in camera mia, così come fanno i bambini quando fanno brutti sogni, ti è mai capitato con tuo figlio?- Sorrisi -sì certo- dissi, poi lei proseguì. -Si avvicinò e io le domandai che cosa succedeva. Lei mi fece una domanda strana. Non aveva fatto brutti sogni, mi domandò se anch’io sentivo la voce della notte…- Un brivido mi trapassò il corpo intero e la voce di Virginia quasi si dissolse come un eco lontano, e al suo posto percepii quella di Demetrio… “…È un suono che sembra un’eco che pare allontanarsi e poi ritorna, sembra un battito, un battito di cuore lontano. Tu lo senti mai?” Eravamo sulle rive del fiume quel giorno. Erano i giorni in cui lui mi rivelava i suoi segreti e mi insegnava ad ascoltare la voce degli spiriti “sarà un gufo” avevo cercato di dargli una spiegazione io. Lui aveva atteso “all’inizio lo pensavo anch’io, ma una notte andai nella stanza della mia sorella più giovane, e le domandai se anche lei lo sentiva. La sua stanza dava sullo stesso lato della mia e d’estate le finestre erano sempre aperte. Lei non lo sentiva, eppure era ben chiaro anche lì”. Io, solo una volta, e solo per pochi secondi, ebbi l’impressione di percepire nel cuore della notte, un’eco, ma il tutto durò solo pochi istanti e la mattina nemmeno lo ricordavo o forse, avevo semplicemente deciso di dimenticarlo. Fu quello il tempo in cui le conversazioni con Demetrio cominciarono ad inquietarmi e fu quello il tempo in cui cominciai ad ignorare le voci degli spiriti, finché non le sentii più. Quando la mia mente riprese il controllo sentii la voce di Virginia ricondurmi nel mondo reale…” -…Diceva che quella voce sembrava il battito di un cuore che proveniva da lontano. Un genitore normale l’avrebbe assicurata che non esistono cose del genere, che forse quello che sentiva era un gufo o qualche altro effetto notturno. Ma in quel momento percepii come se, privarla di quel suo fantasioso mondo, avesse equivalso a privarla di una personalità pura, genuina, ingenua forse, ma naturale e sincera. Era come se per lei quella presenza fosse importante e non rappresentasse una minaccia, ma piuttosto una protezione. Le sorrisi e le dissi che era la voce delle fate, e che non doveva avere paura. Fu un sorriso quasi ingenuo il suo mentre rispondeva che lei non aveva paura, ma che voleva sapere se anch’io le sentivo. A quel punto avrei dovuto dirle che quando si diviene adulti, le fate e le voci buone non si sentono più, ma la verità è che io spero che lei possa continuare a sentirle. Le dissi semplicemente che non tutti le possono sentire, ma quando se ne andò io mi misi in ascolto, ma non sentii alcun battito. Perfino il mio cuore sembrava fermo- bevve un po’ d’acqua -guardami Tom,

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guarda entrambi. Lui mi ama come quando aveva sei anni, e quello era un amore puro. Mi ama come quando mi rivelò il suo amore quando ne aveva sedici, e quello era un amore ferito, e mi ama come quando se ne andò perché ormai quello era un amore insopportabile. Tu mi dici che dovrei pensare a quello che faccio, a non essere egoista. Ma tra me e Massimo ormai non vi è più amore. Certo Nausica ha avuto il potere di renderlo responsabile, di riavvicinarlo alla famiglia, ma noi due siamo quasi estranei. È lei a tenerci uniti, ma in che modo? Vent’anni fa io avevo dei sogni, sapevo che la mia vita non sarebbe stata quella di una principessa, ma l’avevo immaginata come una cosa speciale. Credevo che il vincolo del matrimonio avrebbe incatenato anche l’eterno amore. Non volevo avventure strane o ricchezze improvvise, ma solo un po’ più di attenzioni e un po’ più di tempo per la famiglia. Sai, quei giorni trascorsi tutti assieme in un parco o fare qualche viaggio. Ma se mi guardo oggi, vedo questo giorno che è la fotocopia del giorno prima e del giorno dopo. So qual è il mio futuro semplicemente guardando il mio passato. So che domani mi alzerò presto, preparerò la colazione, accompagnerò mia figlia a scuola, farò la mia giornata lavorativa tale e quale a quella del giorno prima, tornerò a casa la sera, preparerò da mangiare, guarderemo un po’ di televisione senza dirci nulla e poi andrò a dormire. Forse faremo l’amore, ma non sarà piacevole, sarà solo uno sfogo, e il tutto, solo per ricondurmi a ricominciare, ogni giorno uguale all’altro, giorno dopo giorno, in una noia continua, nella quale neanche il classico imprevisto che può accadere, non ha più la possibilità di cambiare qualcosa- tacque per un po’, e io compresi che era per impedire alle lacrime di rivelare la sua voglia di piangere -io non voglio che questo sia il futuro di Nausica, non voglio questo per lei. Io voglio che lei continui a sentire la voce della notte, voglio che continui a sentire quel battito di cuore lontano, e che abbia il desiderio di andarlo a scoprire. E voglio sentirlo anch’io- concluse. Avrei dovuto stare in silenzio, avrei dovuto capire. Ma c’era l’orgoglio dell’uomo in me e soprattutto, la paura di quel risveglio che io non volevo più sentire, perché farlo, avrebbe significato compromettere l’equilibrio che Virginia aveva messo in discussione e che non potevo permetterle di guastare. Accettare le sue condizioni significava mettere in discussione troppe cose e tutte le certezze che ero riuscito a costruirmi in tanti anni -e tu credi che Demetrio possa darti questo?- -Tu dovresti saperlo meglio di me, o te li sei dimenticati quei tempi? Ti tuffasti dalla collina nella gola del Tregnon per fare colpo sui ragazzi e sulla ragazze, ma non riuscisti a nascondere a me che fu lui a rivelarti il segreto del fiume, te lo ricordi?- la sua voce si fece minacciosa e un po’ mi spaventò. Balbettai qualcosa imbarazzato, ma poi mi ripresi -erano solo fantasie di bambini. Eravamo suggestionati dai racconti degli anziani, oggi chi ci crede più?- -Forse Tom. Ma senza di lui non lo avresti fatto-. Più la conversazione andava avanti e più ne perdevo il controllo al punto che la rabbia stava prendendo il sopravvento su di me, e la rabbia, si sa, non è mai una buona alleata. Non rispondevo più alle insinuazioni di Virginia perché ormai ero stato sopraffatto anche da lei. Avevo pensato che sarebbe stato facile con lei perché immaginavo che la sua mente fosse ancora incontaminata dai sogni e dall’impossibilità di realizzarli. Credevo che la sua mente fosse incapace di concepire alternative ad una realtà che doveva essere così come era, ma mi ero sbagliato e il tempo aveva finito per contagiarla ed ora, incapace di somministrarle quella medicina che un tempo aveva immunizzato me da tale contagio, reagivo col puro intento di far apparire Demetrio come un’eresia verso l’unico dio venerabile: la realtà. E così facendo non mi rendevo conto di pormi al livello di chi un tempo lo considerava un’anomalia. -Demetrio è tornato per fermasi, per mettere radici. Non ti proporrà una vita avventurosa Virginia, non sarai al suo fianco per viaggiare per il mondo e l’impegno che sta per prendere con il gruppo editoriale probabilmente lo porterà a diventare un uomo qualunque, un dirigente che sarà più impegnato col lavoro che con la famiglia. E dovrai trasferirti, portare Nausica lontana da qui. Rifletti. È veramente questo che vuoi?- -Forse sarà come dici tu, ma per un po’ almeno, potrò provare l’amore vero e forse Nausica, potrà parlare liberamente del suo cuore notturno-. -L’amore vero?- scattai con impulsività -tu lo hai respinto vent’anni fa, non ti è passata per la mente che lui possa essere tornato per vendicarsi?-

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La vidi rattristarsi -dove trovi tanta rabbia Tom?- mi domandò delusa, ma io ero incapace di controllarmi ormai e pur riconoscendo di averle provocato un dolore, ero convinto che se continuavo su quella via l’avrei persuasa a rinunciare. -Non c’è nessun cuore notturno Virginia, e Demetrio non è il padre di Nausica- le ricordai, ma quel mio commento parve sortire un effetto imprevisto. Lo sguardo di Virginia mutò in un’espressione dall’apparenza perfida nel quale mi sembrò quasi di percepire una sorta di accusa -avere figli non significa essere padri…- si interruppe come se avesse il timore di dire cose che non avrebbe voluto, quindi rilassò tutte le sue ire e con espressione di sentenza aggiunse -Domenica andrò con lui e tu non lo puoi impedire, e domani lui sarà alla scuola a parlare con i bambini. L’ho invitato perché possa raccontare loro di cose diverse da quelle che sentono continuamente. Forse il loro futuro è già segnato, diventeranno ingegneri, commercialisti, imprenditori, infermieri, avvocati o semplici operai, ma almeno così sapranno che vi sono anche altre cose nella vita e chissà, magari qualcuno di loro troverà la sua ispirazione…- Provai un brivido che potrei definire mortale. Subito il pensiero corse a mio figlio Dennis, che sarebbe stato tra i bambini che lo avrebbero ascoltato e l’istinto mi portò ad un’ultima reazione prima di permetterle di allontanarsi -commetti un errore Virginia. Demetrio non è più quello che credi. Lui venera la tristezza come un Dio e afferma che la sofferenza è necessaria. Credi veramente che sia questo ciò che i tuoi alunni devono ascoltare?- Si fermò e per un attimo supposi di vedere dubbio in lei, ma ancora una volta mi sbagliavo. -Se ritiene che tristezza e sofferenza siano indispensabili non credi che la ragione possa trovarsi in una sorta di sperimentazione? Ma tu come puoi saperlo? Non hai mai sperimentato né l’una né l’altra- Restai in silenzio e incapace di rispondere la osservai allontanarsi, cercando di capire che cosa era andato storto. Avrei dovuto dominare la situazione, ma non avevo valutato che dominare condizioni di quel genere significava dover dominare l’avversario e la mia, sebbene mascherata da un intento bonario, era stata un’aggressione che mi si era rivolta contro e travolto dagli eventi che non riuscivo a controllare, perdendo la cognizione del tempo mi trovai ad un certo punto a passeggiare nell’oscurità della notte mentre rientravo e pensavo a Demetrio che la mattina successiva avrebbe parlato ai ragazzi delle scuole elementari. Era l’ultimo giorno che avevo a disposizione per vincere la mia guerra e già comprendevo di averla persa. Glauco era infine riuscito a sconfiggere Diomede, non con la forza ma con la perseveranza e l’astuzia. Solo che l’astuto guerriero non sembrava soddisfatto della semplice sconfitta, lui voleva distruggere ogni memoria del nemico e qualcosa di peggio della sconfitta personale mi tormentava. Tra coloro che l’avrebbero ascoltato l’indomani c’era anche mio figlio, Dennis, e mentre già cominciavo a preoccuparmi che anche lui potesse subire il suo contagio riflettendo su cosa avrei dovuto raccontargli per dirottarlo da ciò che avrebbe sentito dirgli, la memoria tornò nuovamente indietro nel tempo... -Perché non le rivela che Nausica è figlia sua?- domandai pensando che quel passaggio fosse estremamente importante. -È in una sorta di trappola. Lei vive un triplo conflitto e non può risolverlo perché è più sola degli altri- rispose Felona avvicinandosi al computer portatile. -Che cosa intendi?- domandai confuso dalla sua affermazione. -Non conosci l’universo femminile vero? Tommaso ignora che Nausica è sua figlia e si è costruito un castello che lo ripara da ogni pericolo. In questo momento non potrebbe accettare una simile rivelazione perché la considererebbe solo un tranello, un espediente per cercare di dover prendere una decisione e schierarsi. Lui è troppo radicato ormai nelle sue certezze, ha rifiutato ogni sua convinzione e tradito la fiducia in se stesso e in ciò che sapeva di essere per diventare ciò che gli altri desiderano che sia. Una tale rivelazione significherebbe fargli crollare il castello addosso e schiacciarlo sotto il peso di responsabilità che non è disposto e non vuole accettare. Virginia lo comprende bene perché, al contrario, di castelli deve averne abbattuti molti. Ha visto crollare il sogno del vincolo matrimoniale, deve celare il segreto di una falsa paternità, fingere con la figlia e convivere con tali angosce e poi, il dramma più devastante: il senso di colpa. L’odio che l’ha devastata, il castello più grande, sotto il quale è stato sepolto l’unica figura nobile di tutta la vicenda: Demetrio. Lei combatte tre draghi che sa di non poter sconfiggere ed è costretta a tenere ben chiuso il suo scrigno perché, come vedi, nessuno è

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disposto ad aiutarla. Tutti combattono per se stessi, in questa vicenda non vi è un eroe, un cavaliere pronto a salvare la principessa rinchiusa nella torre, e il drago, sempre più insofferente, rischia di bruciarla col fuoco che gli arde nel petto-. Compresi che con la metafora del drago e del fuoco Felona intendeva la condizione interiore di Virginia e per un momento provai una infinita angoscia. -Sai- le dissi -io comincio a sperare che tutta questa vicenda sia veramente solo il frutto di un racconto di fantasia-. Lei mi guardò dopo aver finito di allacciare i collegamenti con la rete telefonica del computer -cominci ad avere compassione per i protagonisti?- mi domandò. -Solo per questa donna, gli altri mi sembrano tutti dei falsi filantropi- dissi, poi la osservai mentre cominciava a lavorare sul computer -ma che stai facendo?- le domandai. -Cerco qualcosa di più su Casterba. Se è esistito ci sarà pure una traccia da qualche parte- provai un brivido. -Spero quasi che ti stia sbagliando e che non ci sia nessuna traccia. Questo paese comincia a mettermi i brividi con tutte quelle storie di spiriti. Ma che cosa cerchi di preciso?- -Il bivio- disse lei, e io di nuovo rabbrividii -l’autore fa spesso riferimento a questo bivio, e su questo Casterba racconta vicende alternative. Gli spiriti cui fa riferimento hanno origine tutti da lì. La Marantega, il battito del cuore notturno, gli spiriti della natura e poi, in quest’ultima lettura, Virginia accenna alle fate della natura, ma Nausica non fa riferimento a fate o spiriti, lei parla solo di un’eco che le ricorda il battito di un cuore lontano-. -E allora?- -Le fate sono il simbolo della magia, dello spirito e dell’immaginazione. Rappresentano la trasformazione che può esaudire o eludere i desideri più ambiziosi e nella concezione umana rappresentano i progetti che non si sono mai potuti realizzare. Virginia da un chiaro segnale di ciò che vuole ma allo stesso tempo ammette le difficoltà della loro realizzazione, cerca un aiuto e questo aiuto lo vede nella possibilità di concedere a Nausica ciò che a lei è stato tolto-. -E stai cercando questo su internet?- Scosse la testa -no, cerco informazioni sul bambino annegato. Hai mai sentito dire il detto “state attenti a ciò che desiderate perché potreste ottenerlo?”- Riflettei ma non ricordavo nulla di simile -direi di no-. -È una citazione di tipo alchemico, che potrebbe essere paragonata alla teoria del caos. Come abbiamo visto nella teoria del caos sono eventi reali a far scatenare altri eventi, in questa condizione invece, secondo una legge alchemica o karmica, a seconda di ciò in cui si crede, il pensiero o il desiderio potrebbe essere così intenso da mettere in movimento delle forze o energie che noi ignoriamo esistere, un po’ come se attirassimo verso di noi attraverso presenze che potremmo definire angeliche o demoniache a seconda dei casi, degli aiuti che cominciano a manipolare il destino per condurci alla realizzazione dei desideri. Ma ciò che noi desideriamo non viene mai conquistato senza doverne pagare un prezzo. La tragedia di quel bambino ha messo in moto eventi tali da far scomparire un paese, e se Virginia dovesse aver cominciato a ragionare in questa direzione, il suo senso di colpa diverrebbe ancor più distruttivo-. -Stai cercando quindi di capire, che cosa ne sia stato di Virginia?- -In un certo senso. Ma non credo che nonostante tutto ella possa sentirsi responsabile di questo, dovrebbe raggiungere un livello di delirio veramente devastante per sentirsene responsabile. Ma qualcun altro avrebbe potuto farlo-. I miei brividi erano ormai una scarica continua -alludi a Demetrio?- dissi temendo la risposta. -È quello che voglio cercare di capire. Voglio scoprire se Demetrio possa essere stato in grado veramente di metter in moto tutto questo-. -Lo riterresti quindi un manipolatore del destino? E credi che sia possibile una realtà simile? Presenze che circolerebbero in mezzo a noi col potere di far cambiare gli eventi o manipolarli a loro piacimento?- -No, non a loro piacimento, ma secondo una conoscenza che non a tutti viene concessa…- si interruppe perplessa, come se si fosse resa conto di aver risposto meccanicamente, senza riflettere e

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quindi di aver detto qualcosa che forse non voleva o alla quale forse nemmeno lei credeva o, peggio, rifiutava di credere. Quindi mi guardò incerta. -Tu credi che possa esistere qualcosa che va oltre l’immaginabile?- disse con non so quale convinzione. -Prima di oggi no, non lo credevo, ma devo essere sincero, ora più che mai non so più cosa pensare-. -Io invece ne sono certa. Sono sicura che vi siano forze che noi nemmeno possiamo immaginare, e sono convinta pure che vi siano uomini che sappiano controllarle o che, per lo meno, ne conoscano le vie, e Demetrio, non dimentichiamolo, è stato tra gli sciamani, gli stregoni e i vari visionari di tutto il mondo-. -Non mi dirai che temi di avere a che fare con un negromante?- Mi guardò perplessa e per la prima volta notai in lei una sorta di sconvolgimento e di incertezza. -Perché qualcuno dovrebbe scrivere un documento del genere? E perché dovrebbe mandarlo a qualcuno che nemmeno conosce?- sentii di nuovo un brivido trafiggermi, e questa volta ne percepii, nella paura, l’origine. -Stai dicendo che questo tizio potrebbe conoscermi?- -Se fosse così, potrebbe ritenerti l’unico in grado di risolvere questa follia, per questo dobbiamo scoprire se la storia di Casterba è vera. Ma qui non risulta niente… dovremmo andare in quel paese fantasma, e scoprire se i fantasmi esistono davvero-. -O i demoni- dissi io senza più sentire brividi perché ormai il freddo mi aveva reso un unico blocco di ghiaccio. Ci lasciammo, credendo che la notte potesse concederci quel riposo di cui avevamo bisogno, ma entrambi eravamo talmente sconvolti che ad un orario piuttosto inoltrato della notte, alzai la cornetta del telefono e composi il numero della camera di Felona. Il suo rispondere subito mi fece capire che come me non riusciva a dormire. Mi vestii in fretta e dopo pochi minuti, nella sua stanza, stavo ascoltando:

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Inferi o Empirei? …Lo ricordavo bene il tuffo. Dopo quel gesto la collina si era trasformata, divenendo per noi una sorta di parco acquatico e tutti mi erano grati perché ora molte ragazze unitesi al gruppo osavano mettersi in costume, generando l’euforica bramosia che di lì a non molti anni avremmo cominciato a sperimentare nell’abbandono degli istinti primordiali. Era così che stava avvenendo la nostra mutazione, nel modo in come da ragazzini che cominciavano a crescere cambiava anche il modo di vedere l’universo femminile, cominciando a percepire una diversa attrazione nei confronti della sessualità proprio nell’eccitazione provocata al solo pensiero di poterle osservare in costume. Forse fu proprio questo uno dei motivi che indusse gli adulti a proibirci di continuare ad andare alla collina, tuttavia fu un periodo intenso quello che precedette il divieto. Ma quanto era stato difficile quel primo tuffo. La collina sarebbe ben presto divenuta un luogo dimenticato se non fosse avvenuto. In effetti il recarci laggiù solo per dimostrare di non temere i racconti degli anziani ormai stava diventando una noia, e la mia affermazione che mi sarei tuffato nel fiume, aveva rianimato l’interesse per la collina. Quel giorno si erano radunati quasi tutti, ragazzi e ragazze, e tra loro, c’era anche Virginia. Sentivo che la collina aveva un ruolo importante, il Mage me l’aveva donata e quell’atteggiamento ormai dispregiativo dei compagni mi dava come l’impressione di un’offesa verso qualcosa che invece doveva avere un valore smisurato che tuttavia, io stesso non comprendevo appieno. Era il rispetto che dovevo portare, e a quel tempo io credevo che per dimostrare tale rispetto dovevo fare in modo che tutti apprezzassero la collina, ma mi sbagliavo. Ero io l’unico che doveva portare rispetto, e chiunque altro avesse voluto farlo, non lo avrebbe dovuto fare solo perché la collina rappresentava una sfida o un divertimento. Ero ancora molto lontano dal comprendere che cosa significava rispetto, e in quel momento certo, non ero nemmeno in grado di valutarlo. Mi trovavo sulla riva del fiume e a poco meno di tre metri sotto di me vi era la profonda gola scavata dall’acqua. Per un bambino di dieci anni quei scarsi tre metri apparivano come le scogliere dei fiordi norvegesi e i poco più di due metri di profondità della gola potevano sembrare la fossa delle Marianne. L’unica mia condizione favorevole stava nel fatto che ero un buon nuotatore e che il giorno prima, il Mage mi aveva assicurato che quel lato del fiume era sicuro. Niente creature maligne né spiriti ostili, tuttavia, nel momento in cui mi ero trovato seminudo sul ciglio della riva col fiume che sembrava osservarmi in attesa di capire quanto potente era la mia sfida, il cuore cominciò a battermi come un tamburo africano nel petto e l’incertezza quasi mi paralizzò. Avevo lanciato la sfida perché non volevo che la collina fosse disprezzata e tutti avevano reagito come era logico aspettarsi. Nessuno credeva che l’avrei fatto e tutti avevano affermato che non ci sarei riuscito. Qualcuno se ne era uscito con le leggende sulle creature acquatiche che infestavano il fiume tra cui la famigerata Marantega, la madre di tutti gli spettri del Tregnon, ed io nel mio orgoglio avevo rilanciato con più fervore la mia sfida. Quel giorno ero al centro dell’attenzione forte delle mie convinzioni, fino al momento in cui mi ero trovato sulla riva. Era stato in quel momento che i dubbi mi avevano assalito. Tutti eravamo convinti di non credere ai racconti degli anziani, ma nessuno aveva mai osato sfidarli e io avevo, oltre a quel dubbio, la convincente prova che nella natura esistevano spiriti ed entità reali. Il Mage me li aveva fatti conoscere, ero perfino giunto a credere di aver sentito la loro voce, e se il Mage si fosse sbagliato su quali entità abitavano nella fossa delle Marianne, ciò che stavo per affrontare non era un semplice tuffo, ma il rischio di essere preda della Marantega o qualche altro Leviatano. Non so quanto tempo passai sulla riva, ma fu abbastanza da far in modo che dietro di me cominciassero a serpeggiare prima i sussurri maligni di chi già mi dava del codardo, poi le risate di scherno e quindi le vere imprecazioni e derisioni. Ad un certo punto quegli oltraggi e irrisioni parvero le grida di una folla da stadio e io sentii che intorno a me qualcosa cominciava a cambiare. Era come se percepissi l’ira della natura e, colto io stesso dalla rabbia mi girai verso la folla e gridai -Silenzio-. Fu tanto l’impeto che imposi nel mio urlo che subito tutti tacquero. Attesi un istante, poi mi girai di nuovo verso il fiume, chiusi gli occhi e cominciai a respirare profondamente cercando una concentrazione che non mi preparava al tuffo, ma piuttosto, a sentire la natura intorno a me e a

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comunicare con essa, come se cercassi la sua approvazione. Quando saltai lo feci quasi senza rendermene conto. Dietro di me c’era il silenzio e, sicuramente, lo stupore di tutti gli occhi che mi fissavano. Il salto sembrò infinito al punto che ebbi come l’impressione di volare al rallentatore, leggero come una piuma. Fu l’impatto con l’acqua a farmi sentire pesante come un sasso e improvvisamente, lasciato il mondo dell’aria per quello dell’acqua, mi sentii attirare verso il basso come se una presa solida mi avesse afferrato a trascinato negli abissi. Aprii gli occhi e cercai di vedere gli artigli della Marantega sulle mie caviglie e il suo ghigno diabolico tirarmi verso il fondo della fossa, certo che non mi sarei più liberato e che la collina sarebbe divenuta un vero luogo del terrore, poi, la presa si allentò. Percepii il momentaneo fermarsi del tempo mentre la gravità cedeva creando quell’istante di stallo in cui il corpo restava sospeso tra l’attrattiva verso il basso e la levitazione verso l’alto. In quel momento ebbi la possibilità di ammirare le profondità del fiume come se stessi esplorando gli abissi marini e le voragini della terra, sentendomi come in un sogno, ai confini tra gli inferi e gli empirei. Vidi qualcosa che ancora oggi stento a voler riconoscere come qualcosa di differente da un’allucinazione. Tutto era assurdo e affascinante allo stesso tempo e per un attimo mi sentii sedotto dalle lusinghe dell’abisso inferiore, poi la sospensione scomparve e sentii il mio corpo ricevere come uno stimolo nel quale la gravità prendeva a respingerlo verso l’alto. Sapevo che sarebbe bastato un piccolo movimento per oppormi e spingermi verso quella seduzione di cui non comprendevo il fascino, eppure, ben consapevole che opporsi per cedere al fascino dell’abisso significava rischiare la morte, esitai… poi i polmoni cominciarono a bruciare e l’istinto mi dominò come avrebbe fatto in futuro e, da buon obbediente agli stimoli naturali, risalii verso la superficie… Non so come i presenti avessero vissuto quei momenti, forse per loro non era successo niente di straordinario, sicuramente per loro il tempo non si era fermato, e non so nemmeno come avrebbero reagito se non fossi riemerso. Credo che nessuno di loro si sarebbe tuffato per vedere se mi ero impigliato in qualche radice o se ero stato catturato da qualche spirito maligno o rimasto preda del fascino di una Sirena. Solo ora mi rendo conto che il loro grido di entusiasmo era solo un’esaltazione per ciò che da quel momento avrebbe rappresentato la collina e che quindi la mia gloria non era dovuta all’impresa eroica compiuta, ma solo ad un’opportunità consegnata. È triste accorgersi dopo tanti anni che gli amici veri sono rari e comprendere che la considerazione che gli altri hanno nei tuoi confronti, spesso, è solo una questione di interessi. Tuttavia, non si può ignorare ancora una volta che, nelle azioni e nei fatti del destino, vi sono sempre dei messaggi rivelatori. Quel giorno mi si rivelò che un amico mi aveva confidato delle reali verità mentre altri mi avevano solo usato per dei loro successivi scopi. E nonostante tutto, il tempo mi avrebbe condotto a tradire colui che aveva dimostrato senza voler nulla in cambio che cosa era la lealtà, il rispetto e l’amicizia, restando fedele invece a chi, col tempo, si sarebbe rivelato individualista, approfittatore e indifferente a tutto ciò che non rappresentasse un suo personale interesse. Ai tempi del tuffo divenni una sorta di leggenda e tutti volevano essere amici della leggenda; da ragazzo la mia condizione economica e il mio aspetto avevano la capacità di attirare le donne, e tutti volevano essere amici di chi aveva così tante amicizie verso le quali indirizzare le attenzioni del proprio istinto primordiale; da adulto, proprietario di una grande azienda che si stava espandendo, molte erano le conoscenze importanti e i contatti politici che avevo acquisito, e tutti volevano essere amici di chi aveva sempre una contatto utile. Ma la verità era che tutti mi erano amici per una sola ragione, e tale ragione non era mai l’amicizia, ma l’interesse. Perché mai lo comprendessi solo adesso, mi riusciva difficile da concepire. -Ecco, questo è un punto di svolta. Lui riconosce che Demetrio gli ha donato qualcosa di prezioso. Ha messo a rischio se stesso perché offrendogli la collina, lui rischia di tradire gli spiriti della natura. Tommaso deve comprendere il sacrificio dell’amico, ma è troppo complicato per lui, egli non riesce a capire che Demetrio quel dono glielo fa esclusivamente per un suo beneficio e non chiede in cambio nulla. Tommaso invece lo divide con gli altri sperando che tutti possano comprendere il valore di Demetrio… in questo modo tradisce entrambi. Il momento del tuffo è decisamente essenziale, guarda la descrizione che ne fa, dice di passare dal mondo dell’aria a quello dell’acqua e l’acqua in questo caso rappresenta gli abissi, lui si sente pesante e ha l’impressione di essere trascinato verso il fondo da una qualche creatura: gli abissi rappresentano il profondo inesplorato, quello che sta dentro di noi e che non osiamo indagare per il timore di scoprire cose che non saremmo in grado di sopportare. La superficie è

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sicura perché lì possiamo giudicare gli altri, gli abissi sono spaventosi perché dobbiamo giudicare noi stessi…- -Sì, però afferma di aver subito l’attrazione per le lusinghe di quel mondo inesplorato, come se fosse l’abisso ad attrarlo più della realtà-. -Perché ancora vive in una situazione condizionata dal pensiero di Demetrio. Prima di donargli la collina Demetrio lo conduce in quel profondo e misterioso mondo fatato che null’altro è che il mondo interiore. Demetrio non ha mai mostrato spiriti o demoni, ne ha solo parlato, ma mai ha potuto rivelarli…- -E i suoni notturni? Dove li metti?- -Certo è vero, quelli sembrano effettivi, ma Tommaso non li sente, non ancora, dice di credere di averli sentiti, ma non è così, e probabilmente tutto dipenderà da quel tuffo. Ecco perché Demetrio gli cede la collina. Demetrio intravede in Tommaso la potenziale comprensione del mondo fenomenico e cerca di condurlo in quel paese delle meraviglie che è l’unico a potergli dare spunti necessari per la ricerca di se stesso. Per Demetrio è evidente che il vero mondo da conoscere è quello che sta in noi, per poter comprendere il mondo che sta all’esterno, e lui soffre nel vedere come tutto ciò che sta al di fuori siano considerazioni superficiali e banali, o effimeri vuoti dove la mente vaga nell’oblio…- -Non vuole dunque che Tommaso sia l’interlocutore tra lui e Virginia?..- -No, o per lo meno non in quel momento. Quando Tommaso si propone come intermediario Demetrio non acconsente, sa che lui non è pronto…- -Ma nemmeno lo impedisce-. -Non può competere con qualcosa di più grande…- -Il destino?- -Infatti, non lo può e non lo vuole contrastare. Egli vede nelle forze della natura, tra cui il destino, intelligenze superiori alle quali si sottomette e accetta di servirle secondo il loro volere…- -Non ti sembra un po’ folle?- -Se mi trovassi nel mio studio e qualcuno mi parlasse liberamente di tutto questo, probabilmente cercherei di condurlo verso altre vie. Ma qui tutto è differente. La follia conduce spesso alla distruttività, o di se stessi o di chi viene ritenuto la causa del proprio malessere… qui vi è una paziente attesa. Demetrio ha lasciato che il destino lavorasse per lui e ha intrecciato una complessa ragnatela, ma il suo scopo sembra essere ancora quello di rivelare ciò che si nasconde nel profondo dell’animo di Tommaso e il legame che unisce lui a Virginia… non chiedermi quale possa essere perché, devo essere sincera, io stessa comincio a entrare in confusione… Ad ogni modo vedi? Tommaso ammette di essere certo che i suoi amici della collina non sarebbero accorsi in suo aiuto se non fosse riemerso, ma il modo in cui lo acclamano dopo l’impresa fa passare il tutto in secondo piano. La gloria di cui è protagonista gli fa dimenticare ogni altra considerazione e in quel momento si smarrisce definitivamente… fallisce la prova e diventa l’anonimo al quale Demetrio non è più disposto a consegnare il suo destino…- In silenzio restammo entrambi a riflettere su qualcosa che sembrava nello stesso tempo assurdo e logico, impossibile e reale, sconvolgente e provvidenziale, senza riuscire ancora a comprendere con chi, cosa o perché avessimo a che fare. La mano di Felona sfilò il foglio appena letto e sotto ne apparve uno quasi completamente bianco, questa volta però non riuscii a sorridere al pensiero che per le sole cinque parole scritte su quel foglio avrei guadagnato mille euro. Entrambi osservammo ciò che introduceva qualcosa che nei romanzi tradizionali sarebbe stato classificato come parte seconda, dove invece stava scritto a caratteri molto grandi:

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Il secondo confine:

la realtà Ci guardammo entrambi con una luce inquieta negli occhi e tra di noi non ci fu necessità di consultazione, ambedue eravamo sempre più curiosi e senza attendere, la psicologa cominciò a leggere:

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Le nuove favole… …Seppure l’intuito e l’istinto mi conducano a completare gran parte delle vicende come se le avessi vissute direttamente, dandomi la sensazione di ricordi ripescati da sogni che si potrebbero definire vigili, molto di ciò che racconterò da questo momento, è il resoconto di confidenze che i protagonisti che hanno vissuto come me questo intenso periodo, mi hanno narrato. È difficile da spiegare, principalmente perché è difficile per me stesso comprendere, ma è come se in quel periodo e in quella zona, vigessero delle forze singolari, definibili forse in una sorta di natura oscura che andava al di là della nostra possibilità di averne il controllo, che spingevano le persone che ruotavano attorno alla figura di Demetrio, come se lui stesso fosse dominatore o servo di tali forze, a raccontarmi, per volontà spontanea e per volontà indotta, quanto avveniva. Mentre io, sempre sotto l’influsso di tali forze, non riuscivo ad impedirmi di immagazzinare ricordi dai quali mi è ora impossibile liberarmi. Forse per tale motivo li sto raccontando, come se vi fosse la speranza che ogni parola raccontata si possa cancellare automaticamente dalla mia memoria o magari, che possa una volta concluso l’assurdo racconto, svegliarmi e accorgermi che si è trattato solo di un sogno. In definitiva, non sarebbe poi così banale poterlo considerare un sogno giacché, come già espresso, molti dei dettagli di cui potrei apparentemente sembrare a diretta conoscenza, mi giungono invece come immagini simili a ricordi di un sogno, nel quale però, essendo io il sognatore, io stesso non esistevo se non come osservatore. Non so come questo sia possibile, né voglio cercare di rendervelo comprensibile. L’unica cosa che posso dirvi è che, nel momento in cui le persone mi facevano partecipe dei loro racconti, io subivo l’effetto di assurde allucinazioni che mi davano l’impressione di poter vivere nel loro racconto, immergendomi in un passato dove ero esistito altrove ma che, nel ricordo, mi conduceva in loro presenza… La mattina successiva infatti, per darvi un’idea di che cosa da quel momento sarebbe avvenuto nella mia vita, io non ero presente all’incontro che Virginia aveva organizzato alla scuola elementare tra lui e gli alunni, ma è inutile esprimere quanta curiosità vi fosse in me di sapere come era andata, oltre all’ansia che ancora mi metteva in apprensione nel tentativo di impedire che tra lui e lei si potesse ripristinare un rapporto che io continuavo a considerare troppo pericoloso. Quel giorno mia moglie era di turno all’ospedale e io mi avviai a prendere nostro figlio all’uscita da scuola. Era una cosa del tutto normale, che non avrebbe destato nessun sospetto, se in me non fosse stata visibile quell’espressione ansiosa e timorosa. Lo incontrai mentre usciva accerchiato da ragazzini entusiasti e affascinati con la tipica esuberanza ed euforia che i bambini hanno per quelle novità per loro magiche e avventurose. Immaginai con quale semplicità era riuscito ad affascinarli e la mia apprensione crebbe quando vidi che uno dei bambini più attirati dal suo personaggio era proprio mio figlio. -Dennis- lo chiamai. Il piccolo si girò e mi corse incontro. Parlava a raffica di Demetrio e dei suoi racconti, io gli sorrisi e finsi di ascoltarlo, mentre in realtà il mio sguardo era fisso sul Mage. Non so se il destino influisca su ogni cosa per crearne le condizioni prestabilite, ma in quel momento mio figlio fu chiamato da una voce di bambina. Non mi preoccupai di lasciarlo raggiungere l’amica che l’aveva chiamato e mi avvicinai al Mage. -Allora come è andata?- gli domandai. Osservai la macchina fotografica che portava a tracolla, oggetto del suo lavoro che doveva aver sicuramente presentato ai ragazzi ma che, non escludevo, avrebbe usato per immortalare qualche attimo di quel tempo. Cercai di distrarmi pensando a cosa avrebbe potuto fotografare nella piazza di Valbordi dove l’unica attrattiva, se così si poteva definirla, era il vecchio castello trascurato e decadente, ma percepii subito che Demetrio sentiva la mia ansia e probabilmente la mia contrarietà nei suoi confronti. -Bene direi, questi bambini sembrano molto più educati di quanto lo fossimo noi- disse. Sorrisi -non esserne troppo sicuro- risposi solo per allentare la tensione. Lui mi fissò -tuo figlio ti assomiglia molto- disse, e io provai un brivido. -Sei il primo che me lo dice. Dicono tutti che assomiglia a sua madre- risposi come se il nostro fosse un comune dialogo mentre i miei occhi si spostavano sulla figura di Virginia che stava uscendo dalla scuola, come se in realtà non volessero stare fissi su Demetrio. Lui sorrise, quindi mi diede l’opportunità di comprendere che tra noi non potevano sussistere comuni dialoghi.

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-Non intendevo fisicamente Tommaso- rivelò, e di nuovo quel brivido mi aggredì. Scossi il capo -è immune alla fantasia Demetrio- gli dissi come se cercassi in qualche modo di proteggerlo da qualcosa -non sente canti notturni o voci nel vento, e non teme i racconti del terrore- continuai come se volessi contrattare il suo esonero da un complotto che ancora non conoscevo. -Nessuno è immune dal proprio destino Tommaso- rispose però lui, e io mi sentii assalire da un istinto protettivo che generò in me una sorta di impotente rabbia. -Non sarai venuto qui per cercare di plagiare i nostri figli mi auguro- lo aggredii con controllata severità. Di nuovo vidi quel suo sorriso -io non voglio e non posso plagiare nessuno. Non so che cosa tu intenda con queste parole. Io sono qui per una sola ragione Tommaso, ed è vivere la realtà seguendo la mia strada, e così come voglio che sia per me, lascio che gli altri vivano la loro occasione seguendo la propria via- mi scansò e si avviò, ma allontanandosi aggiunse -tuttavia, c’è sempre qualcuno che cerca di forzare il destino altrui-. Non potei impedirmi di fermarlo -che cosa vorresti dire?- volli sapere, pur sicuro che un istante dopo me ne sarei pentito. Mi guardò e il suo sguardo fino a pochi secondi prima sereno si fece cupo di quella solita malinconica mestizia. Fissò i miei occhi come se ciò che stava per dire fosse rivolto a loro. -Gli occhi dei bambini sono carichi di quella rara ingenua purezza, capace di rivelare ogni cosa nello stesso modo in cui gli occhi degli adulti rivelano nella loro tormentata afflizione quanto cercano inutilmente di nascondere dietro una maschera di finta serenità. Lo strumento è lo stesso, cambia solo il modo in cui lo si usa- disse, quindi si voltò e si allontanò senza che potessi nuovamente fermarlo. Furono poche le occasioni che ebbi di rivederlo dopo quel giorno, e per questo i ricordi che racconto sembrano presi da un sogno. So però che in quell’occasione, per un momento, mi parve quasi di sentirmi fuori del tempo con quelle parole che non riuscivo a comprendere, se non nel modo sintetico degli adulti, che sembravano un’eco eterno nella mia mente, finché il volto di Virginia che mi passava vicina non mi riportò alla realtà. -Virginia- la chiamai. Lei si fermò e mi sorrise sorpresa come se non mi avesse visto e per un momento pensai se, per un po’, non mi fossi veramente smaterializzato. -Tommaso- disse il mio nome senza aggiungere la classica forma di sorpresa che era comunque sottointesa -che cosa ci fai qui?- Mi sentii imbarazzato come un adolescente che si appresta al suo primo invito perché, per avere maggiori dettagli su come si era svolta la relazione tra Demetrio e i bambini, mi stavo apprestando a proporre un invito che non avevo messo in preventivo. -Sono passato a prendere Dennis, sai Anna ha il turno in ospedale, e mi chiedevo se ti va di prendere qualcosa assieme-. -Adesso?- disse come se io stessi ignorando qualcosa. In effetti era mezzogiorno passato ed entrambi avevamo i bambini da accompagnare a casa. Allargai le braccia come a giustificare che non sapevo cosa rispondere, ma intuivo che lei già sapeva che volevo continuare il discorso del giorno precedente. -Vorrei solo scusarmi per come mi sono comportato ieri sera- dissi, senza sapere nemmeno io se veramente volevo legittimarmi o se ancora intendevo insistere sulle mie convinzioni. Mi guardò con aria dubbiosa in chiaro contrasto col volermi assecondare o mandare via, poi sorrise. -Senti io non posso fermarmi, ma se vuoi puoi accompagnarmi a casa. Massimo e via, possiamo mangiare qualcosa insieme da me se ti va- mi propose, ma in quel momento mi sovvenne un senso di responsabilità e pensai a Dennis. Forse avrei dovuto ragionare di più sulla motivazione di quel sorgere di responsabilità poco propense e capire che un altro allarme mi induceva a farmi cercare alternative al proseguimento dell’insolito appuntamento. Ma non lo feci, blaterando parole che quasi non volevo dire. -Beh, accetterei volentieri ma non so se mio figlio…- La vidi sorridere e la cosa portò distensione nel mio animo, anche se ancora ignoravo l’origine del suo sorriso. -Non credo che gli dispiaccia questa piccola variante- allora mi girai indirizzando lo sguardo nello stesso punto in cui guardava lei e mi accorsi, con sorpresa favorevole, che l’amica che l’aveva chiamato e con cui stava giocando, era Nausica.

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A Casterba non c’erano bambini a sufficienza per tenere aperte le scuole, così i nostri figli studiavano nella scuola del più grande e moderno Valbordi. Seguii Virginia a casa sua in macchina e l’aiutai a preparare da mangiare. In quei momenti mi sentii come ringiovanito e mi sembrò di essere un ragazzo assieme alla sua fidanzata che preparano da mangiare in cucina con l’entusiasmo di chi prevede un risvolto più segreto, mentre ancora non ha subito il contagio della monotonia. Lei aveva acceso la radio e una musica di sottofondo ci accompagnava mentre i bambini giocavano nella sala adiacente. -Sembra quasi un appuntamento tra fidanzati-. Le parole mi uscirono di bocca quasi senza controllo spinte fuori da un istinto che non sembrava appartenermi, e non so perché lo dissi, so solo che subito dopo me ne pentii razionalizzando che non era stato un commento idoneo. Immaginai la sua reazione contrariata prima di osservare quale effetto il mio azzardato e inopportuno commento aveva sortito, ma stupito, vidi che lei sembrava approvare come se avesse pensato la stessa cosa. Solo nel momento in cui mi scorse osservarla la sua espressione si fece triste di una malinconia che pareva condurla in altri tempi e in altri ricordi. Non aggiunse niente se non un piccolo dettagli tecnico -stai attento tu alla cottura mentre preparo la tavola?- disse, e l’impressione che ebbi era quella che avesse l’esigenza di allontanarsi, non so se da me o dai ricordi. -Certo- le risposi, e lo sconveniente dialogo si concluse lì. Non osai azzardare nessun argomento compromettente mentre mangiavamo, sia per la presenza dei bambini, ma soprattutto perché, quell’insolita condizione mi appariva così eccitante che quasi non volevo fosse interrotta. Io e Virginia eravamo stati molto uniti, e l’amicizia che ci legava, in un certo momento della nostra vita, aveva rischiato di divenire molto più intensa. Era successo qualcosa poi che, come se ci avesse colti in modo sintonico, ci aveva fatto desistere dal trasformala in una relazione più complessa, come se entrambi fossimo stati timorosi, o consapevoli, che il trasformarla da amicizia a relazione, ci avrebbe inevitabilmente condotti all’estraneità. Un preludio, forse, a ciò che significava la vita matrimoniale quando due persone, dopo aver esaurito ogni scoperta, divenivano indifferenti l’uno all’altra. La nostra amicizia era un’isola felice e quella sorta di sacrificio, era forse l’unica possibilità di non farla sprofondare negli abissi. Anche lei probabilmente stava pensando le stesse cose, e tutto pareva mostrare un quadretto di come avrebbe dovuto essere una famiglia felice. Poi il pranzo finì, i bambini andarono a giocare in giardino e noi due restammo soli. Non ci volle molto perchè il dialogo passasse dalle quotidiane banalità, ai ricordi e in fine, al Mage. Gli domandai come era stata la mattinata con lui e lei sembrò entusiasmarsi. Mi spiegò che avevano fatto riunire tutte le classi perché anche gli insegnanti delle altre aule erano stati entusiasti della sua proposta ed io, con quella condizione di allucinazione, potei immaginare lo svolgersi delle azioni mentre lei le raccontava. Vedevo l’eccitazione dei bambini e la classica confusione che facevano quando venivano riuniti in gruppo. Poi vidi lui al centro della sala e potei, seguendo le indicazioni di Virginia, vedere con che incredibile abilità, come se fosse uno psicologo per bambini invece che un documentarista, riusciva in pochi minuti ad attirare l’attenzione dei bambini. Ci volle poco e intorno a lui si fece silenzio. Si presentò, mostrando prima di tutto la macchina fotografica con il potente teleobiettivo, descrivendo l’attrezzo del suo lavoro. Virginia continuava a raccontare e io a immaginare. Così lo sentii parlare ai ragazzi di aver conosciuto i nativi d’America e intuii come nessun argomento poteva essere più adatto a catturare la loro attenzione. Sarebbe stato così anche per noi, sebbene ai nostri tempi i pellerossa rappresentassero i nemici dei cow boy dei film western. Per i bambini moderni invece, gli indiani avevano un aspetto diverso, come se loro possedessero una cultura superiore a quella che avevamo noi, ed erano interessati ai loro aspetti più mistici, come se le figure ritratte nelle fotografie che il Mage mostrava, rappresentassero fisionomie più simili agli eroi dei cartoni animati dei tempi moderni. Eroi che avevano poteri che oltrepassavano i concetti materialisti e che gli indiani, nella visione di quei bambini, dovevano possedere. Sentii uno di loro domandare che cosa significava il copricapo piumato dei grandi capi tribù che ancora in alcune comunità indiane venivano esibiti come ricordo delle tradizioni degli antenati, e la risposta che sfrecciava veloce nella mia testa con cui il Mage abilmente parlava della mente creativa. -Le piume rappresentano la mente creativa, le idee, il pensiero. Più piume vi erano sulle loro teste più saggezza e ideali creativi erano posseduti. Gli antenati degli indiani credevano che la perdita delle

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piume, per esempio in una battaglia, significasse la perdita della mente stessa-… lo sentii parlare loro dei totem e poi la voce di Virginia sovrapporsi alle risposte del Mage, e continuavo a vedere le assurde immagini allucinogene che mi circondavano mentre lo sentivo parlare degli aborigeni australiani, degli Inuit eschimesi e di altre civiltà dal sapore quasi mitologico, intuendo nell’entusiasmo fiabesco dei bambini, lo stesso entusiasmo attraente subito da Virginia, finché la realtà cominciava a riprendere il sopravvento sull’allucinazione e potei vedere il suo viso radioso quasi esultare. -Avresti dovuto vederli Tom, io non credo di aver mai visto i bambini tanto entusiasti. Lo studio spesso è noioso per loro, credo che oggi abbiano imparato più di quanto hanno studiato in tutto un anno. Demetrio mi ha fatto capire che i bambini devono essere educati con la fantasia, con l’allegria. Devono essere contenti di apprendere, altrimenti, finiscono per essere come noi adulti, malcontenti di quel che facciamo e soprattutto dall’essere obbligati a farlo-. Sentii ancora l’allarme suonare in me, ma ancora pensavo che ad essere in pericolo fossero le persone che mi stavano intorno, in questo caso Virginia e i bambini. -Sai che il Mage è sempre stato così estroso. Lui ha sempre vissuto in un mondo tutto suo. Non deve essere stato difficile per lui entrare in sintonia con i bambini, in un certo senso io credo che lui stesso sia ancora un bambino-. Mi guardò contrariata -sembra quasi che non lo apprezzi più, eppure un tempo eri proprio tu ad esaltarlo-. Scossi il capo -no non è questo che intendo. Dico solo che bisogna saper controllare certi entusiasmi- -Credi che mi stia lasciando soggiogare?- -Penso semplicemente che non sia il caso di alimentare false illusioni. Sai, i bambini sono facili prede dell’illusione- credevo di avere il controllo del dialogo e non mi rendevo conto di contrastare il suo rinato entusiasmo. -A volte Tom, mi chiedo se in questo mondo un po’ di sana follia non faccia bene. Tu vorresti che tuo figlio fosse privato anche dei pochi anni di serenità che si può permettere? Vorresti già vederlo alla guida della tua azienda senza nemmeno aver potuto provare un minimo di spensieratezza? Non pensi più a come eri tu da giovane?- fu in quel momento che cominciai a rendermi conto d’averla offesa. -Certo che no. Io voglio che ogni bambino viva la sua infanzia con spensieratezza. Ma so anche che i tempi sono cambiati e oggi tutto va molto più veloce. Il tempo della fantasia è limitato, la realtà avanza più rapida di quanto possiamo rendercene conto- dissi. -Sì, forse hai ragione. Oggi non possiamo più raccontare favole ai nostri figli perché noi non siamo più i loro educatori. Oggi li possiamo piazzare davanti ad uno schermo dove possono osservare tutte le fantasie che vogliono, consapevoli che non sono altro che immagini create da una macchina di fattura umana. Non si stupiscono più di nulla- sorrise malinconicamente -se dicessimo loro, oggi, che nel fiume abitano sirene o maranteghe, riderebbero, e non avrebbero timori di nessuna collina, come invece avevamo noi. E forse, l’unica vera favola che ancora possiamo raccontare loro, è proprio nascosta nella realtà- sospirò quasi al limite della commozione e io, naturalmente, provai la necessità di doverla confortare. -Virginia, tu sei solo un po’ depressa. Devi stare attenta a Demetrio, lui vive ancora nel passato, nel suo mondo di sogni, ma questo non va bene nel mondo reale. Nel mondo reale non si vive di sogni-. Mi guardò comprensiva, ma di un tipo di comprensività biasimante -è assurdo che proprio tu dica queste parole. Tu eri come lui un tempo, e desideravi ardentemente che anch’io potessi vedere il suo mondo. Che cosa ti è successo? Perché ora quel mondo ti spaventa tanto?-. -A quel tempo io desideravo che lui potesse stare con te perché ero un romantico, un sentimentale sognatore forse, ma non immaginavo che la sua follia sarebbe durata per sempre. Ero un ragazzo istintivo e inconsapevole, in un certo senso credevo di aiutarlo, volevo che potesse inserirsi in quella società che lo allontanava, se avesse avuto una ragazza la sua immagine ne avrebbe giovato e lo consideravo troppo timido per avvicinarti, per questo mi intromisi… ma credimi, sono contento oggi che voi due non vi siate messi insieme-. Di nuovo mi propose lo stesso sguardo comprensivo e biasimante -sei ancora molto protettivo, come lo eri allora- mi disse come un elogio. Poi mi guardò come se cercasse veramente consiglio in me. -Temi che accettare i suoi corteggiamenti sia un errore?-

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-Ne sono certo Virginia. Lui ha vissuto liberamente senza mai sapere veramente che cosa significhi rinunciare a qualcosa per qualcuno. Non sa che cosa sia una famiglia, credi che riuscirebbe a restarti fedele? Credi che potrebbe dare a Nausica ciò che gli da il suo vero padre? Ha girato il mondo, ha vissuto da zingaro, ha conosciuto uomini e donne, e sicuramente avrà avuto molte amanti. Saresti proprio disposta a rischiare tutto ciò che hai per un azzardo simile? Credimi Virginia, Mage è il passato. Un passato che non ti appartiene più-. -E così dovrei lasciarlo prigioniero di quel suo passato?- -Non credo che lui si senta prigioniero-. -Allora perché sarebbe tornato?- Mi sentii spiazzato da un controllo che credevo di essermi aggiudicato ma che invece non possedevo affatto, comprendendolo in una domanda per la quale non avevo una risposta. -Forse è solo vendetta. Ricordi come disse che avrebbe voluto vedere le nostre reazioni se fosse scoppiata una guerra? Ecco, in quel momento dimostrò il suo lato nascosto, la sua ira, talmente violenta da poter coinvolgere un’intera popolazione-. Il viso di lei si fece inespressivo e triste, come se di colpo le sue illusioni si fossero infrante come un fragile cristallo caduto al suolo. Mi sentii in colpa per questo, ma comprendevo che a volte, per evitare un danno maggiore, era necessaria un’azione violenta. I suoi occhi si spensero in un triste vuoto dove il presente rappresentava un’oscura voragine, il futuro un profondo baratro e il passato, una fredda caverna. -Ti capita mai- iniziò a dire -di sentirti come invischiato in un grande pantano dal quale non riesci a liberarti? Ti capita mai di sentirti come imprigionato? Ti succede mai di sentirti così sconfortato da giungere a chiedere alla vita una seconda opportunità?- Allargai le braccia in segno di vacuità -la mia vita è a posto. Ho tutto ciò che posso desiderare- dissi semplicemente, senza rendermi conto che così facendo, frantumavo il ponte di cristallo attraverso il quale, per poco, ero riuscito ad unire i nostri confini. Lei sembrò delusa e come se non avesse più senso andare oltre, perché già sapeva che non avrei compreso, parve volermi dare ciò che cercavo, ossia, la sua rinuncia a seguire Demetrio. -Oggi gli ho detto che non sarei andata con lui- lo disse con distacco, quasi volesse vedere quale sarebbe stata la mia reazione. Cercai di contenere il mio entusiasmo ma già la mie parole risaltavano più limpide e libere -e lui come ha reagito?- gli posi la classica domanda cercando di rimanere neutrale, ma facendo intuire la mia ammirazione per la sua sensatezza. Sorrise. -È rimasto calmo e impassibile, quasi sapesse già…- si fermò perché si rese conto che le parole che avrebbe detto non erano quelle che avrebbero dovuto essere. Quelle parole, in una condizione normale avrebbero dovuto essere “che sarebbe andata così”, ma non era quello che pensava, e come colto ancora da una necessità di aiuto mi sentii in dovere di concludere io la sua frase -come se sapesse già quello che sarebbe avvenuto dopo? Come fosse a conoscenza del futuro?- le dissi, e lo feci con disinvoltura, perché ormai la notizia ricevuta mi concedeva una tranquillità nella quale rivelare certe sensazioni non comportava più alcun rischio. Percepivo che l’equilibrio del tempo non era più minacciato e non avevo timore ad esprimermi liberamente, ma lei mi guardò sospettosa e io mi sentii in dovere di spiegare. -So come ci si sente. Sono le stesse sensazioni che provavo io quando stavo con lui, prima che gli eventi cambiassero…- mi resi conto che stavo andando oltre un confine che non potevo rischiare di oltrepassare, ma lei già aveva intuito. -Prima che io lo respingessi intendi dire?- Non era una domanda. Tornare nel passato, me ne rendevo conto, era sempre più pericoloso -sono passati tanti anni Virginia- tornai a ripetere come un disco rotto senza rendermi conto che tali parole ormai non avevano più alcun senso -non vale la pena di continuare a tornarci su- ripetei la classica affermazione con la quale si cerca di spazzare via una conversazione non gradita. Lei annuì, ma in modo nostalgico, poi tornò a rivolgersi alle nostre vite -non ti viene mai la voglia di fare qualcosa di diverso?- mi resi conto che in lei vi era un forte conflitto e che dovevo fare attenzione a ciò che avrei detto.

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-C’è sempre qualcosa che si vorrebbe fare o cambiare, è normale. Ma le nostre condizioni ci mettono di fronte a delle responsabilità, abbiamo fatto delle scelte e da ciò che decidiamo di fare adesso potrebbero dipendere conseguenze che coinvolgerebbero altre persone, ora è questo che dobbiamo comprendere come nostra responsabilità- cercavo di farla ragionare razionalmente, ma più le mie parole apparivano razionali e più lei sembrava allontanarsi. -I ragazzi oggi erano entusiasti. Per la prima volta forse, ho visto passione in alcuni di loro, come se nei loro occhi si rivelasse che il mondo non è fatto solo di ciò che la nuova educazione familiare erudisce come se nella vita non vi fosse altra alternativa che costruirsi una posizione sicura attraverso il lavoro, i soldi e i compromessi. Sai- mi guardò con uno sguardo illuminante che in altre circostanze sarebbe stato affascinante, ma in quel momento io vi scorsi dentro una sorta di delirio -per un momento ho immaginato che in loro si realizzasse la visione di una realtà alternativa, come se si rendessero consapevoli che il mondo è ancora popolato di fiabe- poi si fece triste -ai nostri figli non possiamo più raccontare fiabe Tommaso- ripeté -perché ormai non siamo più noi i dominatori del loro mondo-. Per un momento ricordai a come mi ero sentito fiero quando avevo detto al Mage che mio figlio non aveva timore dei racconti del terrore -è così che deve essere. Noi eravamo una generazione plagiabile, loro sono una generazione libera- dissi con un tono quasi dittatoriale, e lei mi guardò contrariata. -Sai, mentre li guardavo ascoltare i racconti di Demetrio, avevo la sensazione di vederli sognare. Loro non hanno più fantasie, eppure oggi per loro, era come per noi guardare i film di Sandokan ai nostri tempi. Per noi era una realtà irraggiungibile, un sogno che potevamo vivere solo attraverso i racconti dei libri e dalle prime immagini televisive, per poter liberare la nostra mente verso un mondo fatto di sogni. Loro non avrebbero potuto provare quelle stesse emozioni perché per loro ormai Sandokan è un personaggio del tutto ordinario. Sanno che si tratta di finzione e tutto intorno a loro è finzione perché non è più possibile raccontare favole… a meno che queste favole non diventino reali. Demetrio oggi ha risvegliato in loro questa emozione capisci?-. Scossi il capo perché non riuscivo a capire dove voleva parare, o meglio, volevo rifiutare di capire mentre lei continuava a descrivermi le sue sensazioni. -I nostri figli vivono in una realtà dove ogni cosa è scontata, sanno già che diverranno contabili, avvocati, operai. Sanno già che cercheranno di farsi una posizione rispettabile nella società scegliendosi una carriera vantaggiosa, sono plagiati, non dai racconti delle maranteghe, ma dalle insidie della necessità. Tu dici che sono una generazione libera, ma come possono essere liberi se non hanno sogni?- -Non si vive coi sogni Virginia- ribadii, e furono le parole peggiori che potessi dire. -È triste Tommaso quello che dici. È triste sapere che la fuori c’è un Sandokan in ognuno di quei ragazzi. Un Sandokan che potrebbe vivere ogni giorno come se non fosse ogni giorno, ma che è stato annientato non dalla caccia dei colonizzatori occidentali, ma dalla loro nuova ideologia economica-. -Stai dicendo parole senza senso, che cosa significa vivere ogni giorno che non sia ogni giorno?- Sorrise amaramente -sono passati tanti anni Tommaso e noi siamo come invertiti. Molti anni fa tu trovavi il tuo sogno e cercavi di farlo vivere a me, oggi tu rinunci al tuo mentre io cerco di riconquistarlo. Io vedo la luce negli occhi dei ragazzini spegnersi lentamente, come quella che si è spenta nei miei. La perla di Labuan poteva sentirsi viva perché i suoi giorni erano giorni in cui poteva svegliarsi la mattina sapendo che non era come svegliarsi ogni mattina, con un futuro già conosciuto nelle azioni del giorno precedente-. - Lady Marianna Guillonk, la perla di Labuan, è morta giovane però - dissi allora io e lei annuì. -E noi Tommaso, non stiamo forse morendo? Credi che il tempo faccia qualche differenza? Quando la noia della consuetudine ti assale, è come essere già morti. Sapere che la fuori può esserci un Sandokan che non sogna di diventare un famoso avvocato o un prestigioso uomo d’affari, dà ancora qualche speranza non credi?- -Le favole dei giorni d’oggi, Virginia, sono fatte di eroi dello sport e idoli dello spettacolo, questa è la sola realtà alternativa che puoi dare alla nuova generazione, e quello è un ideale molto più pericoloso che accettare un ruolo più stabile nella società moderna. Credimi, raccontare favole non è la via migliore per i nostri figli. Vuoi spingerli verso un mondo così pericoloso? Dare loro delle solide certezze almeno li può salvaguardare da pericoli più oscuri. Non c’è niente di ignobile nel desiderare

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di essere un avvocato o un contabile. Non lasciarti ingannare dal fascino oscuro di un sognatore che non è mai riuscito a liberarsi dalle sue catene-. -Ti sbagli Tommaso. Eroi dello sport e idoli del cinema non sono affatto differenti da contabili, avvocati, dirigenti o operai. L’unica cosa che varia è la condizione sociale, ma fanno tutti parte di una condizione statica, per tutti, ogni giorno è segnato dal giorno precedente e da quello seguente: ogni giorno uguale all’altro. E questo perchè non hanno nulla per cui combattere, nessun tesoro da difendere, nessun drago da combattere, nessuna principessa da salvare, nessun sogno da alimentare… puoi essere forte e potente quanto vuoi, ma non hai niente se tutto ciò che ti resta è solo e semplicemente, la noia-. Ogni mia certezza stava svanendo -tu cerchi qualcosa che non puoi avere, qualcosa che non esiste, e lo sai, altrimenti non avresti rifiutato di andare con lui-. Mi guardò come si guarda uno stupido -ho rinunciato perché ho pensato a Nausica. Gli ho detto che dovevo pensare a lei, non potevo mandarla allo stadio con il padre, e nemmeno parcheggiarla come un motorino nel giardino dei nonni. Lei è mia figlia, e voglio che abbia il meglio, non sono stupida e so che una di queste certezze è la famiglia, solo per questo ho rinunciato…-. -Ciò significa che hai fatto la scelta razionale, e come vedi, è la razionalità che ti guida-. Annuì di nuovo e io compresi che le mie certezze si stavano frantumando sempre più. -Ma la famiglia a volte può essere distruttiva se non ha solide fondamenta…- proseguì, e io più che mai mi sentii come una nave senza vele. -La tua è una famiglia con solide fondamenta- cercai di contrastarla. -Davvero?- disse però lei -domenica Massimo sarà lontano centinaia di chilometri per una stupida partita di calcio, e Nausica sarà a casa dei nonni a giocare con persone che non sono certo la sua famiglia- rivelò con amarezza, ma io non ero disposto a cedere, e non comprendevo che ora era nuovamente l’orgoglio a dominarmi e non la razionalità. La mia era diventata una sfida. -Tuttavia hai pensato a lei, il che ti fa capire che credi ancora nella possibilità di poter salvare la tua famiglia-. -Sì- disse -ho pensato a lei, e ho pensato a quello che mi hai detto tu, e ho pensato a Demetrio, e al mio passato- abbassò gli occhi -io non voglio che lei si spenga come ho fatto io Tom, e tutto questo mi ha condotta a rinunciare- disse, e per un momento io pensai che sarebbe stato meglio lasciarla sfogare senza cercare altre scomode verità da rivelare sul Mage. -Hai fatto la scelta migliore, credimi- mi limitai a dirle sorpreso ancora dall’assurda necessità di confortarla, ma quando vidi il suo sguardo tornare su di me, compresi il mio fallimento. -…Ma lui conosce il futuro vero?- disse, e nel perfido sorriso che le vidi sulle labbra, compresi l’abbattersi di un presagio oscuro precipitare su di me. -Ha detto che vuole farmi vedere un posto meraviglioso, e che Nausica poteva venire con noi- rivelò, e io mi sentii talmente vinto da non riuscire nemmeno a reagire. -Andrò con lui domenica Tommaso e né tu né altri questa volta potranno cercare di manovrare il mio destino. Io voglio liberarmi da quelle che tu chiami catene e voglio cogliere questa seconda opportunità. Voglio scoprire che là fuori c’è ancora posto per un Sandokan che ha il coraggio di vivere nuove avventure, in cui svegliarsi ogni giorno non è svegliarsi nello stesso giorno, e se il rischio è finire come la perla di Labuan sarò felice di rischiare e di accettarlo, se non altro, anche fosse solo per un giorno, avrò riscattato un’intera esistenza di noia-. -Me la ricordo sai, la perla di Labuan, lady Marianna, l’amore impossibile del pirata Sandokan. Ero molto giovane quando lo sceneggiato venne proposto alla tv, e piansi quando lei morì, forse perché anch’io me ne ero un po’ innamorato- dissi, lasciandomi andare a sentimentalismi che un tempo non avrei potuto tradire. Felona mi guardò e sorrise compiaciuta per quella mia rivelazione romantica -è molto significativo questo accenno ai personaggi di Salgari. Lo sai che scrisse tutti i suoi racconti senza aver mai visitato i luoghi descritti nelle sue avventure?- Annuii -ho sentito dire, da uno studente credo, che un certo Pirandello diceva che esistono nel mondo persone che possono permettersi di vivere le proprie avventure, per coraggio o per condizioni favorevoli, altre che invece sono destinate a tradurle semplicemente in sogni. Spesso è così che nascono i grandi scrittori-.

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-Mi stupisci, non ti facevo così colto-. Sorrisi accettando l’ironica puntualizzazione -e infatti non lo sono. Io mi limito a dire ciò che ho sentito e che per un banale scherzo della natura la mia memoria immagazzina. Se devo paragonarmi ai ragazzini di questo capitolo mi rivedo come un indocile e indisciplinato scolaro. Non ho mai apprezzato lo studio e non ho mai coltivato una cultura che potesse rendermi più interessante di quanto non sono. Ciò che ho imparato è stato solo opportunismo, ho intrapreso una carriera nelle forze dell’ordine perché mi sembrava la via più semplice per assicurarmi un lavoro e quando ho scoperto di non essere adatto a ricevere ordini ho usato quello che avevo imparato per costruirmi un lavoro, del quale adesso, non vado più molto fiero-. -E non ti riconosci in ciò che esprime Virginia?- La guardai decisamente contrariato -certo che no. Lei parla di sogni e di avventure, è vero, ma le sue sono avventure nobili e sogni dignitosi. I suoi sono eroi che si battono per il bene altrui, non per diffamarli…- -Hai solo perso di vista una parte del tuo impegno, tuttavia sei stato un Sandokan, uno che ha saputo gestire la sua vita secondo un ideale non condizionato dai compromessi delle autorità-. -Sono comunque soggetto all’autorità- sottolineai. -Tuttavia molto spesso infrangi i regolamenti-. Sorrisi con una certa malizia -sì, lo ammetto-. -A volte è necessario fare scelte difficili per comprendere quale sia la cosa giusta, e a volte è necessario commettere degli errori per capire che non sempre la si compie l’azione giusta. Se oggi tu comprendessi che un tuo cliente è più perfido della vittima che ti fa sorvegliare, come ti comporteresti?- -Dopo tutto questo intendi?- Allargò le braccia facendo intendere che quello che io definivo “tutto questo” null’altro era che una nuova esperienza. -Non lo so- ammisi -sarei comunque vincolato da un contratto, ma sinceramente, moralmente mi sentirei meschino-. -Vedi? È tutto qui. È difficile fare la scelta giusta e spesso tale scelta può diventare compromettente per noi stessi. Decidere che qualcosa è sbagliato, nel tuo caso per esempio, significherebbe compromettere il tuo lavoro e rischiare di perderlo…- -Ma se accettare di rispettare le condizioni contrattuali significasse esporre a gravi rischi la vittima che magari ha agito in un determinato modo per esasperazione e nella quale si riscontrano più giustificazioni del committente, non significherebbe compromettere altrettanto la mia nobiltà?- -È da come decidiamo di comportarci che decretiamo chi siamo o cosa vogliamo essere. Giusto o sbagliato è solo una questione di punti di vista: c’è chi non ha scrupoli per salvaguardare se stesso e chi invece accetta di subire in prima persona piuttosto di danneggiare gli altri. È un dura legge di natura, ma l’uomo, in condizioni di necessità, non è diverso dagli animali-. -E qual è la necessità in questo caso?- -La paura, il timore di scoprire qualcosa che non si vuole ammettere. Virginia continua a rimandare ai sogni, alle fate, agli eroi che combattono per liberare le fanciulle dal drago… Tommaso teme di affrontare il drago, come se lui stesso si sentisse parte di quel drago, e in effetti lo è. Il drago qui può essere paragonato alla condizione sociale, una creatura che ha sedotto e imprigionato tutte quelle menti che hanno fatto della loro condizione un requisito di quotidiana inerzia. Nella simbologia del drago, la creatura malvagia non è il drago, ma chi lo alimenta. Il drago è pronto a lasciarsi sacrificare, egli custodisce il tesoro che sta sepolto nelle profondità delle caverne e gli esseri avidi si lasciano trascinare in quelle caverne oscure, ma non potranno mai sottrarre il tesoro al drago perché la bestia è troppo potente per loro, egli possiede le forze più grandi del cosmo. Egli, come creatura anfibia è acqua, è aria attraverso le sue ali, è terra perché vive nelle profondità ed è fuoco che arde nel suo petto. Il cavaliere che lo sfida deve essere puro di spirito e pronto ad affrontare il viaggio negli abissi della terra. Ma quegli abissi rappresentano il profondo di se stesso e l’oro che cerca è solo simbolico. L’oro si origina nel profondo della terra, ma è un oro fisico, l’oro che si genera nel profondo del nostro essere, è l’animo nobile. Solo allora il cavaliere può liberare la sua bella, e la sua amata null’altro è che la comprensione del suo lato maschile e femminile come un'unica realtà. Ecco, a quel punto il drago è

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pronto al sacrificio, e per lui sarà un nobile sacrificio perché ciò che ha custodito non è altro che quanto appartiene a quel cavaliere. Allora il drago si lascerà uccidere e diverrà la forza di quel cavaliere, messa al servizio di un bene superiore. Questa è la simbologia del drago. Virginia sta affrontando il suo drago, Tommaso lo rifugge…- -E il Drago di Tommaso è Demetrio?- Scosse il capo -Demetrio è una figura ambigua, forse può essere un tramite, ma non è certo un drago-. La guardai pensieroso -credi che a Casterba scopriremo qualcosa?- -Io penso che sia proprio lì che questo scrittore ci vuole condurre, tuttavia penso che abbiamo bisogno di molte altre informazioni prima di affrontare i fantasmi di quel luogo-. -Ma non abbiamo più molto tempo. Non possiamo più rimandare e domani dovremo pur decidere di andarci…- -Sì, ma prima di domani abbiamo ancor qualche ora-. -Vuoi andare avanti?- -Tu vuoi dormire?- -Non ho più sonno-. -Bene, allora vediamo cosa ci dice il prossimo capitolo- abbassò gli occhi e come una macchina instancabile riprese a leggere:

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…Il virus …Ciò che non vogliamo vedere a volte, lo riflettiamo negli altri. Virginia parlava di sogni che non aveva mai vissuto, io di sogni che era meglio dimenticare. A volte però, quel che non vogliamo vedere lo troviamo riflesso proprio in coloro che giudichiamo, magari con il pretesto giustificante che la nostra sia una nobile causa convincendoci che ciò che facciamo è per il loro bene, giungendo perfino ad avere la presunzione di sapere ciò che è bene e ciò che è dannoso per coloro che secondo noi necessitano di protezione. Forse quel che non volevo vedere stava proprio nelle parole celate di Virginia. Lei si era svegliata e vedeva nella realtà l’infrangersi di un sogno sognato e mai realizzato; io mi ero addormentato e vedevo nella realtà dalla quale non potevo liberarmi, il sogno svanito di un’illusione di cui avevo avuto paura. Esiste una contraddizione nel sogno, che consiste nel non capire che stai sognando, il che conduce all’asserzione logica dell’essere svegli, nella quale ci si potrebbe chiedere se veramente si è desti, e spesso, per sfuggire a questo sospetto, ci convinciamo, come se ne fossimo costretti, che la realtà che stiamo vivendo sia l’unica possibile, nella quale, per sopravvivere è necessario sentirsi adeguati. Me ne andai deluso e amareggiato, ma sperando in cuor mio, contrastando la mia stessa razionalità, che la realtà che stavo vivendo non fosse altro che l’estensione di quel sogno dal quale ancora non mi ero svegliato e che mi permetteva di mantenere il sospetto che nella follia paranoica cominciava a coinvolgermi al limite della schizofrenia. Avevo bisogno di stare da solo e dopo aver affidato Dennis alla colf, mi allontanai sulla mia Mercedes. Non so per quanto guidai e dopo aver parcheggiato, non so per quanto camminai, ma so che iniziai ad immaginare un assurdo scenario dove il sogno diveniva la realtà che stavo vivendo, non valutando che così facendo rischiavo di inoltrarmi nel caotico labirinto fatto di doppie personalità che vivono contemporaneamente due vite parallele, confondendo così me stesso nell’alienante disordine nel quale non riuscivo più a distinguere la mia identità, e avviandomi verso l’inevitabile soluzione destinata agli schizofrenici: la follia. Solo che, per un’assurda ragione, la mia mente era ormai vittima di un complotto che sembrava avere origine proprio nella dimensione del sogno e, incapace di sottrarmi a tale paranoia, cominciai a congetturare su quella realtà che poteva apparire liberatoria proprio perché irreale. Era un sogno iniziato molti anni prima, del quale io ero il protagonista e il Mage una comparsa. Tutto doveva essere iniziato su quel ponte, e forse per questo, nella realtà che stavo vivendo il Mage mi aveva chiesto se non lo avevo mai attraversato. Mi sovvenne un diabolico sorriso perché per un istante quella mi sembrò la soluzione di tutto: simbolicamente il ponte rappresentava il sogno nel quale ero ancora invischiato, e le sue estremità ne raffiguravano il principio e la fine. Non avrei dovuto fare altro che proseguire e raggiungere l’altra riva. Ma era successo qualcosa su quel ponte, e per un mistero che solo i sogni sanno concepire, avevo perso il controllo e il sogno aveva iniziato a dominare la realtà costringendomi a generare delle alternative ingannevoli che tuttavia si trasformavano in insidie e tranelli verso me stesso. Se avessi potuto osservare la mia espressione in quel momento, probabilmente, avrei visto il riflesso di una follia latente manifestarsi negli occhi che brillavano di insensata paranoia. Con perfida cattiveria sentii un profondo odio assalirmi nel convincermi, in quell’attuale delirio, che una figura aliena si era intromessa nel mio sogno manipolandolo per diventarne l’imperatore, e questa figura aliena era il Mage. La paranoia mi stava ormai conducendo alle più devastanti ossessioni, e tuttavia nella totale alienazione mentale, tali paranoie erano così lucide e convincenti che la trama che stavo costruendo mi sembrava più reale di quanto potessi immaginare. Il Mage non possedeva un suo sogno, non poteva perché il suo mondo reale era già un mondo fantastico dove i sogni diventavano l’espressione della realtà che lui rifiutava, così l’unica alternativa che gli restava per poter fuggire da tale condizione odiosa e continuare a vivere per sempre nel mondo onirico, era di impossessarsi del sogno di qualcun altro. Sì, doveva essere andata così. Era stato per questo che aveva iniziato a coinvolgermi nella sua realtà, per riuscire a ipnotizzarmi e penetrarmi la mente, al fine di rubarmi lo spazio dei sogni, l’unico che ci appartiene veramente, allo scopo di sperimentare la realtà che lui non poteva conoscere. Come un vampiro si era introdotto costringendomi in qualche modo a invitarlo a entrare, cominciando, una volta insinuatosi, a succhiare il sangue, ossia l’energia vitale. In questo caso il vampiro Mage stava succhiando l’energia onirica

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devastandomi a poco a poco. In un determinato spazio del tempo onirico però, dovevo aver intuito qualcosa e per tornare a dominare il mio sogno, lo avevo allontanato usando i residui di forze rimasti, e per mantenere l’illusione favorevole e benigna, lo avevo sostituito con altri protagonisti di cui Virginia era stata la figura principale. Ora però qualcosa si stava guastando e da brecce che sembravano aprirsi nella mente, dei germi aggressivi come virus si stavano intromettendo aggredendo le mura difensive del sogno. Attraverso l’agente del caos stavo nuovamente perdendo il controllo e il sogno stava per tornare vittima dell’invasore che proprio come un virus aggrediva il corpo dal quale tornava a succhiare energie vitali, disgregando e squilibrando l’armonia che avevo creato… Improvvisamente mi parve di svegliarmi e nell’oscurità della notte quasi non mi rendevo conto di quanto avevo camminato. Non sapevo nemmeno come e quando ero entrato al “Book”, ma so che davanti a me vi erano più bicchieri vuoti e al tavolo con me non c’era nessuno. Dopo essere uscito dal locale vagai per la città trovandomi ad un certo punto ad osservare il fiume che l’attraversava con l’illuminante sensazione che tutto sembrava solo una riproduzione più grande del piccolo Casterba. Poco più avanti vidi il famoso ponte pietra che collegava le due rive della città, e ancora con qualche sintomo dell’assurda paranoia addosso, ipotizzai un’illogica combinazione: forse quel ponte era una verifica. Sotto vi era un fiume, e il fiume rappresentava tutto ciò che scorreva nella mia vita, reale e irreale, con i suoi eroi, i suoi mostri, le sue fantasie e le sue verità. Forse il sogno stava prendendo un'altra forma, forse lo scenario della città rappresentava una forza maggiore, ossia la mia forza, che aveva la capacità di sovrastare quella del Mage e forse, se avessi attraversato quel ponte, sarei uscito dal sogno e lo avrei sconfitto e, se pur convinto di aver vagato in uno stato di trance solo perchè mi ero immerso troppo nell’assurdità di quel pensiero, in ciò che, se ne avessi avuto il coraggio, avrei riconosciuto essere disperazione, mossi un passo sul ponte e, con una incerta sicurezza, mi accinsi ad attraversarlo. Una sorta di orgoglioso vanto mi assalì nel momento in cui mi sentii padrone delle mie paure e con una sicurezza ritrovata attraversai l’intero ponte senza timori, per convincermi una volta giunto dall’altra parte che quello, non era il ponte del mio sogno e che la triste verità, era che questo, non era nemmeno un sogno. Con la mia ritrovata disperazione, raggiunsi il parcheggio dove avevo lasciato l’auto e col desiderio di dimenticare tutto e lasciare che ognuno fosse condotto dal proprio destino, mi accinsi a tornare a casa. Solo che, sempre più cercavo di staccarmi dalle mie paranoie e più mi accorgevo di inabissarmici dentro. Se il mio desiderio, infatti, era adesso che ognuno si lasciasse condurre dal destino dove esso voleva, non potevo evitare di pensare che anch’io ero soggetto al suo volere. Un volere che avevo cercato di contrastare ma che adesso pareva schiacciarmi inesorabilmente con responsabilità di cui non avevo cognizione e così, mentre rientravo, assurdamente mi guardavo intorno alla ricerca di qualche elemento illogico che mi desse la conferma che ancora ero immerso nel sogno schizofrenico. Se ciò fosse avvenuto, avrei potuto riprendere il controllo del sogno e anziché temere di essere pazzo, esultare per la semplicità di una soluzione che sarebbe consistita nel semplice svegliarsi. Ma la verità era che tutto ciò che mi circondava era pura e semplice realtà, la stessa che mi circondava da quaranta anni e che quindi, per essere un sogno, da eguale tempo avrebbe dovuto esistere. Sorrisi quasi inconsciamente perché a quel punto, il mio pensiero si stava trasformando per dirigersi nella direzione opposta, ovvero: se non potevo fuggire dalla realtà allora, perché non vivere il sogno? Per questo sorrisi amaramente, pensando a come sarebbe stato assurdo risvegliarsi dalla realtà e comprendere che la vera consistenza si celava in tutto ciò che ci appare assurdo nei sogni, rendendomi conto di quanto inutile fosse il mio intromettermi nelle vite altrui. Certo Virginia rappresentava una figura importante nella mia vita reale. Eravamo stati buoni amici ed eravamo stati capaci di controllare, quasi completamente, quegli istinti che ci avrebbero impedito di mantenere tale condizione. Una cosa di cui andare fieri perché non avrei saputo dire in quanti avrebbero potuto riuscirci. Evidentemente però, nulla dura per sempre e forse, era destino che anche quell’amicizia avesse termine. Io potevo comunque dire di averci provato, ma lei era la sola depositaria del suo fato, e se voleva rischiare di perdere ogni cosa, io non mi sarei più opposto. Non potevo farlo, non se l’altruismo rischiava di compromettere la mia sanità mentale. Lanciai un grido e con un gesto della mano simulai la scacciata dei miei tormentati pensieri come si scaccia una mosca, decidendo una volta per tutte che quella era la realtà e che in quella realtà, non mi sarei più fatto coinvolgere da altruismi non richiesti. Decisi, sentendomi convinto, di dimenticare tutto… e forse

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ci sarei anche riuscito, se non fosse che ormai il Mage si era veramente insidiato nel sogno reale come un virus tornando a ronzare nei miei pensieri nell’istante stesso in cui lo scacciavo, e per tale virus, pareva non vi fosse antidoto. -Sta diventando paranoico- dissi. -Cerca di invertire la realtà col sogno, sta fuggendo da un tormento che non riesce ad accettare-. -È ossessionato dai ponti- proseguii io in quello che sembrava essere divenuto un dialogo sconnesso in cui entrambi parlavamo di cose diverse. Ma io ero legato alla simbologia del ponte perché fino ad ora quello avevo appreso, e non avevo ancora imparato a considerare i nuovi argomenti che l’autore inseriva nei capitoli -è abbastanza ovvio che teme di riattraversare quel ponte, ciò che non capisco è perché-. -Sta combattendo con un problema di adattamento, è lui stesso a erigere il ponte, solo che prima del ponte ha eretto le rive opposte- in quel momento cominciai a percepire che qualcosa mi stava sfuggendo. -Come sarebbe, come può aver eretto le rive e anche il ponte?- -Ha scavato anche il fiume se non basta- aggiunse allora lei. -C’è forse qualcosa che mi sono perso in questa lettura?- le domandai. -I vampiri- esclamò allora lei, e perplesso attesi la descrizione del loro contesto. -La tradizione vuole che coloro che sono stati vittime dei vampiri divengano a loro volta vampiri, sono nello stesso tempo privati del loro sangue e contaminati…- -È questo che intende quando fa riferimento al virus?- -È possibile. Ma l’interpretazione va intesa sulla correlazione del persecutore perseguitato. Il vampiro rappresenta la brama di vivere che rinasce ogni qual volta tale brama la si crede placata e che invano tentiamo di soddisfare finché non si riesce a dominarla. Il vampiro ha necessità di nutrirsi ma non annienta le su vittime, le rende uguali a lui e trasferisce sull’altro la sua fame divoratrice quando essa è soltanto un fenomeno di autodistruzione. In pratica l’essere si tormenta e divora da se e non riconoscendosi responsabile dei propri fallimenti immagina e accusa qualcun altro…- -Per questo crea la realtà alternativa e deduce la realtà sogno, invece che al contrario? Credi che abbia creato o solamente immaginato Demetrio e tutte le altre figure come ammette in questo capitolo?- -No, ma temo che abbia finito col desiderare che tutte queste reali figure fossero irreali al punto da non riconoscere più il confine tra la realtà e la fantasia. Solo che alla base di tutto vi è l’incapacità di adattamento, è successo qualcosa nella sua vita che non vuole accettare o non vuole ammettere… è così che si annienta il vampiro, smettendo di accusare gli altri e assumendosi le proprie responsabilità, accettando la propria sorte di mortale, ma finché tale condizione sopravvive significa che non si è risolto un problema di adattamento a se stessi: psicologicamente si definisce essere corrosi divorati, e si diventa un tormento per se stessi e per gli altri- -Accidenti, hai appena fatto la diagnosi perfetta di questo schizoide- dissi con un fischio introduttivo, ma il fatto che lei avesse fatto uso della sua professione mi legittimò a fare uso della mia e, potendomi inoltrare nel mio campo professionale per un attimo mi sentii padrone della situazione -l’aver tradito la moglie, la relazione con l’amica e una figlia illegittima, potrebbero essere degli elementi da tenere in considerazione non ti sembra?-. Questa volta Felona si lasciò contagiare dall’inevitabile sarcasmo -sì, sicuramente hanno una parte in questa fuga dalla realtà. Ma ho come l’impressione che non siano le vere cause del suo rifiuto. Prima di questi eventi deve essere avvenuto qualcosa che ha innescato tutte queste reazioni, qualcosa che gli ha dato la capacità di rimuovere dalla mente ciò che non vuole accettare come una responsabilità…- -E cos’altro potrebbe avere da nascondere? Solo queste condizioni sono sufficienti a rendere pazzo chiunque, se poi si aggiunge il fatto di cercare di celarle non solo agli altri ma addirittura a se stessi, finire per credere a realtà alternative mi sembra il danno minore- dissi con disprezzo. -Sì, ma lui parla di virus prima che di vampiri, inizia il capitolo stesso con questo titolo. Demetrio entra nella sua sfera personale molti anni prima di questi eventi, ma diviene vampiro solo quando torna, prima di questo, l’amico è un virus. Inoltre in questo capitolo fa molto riferimento al sogno, quindi è sotto questo aspetto che forse dovremmo indirizzare la nostra interpretazione. Nei sogni il virus esprime l’alterazione delle nozioni in nostro possesso, indica un malessere che contamina le nostre emozioni o i nostri sentimenti…-

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Non riuscivo a competere con la sua mente, in un certo senso lei ragionava troppo velocemente per me e non potendo starle dietro non potevo nemmeno permettermi di negare la correttezza delle sue argomentazioni, e fu solo a causa di questa confusione che forse ebbi quell’intuizione che mi colse come un fulmine e mi impedì di stroncare quelle riflessioni troppo complicate per la mia limitata mente e che, per ironia della sorte, parve mutare la via del suo stesso ragionamento. -E se si riferisse ad un virus tecnologico?- lei mi guardò stupita, probabilmente non immaginando l’origine di tale intuizione. -Sì, voglio dire, Demetrio torna nell’era tecnologica. Alla sua partenza computer e altri accessori informatici erano ancora risorse limitate, solo una visione del futuro, ma al tempo del suo ritorno sono una realtà effettiva, e il termine virus ormai è quasi più frequente in questo ambito che in quello scientifico-. -Hai ragione…- restò perplessa un istante, poi mi fissò con intensità -all’inizo del racconto, nell’introduzione lui non definisce Demetrio un disadattato perché differente dagli altri, ma un’anomalia del sistema, termini molto in voga di questi tempi… questo condurrebbe ad una soluzione più tangibile: il virus tecnologico potrebbe indicare una rottura o un difetto nel nostro sistema di comunicazione…- -E Tommaso è piuttosto afflitto dal non riuscire a farsi ascoltare- aggiunsi senza nascondere un pizzico d’orgoglio intuitivo. -E se il vampiro fa parte del sogno, egli è afflitto dall’incapacità di risolvere questioni per lui gravose, questioni che lo stanno prosciugando di tutte le energie… nel muro del suo sogno si stanno aprendo delle brecce, come lui stesso ammette, e dei germi corrosivi stanno per sgretolare le sue barriere-. -Sta ipotizzando la sua pazzia?- -No, ce la sta annunciando-. La sentenza di Felona mi fece rabbrividire e il suo sguardo mi fece agghiacciare da quanto seria era la sua espressione, sembrava temesse per la salute di qualcuno che nemmeno conosceva. -Forse per stanotte tutto questo ci basta, che ne dici?- la mia voce sembrò essere la mano che la tratteneva e la trascinava in salvo dal baratro in cui stava cadendo, e la sua espressione fu quella di chi, sentendola, veniva svegliata all’improvviso da un sonno profondo. -Sì- rispose -non penso sia necessario andare oltre-. Non credo che riuscì a dormire quella notte o, se lo fece, dovette avere un sonno agitato come il mio. La mattina, prima di avviarci alla scoperta di quelli che potevano sembrare i nostri fantasmi, le confidai che forse aveva ragione sui sogni. Si possono anche non ricordare, ma da come avevo dormito male, sicuramente dovevo averne fatto di terribili. La nostra fu una colazione semplice e veloce, pur sapendo che ci aspettava una lunga giornata, nessuno di noi due sembrava avere appetito.

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L’inconscio collettivo… …Non avrei dovuto considerarlo un caso quando mia moglie lo associò, come avevo fatto io a un virus. Ma lei era una epidemiologa e spesso fare riferimenti o cercare di dare dimostrazioni usando l’esempio dei virus era per lei una sorta di deformazione professionale. Restai comunque sorpreso la mattina, mentre facevamo colazione tutti assieme, quando gliene parlai. Sia per il modo in come l’argomento fu introdotto, sia per come lei aveva reagito. Conosceva Virginia, i nostri figli avevano la stessa età e si incontravano spesso alla scuola quando era lei ad andare a prendere Dennis. E fu proprio Dennis ad avviare il pretesto della discussione. -Mi sono divertito molto ieri papà- disse prima di metterci a tavola -ci andiamo ancora a casa di Nausica?- Anna lo guardò incuriosita, poi guardò me. Quando avevo saputo che Demetrio sarebbe tornato, le avevo raccontato qualcosa di più su di lui e inevitabilmente anche su Virginia. Lei sapeva della nostra amicizia e non aveva nessuna ragione, ne nessun sospetto, per credere che il mio interesse per lei fosse dovuto a qualcosa di più di quell’affetto di vecchia data. -Sei stato da lei ancora per quella faccenda?-mi domandò. Risposi affermativamente senza imbarazzo. Scosse leggermente la testa -non capisco perché te la prendi tanto a cuore- disse -in fondo è la sua vita, non dovresti intrometterti, rischi di farti coinvolgere in una storia dalla quale potresti avere poi difficoltà ad uscirne-. La guardai perché parlava tranquillamente, elargendo consigli che non erano ordini e senza nessun isterico pensiero possessivo. Mi ritrovai a pensare a come fossero state strane le circostanze del nostro incontro. Non perché inusuali, al contrario, era stato un incontro del tutto ordinario, come possono essercene stati migliaia di altri avvenuti in quel modo. L’avevo incontrata sul treno tra Verona e Padova. Io studiavo all’università di Bologna, lei a Padova. Ciò che può essere considerato strano, nel mio caso, è che Anna era una bella donna ma non del genere di ragazza che ero abituato a frequentare a quei tempi. Aveva un bel fisico, ma quello che attirava maggiormente il mio interesse in una donna, era la forma e la bellezza del viso. Virginia non era molto alta, il suo era un fisico sportivo che eccedeva nell’abbondanza piuttosto che nella penuria e la sua era una pelle olivastra, tendente all’abbronzato. Aveva un viso simmetrico, con occhi profondi e scuri, capelli lunghi e neri, labbra che non erano né sottili né carnose, equilibrate, zigomi alti e guance un po’ paffute che quando rideva disegnavano due fossette seducenti sul viso. Anna era alta, magra forse più del dovuto e la sua era una pelle chiara, di quelle che rischiano scottature se esposte al sole. Il suo era un viso allungato con un naso adunco. Aveva occhi quasi sporgenti e molto chiari, pure i capelli erano chiari e corti, l’esatto opposto di Virginia. Anna era piuttosto comune, e non faceva niente per rendersi evidente il che, per come ero io a quei tempi, circondato da belle donne, anche se non potrò mai dire se perché mi considerassero attraente o più semplicemente per la mia condizione economica, non era certo il modo giusto per far sì che io mi interessassi a lei, e forse, nemmeno era ciò che lei aveva in mente. Ma forse era scritto nel destino, o forse si trattava di una sorta di condizionamento comune, un po’ come la descrizione che Jung faceva dell’inconscio collettivo in cui ciò che abbiamo ereditato dall’esperienza comune di tutta l’umanità, immagazzinata e accumulata nel corso dei secoli, sarebbe emerso attraverso il percorso evolutivo risiedendo nella psiche sotto forma di archetipo. Mi chiedevo in quel momento se per me non fosse avvenuto un condizionamento di quel genere in quanto, avendo degli obblighi e delle aspettative nei confronti della società che mi circondava, non fossi già a livello inconscio condizionato al punto che in lei vedevo il tipo di donna giusta da avere al fianco per affermare in termini di approvazione collettiva il mio stato sociale. Studiava medicina, ed era una donna classica, una perfetta figura che avrebbe contribuito a fare della mia futura famiglia una casata rispettabile e nobile. E in definitiva, per quanto riguarda il soddisfare le esigenze sociali, potevo dire di aver avuto la giusta intuizione. Nel giorno in cui avveniva quel dialogo io dirigevo l’azienda di mio padre, e lei era una responsabile del dipartimento di prevenzione di Verona. Ma nel mio pensiero era tornato ad insinuarsi il destino e se dovevo considerare l’archetipo dell’inconscio collettivo, non potevo evitare di valutare che tale ipotesi considerava una serie di circostanze genetiche tramandate nei secoli tra le diverse generazioni,

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contribuendo a tramandare una sorta di memoria che, inevitabilmente, mi connetteva alle assurde idee di Demetrio che già molto tempo prima mi aveva fatto riflettere sulla possibilità che noi ci portassimo dentro rimasugli di esperienze passate. Esperienze che non erano della vita attuale, ma di un’esistenza precedente per cui il nostro perpetuo viaggio nel mondo fisico non era altro che l’estensione di un cammino interrotto dove, per qualche ragione, dovevamo riprendere, sistemare o continuare qualcosa di già iniziato. Quella mattina, dopo che lei era uscita per accompagnare Dennis a scuola e poi recarsi al lavoro, assorto in questi pensieri, mi estraniai isolandomi nel mio studio a pensare contro la mia volontà a come in effetti fosse strano che la donna con cui avevo scelto di condividere la mia vita, fosse sotto l’aspetto fisico l’esatto contrario della donna che avrei desiderato e la giustificazione di un’approvata immagine sociale non mi bastava più. Mi ritrovai così combattuto tra il pensiero conflittuale di essere vittima di un condizionamento sociale e il desiderio ripulso di potermi esprimere per ciò che ero. La domanda però, a quel punto diveniva: chi ero? Improvvisamente mi sentii smarrito e sconvolto in una sorta di vortice immateriale con l’atroce dubbio di non essere chi credevo o ciò che volevo essere. Eppure, tale concetto non mi aveva mai sfiorato perché per tutti i quarantadue anni della mia vita, avevo sempre creduto di sapere bene chi fossi, che cosa avrei dovuto fare e quale fosse il mio ruolo nella società. Nemmeno in quegli anni di allucinanti conversazioni con gli spiriti della natura, mai avevo presupposto che il mio potesse essere un ruolo diverso, ed ora ero terrorizzato dalla possibilità di non riconoscermi più. Tormentato ripensai al passato analizzando ogni passo della mia vita, rifiutando con forza di aver subito un plagio morale dal condizionamento avuto nell’educazione familiare e accettando con resistenza di aver invece subito un abuso dalla suggestione imposta dal contatto con una mente perversa come quella di Demetrio. Ma più mi forzavo di convincermi di questa realtà e più una forza alternativa mi spingeva ad invertire le condizioni, portandomi di nuovo nell’assurdo delirio in cui immaginavo che una seconda personalità esistente in me stesse cercando di emergere, facendo sentire sbagliato tutto ciò che avevo accettato, e corretto tutto ciò che avevo rifiutato, costringendomi quasi a considerare che la moralità con cui avevo condiviso i sogni familiari aveva finito per ottenebrare ciò che in realtà ero o volevo essere e nell’ossessione, tornai ad immaginarmi vittima, e non più protagonista, di un sogno troppo reale perché sapevo che se avessi accettato la realtà di non essere quello che ero, avrei dovuto mettere in discussione tutto ciò che possedevo, sia fisicamente che mentalmente e ciò avrebbe significato rinunciare a tutto e ricominciare a qualcosa che appariva troppo assurdo e difficile. Per questo, nella realtà che stavo vivendo, io dovevo essere un sogno, e Demetrio, null’altro era che la sua rappresentazione. Non credo avesse avuto molta voglia di leggere, ma l’introduzione con la quale l’autore intitolava il capitolo dovette avere una particolare attrattiva per Felona, e quella fu l’ultima lettura e l’ultima discussione che potemmo avere prima di scontrarci con la realtà surreale del paese fantasma. Stavamo giungendo a Valbordi e di lì ci saremmo avviati verso quel Casterba che ancora non sapevamo come definire, se paese, borgo dimenticato, sogno o realtà. -Ho sentito parlare spesso di questo inconscio collettivo, ma non ho mai capito di che cosa si trattasse- cercai di alleviare una sorta di tensione che stava per assalirci. Lei non sembrava più tanto euforica come era stata nei giorni scorsi, quasi che l’indagine avesse cominciato a coinvolgere più lei di me. -Si tratta di un concetto elaborato da Jung che qualcuno potrebbe definire l'anima dell'umanità; la coscienza dell'umanità che accoglie a se tutte le esperienze degli individui poi trasmesse alle generazioni successive-. Restò sul vago evidenziando nella sua estraneità come la condizione che la stava assorbendo cominciasse ad intimorirla, dimenticando che io non avevo alcuna preparazione in materia. -Ah certo, ora è tutto molto più chiaro- cercai di distrarla con ciò che consideravo in quel momento un non inopportuno sarcasmo. Lei si girò verso di me e finalmente sorrise, come a scusarsi attraverso l’espressione che lasciava intuire il suo imbarazzo. -Jung elaborò questa teoria partendo da un sogno in cui riconosceva tracce di memorie che non appartenevano al suo vissuto…- -Cose che riteneva quindi di non poter sognare?-

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-Esatto, egli descrisse un sogno in cui esplorando casa sua scendeva nei sotterranei fino a scoprire resti di vestigia romane e poi, discendendo sempre più penetrava in una caverna incontrando reperti primitivi e teschi umani, da cui dedusse essere quello il mondo dell’uomo primitivo che stava in se stesso. Per lui il sogno divenne un’immagine guida che rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana e iniziando ad analizzare i suoi sogni cominciò ad individuare queste tracce di un passato storico e immagini mitologiche che non appartenevano al suo vissuto, concependo così l’esistenza di uno spazio più vasto e ricettivo che chiamò inconscio collettivo-. -Stai recitando il tuo libro di psicologia studiato all’università?- cercai ancora di rendere la situazione un po’ ironica per farle intendere che non capivo niente di quanto stava dicendo. Sorrise e assecondò la mia incomprensione -la questione era che se l’inconscio individuale poteva essere facilmente dimostrato attraverso le esperienze personali tramite i ricordi, l’inconscio collettivo oltrepassava tali limiti per conferire nello spazio personale un’impronta rappresentante tutto il genere umano, qualcosa che appartiene a tutti, si collega e riunisce ogni livello di esperienza attraverso l’ereditarietà di sistemi che hanno uguale validità in ogni cultura, area geografica e periodo storico. Così, in questo territorio svincolato da ogni concetto di spazio e di tempo hanno origine i miti e gli archetipi per cui nei sogni acquisiscono maggiore rilevanza gli aspetti legati alla spiritualità, all’istinto e all’irrazionale-. -Se ho ben capito, e non credo di averlo fatto, questo inconscio collettivo sarebbe una sorta di memoria temporale tramandata attraverso le generazioni, quindi noi saremmo condizionati non solo dal nostro passato individuale, ma dal passato di tutta l’umanità?- -Esatto, l'inconscio collettivo è una parte della psiche che si può distinguere in negativo dall'inconscio personale per il fatto che non deve la sua esistenza all'esperienza individuale e quindi non è un'acquisizione personale… il contenuto dell'inconscio collettivo, che supera le esperienze personali, è formato essenzialmente da archetipi, modelli originari usati come valori esemplari. Se nella nostra memoria, o nei nostri sogni appaiono esempi di cui noi non abbiamo coscienza perché non ne abbiamo mai avuto esperienza in questa realtà, tali archetipi, secondo l’inconscio collettivo, provengono da memorie ereditate o… da esperienze di vite passate-. Ecco, ora anch’io potevo sentirmi assalito dalla sua stessa mesta angoscia e capire l’origine della sua seria preoccupazione. -E tu ci credi a queste cose?- le domandai evidenziando nel tono della mia voce la scomparsa di ogni ironia. La sentii sospirare -per fare il mio lavoro le ho dovute studiare, all’inizio le ritenevo poco credibili. Professionalmente mi sono imposta di valutarle solo ai fini di trattamenti terapeutici, ma prima di adesso, non ho mai voluto considerarle come realtà possibili, seppure non le abbia nemmeno mai potute escludere-. -Temi di scoprire che possano essere realtà plausibili?- Improvvisamente mi sovvenne l’intuizione che mi dava la sensazione che le parti si stessero invertendo, fino a poco prima ero io quello che temeva di scoprire cose che avrei preferito continuare a ritenere irreali, mentre ora era lei a doversi scontrare con la difficile realtà di scoprire che ciò che si poteva anche ignorare perché mai provato, stava, o poteva divenire realtà. -Non so cosa dire, certo il modo in cui le introduce è decisamente subdolo. A livello psicologico direi che questo individuo è perfidamente geniale…- -Forse è pure lui uno psicologo-. -O forse è qualcuno che ha superato una certa barriera e ha osservato oltre…- -Oltre a che cosa?- -Oltre a quel muro che ancora non ci ha detto di aver valicato…- concluse, e la sua serietà parve condurci, attraverso la strada che stavamo percorrendo, in una diversa dimensione. Improvvisamente tra noi si instaurò un insolito silenzio mentre le strade cominciavano a farsi più strette e dissestate, la campagna circostante sempre più deserta, gli alberi e le rive dei fossati meno curate e l’aria quasi più fredda, perfino il cielo pareva cambiare lentamente tonalità, passando da una limpida nuance d’azzurro chiaro a un sempre più ostile grigio uggioso, come se l’aria circostante fosse parte di una realtà che non apparteneva allo stesso tempo.

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L’auto cominciò a sussultare sulle strade sempre più sconnesse tanto da farmi rallentare fin quasi a passo d’uomo. Un fitto bosco che si stagliava davanti al nostro orizzonte ostruiva la visuale di quel luogo cinereo dentro al quale ci stavamo inoltrando, finché in prossimità del bosco stesso mi trovai ad affrontare una curva che sembrava far cambiare completamente direzione alla strada, svoltando quasi di centottanta gradi in direzione sud, ed ecco che finalmente il fantasma ci apparve in tutta la sua solidità. Una sontuosa villa fu la prima costruzione che incontrammo, seppure la sua magnificenza doveva essere rimasta una peculiarità del passato. Pensai ai racconti della guida al castello e considerai che in fondo non dovevano essere poi tanti gli anni in cui Casterba era divenuto un fantasma, tuttavia ricordai un documentario in cui si descriveva come la natura fosse rapida a riconquistare ciò che gli era stato tolto e osservai come l’edera aveva invaso le mura della villa mentre radici ed erbacce si erano impadronite del cortile. Poco più avanti un cartello sembrava essere stato inghiottito da una pianta di glicine, non era riconoscibile ma probabilmente era il cartello limitrofo che delimitava i confini di quello che un tempo doveva essere stato Casterba. Andando avanti incontrammo un corso d’acqua sul quale la strada passava sopra come un ponte e io mi domandai se si trattasse del famigerato fiume Tregnon. Un'altra casa abbandonata e invasa dalle piante ci accolse sulla via, dietro di essa un'altra curva tornava ad indirizzarci verso nord ovest e poco distante finalmente intravedemmo la sagoma di qualcosa che sembrava riportarci in una realtà concreta. Al di sopra delle coltivazioni di mais e girasoli, uniche condizioni curate in quell’ambiente, si stagliava la sagoma di un campanile ancora in buono stato. La guida ci aveva detto che la chiesa era uno dei beni recuperati dal comune e quando la raggiungemmo, in effetti, potemmo constatare come il piazzale, dove un monumento ai caduti di guerra ricordava che anche lì qualcuno aveva segnato la storia, fosse curato. Felona mi chiese di fermarmi e io l’assecondai, come se per riflesso già avessi intuito, o meglio, deciso, che la chiesa valeva la pena di essere visitata. Non si può dire che facesse freddo, anzi, il clima era torrido come in tutto il resto della regione, eppure una sorta di inquietudine contribuiva a rendere l’atmosfera circostante impersonale, e non permetteva di opporsi ad una sorta di brivido che pareva causato da ciò che si sarebbe potuto definire, freddo. Secondo l’opuscolo che ci eravamo portati dalla biblioteca di Valbordi la chiesa era parzialmente custodita, il che significava che qualcuno, forse un impiegato comunale, giacché sembrava che la curia non si preoccupasse più molto di un monumento in cui non si tenevano più funzioni religiose, provvedeva ad aprire le porte, accendere le luci e qualche altro servizio negli orari previsti di apertura e poi ripassava per chiudere. Ritenere che non vi fosse l’esigenza di una presenza costante in quella che avrebbe dovuto divenire una sorta di attrazione turistica ci fece intuire che all’interno non avremmo certo trovato cose preziose e ci avvicinammo all’entrata senza particolari aspettative. Salimmo i quattro gradini in marmo e prima di oltrepassare la soglia dell’imponente portone, evidentemente ristrutturato, ci fermammo un attimo, come colti da una riverente inquietudine. Avrei potuto dire, per una sorta di timore reverenziale, che qualcosa di irreale stesse dominando l’area circostante e che, in un modo quasi minaccioso, ci stesse osservando come un guardiano che si accerta che gli intrusi abbiano i nobili requisiti pretesi da una rigorosa morale divina, a non profanare la sacralità di un luogo da esso protetto, al punto che lasciai, poco cavallerescamente, che fosse Felona a precedermi. Spinse in avanti la porta e il lieve cigolio che emise mi fece rendere conto del silenzio che regnava tutto intorno. La luce del sole illuminò la navata centrale riflettendosi sul marmo del pavimento bianco e grigio. Felona oltrepassò la soglia, osservò alla destra dove dal muro sporgeva un acquasantiera pensile nella quale immerse la mano. Non credevo che avrebbe trovato qualcosa e mi sorprese vedere le gocce di acqua santa sulla punta delle dita che la luce del sole riuscì ad illuminare prima che la porta, spinta da una chiusura a molla moderna, si richiudesse dietro di noi. La vidi farsi il segno della croce e poi inchinarsi verso l’altare dove dietro un tabernacolo in buono stato si poteva ammirare una pala di discreta fattura, o almeno così la potevo definire io nella mia bassa cultura artistica. Quando la porta si richiuse, la lucentezza del luogo di culto si affievolì ma non divenne lugubre come mi sarei atteso. Il silenzio dominante era veramente reverenziale e per un momento mi parve quasi di profanare, con la mia inclinazione laica, un vero luogo sacro. Attraversammo piano e in silenzio il corridoio tra i banchi che un tempo accoglievano i fedeli ancora in buono stato, e osservammo gli affreschi e le tele come se effettivamente ci trovassimo all’interno di un museo. Felona poi si avvicinò a uno degli altari laterali dove erano posate statue di santi e di madonne e dove, davanti

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a ogni uno, quattro in tutto, due a destra e due a sinistra, erano posti dei candelieri dove il presupposto custode doveva aver preventivamente acceso qualche candela con lo scopo di attirare la volontà di offerte da parte di qualche improbabile visitatore. Mentre mi guardavo attorno, sentii il tonfo di una moneta cadere nel contenitore metallico e l’eco prodotto mi fece pensare che quella era probabilmente l’unica moneta che il custode avrebbe trovato all’ora della chiusura. Mi voltai e vidi Felona accendere un cero e posizionarlo davanti la statua di non so quale santo. Restai leggermente perplesso e impiegai un po’ prima di reagire. -Aspetta- dissi e, avvicinandomi mi apprestai a fare anch’io la mia offerta. Non sapevo quanto aveva gettato nella cassetta Felona, osservai se vi fosse un qualche avviso che indicasse una quota minima ma, non essendovi alcuna indicazione fui colto dal panico. Nel mio portafogli c’erano diverse monete, ma non sapendo quale fosse l’alternativa migliore, optai per quella di maggior valore e gettai una moneta da due euro nella cassetta, quindi presi un cero e lo posi vicino a quello di Felona. -A chi lo dedichi?- mi domandò. La guardai imbarazzato -prego?- le risposi. -Di solito quando si fa un offerta in un luogo sacro, si chiede una grazia per qualcuno. Tu per chi vorresti chiederla?- Non ci voleva un genio per comprendere che io non ero un frequentatore di chiese e nemmeno un credente, e imbarazzato balbettai una risposta eludente. -Non saprei, ci dovrei pensare. Tu a chi l’hai dedicata?- -A me stessa- rispose senza indugi. -Davvero? E si può fare?- le domandai, ma senza ironia perché nella mia serietà lasciavo trasparire l’ingenua ignoranza. Lei sorrise e tornò a volgere lo sguardo verso la statua. -Allora la dedico a te pure io-. Mi guardò perplessa e stupita allo stesso tempo. -Sì, in fondo non ho nessun altro a cui dedicare pensieri o grazie- ammisi, e il suo stupore si trasformò in una sorta di tristezza che per la prima volta riuscì a contagiarmi. Era la prima volta in effetti che mi rendevo conto di quanto ero solo nella mia vita che sempre avevo considerato fin troppo piena. Non disse nulla e lentamente indietreggiò, poi si scansò di lato e andò a sedersi a uno dei banchi per la preghiera. La osservai in silenzio, pensando ancora alla mia condizione appena scoperta, quindi la vidi prendere il fascicolo e sfogliarlo. Quando si fermò mi guardò e mi invitò a sedere vicino a lei. Intuii che voleva leggere e ne restai sorpreso. -Vuoi leggere qui?-. -Tranquillo, non stiamo profanando nulla- mi rispose giustificando la mia preoccupazione. Mi sedetti vicino a lei fiducioso, in fondo io di chiese e luoghi di culto non ne sapevo niente e per la prima volta potevo anche permettermi di pensare che se vi fossero state ripercussioni divine, avrei sempre potuto dire che non era stata colpa mia. Girò il foglio e quando la sua voce prese il tono di lettura, l’eco prodotto dalla sala liturgica, parve quasi spedirci in una dimensione, come avrebbe detto lei, oltre:

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Il teatro delle marionette… …I pensieri allucinanti che avevo ponderato per l’intera mattinata cominciarono ad infuocarmi la testa e quando, stanco come se avessi lavorato tutto il giorno, mi andai a coricare come fosse notte anziché ancora mattina, mi trovavo in uno stato febbricitante che, nel sonno convulso e frammentato, mi portò un incontrollato stato di delirio. Non so se sognai, in quanto non potevo più, in quel temporaneo periodo di profondo turbamento, distinguere il sogno dalla realtà e quindi non so quanto le parole che avevo pronunciato nel sonno agitato potevano essere riconducibili al sogno o alla realtà. So che quando mi svegliai fremevo di brividi freddi ed ero fradicio di sudore. Ero preda di una febbre convulsiva in una condizione di assoluta crisi fisica ed Anna, con la voce che mi rimbombava nelle orecchie, mi avvertiva di non alzarmi per nessun motivo, sebbene mi mancassero le forze per farlo. Il tormento mi assalì al pensiero che quello era l’ultimo giorno che avevo per impedire che Demetrio e Virginia realizzassero il loro assurdo progetto. Quando poi Anna uscì per tornare al lavoro lasciando chiare istruzioni alla domestica, sotto l’effetto dei medicinali antifebbrili e dei tranquillanti che mi aveva somministrato, caddi in un sonno profondo ma tormentato e a quel punto, potei accertarmi della realtà, non dei sogni, ma degli incubi. Incubi che non avrei ricordato nell’immediato e che, col passare dell’effetto dei tranquillanti si facevano sempre più spezzettati a causa del sonno che mi coglieva e abbandonava alternativamente. La sera quando Anna tornò si mostrò preoccupata perché il mio aspetto era vistosamente debilitato e quando misurò la febbre il rilevatore indicò un quaranta e oltre. Per un po’ insistette che sarebbe stato meglio recarsi all’ospedale, ma io, in un breve attimo di lucidità mi opposi con resistenza, pensando che forse l’indomani avrei ancora potuto avere del tempo per fare desistere uno dei due dall’assurdo impegno. Ma la dose di tranquillanti che mi venne somministrata per dormire fu tale che la mattina nemmeno mi svegliai e quando cominciai a riprendere cognizione del tempo, era già pomeriggio. L’unica cosa che mi rimase da fare nel momento in cui scoprii la realtà di quanto fossi impossibilitato ad impedire che il fato seguisse il suo corso, fu quella di accettare che ormai tutto era in movimento, che Demetrio stava già seducendo Virginia e che, in un modo che ancora mi era oscuro, tutto ciò avrebbe avuto ripercussioni sulla mia stessa sorte. Rassegnato e angosciato, mi lasciai trasportare dal torpore e nell’unica consolazione che i sintomi della forte febbre avevano impedito ad Anna di associare il mio sconforto all’idea di Demetrio e Virginia, mi abbandonai all’oblio, nel quale, lampeggianti figure di allucinazioni cominciarono a trafiggermi la mente con lancinanti dolori simili a spilli conficcati nel cervello, provocandomi fitte di dolore simultanee alle percezioni illusorie, che mi lasciava solo il tempo di percepire immagini sfuggevoli che solo con l’aiuto dell’immaginazione potevo cercare di interpretare. Immagini oscure che sembravano estensioni degli incubi febbrili che non ero stato in grado di ricordare la notte precedente, di luoghi tenebrosi paragonabili ad antri o caverne che nell’immaginario chimerico prendevano la forma di abissi infernali nei cui baratri si alternavano suoni che sembravano lamenti di gente sofferente, come vittime di una violenza, un sopruso o una tortura. In qualche immagine più nitida mi parve di vedere la forma di una frusta accompagnata dal traumatico sibilo, e certi lampi rossi mi facevano poi pensare al sangue riversato dalle ferite inflitte. Ebbi la visione di mani incatenate, come a indicare una sorta di prigionia e poi, certa, la figura di un volto diabolico che l’immaginazione mi condusse a riconoscere nell’aspetto di un drago, ma che per una strana convinzione non potevo definire un drago. Pensai, o forse fu un'altra visione, al dipinto di Jean-Auguste-Dominique Ingres, “Ruggero libera Angelica”, che avevo avuto l’occasione di osservare in una visita a Londra alla National Gallery, nel quale era raffigurato Ruggero che, giunto in volo davanti ad Angelica incatenata, combatteva contro un mostro dalle sembianze di drago, ricalcando il più tradizionale racconto di Perseo e Andromeda. Ma il contesto storico artistico dell’opera con il quale cercavo di giustificare le allucinazioni della mia mente distorta dal delirio, non era sufficiente a dissuadermi dall’associare Angelica, o Andromeda, con Virginia, e a impedirmi di percepire nel drago l’animo malefico di Demetrio che come un aggressore attentava alla sua virtù seducendola con l’ausilio di forze oscure delle quali aveva appreso le arti grazie ai suoi incontri con sciamani e stregoni dell’Africa nera. La mia razionalità mi portava a concepire che tali contesti erano irreali e che la stregoneria altro non era che la sottomissione a sostanze oppiacee e droghe di svariati generi. Ma la mia razionalità era ormai messa fuori gioco da una continua incostante messa in discussione

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della stessa, e in questa visione non potevo impedirmi di vedere come nella figura di Ruggero io fossi l’eroe che poteva salvarla dal demone. Non avevo ben chiara comunque la storia tratta dall’Orlando furioso in cui l’eroe giunto a cavallo di un ippogriffo, affascinato dalla bellezza della fanciulla liberata, rimanendone sedotto e innamorato, subisse come una sorta di tradimento dalla stessa che usando un anello magico scompariva e si sottraeva a lui. Le mie condizioni erano troppo precarie e deboli tuttavia per avere la lucidità necessaria a creare un nesso tra quelle visioni e la realtà vissuta. Inoltre ancora non potevo collegare quell’immaginario tradimento ad una condizione di cui ancora non avevo consapevolezza, e quando ne avessi avuto la lucidità per farlo, tali immagine erano già troppo disperse nell’archivio dei sogni e dimenticate così come si dimenticano tutti i sogni… Non osavo quasi parlare in preda ad una suggestione nella quale non mi riconoscevo. Non era la prima volta che entravo in una chiesa, sebbene mai per mio volere. Avevo avuto molte occasioni nel mio lavoro di pedinare sospetti all’interno di luoghi sacri, e perfino di avere discussioni d’affari nel circoscritto perimetro di un apparente luogo neutrale. In questo frangente però, qualcosa cambiava. Forse l’atmosfera quasi mistica generata da quel silenzio e quella totale solitudine dove nessun altro visitatore o celebrante poteva distrarre l’occhio divino dalla mia figura. Osservai così Felona quasi intimorito e nel rivolgermi a lei bisbigliai un sussurro come se temessi di poter essere ascoltato. -Mi ricordo uno spettacolo di marionette che rappresentava l’Orlando furioso, ma non so niente della storia- le confessai. Lei non sembrava preoccupata dal mio stesso timore di profanazione e parlò liberamente, consapevole che comunque l’unica presenza in grado di ascoltarci, quella divina, poteva udire anche il minimo bisbiglio. -Si tratta di un poema cavalleresco, come il Parsifal che già ha citato, o come le gesta di re Artù. Lo paragona al mito di Perseo e Andromeda dove in entrambi vi è una fanciulla da liberare, un cavaliere e un mostro. Nell’Orlando Furioso tuttavia Angelica è sfuggevole, tra lei e i suoi spasimanti vi è una continua alternanza di fuga e rincorsa e i cavalieri si scontrano in duelli apparentemente insignificanti per eccesso di ardori, passioni ed eccitazioni piuttosto che nobili intenti-. -Sì, ma il ricordo di cui narra l’autore è relativo ad una liberazione, egli parla di un dipinto in cui l’eroe salva la bella dal drago-. -E qui però introduce il raffronto con Perseo e Andromeda, e non manca di associare le due figure dell’Orlando con quelle mitologiche. L’Orlando furioso probabilmente riconduce simbolicamente in questo contesto alla confusa rincorsa in cui Tommaso prima cerca di spingere Virginia verso Demetrio, poi la vuole allontanare. Lui vede in Demetrio ora il drago e Virginia è la fanciulla da liberare. Ricordi quando abbiamo parlato della simbologia del drago? L’eroe ha sempre bisogno di una presenza femminile per sconfiggere il drago, ma tutto è relativo. Il drago rappresenta i pericoli, la figura femminile la parte inconscia del profondo sé che l’eroe deve affrontare e comprendere. Tommaso non interiorizza ed espone queste figure simboliche all’esterno. Poi fa riferimento ad Andromeda, anche lei prigioniera del mostro mitologico di Medusa, ma Medusa è una vittima…- -Una vittima? Io sapevo che era un mostro terrificante che poteva pietrificare solo con lo sguardo-. -Sì, questo è ciò che tutti conoscono del mito di Medusa, ma in pochi sanno che la sua condanna è stata inflitta da una dea, esattamente come accadde a Elena di Troia. Medusa era una splendida fanciulla di cui Poseidone approfittò proprio nel tempio di Atena e per questo subì l’ira della dea che la trasformò nell’orrendo mostro-. -Si vendicò contro Medusa invece che contro Poseidone? E perché mai lo avrebbe fatto?- -Poseidone era fratello di Zeus e sarebbe stato impossibile vendicarsi di lui senza attirare l’ira del re dell’Olimpo, ma in questo modo Atena si vendica due volte. Annienta la bellezza della fanciulla di cui è gelosa e ne fa ricadere la colpa su Poseidone…- -Quindi ella fa pressione sul possibile rimorso del Dio che dovrebbe sentirsi in colpa per la sorte di Medusa sapendo di essere stato la causa scatenante della sua ira?- -Esatto- -Ma a pagarne le conseguenze sono sempre i più deboli e mai i veri responsabili-. -Infatti, inoltre per una divinità di questa tradizione non vi è pentimento e Atena stessa lo sa, per cui il suo è solo un gesto di ira nel quale traduce il suo sfogo. Il punto quindi resta: che colpa aveva Medusa? Chi ha scatenato il mostro lo ha fatto per un condizionamento riflesso. Così i sogni che Tommaso fa nel

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suo stato febbricitante lo conducono a questo: lui crea il mostro trasformando Demetrio in Medusa; lui incatena la fanciulla trasformando Virginia in Andromeda o Angelica; lui deve liberarla identificando se stesso in Perseo o Ruggero…- -Ma lei fugge-. -Infatti, ecco perchè confonde i poemi cavallereschi con la mitologia Greca. Nell’Orlando furioso Angelica è sfuggevole e nessuno riesce a possederla, ma nel mito di Andromeda invece Perseo la libera e la sposa…- -Quindi lui è combattuto tra ciò che gli sfugge e ciò che vorrebbe conquistare-. -Già, solo che ciò che lui vuole conquistare non è né la sconfitta del drago né la liberazione della principessa… lui insegue se stesso senza sapere ciò che cerca-. -E questo è ciò che rappresenta l’immagine dell’antro? Quello in cui dovrebbe discendere per affrontare il drago, ovvero se stesso?- -Sì, solo che prima deve riconoscersi nelle vesti del drago, per questo rifiuta di riconoscere ciò che deve combattere e ciò che deve liberare, perché una volta accettato questo, dovrà mettere in discussione ogni cosa-. Non mi ero reso conto che il nostro dialogo restava come un eco tra le pareti della chiesa, e prima che potessi farle notare che forse la sede in cui ci trovavamo non era la più adatta alle nostre analisi, sentii la sua vece annunciare il successivo capitolo:

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Vittime di Crono… …Tutto si era concluso nel modo più inatteso. Lui aveva rinunciato e alla fine se ne era andato e io non sapevo ancora né perché, né come si fossero svolti i fatti. Eppure sentivo che niente era terminato. Era successo come venti anni prima. La mia febbre era perdurata per tutta la settimana, alternando momenti di lucidità ad altri di delirio e allucinazioni e infine qualcuno mi aveva detto che stava partendo. L’ambasciatore di tale missiva era stato Val, che nella mia ancora incompleta guarigione, mi appariva come un messaggero di natura oscura. Era successo il venerdì, ad una settimana esatta dall’inizio dei sintomi febbrili, e sebbene lo stesso Val mi avesse assicurato che il suo incontro con Demetrio la mattina stessa fosse stato casuale, io, forse perché ancora deliravo o forse perché ero ormai troppo coinvolto nelle assurde congetture sulla realtà del destino, del fato e degli eventi prestabiliti, non potevo considerare le sue parole come oggettive. Mi aveva detto di averlo incontrato mentre usciva dalla sede comunale dove si era recato per consegnare foto e relazioni riguardanti il materiale da usare per il libro storico sul paese e quindi lo aveva salutato, rivelandogli che durante la settimana trascorsa, dopo aver discusso con i responsabili dell’azienda editoriale con la quale avrebbe dovuto collaborare, aveva infine deciso di rifiutare il lavoro e, poiché non aveva un buon rapporto con gli addii, aveva pregato Val di portare i suoi saluti a tutti coloro che li avrebbero potuti apprezzare. Ma lo stesso Val non era così affidabile come intermediario e, poiché anche lui era in procinto di partire, non più per uno dei suoi viaggi all’avventura ma per questioni di lavoro, aveva pensato di passare a me l’incarico. Mi aveva avvertito che sarebbe partito l’indomani e che non importava certo che io fossi stato tanto sollecito, potevo tranquillamente rimettermi e poi, se qualcuno avesse chiesto, dire semplicemente quanto il Mage aveva riferito a lui: “Demetrio aveva rifiutato il lavoro ed era tornato alla sua vita di reporter naturalista”. Val era stato molto sbrigativo ma quando gli domandai se sapeva qualcosa di più, per la prima volta forse, lo vidi farsi riflessivo e, come se ad un tratto una sorta di intuizione quasi inconsapevole lo costringesse a soffermarsi su un pensiero mai considerato, placò la sua esuberanza e, sedendosi, parve riflettere su considerazioni mai considerate. Certo lui non poteva sapere a cosa mi riferivo ma, nonostante tutto, la sua superficialità si fece meditativa e con una certa complessità il suo pensiero si fece quasi analitico. Iniziò dicendo che Demetrio era una sorta di nomade che, come lui, non poteva restare legato per troppo tempo ad un luogo. Ma fu proprio dalla semplicità di questa constatazione che Val parve intuire quanto in realtà, di semplice, non vi fosse nulla nel comportamento di Demetrio. Mi guardò e come se vedesse riflesso in me lo stesso suo dubbio mi parlò come se dovesse fare una rivelazione che solo lui aveva intuito. -Sai- cominciò -io credo che le persone come Demetrio abbiano dentro qualcosa che va oltre ciò che sono le persone comuni- io lo ascoltai in silenzio perché avevo la sensazione che in quel momento si stesse compiendo un prodigio. Qualcosa che poteva rivelarmi come io non fossi così folle da lasciarmi trascinare dal pensiero che una vita può essere trascorsa nell’assoluta inconsapevolezza o superficialità, rendendomi conto che quello a cui stavo assistendo era un dramma, perché quando ciò accade, è come svegliarsi da un sogno, o peggio, da un incubo, per comprendere dopo tanta inutilità, di non aver mai considerato qualcosa di più grande di un viaggio, un lavoro o perfino un amore e per un momento, fui tentato di fermarlo. Ma sapevo che ormai era tutto inutile perché anche lui a questo punto era una vittima di Crono che avviava quel tempo dal quale non era più possibile tornare indietro. Così restai ad osservare la sua espressione irriflessiva e spensierata, farsi inquieta e meditativa e, come un persecutore, rimasi ad osservare il germogliare del suo tormento. -Io e te abbiamo un ruolo, magari non ben definito, siamo diversi… io viaggio molto e anche se ora lo faccio per lavoro, il motivo principale resta un mio desiderio personale, senza una vera motivazione, tu hai messo radici e hai organizzato la tua vita in modo diverso, ma entrambi ci siamo realizzati e abbiamo consolidato il nostro ruolo, come se avessimo trovato ciò di cui abbiamo bisogno… le persone come Demetrio invece, successo, viaggi e notorietà non sembrano essere quel che cercano veramente, per loro, tutte queste cose appaiono addirittura superflue: sembrano sempre alla ricerca di altro, come fossero tormentate da un’esigenza di un qualcosa che nemmeno loro comprendono fino in

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fondo…- mi guardò con intensità -sai, io credo che Demetrio non possa restare prigioniero di un luogo perchè ancora non ha trovato il suo luogo, o il suo ruolo-. Non potevo rivelargli come io credevo il contrario, ovvero che eravamo noi a non conoscere ancora il nostro ruolo. -È forse per questo che ha deciso di riprendere il suo cammino…- non proseguì, ma il suo silenzio mi rivelò come ormai in lui qualcosa stava cambiando irrimediabilmente. Provai quasi tristezza e come a volerlo distrarre dalla malinconia che pareva coglierlo gli domandai se secondo lui Demetrio aveva desiderio che i suoi saluti fossero portati a qualcuno in particolare. Lo vidi riprendere la sua solita espressione -non saprei, io credo che sia tu la persona cui teneva più di tutti, ma allo stesso tempo tu sei anche quello che lo conosce meglio-. Ci salutammo e lo lasciai andare, consapevole che se per lui Demetrio se ne andava per trovare il suo ruolo, io sapevo che al contrario, era per lasciare che fossimo noi a cercarlo. Ma qualcosa era rimasto in sospeso e quel suo partire improvviso per me, non era affatto per un’incapacità di mettere radici, così come la sua rinuncia a quanto, in apparenza, era tornato per concludere non era causata da un fallimento ma piuttosto da un progetto già calcolato. A mio avviso, nemmeno quel fantomatico lavoro aveva mai avuto una reale consistenza e come vent’anni prima, turbato, ero andato da lui, per conoscerne la ragione. Per un motivo che non so spiegarvi, avevo la certezza che la mattina successiva non avrei avuto più alcun sintomo di febbre o altri malesseri, come se la mia indisposizione fosse stata in qualche modo legata alla necessità di non intromettermi nelle questioni che lo riguardavano, sebbene accettare una simile verità sarebbe stata come ammettere che Demetrio era veramente una sorta di stregone, e solo questo, poiché ancora volevo mantenere una certa integrità mentale, mi permise di conservare i miei dubbi. Venti anni prima gli avevo chiesto se era per lei che se ne andava e lui aveva risposto che lo faceva perché aveva avuto una buona proposta di lavoro. Questa volta gli avrei chiesto se la proposta di lavoro non era come se l’aspettava. Lo trovai dove mi attendevo che fosse, o meglio, dove sapevo che era. Vent’anni prima ero andato a trovarlo direttamente a casa sua, questa volta, forse per il timore che la mia visita lo inducesse a ripensare alla sua decisione, lo andai a trovare direttamente alla stazione, dove era in attesa del treno che lo avrebbe condotto in un'altra città per poi proseguire verso una destinazione presumibilmente ancora ignota. Eppure, malgrado la sua partenza avesse dovuto essere un sollievo, come vent’anni prima, una sensazione di disagio mi inquietava. -La proposta di lavoro è ottima- rispose -di quelle che uno della mia professione e età non esiterebbe ad accettare- rispose come se non dovesse aggiungere altro ad una domanda che, in effetti, esigeva una sola risposta. Inevitabile dunque la ribattuta, sapendo che la risposta voluta non era quella desiderata, in quanto la domanda stessa non era stata posta per avere tale risposta. -Allora perchè hai rifiutato?- questa volta non fu elusivo, lui sapeva bene quel che cercavo e io avevo l’impressione che il suo obiettivo questa volta non fosse d’essere ambiguo, ma di darmi esattamente ciò che volevo. Tuttavia ancora sembrava volermi offrire delle vie di fuga, come a dimostrare nella sua lealtà, di lasciarmi libero nello scegliere le mie protezioni. -Non sono tornato per un lavoro Tommaso, e tu lo sai. Perché continui ad insistere a voler conoscere più di quando dovresti? Ormai intendi i rischi del voler proseguire su territori sconnessi dai quali poi non puoi più tornare indietro. Se hai imparato a leggerne i segni, devi averlo sperimentato in qualche occasione nei confronti di altri…- Sussultai in modo contenuto perché avevo l’impressione che la sua allusione fosse a quanto avevo scoperto solo la sera prima nei confronti di Val, il che mi conduceva a considerare che nemmeno l’aver mandato lui da me come emissario fosse stato casuale ma piuttosto ben premeditato. Non attese che io lo invitassi a continuare, il mio pensiero fu veloce e il suo dialogo non si era interrotto. -In fondo anche tu hai avuto ciò che volevi no? È il senso di colpa a spingerti verso questo precipizio?- non comprendevo che cosa avesse voluto intendere con quell’ultima affermazione, ma in un certo senso, non potevo evitare di sentirmi in parte colpevole.

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Una colpa che doveva avere avuto origini molto più lontane nel tempo, ma sempre in un tempo che io valutavo riconducibile ad una data precisa e che si collocava nell’intervallo racchiuso nell’età che andava tra i quindici e i venti anni. -È stata lei a dirti di andartene?- gli domandai. -Sapere che è andata così ti farebbe stare meglio?- ribatté lui. Non sapevo se mi avrebbe fatto stare meglio, e non risposi. Osservai l’esile bagaglio ai suoi piedi. Una piccola valigia che si poteva definire una sorta di bagaglio personale, come quelli che sono concessi di portare all’interno di un aereo sotto forma di bagaglio a mano, e che non conteneva niente che potesse far pensare all’idea che uno dovrebbe avere di un soggiorno prolungato. Nell’immediato però non pensai che quello era il medesimo bagaglio con il quale doveva essere arrivato. Certo se la sua intenzione era quella di trasferirsi avrebbe potuto essere anche una cosa normale, visto che in definitiva tutte le sue cose avrebbero poi dovuto giungere in un secondo momento. Tuttavia la stessa condizione di doversi trasferire avrebbe dovuto presagire la prevenzione della necessità di più oggetti personali per il soggiorno. Se avessi valutato queste cose, forse avrei cominciato a fare congetture diverse sulla sua consapevolezza a non dover restare a lungo, e quindi al pensiero che lui già sapeva come sarebbero andate le cose. Ma allo stesso tempo, se lo avessi fatto, sarei nuovamente precipitato nel baratro dell’assurda idea che lui prevedesse il futuro e avrei rischiato di gettare la mia mente in un caos delirante. Forse era questo che intendeva con quell’affermazione. Sta di fatto che non pensai a nulla e lui si sedette sulla classica panchina della stazione. Mi guardò -hai mai avuto il sospetto di non avere il controllo della tua vita, ma che sia la tua vita ad avere il controllo su di te?- mi disse, ma io non ero intenzionato a lasciarmi condurre verso astratti discorsi irrazionali. -No, sono dell’idea che la vita deva essere semplicemente vissuta e che se qualcosa non va nel modo in cui avremmo voluto non sia colpa né nostra né del destino- lo dissi con un chiaro riferimento alla sua condizione con Virginia e lui annuì intuendo quale fosse stata la mia allusione. Evidentemente però, non era a quello cui stava pensando. -Quindi se tu non fossi stato figlio di una famiglia economicamente ben disposta ma di un padre ubriacone e una madre di mala educazione, credi che la tua vita sarebbe stata la stessa?- Lo guardai indignato, sapendo che non avrei dovuto rispondere ma incapace di controllare l’istinto. -Certo le condizioni possono avere qualche influenza, ma non sono una giustificazione per gli eventi- dissi. -Capisco- rispose semplicemente lui e il suo successivo non aggiungere nulla mi fece irritare. -Andiamo Mage, non puoi pensare che la tua condizione sia la causa che ti ha impedito di stare con Virginia. Lei desiderava altro, tutto qua-. -Il che ci riconduce inevitabilmente alle nostre condizioni. Se io fossi stato l’altro che lei desiderava, non credi che le cose sarebbero state diverse?- Fu con arroganza che risposi, senza rendermi conto che in quel modo contraddicevo me stesso -magari se tu fossi stato diverso, non avresti nemmeno desiderato di volere lei non credi?- Lui sorrise e annuì compiaciuto -sì è vero. Quindi io dovevo essere così per desiderare lei, e se lei mi ha rifiutato, è possibile che ci fosse una ragione che va oltre le nostre concezioni. Tu che ne dici?- provai una sensazione di forte disagio perché, nonostante la confusione che mi stava sorgendo nella mente, mi rendevo conto che in tutta quella insensatezza, vi era qualcosa di sensato. -Tu vuoi assolutamente giustificare un evento nello stesso modo in cui facevano gli antichi. Creando miti dal concetto incomprensibile, come se l’avvenire dei fatti sia guidato da forze di natura sovrumana. Ma non è così che funziona. La realtà è quella in cui viviamo, siamo tutti diversi con gusti e idee diverse…- -E tuttavia c’è chi può permettersi di realizzare i propri progetti e chi invece no. Rifletti Tommaso, e se noi dovessimo invece essere esattamente ciò che siamo? E quindi il nostro realizzare o no i nostri progetti non fosse solo questione di potere o no?...- -Smettila con questi discorsi, non siamo più ragazzini Mage- lo interruppi perché sentivo troppo opprimente quel vorticoso caos mentale, allora lui si fece cupo e serio. -Dimmi Tommaso, cosa hai pensato la notte in cui è morto Marco?- lo guardai con una sorta di paura negli occhi.

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-Sono stato male, come tutti quelli che lo conoscevano-. -Non dire stupidaggini. Marco non era apprezzato e non aveva amici, se escludiamo noi due, Val e Vincent. forse si può dire che qualcuno ci sia rimasto male certo, ma che la sua morte abbia avuto una conseguenza nelle coscienze di qualcuno, lo dubito proprio-. -Forse avrebbe dovuto averla nella tua- lo aggredii -visto che della morte degli altri non sembra ti importi un gran che. Non venisti al suo funerale, sebbene dici che era tuo amico, e come facesti con tuo padre, giustificasti la mancanza con l’impegno del tuo lavoro- mi stavo irritando e non mi rendevo conto che le mie parole erano di una durezza tale da poter ferire chiunque. Ma lui restò impassibile mentre chi si sentiva ferito ero io. -Io c’ero- mi disse allora, e improvvisamente ricordai il racconto che mi aveva fatto sull’esperienza che aveva avuto in occasione della morte di suo padre. Cercai di rendere incredibile ciò che aveva detto, convincendomi a forza che tutto quello che avrebbe detto era solo il frutto di una mente malata… ma quando mi aveva raccontato la storia del sogno e di suo padre, non avevo avuto esitazioni a crederci. -Andiamo Mage, non affibbiarmi la storia delle esperienze oniriche. La verità è che tu non c’eri ed è inutile cercare di crearsi alibi ai quali puoi credere solo tu per giustificarti-. -Io non ho detto che ero al funerale. Io ero lì, quella notte. Ero sul treno- mi confessò, ed io provai un forte freddo e lo guardai come si guarderebbe un traditore. Il gelo però mi aveva bloccato perché intuivo che la tempesta ghiacciata doveva ancora abbattersi su di me -e c’eri anche tu- continuò infatti. -Stai delirando- dissi -io quella notte ero a casa mia. Stavo addirittura dormendo. Se non hai ben chiaro i fatti, ti ricordo che l’incidente è avvenuto alle tre del mattino-. -E per questo fu facile definirlo un incidente. Ma tu sai che non andò così vero? Vincenzo aveva pianificato tutto. Fermarsi con l’auto sulle rotaie appena dietro una curva per non dare il tempo al macchinista di accorgersi dell’ostacolo, e attendere, ascoltando per l’ultima volta Jim Morrison e la sua preghiera americana. Ascoltando quelle parole tanto simili a quelle che anche lui scriveva, sentendo per l’ultima volta quella frase: “non andrò, preferisco una festa di amici alla grande famiglia”. Un tempo le ascoltavi anche tu le canzoni di Re Lucertola, ricordi?- Cercai di dire qualcosa ma riuscivo solo a balbettare -e io che vuoi che ne sappia?... Che stesse ascoltando Jim Morrison o Janis Joplin non sarebbe poi stato così stupefacente, lui ascoltava solo quelli… questo non significa certo che io ero con lui… tu, tu stai facendo accuse pesanti Mage…- Non ascoltò le mie obiezioni -ci fu un bel trambusto. Tuoni di lamiere contorte, urla di gente mentre il treno deragliava, lo stridore dei freni e le scintille delle ruote d’acciaio sulle rotaie, e i pianti… poi improvvisamente intorno a noi si fece silenzio ricordi?- -Io non ricordo niente perchè non c’ero-. -Quando uscii dal treno, tutta quella confusione non sembrava nemmeno esistere. Nel buio si vedevano fiamme e fumo, si potevano scorgere le ombre di chi accorreva e di chi cercava di fuggire, ma erano solo ombre. Tutto ciò che era limpido, era la macchina contorta schiacciata dal treno, il volto sfigurato ed esanime di Marco e tu seduto al suo fianco, con un foglio tra le mani. Io ti ho visto e tu hai guardato verso di me, ma non mi hai riconosciuto-. -Ma che follia stai dicendo. Se fossi stato nella macchina con lui sarei morto anch’io-. -Tu non eri nella macchina con lui, ma nel sogno con me-. Risi istericamente -ecco dove volevi arrivare, ma se io non ti ho visto…- mi fermai, volevo continuare dicendo “significa che il sogno era solo tuo”, ma improvvisamente sentii un’angoscia tale assalirmi da crearmi vertigini e nausea. L’avevo fatto quel sogno, e l’avevo perfino ricordato, per pochi secondi, come succede quando si sogna e ci si sveglia di soprassalto, perché era stato un incubo e non un sogno. Ed ora, quell’immagine tornava ad assalirmi come uno stato di già vissuto. L’ombra che si stagliava contro le fiamme e il brusco risveglio che mi aveva impedito di riconoscerla, era rimasta a turbarmi per tutto il giorno. L’avevo rimossa rapidamente, quell’ombra che si avvicinava su uno sfondo reso tetro dal fiammeggiare del fuoco, così come avevo rimosso quelle parole scritte su un foglio che non avevo letto, non ancora, ma che sapevo essere un inno alla solitudine. La solitudine di chi, con l’arte nel cuore ha tante cose da dire ma nessuno che le vuole ascoltare. Le parole di una canzone che aveva scritto e consegnato a me pochi giorni prima, una canzone senza note, una canzone

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d’addio, e che io ancora non avevo letto… e l’ombra che camminava verso di me, teneva tra le mani un foglio… ecco perché avevo rimosso il ricordo dell’assurdo sogno, perché se avessi letto quel testo e avessi intuito la solitudine di chi lo aveva composto, forse avrei potuto evitare l’assurdità dell’insano gesto di cui non potevo ritenermi responsabile e improvvisamente provai ancora più freddo mentre lo sguardo del Mage restava fisso su di me. La notte successiva all’incidente, provai gli stessi sintomi che avevo avuto solo fino a poche ore prima di quel momento, era stata la prima di una serie di crisi febbrili, durata solo una notte dopo la quale ogni tormento relativo a qualsiasi coinvolgimento nel destino suicida dell’amico musicista era scomparso, come svanito nel nulla dalla mia memoria, così come svanisce la nebbia al calore del sole. Guardai Demetrio che sembrava sapere tutto e scossi il capo con angoscia. -Che cosa vuoi dire, che sono responsabile del suo gesto? Che il destino stava consegnando nelle mie mani il suo fato? E anche se fosse stato? Anche se avessi avuto un messaggio premonitore, che cosa avrei dovuto fare? Avrei dovuto recarmi da lui e dirgli di non fare quello che aveva in mente basandomi sulla supposizione di un testo scritto per una canzone? Secondo te è normale poter pensare che uno ti annunci la sua morte? Credi che sia facile poter decidere se qualcuno o qualcosa ti sta annunciando il futuro? Quelle parole potevano significare tutto e niente. Credi che sia così semplice capire il pensiero altrui?...- -No, affatto- disse con semplicità disarmante -e quello che hai fatto era probabilmente l’unica cosa che dovevi fare-. Lo guardai con una chiara espressione di incredulità. Come poteva avermi accusato solo due secondi prima di poter conoscere eventi di un presupposto futuro e poi, nel medesimo istante assolvermi dal non averlo cambiato? -Averlo lasciato morire se potevo impedirlo, sarebbe stata la cosa giusta?- -La cosa giusta non è mai possibile capire quale sia. In un modo o nell’altro le tue azioni sono corrette per quanto saranno utili a te, e io non sono qui per accusarti, né per rivelare verità che non conosco. Io ricordo quel sogno, ma solo in questo momento tu mi confermi che era anche il tuo. Ma mentre a te sembra assurdo, per me invece appare tutto chiaro-. Provai una forte rabbia nel sentire la rivelazione che mi aveva fatto -così mi hai ingannato. Tu non sapevi se io l’avevo sognato-. -Sì è vero. Ma cosa cambia? Se rifletti un po’, arriverai a comprendere che non sono stato io a ingannarti ma che eri tu a ingannare te stesso. Tenerlo nascosto non cambia i fatti, e sentirti in colpa non ti dà la possibilità di comprendere-. -Comprendere che cosa? Che il tuo stramaledetto destino si diverte a giocare col nostro inconscio e poi ce lo sbatte in faccia?- -No. Semplicemente che il destino non sta giocando e che né tu né io possiamo mutarlo, se non per ciò che riguarda noi stessi. Non avresti potuto fare nulla per Marco semplicemente perché ciò che avresti potuto dargli erano solo altre illusorie parole di conforto. Un conforto di cui lui non sapeva che farsene. Devi credermi quando ti dico che il destino ci offre tutte le opportunità di cui abbiamo bisogno, e anche lui ha avuto le sue, ma ha fatto le sue scelte, ed ora dovrà attendere altre occasioni…- -Io non voglio più ascoltare le tue follie. La vita è una sola e quando è andata è andata, nessun altro destino, nessuna altra opportunità-. -Forse. Io non metto in discussione che anche la tua sia una possibilità, ma forse proprio per questo, se è come dici tu, non dovremmo sottovalutare le nostre opportunità.- -E quale sarebbe stata la mia opportunità?- -Se Marco non fosse morto inutilmente? Se tu riuscissi a dare alla sua sorte un significato, credi che potresti accettare che il suo destino abbia avuto un senso e che ciò potrebbe concedere anche a te di cogliere la tua opportunità?- -E quale significato potrei mai dare ad un gesto simile?- -Forse tu non hai ricevuto quel messaggio per impedire che il fato si compisse. Forse tu dovevi semplicemente comprendere che ogni giorno, nei fatti che si svolgono, anche nei più insignificanti, o durante la notte anche mentre dormiamo, noi riceviamo informazioni-. -E il destino sarebbe disposto a uccidere per renderci consapevoli di questo?-

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-Non è il destino che decide la nostra sorte, il destino non è un assassino. Tuttavia spesso è necessario un forte trauma per renderci consapevoli. Su quella sorte, nessuno, nemmeno il destino poteva intervenire. Perciò, il destino ha deciso di usarla per un altro scopo e di fare un dono ad un altro soggetto. Questo lo puoi accettare o rifiutare, condividerlo o rinnegarlo, ma da come deciderai di usarlo, solo tu ne subirai le conseguenze. Io accetto la morte di chi mi sta intorno e la stessa cui io vado incontro e sento più vicina ad ogni giorno che passa, perché sono in grado di concepirla come una risorsa. Io sono in grado di accettare il bene e il male perché pur nella sua atrocità è solo attraverso tale condizione che posso comprendere quale via seguire…- si fermò per un istante e i suoi occhi presero la solita inevitabile tristezza -…io posso accettare di rinunciare a Virginia perché ho capito che la mia rinuncia mi condurrà a qualcosa di essenziale e che ciò era inevitabile perché anche lei necessita di trovare le sue risposte… risposte che non avremmo potuto trovare insieme in questa vita, sebbene ancora le sia impossibile comprenderlo… io posso fare tutto questo perché ora sono in grado di sopportarlo…- il treno fischiò in lontananza e Demetrio si alzò dalla panchina. -Aspetta- cercai di trattenerlo, ma lui mi fissò col suo sguardo triste. -Tu sei in grado di sopportarlo?- mi disse e subito pensai a Marco, lui, non era stato in grado di sopportarlo. -Io ho ancora molte cosa da chiarire con te- quasi lo aggredii nel tentativo di scrollarmi di dosso i pensieri delle molte responsabilità che improvvisamente mi assalivano. -No Tommaso, tu non hai più nulla da chiarire con me. Tu hai ottenuto ciò che volevi, sei riuscito a impedire che l’universo di Virginia perda il suo equilibrio, ma quello che devi capire adesso è se il tuo di universo sia ancora nel giusto equilibrio, o se lo sia mai stato. Tu hai fatto delle scelte e ora le dovrai comprendere, e una volta comprese, affrontarle. Perché dalle nostre scelte può dipendere non solo il nostro avvenire, ma anche quello di altre persone… persone alle quali siamo troppo legati e che in un altro tempo, potremmo trovarci a dover lasciar andare…- Il treno si fermò e le porte si aprirono con un sibilo -Demetrio- lo chiamai mentre si apprestava a salire, ma lui non si voltò. -Il tempo scorre Tommaso, rifletti sul tuo termine- disse soltanto. Poi lo vidi avvicinarsi al controllore. -Ha il biglietto signore?- sentii l’uomo in divisa domandare. -No, la biglietteria è guasta-. -Allora lo facciamo adesso, dov’è diretto?- -Dove va questo treno?- -Ferma a Padova, poi Venezia, Mestre e poi su fino a Udine-. -Udine andrà bene…- furono le ultime parole che gli sentii dire mentre lo osservavo incapace di fermarlo, andarsene a bordo di un treno senza destinazione… Osservai, più che il suo silenzio, la sua perplessa inquietudine e come colto da un presagio sfavorevole sentii sorgere in me un timore. Ella appariva rapita da un’estasi mistica e osservava davanti a sé come se in quell’ambiente definito sacro, avesse veramente incontrato qualcosa o qualcuno di venerabile. Ebbi quasi timore a destarla da quel momento estatico, ma osai rischiare l’ira di chi poteva essere l’artefice di tale condizione perché io cominciavo a sentire sorgere in me un dubbio atroce e sempre più, in questa avventura, non volevo restare solo. -Felona- la chiamai con un sussurro. Lei ebbe un sussulto e mi guardò con sorpresa, come se si destasse da un sogno -va tutto bene?- mi preoccupai, non so se più per lei o per me. Lei si lasciò cadere il fascicolo sulle ginocchia e in quel rilassamento quasi obbligato vidi svanire ogni sua forma di sicurezza e certezza. -Tu hai mai considerato la possibilità di non essere ciò che sei?- mi domandò e io percepii l’insidia di un tranello che tuttavia non era lei a tendermi ma piuttosto un qualcosa che non potevo comprendere, forse quell’entità che l’aveva estasiata e che io non ero stato in grado di cogliere. Cercai di svincolarmi e allo stesso tempo, per riportarla al suo stato di normalità di distoglierla dall’argomento. -Ne abbiamo già parlato di queste cose, che senso ha ritornarci su adesso?- le feci notare. Mi guardò con i suoi profondi occhi scuri -no, abbiamo parlato dell’essere e del non essere, ponderando la possibilità di vivere come sogni piuttosto che come realtà. Quello che intendo ora è se ti sei mai chiesto se quello che fai è ciò che avresti voluto fare, o ciò che avresti dovuto-.

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Fui io, a quel punto, a guardarla con ambiguità -e come non può uno sapere ciò che vuole?- -Non tutti possono fare ciò che vogliono- rispose lei. -È vero, ma non tutti sanno ciò che vorrebbero fare- le risposi come se all’improvviso i nostri ruoli si fossero invertiti e io fossi divenuto lo psicologo, ma lei scosse il capo. -Quando ho iniziato questa indagine con te, sono stata attratta da questo documento. Da psicologa ho intravisto la possibilità di studiare una nuova condizione, ma credo di essermi imbattuta in qualcosa da esaminare che va oltre un semplice caso clinico: due persone diverse e le loro reazioni, ossia tu e lo scrittore…- per un momento la consapevolezza di essere considerato un caso clinico mi procurò un certo fastidio, ma lei non parve darvi importanza e proseguì. -Ora mi sento come se io stessa fossi sotto esame. Ho avuto modo di imbattermi in circostanze simili già in altre occasioni ma i pazienti che a causa di una depressione rifuggono in questi stati di allucinazione, si rivolgono alla spiritualità nella speranza di trovare una sorta di sollievo, benessere, consolazione o semplice conforto, sono reali casi che si risolvono con più o meno semplici diagnosi e terapie. Qui non vi è depressione. L’accettazione di uno stato cui non può opporsi, come se il protagonista lo considerasse necessario, lo colloca ad un livello superiore. Questo individuo non avrebbe alcuna necessità di terapie psicologiche, egli accetta di vivere la sua vita come la vita vuole che lui viva…- -E questo ti sembra che non sia sufficiente per renderlo psicolabile?- le feci notare che in definitiva quello che lei definiva un accettazione, altro non era che un rifugiarsi in una sorta di delirio spirituale. -No, hai ragione, ma il problema è che non è lui a raccontarlo. Non fosse per l’amico che si sente oppresso dalle sue angosce, Demetrio non ne parlerebbe, questo lo conduce ad un livello superiore. Che la sua accettazione sia un rifugio o no, a questo punto ha poca importanza perché lui comunque ha superato il dramma. Tommaso invece vive questo dramma come se veramente credesse che Demetrio sia portatore di un messaggio, un araldo divino che gli sta trasmettendo un insegnamento…- -Ed è questo a turbarti?- le domandai come se ciò non avesse senso. Mi guardò come se fosse incerta se mettermi al corrente di ciò che pensava, e quando lo fece, cominciai a intuire il perché. -Come può una persona suscitare determinati stati d’animo in ogni individuo che incontra? Tommaso è combattuto tra il venerarlo e l’odiarlo, Virginia prima lo odia e poi lo ama, Val comincia ad avere percezioni di vita… perfino le sue sorelle che lo odiano non riescono a scacciarlo e a vendicarsi…- poi restò in silenzio e allora fui io ad essere colto da un temibile dubbio. -E tu? Che cosa ha risvegliato in te?- sembrò quasi che le avessi rivelato un segreto inconoscibile. -È questo il punto. Ora non sono più certa del perché mi sono lasciata trascinare in questa avventura, e non sono più certa di essere ciò che sono o di fare ciò che voglio. È questo ciò che l’araldo cerca di dirci? Vuole farci comprendere chi o cosa siamo? O se veramente siamo ciò che crediamo di essere?- La confusione cominciò ad assalirmi e provai un senso di vertigine. -Non devi mettere in discussioni le tue certezze Felona, pensa a questo individuo come a un lavoro…- -Ma è proprio questo il punto: le certezze ci rendono immobili, i dubbi ci portano al movimento. La mente comincia a riflettere nel dubbio e a cercare risposte. La certezza muove solo l’istinto, e l’istinto è prerogativa degli animali. Se ci lasciamo annientare dalle certezze, che cosa ci rende diversi dagli animali? È il drago che ci domina capisci? Senza il dubbio non cercheremo mai di liberare la bella imprigionata, vagheremmo alla ricerca dei nostri desideri per soddisfare i nostri impulsi come i cavalieri erranti dell’Orlando furioso e non andremo mai contro il mostro da noi stessi creato come Perseo…- -Sì, ma Perseo sconfigge un mostro che non ha colpe, lo hai detto tu…- -Perché è stato generato da qualcosa di esteriore, e lui lo ha compreso nel momento in cui riconosce Andromeda, la sua sposa, il suo lato interiore, imprigionato da chi ha generato il mostro. Lasciandoci trasportare dall’inerzia di ciò che ci circonda e seguendo quanto riteniamo corretto solo perché così è la percezione collettiva, noi accettiamo di alimentare il drago e non vediamo le catene che ci imprigionano sotto la sua custodia. Perseo sconfigge il mostro creato da volontà esterne alla sua e poi diviene re, imperatore di se stesso. È questo che ci sta dicendo. Siamo ciò che siamo non per nostro volere ma per un volere altrui, come le marionette dello spettacolo che rappresentava il tuo Orlando furioso- sentenziò, e io provai un brivido e percependo la minaccia cercai di ribellarmi.

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-Io so ciò che sono e ciò che faccio, e non ho alcun dubbio su ciò che devo o non devo essere- reagii alla minaccia di quel risveglio di cui parlava ora lei e a quel punto vidi riflesso nel suo sguardo il timore di ciò che non volevo avvenisse: l’essere abbandonato. -Allora forse dovresti continuare da solo- mi disse e lo smarrimento che provai mi fece quasi perdere l’equilibrio. -Non dirai sul serio?- quasi balbettai. -Nella mia professione, quando si comincia a dubitare significa che è tempo di smettere, è come quando un investigatore viene scoperto- disse. -Ma tu non stai lavorando- cercai di farla desistere da quel momento di smarrimento. -E chi te lo dice?- Non potevo permettere che mi abbandonasse, mi ripetevo che senza il suo aiuto non avrei risolto nulla, ma la realtà che non volevo ammettere e che nascondevo a me stesso era che avevo paura. Tutti i timori che Felona cominciava a percepire, sebbene ne potessi avere conferma solo in quel momento, io già li avevo percepiti e se la verità mi avesse condotto in condizioni insopportabili non avrei potuto affrontarlo da solo, e tutto ciò che volevo in quel momento era appunto non rimanere solo. Mi resi conto che era la prima barriera della mia armatura a spezzarsi. Io non avevo mai considerato l’essere soli una debolezza, ma piuttosto un punto di forza: nessun vincolo, nessuna responsabilità, pura e semplice libertà di cui non avrei dovuto rendere conto a nessuno… fino a quando non sarebbero sorte difficoltà che solo in quel momento imparavo a valutare. L’essere soli era un bene finché tutto era bene, ma nella paura e nella difficoltà, la solitudine diveniva panico e inerzia. -Non puoi lasciarmi solo, senza di te non riuscirei a comprendere nient’altro di questo intrigo- quasi l’implorai e lei mi guardò con sospetto. -È solo questo che vuoi?- mi domandò, e io compresi che ciò che chiedeva in quel momento era sincerità, quella che io non potevo rivelare. -Senti, probabilmente è solo questo posto a metterti in crisi, è un luogo di suggestione e magari tu ne hai subito l’influenza, che ne dici se usciamo?- Chinò il capo e si lasciò andare in un sospiro deluso -lui ha avuto un messaggio premonitore attraverso un sogno in cui si fondevano le vite di tre persone. Se avesse creduto in questa possibilità forse avrebbe potuto cambiare le sorti di una delle tre…- disse, ma io stavo sfuggendo alle sue deduzioni perché ora la mia mente era dominata dal timore di quella solitudine che solo ora comprendevo di non desiderare, e in quella paura cominciai ad assecondarla quasi senza rendermene conto. -Non avrebbe potuto fare niente, l’araldo stesso glielo ha confermato ricordi?- cercai di usare le sue parole per indurle nuovo entusiasmo -Demetrio ha ammesso che non poteva cambiare il destino dell’amico suicida-. -Infatti, non poteva cambiare il destino perché il destino non è prestabilito, ma usa gli eventi per trasmettere messaggi- disse allora lei. -Ma il suo messaggio era ambiguo, come poteva Tommaso prevede ciò che sarebbe avvenuto interpretando il testo di uno che vuole fare il cantante? Poeti, cantanti, scrittori, sono ambigui per natura, se su ogni loro scritto dovessimo percepire dei messaggi o pensare che ci stiano chiedendo qualcosa, cadremmo in uno stallo mentale. Nessuno può capire se ciò che ha ricevuto è qualcosa di simile a quel che afferma Demetrio, così come può effettivamente pensare di intervenire Tom?- -È proprio questo il punto: come possiamo capire i segni del destino? E poi Demetrio non si riferiva a Marco quando dice che il messaggio era rivolto a lui, dice che il gesto del cantante è il messaggio stesso-. La mia espressione si fece preoccupata -tu non ti rivolgi al sogno premonitore intendendo che la sorte da cambiare è quella di Marco- sussurrai come illuminato da un’intuizione senza lume. -Erano in tre in quel sogno, uno agiva, uno sapeva, l’altro era ignaro-. -Se Tommaso avesse compreso il messaggio del sogno, avrebbe cambiato la propria sorte? È questo che intendi? E quale sarebbe il messaggio… quale sarebbe stata la sua sorte?- Felona parve fondersi nei suoi tormenti e i timori che provava non sembravano aiutarla -sei certo di volerlo scoprire? Perché io comincio a dubitare di voler sapere- disse, e in quel momento potei distinguere il brivido di freddo o di sorpresa da quello della paura.

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-Io non posso più fermarmi Felona, e ho bisogno del tuo aiuto-. -Perché?- mi domandò, e questa volta sapevo che se avessi esitato di nuovo, l’avrei persa. -Perché non voglio essere solo quando lo scoprirò. Perché ho paura- ammisi. Quello che le vidi sul volto non fu soddisfazione, ma piuttosto rilassamento. -Io comprendo la tua paura e sono contenta che finalmente sia riuscito ad ammetterla, ma il fatto è che ora anch’io inizio ad averne e non sono certa di riuscire ad andare fino in fondo-. La fissai con intensità -ti prego Felona, non abbandonarmi- la implorai. -Hai ragione- disse allora con uno sguardo assorto nel quale io ancora non potevo comprendere quale sarebbe stata la sua decisione -questo luogo è troppo suggestivo, meglio uscire-. Si alzò in piedi e io la seguii e, ancora nell’incertezza, mentre mi avviavo verso l’uscita, forse per la prima volta, mi ritrovai a pregare in una chiesa. La penombra della chiesa fu sostituita dalla luce del sole e improvvisamente l’atmosfera grigiastra che ci aveva accolti a Casterba parve svanire. Il cielo fuori era divenuto limpido e il sole brillante, e tutto sembrava avere nuovi colori. Felona si sedette sui gradini della chiesa -che cosa fai?- le domandai. -Rifletto... Stavamo cercando qualcosa che fosse il vero turbamento di Tommaso, e ogni volta che compare un elemento più tragico, ancora non sembra essere sufficiente-. -Che cosa intendi?- -Come reagiresti se qualcuno ti dicesse che potevi salvare un amico se solo avessi posto più attenzione a ciò che faceva, diceva o ti regalava?- -Credo che il senso di colpa mi schiaccerebbe psicologicamente-. -Infatti, eppure, nemmeno questo sembra essere il dramma peggiore per Tommaso-. -Ma che cos’è- dissi con una sottile ironia involontaria -un demonio? E poi, come fai a dire che ancora non abbiamo scoperto la causa dei suoi tormenti? Lui aveva rimosso ogni ricordo ma ora è costretto ad ammetterli-. -Sì, ma Demetrio lo scagiona e questo per lui è sufficiente perché ancora ha fiducia in lui e soprattutto ha necessità di sentirsi scagionato, così se Demetrio gli dice che lui non ha alcuna responsabilità, lui ci crede e lo accetta-. -Allora è tutto più semplice: lui fugge dalle responsabilità e ogni giustificazione per lui è sufficiente. La diagnosi è che è un codardo, ha paura delle sue stesse azioni-. -No, non è così semplice. Lui non può ancora accettare le sue azioni perché Demetrio gli rivela anche che il messaggio del destino non era per Marco, ma per lui-. Restammo in silenzio e io mi sedetti vicino a lei -che cosa lo rende così complicato?- le domandai. Mi guardò -è la vita stessa ad essere complicata, al punto che ogni cosa non è mai sufficiente-. Io attesi qualche secondo -e allora, che facciamo?- -Scopriamo qualcosa di più- non osai oppormi, in quel momento tutto ciò che desideravo era che restasse e la sua affermazione appariva come un consenso, così restai in silenzio e l’ascoltai riprendere la lettura:

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L’araldo degli dèi… …Me ne restai lì, fermo immobile fino a quando non mi fu più possibile scorgere la sagoma del treno che scompariva all’orizzonte con una strana ma non insolita sensazione addosso. Quella classica impressione che sarà capitato a molti di sentire, nella quale si ha come la percezione di aver mancato qualcosa, tipo un appuntamento importante o, appunto, di aver perso un treno. Era come se comprendessi che in quei pochi momenti, o in quei tanti anni, non avessi fatto o detto qualcosa che avrebbe potuto cambiare le cose o, peggio, al contrario, se ciò che avevo detto o fatto, certe cose le aveva veramente cambiate, ma non nel modo in cui avrebbero dovuto essere. Eppure, non percepivo in me alcuna colpevolezza, come se ad un certo punto fossi divenuto conscio che le realtà di Demetrio erano le uniche verità possibili: io non potevo cambiare le sorti del destino e di quanto avevo fatto o non fatto non avevo maggiori responsabilità di quanto chiunque altro non potesse averne in ciò che nella propria vita aveva fatto o non fatto. Non potevo sentirmi colpevole per Marco perché non avrei potuto comprendere la sua disperata richiesta d’aiuto, nemmeno se avessi letto la sua canzone prima del dramma; non potevo ritenermi responsabile della tristezza di Virginia perché, in definitiva, era stata lei a compiere le sue scelte senza valutarne le opportunità e le conseguenze; e infine, non potevo ritenermi responsabile della solitudine di Demetrio, della quale lui stesso se ne era reso responsabile, e quasi totalmente convinto della mia innocenza, improvvisamente mi sentii svuotato, stanco e indebolito, come se su di me fossero passati ulteriori venti anni e fossi improvvisamente invecchiato. Fu con tale sensazione che mi sedetti sulla panchina dove pochi minuti prima era stato seduto lui ad aspettare il suo treno. E su quella panchina restai ad osservare i treni che passavano o che si fermavano e poi ripartivano, e si scambiavano sui binari che ne deviavano la direzione come se in quella stazione vi fosse una sorta di centro dell’universo in cui si incrociavano i bivi del destino. Restai lì a lungo, perdendo la cognizione del tempo alla ricerca di un binario sul quale cercavo di immaginare potesse passare il mio treno, ma senza però individuare quale tra questi poteva essere, rendendomi conto in modo quasi inconsapevole che, probabilmente, quel treno era già passato da tempo, e io lo avevo mancato. Restai lì, e il tempo passò tra un totale caos che mi sconvolgeva la mente in un insieme di pensieri, ricordi e immagini che quasi non riuscivo a distinguere come sogni o allucinazioni, e continuai a restare lì, in quello stato, fino a quando una voce mi chiamò con un imbarazzante tono di sorpresa. -Tommaso? Signor Tommaso D’amanti?- Alzai lo sguardo e con sorpresa vidi davanti a me Vanessa, la nipote di Demetrio, scesa dal treno appena giunto. -Vanessa- dissi con la classica espressione di stupore -che sorpresa- esclamai. Lei mi guardò con altrettanto stupore -direi che lo stesso vale per me. Che ci fa qui? Sta aspettando qualcuno?- mi domandò. Riflettei sul tipo di risposta da dare cercando una giustificazione, ma l’istinto prevalse e mi indusse a rispondere con l’unica alternativa plausibile: la sincerità. -No. Mi trovo qui perché ero venuto a salutare tuo zio- le rivelai. La sua espressione si fece seria in un tentativo di contenimento della tristezza. -Ah già. È partito oggi lo so. Ma perché lei è ancora qui? Il suo treno doveva partire stamattina presto. Forse ha ritardato?- mi sentii spiazzato e imbarazzato. Il treno di Demetrio in effetti era partito in orario e adesso erano le due del pomeriggio. -No, il treno è partito in orario… è che io mi sono un po’ perso nelle mie nostalgie e riflessioni, sai, la stazione è un baule di ricordi- cercai di giustificare banalmente. Lei sorrise, ma malinconicamente, come se avvertisse nelle mie parole una sorta d’angoscia che condivideva. -Lei era assieme a mio zio il giorno che è venuto a trovarci, mi ricordo. Eravate buoni amici?- mi domandò. -Sì, direi di sì- risposi -e tu, che ci facevi su quel treno?- Rise come se la mia fosse stata una domanda sciocca o impertinente -frequento il liceo artistico a Verona- rispose con semplicità -non ho ancora la patente e perciò uso il treno-. -Ah giusto-. -Beh ora devo andare-. Parve incerta, come se temesse a lasciarmi solo e immaginai di avere l’espressione di chi sta meditando il suicidio. La stazione poteva essere un ottimo posto anche per

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quello. Tuttavia l’esitazione diede ancora al mio istinto lo spunto per azzardare un gesto che, coerentemente, un uomo della mia età avrebbe valutato in modo molto più ponderato prima di compiere -Vanessa- la richiamai. Lei si girò e mi guardò dubbiosa. Io stesso esitai e in quel momento entrambi sembravamo intuire ciò che doveva avvenire ma nello stesso tempo chiederci se era giusto che avvenisse. In un gesto imbarazzante, mi portai le mani giunte al mento, ricordando una sorta di riflesso condizionato che spesso era tipico di Demetrio. Fu così però che mi resi conto come in quel modo mi sembrasse di riuscire a equilibrare la mente e ordinare i pensieri, quindi, dissi ciò che volevo senza cercare tante giustificazioni o giri di parole -che cosa è successo quel giorno?- Lei mi guardò, ma il suo stesso imbarazzo parve lentamente attenuarsi. Le vidi fare un lieve sorriso. -È strano che me lo chieda sa?- rispose. Pensai di non aver saputo interpretare né le mie sensazioni, né le sue, così posi le mani in avanti come a cercare di allontanarla da me in segno di resa. -Se non ti va di raccontarmelo va bene, anzi ti chiedo scusa per l’invadenza…- giustificai la sua riluttanza sentendo il desiderio di scappare dall’imbarazzo. Ma al tentativo di allontanarmi come in una sorta di fuga lei si avvicinò frettolosa e mi invitò a fermarmi. -No, non è per questo- disse, e io restai bloccato più dalla sua ripresa che dalla mia curiosità. -È che mio zio mi aveva detto che qualcuno avrebbe potuto capire molte cose da quello che gli avrei visto fare, e ha aggiunto che se un giorno mi fossi sentita di doverlo esporre a qualcuno, avrei potuto farlo se avessi pensato che era giusto. Semplicemente, non mi aspettavo che qualcuno me lo avrebbe chiesto, tutto qua- lo disse con sguardo disarmante, e io sorrisi senza rendermene conto. -Tuo zio era un tipo particolare vero?- lei annuì. -C’è un piccolo ristorante non molto lontano, se ti va posso offrirti il pranzo e ne parliamo- le proposi senza valutare che, ad uno sguardo malizioso, la mia poteva apparire una proposta di natura diversa da quella che immaginavo, non pensando, per una volta, che la perfidia umana non aveva invece ritegno dignitoso e preferiva ponderare il lato inopportuno o contrario della nobiltà pur di avere la possibilità di screditare la dignità altrui a favore della propria, deviando l’attenzione, se non dai gesti effettivi, dai pensieri che regnavano nel loro stesso animo. Mi stavo rendendo conto che cominciavo a comprendere a livello inconsapevole ogni condizione che una mente riflessiva avrebbe dovuto intuire ogni qual volta nel proprio istinto sorgeva un giudizio o una considerazione, al punto che capivo come ogni condizione, gesto o realtà oggettiva poteva effettivamente rappresentare una rivelazione simbolica e mi domandai quanto più influenti potevano essere stati quei quattro giorni con Demetrio di tutto il tempo che con lui avevo trascorso prima. Comprendevo certi atteggiamenti umani perché io stesso li avevo sperimentati, ma non li avevo mai considerati perché prima di adesso, anch’io li avevo usati per quel motivo: distogliere l’attenzione da me stesso per indirizzarla sugli altri con l’unico scopo di vedere negli altri ciò che non volevo vedere in me. Era per questo che Demetrio era tornato? Per risvegliare un pensiero addormentato che molti anni prima si era inserito nella mia mente non ancora pronta a capirlo? La voce di Vanessa mi distolse dalla riflessione -si va bene. I miei lavorano e quindi non hanno motivo di preoccuparsi se non rientro proprio all’orario di arrivo. Inoltre vorrei conoscere anch’io qualcosa di più su mio zio. L’importante è che rientri prima di mia madre, e che lei non sappia che in questi giorni ho rivisto ancora mio zio. Lei può promettermi che non lo verrà a sapere?- La domanda mi spiazzò -lo hai rivisto?- le domandai quasi balbettando. -Da dopo che è venuto a trovarmi? Sì, eccetto domenica, tutti i giorni. Allora, può farmi questa promessa?- Cominciai a pensare, seppure non sapessi bene a che cosa, ma dovetti estraniarmi dal mondo per un periodo più lungo di quanto immaginassi perché dopo un po’ risentii la voce di Vanessa come provenisse da molto lontano e nel risvegliarmi notai la sua espressione quasi preoccupata -allora, può farmi questa promessa?- -Sì certo… puoi stare tranquilla-. -Non aggiunge nulla di più a quanto abbiamo già appreso-. -Dici che la presa di coscienza di Tommaso sia un particolare insignificante?-

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-No certo, ma questo non conferma altro che ciò che abbiamo già dedotto: lui cerca giustificazioni ai suoi gesti ed ora ha la possibilità di consolidarle-. -Vero, ma ciò non lo scagiona, gli crea solo una momentanea tregua che egli stesso evidenzia nel sentirsi improvvisamente invecchiare, come se volesse scacciare via da sé tutti quegli anni nei quali dovrà continuare a convivere con questi pesanti fardelli. E poi, potrebbe anche essere come dici tu, a meno che tu non consideri questo incontro come non casuale-. -Che vorresti dire?- -Che stando a quanto descrive l’autore, sembra che ogni passaggio non sia casuale. Lui va alla stazione perché sa che da lì non potrebbe più fermarlo e quindi fa una scelta: decide di opporsi ad un istinto che già prevede, ma non considera che questa scelta non è sua, gli è imposta. Non ha altro modo per opporsi al suo istinto e quindi, è come se alla stazione ci venisse guidato, e a condurlo lì è l’amico fotografo, quell’araldo messaggero che ora conclude la sua spedizione. Egli se ne va ma consegna a lui i suoi messaggi attraverso altri emissari. Tommaso si perde nelle allucinazioni dei ricordi e permette così a Demetrio attraverso Vanessa, di insediarsi nuovamente nella sua vita. Non riesce a liberarsi di lui. Ti rendi conto? Ogni passaggio di questa storia sembra prestabilito, come se veramente qualcuno lo avesse previsto in anticipo-. -Forse non dovremmo lasciarci condizionare troppo però, ancora non sappiamo quanto ci sia di vero in questa storia… e se alla fine ci accorgessimo di avere a che fare con un romanziere fallito e scoprissimo che tutto è solo invenzione?- Annuì -sì, questo te lo concedo. Bene, allora vediamo di scoprirlo perché io comincio veramente a sentirmi inquieta- non si alzò dai gradini e io la guardai incerto. -Vuoi continuare a leggere?- le domandai come se continuare a restare inermi lì sui gradini della chiesa mi sembrasse una perdita di tempo. Lei mi fissò furtiva -volevi sapere che cosa è successo in quel giardino no?- Non risposi a parole, mi limitai a sorriderle condividendo la sua perspicacia e in tal modo l’autorizzai a proseguire. Lei abbassò gli occhi e proseguì col capitolo successivo:

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7 “Spirito libero…”

…Ci appartammo in un piccolo ristorante fuori provincia, dove non rischiavo di essere riconosciuto e dove, dopo aver ordinato un piatto di ravioli al formaggio, mi apprestavo ad ascoltare il racconto di Vanessa. …Quando iniziò a raccontare ebbi come l’impressione di estraniarmi dal mondo e la sua voce si fece come quella di un narratore fuori campo che descriveva l’allucinazione immaginaria che, come in un film, si proiettava nella mia mente dandomi l’impressione di essere io stesso presente all’evento come se quel giorno non me ne fossi mai andato e potessi, con lei, vedere e sentire ogni evento. L’ultima cosa che avevo visto prima di andarmene, era stato Demetrio che si chinava e con un gesto lieve accarezzava l’erba del prato, ora, nella mia visione narrata, io non mi allontanavo e restavo con lei ad assistere allo strano rituale dell’enigmatico celebrante. -Questo è un luogo sacro- sentii l’eco del film immaginario. -Un luogo sacro?- replicava Vanessa in una ripetitività indagatrice. -Certo, sebbene si possa dire che ogni luogo di questa terra sia sacro. Ma è ciò che avviene in un determinato posto a riconoscergli quel diritto-. -E qui è successo qualcosa?- Attraverso il racconto che svaniva nella mia mente sotto forma di allucinazione, vidi Demetrio annuire. -In un determinato spazio del tempo, sì-. Quando io avevo affrontato i medesimi argomenti che ora Demetrio trattava con la nipote, ero rimasto affascinato e decisamente coinvolto, ma non avevo mai avuto la sagacia intuitiva necessaria a farmi comprendere che mi si stava rivelando qualcosa che poteva andare oltre l’immaginario del conosciuto, e mi sorprese vedere, nella reale allucinazione del passato, come invece Vanessa, per nulla intimorita né scettica, fosse dotata di quell’intuito e perspicacia che con mancanza di nobiltà le invidiavo, rendendomi conto di quanta similitudine ci fosse in lei con Demetrio. -Parli di un tempo che potrebbe non essere il nostro? Un tempo che magari non abbiamo conosciuto?- domandò. Seppure chino con lo sguardo fisso verso il prato, non potei evitare di vedere il rilassamento dei muscoli facciali dello zio distendersi in una sorta di sorriso favorevole. -O che forse abbiamo semplicemente dimenticato- rispose, e inevitabilmente l’intuitiva nipote rivelò la sua curiosità. -Che cosa è successo in questo luogo?- Demetrio parve farsi pensieroso, come se riflettesse sulle conseguenze che potevano avere nelle menti delle persone certe rivelazioni cui non erano abituate o pronte a considerare. Ma doveva già aver valutato che Vanessa era preparata a questo. Girò lo sguardo verso sud e fissò l’orizzonte spoglio guardando qualcosa che non c’era, ovvero, che stava solo nei suoi ricordi. -Laggiù- cominciò a dire -lungo le rive di quel fossato che divide la terra che un tempo era di mio padre…- io mi voltai come fossi il riflesso di Vanessa che simultaneamente al mio gesto immaginario, indirizzava lo sguardo verso la direzione indicata dagli occhi di Demetrio, e guardai il fossato che appariva come una linea di confine, nel quale un basso livello di acqua stagnante sembrava prigioniera di un perimetro dalla provenienza ignota, o casuale. Era uno di quei fossati regolati da delle chiuse da cui si pescava l’acqua per irrigare le coltivazioni nei caldi mesi d’estate, ma che simbolicamente dava la sensazione di una prigione per quell’acqua che pareva non avere altre vie di fuga se non quella, appunto, di sottomettersi all’attesa di essere spruzzata attraverso un sistema idrico sulla terra e a cui non restava quindi che rassegnarsi al suo ruolo di servitrice al servizio di un padrone che non le aveva offerto altra alternativa, né chiesto alcuna approvazione. Un triste disagio mi colse perché, per quanto mi sembrasse scontato che lo scopo dell’acqua fosse quello di irrigare e servire la terra, mai mi ero posto il problema di riflettere sulla possibilità che la stessa necessitasse di un riconoscimento, e fu con un brivido che scacciai quella sensazione perché l’intuizione che mi portava era al limite dell’insopportabile: io, e in questo caso mi potevo considerare come il rappresentante dalla maggioranza che costituiva la società civilizzata, non riuscivo a quantificare un compenso se questo non poteva essere misurato in denaro, o in qualche altro mezzo di scambio effettivo, che non fosse la semplice gratitudine. E scacciando via la triste comprensione, tornai a

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concentrarmi sul racconto illusionistico riprendendo ad osservare, attraverso la voce di Vanessa, il racconto di Demetrio. -…Vi era una lunga fila di alberi sui quali io mi divertivo ad arrampicarmi inventandomi come eroe di una foresta inesplorata, ricca di figure immaginarie e avventure da vivere-. Come accadeva quando raccontava storie simili a me, usava intromettere degli intervalli di tempo, piccoli silenzi che staccavano l’immaginazione dalla realtà facendo divenire il racconto una alternanza di ricordi che, fusi assieme, avrebbero alla fine dato la comprensione del tutto. -In primavera quegli alberi venivano potati e i rami tagliati accatastati ai confini della terra coltivabile. Poi in estate si tagliavano in piccoli tronconi e si lasciavano asciugare al sole, così da avere legna da ardere per l’inverno. Ma fino a quando i rami restavano intatti, io mi divertivo a rimuoverli per costruire delle sorte di grotte nelle quali mi concepivo esploratore di mondi sotterranei. In quelle grotte esploravo le oscurità profonde della terra, gli abissi e i tenebrosi arcani degli inferi, mentre sugli alberi indagavo l’immensità dell’universo, l’infinito e i misteri degli empirei. Avevo meno di sei anni quando compivo queste esplorazioni- sorrise con approvazione alla letizia incantata manifesta sul viso di Vanessa che sembrava una bambina che ascoltava una bella fiaba. Lei però ancora non sapeva che le fiabe di Demetrio non avevano mai un lieto fine. -Già allora ero affascinato da tutto ciò che mi circondava, con un gran desiderio di scoprire quali fossero i misteri della natura. Ma come un bambino di sei anni, ancora facile al plagio e alla corruzione delle limitazioni imposte dai pensieri condizionati…- di nuovo vi fu una piccola pausa, quel silenzio che io sapevo introdurre una nuova fase. Al contrario di me però Vanessa ascoltava senza interrompere, come se sapesse che ogni parola aveva un senso e che malgrado l’apparente confusione, tutto quanto avrebbe in fine avuto una logicità. -…Sai, a quel tempo la televisione cominciava a diventare un bene accessibile quasi a tutti, non certo nella quantità di oggi, ma quasi ogni famiglia ne possedeva una. Anche noi ne avevamo una, ma non c’erano molte possibilità di scegliere programmi da vedere. Tra i pochi tuttavia, ce n’era uno che io mi divertivo a guardare la sera con mio padre. Era un documentario naturalistico che parlava di animali con immagini provenienti dall’Africa, dall’America, perfino dall’Artide e dall’Antartide, luoghi che per me a quei tempi erano mitologici. Scoprivo tante cose interessanti per la mia ricerca sui misteri della natura in quei documentari. Una volta, ne vidi uno in cui si spiegava che certi animali, come sistema di difesa, si fingevano morti per salvarsi da possibili predatori- di nuovo il suo dialogo si spostò in una diversa direzione -sai, a sei anni, come ti ho detto, non si è ancora immuni da certi contagi. Ricordo che un girono, a scuola, l’insegnate ci spiegò che in natura esistono animali dannosi. Io non potevo capire che cosa intendesse con tale termine perché nella mia visione in natura non esisteva nulla di simile, ma eravamo in un paese rurale, dove l’agricoltura era la risorsa dominate. Anche mio padre era un agricoltore e quel giorno, tra le altre cose, ci venne detto che tra questi animali dannosi vi erano anche le talpe, che scavano nella terra cibandosi di larve, vermi e tante altre cose che si trovano nel sottosuolo, comprese le radici, e che a causa di questo loro scavare potevano danneggiare le culture dei campi…- Il silenzio successivo introduceva ciò che era il senso del racconto e come se fosse il preludio di un dramma, il sorriso compiaciuto di Vanessa cominciò ad attenuarsi, assieme alla comparsa di una triste serietà sul volto del narratore. -Io ero un eroe, un esploratore, ma anche un difensore del bene… il destino a volte, ha strani modi per farci comprendere le cose- lo disse osservando Vanessa, poi tornò a fissare l’orizzonte -e tal volta il suo modo di rivelare richiede sacrificio e sofferenza. Spesso è difficile capire quali siano i suoi intermediari… ma quel giorno di fine primavera, mentre uscivo dalla mia esplorazione sotterranea, il fato volle che uno di quegli animaletti vellutati, decidesse di farsi un’escursione in superficie, forse per raggiungere un'altra postazione, un'altra tana-. Vi fu ancora una pausa ed io percepii che in quel punto del racconto, si concentrava il cuore del suo narrare, e un timore inquietante mi fece desiderare di allontanarmi. Ma in quell’allucinazione io ero l’ombra di Vanessa, perché solo interrompendo il suo raccontare potevo fuggire e ancora una volta compresi di trovarmi in quella contrastata condizione nella quale le mie facoltà di scelta erano assenti, e accettando di essere io stesso responsabile di quanto stavo per apprendere, lasciai proseguire il racconto e la relativa allucinazione.

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-Quanto si può affermare che il fatto di decidere di farsi quella escursione fosse casuale alla simultaneità con la mia uscita dalla grotta di rami? E che nel mio voltarmi verso la fila degli alberi dove avrei iniziato a esplorare i cieli, la traiettoria del mio sguardo incrociasse il tragitto della talpa?… era un animaletto innocuo, ma quali inganni celava tale innocenza? Io sapevo che era dannoso, io avevo ricevuto quell’informazione vitale… e tale distruttore si trovava sulla terra che mio padre coltivava… ma soprattutto, io ero un eroe, e agli eroi non è data la possibilità di esitare. Un eroe deve agire…- emergeva una sorta di rabbia ora nel suo racconto. -…Quanto si può affermare che il fato sia stato casuale nel farmi raccogliere quella pietra perfettamente levigata come se fosse un proiettile che si trovava proprio davanti ai miei piedi? E quanto si può dire che lo stesso fato abbia influito sull’istinto di scagliare con violenza quel proiettile verso il nemico con una precisione tale da far credere che il sasso, scagliato di puro istinto senza nemmeno prender la mira, non fosse guidato dalla mano di un dio, come Apollo aveva guidato la freccia scoccata dall’arco di Paride per trafiggere il tallone di Achille?- ogni cosa di quel racconto ci stava trascinando in una sorta di oblio, per me sconvolgente, per lei provvidenziale. -Potei sentire il tonfo della pietra che colpiva il fianco dell’animaletto, e nel silenzio che si insinuava attorno a me, il soffio sofferente dell’aria che veniva sottratta ai polmoni… poi il silenzio totale e l’immobilità del tempo nell’arrestarsi della corsa della talpa che restava immobile, colpita a morte… ma il fato non aveva ancora concluso la sua vicenda. Sì, perché io pochi giorni prima avevo visto quel documentario, e forse quella talpa era uno di quegli animali strategici e ingannevoli che fingevano di essere morti per sfuggire al loro assalitore. Ma a un eroe non sfugge nulla, un eroe è sempre allerta, ed è paziente. L’eroe attende e l’antieroe, commette sempre un errore, così, nella sua limitata comprensione, una talpa, per quanto astuta, non può rendersi conto che il gesto di sfregarsi la parte colpita nel tentativo di alleviare il dolore, può rivelare il suo inganno. Così quando vidi quella zampetta rosa strofinare il fianco colpito, ebbi la certezza che stavo per essere ingannato… non vorrei dirti come finì la triste esistenza del vellutato animaletto, vorrei risparmiarti l’atrocità del mio gesto perché nell’incapacità di trovare il coraggio di colpire con una bastonata rapida e risolutiva, e nel credere che tale espediente fosse meno traumatico e doloroso, fu con il fuoco che purificai l’immondo animale dannoso…- la smorfia di tristezza, dolore e ribrezzo che si manifestò sul viso di Vanessa non fu sufficiente a spiegare la rabbiosa angoscia che si poteva percepire nella voce di Demetrio, mentre la commozione negli occhi della ragazza, poteva riflettere quella che appariva nei miei. -Che male poteva mai fare un animaletto come quello? E in che modo noi possiamo determinare che cosa sia utile o dannoso? Una semplice talpa poteva veramente distruggere un’intera coltivazione? Mi domando ora, quanto sia stato dannoso io per il vellutato animaletto…- poi ci fu silenzio e per un istante, tornando nella realtà, osservai l’espressione malinconica e commossa di Vanessa che sembrava, nel raccontare, percepire le stesse sensazioni di suo zio. Provai angoscia per lei e mi sentii colpevole perché mi ritenevo responsabile di tale condizione -se non te la senti di continuare non farlo, io posso capire quanto sia doloroso…- -No affatto. Mi intristisce ricordare come sentivo forte la sua emozione, ma parlarne mi far star bene, è come se… sentissi di doverlo fare-. Se le avessi detto che immaginavo che quel suo sentire, più che desiderare di raccontare, non mi sorprendeva, ma che un po’ mi spaventava, avrei dovuto ammettere a me stesso che intuivo troppo in lei di suo zio e quasi, adesso, desideravo non voler più proseguire nel sapere. Temevo che l’avrei resa dubbiosa, non delle sue facoltà che pure non era ancora conscia di avere, ma probabilmente, della sua sanità. Se le avessi detto questo avrebbe cominciato a domandarsi se non ci fosse qualcosa che non andava in lei e sicuramente se lo avesse chiesto alla maggior parte delle persone che conosceva, quella sarebbe stata la risposta che avrebbe ricevuto, ma se lo avesse chiesto a me, si sarebbe sentita dire che non c’era niente di sbagliato in lei, perché ormai io cominciavo a credere che l’anormalità fosse più in me e in quelli come me. Così quasi non la sentii quando ricominciò a raccontare, ma fu l’allucinazione a rendermi partecipe di quanto mi ero perso mentre pensavo alla mia normale anormalità. -Lei era qui- aveva ripreso a raccontare, ricordando a come Demetrio le avesse indicato il posto in cui la talpa era morta. -Come fai a esserne così sicuro dopo tanti anni?- l’avevo sentita domandarle.

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-Posso sentirlo- affermò lui. -Lo puoi sentire? E come?- Vidi Demetrio alzare gli occhi e fissarla -le cose di questo mondo sono emanazioni di spiriti vitali, li puoi definire energie se ti fa sembrare il tutto più accettabile. Ma ogni corpo, ogni elemento, ogni cosa visibile e percepibile come manifesta o fisica è la rivelazione di qualcosa che sfugge ai nostri sensi e che possiamo solo intuire, percepire e indagare, come i sogni. Tutto ciò che è fisico, ha un suo relativo nel non fisico e tutto esiste per volontà di qualcosa che sta al di sopra di qualunque cosa noi possiamo interpretare e spiegare scientificamente. La natura è invasa di spiriti che appartengono a ciò che è o è stato manifesto, ma questo né la scienza né la religione lo possono dimostrare, e allora l’unica possibilità che noi abbiamo di cogliere tale verità sta in noi- allargò le mani e con semplicità affermò -ci puoi credere o non ci puoi credere. Sta tutto in te-. Vanessa lo guardò con un’espressione che era estasi e dubbio allo stesso tempo -e tu ci credi?- la sua riposta fu un’affermazione di assenso col capo e un’espressione che evidenziava la semplicità con cui gli era impossibile non crederci. -Ma qualunque cosa io dica o faccia, non potrò mai dartene dimostrazione e rendertela comprensibile. In questo momento gli spiriti della natura ci parlano e io li sento, ma non posso dimostrartelo. Ecco perché sta solo in te crederci o non crederci-. -Ma tu affermi che percepisci la sua presenza- insisté Vanessa senza immaginare in quale tormentoso labirinto si stava inoltrando. Io avrei voluto fermarla, dirle di non approfondire, di non uscire dal suo giardino per scoprire che non avrebbe più potuto farci ritorno, consapevole di quanto traumatico fosse dover mettere tutto in discussione e considerare, ad ogni azione compiuta, quali conseguenze essa possa avere su ciò che qualcuno chiama eternità, senza immaginare o valutare che forse, questa eternità è più reale di quanto lo sia un giorno da umano. Ma probabilmente lei era già entrata in quel labirinto e forse tutto ciò che cercava erano risposte che potessero darle una conferma a ciò che già da tempo percepiva sotto forma di tormento. -Sì, è per ciò che questo è un luogo sacro. Ogni energia lascia il suo segno nella natura, e certi spiriti seguono un destino preciso perché, conseguentemente ad una loro evoluzione di consapevolezza, sono pronti a donare ciò che sono, per approfondire le altrui coscienze…- -Stai forse cercando di dirmi che quella talpa si è fatta uccidere di proposito?- Demetrio sorrise ancora, fece trascorrere un breve silenzio, poi riprese. -Anni fa, mentre mi trovavo in Australia per documentare le condizioni dei nativi nel moderno contesto sociale, incrociai lo sguardo di un’anziana aborigena. Lei era inserita nella nuova civiltà, ma manteneva la conoscenza delle sue tradizioni. Il mio compito era quello di documentare con la fotografia e quando la vidi, il mio istinto di reporter mi fece intuire la potenzialità estetica del soggetto, così puntai l’obiettivo e mi preparai a scattare. Lei non disse nulla e non si oppose, era pronta a lasciarsi congelare in quello scatto. Ma quando l’obiettivo fu a fuoco e la luce perfetta, potei percepire qualcosa di misterioso nel suo sguardo, una luce, un bagliore che non si poteva prevedere potesse esserci in occhi tanto profondi, proprio perchè era necessario riuscire ad osservare in quella profondità. Ti assicuro che quello sarebbe stato lo scatto migliore della mia carriera da fotografo. Ma un impulso più forte dell’istinto umano mi fece esitare e lentamente abbassai l’obiettivo e rinunciai allo scatto. A quel punto l’anziana sorrise e io mi avvicinai a lei sebbene non avesse fatto alcun gesto per invitarmi. Era stato il suo sguardo e il suo sorriso a pormi quell’invito. Mi disse che io avevo molte cose da risolvere, alcune appartenenti ad un tempo sul quale non potevo intervenire, altre invece che ancora potevano essere sciolte, ed era così che andava. La percezione della consapevolezza si acquisisce nel tempo e nello spazio in cui ci è possibile agire e che risolvendo ciò che è in atto, era possibile risolvere anche ciò che è rimasto in sospeso. È così che si comincia, poi, tutto avviene di conseguenza. Non mi rivelò in che modo avrei potuto risolvere le mie questioni, ma mi fece capire che lo avrei intuito… questa è una delle tante cose che sono in sospeso e una delle poche su cui posso ancora agire. Uno spirito se ne è rimasto qui in attesa che io potessi avere quella comprensione, ha deciso di restare prigioniero per darmi un’opportunità, e adesso noi lo libereremo-. -Noi?- esclamò con timore Vanessa, e Demetrio annuì. -Se vuoi, puoi sentirla la sua energia, è qui, e non solo per me, ma per chiunque ne voglia beneficiare. Ti va?-

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Nella mia mente stavo gridando di no, imprecando che non le venisse sottratta l’innocenza che le avrebbe permesso di vivere serenamente, per essere sostituita con lo struggimento del tormento che l’avrebbe invece angosciata per il resto dei suoi giorni, ma restavo solo un ombra e il mio no si tramutò in un sì nella sua voce. Demetrio la invitò a inginocchiarsi davanti a sé. -Unisci le mani come se stessi pregando- le disse -e poi accostale al suolo, lievemente, come se lo volessi accarezzare- lei seguì le istruzioni e quando avvicinò le mani al suolo, il movimento che le vidi fare di accarezzare l’erba, lo intuivo, non era un movimento volontario, ma una sorta di inconscia azione che pareva guidata da un filo invisibile. -Chiudi gli occhi- la invitò Demetrio, lei lo fece e a un certo punto le sue mani si fermarono, quindi iniziò il rito. -Ora lascia andare la tua mente altrove, disperdi ogni pensiero invadente, concentrati sul silenzio-. Demetrio sembrava sapere, anzi ero convinto che sapesse, quando lei era pronta al passo successivo e quelle sue pause erano solo lo spazio necessario a far sì che lo raggiungesse. -Ora puoi sentire attorno a te i suoni distinti di ciò che sembra non avere voce. Il cinguettio degli uccelli che ti parlano, il canto dei grilli, suoni limpidi e solidi. Lasciali andare, falli svanire nella tua mente come un’eco fino a sentire i suoni più sottili. Li puoi percepire prima come profumi, quelli dei fiori, dell’erba, della terra, perfino delle pietre… lascia andare anche loro come quell’eco nella tua mente, falli svanire fino a non percepire più nemmeno il profumo… ecco, ora puoi ascoltare le voci più evanescenti, labili, eteree… le voci degli spiriti…- Per un momento il viso di Vanessa si distese in una sorta di rilassamento estatico e io provai sollievo, ma subito dopo le sue palpebre si strizzarono e quell’espressione serena si contorse in una smorfia di dolore. Istintivamente aprì gli occhi e io potei vedere il terrore in essi e con forza cercò di ritrarre le mani per scappare, ma Demetrio la trattenne con forza. Lei scosse la testa terrorizzata -no- pronunciò e lui la trattenne con più forza al punto da farmi pensare che in lui si stesse rivelando una sorta di rabbia che io attribuivo indirizzata contro la sorella che lo aveva rifiutato, cosicché adesso lui aveva deciso di vendicarsi sulla figlia. -Fermati, non scappare, resisti- le disse però, e lei quasi iniziò a piangere. -C’è freddo laggiù, un freddo gelido e oscuro, un freddo di morte…- -Perché sei stata abituata a vedere la morte come qualcosa di negativo. Ma non esistono energie negative in natura. Perfino dove sono avvenuti fatti orribili le energie che rimangono lo fanno solo perché chi le sente possa capire. È la nostra limitata concezione a farcele percepire come negative. Ti hanno insegnato che la morte è dolore e sofferenza, ed è vero, ma solo perché la morte lascia un vuoto in ciò che prima era una realtà concepibile. Ma la morte non è dolore, non è sofferenza, non è male. La morte è vita. Osservati intorno, la vita prevale, se esistesse solo la morte non ci sarebbe nulla di vivo. La morte esiste perché ci sia possibile concepire la vita, comprenderla come qualcosa che dovrà finire, ma solo a un livello fisico, in quel livello in cui noi possiamo divenire consapevoli e risolvere tutto ciò che ci tormenta. Noi esistiamo per evolverci e comprendere che non siamo semplicemente ciò che conosciamo, ma qualcosa di più grande e che ancora non abbiamo compreso. La morte, è solo un passaggio, un ponte sospeso su un fiume…- Non so come reagì lei ma io provai un brivido che non poteva essere allucinogeno, era reale e una rapida e folgorante visione mi portò di fronte al ponte che ancora non ero riuscito ad attraversare come se in realtà, il mio tempo si fosse fermato in quel luogo. Scacciai via l’immagine intrusa e tornai nell’allucinazione di Vanessa. Forse mi ero perso qualcosa, e non so quanto potesse significare, ma nel momento in cui tornai a osservare in quel sogno, vidi Vanessa sorridere con gli occhi chiusi e le mani nuovamente rivolte verso il suolo. -Sì, ora la sento- diceva -è calda e ha colori luminosi… e mi parla- aveva sentito la voce degli spiriti e io non potevo più liberarla dal suo destino. Aprì gli occhi e osservò lo sguardo fiero di suo zio. -Non lasciare mai che qualcuno ti condizioni, non fidarti di chi ti dice di conoscere il destino o il divino. Tutto ciò che ti appartiene è quanto ti basta per comprendere. Perfino ciò che hai appreso da me oggi, non lasciare che ti condizioni. Noi siamo singole unità destinate a unirci in un unico grande oceano, ma ognuno di noi ha un percorso diverso, ciò che gli spiriti ti comunicano, è solo ciò che necessita a te, per questo la loro voce è differente per ognuno di noi. Loro ci dicono solo ciò che può servire a noi stessi e ciò che necessita a me, è differente da quel che necessita a te. Ricordalo bene

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questo, e non temere di seguire la tua via, anche se dovesse sembrare difficile, anche se qualcuno dovesse deriderti o calunniarti. Ascolta quello che sta in te e quando ti sembrerà che nessuno ti possa comprendere, esprimiti con loro… loro ti comprenderanno e ti parleranno sempre-. Lo guardò con l’espressione di chi voleva ringraziare ma non sapeva cosa dire, poi, lui sembrò cancellare tutto con la sua seria malinconia. -Ora è tempo di liberarla- disse -questo spirito ha compiuto il suo destino-. Vanessa lo guardò -e come facciamo?- disse credendo di avere ancora un ruolo. Demetrio le sorrise -è facile, lo vedrai. Allontanati- le disse poi, e Vanessa parve delusa. Di nuovo Demetrio la guardò comprensivo -lei era qui per me. Non si è sottratta a darti i suoi benefici, ma sono io che devo risolvere questo evento- la rassicurò. Vanessa mosse alcuni passi indietro comprensiva, poi si fermò e restò a guardare, così come restai io. Demetrio chiuse gli occhi e si lasciò trasportare in quel mondo dove poco prima aveva condotto Vanessa, poi si chinò, mise le mani a terra, ai lati del posto dove secondo lui si era sacrificata la talpa, abbassò tutto se stesso fino a fare poggiare la fronte a terra, quindi alzò i piedi in modo che le uniche parti del corpo che lo sostenevano erano le mani, le ginocchia e la fronte, tutto il resto era sollevato da terra. Restò così per qualche secondo, poi in un sussurro pronunciò -ho capito…- Vidi Vanessa alzare gli occhi verso il cielo e sorridere, e intesi che stava vedendo qualcosa che io non riuscivo a scorgere e con mio disappunto mi resi conto di quanto mi fossi allontanato dal tempo in cui anch’io avrei potuto vedere. Ma ormai non credevo più e nonostante tutto ritenevo che la sua fosse solo un’illusione, non più concreta di quanto lo fosse la mia allucinazione. L’ultima cosa che potei vedere fu lo sguardo di Vanessa che osservava compiaciuta lo zio che sollevava il viso dal terreno, e l’ultima cosa che potei sentire di quell’allucinazione fu la sua voce che diceva -se ne è andata…- -Io devo andare laggiù- esclamò impulsiva non appena ebbe concluso il capitolo. -Come?- reagii sorpreso e spaventato. Lei mi guardò con occhi supplichevoli e ripeté -devo andare in quel giardino- disse, come se all’improvviso fosse divenuta lei l’investigatrice e io stessi perdendo il mio ruolo primario nell’assurda avventura. -E che cosa vorresti andare a fare in quel giardino?- le domandai sentendo crescere in me al contrario, un timore che mi diceva di doverne stare lontano. Improvvisamente l’idea di essere andato a Casterba non mi parve più tanto buona. Percepivo in questo paese fantasma qualcosa di oscuro e maligno e mi rendevo conto che ciò che per me era ambiguo e sospettoso aveva invece su Felona un effetto contrario che la conduceva a sensazioni percettive sulle quali adesso le era impossibile non indagare, e sempre più mi sembrava che i nostri ruoli si stessero invertendo. -Devo sentire quella presenza, devo sapere…- si interruppe come se avesse intuito di aver rivelato più di quanto voleva. -Sapere cosa?- non esitai io però questa volta, sapendo, attraverso l’esperienza sul mio lavoro, che era proprio in quei momenti di fragilità che la pressione delle domande poteva condurre l’interrogato al cedimento. Lei mi fissò e io vidi la resistenza di chi è combattuto tra il rivelare e il nascondere. -Che cosa credi che ci sia in quel giardino? Cosa speri di trovare? Lo spirito di una talpa che ti sta aspettando per rivelarti i misteri dell’universo? Credi veramente che possano esistere simili cose? Felona, tu sei una psicologa, una scienziata che studia la mente umana, prima di ogni altra persona dovresti essere razionale e comprendere che nulla di quanto sta scritto in questo testo è razionale- cercai di dissuaderla dalle percezioni del suo istinto, ma ancora non mi rendevo conto che il mio improvviso stato analitico che mi aveva condotto nel ruolo dello psicologo contro quello in cui si era calata lei dell’investigatore, manifestava in realtà una paura alla quale io mi opponevo semplicemente per il desiderio di non voler conoscere. -E perché improvvisamente tutto dovrebbe essere razionale? Perché non hai più dubbi? Temi forse di scoprire realtà che non ti ritieni in grado di accettare? Io sono una psicologa è vero, e questa tua resistenza mi trasmette paura. Di che cosa hai paura?- Improvvisamente mi sentii come una di quelle vittime che smascheravo, e come esse cercavano inutili giustificazioni o reagivano con l’impulsivo istinto di negare l’evidenza, allo stesso modo mi comportai io.

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-Paura?- cercai di nasconderla negandola, pur avendola ammessa pochi minuti prima. -Io non ho paura, semplicemente non credo in ciò che viene detto in questo testo e comincio a credere che ci stiamo lasciando suggestionare in un modo di cui potremmo poi doverci pentire-. -Quindi se vi fosse una rivelazione in questo racconto e noi potessimo avere la possibilità di esserne testimoni, tu non vorresti comprenderla?- -E perché? Se siamo sopravvissuti fino ad ora non possiamo continuare a farlo con le nostre limitate conoscenze?- -Quindi tu sei uno che preferisce vivere nell’ignoranza?- -Se questo mi tiene lontano da certi pericoli perché no? E poi, se dovessi scoprire che niente di quanto cominci a pensare adesso è reale, ne sopporteresti la delusione dopo esserti illusa?- Felona si fece riflessiva -sì, su questo hai ragione. Ma, l’ignoranza comunque non può proteggerti da alcun pericolo, anzi, caso mai ti ci condurrà, quindi non è possibile considerare anche l’alternativa?- -Quale alternativa?- -E se invece reale lo fosse? Se avessimo la possibilità di scoprire che tutto ciò che non possiamo dimostrare ma solo credere per fede è reale? Se ci fosse anche una sola possibilità non vorresti sfruttarla?- -E per quale ragione? Che cosa ne otterresti?- -Verità- esplose -verità su qualcosa che non ci renda inutili sfoghi della natura; verità che non ci facciano sentire il risultato di un’esigenza istintuale; verità che ci rendano consapevoli che la nostra presenza è qualcosa di più che una casualità, che siamo qui per una ragione…- -E qual è la ragione? Il bene supremo? E poi quale sarebbe questo bene supremo?- -Forse non siamo ancora in grado di sapere quale sia la ragione e che cosa sia il bene supremo, ma sapere che siamo destinati a qualcosa di più grande dell’inerzia, ti pare poco?- -E se scoprissi che invece è proprio il caso a farci esistere? Vorresti correre il rischio? Non preferiresti restare nel tuo dubbio che tuttavia ti concede pur sempre la speranza?- -E che cos’è la speranza se non una corrotta consolazione che induce ad una superficiale volontà di sopravvivere? Se così deve essere almeno che sia spontaneo, se siamo prodotti del caso bene, almeno vivremo in totale tranquillità consapevoli che ciò che siamo lo siamo solo per piacere… ma se siamo qualcosa oltre il caso, allora il nostro divenire non può essere solo piacere, possesso o indolenza, e se il fato ci da segnali, allora dobbiamo essere pronti a coglierli… a me la speranza non basta più Damiano- Era da tempo che non pronunciava il mio nome, e quasi per un effetto fatato la mia resistenza cominciò a cedere. -E che cosa succederà dopo? Cosa faremo se dovessimo scoprire qualcosa che non vorremmo sapere?- -Succederà semplicemente ciò che deve succedere- disse, e senza domandare che cosa ne pensavo si incamminò. Allora la rincorsi e la presi con forza per un braccio. -Felona- la richiamai -non siamo qui per questo- le dissi con la decisione che consolidava ulteriormente la mia paura, e nello sguardo col quale mi guardò, la percepii attraverso la sua comprensione, così come compresi la mia sconfitta. -E per cos’altro allora? Se vuoi puoi rinunciare, nessuno ti obbliga, così come nessuno ha obbligato me e seguirti fin qui. Ma non sottovalutare che tu mi hai coinvolta e forse quel pacco non era indirizzato solo a te, così come la talpa ha potuto rivelare qualcosa anche alla nipote di Demetrio. Forse io sono stata coinvolta per qualcosa di diverso da quello che riguarda te e forse il motivo per cui io sono qui è proprio questo. Come puoi sapere tu che cosa devo fare io? E come puoi pretendere di voler controllare la mia vita? Vattene pure se vuoi, ma io andrò in quel giardino e cercherò ciò che devo cercare, con o senza di te-. Restai immobile senza riuscire ad impedirmi di ammettere che aveva ragione. Lei era stata coinvolta da me, ma, e ora ragionavo come lo scrittore del romanzo, quanto potevo essere certo che fossi stato veramente io a coinvolgerla anziché essere solo un tramite del destino? Ora anch’io mi trovavo ad un bivio, ma con la consapevolezza che se avessi rinunciato mi sarei reso responsabile di un fato che non mi apparteneva o che, peggio, dovevo condividere. -Io non controllo la vita di nessuno, ma ciò che tu vuoi fare non ha senso- cercai un’ultima via di fuga. -E quello che fai tu ne ha? La tua rinuncia dove dovrebbe condurti secondo te? Volevi il mio aiuto? Allora dovevi essere pronto ad accettarne ogni conseguenza, questo lo avevamo stabilito fin da subito

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mi pare. Io comunque non voglio costringere nessuno ad ostacolare il proprio istinto perciò fai pure la tua scelta. Rinuncia se temi di non poter sopportare certe possibili rivelazioni, ma lascia che io capisca le mie necessità. Se non sei disposto a farlo, allora vai avanti da solo per la tua strada mentre io seguo la mia, in ogni modo, non potrei più aiutarti se prima non risolvo le mie controversie. Ho iniziato quasi per gioco e mi sono ritrovata coinvolta in qualcosa che va oltre la mia immaginazione. Ho scoperto cose che prima consideravo possibili solo per convenienza senza mai espormi alla possibilità di comprendere quanto sia reale ciò che consideriamo e ciò che valutiamo. Ho aperto gli occhi su nuovi orizzonti adesso, e voglio scoprire quanto è profonda la tana del bianconiglio. Decidi, le nostre strade si possono separare qui e ognuno di noi può esplorare i propri orizzonti e superare i proprio confini da solo, oppure, accettare che l’uno possa essere indispensabile all’altro. Qualunque cosa decida di fare, io seguirò la mia via-. Non avrebbe avuto bisogno di quella requisitoria perché già avevo deciso di seguirla nonostante le mie paure, ma adesso non potevo dirle che quei confini di cui parlava io temevo di averli già superati e in realtà temevo che lei non potesse far altro che darmene conferma. Temevo che ciò che avrebbe potuto scoprire fosse la verità che Demetrio aveva rivelato a Vanessa e se così fosse stato, non avrei più potuto avvalermi di quei dubbi che, fino a quando non vi è una conferma, possono comunque restare semplici dubbi e, sebbene consapevole che tutto questo non potevo affrontarlo da solo, pur con la migliore compagna che potessi desiderare al mio fianco per scoprirli, ancora non mi sentivo pronto. Tuttavia, l’alternativa che consisteva nel continuare o rinunciare e che per un momento era sembrata lunga secoli, in cui la seconda scelta mi era parsa la più ragionevole, sembrava, come quell’istante lungo secoli, lontana migliaia di chilometri, già oltre l’universo conosciuto perché ormai cominciavo a credere che se il destino aveva veramente la possibilità di condurre verso verità che si vogliono ignorare, come già aveva fatto in altre circostanze evidenziate da Demetrio, per quanto avessi rinunciato, prima o poi mi avrebbe ricondotto verso la stessa via, e a quel punto magari, sarei stato veramente da solo. Chiusi gli occhi e annuii -va bene, d’accordo. Andiamo laggiù- dissi, rinunciando definitivamente alla mia beata ignoranza. Ci avviammo senza quasi sapere dove andare, ma dalle indicazioni del racconto l’antica dimora di Demetrio si trovava oltre il cimitero del paese partendo dalla chiesa. Non fu difficile individuare la via che conduceva al cimitero, a Casterba vi erano tre strade e un solo incrocio sul quale erano ancora visibili le indicazioni dei segnali. Le case che ci circondavano non erano ruderi, ma si vedevano i segni di decadimento e dell’abbandono. Vetri sporchi e rotti dalle intemperie, erbe alte nei cortili, radici sporgenti dalla terra e rampicanti che si impadronivano dei muri con facilità, cancellate arrugginite e reti di recinzione abbattute. Superammo le abitazioni e come descritto nel racconto, poco più avanti incontrammo il cimitero. Non facemmo caso allo stato di conservazione della necropoli che, contrariamente alle case disabitate sembrava invece ben mantenuto e proseguimmo senza sapere dove eravamo diretti. Una serie di alberi ci accompagnava lungo la via, oltrepassammo una strada laterale e ci trovammo di fronte ad una struttura che se fosse stata custodita si sarebbe potuta definire moderna. -Ecco ci siamo- disse improvvisamente Felona. Io rallentai -come lo sai?- le domandai, sempre più timoroso di scoprire che i suoi sensi stavano diventando simili a quelli del fantomatico Demetrio. -Il racconto dice che la sua casa era la più vicina al cimitero, e questa è la prima che incontriamo. Non può essere che così-. Avrei potuto obiettare che quel racconto non era attendibile, ma la consapevolezza che la sua deduzione era più storica che sensitiva mi condusse ad una consolazione nella quale ancora potevo percepire il beneficio del dubbio e le lasciai la sua convinzione. In fondo, se si fosse sbagliata, non avrebbe potuto verificare i suoi sospetti e il tutto sarebbe stato per me solo che un beneficio. Lasciai la macchina in strada, consapevole che non poteva dar fastidio a nessuno e ci avvicinammo al portone. Osservai la ruggine che lo stava divorando, poi, con galanteria, spinsi per aprirlo, ma, come avevo fatto alla chiesa, non osai entrare per primo. Felona non si preoccupò di quella mancanza di cavallerismo e proseguì nella sua esplorazione. Il cortile era stato conquistato da erbe invadenti e gli alberi alzavano il suolo con le loro radici. Le case, due villette, denotavano lo stesso degrado delle altre

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dimore abbandonate, assalite dalle piante rampicanti e cariche di muffa e ruggine sugli infissi. Le finestre erano chiuse come se l’abbandono fosse stato programmato. Forse le case erano state messe in vendita, ma ormai in quel luogo nessuno sembrava più voler abitare. Vidi Felona inoltrarsi in una zona di arbusti più intensi che mi fu facile identificare con il giardino.. -Stai attenta- le raccomandai, ma lei non parve sentirmi e proseguì. La seguii con riluttanza e la osservai mentre sembrava cercare qualcosa come se stesse giocando a mosca cieca. Capii che cercava di affidarsi ai suoi sensi. Io restai ai margini di quello che un tempo doveva essere stato un giardino e la lasciai girare a vuoto tra gli arbusti per più di mezz’ora, poi la vidi fermarsi e per un istante il respiro mi si bloccò. La sua immobilità mi faceva presagire qualcosa di inquietante e dopo qualche esitazione andai verso di lei. Quando le fui vicina vidi che davanti a lei, nel punto in cui si era fermata, una chiazza di terra sembrava sterile e tra l’erba invadente una piccola porzione di terra era priva di ogni forma vegetale. -Senti qualcosa?- le domandai con timore. Lei si chinò, pose le mani a terra e per qualche secondo accarezzò l’area circostante, poi la vidi scuotere il capo sconsolata. -No- sussurrò decisamente dispiaciuta, e quando si alzò i suoi occhi erano velati da una triste commozione. Teneva in mano un sasso levigato e lo fissava come fosse un gioiello falso. Per un momento ebbi la visione di una freccia scoccata da un arco e il fiotto di sangue di un tallone trafitto, poi tutto svanì. Sentii il sasso cadere a terra e la sua voce rassegnata sussurrare una triste rivelazione. -Ero sicura che l’avrei sentita, ma qui non c’è niente- ammise. Avrei voluto ricordarle che nel racconto Demetrio aveva liberato lo spirito della talpa e che ora lo spirito del vellutato animaletto, come lo definiva lui, non faceva più parte di questo mondo, ma razionalmente pensai alla mia opportunità di poter continuare a credere che tutto ciò che era dubbio doveva restare tale e il mio conforto cambiò direzione. -Magari noi non siamo ancora pronti- osai dire, sapendo bene che la reazione che avrei ottenuto sarebbe stata quella che desideravo, ossia, farle ammettere che la mia ragione, era più ragionevole della sua. -No, avevi ragione- disse infatti poco dopo -le illusioni sono solo illusioni e la realtà è solo realtà- decretò sconfitta. Io non osai andare oltre e lasciai che il silenzio suggellasse quel verdetto. Ma ignoravo che il silenzio, talvolta, può avere più voce del rumore e mentre la invitavo a raggiungermi fuori da quel groviglio di giardino, il suo sguardo si diresse verso la casa e si soffermò sul balcone del piano superiore. La vidi esitare e fissare un vuoto verso il quale anch’io, istintivamente, andai a guardare. -Che c’è?- le domandai. Lei tornò a guardarmi, ma lo fece con quell’espressione assorta che già altre volte le avevo visto, come se venisse destata da un sogno. -Niente, ho avuto solo la sensazione di vedere un movimento sulle scale- disse. Io allora indirizzai il mio sguardo nuovamente verso la casa e la fortuna mi soccorse facendomi scorgere la sagoma di un gatto che correva verso la campagna. Non valutai che l’animale poteva essere piuttosto lontano per poter aver coperto il tragitto dalla scala al punto in cui io lo osservavo in quel momento, e lo considerai solo come un’occasione. -Era un gatto- le dissi -eccolo laggiù- lo indicai. Lei lo guardò correre e sorrise. Uscì dal roveto e si sedette su quella che un tempo doveva essere una panchina da giardino. -Ti va se leggiamo stando qui?- mi propose. Io non me la sentii di disapprovare pensando che assecondarla potesse servire ad alleviare la sua delusione. -Vado in macchina a prendere il documento- le dissi. Quando tornai, mi sedetti vicino a lei e cominciai a leggere:

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Il Cerbero infernale… …Inutile dire che fu un’esperienza sconvolgente e che a ogni mia intromissione in qualcosa che da tempo avrei dovuto lasciar perdere, mi conduceva sempre più in un profondo meandro di sensazioni e timori che quanto stavo cercando non era di proteggere qualcun altro dall’insidia di una nuova visione, ma piuttosto di tentare d’allontanare da me quelle comprensioni apprese in un tempo in cui ero stato troppo incauto e mi ero lasciato trasportare nell’inebriante universo parallelo fatto di considerazioni che avevano l’unica facoltà di creare dubbi e tormenti. Ma non volevo convincermi che ero io a voler rifiutare tale possibilità perché l’accettarla significava assumersi troppe responsabilità e nella mia assurda guerra ero convinto che se fossi riuscito a convincere qualcuno che le lusinghe di Demetrio erano solo false illusioni di una mente troppo creativa, allora avrei potuto convincere me stesso. Solo che, per riuscire in tale proposito, non potevo rivolgermi a persone come me, ma a persone come Demetrio, e solo adesso, e troppo lentamente, comprendevo che Demetrio quelle persone le aveva selezionate e tutti coloro che avevano in qualche modo fatto parte della sua vita, non come semplici conoscenti, ma come interpreti del suo pensiero, erano affini a lui e con lui, collegate da un misterioso intreccio. Vanessa ne era stata la rivelazione definitiva, ma questo significava che anche Virginia faceva parte del suo labirinto, così come ne aveva fatto parte Val, che lo aveva dimostrato quando era venuto ad avvertirmi della sua partenza e così come, inevitabilmente, ne facevo parte io, che da lui ero stato coinvolto molto tempo prima, forse perché ero il più arduo da risvegliare. La mia era diventata una sorta di crociata perché per me quell’incombenza era troppo pesante e io volevo vivere la mia vita senza nessuna responsabilità, nella normalità di una condizione regolare. Ecco perché mi ero accanito così tanto con Virginia. Cominciavo finalmente a capire. Vanessa era troppo coinvolta, Val non aveva mai dato segni di tale complicità ma Virginia poteva ancora essere dissuasa. Lei non era ancora stata convinta del suo legame e se fossi riuscito a strapparla dalla tela di quel ragno, allora potevo liberare anche me stesso perché avrei dimostrato che lui non era ciò che tutti costoro credevano, e Vanessa poteva ancora essermi utile in questa guerra. Così, quando la riaccompagnai alla stazione dove aveva posteggiato la bicicletta, le domandai se ci potevamo incontrare ancora. Le dissi che all’indomani avrei potuto raggiungerla in città all’uscita da scuola e che poi l’avrei accompagnata io a casa. Lei accettò. Non so se in quel momento fosse già talmente in sintonia con la mente di Demetrio da comprendere quali erano le mie intenzioni, e senza considerarla un rischio, proseguii nella mia azione perché tutto ciò che mi restava adesso era ancora il riuscire a dissuadere Virginia dal considerare Demetrio un’alternativa alla sua noia. E il caso questa volta volgeva a mio favore, infatti, lui era partito e lei rimasta. Vendetta tramite un tentativo di seduzione fallito era la mia strategia. Quando lasciai Vanessa erano le quattro, giusto in tempo per raggiungere Virginia all’uscita dal lavoro pomeridiano alla scuola, così mi feci trovare lì quando uscì. Quando mi vide ebbe un gesto di stizza e cercò di scansarmi, ma io la rincorsi. -Virginia fermati- le gridai dietro. Lei proseguì senza darmi retta, allora affrettai la mia corsa e prima che potesse raggiungere l’auto la bloccai. -Per favore Virginia ascoltami- la implorai. Mi fissò con rabbia -che cosa vuoi ancora? Non sei soddisfatto? Non ti basta averlo allontanato? Non è ciò che volevi? Lui è andato e io sono rimasta. Questo ancora non ti basta?- Mi ritrovai assalito da accuse che non comprendevo, o almeno, che comprendevo ma di cui non mi sentivo responsabile -ma cosa dici?- le domandai interdetto. -Lo hai convinto ad andarsene, lo hai convinto a non distruggere la mia vita felice. Non ti basta questo?- -Io non l’ho fatto. Non sapevo nemmeno che se ne era andato. Sono stato chiuso in casa per tutta la settimana in preda a crisi febbrili. Non sono stato io a convincerlo a partire. È stata una sua scelta- le rivelai allora e, vedendo la sua espressione sciogliersi in tristezza, compresi che adesso potevo finalmente vincere.

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Lei si era costruita una falsa giustificazione e condannando me come distruttore delle sue illusioni si era creata l’alibi che le potesse dare ancora la convinzione che la realtà non era quella che stava vivendo. -Perché mi tormenti ancora Tommaso? Perché non puoi lasciarmi dei sogni? Delle illusioni?- -Perché tutto ciò che Demetrio poteva offrirti erano solo questo: illusioni-. Rise amaramente con gli occhi che trattenevano con fatica lacrime di tradimento -e dunque è meglio vivere questa realtà abulica e indolente fatta di noia e rimpianti?- -Ma che cosa vai cercando Virginia? Tu vedi le cose da un punto di vista sbagliato. Tu sei realizzata, lui è un vagabondo…- -E che cosa avrei realizzato di tanto importante?- -Nausica non significa niente per te? Non credi che valga la pena di sopportare un po’ di difficoltà per il suo bene?- cercai di far leva sulle sue responsabilità, ma lo sguardo che le vidi, improvvisamente, mi diede l’impressione di aver commesso un errore. Di nuovo sul suo viso apparve quel sorriso amaro -Tom, sei così ingenuo…- disse, e io non riuscii a capire. Vidi in lei una sorta di conflitto, come se fosse combattuta sulla necessità di rivelare qualcosa e l’impossibilità di farlo, e quando tornò a rivolgersi a me lo fece deviando verso un altro argomento, sebbene potesse sembrare il contrario. -Come dovrebbe farmi sentire meglio il pensare al suo futuro se poi il suo futuro sarà condizionato dal seguire un percorso simile al nostro?- la guardai incerto, non comprendendo perché intendesse coinvolgermi in questo contesto e di nuovo rise come se mi prendesse in giro. -Guardati Tom, non riesci nemmeno a riconoscere te stesso. Tu sei convinto che la nostra sia la giusta realtà. Sei convinto che la vita sia fatta di quotidiana routine, lavoro, impegni, frenesia… nessuna distrazione ma solo responsabilità. Forse questo va bene per te, e forse potrai convincere tuo figlio che anche per lui è giusto così… ma io, dovrei convincere Nausica che quello che voglio per lei è quello che ho avuto io? Noia? Responsabilità nei confronti delle aspettative altrui? Essere ciò che le si chiede di essere invece che ciò che lei vuole essere? Io sono stanca Tom, mi sento vecchia, sento il tempo che fugge via e non ho nulla da raccontare che possa essere di conforto. Se mi guardo indietro vedo solo fallimenti per quanto la gente consideri che io sia stata una vincente. Io volevo qualcosa di più per Nausica, e Demetrio, era colui che avrebbe potuto darle quel qualcosa in più…- -Ma ti ha abbandonata, e questo dovrebbe farti capire che quel qualcosa in più non esiste-. Il suo sguardo si fece severo e accusatore -vuoi sapere la verità Tom?- mi domandò con voce provocante e decisa, e di nuovo io non fui più tanto convinto di volerla sapere. -Sono stata io-. -Cosa?- -Sì, hai capito bene. Sono stata io a lasciarlo andare-. -Tu non puoi assumerti ora le sue responsabilità Virginia. Lui non merita il tuo tormento…- -Parli di responsabilità Tommaso, proprio tu che non sai nemmeno accettare quelle che hai di fronte?- non capivo quali fossero le sue accuse e interdetto balbettai parole senza senso. -Io non ti comprendo Virginia-. Di nuovo sorrise e di nuovo lasciò in sospeso qualcosa che non sapeva rivelare -sono stata con lui domenica, ed è stato il giorno più intenso della mia vita e ho capito una cosa… Lunedì ci siamo incontrati di nuovo, sono stata io a invitarlo. Ho voluto vederlo alla collina, ovvero là dove c’era la collina, la sua collina ricordi? La stessa che donò a voi per le vostre esibizioni. Ancora non capite Tom che tutto quello che siete stati a quel tempo lo dovete a lui? E forse è per questo che non lo sapevate apprezzare e ancora non lo accettate-. Cercai di obiettare, ma lei mi impedì di interromperla -sono andata decisa perché lui mi aveva chiesto di seguirlo e prima di andare ero risoluta a farlo. Ma poi, su ciò che resta della collina, rivedendo tutti i ricordi del mio passato, di come ero ambiziosa e di come fossi timorosa di non riuscire a soddisfare le aspettative della gente al punto da rinnegare tutto ciò che poteva essere un ostacolo, ho visto me stessa rifiutare quanto avrebbe potuto compromettere la mia perfezione. Lui era l’anomalia che la gente non sarebbe riuscita a spiegarsi. Una ragazza come me, bella, colta, sincera, assieme a un nomade, senza religione né fede, senza dimora, senza stabilità… chi avrebbe potuto immaginare quanta strada avrebbe fatto e soprattutto, chi avrebbe potuto immaginare che un giorno sarebbe stato

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disposto a rinunciare a tutto per qualcuno che in passato lo aveva malamente rifiutato? Eppure lui era pronto a farlo Tom. Era ancora nobile, come a quel tempo. Non me la sono sentita. Non volevo essere la causa della sua prigione…- mentre parlava cominciavo a capire e, egoisticamente, valutai più sensato non rivelarle che la prigione di Demetrio era proprio quella apparente libertà in cui lui era un nomade solitario che fuggiva dal suo rifugio solo perchè non poteva accettare che tutti coloro che avrebbero dovuto partire, non capivano di non essere al loro posto. Ancora ero convinto che la cosa migliore per Virginia era di restare lì, dove ero convinto fossero le sue radici. Quelle che invece Demetrio aveva tagliato per esigenze diverse, ma che erano rimaste lì e che come un Cerbero infernale sembravano sorvegliare chiunque cercasse di fuggire dall’antro della bestia, e la lasciai proseguire. -Tutto mi sembrava irreale, impossibile e non compresi quanto in realtà stavo distruggendo finché non ci trovammo sul ponte, quello che dal lato del parco costruito sulla collina, collega al lato del bosco. Era tutto deciso ormai, senza dirci nulla sapevamo entrambi quello che volevamo, mancava solo il suggello di un bacio. Ma sul centro del ponte, quando lui si avvicinò e chinò il viso verso di me, nel momento in cui le sue labbra sfiorarono le mie, una strana brezza mi portò il senso di un tormento che non potevo sopportare. Mi fu chiaro solo dopo quel brivido l’impossibilità di accettare la responsabilità di divenire la sua carceriera e istintivamente girai il viso di lato rifiutando il sigillo. In quel momento i suoi occhi si fecero tristi ma comprensivi e il tempo parve fermarsi. Attese, come se sperasse che ci ripensassi, ma io, come il tempo, restai ferma. Ho sentito le sue mani lasciare le mie e come in una sensazione telepatica ho percepito la sua comprensione. Non disse nulla. Semplicemente mi accarezzò la guancia lievemente, poi se ne andò in silenzio, rispettando il mio desiderio di piangere in solitudine… ecco come è andata Tom-. Non sapevo cosa dire, ma ancora ero convinto che aveva fatto la cosa giusta e, ingenuamente, cercai di convincerla di quanto il suo gesto fosse stato il più sensato. -Hai fatto la cosa giusta Virginia- cercai di dirle, ma la sua reazione fu di rabbia. -E tu che ne sai di cose giuste?- ebbi ancora la sensazione che ci fosse qualcosa di scorretto in quelle sue reazioni, e insistendo a convincermi di considerare Demetrio il soggetto delle sue accuse evitavo di sentirmene parte. Rinunciai a capire, ma avevo bisogno di sapere ancora una cosa da lei per poter concludere il mio atto di convinzione. -Dove siete stati domenica?- le domandai senza rendermi conto della mia mancanza di sensibilità. Lei mi guardò con aria sdegnosa -hai avuto ciò che volevi Tom, ora lasciami in pace- rispose, e senza darmi la possibilità di spiegarle salì sull’auto e se ne andò. Il capitolo finiva così, sospesi la lettura e attesi. -Vai avanti- disse però Felona. -Nessuna riflessione su questo Cerbero?- cercai di provocare qualche sua impulsiva reazione al sentirsi istruttrice accettando l’umiliazione di essere io l’alunno ignorante, più per allontanarla dall’ancora sua presente delusione che per avere un vero e proprio quadro della situazione. -L’inserimento del guardiano dell’Ade non è certo casuale, come ogni altra simbologia del testo. Ma l’incertezza di comprendere quanto di questo testo sia reale e quanto sia attribuibile alla fantasia, non mi conduce ad un’analisi concreta-. Ciò che le sentii dire mi procurò una certa confusa preoccupazione -che vuoi dire?- tentai di farmi spiegare. Lei mi guardò -finché avevo ben distinta la condizione di narratore come semplice protagonista che cerca di indagare se stesso attraverso una propria biografia, mi era ben definibile comprendere che ogni allusione era riferita a lui medesimo ed ero quasi certa che in conclusione alla fine tutto ciò che avremmo trovato null’altro era che un uomo che cercava solo delle verità su se stesso. Ma quando le indagini di questo narratore si sono trasportate all’esterno e proiettate su di noi, le sensazioni sono mutate. È come se ora tutti questi elementi non fossero più parte del narratore ma di noi stessi, e l’indagine si sia spostata dall’analisi di un soggetto esterno alla nostra interiorità. Non sono più sicura che stiamo indagando sull’identità di chi ha scritto il racconto, ma piuttosto su quella di chi lo legge-. Restai letteralmente allibito e, contrariato, contestai -non puoi lasciarti coinvolgere in questo modo. È vero, il racconto è suggestivo e per un certo tempo pure io ho provato i tuoi stessi timori, ma ora che abbiamo risolto la questione dell’irrealtà, l’unica cosa che ci rimane da fare è concentrarci sull’identità di questo scrittore e capire che cosa vuole- le chiarii il mio parere.

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Mi guardò con ostilità -e in che modo la questione sull’irrealtà sarebbe stata risolta?- Per un istante mi sentii come preso in giro -non abbiamo trovato niente in questo giardino giusto? Era qui che si concentrava ogni possibile prova di un fattore reale che ci potesse dare conferma che questo folle non si fosse inventato tutto giusto? Ebbene, qui non hai trovato niente di quello che cercavi- quasi la sgridai. -Tu ne sei certo vero?- -Sicuro-. -Allora ti consiglio di non farti troppe illusioni. Il fatto che qui non abbiamo trovato niente non significa che ciò che cerchiamo non ci sia, ma più semplicemente che noi ancora non siamo in grado di sentirlo o di vederlo. Non cercare vie di fuga, tu temi questa condizione quanto la temo io, se non di più, e cercare di aggirare l’ostacolo ti rende come Tommaso che non ha mai attraversato quel ponte-. -Non puoi paragonarmi a lui- le dissi infastidito dalla comparazione. -E perché? Temi di poter scoprire di avere qualcosa in comune con lui?- -Può darsi, ma preferisco pensare che si tratti di un’invenzione e che magari questo tizio sia solo uno che cerca una vendetta perché a questo punto per me è preferibile, quindi ora mi interessa solo capire che cosa vuole da me-. -Lui vuole i tuoi tormenti, e adesso anche i miei- esplose allora lei. -No Felona ti sbagli- contestai io -lui cerca di scatenare questi tormenti, è un istigatore e forse è questo il suo modo di vendicarsi, ma non certo contro di te, lui lo ha indirizzato a me il pacco e tu ne sei rimasta coinvolta. Ora io devo scusarmi se questo ti ha causato traumi, me ne sento responsabile, ma è mio dovere a questo punto ricordarti che tu non sei coinvolta. Questo millantatore ce l’ha con me e tu devi solo aiutarmi a capire che cosa vuole-. Mi espressi con vigore e forse pensando d’essere riuscito a penetrare la mente della mia attuale collega, ma questa mi guardò come colta da un’illuminazione. -Il senso di colpa. È da questo che cerca di fuggire- disse. -Come?- domandai io tornando al mio stato di stupore continuo. -Tu ora ti senti responsabile per la mia delusione e per il mio avvilimento. Per la prima volta ti comporti cavallerescamente accettando di assumerti ogni responsabilità perché vedi crescere in me un’ansia di cui ti senti responsabile, ma come dici non dovresti esserlo perché io ho accettato di esserti complice- la guardai allibito percependo l’allusione. Se lei aveva ragione e questo individuo aveva scritto ogni cosa sapendo che sarebbe giunta questa fase in cui lei avrebbe associato il mio senso di colpa nei suoi confronti a quello dell’autore, allora significava che tutto era previsto, e io questo non lo potevo accettare. -Andiamo Felona, non può essere stato così calcolatore, come avrebbe potuto sapere…- ma mi fermai scioccato, quasi tremante percependo come il millantatore ci stava rendendo tanto vulnerabili. -Non possiamo lasciarci ingannare in questo modo Felona- le dissi decidendo che dovevamo reagire -se cominciamo ad accettare che possa aver previsto che tu saresti stata mia complice e che pure tu avresti dovuto avere un ruolo in questa circostanza, allora dovremmo dedurre che questo racconto è stato scritto da un essere che travalica la sfera umana, e saremmo costretti ad accettare che solo una figura avrebbe potuto giungere a tanto…- -Il destino- rivelò lei. -Sì, ma né io né te possiamo accettare una simile evenienza-. -E quindi tutto tornerebbe al vaglio della casualità e il nostro incontro e tutto il resto non avrebbe senso… ma allora perché insistere nella ricerca?- Tacqui per un po’, ma non potevo rassegnarmi all’idea di quella sentenza. -Senti Felona, in che cosa credi adesso? Voglio dire, non hai avuto conferma delle tue sensazioni e quindi, o non esiste ciò che abbiamo dedotto o non siamo pronti per affrontarlo. Se tu dici che ancora non sei convinta della realtà io sono disposto a concederti il beneficio del dubbio. Ma dobbiamo risolvere questa questione perché ormai lasciarla in sospeso significherebbe solo continuare a tormentarci-. Tornò a guardarmi e incredibilmente annuì -è la cosa più sensata che ti ho sentito dire da quando ci conosciamo. Siamo stati travolti da questo inganno e tuttavia io ancora sono incerta. Tutti i dubbi che questo racconto mi ha generato però vanno risolti, hai ragione, e se per farlo dobbiamo indagare noi

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stessi, l’unica pista che abbiamo è continuare a indagare su questo folle- rividi il suo spirito combattivo rianimarsi e ne approfittai. -Bene, allora, quale significato ha questo cane dell’inferno dantesco?- esibii la mia limitata cultura ricordando che Cerbero era il cane a tre teste posto da Dante a guardia degli inferi. Ma la mia esibizione subì un traumatico impedimento. -Nessuno. Nell’inferno di Dante Cerbero è a guardia del terzo cerchio, quello dei golosi, ma qui il cibo non c’entra niente. Infatti deve riferirsi al Cerbero della mitologia greca, guardiano degli inferi con il compito di impedire ai vivi di entrare e ai morti di uscire e le cui tre teste simboleggiavano la distruzione del passato del presente e del futuro. E qui siamo in un limbo dove il narratore non riconosce più né passato, né presente e inevitabilmente, non vede futuro. Egli è smarrito dall’ossessione di qualcosa che ancora non comprende. C’è un grande senso di colpa in lui, o magari più di uno, ma ciò che sta cercando di non vedere ancora è celato al suo ricordo, per questo non vuole che le cose cambino…- La guardai da un lato contento di sentirla tornare a fare le sue analisi, dall’altro preoccupato perché queste si stavano prepotentemente confondendo alla realtà che stavamo vivendo e fissandomi comprese i miei dubbi. -Ora non ci possiamo più fermare amico mio. Solo così possiamo capire se il tuo sentirti in colpa è solo una casualità o se la nostra realtà si sta fondendo al racconto. Siamo come legati da un filo invisibile e credo che nessuno di noi due voglia restarci annodato- riferì. Io la osservai con approvazione -no hai ragione- risposi, celando che l’unica mia volontà di restare legato a lei adesso era solo per un affetto che cominciava a coinvolgermi troppo e che sinceramente, cominciavo a temere. -Allora continua e scopriamo dove vuole condurci- le sentii dire. Io avrei voluto andare via da quel luogo, ma proporre di muoverci in quel momento mi parve improvvisamente compromettente. Era rischioso interrompere adesso, e senza indugi, proseguii:

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Quando si diventa adulti?.. …Il giorno seguente, come da programma, incontrai Vanessa all’uscita da scuola. Ormai la mia vita aveva perso il ritmo quotidiano e in un modo che non comprendevo come fosse avvenuto, affari e famiglia erano passati in secondo piano. Risolvere la questione Demetrio era divenuta per me di primaria importanza, seppure non vi fosse apparentemente più nulla da risolvere visto che lui era definitivamente svanito dalla realtà mia e di Casterba. Ma tutto era così intenso, che non riuscivo a considerarlo e inconsciamente continuavo ad agitare un mare senza vento. Vanessa mi salutò con allegria quando mi vide e mi venne incontro. Era una giornata calda e Vanessa indossava gonna estiva e maglietta a maniche corte, tuttavia, nella mia convinzione di non fare nulla di male, non valutai ciò che le persone che ci osservavano e che ragionavano in una limitata dimensione mentale potevano pensare, né immaginai che qualcuno che ci conosceva poteva vederci, sebbene inconsciamente proprio per questo le avevo dato appuntamento in città. Così, quando ci sedemmo al tavolo del ristorante dove le offrii il pranzo ero totalmente disinvolto e le domandai perché mai avesse voluto incontrare suo zio anche nei giorni seguenti. Il mio piano era quello di farla ragionare su quanto era avvenuto e poi di raccontarle quale era stata la mia esperienza con Demetrio, pensando che se fossi riuscito a farle capire che in realtà suo zio non era altro che una comune persona con uno spiccato senso dell’immaginazione, avrei avuto la possibilità di insinuare il dubbio nella sua mente. -Sono tornata da lui perché volevo conoscere di più sulla sua attività e sulle sue esperienze di viaggio- rispose con semplicità, e tale semplicità mi spiazzò perché non sapevo in che modo avrei potuto indurla a raccontarmi i dettagli delle loro conversazioni, quindi decisi di cambiare strategia. -Tu avresti voluto conoscere meglio tuo zio?- le domandai. Lei sorrise -ho avuto poco tempo per stare con lui, ma questi pochi giorni sono stati sicuramente più interessanti di tutti i miei anni di studi- le sorrisi di rimando. -Sì, ma tu non hai ancora iniziato i veri studi-. -Intendi quelli universitari?- domandò con perspicacia. -Sì- sorrisi divertito -è lì che comincia la vera istruzione e dove costruisci la formazione per affrontare al meglio il tuo futuro-. Lei si fece pensierosa -è strano- disse, e io la guardai con sospetto -il tuo sembra un discorso al contrario rispetto al suo- rivelò. Finsi stupore -davvero? Perché, lui che cosa ti ha detto?-. -Ha detto che non sempre un diploma è sinonimo di conoscenza e formazione e in effetti, lui potrebbe esserne un esempio- espose, e una sorta di allarme mi mise in uno stato di attenzione e agitazione. -Non ti avrà convinta ad abbandonare gli studi spero- non mi rendevo conto che il mio poteva sembrare un atteggiamento troppo affettivo, nel senso che solo un padre poteva permettersi di discutere le scelte di una figlia, e Vanessa non era mia figlia. Lei però mi guardò proprio come se così fosse e io mi sentii in dovere di assicurarla. -Non farti idee sbagliate Vanessa. Non sono qui per dirti cosa devi fare del tuo futuro, è solo che a volte è facile farsi influenzare da esempi che magari possono sembrare allettanti, ma la realtà in cui viviamo non è così semplice. Non tutti hanno la fortuna di avere certe doti naturali come tuo zio, alla maggior parte di noi servono molti sforzi per riuscire nel proprio lavoro- il mio tentativo di risolvere però sembrò peggiorare le cose e lei iniziò a guardarmi con sospetto. -È bizzarro- iniziò poi con aria pensierosa. -Che cosa?- -È strano come sia tutto così corrispondente-. Un’insolita esitazione cominciò a cogliermi -che vuoi dire?- le domandai mentre si faceva sempre più meditativa. -Beh, certe coincidenze relative a quanto mio zio diceva. Per esempio su come molti pensano di sapere che cosa sia meglio per me o per gli altri e soprattutto di come mi sarei trovata di fronte a particolari condizioni su cui riflettere in questi giorni. Sa, mio zio ha detto che qualcuno avrebbe potuto essere molto interessato al mio futuro, ma credevo che si riferisse ai miei famigliari, non pensavo che sarebbe stata una persona estranea-.

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Mi sentii in trappola e sorrisi con imbarazzo. Demetrio aveva previsto anche questo e precedendomi, annullava ogni mia possibilità di annientarlo. -Vanessa, ti assicuro che questa è una pura coincidenza. Io ero molto amico di tuo zio e dopo tanti anni sai, cercavo solo di capire che cosa avesse fatto- tentai di riconquistare la sua fiducia ma nel finto sorriso con cui cercò di accettare il mio imbarazzo compresi che ormai i suoi sospetti l’avevano allarmata al punto da non potermi più concedere tale fiducia. -Io non ho intenzione di lasciare gli studi, è solo che non voglio farmi condizionare- disse con distacco. Cercai di riguadagnare terreno assecondandola -condizionare da qualcuno che potrebbe indirizzarti verso la scelta sbagliata?- le domandai. -No. Non voglio fare in modo che quanto studierò finisca per inquinare il mio pensiero. Mio zio ha detto che l’istruzione è importante, ma che questa non deve prevaricare sulle idee e sui pensieri che si hanno. Io pensavo di indirizzarmi verso filosofie e scienze politiche, ma ora sto riflettendo su quanto lo studio di qualcosa che riguarda il pensiero potrebbe condizionarmi nelle future scelte-. La guardai con perplessità -sì non è errato ciò che dici, ma quando si diventa adulti si riesce a distinguere la propria capacità di ragionare non credi?- -E quand’è che si diventa adulti?- Provai un brivido e improvvisamente mi parve di trovarmi di fronte a Demetrio -beh, quando ci rendiamo consapevoli della nostra facoltà di scelta- cercai di risponderle con una certa coerenza. Lei mi fissò -ci sono persone che rimpiangono tutta la vita le scelte fatte in passato, sono queste le persone adulte?- -Fare delle scelte sbagliate non significa non essere adulti, anzi, al contrario, spesso sono quelle che ti fanno crescere-. -Sempre che la scelta sia spontanea e personale, e non condizionata o valutata in conseguenza a quanto qualcuno si aspetta da te, non crede?- -È naturale che la gente si preoccupi di dare consigli, in fondo da ciò che realizzerai dipenderà il futuro non solo tuo ma anche di chi sarà coinvolto nei tuoi spazi- le dissi cercando di farle comprendere che le responsabilità di una persona non erano solo soggettive, ma anche collettive. Credevo di recuperare affidamento, ma non sapevo quanto il breve contatto con Demetrio era stato influente su di lei. -È proprio questo il punto signor D’amanti. La gente si aspetta qualcosa da ognuno di noi, sembra che gli altri abbiano già deciso cosa o come deve essere una determinata persona. Se uno viene da una famiglia prestigiosa, dovrà mantenere quel prestigio. Se uno ha una condotta esemplare non può permettersi errori. Sembra che tutti stiano lì ad aspettare le mosse degli altri, e questo non ha senso se non per il fatto di giustificare qualcosa che non si apprezza di sé. Io per esempio sono la classica rappresentazione di come dovrebbe essere una figlia modello. Se scegliessi di fare filosofie e scienze politiche, avrei sicuramente l’approvazione di tutti quelli che mi considerano nobile, e l’invidia di tutti quelli che attendono un mio errore da giudicare. Ma se decidessi di fare la musicista rock deluderei i primi e farei felici i secondi, e in questa decisione dovrei tenere conto di chi con me subirebbe lo stesso giudizio. Quindi, in che modo una persona è libera di fare una scelta se deve valutare le considerazioni degli altri? Chi è alla fine che decide quando si è abbastanza adulti da poter essere veramente responsabili della propria vita?- -Mi sembra che tu la stia facendo più grande di quel che sembra- non sapevo più cosa dire e improvvisamente mi sentii fuori luogo. -Eppure, sebbene i miei genitori siano persone responsabili e per bene, mia madre non ha esitato a rinnegare suo fratello. Quale dovrebbe essere il giudizio corretto? Per tutti il suo rinnegare è corretto, solo perchè mio zio non ha rispettato alcune regole che qualcuno ritiene essenziali, e la cosa peggiore è che nessuno è disposto a concedergli una possibilità di riscatto. Perfino mia madre rifiuta di ascoltarlo…- si interruppe come se temesse ad aggiungere qualcosa, ma io lo intuii solo troppo tardi, dopo che ormai le avevo dato l’opportunità di proseguire. -Ma che stai dicendo? Tuo zio è considerato una celebrità, tutti lo hanno accolto con entusiasmo…- -Solo per interesse. Se lui non fosse divenuto ciò che è nessuno lo avrebbe accolto in quel modo. Tutti lo hanno solo sfruttato. Sarebbe stato lo stesso se fosse tornato da perdente come se ne era andato?-

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-Ma tu che ne sai?- lei si stava irritando, ma fu la mia reazione a dare più esibizione d’incapacità di sostenere il dialogo, e sapere che la persona che mi stava annientando in quello scontro verbale era poco più che un adolescente, mi fece dubitare delle mie capacità persuasive facendomi rendere conto sempre più che il mio valore stava più nella tradizione di famiglia e nei suoi possedimenti, piuttosto che nella mia vera personalità. -Mi ha raccontato che non era molto considerato quando se ne è andato, e non lo era nemmeno quando è tornato. A nessuno importava nulla di più di quanto lui poteva offrire, e malgrado sotto i finti sorrisi tutti lo stessero giudicando. Nessuno gli avrebbe chiesto quali fossero state le sue motivazioni per fare ciò che aveva fatto e forse era meglio così perché nessuno avrebbe creduto a ciò che poteva raccontare-. Percepii di nuovo quell’allarme che avrebbe dovuto indurmi a cedere, ma l’istinto prevaricava ogni mia sensazione e come nei tempi trascorsi , la curiosità mi spinse a fare la scelta sbagliata. -Che cosa vuoi dire?- volli sapere. -Lei gli avrebbe creduto se le avesse raccontato di aver parlato con suo padre la notte stessa in cui è morto?- Provai un forte brivido. -Ascolta Vanessa- iniziai allora a dirle veramente con il tono di chi vuole convincere qualcuno di qualcosa che lui ritiene giusto -forse è tempo che tu sappia chi era veramente tuo zio perché è facile per una giovane come te subire l’influenza di un fascino seducente come il suo. Successe lo stesso anche a me e forse per questo, meglio di chiunque altro io posso dirti chi era- lei mi guardò sospettosa e io compresi di aver detto la cosa peggiore che avessi potuto. Sentivo nuovamente di trovarmi su un bivio e da ciò che la ragazza mi avrebbe permesso di raccontarle ero certo potesse dipendere il suo futuro e ciò che invece continuavo a non considerare, era come nei miei gesti io vedessi sempre lo svolgersi del futuro altrui anziché il mio. La giovane mi guardò con aria confusa tra il dubbio e la delusione -io ascolterei volentieri la sua esperienza con mio zio, ma percepisco una sorta di negatività nel suo desiderio di parlare di lui. È come se in lei vi fossero dei timori, ma perché mai dovrebbe preoccuparsi per quello che deciderò di fare? Ho avuto pochi momenti di sincera armonia nei dialoghi con mio zio e quello che speravo adesso era di poter condividere altrettanti bei momenti con chi era stato sua amico un tempo. Sembra però che quel tempo non esista più. Ora capisco cosa intendeva dire quando parlava di Shiva il distruttore…- Provai una terribile sensazione di angoscia nel sentirmi accusare di essere un distruttore, ma non potevo impedirmi di concentrare la mia attenzione sull’affermazione relativa al fatto di poter condividere esperienze su chi “una volta era stato suo amico”. Demetrio doveva averle parlato così, era abbastanza evidente, ma ciò che più faceva male era il pensiero che tali parole significavano che lui non mi considerava più suo amico e, con una terribile rivelazione, non potei impedirmi di comprendere che io stesso lo avevo considerato un avversario fin dal primo attimo del suo ritorno piuttosto che un amico e la distruzione di cui mi si accusava era semplicemente ciò di cui ero stato artefice, e le successive parole della giovane mi gettarono in un intenso sconforto facendomi percepire come la mia stessa follia mi aveva condotto a distruggere ogni cosa, al semplice scopo di salvaguardare una stabilità circoscritta ad un paese nel quale io ero apprezzato solo per le opportunità che avevo da offrire. -Sembra che tutti lo abbiano odiato- la sentii proseguire -e chi non ha riservato a lui il suo odio al tempo che stava qui abbia usufruito di questo ritorno per esprimerglielo. Perché tutti ce l’hanno con lui, che male ha fatto?- Mi sentii meschino e impotente e l’unica cosa che riuscivo a considerare erano le mie scuse. -Senti Vanessa, mi dispiace. Tutto ciò che mi premeva era raccontarti di lui così per come l’ho vissuto io. Credimi, io ho sofferto quando se ne è andato, e non ero molto più vecchio di te a quel tempo. Ma adesso capisco che i nostri tempi erano diversi e che tu non sei come me, ma assomigli più a lui…- improvvisamente, nel ruolo di distruttore non mi ci volevo più riconoscere e come destato da un sogno evanescente mi stavo chiedendo per quale assurda follia mi fossi così intestardito a voler allontanare tutti da lui. Qualcosa tuttavia mi aveva condotto a considerare i pericoli che lui rappresentava, ma come era sempre stata mia abitudine fare, quei pericoli li vedevo rivolti verso gli altri e come se fossi

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un eroe benefattore inconsciamente mi ero sentito in obbligo di correre in aiuto alle sventurate vittime, anche se solo in quel momento comprendevo che non sapevo di che cosa fossero mai state vittime. Io ero terrorizzato dal ricordo di un vecchio pensatore che mi aveva insegnato a riconoscere i segni del destino, e proprio per questo, perché non potevo accettare la realtà di un destino che non mi permettesse di gestire la mia vita, riconoscevo in lui una minaccia e un avversario. Così, non vedevo in lui la nobiltà di chi ancora seguiva le regole dell’ospitalità e dimenticando di essere stato io suo ospite, l’avevo visto solo sotto la veste del Glauco guerriero. In fine, Diomede, nel quale io mi identificavo, era stato sconfitto. Accompagnai a casa Vanessa e nello scusarmi con lei le chiesi semplicemente di dimenticare ciò che era successo. Lei mi guardò con aria comprensiva, come se intercettasse non il mio rammarico, ma la mia intuita consapevolezza di quanto ero stato inadeguato e ingiusto nei confronti di Demetrio e di tutti coloro che, nel bene e nel male, gli erano vicini. Per un momento ebbi l’impulso, come a volerla confortare, di dirle che non tutti lo odiavano e che c’era qualcuno che invece lo amava. Allo stesso tempo mi resi conto di due cose: la prima, che rivelarle di Virginia significava entrare in una sfera troppo personale che non sapevo se sarebbe stata apprezzata da Demetrio, la seconda, che conseguentemente avrei dovuto rivelarle che io stesso quell’amore avevo cercato di annientarlo. Non so in che modo l’intuito o l’istinto mi fermarono e mentre lei al mio richiamo attendeva di sentire cos’altro le volevo dire, un pensiero rapido mi fece definitivamente rinunciare al mio ruolo distruttivo. -Auguri per il tuo futuro- le dissi con sincerità. Lei mi sorrise, e in quell’innocente sincerità, decisi che era giunto il tempo di chiudere definitivamente col passato e con Demetrio. Ma si trattava di un passato che ero stato io a risvegliare, non Demetrio, e se avessi saputo ragionare come lui, avrei capito che lo scorrere della sabbia nella clessidra, una volta avviato, non era più possibile fermarlo. -Shiva non è una divinità induista?- ricordavo qualche mio residuo di lettura di una specie di romanzo in cui dovevo aver incontrato l’accenno alla divinità. Riflettei un attimo dopo su come fossi sempre io a porre la prima domanda mentre lei ad ogni fine di capitolo si faceva sempre più riflessiva, e mi chiesi quanto quella sua riflessività cominciava a preoccuparmi, giacché in ogni sua rivelazione, nonostante sembrasse lei a sentirsi sempre più tormentata, ero io a divenire più timoroso. -Da quel poco che so dovrebbe essere una delle principali. Perché qui lo si considera quindi un distruttore?- osai comunque proseguire. -È uno dei suoi maggiori attributi. Shiva era considerato una deità terrificante negli Inni Vedici delle origini dell’induismo, ma con la diffusione del concetto di trimurti egli venne identificato principalmente con il suo aspetto dissolutivo e rinnovatore-. -E che cos’è la trimurti?- -È una nozione che indica i tre aspetti di una singola divinità o, in questo caso della divinità suprema-. -Perché in questo caso?- -Perché Shiva è una delle tre divinità che la rappresentano assieme a Brahma, il creatore, e Visnu, il conservatore-. -Ma perché distruggere?- -L’associazione a Shiva è determinante. L’aspetto distruttivo di Shiva rappresenta la conclusione di un ciclo, così da poter permettere a Brahma di iniziarne altri. Perciò il suo carattere distruttore non è da intendersi sotto un aspetto negativo. Nella visione induista l’aspetto distruttivo di Shiva è applicato contro le forze maligne. Io credo che Demetrio si riferisse a se stesso, nel senso che la sua azione ha condotto Tommaso a riconoscere la negatività delle sue gesta, infatti non riesce più a sostenere nemmeno un dialogo con un’adolescente, e da questa consapevolezza ha inizio la distruzione di quel lato oscuro di cui Tommaso ancora non aveva cognizione-. -Si atteggia da divinità?- dissi perplesso -sarebbe sintomo di delirio dal punto di vista psicologico giusto?- -Sì- sorrise -psicologicamente sarebbe una diagnosi azzeccata, ma il suo interesse è solo simbolico. La comprensione deve essere personale e spontanea, per questo Demetrio introduce così tante forme simboliche. Il simbolo ha il potere di rivelare, ma nel modo più indiretto poiché se l’intuizione non è individuale e soggettiva non sarà altro che una trasmissione di informazioni pressoché inutili per chi le apprende-.

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Ripensai alle poche nozioni che io avevo di Shiva e intuii come in effetti il semplice aver letto qualcosa non mi era stato di alcun bisogno. Ora, malgrado l’informazione mi venisse trasmessa, attraverso tutto ciò che potevo aggiungere alle mie esperienze, cominciavo a comprendere meglio quanto mi si spiegava. -Io non posso accettare un giudizio su me stesso se questo giudizio non lo esprimo io stesso, è questo che intendi?- -In un certo senso. La distruzione che Tommaso ha cercato di effettuare in realtà non era altro che una distruzione del suo ego, o di qualcosa che ancora non riesce ad accettare di se stesso. Ma deve comprenderlo da solo, altrimenti continuerà a sentirsi come colui che deve annientare piuttosto che colui che deve annientarsi-. -Per questo ha cercato di rendere Demetrio insignificante agli occhi di chi lo apprezza? Cercava di distruggerlo prima di essere da lui distrutto?- -Esattamente. Il suo accanimento verso Demetrio in realtà è un’aggressione contro se stesso, che alla fine doveva condurlo a quell’unica comprensione…- -Ma come può uno comprendere di dover annientare se stesso?- -È tutto qui il succo del discorso. Ciò che questo racconto sta esprimendo è che per comprendere qualcosa o qualcuno prima dobbiamo comprendere noi stessi. In fondo lo hai appena detto, devi essere tu a giudicare te stesso, ma noi commettiamo l’errore di giudicare sempre al di fuori di noi, ecco in cosa consiste la distruzione. Quando sapremo giudicare noi stessi, forse potremo giudicare gli altri, ma più probabilmente, non ne avremmo bisogno-. -Ma che senso ha tutta questa follia? Perché inscenare un tale labirintico intrigo? Qual è la ragione per cui Demetrio si accanisce tanto?- -Non è Demetrio ad accanirsi, è Tommaso. È lui ad aver innescato l’intera sequenza del domino, e lo ha fatto fin dal momento in cui ha cercato di capire chi era Demetrio, fin dai momenti dell’infanzia-. -Ma poi ha rinunciato, quindi è Demetrio che insiste-. -No ti sbagli, perché una volta che l’ingranaggio è stato messo in moto non si può più fermarlo. Ricordi la Genesi? Il Cherubino con le spade fiammeggianti impedisce il ritorno nel giardino dell’Eden. Demetrio non ha chiesto nulla a Tommaso, lui ha scelto da solo di uscire da quel giardino e ne ha accettato le conseguenze. La sua solitudine è una di queste e lui la accetta, ma allo stesso tempo lui si rende responsabile di chi vuole percepire il suo mondo e non può più fermarsi perché non può accettare di lasciarlo nell’oblio. Tommaso è uno di quei avventati che ha scelto di uscire dal giardino, ma una volta fuori si è perso… e Demetrio sta cercando di indicargli la via-. I nostri sguardi si incrociarono e non so chi tra noi due avesse quello più stupito -è assurdo- sussurrai non volendo crederci -se questa fosse la realtà, si potrebbe dire che stiamo parlando di una sorta di entità superiore, una specie di angelo o di spirito guida. Siamo certi di voler accettare queste circostanze?- Lei mi guardò condividendo, forse per la prima volta, i miei dubbi e le mie insicurezze. -È sicuramente la scelta più difficile da compiere, ma ormai ci siamo addentrati troppo in questo che tu definisci labirinto. Demetrio potrebbe essere un angelo, uno spirito guida, o solo uno con una consapevolezza leggermente superiore alla norma che lo conduce semplicemente a sentirsi responsabile di ciò che magari involontariamente ha iniziato, ma così come lui, anche noi non possiamo smettere-. -E non potrebbe essere semplicemente un pazzo?- -Sì, e se così sarà, non potremmo altro che sentirci sollevati non credi? Ma se ora non scopriamo se era pazzo o trascendente, in noi resterà solo l’incertezza del dubbio e il rimpianto di non aver saputo accettare la sfida- concluse e io, nonostante tutto, annuii. -Pazzesco- sussurrai e lei mi guardò incerta. -Sto pensando che se avessi intuito un simile intrigo, forse avrei ponderato di più sulla possibilità di rinunciare al mio compenso- ammisi. Lei sorrise con una sorta di sincero divertimento -questo evidenzia come nella vita il denaro e i possedimenti non siano tutto…- -No, infatti- ammisi sconsolato, quindi mi sentii sottrarre il documento dalle mani e poco dopo sentii la sua voce riprendere a leggere:

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La notte dei tori… …Avevo deciso di dimenticare tutto, e quasi ero convinto che ci stavo riuscendo, quando quella sera, quasi alle dieci, il campanello suonò alla mia porta. Fuori si stava scatenando un temporale primaverile e pioveva a dirotto e io, che stavo guardando la televisione assieme a mia moglie mi domandai, non meno perplesso di lei, chi potesse mai essere a quell’ora. Non so se fu una fortuna che mi alzassi io per andare ad aprire o se fosse il fato a fare in modo che così avvenisse, ma quando aprii la porta mi parve di precipitare in uno dei miei sogni infantili. La pioggia, l’oscurità e il volto di Virginia, reso quasi tetro dalle luci dei riflettori del giardino che provenivano dal basso, mi condussero ad una lontana visione che come in una rimembranza di quelle che ti fanno credere di aver già vissuto una condizione simile, mi stordirono al punto tale che nell’immediato non riuscivo a comprendere che cosa stesse dicendo. -Oliero- ripeteva in sequenza -alle grotte di Oliero- mentre io imbarazzato e incapace di reagire domandavo a lei che cosa ci faceva lì. Ma lei ripeteva quel nome e continuava a fare riferimento a certe grotte. Dal salotto Anna domandò a voce alta chi fosse e io mi resi conto che non potevo né spiegare, né comprendere. -Un imprevisto cara- dissi istintivamente e subito dopo, a voce più bassa mi rivolsi a Virginia. -Che cosa succede? Perché sei qui?- lei mi guardò con sguardo disarmante e impaurito. -Domenica, siamo stati alle grotte di Oliero- cominciò allora ad essere più chiara. -Che tipo di imprevisto?- gridò dal salotto Anna. Dovetti improvvisare, ma non mi riuscì tanto difficile. -Dei tori amore. Sembra che dei tori siano fuggiti dal recinto- guardai Virginia e le dissi di non muoversi perché sentii Anna alzarsi per venire a vedere. Chiusi la porta e le andai in contro -che succede?- mi domandò incrociandomi. Infilai una giacca alla svelta -devo andare a vedere di che si tratta. Mi dispiace ma non posso permettere che quelle bestie rischino di fare danni-. -Devo avvertire qualcuno?- mi domandò senza sospettare nulla. -No- risposi con troppa irruenza -il mandriano qui fuori ha già allarmato gli altri responsabili delle stalle. Si tratta solo di recuperarli- poi con un’intuizione che poteva dare il senso della drammaticità ma molto incisiva sulla menzogna che stavo inventando aggiunsi -ha chiesto anche l’intervento di alcuni cacciatori, forse sarà necessario abbatterli-. Anna sussultò dandomi la conferma che credeva a quanto le raccontavo -ci vorrà molto?- domandò. La guardai con l’espressione di chi sa che sta mentendo ma non vuole rivelarlo. -Non lo so, forse è meglio che non mi aspetti alzata- le dissi. Quando uscii lei mi stava ancora guardando e io lo feci in fretta per impedirle di vedere chi fosse il mandriano venuto ad avvisarmi. Sapevo che le menzogne non rimangono mai tali per tanto tempo, ma non pensavo alle conseguenze che questa poteva avere, anche perché al momento non potevo valutare di avere altre alternative. Non osavo immaginare se avessi raccontato la verità, pur essendo il mio solo un gesto di altruismo, cosa avrebbe potuto scatenare la rivelazione che a quell’ora uscivo con una ragazza con la quale in tempi passati ero stato molto intimo. Mi accorsi solo dopo essere salito in macchina che Virginia era bagnata fradicia e che con lei non vi era alcun mezzo di trasporto. -Mio Dio Virginia, ma sei venuta a piedi?- le domandai. Tremante di freddo annuì e io pensai che doveva essere proprio disperata. Misi il riscaldamento al massimo, ma sapevo che non poteva essere sufficiente. -Ti prenderai una polmonite se non ti asciughi alla svelta-. Avviai la macchina e corsi in direzione della città deviando però verso una località più turistica, dove sapevo che avrei trovato un Hotel disponibile ad ospitarci per una notte. Non era mia intenzione approfittare dell’occasione, solo volevo che Virginia potesse farsi una doccia e mettersi addosso abiti asciutti. Prenotai in un modesto hotel a tre stelle in una località della valle della Lessinia dove, malgrado gli sguardi ambigui degli inservienti ancora in servizio, nessuno pose domande. La stagione turistica non era ancora nel pieno delle sue attività e non fu difficile trovare una stanza libera, prendemmo alloggio e dissi a Virginia di farsi una

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bella doccia. Quando uscì, indossava l’accappatoio, aveva i capelli ancora bagnati e, nonostante l’angoscia nei suoi occhi, appariva sorprendentemente attraente. Avevo messo i suoi vestiti ad asciugare appendendoli sul balcone protetto da una veranda. Quindi, le domandai di spiegarmi tutto. Lei iniziò. -Siamo stati a Oliero- disse -una località vicino a Bassano del Grappa, dove vi sono delle grotte- attese un istante in modo riflessivo, poi scosse il capo. -Mi dispiace per il casino che ti sto combinando, ma non posso tenermi dentro tutto e tu sei l’unica persona alla quale posso rivelare questo tormento- disse quasi mettendosi a piangere. Mi avvicinai a lei e nella solita necessità di conforto l’abbracciai -avanti non ti preoccupare. Si sistemerà tutto, in quanto a me, non devi sentirti in colpa…- -Ma Anna, che cosa penserà?- -Non preoccuparti, posso giustificare tutto. Ora raccontami. Che cosa ti ha turbato tanto?- Attese qualche secondo, un po’ per pensare, un po’ per rilassarsi. -All’inizio è stato tutto molto tranquillo e piacevole, il viaggio in treno, la passeggiata per il parco. Poi quell’idea, ovvero, quel suo ammettere che voleva farmi vedere qualcosa. Lo definì uno spettacolo della natura. Io non dubitavo di nulla, nemmeno quando mi parlò di queste grotte, in definitiva, erano solo componenti naturali che non rappresentavano alcuna insidia. Inizialmente giustificò questa sua voglia di condurmi alle grotte perché erano state uno dei primi soggetti che aveva fotografato come professionista. Mi aveva detto che le foto erano apparse su una rivista naturalistica, e io non avevo avuto dubbi. Entrammo con l’ausilio di un battello perché queste grotte sono accessibili attraverso il fiume Brenta, poi cominciammo la visita. La guida spiegava la struttura geologica della formazione calcarea e della roccia e dentro vi era una semioscurità perché le luci usate per illuminarla erano a basso voltaggio, per non rischiare di danneggiare l’equilibrio naturale. C’era un percorso da seguire e non tutti restavano presso la guida. Molti si attardavano e anch’io dopo un po’ cominciai ad essere attratta, più che dalle parole della guida, dalla struttura della grotta. Demetrio camminava affianco a me, ma quando a un certo punto io cominciai a provare freddo, lui rallentò il passo e si mise dietro di me. Sentii le mani di Nausica lasciare le mie e cominciai a camminare da sola tra le stalattiti della grotta. Mi accorsi solo per un istinto protettivo che potevo lasciarla andare perché con la coda dell’occhio vidi che Demetrio la prese per mano il che significava che lei passava semplicemente dalla mia protezione alla sua, e allora potei cominciare a lasciarmi trasportare dalle sensazioni, e dopo un po’ quelle sensazioni si trasformarono in una specie di estasi e a un certo punto, mi sentii come parte di una realtà che non sembrava consistere-. Provai un forte brivido perché le sue parole mi condussero verso una lontana reminiscenza dove qualcosa mi portava nella memoria flashback di immagini che parevano lontane nel tempo ma che, come déjà vu mi portavano alla concezione di qualcosa di già vissuto. Virginia intanto proseguiva il racconto inconscia delle mie sensazioni. -Ad un certo punto, la grotta nella quale stavo passeggiando mi sembrò mutare, come se io stessa mutassi con lei e l’ambiente in cui stavo non fosse più lo stesso. È strano e so che può sembrare difficile da comprendere, ma avevo come l’impressione di essere trasportata in una dimensione diversa, come se stessi sognando-. Fu questo uno dei momenti in cui la mia razionalità poté trovare una ragione per essere messa in dubbio. Fu questo uno dei momenti che mi riportò a quell’assurda concezione che la realtà poteva non essere reale e mettermi di nuovo sulla via della discussione su come ciò che stavo vivendo fosse vero o pura fantasia. Fu questo uno dei momenti in cui ripresi a domandarmi se non stessi vivendo, come uno spettro ignaro, una morte di cui non ero consapevole. E fu questo uno dei momenti in cui mi sentii più disarmato e impotente che mai, mentre avrei potuto dirle che non era poi così strana la sensazione che stava cercando di spiegarmi, sapendo che a quel punto avrei dovuto rivelarle tutti i miei dubbi e sospetti sulla realtà. Ma se lo avessi fatto, avrei rischiato di compromettere il suo intelletto, avrei rischiato di innestare troppi meccanismi oscuri della mente e soprattutto, avrei rischiato di essere io stesso trascinato in quel meandro di pensieri in cui nuovamente sarei tornato vittima dei dubbi, del caos e dell’assurdo, nel quale non volevo più tornare. Così non dissi nulla, e la lasciai raccontare. -Ad un certo punto ho percepito come un vuoto intorno a me, la grotta si è fatta più grande dandomi la sensazione di un’enorme cattedrale naturale. Poi ho visto luci di fiaccole e mentre stavo lì al centro,

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ho sentito la presenza di persone attorno a me. Non erano reali, così come non era reale la visione che stavo per avere. Alcune persone si materializzavano come se fossero già state nella grotta, altre invece giungevano come se vi stessero entrando e tutto aveva l’apparenza di un rito che si stava svolgendo. Mi si rivelarono veloci passaggi, proprio come avviene nei sogni, che mi davano la sensazione di salti temporali. Vidi che nella grotta le persone avevano preso posto in vari siti, dividendosi in gruppi, che non erano forse assegnati ma piuttosto casuali, come quando ci si trova in un luogo dove si cerca un posto per assistere ad uno spettacolo e si finisce per prendere posto vicino ad altre persone che magari non hanno tra loro alcun legame. Io ero tra i presenti e osservavo, ma era come se tra la folla stessi cercando qualcuno…- Il suo racconto si confondeva sempre più all’allucinazione che mi faceva rimembrare immagini sfuggevoli di un qualcosa di già vissuto che, ostinatamente, insistevo a non voler ricordare come un sogno simile. -…Poi, con un sorriso, ho visto il volto di chi stavo cercando…- ancora rabbrividii e subito l’istinto mi impose di fermarla, semplicemente perché non volevo conoscere il volto della persona che lei stava cercando. Ma la reazione fu lenta e l’istante passeggero bloccò l’impeto istintivo, e lei proseguì. -…Fu solo per quel sorriso però che capii di averlo individuato, perché la visione immaginaria mi distolse dall’incontro con un altro salto temporale e…- vidi le lacrime apparire sui suoi occhi e percepii l’angoscia che le provocava il ricordo -…so che quella persona era la vittima che il salto temporale mi aveva portato a osservare. Era un uomo incatenato ad una delle colonne della cattedrale di pietra. Lo avevano appeso ad una catena che lo costringeva a tenere le braccia alzate sopra la testa e la schiena rivolta verso il tormentatore. Indossava una tunica bianca, ma l’espiazione di non so quale condanna consisteva nell’essere fustigato e la tunica fu presto strappata e intrisa del rosso del suo sangue che sgorgava dalla pelle lacerata ad ogni colpo. E furono tanti, talmente tanti che il suo sangue cominciò a colare verso terra. E allora mi accorsi che sotto di lui vi era come una cancellata, un inferriata che lo teneva sospeso sopra un pozzo dal quale sentii un ringhio raccapricciante e compresi che in quell’antro vi era una bestia, non so di che genere, ma doveva trattarsi di qualcosa di malefico ed ebbi la sensazione che ciò che si effettuava era un sacrilego sacrificio umano nel quale la bestia veniva nutrita col sangue fresco di una persona che doveva essere ancora viva…- Provai io stesso ribrezzo perché nel suo racconto percepivo il sopraggiungere di immagini analoghe alle visioni di quel tempo lontano che con forza avevo rimosso dalla mia memoria e adesso, con altrettanta difficoltà stentavo a riconoscere. Ma non potevo negare che quei flash back, erano il materializzarsi di sogni lontani. Volevo fermarla, ma ormai non potevo più resistere all’esigenza di comprendere in che modo la sua visione poteva essere collegata al mio passato da sognatore e inoltre, mi rendevo conto che ormai da troppo tempo avevo oltrepassato quel punto da cui non si può tornare indietro, certo che se fossi tornato nei miei sogni, avrei visto l’angelo con le spade fiammeggianti sbarrare l’ingresso a quel giardino nel quale avrei tanto voluto rientrare. -…Poco dopo il ruggito, ho sentito il tocco di Demetrio riportarmi alla realtà e quando l’ho guardato in volto dovevo avere un’espressione talmente terrorizzata che per un momento ebbi la sensazione che lui nemmeno mi riconoscesse…- a quel punto la mia ansia si fece delusione. Avevo voluto interromperla per non conoscere altro del suo racconto, ne avevo avuto l’intenzione, ma ora che non potevo carpire nessun altra informazione, mi rendevo conto che in realtà volevo conoscere e sapere quanto era avvenuto in quella grotta. Volevo sapere che fine aveva fatto il sacrificato, chi o cosa era quella bestia, dove e quando si era svolta la cerimonia e soprattutto, perché… ma lei era stata interrotta e quasi potevo essere certo che l’interruzione non era stata casuale. Sperai di poter avere altre descrizioni e sebbene pieno di domande da porre, non intervenni a fermare il suo parlare che, dopo la rivelazione, poteva riportarla ad una certa calma. Non furono molte le parole che aggiunse, ma in esse vi fu forse la rivelazione che aspettavo, anche se allora non la compresi e forse, non la comprenderò mai. -…Credo che Demetrio abbia percepito la mia inquietudine o che abbia dovuto pensare che stavo per avere un crollo fisico perché quando mi scosse, la sua apprensione non era dovuta al fatto di non riconoscermi ma piuttosto al timore che io stessi per svenire. Non credo che lui abbia capito cosa mi sia successo, so solo che la mia ansia mi portò quasi al collasso quando in quell’assurda visione, il mio sguardo si era spostato dalla frusta che colpiva per l’ennesima volta la carne del perseguitato

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lacerandola con una violenza tale da farmi scorgere il bianco delle ossa, alla mano di chi la governava…- Non so se scorse il mio brivido perché nell’assurdità della mia visione stavo già cominciando a percepire che erano mie le dita salde sull’impugnatura della frusta, ma le sue parole mi rassicurarono un istante dopo. -…Mi aspettavo una mano forte, robusta e magari contorta, nodosa e resa callosa dalle tante volte che aveva usato quello strumento. Invece era una mano leggera, sinuosa, delicata, con una pelle liscia e vellutata, tanto candida da far pensare impossibile avere quella forza lacerante. Eppure i suoi colpi erano impressionanti, duri e distruttivi. Seguii così la lunghezza del braccio coperto dal chiaro di una tunica bianca prima che lo stesso potesse rialzarsi per far scivolare la stoffa all’indietro e poi tornare a colpire con quella forza dirompente che non riuscivo più a tollerare. Guardai le sue spalle esili dalle curve lisce come le piume di un cigno e compresi che quel braccio apparteneva ad una figura femminile…- Ancora un tremito accompagnò il mio turbamento nello stesso brivido che provò lei mentre con angoscia crescente già mi pentivo del sollievo di non poter riconoscermi nella figura del flagellatore. -…Con tormento lasciai scorrere lo sguardo sul collo, intravidi i capelli e poi gli occhi e infine, il viso dell’esile carnefice …- mi guardò angosciata, e aggiunse: -…il mio viso…- La rivelazione fu talmente scioccante che per un momento dimenticai che si trattava di una visione, ma lo sconcerto che lei fosse la carnefice, mi lasciò impreparato ad una reazione e l’unica cosa che potei fare, fu di lasciarla piangere… Mi preparai a sentire l’analisi di quella nuova rivelazione, non immaginando dove questa ci potesse condurre e senza valutare ciò che avevo considerato pochi minuti prima, ancora una volta fui io a parlare per primo. -Sconvolgente- esordii -sognare di essere una carnefice deve essere veramente tremendo- ma non so perché lo dissi, dal momento che io, non ricordando i miei sogni, non potevo essere la persona più indicata a considerare ciò che si poteva provare in sogno. -Dal punto di vista psicologico sì- rispose Felona -il sogno, specie se poi il ricordo è così intenso, è paragonabile alla realtà- disse quasi comprendendo la mia necessità di capire quale effetto poteva effettivamente avere un sogno nella psiche umana -e il trauma può essere così intenso da paragonarlo ad una colpa reale, come se l’azione vissuta in sogno fosse veramente avvenuta. Tuttavia non è sorprendente che possa avvenire un evento simile-. -Che significa?- -Virginia si sente colpevole di molte cose, ha rifiutato Demetrio per due volte, la prima per odio, la seconda per amore. Ella si sente di dover espiare una colpa piuttosto grande per la sua personalità-. -E traduce il suo tormento nel sogno? Ma allora dovrebbe essere lei la vittima-. -E infatti lei è la vittima. Ma il sogno ha una sua forma, a meno che non si abbiano certe capacità, non lo si può controllare e quindi se il sogno è premonitore o rivelatore di qualche cosa, lo fa attraverso la sua interpretazione-. -Vuoi dire che il sogno è come i simboli? Lo si deve comprendere e interpretare giusto?- -Esatto. In questo caso Virginia vuole punirsi per il dolore causato a Demetrio, ma il sacrificio è un’espiazione delle colpe che lei invece non è riuscita a concedersi, così offrendosi come vittima, il suo senso di colpa sarebbe placato, solo che in questo momento lei non è in grado di placare la sua inquietudine e quindi la esalta…- -Offrendo in olocausto la sua integrità e condannandosi come una sorta di demone?- interpretai io l’atto simbolico del sogno. Felona annuì con compiacimento professionale ma non soddisfatto -ma c’è di più. Il sogno di Virginia, potrebbe non essere il suo sogno- disse, e a quel punto io mi sentii come Teseo nel labirinto, ma senza il filo di Arianna. -Cadremmo nel delirio pure noi se ci lasciassimo convincere di queste cose, te lo ripeto anche se tu non sembri volerle considerare- le ricordai, ma ormai io stesso ero consapevole che non potevamo più ignorarle.

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-Ciò che possiamo o non possiamo accettare ormai, non dipende più da noi- disse infatti lei -ora l’unica possibilità che abbiamo è di avere una visione totale della condizione di questa vicenda, e non mi stupirei di scoprire che l’uomo flagellato fosse proprio Demetrio-. -Ma questo sarebbe assurdo- la interruppi, ma solo per un istante perché lei sembrò nemmeno sentire la mia contrarietà. -Rifletti, la grotta è ricorrente. La sogna Tommaso, la cita Demetrio e ora la incontra anche Virginia. I loro sogni si stanno fondendo, proprio come già è avvenuto nel caso dell’incidente di Marco-. -Ma se così fosse allora la volontà di Demetrio sarebbe veramente quella di vendicarsi-. -Solo se lui ha il controllo del sogno, ma lui non dice di poter manipolare i sogni, lui li ascolta e li interpreta. Se avesse questa possibilità, non avrebbe lasciato morire l’amico musicista-. -Allora perché?- -Perché se la vittima sacrificale non è Virginia, non può essere altri che lui stesso…- l’unica cosa che fece invece che rispondermi fu di fissarmi con intensità, facendomi intuire che sospettava una motivazione ma che ancora non era sicura delle sue intuizioni, mancavano gli elementi determinanti per averne conferma e poter quindi convalidare l’ipotesi, così prese il documento e veloce ricominciò a leggere:

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“Vittima e carnefice…” …Avrei voluto approfondire, ma c’erano due inconvenienti ad impedirlo. Virginia era talmente stanca e provata dopo il racconto che vedendola così logorata le suggerii di mettersi a letto e cercare di dormire e, quando dopo un po’ vidi che finalmente si era addormentata, pensai che Anna doveva essere preoccupata e che non potevo certo aspettare la mattinata per rientrare se avessi voluto non destare sospetti. Così, nel pieno della notte scesi giù al banco della ricezione, pagai il conto e lasciai una mancia al custode con l’informazione di chiamare un taxi alla signora quando si fosse alzata. Avevo lasciato anche un biglietto a Virginia con dei soldi per avvertirla delle mie motivazioni. Quindi me ne andai, con l’idea fissa però, che quell’argomento doveva essere approfondito. Quando rincasai erano le cinque del mattino e Anna era ancora sveglia. -Allora tutto bene?- mi domandò. Cercai di essere elusivo -sì, tutto a posto. I tori non erano fuggiti, erano solo usciti dal recinto ma non si erano allontanati dalla proprietà, cercavano di entrare nella stalla delle vacche, sai…- cercai anche di essere ironico -si è trattato solo di farli rientrare-. -E ci è voluto così tanto tempo?- -Beh, non è mica facile domare un toro in calore- dissi con superficialità -ma tu che ci fai ancora sveglia?- -Ero preoccupata-. La guardai sorpreso -non è la prima volta che succede un’emergenza- le dissi, ma il mio senso di inquietudine giungeva da un fattore che rendeva la mia preoccupazione più guardinga, come se in realtà percepissi che Anna non credeva totalmente alla storia dei tori e cominciasse a sospettare di qualcosa -dai cerchiamo di dormire un po’- le suggerii. L’indomani, quando Anna già era uscita per recarsi al lavoro e dopo aver accompagnato Dennis a scuola, presi il mio cellulare e composi il numero dell’hotel per avere informazioni. Restai non poco sorpreso quando l’inserviente mi informò che la signora della stanza 126 non era partita. Non so quale istinto mi condusse a sentire una forte ira assalirmi, ma so che fu lo stesso che mi fece deviare il corso del mio viaggio verso l’ufficio per recarmi invece all’hotel. In quei giorni stavo completamente trascurando gli affari e non avevo idea delle conseguenze, né per questo, né per quello di cui mi stavo occupando. Quando entrai nell’hotel la mia ira era evidente e altrettanto evidente era il pensiero che dovette formarsi nella mente dell’inserviente alla receptions. Sicuramente avrebbe riso se il mio sguardo fulminante non gli avesse fatto comprendere che non era il caso di azzardare commenti subdoli. Mi diressi con velocità alla stanza e bussai con violenza e, accorgendomi che la porta era aperta, entrai con irruenza. Ero furioso e credevo che non sarei riuscito a controllarmi, ma quando vidi il suo sguardo disarmante, ogni mia ira si spense e, come rigenerato verso una sorta di compassionevole comprensione, divenendo a mia volta incredulo mi avvicinai e le domandai cosa stava succedendo. Lei mi guardò con espressione vacua, mi aspettavo che sarebbe scoppiata a piangere di lì a poco, invece, con una disinvolta malinconia riferì. -L’ho sognato di nuovo- e io restai ammutolito. -Ho sognato la grotta, ho sognato il rito e l’ho visto…- -Visto chi?- le domandai dimentico ormai di ogni ira. -Lui, il martoriato-. Rabbrividii per non so quale ragione, ma con l’impressione che la ragione che volevo ignorare fosse quella di una realtà e non di un sogno. -Ho sognato tutto Tommaso. Ho visto chi era l’uomo che cercavo. Ho visto il nostro ritrovo e un incontro che non lasciava dubbi: eravamo amanti, e allo stesso tempo consapevoli del nostro destino. Un destino che dovevamo condividere…- -Non ti capisco Virginia, parli di un sogno come se fosse reale…- non sapevo se cercavo di convincere lei o me, ma a Virginia non importava e continuò. -…Un destino che dovevamo condividere ma che è stato spezzato, per questo è stata risvegliata la bestia…- A quel punto la mia barriera protettiva cedette e quasi incredulo le domandai -ma chi era, che cosa hai visto, e quale sarebbe questo destino?-

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-…Era Demetrio. Lui era il mio amante. Con lui dovevo condividere il mio destino, ma non era un destino qualunque. Era un destino di sofferenza e di tormenti. Io ho avuto paura e l’ho abbandonato. Ho risvegliato la bestia…- -Sono sciocchezze Virginia. È solo un sogno-. -No, sono tanti sogni. Questa notte ne ho fatto un altro, e ho capito. Ho capito chi eravamo e ho capito quando l’ho abbandonato e perché. Ho avuto paura, e così facendo ho spezzato sia il mio che il suo destino. Lui è qui per me, ma io devo capire da sola ciò che devo fare, ed è come se tutto ciò che è stato fatto, in altri tempio in altre vite forse, abbia perso ogni senso finché io non avrò ritrovato ciò che ero. Per questo lui non può stare con me, e per questo io continuo a rifiutarlo. Ma adesso ho capito, e ciò che conta è che io possa mantenere questa consapevolezza…- -Stai dicendo cose senza senso Virginia. Hai la febbre, è evidente dopo tutta la pioggia di questa notte, tu non sai…- -No Tommaso, sei tu che non sai, e che continui a rifiutare di sapere. Anche tu eri in quella grotta, ti ho visto….- A quel punto provai angoscia, tormento e paura, e non volli andare oltre -questa storia è durata fin troppo per me. Ora non ne voglio più sapere. Non so perché mi sono lasciato trascinare dalla vostra assurda alienazione, ma non resterò ad ascoltarti un attimo di più. Io ho fatto ciò che potevo per proteggerti, ma in fondo questa è la tua vita, se la vuoi rovinare, libera di farlo, ma non coinvolgermi più- non le diedi tempo per replicare e fuggii via...

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Il guardiano del bivio Se avessi potuto osservare la mia espressione, avrei potuto ritenere di essere vittima di chi ha appena visto un fantasma cui non può credere. -Per tutti i diavoli, di nuovo, lo avevi intuito- dissi intimorito da una sensazione inquietante. -Demetrio è lì per un bene superiore- parlò come se nemmeno se ne rendesse conto, con espressione vana e voce inespressiva, lo sguardo perso nel vuoto, smarrita come chi si perde nel deserto e sente la rassegnazione di non poterne uscire. -Il sacrificio a livello simbolico rappresenta la rinuncia ai legami terreni per amore dello spirito e della divinità. Ora è chiaro che per Demetrio queste sono condizioni di grande valore, egli è uno spiritualista convinto, tuttavia lui ha già compiuto la sua rinuncia, e non una volta ma due. Lascia Virginia perché comprende che ancora lei non può sostenere le sue verità e accetta di immolarsi, non per il suo bene, ma per quello di lei. Negli antichi riti sacrificali, il sacrificio di un animale aveva il significato simbolico dell’annientamento del proprio lato istintuale e bestiale. Nei riti mitraici un toro veniva sacrificato e l’iniziato posto in un pozzo veniva cosparso del sangue dell’animale che colava su di lui. La parte bestiale dell’animo moriva e il suo sangue nutriva la parte divina, qui le condizioni sono inverse, è il sangue di Demetrio che va a nutrire la bestia…- -E la bestia, a questo punto, chi sarebbe?..- -Abbiamo tre figure centrali in questo sogno: la carnefice che diviene tale solo perché non è in grado di espiare le sue colpe, il sacrificato che si lascia immolare per un bene più grande, e la bestia che, in definitiva, divora entrambi…- -Quindi la bestia è Tommaso?- -No, non lo credo. Il sacrificio di Demetrio è appannaggio di entrambi, anche Tommaso, come Virginia ne è beneficiario, quindi lui non può essere la bestia, ma entrambi devono capire quale sia il loro ruolo, quindi potranno capire anche quello del sacrificato, altrimenti tutto sarà inutile…- -Parliamo sempre di sogni, vero?- mi preoccupai, ma il suo sguardo mi fece provare un brivido raccapricciante. -Ormai, non ne sono più convinta- disse, poi mi guardò quasi con ansia -la sua allusione ai tori come scusa per allontanarsi dalla moglie, non è casuale e ormai il confine tra sogno e realtà è così sottile che il dividerli l’uno dall’altro potrebbe non essere più possibile…-. Non ebbe bisogno di aggiungere altro perchè io potessi intuire che il riferimento era orientato al rito dei tori sacrificati nelle cerimonie mitraiche, e scosso da una sorta di vertigine mi sentii avvolgere da una sensazione di smarrimento, come se improvvisamente non mi sentissi più padrone del mio corpo e ciò che percepivo fosse evanescente. Tutto intorno a me sembrava ormai etereo, come il movimento che le vidi fare subito dopo mentre alzandosi dalla panchina si apprestava a salire i gradini della scala che conducevano al balcone del piano superiore della casa. -Dove vai?- le domandai, ma lei si muoveva come in una sorta di trance e il suo era lo sguardo di chi credeva di aver percepito qualcosa, forse un richiamo invisibile che io non potevo udire, come invece non potevo ignorare la misteriosa attrazione che quel luogo suggestivo alimentava in noi al punto da far sembrare di aver la capacità di condurci fuori del tempo, o peggio, fuori dalla realtà. Consapevole che me ne sarei pentito la seguii e una volta giunto sul balcone, con le mani poggiate sulla ringhiera arrugginita, osservai lo stesso orizzonte che mirava lei, dove, al di là di un campo di girasoli si stagliava la struttura del cimitero con le sue croci che si alzavano dalle cripte delle tombe contro il cielo limpido. Restò a fissare quella che avrebbe dovuto essere una lugubre struttura edile ma che, al contrario di tutto ciò che in quel paese era lugubre e decadente, appariva invece fin troppo curata e fascinosa. Quindi scese le scale e si avviò verso i confini della proprietà per abbandonare la villa. Io la seguii ma quando fui fuori della proprietà la vidi avviarsi proprio verso la necropoli. -Felona, che cosa succede?- le domandai. Osservava un orizzonte che avrei voluto definire vuoto, ma intorno a noi, malgrado la solitudine, tutto poteva esserci fuorché il vuoto. Girai la testa e osservai ancora nella sua stessa direzione, oltre le fila di pioppi che sembravano soldati a guardia della strada dove si elevava la struttura funebre, e una non piacevole sensazione mi colse. Non ebbi il tempo di reagire, forse non ebbi nemmeno la voglia di farlo e, seguendo i suoi passi lenti, la seguii proprio verso la costruzione che non risaltava tra i miei desideri di visita. Sapevo che non sarei riuscito a trattenerla,

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lei avrebbe seguito il suo istinto e i suoi impulsi che tuttavia, sebbene inquietanti, non potevo evitare di valutare che proprio questi ci avevano condotti a scoperte sempre più profonde. Davanti alla struttura si fermò. -Sei certa di voler entrare?- fu l’unica cosa che osai dire. -Osservalo- mi disse abbandonando l’espressione posseduta -non è come le altre costruzioni di questo paese, è curato, come se qualcuno se ne occupasse…- Osservai la struttura architettonica e non mi restò altro da fare che confermare ciò che già avevo intuito. Il cimitero non era decadente, certo sul perimetro esterno vi erano segni di intemperie, sui muri c’era della muffa, ma nulla che potesse essere paragonato alla decadenza delle case abbandonate. Inoltre, se il mio sguardo oltrepassava il cancello in ferro battuto, privo di ruggine e pulito, potevo osservare un interno curato, senza erbacce e spazzature varie, privo di foglie marce come se qualcuno le avesse spazzate via, addirittura si potevano scorgere colori di fiori e le lapidi parevano pulite come se nessuno le avesse dimenticate. Due furono le cose che mi passarono per la mente. La prima era che chi aveva abitato quel paese se ne era andato, ma non aveva dimenticato i suoi morti, e quindi di tanto in tanto passava a riordinare le proprie tombe… ma se così fosse stato, possibile che noi fossimo giunti in un giorno in cui nessuno aveva deciso di compiere quell’atto di riconoscenza verso i propri antenati? La seconda fu meno realistica e più spaventosa e la mente non riuscì a trattenerla. -Stiamo sognando?- domandai a Felona e lei accentuò la mia ansia. -E di chi è il sogno, mio o tuo?- -Io non sogno- cercai di ricordarle per scrollarmi di dosso la responsabilità dei fatti, ma lei me li addossò tutti. -Allora forse, se non te ne rendi conto, sei tu stesso il sogno- disse. -Non scherzare- le risposi, ma con il timore che sembrava quasi essere una supplica -io sono reale quanto lo sei tu-. -Allora verifichiamo quanto è reale la nostra realtà- continuò, e così dicendo avanzò fino a oltrepassare il cancello. Ancora una volta io lasciai che fosse lei a superare per prima la soglia, poi, come per accertarmi che non vi fossero ulteriori pericoli, osai seguirla. All’interno del perimetro circoscritto del piccolo cimitero, vi era il silenzio assoluto. Osservammo le lapidi che stavano nella parte iniziale che parevano gli officianti di un rito d’accoglienza. Ai lati della struttura vi erano tombe più sontuose, per la sontuosità che si poteva incontrare in un piccolo paese un tempo abitato, si intende. Erano tombe di famiglia, dove gli antenati restavano insieme anche dopo la morte, poi vi era la cappella comune, una struttura dove non vi erano sedi familiari ma dove i defunti venivano posti in appositi loculi chiusi da una piastra di marmo decorato anziché essere sepolti nella nuda terra. Vi erano poi piccole lapidi, sopra le quali vi erano poche incisioni. Lì erano poste le urne con le ceneri dei defunti che avevano preferito la cremazione alla sepoltura, e le poche incisioni denotavano come la pratica fosse stata così recente da non permetterne una determinante divulgazione prima dell’abbandono del paese. Ci aggiravamo furtivi alla ricerca di un indizio che ci desse la conferma della nostra non irrealtà, cercando di capire perché quel cimitero fosse così ben curato, ma il silenzio era talmente intenso da far sembrare che lì più di ogni altro luogo del paese regnasse la solitudine, finché una voce non ci fece quasi rabbrividire al limite del rischio d’infarto. -Cercate qualcuno?- ci sentimmo dire e ad entrambi parve come d’essere assaliti da un morto redivivo. Sussultando e sobbalzando per lo spavento indirizzammo la nostra vista dal lato da cui avevamo sentito provenire la voce e con sorpresa ci trovammo ad osservare un uomo seduto dietro una lapide, con una folta barba, vestiti fuori moda ma non sgualciti, capelli lunghi e una chitarra in mano. Era sdraiato all’ombra della lapide con la schiena poggiata sul retro del marmo, e per un momento, l’impressione che avemmo fu proprio quella di osservare un fantasma. Felona si portò una mano sul petto come se cercasse di frenare i battiti del cuore che aveva preso a correre troppo forte, poi, dopo un breve periodo di ripresa osò domandare -lei chi è?- ma la risposta fu piuttosto scortese e inaspettata.

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-Chi siete voi?- ribadì il supposto musicista. Io mi sentii assalire da un senso di difensiva aggressività, ma Felona non voleva, o non era intenzionata a mostrare ostilità e rispose prima che io potessi intervenire. -Mi chiamo Felona- si presentò con cortesia. Sentii uno stridulo accordo partire della chitarra e una litania a me incomprensibile emessa dalla voce dell’intruso che non era certo più intonato della chitarra scordata: -ma mentre ancora esulta Sorona, Felona inizia il lento declino, inesorabile la notte scende e l’equilibrio ben presto finisce…- -Ma che diavolo significa?- dissi in un accenno d’irritazione, sospettoso mentre un’aggressiva indignazione mascherava un crescente timore. Felona, al contrario, appariva meno sospettosa, più interessata e più calma. -È un brano tratto da Felona e Sorona, un disco delle Orme, un gruppo dei tuoi tempi. È strano che tu non lo conosca-. -Già, è strano amico mio, tu sembri uno di noi- disse lo sconosciuto e io pensai che con quel termine, “uno di noi”, intendesse un coetaneo e ciò mi causò un senso di indignazione. -Bada a come parli vecchio, io non sono tanto anziano- gli feci notare con presunzione. -Nemmeno io se è questo a spaventarti, anche se il mio aspetto può trarre in inganno- parve volermi rassicurare sulla mia ancora presupposta giovinezza. -Dovresti stare attento al tuo giudizio- aggiunse però di seguito, e ciò, anche se non ne comprendevo la ragione, mi fece fremere. -Resta però ambiguo il fatto che tu conosca una con un nome simile, e non ti sia mai chiesto che tipo di provenienza possa avere un appellativo tanto insolito- sorrise perfidamente, ma io lo colsi come un atto che voleva mettermi in difficoltà allo sguardo di Felona, senza valutare come la perspicacia dello sconosciuto lo avesse indotto a considerare il modo in cui mai mi fossi dimostrato veramente interessato all’insolito nome che la mia compagna d’indagine portava, e dall’espressione della donna, mi resi conto che effettivamente la mia era stata una superficialità di non poca importanza, che poteva condurre al pensiero di quanto il mio scarso interesse per il particolare, potesse rivelare un mancante interesse per quella che avrebbe potuto divenire una relazione più profonda. Ora non mi era difficile capire come Felona aveva intuito quanto il mio approccio fosse già programmato come semplice avventura. La guardai dispiaciuto e con lo stesso atto espressivo chiedevo scusa per non essermi preoccupato di interessarmi a quelle spiegazioni che una donna si sarebbe attesa già dal primo incontro. -Felona e Sorona, è un disco delle Orme del 1973 che narra la storia di due pianeti, uno felice e luminoso, governato da un Dio potente e protettivo, ma inesorabilmente solo…- iniziò a spiegarmi. -Felona- l’aiutò nella spiegazione lo sconosciuto arpeggiando altri accordi stonati. Felona attese, poi continuò -…L’altro oscuro, grigio, nebbioso e triste…- -Sorona- la interruppe di nuovo lo strampalato musicista continuando i suoi accordi disarmonici. Felona lo osservò con attenzione, quindi continuò -entrambi sono all’oscuro dell’esistenza l’uno dell’altro, ma gli abitanti di Felona nella loro serenità dimenticano il Dio protettore che gliela fornisce causandone il senso di solitudine. A questo punto il protettore di Felona volge lo sguardo verso Sorona e pianifica l’incontro dei due mondi affinché possa esservi tra loro un confronto e un risveglio per cercare di creare l’equilibrio perfetto, ma è a questo punto che si consuma il dramma…- Un nuovo accordo partì dalla chitarra e di nuovo lo sconosciuto cantante intonò una strofa stonata -la felicità non puoi trovarla in te, ma nell’amore che agli altri un giorno darai- cantò e io lo guardai irritato. -Come un attimo prima di un esplosione, il tempo si ferma e trascende nell’unica rivelazione possibile: l’equilibrio non è raggiungibile nell’unione tra bene e male, i due pianeti vivranno sempre opposti e complementari, e in mezzo a loro ci saremo sempre noi…- proseguì Felona. Dalla chitarra partirono altri accordi, incredibilmente armonizzati questa volta, e come se il musicista stesso esultasse, trionfante la sua voce si fece precisa e accordata, e quell’ultimo verso mi parve talmente intonato da farmi dubitare che si trattasse di un dilettante. -La fine è il cerchio, il cerchio è la vita, e si distrugge per poi costruire. Si aspetta sempre il nostro giorno, non cambia niente all’infuori del tempo-. -Soli, ma comunque autonomi- aggiunse Felona, mentre io vedevo rincorrersi in me immagini sfuggevoli di tori sacrificati, divinità e mostri vari che inghiottivano mondi o li distruggevano per poi

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sputarli o erigerli nuovamente, nuovi, migliori e più luminosi. Poi Felona mi guardò e tornando a spiegare le origini del suo nome mi sottrasse a quell’assurda visione. -Mio padre adorava quel disco, per questo mi chiamò Felona, sono certa che se avesse avuto un'altra figlia, l’avrebbe chiamata Sorona-. Il musicista sottolineò la tristezza della donna con un accordo di la minore e questa volta io non provai irritazione, fino a quando lo sconosciuto si rivolse a me. -E tu, come ti chiami?- mi domandò, ma io lo fissai come se non avesse il diritto di rivolgersi a noi con quel tono confidenziale. -Non credo che ti riguardi- gli risposi malamente. L’apparente vecchio rise divertito -calmo amico, la mia è solo cortesia ospitale- disse, poi si fece serio e aggiunse -e comunque non ha importanza- e osservò Felona come a indicare che il suo interesse era più attirato dalla ragazza che da me. Io provai di nuovo quell’irritazione protettiva nei suoi riguardi, ma le mie azioni parevano essere sempre in ritardo e prima che potessi intervenire con qualche ingiuria Felona precedette ancora il mio impulso e assecondando lo sconosciuto cominciò ad intavolare un dialogo. -Quella chitarra non è tua vero?- le sentii dire e la sua spontanea domanda mi sconcertò. Sembrava che lei avesse già intuito qualcosa che a me ancora sfuggiva e non capivo cosa. Per quanto mi riguardava era evidente che avevamo a che fare con un vagabondo che aveva trovato in quel cimitero una buona dimora. Il vecchio accarezzò la cassa armonica della chitarra acustica e per un momento parve intristirsi. -Questa? No, non è mia, me l’ha regalata un amico, in verità me l’ha lasciata in eredità- il suo sguardo e la sua voce si fecero poi leggermente superficiali -ho imparato qualche accordo e qualche arpeggio, così, per rispetto e lealtà verso il suo pensiero rivolto a me… ma non sono un musicista- ammise. -Questo spiega le tue stonature- cercai di intervenire io, ma né lui né Felona parvero darmi ascolto, come se in realtà la mia voce non fosse nemmeno pervenuta. -No- sentii infatti dire poco dopo Felona -tu non sei un musicista, sei un giocatore- affermò, e un brivido cominciò a farmi intuire qualcosa che avrei preferito non scoprire. Il vecchio si fece serio e triste allo stesso tempo -già, e anche piuttosto bravo- ammise con un sospiro che pareva introdurre la triste amarezza che gli comparve negli occhi, poi, quasi rassegnato aggiunse -solo un po’ sfortunato-. La sua espressione parve perdersi negli spazi del tempo e la voce si fece flebile e afflitta -si inizia con qualche birra scommessa al biliardino, poi ci si lascia coinvolgere nelle gare di briscola, quindi si passa a cose più serie, e alla fine ci si ritrova seduti ad un tavolo verde con qualche asso tra le mani e pochi spiccioli nelle tasche…- -Vincent, tu sei Vincent- esclamai io interrompendolo impulsivamente come un partecipante ad un quiz che ricorda improvvisamente la risposta di una domanda di cui sa la soluzione ma non riesce a rammentarla. -Eureka- esclamò con un accentuato ironico eccitamento il chitarrista -perspicace il tuo amico, che lavora fa l’investigatore?- domandò rivolto a Felona con evidente ironia. Pensai di poterlo sorprendere -esatto, proprio così- gli risposi e lui mi guardò come a volermi far sapere che già lo aveva intuito. -Che cosa ci fai qui?- domandò Felona ignorando il mio scontro con l’intruso. Lui riportò lo sguardo sulla ragazza e i suoi occhi si addolcirono -ma non dovrebbe farle lui le domande?- -Non fare il cafone e rispondi- gli ordinai io e lui, ma non solo lui, anche Felona, mi guardò con disapprovazione. -Io ci vivo qui, questa è la mia casa-. -Sei un tombarolo? Come gli abusivi messicani che vivono tra le tombe dei cimiteri?-domandò cercando di non essere offensiva Felona, ma l’uomo rise. -No, io ci vivo qui, sono il custode- e indicò con il pollice una piccola casetta di legno che stava ai margini del perimetro cimiteriale. -Cosa?- esplosi io col mio imbarazzo -ci prendi in giro?- L’uomo sorrise compiaciuto, poi posò lo sguardo sul documento che Felona teneva tra le mani.

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-Non si parla molto di me in quel fascicolo vero?- disse, e la sorpresa non poté che lasciarci letteralmente stupefatti. Felona abbassò gli occhi sul carteggio e come se temesse un pericolo la vidi stringere le mani sul documento. -Come sai di questo fascicolo?- le chiese con una gentilezza che ancora non le avevo scoperto. L’uomo la guardò e per un istante vidi in lui la stessa premura e tristezza che molto spesso credevo di percepire in Felona. Un lieve sorriso apparve sul viso del custode e la sua voce parve quasi giungere da un altro tempo. -Le somigli così tanto- disse, ma né io né Felona fummo certi di aver capito le sue parole, tuttavia Felona azzardò la ricerca di un chiarimento. -Come? A chi ti riferisci?- L’uomo sorrise di nuovo -non ha importanza mia giovane principessa- disse, e io mi sentii invadere dalla rabbia per i suoi inopportuni corteggiamenti. -Non atteggiarti da seduttore sbruffone e rispondi alla sua domanda. Tu che ne sai di questo fascicolo?- non trattenni l’irritazione. L’uomo tuttavia mi guardò senza reazione, impassibile e tranquillo e con superficialità si limitò a dirmi -tu invece non assomigli a nessuno, non credo che dovresti essere qui-. Vidi Felona scossa da un brivido e io stesso non potei sottrarmi ad un senso di angoscia, ma non volevo cedere alla follia di un vecchio reso insano di mente dal suo passato di ubriacone -ne ho abbastanza delle tue insinuazioni, dicci che cosa sai di questo scritto-. Il nomade, che sembrava essere meno nomade di noi, mi guardò serio e nella riflessione che gli vidi sul volto ponderai che stava pensando se rispondere alla mia maleducazione o se mandarmi all’inferno. Penso che la sua volontà propendesse per la seconda alternativa, ma per un istante provai una di quelle sensazioni di cui ignoravo l’origine ed ebbi come l’impressione che la sua voglia di mandarmi al diavolo venisse contrastata dall’esigenza di sentirsi in dovere di rivelarmi qualcosa che probabilmente, nel suo contorto pensiero, era suo dovere fare. -Abito in questo paese da una vita bello, so molte cose che tu ancora ignori- mi rispose con difficoltà, evidenziando quel contrasto interiore che pensavo di aver percepito. -Non sembra poi così vero. Dici che non si parla di te nel documento, allora come mai sappiamo chi sei?- lo sollecitai di nuovo. Accennò a nuovi accordi, facendoli suonare correttamente, forse per dimostrare che poteva permettersi di fingersi stonato quando lo desiderava e rivelarsi corretto in altre circostanze, come a voler dire che non mi sarebbe stato possibile capire quando potermi fidare di quel che diceva. -Tu non ascolti, sei troppo presuntuoso, per questo non hai ancora capito. Io ho detto che non si parla molto di me in quel fascicolo, non che non si parla affatto di me. Qualche breve accenno, indispensabile e inevitabile, ma poi tutto si conclude, del resto, chi vuole avere a che fare con un ubriacone?- -Chi ha scritto questo documento?- domandò Felona, e lui sorrise fissandomi ironicamente. -Dovrebbe farlo lei l’investigatore, fa domande molto più sagge di te- mi accusò provocando la mia ira. -Lo sai chi l’ha scritto o no?- tuonai io lasciandomi dominare dalla rabbia, ma in risposta ebbi due nuovi accordi di chitarra. -Stai calmo amico, non credo che siano molte le alternative che ti restano-. Parlava in modo strano, come se fosse a conoscenza di segreti che mi appartenevano, ma io ero troppo sospettoso e irritato per capire certi messaggi subliminali. -È stato Tommaso D’amanti?- domandò Felona distraendo la mia attenzione dal pensiero sfuggevole. Il custode si fece serio, ma solo per un po’, e quando tornò a parlare, non rispose alla domanda -ci siete già stati alla grotta?- domandò. -La grotta di Oliero?- cercò indizi di nuovo Felona, ma il chitarrista scosse la testa. -No, su quella avete già tutte le informazioni che vi servono. Andateci se volete, farete una bella gita, ma non troverete nulla che vi serva laggiù. Se cercate delle risposte, e voi cercate delle risposte, tutto quello che vi occorre è qui- disse. -In questo cimitero?- insisté Felona.

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Il giocatore sorrise -intorno a voi, ovunque in questo paese, e anche in questo cimitero- disse elusivamente. -Perché invece di fare il misterioso non ce le dai tu le risposte visto che sai tante cose?- lo provocai allora io. -Risposte?- rise -io non so proprio niente amico mio. Io ho molte più domande che risposte, e poi, siete voi che state facendo un’indagine, e io non so nemmeno perché. E forse non lo sapete nemmeno voi, dico bene? Questo paese è morto, non vedo che cosa ci sia da ricercare quaggiù-. -Se questo paese è morto, tu che ci fai qui?- Felona aveva un approccio decisamente più fruttuoso del mio, sebbene io restassi convinto che era la sua figura attraente a renderla più affabile agli occhi del barbone. L’uomo parve nuovamente entrare in quello spazio del tempo in cui i ricordi sembrano spade taglienti usate per infliggere torture ad un prigioniero inerme -sai mia bella amica- esordì mentre io cercavo di trattenere la mia ira ad ogni suo apprezzamento -la gente è strana. Molto strana. Se sei intelligente ti detesta, se sei stupido ti disprezza. Se sei in uno stato di abbondanza desidera la tua rovina, se sei in difficoltà tutti sembrano preoccuparsi di te, ma in quell’istinto premuroso, nessuno in realtà si preoccupa di aiutare gli altri, ma solo di migliorare la propria apparenza. Chi può parlare male di un benefattore? Dietro ogni azione di beneficenza si cela, tuttavia, un interesse personale, e poco importa che sia un interesse vantaggioso economicamente o esteticamente, l’importante è che ci sia qualcosa da guadagnare. Non si parla di me in quel libro perché a nessuno importa di un ubriacone ai margini della società. Tuttavia Casterba non è sempre stato così. Quando il consiglio amministrativo di Valbordi ha cominciato a prospettare soluzioni che avrebbero coinvolto il settore turistico, anche Casterba avrebbe avuto la sua parte e io ero un vagabondo che non avrebbe potuto contribuire all’immagine favorevole che si avrebbe voluto dare di questo borgo rurale. Così i ben disposti altruisti, hanno fatto in modo da inventarsi un lavoro per l’ubriacone e hanno concepito questa soluzione, e io sono diventato il custode del cimitero, il sorvegliante delle anime, il guardiano del bivio…- tossì come se il dire troppe parole in un solo momento gli costasse eccessiva fatica, poi mi guardò scacciando ogni forma di tristezza dal viso e mi interpellò. -Ehi amico, ce l’hai una sigaretta?- -Non fumo- dissi mentendo. -Custodisci anche la chiesa?- domandò intanto Felona. -Certo, apro ogni mattina, chiudo ogni sera e raccolgo le offerte. E sono certo che questa sera troverò qualche moneta nella cassetta-. -Ma perché sei rimasto?- Rise divertito -ma allora non mi ascoltate, io ci lavoro qui. Il declino di Casterba è stata la mia fortuna. Il paese è morto e io risorto. Nonostante tutto il progetto turistico va avanti e io continuo a percepire il mio misero stipendio. Non che mi serva molto, io di un’auto come quella laggiù non saprei che farmene. Questo è il mio regno ormai, nessuna complicazione, nessun imprevisto, niente responsabilità…- -Niente più gioco- provocai di nuovo, ma l’uomo sorrise ancora. -No ti sbagli-. Frugò nelle tasche e tirò fuori degli oggetti che mi mostrò: erano dei dadi. Ma lo fece rapidamente, chiudendoli velocemente nel pugno quasi a non volerli veramente mostrare. -Me li ha dati un amico- disse, poi aggiunse -gioco spesso con i miei fantasmi- batté una mano sulla lapide vicina, ma io non ero certo che intendesse quel tipo di fantasmi -il gioco dei dadi è uno dei più entusiasmanti. Semplice e rapido, almeno ad un osservatore esterno. Ma quando tu tieni il destino tra le mani, lo scuoti e senti il tintinnio dei cubi tra il vuoto del pugno semichiuso, allora il tempo intorno a te si ferma, senti il brusio delle voci che svanisce e dopo un po’ c’è solo il silenzio con te. Allora devi ascoltare con attenzione perché il destino ti concede solo un istante, e devi essere bravo a coglierlo, un momento prima o un istante troppo tardi e l’attimo fuggente può essere fatale. Se cogli quell’istante e riesci a lanciare nel momento in cui senti il richiamo dei tempi eterni fermarsi, il destino po’ cambiare, ma se manchi anche di un solo breve inutile istante quel momento… osservi i dadi che corrono lungo il tappeto verde, e per tutti è una corsa breve mentre per te è infinita, l’eco dei secoli ancora sta nella tua mente ma non sai se lo hai colto nel momento giusto, e vedi i dadi che rotolano, e ogni giro sembra eterno, li vedi incocciare contro la parete, tornare indietro e continuare a rotolare sempre lenti, come se

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stessi osservando il pigro cammino di una lumaca che cerca di risalire la corteccia di un albero. E senti i suoni del loro ritmico tamburellare contro il tavolo che appaiono come percussioni di tamburi africani e il tempo è fermo, eterno… poi, quando il tempo riprende a scorrere, i dadi sono fermi e il tuo destino è cambiato…- Mi guardò e non so se il suo sorriso fosse dovuto alla meraviglia che stavo provando o al semplice suo essere ironico -che dici, ti va un lancio?- mi domandò. Allora il fascino svanì e io tornai alla mia consueta irritazione -non ho mai giocato in vita mia e non comincerò certo adesso- risposi. -Peccato- fu la sua risposta. -Che cos’è successo a questo paese?- continuò l’indagine Felona. Lui guardò di nuovo verso di me -vedi? Lei si che sarebbe una buona investigatrice. Perché non vi scambiate i ruoli? Ma forse lei fa un lavoro troppo impegnativo per te, che cosa sei, una psicologa?- disse portando lo sguardo su di lei. Ebbi l’impulso di prenderlo a schiaffi ma Felona mi bloccò parlando rapidamente -sì, sono una psicologa e lo sto aiutando in questa ricerca. Tu ci puoi dire qualcosa oppure no?- -La gente se ne è andata- disse con semplicità. -C’entra qualcosa l’incidente del bambino al fiume?- Guardò Felona con dubbio, poi scosse la testa -può avere influito sulle decisioni di abbandonare un luogo ormai ritenuto maledetto, ma non è per questo che la gente se ne è andata-. -Perché sarebbe stato ritenuto maledetto?- -La gente dei piccoli paesi è superstiziosa- disse con superficiale disinteresse -credono al Dio della Bibbia e al diavolo della divina commedia, e credono alle storie degli antenati, alle favole e all’uomo nero…- -E anche alla Marantega?- questa volta fu Felona a provocare, ma il vecchio sembrava impossibile da istigare. -Sì, anche a quella. E credono ai santi, soprattutto quando le cose cominciano ad andare male, e pensano che se un luogo viene profanato i santi lo abbandonano e tale luogo resta privo di protezione-. -Ma qui non vi è nessuna profanazione, i luoghi sacri, la chiesa, questo cimitero, sono intatti e rispettati-. -Non sono questi i luoghi sacri che devono essere rispettati, sono luoghi eretti dall’uomo, non dalla natura-. -Allora, che cosa è stato profanato?- -La terra, il rispetto che le si doveva e… la collina dove qualcuno pensava vi fosse la dimora di qualche spirito dalla natura ignota-. -E Demetrio, c’entra qualcosa?- continuò l’interrogatorio. Il custode parve illuminarsi -il Mage?- -Già, proprio lui. È stato lui a darti quei dadi vero?- lo incalzò. Il vecchio, che tuttavia ora comprendevo apparisse vecchio solo per le sue vicissitudini, annuì. -Ha detto di averli ricevuti in dono da una zingara incontrata in uno dei suoi viaggi in un paese dei balcani, ma ha detto anche che la stessa gli riferì che non erano per lui e che quando sarebbe giunto il momento avrebbe saputo capire per chi erano. Io non so se lui potesse veramente capire queste cose o se fossero solo fantasie come quelle che potevo avere io da ubriaco, fatto sta che li consegnò a me-. -E quando avvenne?- -Il giorno prima che se ne andasse-. -Così tu lo hai incontrato?- -Io l’ho visto ogni singolo giorno del suo breve tempo in cui è rimasto in paese. Veniva qui tutti i giorni, salutava i sui vecchi e poi veniva da me. Abbiamo bevuto buoni bicchieri di vino assieme, lo portava lui-. -Hai parlato con lui tutti i giorni? E di che cosa parlavate?- -Del tempo, come tutti coloro che non hanno nulla da dire. Di come cambia, del freddo e del caldo…- poi la sua espressione tornò a perdersi nelle nebbie di un altro tipo di tempo -parlavamo del passato, del presente, e anche del futuro…- -E che cosa diceva del futuro?-

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-Lui? Niente, ero io che prevedevo il futuro. Non ci vuole poi tanto sai? La gente qui aveva già cominciato ad andarsene da tempo. Casterba era già un paese di vecchi vent’anni fa… i giovani rimasti, non avevano la capacità di gestire questo luogo come avevano fatto i loro antenati… se avessero saputo mantenere le tradizioni degli spiriti e delle maranteghe, quel bambino forse non sarebbe annegato nel fiume, ecco la vera maledizione dove sta-. Vidi la malinconia in lui. -Quei vecchi avevano la forza di credere nelle tradizioni, nei valori del lavoro e dell’onestà. Casterba viveva sulla struttura del lavoro contadino e finché la grande industria non ne prese il dominio, qui poteva esserci prosperità per tutti. Ma lavorare costa fatica, e i giovani sono facili preda delle lusinghe. Desideravano di più, benessere, cellulari, computer, case fatiscenti pieni di aggeggi elettronici… macchine di lusso- mi guardò con un accenno di accusa, intendendo che io ero simile a quei giovani di cui parlava -ma meno fatica per conquistarli, e quando la manodopera cominciò a scarseggiare, il lavoro dei braccianti fu sostituito dalle macchine e quando queste cominciarono a divenire troppo costose, i vari proprietari cedettero le loro terre alle multinazionali, risultato, più produzione ma meno lavoro. Ora potete vedere grandi coltivazioni, ma nessuno che lavora. Per coltivare decine di ettari ora bastano tre persone e a Casterba non vi erano molte prospettive. Così per cercare un lavoro ritenuto dignitoso i giovani cambiavano paese, luoghi più fruttuosi orientati verso una nuova economia e un progresso industriale. I vecchi morivano o venivano parcheggiati nei ricoveri, le case furono messe in vendita ma il degrado generale non le ha mai rese molto accoglienti e, giorno dopo giorno, il paese è stato dimenticato…-. -E tutto questo dopo che Demetrio è stato qui?- -Demetrio era un amico. Molti hanno cercato di farlo passare per una sorta di stregone che ha portato la sua maledizione sul paese. Molti hanno voluto vedere in lui una sorta di vendicatore esperto delle arti oscure. Molti hanno affermato di averlo sentito ammettere di esser stato al cospetto dei sacerdoti del vudù. Ma nessuno si è mai veramente soffermato a discutere con lui. Se lo avessero fatto avrebbero capito che lui voleva solo il meglio per questa gente. Niente arti oscure, niente desideri di vendetta, niente rituali satanici, ma solo ciò che doveva essere. Solo che per capirlo, bisogna essere disposti a comprendere se stessi, cosa impossibile da fare finché si cerca di giustificare i propri fallimenti nelle responsabilità degli altri. Così Demetrio divenne un capro espiatorio, sebbene nessuno potesse dimostrarlo. Il fatto è che ognuno di noi ha necessità di scaricare le proprie responsabilità sugli altri, e quando fa comodo, si crede anche nelle fattucchiere, negli stregoni, perfino nelle maranteghe dei fiumi e in tutte quelle cose impossibili che razionalmente non ci si azzarderebbe nemmeno a nominare-. -E tu? Su chi scarichi le tue responsabilità?- Mi guardò con rabbia questa volta -su quelli come te- disse -ricchi presuntuosi che credono di poter dominare ogni cosa. Dimmi amico, in tutti i momenti che avresti voluto prendermi a pugni hai valutato che io vivo per la strada da sempre? Sei certo che malgrado la tua preparazione atletica e le tue conoscenze di autodifesa saresti in grado di sopprimermi. Certo che non la hai fatto, sei troppo presuntuoso e arrogante… ma la tua giovane amica qui sì, lei sì che lo ha fatto. Per questo non mi ha mai provocato…- lasciai scorre il silenzio considerando le sue ragioni e pensando, per la prima volta, che mai avevo presupposto di avere a che fare con qualcuno che in qualche modo, per fortuna, abilità o anche rabbia, avrebbe potuto sopprimermi, accorgendomi di quanto la mia arroganza mi avesse condotto a ritenermi sempre al di sopra delle parti e un brivido mi sorprese prima che il giocatore riprendesse -le responsabilità che ho sono mie e solo mie, e questa è l’unica cosa di cui posso essere certo. Ho una moglie da qualche parte, e una figlia che non ho mai visto, e che non vedrò mai…- Felona sussultò e il vecchio lo notò beffardamente. -Sì lo so- ammise successivamente -so che da qualche parte una giovane ragazza considera un uomo che non è suo padre il suo vero genitore. E io che cosa dovrei fare, andare a rovinarle l’esistenza rivelandole chi è il suo vero padre? Un ubriacone che ora gioca a dadi con i fantasmi e che vive in un cimitero? Tutti abbiamo delle responsabilità, riconoscerle ci rende migliori, in grado di poterle in qualche modo riscattare, seppure ciò comporti rinunce e sacrifici- mi guardò -tu non credi vecchio mio?- -Come sai del documento?- gli domandai sviando da quella confessione. Il vecchio estrasse un pacchetto di sigarette.

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-Hai almeno da accendere?- mi chiese. Non osai innervosirmi per l’inganno precedente, intuendo che lui aveva compreso che pure la mia era stata una menzogna e gli lanciai una scatola di cerini. Si accese la sigaretta e rispose -perché ero con lui mentre lo scriveva- disse, e lo stupore non ci assalì semplicemente, ma ci lasciò letteralmente confusi e senza parole. Quando si decise a darci ulteriori chiarimenti era già a metà sigaretta. -Tommaso venne qui, dopo qualche giorno che Demetrio se ne era andato. Era piuttosto sconvolto e mi disse che doveva consegnarmi una cosa. Voleva portarmela il giorno seguente, ma visto che io di tempo ne avevo molto, decisi di andare da lui la sera stessa. Ciò che doveva darmi era questa- accarezzò la chitarra -non so quanto fosse vero, ma mi disse che il Canta aveva lasciato scritto che venisse donata a me perché mi riteneva il più simile a lui. Diceva che ero un poeta, e chissà, forse quando ero ubriaco lo ero davvero, io non me lo ricordo. Vidi che Tommaso stava scrivendo qualcosa e senza chiedergli il permesso lessi qualche foglio. Subito si irritò, ma poi mi disse che aveva bisogno di comprendere… non so che cosa. Mi rivelò che erano le sue memorie e io gli chiesi di non parlare di me, giacché non volevo essere immortalato come l’ubriacone del paese. Gli concessi di lasciare quel poco che già aveva scritto, poi me ne andai, e poco dopo se ne andò anche lui-. -Tommaso? Tommaso ha lasciato Casterba?- dissi perplesso. -Ha ceduto i suoi averi, ha lasciato tutto alla famiglia ed è sparito- rivelò. -E dove è andato?- -E chi può dirlo, se uno decide di sparire non va certo a raccontare dove se ne va-. Guardai Felona -che cosa facciamo adesso?- le domandai come se all’improvviso niente avesse più senso. -Avete già visitato il parco?- disse allora il vecchio. Felona lo guardò -no, non pensavamo di andarci, pensavamo di visitare il vecchio mulino-. L’uomo scosse il capo -un altro viaggio inutile. Il mulino non vi rivelerà niente-. -E tu che ne sai di ciò che dovrebbe o non dovrebbe rivelarci?- sostenni con rabbia il mio disappunto nei confronti di quell’uomo che si atteggiava da falso profeta. -E il parco invece?- domandò Felona senza preoccuparsi della mia collera. Nemmeno il giocatore sembrava averci fatto caso. -Troverete solo un luogo trascurato, ma se seguite la pista lungo il fiume potreste trovare qualcosa di interessante. Ad un certo punto fa una deviazione, se seguite la deviazione incontrerete delle cose, se abbandonate la pista e seguite il fiume ne troverete delle altre… potreste avere delle sorprese-. -Come ad esempio un ponte?- domandò Felona. L’uomo allargò le braccia -ho detto sorprese, che cosa intendiate voi per sorprese, dipende solo da voi-. -Non ho più voglia di ascoltare questo folle- dissi allora io e invitando Felona a seguirmi cercai di allontanarmi. -Ehi, investigatore- lo sentii però chiamarmi, e istintivamente mi voltai -io non ho più niente da aggiungere, ma tu sei certo di non voler fare un tiro?- mi mostrò i dadi, ma prima che potessi rispondere lo vidi lanciare. L’istinto fu più forte di me e attesi di vedere l’infinito rotolare dei dadi fermarsi a poca distanza da me. Mi avvicinai e osservai il risultato. I dadi erano completamente bianchi, nessun pallino, nessun numero. -Certo con i numeri sarebbe tutto più facile vero?- gli sentii dire e lo guardai senza riuscire a trattenermi dal cedere alla provocazione. -Che cosa significa?- -Che non siamo padroni di niente, che non possediamo nulla- rise -è così vecchio mio, malgrado la mia nullità io sono più ricco di te- disse -malgrado tutto, alla fine del tempo, io non avrò niente da abbandonare qui, nulla per cui rimpiangere di aver tanto accumulato…- -Dimentichi tua figlia- lo aggredii intenzionalmente come per vendetta, sapendo quanto più doloroso fosse la perdita di una persona piuttosto che di una macchina. -Lei non è mai stata mia, così come tu non sei tuo e nemmeno la tua bella non ti appartiene. Non abbiamo niente, non possediamo niente al di fuori dei nostri pensieri, e tutto ciò che possiamo pensare di portare con noi alla fine, null’altro è che questo… nulla-. Mi voltai e cercai di portare con me Felona, ma lei ancora fissava il vecchio.

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-C’è dell’altro?- le domandò prima di partire. Il vecchio osservò il libro tra le sue mani -quello- disse. Felona lo guardò, era il libro di fotografie che Demetrio aveva realizzato per il comune. -Ti interessa, vuoi tenerlo?- glielo pose come dono, ma il vecchio scosse la testa. -Che cosa potrei farmene? Conosco questi luoghi come la mia anima grigia-. -Allora cosa c’è qui dentro?- -Niente che non possiate trovare girovagando per il paese- disse, poi osservò me -ma la grotta che cercate, è lì dentro…-

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Il parco …Molte sono le cose che avrei dovuto capire mentre uscivamo da quel mausoleo, soprattutto molte sarebbero state le cose che avrei dovuto valutare, ma trovarmi in un paese disabitato ridotto nella condizione di fantasma nell’arco di un breve decennio, in quel momento mi sembrava del tutto normale e plausibile. Così mi appariva normale e plausibile che un vecchio ubriacone potesse custodire un’architettura commemorativa di cui non sembrava importare a nessuno e perfino normale e plausibile esserci imbattuti per la prima volta in uno dei protagonisti del racconto, anche se il più inatteso, come mi parve del tutto normale e plausibile, seppure non lo avessi compreso subito, che tale incontro non dava scampo all’unica alternativa possibile: tutto era reale. Così non mi parve più tanto strano essere circondato da eventi che una mente razionale avrebbe cercato di considerare con maggior attenzione. La stessa Felona avrebbe dovuto apparirmi piuttosto ambigua. L’interpretazione di simboli e la conoscenza della mitologia poteva essere comprensibile, ma la sua cultura sembrava travalicare i settori di quelli che riguardavano il suo ambito lavorativo giungendo perfino alla conoscenza della musica moderna che non sembrava proprio essere un territorio inerente al suo lavoro, e poco importava che la sua conoscenza fosse dovuta al fatto che il padre le aveva messo quel nome per onorare un disco apprezzato, ma la coincidenza che quell’ubriaco nomade custode avesse introdotto tra noi quel testo musicale intuendo subito la relazione tra lei e il vecchio disco era a dir poco stupefacente, e a quel punto avrei dovuto cominciare a divenire sospettoso… solo che ormai le coincidenze e le combinazioni fatali stavano diventando per me una costante regolare, e più che preoccuparmi di approfondire, cominciai a preoccuparmi dell’atteggiamento troppo frenetico e ansioso della mia improvvisata collega. Felona non sembrava più considerare la mia presenza come la parte centrale dell’indagine, ma piuttosto come una comparsa in cui lei era divenuta la protagonista e turbato la inseguii mentre, invece che dirigersi alla macchina per tornare in albergo, si avviava verso nuove mete. -Felona- la chiamai -dove vai?- le gridai dietro. -Voglio vedere il parco- disse con la stessa espressione con cui poche ore prima aveva affermato di voler vedere la casa. Osservai l’orologio da polso, erano passate le cinque -non c’è tempo adesso. Vieni, torniamo all’albergo, torneremo domani- provai a dissuaderla, ma ormai avevo imparato a riconoscere quello sguardo e sapevo che non sarei riuscito a trattenerla. -No, voglio vederlo adesso- si impose. -Perché?- le domandai solo per avere una ragione per seguirla. -Perché ho bisogno di capire-. Volevo farla ragionare sfruttando la scusante della sera che stava calando, ma dietro di noi sentii il cigolio del cancello che si chiudeva e nel voltarmi vidi il custode uscire. Lo osservai chiudere il cancello e poi voltarsi verso la strada, ma prima di avviarsi esitò, si fermò e ci fissò. -Seguite la piccola strada alla vostra destra- ci disse -il parco non è lontano, prima che riesca a far battere alle campane le cinque e mezza sarete già arrivati- ci avvertì, e io compresi che si stava dirigendo alla chiesa. -Vattene via- gli gridai irritato, ma nel farlo non mi accorsi che Felona mi stava sfuggendo e prima che potessi fermarla già stava lungo la strada indicata dal custode situata tra il cimitero e la mia macchina ancora davanti alla ex casa di Demetrio. -Aspetta- la inseguii, poi mi sentii pungere e vidi che nell’inoltrarmi lungo il piccolo viale ci stavamo avviando in una giungla di sterpaglie, rovi e ortiche. -Accidenti Felona- le dissi raggiungendola -ma non vedi dove ti stai inoltrando?- le feci notare. Notai alcuni strappi sui jeans che nemmeno doveva essersi accorta di aversi procurata e poi notai la sua espressione quasi ipnotizzata. -Felona- la richiamai, ma in quel momento una specie di radura si aprì di fronte a noi e la giungla parve dissolversi e cambiare aspetto, così come avrebbe potuto avvenire quando in una casa si passa dalla cantina al soggiorno. -Eccola- esultò Felona e guardando davanti a me scorsi la strada di cui parlava il custode del cimitero, con il fiume che la costeggiava. Felona si incamminò e raggiunse la strada, poi si avviò nella direzione opposta alla corrente del fiume. Io la raggiunsi ma ormai mi sentivo sempre più di un passo indietro

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rispetto a lei, e quell’inseguirla continuamente mi dava quasi la sensazione della manifestazione simbolica della mia incapacità di sostenere la velocità del suo pensiero. -Ti rendi conto di quello che stiamo facendo?- le domandai, ma lei non era disposta a concedermi tregua. -Se non ti va di seguirmi puoi anche tornare indietro-. -Non è questo, è che sembri improvvisamente impazzita. Fra poco sarà sera e non mi sembra una buona idea…- -Il sole non calerà prima delle nove, abbiamo tutto il tempo che vogliamo-. -Sì va bene, ma perché improvvisamente tanta frenesia?…- ancora non avevamo camminato per molto lungo il fiume ma prima di potermi rispondere, ammesso che avesse voluto farlo, esultò di nuovo. -Eccolo- disse, e nello stesso tempo sentii le campane suonare i rintocchi delle cinque, più il mezzo colpo della mezz’ora. Mi distrassi ad ascoltare il rintocco dell’ora serale e lasciai che Felona entrasse all’interno di quello che fino a pochi anni prima era un parco per famiglie. La seguii a distanza e all’interno di quel perimetro la mia mente sembrò venire assorbita dalla stessa condizione di estasi che vedevo negli occhi di Felona. Osservai il recinto fatto di legno che ancora non era stato aggredito dalle intemperie grazie ai trattamenti anticorrosivi, sebbene muschi e piante rampicanti già lo avvolgessero, poi osservai le piccole giostre equestri per bambini, con gli ingranaggi manuali arrugginiti e le sagome dei cavalli bianchi sporche e decadenti per lo stato di abbandono. Una certa tristezza mi avvolse mentre nella mente mi parve di sentire le grida festose dei bambini che un tempo non lontano dovevano aver frequentato il parco, quindi vidi il ponte costruito sul fiume e mi accorsi del piccolo avvallamento che rendeva il parco lievemente collinare e mi resi conto con un brivido inconsueto, che eravamo dove tutto aveva avuto inizio: sulla collina. Poco più in là Felona si era seduta su una delle tante panche del parco e scrutava lo scorrere del fiume. La raggiunsi e mi sedetti vicino a lei. -È straordinario- le dissi. Lei mi guardò e io continuai -ho come la sensazione di percepire le presenze di coloro che sono stati qui- confessai. Lei sospirò -io invece non sento niente- rivelò. La guardai perplesso -che cosa ti aspettavi?- le domandai con aria consolatoria. I suoi occhi mi fissarono con intensità, poi rispose con una domanda -perché quell’uomo ha detto che le somiglio così tanto?- Io la osservai percependo ansia e tormento -è un vecchio solitario che ha passato una vita da vagabondo, chissà a chi si riferiva- cercai di convincerla che non era il caso di fare affidamento sulle parole di un vecchio che doveva avere il cervello immerso nello scotch. -Ma ha detto di aver vissuto da sempre in questi posti-. -E chi può dire quanta verità ci sia? E comunque anche lui forse si è innamorato di qualcuno e tu gliel’hai semplicemente ricordata, tutto qua-. Sorrise senza convinzione -avevo come l’impressione di trovare qualcosa in questo posto, quasi mi ero convinta che fosse un luogo dove ero già stata. Ma adesso, mi accorgo che è solo un posto qualunque…- Mi sentii in imbarazzo e quasi stupido a tentare di confortarla, e non sapendo come alleviare la sua delusione, le proposi di proseguire la lettura. -Senti, hai ragione, abbiamo ancora tempo prima che il sole cali. Perché non ne approfittiamo per andare avanti a leggere?- lei annuì e mi passò il fascicolo. -Va bene, ma leggi tu, io non me la sento- disse. Non mi opposi e distogliendo lo sguardo dal fiume cominciai a leggere. Restai stupito quando spostando l’ultimo foglio mi trovai davanti a quel terzo titolo su cui stavano scritte solo cinque parole, e per le quali ancora una volta avrei guadagnato altri mille euro, ma senza lasciar intravedere strane sensazioni cercai di apparire disinvolto e lessi:

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IL TERZO CONFINE:

LA SCELTA

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Non si fugge, ovunque si fugga… …Sarebbe andato tutto bene dopo quell’ultima visita, dopo quell’ultimo incontro, dopo l’angoscia e i tormenti provati, dopo aver visto i sospetti sul volto di Anna e compreso che stavo per compromettere ogni cosa di quanto avevo creato, e aver così deciso di impormi il più assoluto distacco e la totale indifferenza. Ripresi le mie consuete attività e mi disinteressai di ciò che voleva o avrebbe fatto Virginia, escludendomi da tutto il resto e pensando solo a me stesso. Non volevo più saperne di Demetrio e delle sue assurde esperienze sciamaniche, non volli più sapere cosa faceva, dove era o cosa pensava. Evitai perfino di entrare nelle edicole per non rischiare di imbattermi in qualche rivista che portasse in copertina una delle sue fotografie, e volendo perfino evitare Casterba per non sentire parlare di lui, presi l’abitudine di andare a far colazione nel paese di Forlìa, in un bel locale dai colori caldi e semplici quadretti alle pareti, dove nulla riportava a elementi nostalgici o a rischi di ricordi fastidiosi. Mi lasciai tutto alle spalle e in pochi giorni dimenticai l’assurda parentesi di quello spazio di tempo della mia vita, ignorando definitivamente la vita degli altri e i loro assurdi fastidi, imponendomi di lasciare Virginia al dramma in cui io stesso l’avevo gettata, convincendomi che di tale conseguenza lei sola era responsabile, soprattutto per non avermi dato retta, e lasciandola così definitivamente sola. Il locale dove mi recavo ogni giorno da dopo la notte dei tori, era una pasticceria che serviva colazioni alla mattina, aperitivi a mezzogiorno e caffé la sera, con una sala discreta e dei tavoli di dimensioni varie dove, su alcuni, si poteva sedere in non più di due persone sui quali, uno come me, poteva starsene tranquillamente a consultare il tradizionale quotidiano del giorno senza essere disturbato. La mia era una colazione semplice e normale che variava a volte tra il cappuccino o il caffé. A volte mi intrattenevo più del solito perché magari trovavo qualche notizia interessante sul giornale. Una giovane cameriera mi serviva sempre con un amabile sorriso, contribuendo a potenziare l’aria favorevole del locale e a scacciare pensieri inopportuni, così, potendomelo permettere e per favorire quel criterio di accoglienza, lasciavo una discreta mancia ogni giorno. Per una settimana quella terapia si mostrò vantaggiosa e successivamente, si fece praticamente necessaria. Dopo tre mesi ero divenuto un’abituale cliente, al punto che avevo cominciato a familiarizzare con la cameriera e con i proprietari. L’estate era passata e come al solito, Anna e Dennis l’avevano trascorsa al mare dove io li raggiungevo nei fine settimana in quanto, essendo il periodo estivo il più impegnativo per un’azienda agricola, non potevo permettermi di allontanarmi dal lavoro, così i gestori e gli inservienti della pasticceria erano divenuti quasi una seconda famiglia. Era tutto passato. Tutto dimenticato. Casterba era divenuto per me solo il paese in cui avevo dimora, ma la mia stessa casa mi era quasi sconosciuta ormai giacché ci tornavo solo la sera, per dormire. Avevo affittato un piccolo ufficio a Forlìa, con la motivazione che questo mi avrebbe fatto apparire più professionale ma che in realtà null’altro era che il pretesto per porre ancor più distacco dai luoghi da cui volevo praticamente estirpare le mie radici. Non mi preoccupavo di ciò che potessero pensare gli abitanti del paese che non mi vedevano più al bar del centro a fare colazione né nelle occasionali serate in cui mi fermavo per un aperitivo prima di cena. Mi era facile immaginare come avessero cominciato a considerarmi troppo sofisticato per loro e intuire i commenti ironici sul mio nuovo atteggiamento da superiore, percependo comunque che per loro, finché fornivo lavoro, potevo fare ciò che volevo. Mi capitava solo in rare occasioni di domandarmi anche a cosa avesse iniziato a pensare di me Virginia, ma ormai avevo trovato un equilibrio nel quale la tranquillità mi aveva reso un uomo nuovo e, in quei rapidi escursi mnemonici, mi sovveniva di pensare che se Demetrio era tornato per sistemare le cose con le persone con cui aveva lasciato qualcosa in sospeso, per quanto mi riguardava, ritenevo che ciò che aveva lasciato in sospeso con me fosse proprio quell’esigenza di farmi comprendere quanto fosse meravigliosa l’ignoranza e la serenità con la quale si poteva vivere senza pensare a nient’altro che ai propri ideali e al proprio lavoro. E tutto sarebbe andato alla grande, se solo avessi valutato che in quel paese vi era la stazione, e che in una stazione passavano treni che la gente prendeva per spostarsi da una località ad un'altra, e che molte di queste persone erano studenti, e che alla fine dell’estate i studenti riprendevano a frequentare le scuole, e che per andare alla stazione molti di loro passavano davanti a quella pasticceria, e che tal volta si fermavano per fare una veloce colazione. Fu così che in una mattina di fine Settembre, mi sentii chiamare da una voce

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familiare. Alzai lo sguardo a mi trovai di fronte a Vanessa. Restai talmente sorpreso che reagii con il classico effetto di chi non si aspetta, o magari non vorrebbe aspettarsi, di trovarsi in una situazione simile. -Vanessa, che sorpresa- dissi imbarazzato. -Oserei dire lo stesso signor D’amanti- rispose lei. Mi ripresi, e ricordando le galanterie dovute la invitai a sedere proponendomi di offrirgli la colazione. -Volentieri- disse lei mentre alcuni ragazzi la chiamavano -ma ho il treno tra qualche minuto-. -Capisco, frequenti l’università?- domandai cercando un cortese breve dialogo. -Sì- rispose sorridente. -E allora, che indirizzo hai scelto?- -A dire il vero frequento l’istituto di belle arti a Venezia-. -Ah- esclamai sorpreso -niente filosofia? Niente scienze politiche?- Sorrise con un pizzico di amarezza e scosse il capo -no, quelli erano indirizzi cui si rivolgevano più i miei genitori. Credo che sia l’arte però la disciplina attraverso la quale mi posso esprimere meglio…- disse, e io percepii, anche se solo per un breve istante, un’influenza esteriore che l’aveva guidata verso tale scelta. Poi il nostro dialogo fu interrotto ancora dai ragazzi che la chiamavano -devo andare adesso signor D’amanti, ma spero di rivederla, viene spesso qui?- mi sentii domandare. Di nuovo scattò in me quell’allarme che ormai da molto tempo non percepivo più e fui tentato di dirle di no. Ma ormai pensavo di essere immune a possibili altri coinvolgimenti e il rapporto che avevo instaurato con i gestori del locale e gli inservienti era divenuto così affettivo che quasi mi parve di commettere un tradimento se avessi mentito. -Tutte le mattine-. -A bene- disse lei con un sorriso accattivante -io sto a Venezia tutta la settimana, ma rientro per il fine settimana, magari capita di vederci ancora- disse. -Volentieri- risposi con una sincerità che quasi mi convinceva a desiderare rivederla. Poi una voce ironica la chiamò di nuovo, lei sorrise, mi salutò con la mano e si allontanò. Mentre usciva sentii uno degli amici chiedere senza preoccuparsi di farsi sentire “chi era quel vecchio”. Non sentii la sua risposta ma mi venne da sorridere pensando al tempo in cui anch’io ero così. Passai il seguito del giorno senza particolari timori, ma la notte, qualcosa cominciò a turbarmi. Credevo di aver pensato a tutto. Tornando ad occuparmi dei miei affari avevo deciso di occuparmi più della parte burocratica dell’azienda, delegando il controllo dei lavori nella campagna a persone fidate, evitando così di imbattermi in luoghi che avrebbero potuto condurmi a determinati ricordi. Schivando il paese evitavo di imbattermi in qualcuno che avrebbe potuto rivolgermi domande inopportune. Con Anna avevamo perfino concordato che ormai Dennis doveva cominciare ad abituarsi a staccarsi un po’ da noi, così avevamo deciso che sarebbe stata la domestica ad accompagnarlo a scuola, e in questo modo evitavo di rischiare di imbattermi in Virginia. Avevo previsto e organizzato ogni cosa che potesse evitarmi di incrociare qualcosa o qualcuno che potesse ricollegarmi a Demetrio, ma non avevo valutato il suo miglior amico: il destino, e di conseguenza non avevo saputo prevedere questa situazione. Mi inasprii verso me stesso per questo inconveniente, cercando di convincermi che comunque era una cosa da poco. Vanessa non rappresentava una minaccia e potevo gestirla con facilità. Inoltre gli eventuali incontri non sarebbero stati così intensi visto che lei doveva prendere un treno. Ma si sa che il destino sa giocare d’azzardo meglio di chiunque altro e se è necessario, sa anche barare e quella notte tormentosi sogni tornarono a perseguitarmi, sebbene il mattino successivo non ricordassi nulla… Alzai lo sguardo dal racconto e osservai Felona che sembrava più rilassata. -Ha mollato- le dissi. -Già, sembra così. Tuttavia il racconto non è concluso e già introduce argomenti che preludono ad una impossibilità di evitare le proprie responsabilità. È abbastanza ovvio che la nipote di Demetrio deve avere un ruolo importante- -Però non ci sono indicazioni simboliche in questo capitolo giusto?- -Sembrerebbe- ammise lei.

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-Il che lo rende meno attraente degli altri-. -Al contrario, lo rende più essenziale. Lui si isola, abbandona tutti quanti, non vi sono riferimenti simbolici qui ma vi sono molti allacciamenti. La vittima e il carnefice che sono entrambe vittime della loro disperazione, sembrano essere veramente vittime di questa sua intolleranza e indifferenza…- -Ti riferisci al sogno di Virginia? Quello della grotta?- -Infatti-. -Questo quindi dovrebbe confermare che Tommaso è la bestia?- Felona mi guardò, ma appariva stanca, più che fisicamente, mentalmente. -Non lo so ancora e non riesco a pensare in questo momento- voltò lo sguardo e guardò il fiume. -Ti va di fare una passeggiata lungo le rive?- me lo domandò come fosse un invito tra fidanzati, ma un nuovo istinto mi propose un inevitabile sospetto. -Vuoi vedere quel ponte vero?- Si limitò a sorridere e lo fece in un modo tanto sincero che per la prima volta non riuscii a contrastarla. -Va bene, abbiamo ancora un paio d’ore di luce e non credo che sia poi così lontano-. Ci alzammo e contemporaneamente sentimmo il rintocco dei sei colpi di campana. Mi domandai se il custode andava avanti e indietro dal cimitero alla chiesa ogni mezz’ora per battere le campane che segnalavano le ore solo ai morti e per un attimo tale possibile follia mi fece divertire. Felona mi guardò -perché sorridi?- domandò. -Penso a quel folle di custode e lo immagino correre avanti e indietro dal cimitero alla chiesa per suonare le ore-. Felona sorrise a sua volta -non credo che quel campanile sia così vecchio da non avere un meccanismo autonomo, ricorda che è stato ristrutturato da poco. Probabilmente il custode ha solo lasciato il cimitero per andare a chiudere la chiesa- mi fece notare. Il mio sarcasmo ironico a livello di pensiero si smorzò nel comprendere come mi fossi ingannato da solo e sospettoso sulle mie capacità valutative non risposi. Camminammo per un po’, forse dieci, quindici minuti, poi trovammo la deviazione di cui eravamo stati avvertiti e lì ci fermammo. -Chissà perché la pista subisce questa deviazione. Chissà perché non hanno voluto continuare a seguire il corso del fiume- dissi sospettoso. Felona però era più perspicace di me -è stato Tommaso D’amanti a far costruire il parco e la pista ricordi?- -Sì- risposi, ma senza riflettere. -Lui aveva paura di quel ponte, e probabilmente per questo ha voluto la deviazione. Voleva costruire un percorso che non lo conducesse a quel luogo- precisò. Non potei contraddirla, ma solo pensare che lei invece a quel ponte voleva andarci, mentre io non ne ero certo -ma tu vuoi vederlo quel ponte, vero?- -Se seguirete il percorso vedrete delle cose, se seguirete il fiume ne vedrete delle altre, ricordi? Così ha detto il custode-. -Il matto- ironizzai io e per la prima volta la feci sorridere -ha detto anche però che potremmo avere delle sorprese, sei certa do volerlo fare?- -Non sono più certa di nulla, ma ho voglia di sapere se veramente su quel ponte si possono percepire quelle presenze di cui parla Demetrio-. Io ormai cominciavo a temerle quelle presenze, ma ciò che avevo provato nel parco non mi era parso maligno e forse l’unica cosa che veramente temevo erano le mie percezioni. Sapevo che gran parte erano dovute alla suggestione e tutto ciò che volevo ora era tornare a essere ciò che ero sempre stato e comprendevo che per farlo dovevo affrontare le mie insicurezze. Le percezioni erano solo suggestioni, ne ero ormai certo, e vincerle significava sconfiggere i tormentosi dubbi dell’irrealtà che pensavo potessero insinuarsi nella mia mente e quel ponte, poteva essere la prova definitiva. -Ci tieni così tanto ad avere quei sentori di cui parla Demetrio?- Mi guardò con una semplicità disarmante che non aveva necessità di parole. -E se poi dovessi pentirtene?- -Sono disposta a correre il rischio-. -Va bene, andiamo- acconsentii.

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Pensai che non doveva essere lontano, ma guardandomi indietro già non scorgevo più il parco e ricordai a come in precedenza, nell’arco del racconto, Tommaso avesse descritto come dal ponte non si poteva scorgere la collina perché il fiume faceva un deviazione. Lasciammo il sentiero che non accompagnava la deviazione del fiume e ci inoltrammo sulla terra battuta. Il fiume, come descritto nel racconto, non era imponente, ma ciò che mi colpì maggiormente fu la limpidità dell’acqua, cosa assai rara ormai nelle zone rurali delle campagne inquinate dai pesticidi e dagli scarichi delle industrie vicine. Era ovvio quindi che anche la popolazione contribuiva, e quel silenzio che denotava la mancanza della presenza umana quasi diveniva benevolo. Non era un silenzio totale ovviamente, intorno a noi si potevano sentire tutti i suoni della natura, il canto dei grilli, il volo degli uccelli che di tanto in tanto si alzavano al nostro passaggio, lo scorrere dell’acqua stesso era percepibile e le simpatiche risate di anatre che nuotavano tranquille nel fiume provocavano allo stesso tempo ilarità e serenità. Una certa tranquillità mi invase al pensiero che, se ciò di cui si parlava nel racconto era veritiero, ormai gli spiriti della natura dovevano essersi placati in quell’isolamento in cui l’uomo non poteva più arrecare ferite e senza rendermene conto mi accorsi di essere, forse per la prima volta in vita mia, in contemplazione. Lo eravamo entrambi, e per questo il nostro passeggiare era silenzioso. Una certa armonia sembrava rincorrerci in quel momento, ma solo dopo pochi secondi l’incanto si spezzò quando davanti a me vidi Felona fermarsi in un atteggiamento che esponeva allarmismo. Eravamo giunti al ponte, ma ciò che trovammo fu la sorpresa alla quale il custode doveva aver fatto riferimento: il ponte non c’era più. Ovvero, di quel ponte restava un’esule rovina. Sembrava essere stato abbattuto, ma non avrei saputo dire se dalla furia di qualche tempesta o se per l’intervento di azioni umane. Comunque fosse, dell’oggetto che rappresentava il nucleo centrale e magari la soluzione stessa di tutto il racconto, non restavano che poche assi e qualche palo di sostegno che si affacciavano sulla riva nella forma di un rudere che spezzava la possibilità di attraversare e sperimentare ciò per cui eravamo andati. Non so spiegare quale fosse la mia condizione, da un lato mi sentivo sollevato perché in tutta onestà avevo temuto il ponte, dall’altro mi sentii come preso in giro perché seppure timoroso, non potevo verificare la consistenza della realtà che il semplice passaggio del ponte avrebbe potuto confermarmi. Sicuramente percepii la delusione di Felona che lenta si avvicinò alle rovine. -Stai attenta- la richiamai vedendo che si avvicinava troppo. La vidi poi metter un piede su una delle poche assi rimaste e temendo che potesse compiere un’azione troppo azzardata mi affrettai a raggiungerla. -Fermati, è pericoloso- le dissi. Lei mi guardò tra tristezza e ironia. -Che pericolo può mai esserci? Al massimo non farò che cadere nel fiume, ma non mi sembra che sia poi così rischioso- disse. Guardai il fiume, in effetti il livello dell’acqua era basso e la sua limpidità non faceva temere possibili contagi. -Beh, non si può mai dire- la trattenni ancora. Lei rise -temi che possa essere trascinata negli abissi dalla Marantega?- Non so se il suo fosse sarcasmo o serietà, e non so quanto riuscissi a distinguere tra le due opzioni quale potessi preferire, sta di fatto che solo per il timore di apparire sciocco la lasciai andare. Lei mosse un secondo passo e io sentii le assi scricchiolare. -Pensi di poter sentire qualcosa? Non c’è più niente di quello che cercavamo- le dissi allora con l’aggiunta di una discreta severità. Lei arrivò fino all’estremità delle rovine e osservò lo scorrere lento dell’acqua. Guardò a destra, e poi a sinistra. -Guarda- mi invitò poi, e io dubitai sulla convinzione che sarebbe stata una buona idea assecondarla. -La curva da cui il fiume appare improvviso, è percepibile anche da qui- mi disse portandomi al ricordo di come nel racconto si evidenziasse la differenza tra un lato e l’altro del fiume -dai avvicinati- mi invitò. -Non credo che quel rudere possa sostenerci entrambi- mi opposi solo per avere una giustificazione per non verificare. -Avanti, non aver paura- continuò però lei. Allora mi avvicinai, misi un piede sulla prima asse e sentii nuovamente il legno scricchiolare.

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-Non è una buona idea, finiremo entrambi dentro- brontolai, ma era evidente che il mio riferimento a ciò che non consideravo una buona idea non era l’essere entrambi in bilico su una rovina che al massimo avrebbe potuto portarci a fare un bagno imprevisto. -Tanto meglio, la Marantega avrà così due nuovi amici- ironizzò lei. -O due nuove vittime- corressi io, poi finalmente osai avanzare e rendendomi conto con sorpresa che quel piccolo rimasuglio di legno era più stabile di quanto non avessi pensato, mi sporsi per osservare il lato sinistro del fiume. Dietro le sterpaglie, in effetti, era visibile uno scorcio di quella curva definita maledetta, ma l’impressione non era che vi fosse qualche condizione di pericolo. Certo, valutai che la corrente era più forte e forse agli occhi di bambini come lo erano Demetrio e Tommaso al tempo del racconto quella differenza poteva apparire più esagerata, ma ciò che mi sovvenne più facile da pensare, era alla pace degli spiriti della natura e temendo di restare vittima di qualcosa cui non volevo credere, optai per la soluzione che era stata la suggestione dei bambini a creare quell’effetto che ora noi sospettavamo di dover temere. A quel punto sentii uno scricchiolio più forte del legno e per un attimo pensai che quel mio pensiero doveva aver adirato gli spiriti che ora si vendicavano facendo cedere la struttura per consegnarmi alla Marantega. Sussultai e rabbrividii, ma tutto passò quando abbassando gli occhi per prepararmi alla caduta nel fiume vidi che lo scricchiolio non era originato da nessuno spirito indignato, ma da Felona che dopo essersi tolta i sandali, si era seduta facendo penzolare i piedi sul pelo dell’acqua del fiume. -Ma che fai?- le domandai. -Voglio stare qui per un po’, magari succede qualcosa non credi?- Mi guardai attorno -e cosa potrebbe succedere? Sembra di essere nelle paludi della terra nera della Baronia-. Felona mi guardò sorpresa -e che ne sai tu delle paludi nere delle Baronia?- -Niente, mi ci imbattei una volta casualmente facendo una ricerca su internet. In realtà cercavo un paese che stava tra Avellino e Benevento…- -Per una tua indagine?- -No. Qualcuno mi aveva consigliato il posto come luogo di vacanza-. Rise divertita -e come è andata?- -Ho cambiato località, mi sembrava troppo complicato arrivarci-. Fui lieto di quel breve momento di rilassatezza, poi però l’atmosfera intorno a noi tornò a farsi troppo seria. Felona guardò il libro, non quello del racconto, ma quello delle fotografie di Demetrio e si fece pensierosa. -Chissà cosa intendeva quando ha detto che la grotta si trova in questo libro-. -Forse non dovremmo fare troppo affidamento su quel tizio non credi?- -Forse- rispose, ma intanto cominciò a sfogliare il libro. Io non sapevo che fare, quasi ormai desideravo che non vi fossero altre scoperte che potessero complicare ancora di più quella condizione, in fondo tutto ciò che mi era stato chiesto di fare era di leggere il dannato documento e ormai eravamo quasi alla fine, così nell’inerzia del tempo che scorreva come il fiume, sapendo che sarebbe stato inutile chiedere a Felona di avviarsi verso la macchina, mentre lei sfogliava il libro di fotografie, io decisi di proseguire la lettura. Presi il documento e sedendomi vicino a lei, ma facendo attenzione a non lasciar cadere i piedi nell’acqua, iniziai a leggere:

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I tempi cambiano ma tutto resta uguale… …La settimana riprese il suo corso e già il Mercoledì quasi non pensavo più a Vanessa. Poi giunse di nuovo il Lunedì e quando Vanessa venne a salutarmi, compresi quanto truffatore era il destino. -Salve signor D’amanti- disse. Alzai lo sguardo dal giornale come la settimana prima e la salutai -ciao Vanessa-. Lei sorrise con malizia -che dice, me la offre stamattina la colazione?- azzardò con sfacciataggine umoristica. Io sorrisi con accondiscendenza -volentieri, ma non rischi di perdere il treno?- le ricordai. Il suo sorriso mi fece alludere a qualcosa -dicono che c’è stato un incidente. Qualcosa si è rovesciato sui binari e ci sarà un po’ di ritardo-. Il mio umore cambiò, ma mantenendo un sorriso compiacente lasciai sfuggire la classica esclamazione di sorpresa, mentre nella mia mente, in cui emergevano ricordi che non volevo ricordare collegati ad un incidente sui binari, cominciavo già a pensare a come controllare l’imminente conversazione -mi dispiace- dissi. Lei sorrise ancora -ah, non è un problema, l’unica noia è il dover attendere. Così ho pensato di venire a vedere se lei era qui. Sa con gli amici si discute sempre delle stesse cose e poi, alcuni di loro sono così stupidi…- -Già- sorrisi divertito -e di solito sono quelli che si credono i più furbi vero?- si istaurò un clima di allegria. -Già è proprio così- rise lei. -I tempi cambiano ma tutto resta uguale in fondo- dissi con una constatazione spontanea e meditativa allo stesso tempo -allora, cosa prendi?- -Un caffé andrà benissimo-. Feci un gesto verso la cameriera e indicando la mia tazza di caffé le feci capire di portarne un altro. -Allora Vanessa, come ti trovi all’istituto di belle arti?- cercai di prendere il sopravvento sulla conversazione e mi rivolsi a lei in modo confidenziale come a dimostrare disinvoltura. -Non male, per adesso-. La cameriera arrivò e pose il caffé sul tavolo -e questa bella signorina chi è Tom, tua nipote?- scherzò evidenziando il clima di intimità instaurato tra me e quel locale. Le sorrisi -Sì, direi che si può dire di sì-. Vanessa mi guardò con aria sospettosa, come se intuisse la mia necessità di mascherare qualcosa che in quel momento non riusciva bene a comprendere, ma che avrebbe potuto benissimo apparire come una sorta di interesse da parte mia nei riguardi della cameriera. Cosa che avrebbe dovuto rendermi guardingo, perché in fondo in quel momento era come se mi si stesse prospettando ciò che il destino mi riservava in quella mia fuga dal mondo. -Deve essere veramente un cliente affezionato, la chiamano perfino Tom- notò con perspicacia. Sorrisi imbarazzato -sì, te l’ho detto, mi fermo qui tutte le mattine prima di avviarmi in ufficio-. -E come mai proprio qui signor D’amanti?- domandò. Questa volta lo percepii l’allarme in me e, come non avevo mai fatto, compresi che era il momento di seguire il suo invito. Ma il destino aveva già lanciato i suoi dadi truccati, e della mia perspicacia che mi consigliava di deviare l’argomento verso il quale mi stava conducendo Vanessa, per evitare di parlare di Casterba e rischiare di dover dare spiegazioni che erano inopportune per il mio equilibrio egli si stava facendo beffe, e in un modo che avvenne troppo rapidamente perché me ne rendessi conto, fui proprio io, nel tentativo di modificare completamente il discorso, a introdurre ciò, o meglio, colui, di cui non volevo parlare. -Guarda che lo puoi fare anche tu sai?- le dissi. -Che cosa?- domandò senza comprendere l’apparente insensata risposta. -Chiamarmi Tom, come fanno tutti-. Vidi la sua espressione farsi meno allegra, non seria, ma meno allegra, e il campanello d’allarme che era suonato in me all’improvviso mi parve la risata del destino. -Non sarebbe appropriato- le sentii dire. Dovevo intuire che non era il caso di approfondire, ma l’istinto in me era ancora troppo forte da avere ancora il suo ruolo dominante e del mio non saper cos’altro dirle se ne fece un’opportunità.

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-Che cosa non sarebbe appropriato?- pensavo solo ad un atto di cortesia da parte sua, ma mi sbagliavo. -Mio zio ha detto che il nostro nome è sacro. È il primo dono che riceviamo e non è casuale, ha un senso e non si dovrebbe permettere a nessuno di deformarlo o rovinarlo…- Improvvisamente compresi che l’allarme non era mai stato tale ma piuttosto, l’irrisione che io stesso facevo di me nel rendermi conto di quanto inutili fossero i miei sforzi di sfuggire ad una forza troppo grande per essere contrastata, portandomi alla consapevolezza che mai avevo avuto il controllo del mio destino e che mai avrei potuto dominarlo, e fu con rassegnazione che restai ad ascoltarla, perché ormai non potevo più impedire a Demetrio di far parte di ciò che mi apparteneva. -Ha detto che lui ha conosciuto i nativi americani, che gli hanno insegnato come si crea un totem. Ogni uomo ha un totem, e questo totem è presente nel suo nome. Noi non abbiamo la cultura e quindi le capacità che hanno loro di osservare quale sia il nostro totem, ma esso è racchiuso nel nostro nome, quello che riceviamo in dono alla nostra nascita. Dobbiamo solo comprenderlo e poi imparare a riconoscerlo, e lui mi ha insegnato come si fa. Io sono: “Eco di un Desiderio d’Armonia”- rivelò, e io mi sentii travolgere dal vortice contro il quale fino ad ora avevo nuotato per sfuggirgli, e solo in quel momento sentii che l’energia mi abbandonava e che mi sarebbe stato inutile continuare lottare, così, l’unica cosa che mi restò da fare, fu di assecondare la sua forza che mi inghiottiva. -E che cosa significa?- le domandai. La sua espressione si fece un po’ triste. -L’eco è una riflessione del suono ed è associato alle montagne e quindi alle altitudini. Il totem rappresenta il lato nascosto del nostro essere, lo spirito se vogliamo, quindi il mio è uno spirito che aspira alle altezze del cielo, il mio desiderio è rivolto all’armonia e conseguentemente io sarei una persona che cerca di armonizzare ciò che mi circonda, dalle più profonde creazioni della natura rappresentate dalle rocce di cui è formata la montagna contro le quali si riflette il mio desiderio, fin alle più alte vette che sospingono il mio riflesso oltre i regni delle nuvole, affinché il mio desiderio possa contagiare ogni spazio dell’universo-. Sorrisi. -Già, tu sembri proprio così. Ma ci credi veramente?- -Certo- rispose indignata -se vuole posso insegnarle a trovare il suo di totem, non è difficile sa?- -Basta…- La interruppi un po’ malamente -no Vanessa. Io non credo in queste cose- le dissi, e lei mi guardò con sospetto. -Mio zio dice che da bambini lei era l’unico ad ascoltare le sue storie sugli spiriti della natura, come mai adesso non ci crede più?- Temevo di stare per avviarmi in una condizione sgradevole e sentivo la necessità di uscirne, ma Vanessa era suadente, così mancai, o forse lo feci volontariamente, di riconoscere nella profondità dei suoi occhi luminosi ma malinconici, lo stesso sguardo dello zio, e non riuscii ad essere severo con lei. -Da bambini si crede in molte cose Vanessa, ma poi queste cose passano, la vita cambia, subentrano responsabilità, doveri… non si può più vivere nel mondo delle fiabe…- dissi con rassegnazione, occludendo che in verità troppe cose ancora in me di quel mondo irreale apparivano più reali di quanto non volessi ammettere, e non potevo dirle che effettivamente temevo quale avrebbe potuto essere l’esito che mi avrebbe condotto a scoprire quale fosse il mio totem. Lei abbassò gli occhi -già, la capisco- disse sconsolata, come se anche lei stesse combattendo contro i draghi del tempo, divoratori di quello spazio in cui non vi era posto per le fantasie. Una voce che potrei definire provvidenziale la chiamò da fuori. -Ehi Vanessa- si sentì dire in un rozzo dialetto -hanno liberato i binari il treno arriva tra cinque minuti- la chiamò. Lei mi fissò tra la tristezza e la comprensione -sembra che sia ora di andare, grazie per la colazione- mi espresse riconoscenza, quindi si alzò mentre le rispondevo -non c’è di che-. La vidi sorridere e allontanarsi, quindi, spinto da un istinto che avrei voluto considerare inconscio ma che ad un attenta valutazione, sapevo essere tutt’altro che sconosciuto, la richiamai. -Ehi Vanessa, che cosa succede a Casterba?- le domandai riconoscendo così in quell’istinto l’impossibilità di estirpare le mie radici. Lei si fece riflessiva -non è che ci passi molto tempo, ma tutto scorre come il solito…- per un po’ mi sentii sereno, poi una notizia che poteva avere risalto sulle altre parve sovvenirle alla mente e

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aggiunse -a, sa che Virginia e Massimo stanno per divorziare?- non so se fece in tempo a vedere il mio stupore perché subito dopo si girò e uscì dal locale, lasciandomi solo con quell’angoscia che non mi permetteva nemmeno di finire la colazione, consapevole che le mie responsabilità mi avrebbero seguito ovunque fossi fuggito… -E così alla fine ce l’ha fatta, ha distrutto ogni cosa-. Dissi ancora io, ormai conscio del mio ruolo di disturbatore del silenzio. -Nonostante tutto- rispose Felona sconsolata, in quel mentre la guardai e improvvisamente provai paura per lei: i suoi piedi erano completamente immersi nelle acque del fiume. -Per l’amor del cielo Felona, togli quei piedi dall’acqua-. Lei mi guardò sorpresa come se vedesse in me una figura diversa, poi sorrise divertita. -Di che cosa hai paura? Della Marantega? Ormai dovresti essere convinto più di me che si tratta solo di una creatura immaginaria-. Sì, dovevo esserne più convinto di lei, eppure quella sua limitata immersione nelle acque di quel particolare fiume mi metteva in ansia. -Non dire scemenze e fa come ti dico- continuai a insistere. Lei parve trovare nei miei timori un motivo di gioco divertente, e come una bambina capricciosa osò sfidarmi nel modo che solo i bambini testardi sanno fare, con quella loro particolare cattiveria irritante, e cominciò ad agitare i piedi tormentando la placida calma del fiume schiaffeggiando rumorosamente l’acqua inerme. Non so che cosa mi prese ma ebbi come l’impressione che quel gesto tormentoso potesse apparire al fiume come una sorta di mancanza di rispetto e come sotto l’effetto di droghe allucinogene, tra le increspature dell’acqua ebbi come l’impressione di vedere il volto irritato di una figura tormentata avvicinarsi minacciosamente. -Smettila!- gridai come esasperato cercando di scacciare dalla mia mente la visione che non potevo accettare come reale, ma mentre lei continuava a farsi beffe delle mie ansie e a tormentare l’acqua del fiume, il volto della creatura acquatica si fece più distinto alla mia vista e nel braccio che si allungava per afferrare i piedi indisponenti percepii tutta l’insidia di quella presupposta minaccia. Cercai di trattenere il mio istinto a salvarla dal demone, ma mentre lei sembrava non accorgersi di nulla io vedevo la sagoma della Marantega farsi sempre più vicina e pericolosa e fu con impeto violento che alzandomi in piedi la presi dalle spalle e la trascinai via dalla riva. Nello stesso momento ebbi il tempo di vedere nella mia mente la mano del mostro uscire dall’acqua e mancare la sua preda per un soffio, mentre l’espressione di Felona si faceva seria e iraconda. -Ma che ti prende?- mi accusò. “Ma non l’hai vista?” avrei voluto risponderle. Improvvisamente però mi resi conto che ciò che avrei detto avrebbe compromesso la mia stabilità mentale. -Quel rottame di ponte non è stabile e la tua agitazione poteva farci cadere entrambi in acqua- motivai allora con la prima cosa che riuscii a dire come giustificazione. -E allora? Temi così tanto un bagno?- ribadì lei. Ancora una volta mi sovvennero parole che ponderai più saggio non dire. “In questo fiume sì” avrei voluto rispondere, invece trovai una nuova giustificazione più adatta -certo che no, ma poi l’avresti spiegato tu il nostro presentarci fradici d’acqua agli albergatori?- -Che si impicchino gli albergatori, e tutti quelli che vogliono avere spiegazioni- reagì in un modo che non mi aspettavo. -Ma cosa ti prende?- le domandai cercando di calmare gli animi. Lei mi guardò prima con aria ostile, poi parve calmarsi, pur mantenendo un atteggiamento contrariato. -Non lo so, d’un tratto ho avuto voglia di giocare, di sentirmi ancora come una bambina va bene?- rispose con severità, ma allo stesso tempo con una voce viziata, proprio come quella dei bambini. Restai a guardarla sospettando, ma senza poterlo veramente credere, che l’insolita atmosfera di quei luoghi mistici potessero avere veramente proprietà allucinogene. -Che dici, torniamo indietro?- le proposi. Lei fissò il ponte con un aria corrucciata come se osservasse un giocattolo che le era stato sottratto. -Voglio vedere oltre la curva del fiume- disse poi. Percepii un ritorno alla normalità nella sua voce mentre sentivo le campane rintoccare la successiva mezz’ora trascorsa e nell’insieme dei suoni della natura accompagnati da quei rintocchi, non potei riflettere su come entrambi in quei pochi minuti

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eravamo stati preda di percezioni illusorie da bambini. Io avevo visto un mostro marino, lei aveva avuto un ritorno ipnotico all’età infantile. Non sapevo quanto tali percezioni potessero essere veritiere e non potevo più valutare quanto avrebbero potuto essere pericolose, ma mi rendevo conto che stavo per perdere il controllo della situazione, così decisi di scendere ad un compromesso. -Va bene, ma poi torniamo indietro, si sta facendo tardi-. -Agli ordini- acconsentì lei ancora sotto un leggero influsso dell’ipnotico ambiente. La curva del fiume non era lontana, ma le sterpaglie rendevano il tragitto più insidioso e difficoltoso, giungemmo così alla meta con i vestiti sporchi d’erba e alcuni strappi in più. Mi resi conto che non sarebbe stato comunque possibile dare spiegazioni a chi ne avesse cercate delle nostre condizioni senza suscitare un sospetto che nei soggetti curiosi non poteva destare che un'unica supposizione, e a quel punto pensai che fosse il caso di mandare veramente al diavolo chiunque non sapeva farsi gli affari propri e sorvolai sul particolare, concentrandomi come invece faceva Felona sulla distesa di pioppi che formava un piccolo bosco attorno alle rive del fiume. Forse per il fatto che il sole cominciava a calare, forse per il fatto che il bosco era posizionato in direzione nord-ovest e le ombre degli alberi sembravano rivolgersi verso di noi, la sensazione che provai fu di rischio, intimidazione, e provai un intenso brivido freddo. All’improvviso tutto nelle vicinanze di quel bosco mi parve freddo e poco ci mancò che cominciassi a tremare. Intimidito, cercai di distrarmi -senti qualcosa?- domandai a Felona. Lei restò in silenzio per un po’, e in quella breve pausa sperai che potesse confermare che pure lei provava le stesse sensazioni, così avrei potuto dedurre che non stavo impazzendo. Poi però, la sua voce mi deluse. -No, niente- parve sconsolata, seppure non quanto me -anche se le figure dei pioppi non mi rassicurano- aggiunse, e un po’ mi sentii confortato. Attesi, aspettando che lei osservasse attentamente il luogo. Non so perché, ma avevo la sensazione che nonostante tutto in quel suo sguardo reverenziale ci fosse una percezione che la portava a cogliere qualcosa, e che tutto ciò che le occorreva era solo del tempo. Speravo in realtà che potesse essere così ed ero, a quel punto, disposto a concederle tutto il tempo che le sarebbe stato necessario, pur di sentirmi dire “percepisco qualcosa”, invece, dopo un po’ la vidi voltarsi e accettare le mia condizione. -Va bene, torniamo indietro- disse. A bordo della macchina non discutemmo di nulla. Osservammo entrambi il custode del cimitero che a sua volta ci guardò allontanarci. Non accennò ad alcun saluto ma il suo sguardo aveva qualcosa di sospetto e il sorriso che gli vedevo mi dava la sensazione di un ghigno perfido che celava dietro la finta modestia la conoscenza di qualcosa che non ci era stato rivelato. Accelerai perché cominciavo a temere che quel luogo fantasma stesse cominciando a condizionarmi con suggestioni streganti e che tutto ciò che era accaduto in questi luoghi era solo il risultato di una magistrale opera di persuasione, e pensai che lo scopo dello scrittore fosse quello di sperimentare le sue doti suadenti. Se così fosse stato non avrei potuto fare altro che complimentarmi con lui una volta che lo avessi scoperto, dopo di che lo avrei mandato al diavolo, come avrei voluto fare con l’inserviente che ci accolse all’entrata dell’albergo del quale si intuivano subito i pensieri maliziosi mentre osservava le nostre vesti sgualcite, invece lo ignorai e recandomi nella mia stanza per una doccia, diedi appuntamento a Felona per la cena. All’appuntamento eravamo entrambi scossi e solo in quei minuti di rilassata solitudine probabilmente ambedue avevamo potuto pensare a cosa ci era accaduto lungo il fiume. Era evidente che tutti e due eravamo consapevoli che qualcosa di insolito ci aveva sedotto, ma con altrettanta evidenza nessuno dei due sembrava disposto a parlarne. Conversammo poco e mangiammo meno, trovandoci d’accordo sull’unica soluzione di continuare a leggere il racconto. Così dopo il caffé ci appartammo sul terrazzo e alla luce artificiale di un neon proseguimmo la lettura. Fu lei a leggere:

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I fulmini Divini… …Era avvenuto tutto troppo in fretta e quella mancanza di controllo sull’istinto che avrei dovuto creare nell’isolamento forzato cui mi ero sottoposto, senza che me ne rendessi conto, mi fece intuire quanto fragile era la mia volontà e in un modo che non avrei voluto la mia fuga si concluse con la reazione contraria e inaspettata. Fu così che feci il mio ritorno a Casterba. La notizia che Virginia stava per divorziare aveva sconvolto l’instabile equilibrio, o forse dovrei dire l’insano equilibrio, che ormai credevo di aver dominato, ma che mai c’era stato. Per non so quale delirante utopia, vedendomi ancora nelle vesti del buon samaritano, nel mio subconscio speravo ancora di poter riuscire a sistemare quelle cose che nel mio mondo apparivano contorte e che, sempre per una non ben definita ragione generata dalla mia illusione di controllo, dovevano essere corrette. Volevo chiarimenti da lei, o meglio, questo era solo ciò che credevo di volere, ma ciò che avvenne altro non fece che confermare quanto illuso ero stato ed ero ancora. Aveva cercato di dirmelo tante volte, e forse io stesso ne ero consapevole, ma ormai ero divenuto un gran maestro nel nascondere a me stesso qualunque cosa desiderassi sopprimere. Molti furono i pensieri che mi avvolsero in quel momento e molte le frasi che la mia mente percepì come se le sentisse solo in quell’istante: “sei così ingenuo…” mi aveva detto una volta lei… Molte espressioni mi si fecero lampanti nella mente nel momento in cui mi sentii dire da Virginia: “Nausica è tua figlia Tom” e nello stesso tempo vedevo mio figlio giocare con lei con una luce negli occhi che forse Demetrio avrebbe saputo riconoscere meglio di me. “…Quante possibilità ci sono che un bambino di sei anni si innamori di una bambina mai vista? diciamo le stesse che un fratello si innamori della sorella?..” aveva detto una volta il Mage in un tempo vicino ma che mi appariva lontano secoli mentre nella confusione cercavo di trovare una via di scampo… -Non è possibile- avevo risposto, ma già la mia voce era un’eco lontana mentre, fintanto che lei mi spiegava i motivi che l’avevano spinta solo una sera dopo ad alimentare il desiderio di suo marito usando stratagemmi che solo una donna conosce per risvegliare il desiderio di un uomo senza più attenzioni per la propria moglie, io rivedevo quella lontana notte di Novembre dopo la sfuriata con l’amica del bar, la nebbia della notte e la sua voce che mi riprendeva, il mio accompagnarla a casa, il suo sfogo per un matrimonio che stava andando alla deriva, il mio desiderio di confortarla, il mio accettare l’invito ad entrare in casa per riscaldarmi, la nostra complicità di sguardi e infine, all’interno della stanza riscaldata, il bacio e quell’abbraccio in cui si stavano per sfogare tanti anni di desiderio represso… -È successo una sola volta- cercai la classica giustificazione, e al suo ribadire che una volta era più che sufficiente il mio rifiuto più consistente accentuò l’allontanamento da lei, che ormai non poteva più accettarmi nemmeno come amico. -Non puoi esserne certa-. Avevo cercato la via di fuga più classica, ma una donna sapeva bene, oltre ogni prova scientifica, di che cosa poteva o non poteva essere certa in determinate circostanze, e tuttavia nemmeno per gli scettici uomini del mio genere, le prove scientifiche potevano essere discusse. Lei aveva previsto la mia reazione, non poteva dimostrare che il DNA esaminato fosse il mio, ma poteva dimostrare che non era quello di Massimo. -Non sono stata con nessun altro oltre a lui- mi rivelò facendomi cadere il mondo addosso. -Che vuoi fare adesso?- Le domandai con la chiara ansia di chi prevedeva la catastrofe, ma lei mi aveva rassicurato. -Ho già detto a Massimo che Nausica non è sua figlia, e a Nausica voglio poter contenere il trauma il più possibile finché è abbastanza giovane da poterlo superare con minori difficoltà, ma sta tranquillo, non gli ho rivelato chi è il vero padre. Del resto a quei tempi ero una donna ancora desiderabile. Non mi è stato facile fargli pensare che fossi una di quelle che voi definite sgualdrine, così non mi è stato difficile fargli credere anche che non posso sapere chi sia il vero padre-. -Ma così perderai tutto- avevo risposto, senza però offrirmi di ammettere le mie responsabilità. -Non ho nulla da perdere perché non ho avuto mai nulla se non Nausica, ed è l’unica cosa che voglio avere. Per Massimo è come una liberazione. Si è trattenuto dallo schiaffeggiarmi solo perché deve

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aver pensato a quante volte lui ha tradita me, e non solo prima del matrimonio. Gli resterà tutto, e non dovrà nemmeno preoccuparsi di passare gli alimenti a una figlia che non è sua…- -E io, cosa pensi che dovrei fare?- -Dipende da te Tom- aveva risposto, e da come guardai Dennis comprese che non ero pronto ad onorare i miei obblighi, ma che avevo una paura folle di perdere ogni cosa. Forse lei sapeva già che uno come me era comunque destinato a perdere ogni cosa e con le ultime parole che mi rivolse mi svincolò dai doveri. -Se non sei disposto ad assumerti la responsabilità della verità Tom, devi solo accettare che né io né lei dovremmo più fare parte della tua vita- aveva detto, poi aveva chiamato Nausica e senza più guardarmi se ne era andata. Questo fu il primo dei mattoni del muro a crollare, lei e Massimo conclusero le pratiche pochi giorni dopo mentre io ancora combattevo con le mie angosce. Avevo proibito a Dennis di giocare ancora con Nausica, inventando una bugia del tipo che non era una buona cosa che non familiarizzasse anche con gli altri suoi coetanei, ma la mia precauzione, oltre che inutile, aveva contribuito a far cedere ancora di più quel muro. Dopo aver chiuso le pratiche del divorzio Virginia era partita senza dire niente a nessuno e aveva portato con se la bambina sottraendo così al destino il rischio dell’incesto, ma quel mio sospetto atteggiamento di proibizionismo nei riguardi di nostro figlio, aveva avuto la capacità di intaccare il rapporto di fiducia tra me e Anna, poi, non so come, la voce che più spesso mi ero incontrato con una giovane ragazza, la cui presupposta identità era stata rivelata nell’arco di pochi giorni, aveva definitivamente fatto inclinare i rapporti tra noi e di lì a pochi mesi io stesso mi trovai alle prese con un divorzio mai immaginato. Il muro si sgretolò definitivamente quando Vanessa, la “nipote di Demetrio” e mia presunta corteggiata, mi aveva detto che non potevamo più incontrarci. Anche se al suo giuramento non avrebbe tenuto fede per un’ultima volta. In un arco di tempo che secondo la questione della relatività io potevo definire un istante, avevo perso l’amicizia di Demetrio e quella di Virginia, avevo frantumato il mio matrimonio, avevo perso non uno ma due figli (giacché con Dennis non potevo avere che un fine settimana al mese e al quale non potevo rivelare nulla della sua segreta sorella), avevo perso la possibilità di piacevoli conversazioni con un’amabile adolescente che si avviava a combattere il suo drago, e mi ero giocato la reputazione di onesto e corretto uomo di moralità, non avendo più onore e non potendo più essere degno di fiducia né di godere di alcuna rispettabilità. Alla fine, per una follia di cui solo nel punto terminale potevo rendermi conto essere una mia responsabilità, avevo perso tutto, e la torre dentro la quale mi ero rifugiato era crollata come percossa dai fulmini divini. Dentro di me capivo che tutto ciò che avevo voluto evitare, era tutto ciò che avevo desiderato: quell’aspirazione di conoscenza che Demetrio poteva trasmettermi, ma che alla fine mi aveva spaventato; l’amore represso per una ragazza che solo grazie a Demetrio avevo potuto apprezzare, fino a seppellire nel mio più profondo interiore il desiderio di possederla motivato dietro un’inutile giustificazione di lealtà che celava solo la paura delle responsabilità; il mio apparire integro, incorruttibile e retto, nascondendomi alle spalle di una finta vita dignitosa al fianco di una donna che non potesse rappresentare nessuna immoralità, quando invece in me non vi era niente di dignitoso, onorevole e meritevole… Niente. Non avevo più niente, né conoscenza, né amore, né dignità. E di tutto questo, l’unico responsabile era Demetrio, colui che aveva dato inizio a tutto e colui che, in un modo o nell’altro, mi avrebbe condotto a concludere tutto… -È finita, e questa volta definitivamente. Ha perso tutto e finalmente rivelato tutti i suoi orrori- dissi quasi rilassato. -Già- rispose riflessiva Felona -ma perché?- Io cercai dentro di me una risposta plausibile, che però non aveva alcun senso. -Paura?- dissi quindi privo di convinzione. Felona mi guardò -se osserviamo da una prospettiva diversa, quest’uomo non è altro che una vittima, qual è la sua vera colpa?-

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-Esaminando i fatti? È stato la causa del tormento di due possibili amanti, ha generato una figlia che non riconosce, ha causato la distruzione di due matrimoni, non ha salvato l’amico dal suicidio e ha contribuito al disonore di una ragazza innocente. Ti basta?- le feci notare. -Sì- riprese lei -ma guarda le circostanze. Lui ha cercato prima di aiutare un amico a coronare il suo tormento amoroso e nel farlo è rimasto lui stesso vittima di tale tormento. Ha rinunciato a Virginia per lealtà nei confronti dell’amico. Poi ha sposato una donna che non amava veramente ma che era giusta agli occhi della società, infine ha ceduto all’unico impulso che non ha saputo controllare e si è ritrovato con una figlia illegittima di cui non era consapevole… l’evitare il suicidio dell’amico non è da considerare, nessuno credo potrebbe giungere a tale rivelazione solo da una lettera che nemmeno conosciamo, e per quanto riguarda Vanessa, con lei non ha fatto assolutamente nulla di male, sono le ingiurie degli estranei a coinvolgerla nei suoi tormenti, quindi se osservi bene, Tommaso non è altro che il prototipo della vittima sociale, una sorta di Elena di Troia o di Medusa. Nonostante la sua ricchezza vive in una gabbia: la famiglia lo vuole alla guida dell’impero, istruito e ben educato; la società lo vuole come garante del loro futuro, un condottiero capace che sappia gestire le proprie risorse in modo da poter garantire lavoro e futuro all’intera comunità del paese; le regole morali e quelle cattoliche, lo vogliono padre di famiglia sposato ad una moglie per bene, rispettabile e fedele… non ha niente di suo- disse, e a quel punto, con un’intuizione istintiva io non so se sorpresi più lei o me stesso. -Tranne il pensiero- dissi. Felona si soffermò a riflettere, poi sussurrò -tutto ha inizio con una scelta- e io la guardai pensieroso mentre proseguiva nella sua indagine psicologica -Demetrio era il suo pensiero- rivelò. -O ciò che meglio lo poteva rappresentare- corressi io -tradire Demetrio è come aver tradito il suo pensiero, credi che sia qui l’origine del suo senso di colpa?- Scosse il capo -lui non ha tradito Demetrio, ha tradito se stesso rinunciando di accettare ciò che era, e da quel momento ogni sua scelta è stata condizionata dai timori di non sapere più che cosa voleva veramente, perché in realtà ciò che cercava era di compiacere gli altri… lui è la vittima- concluse. -Ma nella grotta- azzardai io -lui non è né vittima né carnefice, lui è la bestia, il drago…- -Perché lui non è consapevole della sua condizione, o meglio, la rifiuta e il modo migliore per sopprimerla è divenire lui stesso il drago da sconfiggere-. -E quindi si crea tutti i nemici possibili che lo possano sconfiggere?- -No, lui vuole combattere i suoi nemici, perché nella condizione bestiale prevale l’istinto, e lui è convinto che il nemico sia all’esterno. Non sa che per vincere deve sconfiggere se stesso-. -Quindi le sue parole conclusive, sono una minaccia. Demetrio è stato l’inizio di tutto e Demetrio sarà la fine: “Lo sta minacciando”- affermai. -Sembrerebbe così- confermò Felona. -E così lo andrà a cercare- supposi io -ma dove se non sa neppure da dove cominciare?- -Ti sbagli, lo sa da dove cominciare- mi sorprese però lei, quindi indicò il documento e suggerì -vai avanti-. Io esitai solo un istante, poi cominciai a leggere:

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Lo scrigno di cartone… “…Quando ci si ritrova improvvisamente soli e si contempla in silenzio il fallimento della propria vita, non sono molte le alternative che si prospettano e devo ammettere che in quegli ultimi giorni passati a Casterba, più rari erano i momenti per cui avessi desiderio di vivere piuttosto che quelli per cui desiderare morire, e meno ancora rari quelli in cui desiderassi non essere nemmeno mai nato. In una sua canzone Franco Battiato diceva che “più si invecchia e più affiorano ricordi lontanissimi”, forse però questi ricordi avevano bisogno di forti traumi per riaffiorare. Stavo avendo comunque motivo di constatare che era così e in quei giorni molti erano i ricordi di un’infanzia serena, tra cui quel giallo ocra che un tempo mi aveva fatto credere di essere morto e non essermene accorto. Forse il mio più intenso desiderio era proprio che quella fosse la realtà, ma il dolore che provavo era troppo forte perché potesse appartenere ad un morto, ad uno spettro o a una fantasia. Se fossi morto in quell’età, tutto ciò che avrei potuto continuare a vivere, seppure per l’eternità, sarebbero stati solo i ricordi e le esperienze fatte fino a quel punto. Così non potevo fare altro che accettare la verità di una realtà fata di dolori, sbagli e assurdità di cui ora pagavo il prezzo con la solitudine. E ormai poco mi importava che la gente del paese mi osservasse per ciò che ero, così non avevo più nemmeno bisogno di fuggire da Casterba, dove ero rimasto nella mia casa vuota dopo che Anna se ne era andata portandosi via nostro figlio e nelle mie passeggiate solitarie nel parco, giacché la gente cercava di evitarmi limitandosi a salutarmi per una finta cortesia quando mi incrociava, ma soprattutto io cercavo di evitare loro, il mio pensiero tornava sempre più spesso a Demetrio, ai suoi spiriti e alle sue filosofie che mi avevano corrotto la mente e sconvolto il cervello, e lentamente il mio odio e la mia voglia di vendetta giungevano a distrarre il desiderio di non essere mai esistito con la sostituzione che era lui che non avrebbe mai dovuto esistere. Avrei voluto andarlo a cercare, ma non sapevo da dove cominciare, finché un giorno, in una sera di ottobre mentre il sole calava sulle pianure quasi paludosi di Casterba e io osservavo seduto su una panchina del mio parco i riflessi rossi sulle acque del fiume, una figura si avvicinò a me e con cautela e discrezione si fermò a guardarmi. Alzai lo sguardo e dopo tanti giorni di sofferenza, provai finalmente un minimo di sollievo. -Vanessa- esclamai -che ci fai qui?- La ragazza mi propose un sorriso amareggiato -sono venuta a salutarla- mi confidò. -Salutarmi? Perché, te ne vai?- le domandai. Lei annuì controvoglia e io restai immobile ad ascoltare quel sollievo svanire. Intorno a noi c’era il vuoto, non c’era nessuno, avrei dovuto dirle di andarsene prima che qualcuno ci vedesse assieme tornando ad alimentare quelle voci che impedivano così perfino ad un uomo di poter avere un’amicizia sincera. Ma il genere umano era così: era più facile e più divertente vedere la malizia nelle altrui forme piuttosto che la sincerità. Invece la invitai a sedere vicino a me, perché sapevo che doveva dirmi qualcosa e allo stesso tempo sapevo che quello sarebbe potuto essere il mio ultimo momento di serenità. -Mi trasferisco. I miei mi hanno trovato un appartamento a Venezia e pensano che per me sia meglio così- disse. Non risposi, ma comprendevo che il meglio per lei era di allontanarsi da questi luoghi maledetti dove le voci non potevano essere fermate altro che con un atto di odio, così come era stato per Virginia con Demetrio. -Capisco- mi limitai a dire dopo un po’ pensando che era meglio saperla lontana ma senza risentimento nei miei confronti, piuttosto che vicina ma piena di rancore. Vidi la sua espressione farsi triste -io ho cercato di fare in modo che la gente…- non le permisi di andare avanti perché temevo una crisi di pianto. -Non devi preoccuparti Vanessa, non è colpa tua. Le persone sono fatte così. Sono piene di limiti e per non osservare ciò che li rende peggiori di noi evidenziano i difetti degli altri. È sempre stato così e non cambierà mai. A me importa solo che noi due sappiamo qual è la verità- la confortai e lei mi guardò con un sorriso sincero che avviò pure in lei una necessità di appoggio nei miei riguardi. -Se può farla stare meglio, i miei genitori si fidano di me e non credono alle dicerie della gente, è solo che loro…-

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Le presi una mano, ma subito, rendendomi conto che quel gesto poteva sembrare dare conferma a ciò che qualcuno avrebbe voluto che fosse, la ritrassi -lo capisco- la rassicurai, poi cercai di cambiare discorso, e non so quanto ne potessi essere contento. -Eri venuta per dirmi qualcosa?- Sospirò, come incerta se dover andare avanti o rinunciare, ma poi realizzò che in fondo quella era la ragione per cui aveva azzardato ad incontrarmi, rischiando di alimentare di nuovo i pettegolezzi su di noi. -È per mio zio- disse. La mia espressione si rabbuiò e lei notò il mio difficile controllo dei nervi. Ebbi l’impressione che si ritrasse da me e subito compresi che se Demetrio aveva compromesso ogni mia conformità, lei non ne aveva nessuna colpa e quindi non era con lei che dovevo adirarmi. Così respirai e ritrovando la calma la guardai sorridendo. -Va bene, ti ascolto- le dissi con una cortesia che non credevo di poter avere ancora in qualche luogo del mio animo astioso. -È che lei mi ha chiesto spesso di lui, e ora so che non vorrebbe più sentirne parlare. Mio zio però mi ha detto che spesso, chi aspira ad un bene superiore deve saper accettare che tutto ciò che riceverà in cambio, sarà solo odio e incomprensione-. La guardai con meno accondiscendenza -voleva che mi dicessi questo?- -No- si affrettò a rispondermi -lui non mi ha mai detto di venirle a comunicare niente. Non mi ha mai spinto a fare nulla e di voi mi ha raccontato solo delle vostre gite sulle rive del fiume. L’unica cosa che diceva di lei, era che avevate una gran bella anima, ma che il tempo l’aveva corrosa-. Non riuscii ad arrabbiarmi e a farla smettere e mentre osservavo i suoi occhi abbassarsi come se avesse compreso di aver detto qualcosa che forse non voleva. Improvvisamente la mia stessa ira cominciava e sciogliersi. In pochi secondi cominciavo a comprendere come quella stessa ira mi stesse impedendo di valutare cose che forse non volevo considerare e come di quei ricordi lontanissimi solo in quel momento mi apparisse il suo sguardo sempre sincero e mai ostile, giungendo a domandarmi quanto colpevole fosse Demetrio più di quanto non lo ero stato io nel tradirlo e, con l’anima che sembrava tornare in pace la invitai a proseguire. -Quando il nonno morì- iniziò allora a raccontare -io aiutai la mamma a mettere in ordine le sue cose e in un cassetto trovai una scatola. Non era niente di più comune di una semplice scatola come quelle in cui si infilano le scarpe, ma a me diede la sensazione di uno scrigno di cartone. Quando l’aprii trovai una grande collezione di lettere. Erano tutte indirizzate al nonno, giungevano da varie parti del mondo e avevano tutte lo stesso mittente…- -Demetrio- sussurrai con un sorriso nel quale non riuscii a percepire la mia malinconia e la mia sincerità. -Non so quante ne avesse scritte, e non so quante volte il nonno le avesse lette, erano sgualcite dalle tante volte che erano state lette e io compresi che quelle erano la compagnia che lui preferiva. Credo che le sue parole scritte fossero molto più gratificanti delle visite che sembravano forzate dei figli vicini. Io non sapevo che un giorno mio zio sarebbe tornato, ma nascosi la scatola e di tanto in tanto ne leggevo una. Non credo di aver mai trovato tanta poesia e gratitudine in nessun testo letterario. Una volta, nei pochi giorni che ci incontrammo, io rivelai questo segreto a mio zio…- -Si arrabbiò?- le domandai, ma solo per permettergli di prendere un po’ di fiato perchè sapevo che Demetrio non avrebbe potuto farlo. -No- rispose infatti scuotendo il capo -anzi, ne sembrò felice, poi mi chiese di portarle con me il giorno dopo-. -E che successe?- le domandai a quel punto incuriosito. -Lui le prese in mano e come se sapesse il contenuto di ogni una, parve rivivere i momenti in cui le scriveva. In ogni lettera lui descriveva i luoghi intorno a sé e che fossero deserti, monti, praterie, laghi, mari oceani, o anche paludi, aride steppe o deserti ghiacciai, lui sapeva descrivere tutte le meraviglie che ci vedeva in ogni angolo visitato… erano scritti dalla grande suggestione e dal grande fascino…- ricordai a come mi aveva descritto il suo modo di attendere il consenso degli spiriti della natura per scattare le sue foto, e potei immaginare la poesia dei suoi scritti. Vanessa intanto continuava. -Poi mise le lettere sul tavolo e mi disse che avrei dovuto sceglierne una. Io osservai a lungo, quindi ne presi una ma lui le aveva capovolte in modo che non potessi vedere da dove proveniva, disse che

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quella che avrei scelto era quella che il destino avrebbe voluto che mi appartenesse… poi, una volta eseguita la scelta, raccolse le altre e mi disse che avrei dovuto bruciarle. Naturalmente restai sorpresa, ma lui spiegò che quelle lettere appartenevano all’universo ormai, e che bruciandole, sarebbero tornate a chi le aveva ispirate, così che potessero riprendere il ciclo nel ruolo che era loro destinato-. Sorrisi come un bambino che ascolta una bella favola -le bruciasti?- le domandai. -La sera stessa- rispose lei -feci come mi aveva detto. Cercai un luogo all’aperto. Lui disse che avrei capito quale sarebbe stato quel luogo. Inizialmente lo cercai nel mio giardino, ma non provavo alcuna sensazione, così cominciai a passeggiare per la campagna, mi avviai verso le rive del fiume perché sapevo che lui lo apprezzava in modo particolare, quindi giunsi al vecchio mulino, lì provai una sensazione di benessere, come se qualcuno mi stesse parlando…- -Le bruciasti lì?- -No, la sensazione era più simile ad un’indicazione, come se venissi spinta a proseguire il mio cammino. Raggiunsi un ponte, lo attraversai e poi… mi diressi verso il bosco-. Provai un brivido. Il bosco era un lato oscuro e come se stessi vivendo quel momento sentii la mia mente consigliarla di andare verso la collina, era lì che avrebbe dovuto andare, ma subito mi ricordai che la collina non c’era più. Su ciò che restava della collina, infatti, stavamo discutendo e prima che io potessi dire qualcosa la sentii concludere il racconto. -Entrai nel bosco e inizialmente provai freddo-. Temetti che Demetrio l’avesse ingannata mandandola in quel luogo dove gli spiriti malvagi l’avrebbero contagiata, spingendola poi ad avere su di me quell’effetto che avrebbe contribuito al mio declino. Allora mi resi conto che rischiavo di cedere nuovamente al mio delirio e ricercando la calma tornai ad ascoltarla. -Per un po’ ho avuto paura e ho pensato che avevo mal interpretato le indicazioni, pensai di tornare indietro, ma poi vidi un’insenatura dove il fiume, tagliando il bosco con due successive curve, appariva come un serpente che strisciava tra gli alberi e lì vicino ve ne era uno con delle possenti radici che emergevano dal suolo. Mi avvicinai senza percepire ostilità, poi un soffio di vento spazzò via le foglie cadute e davanti a me si presentò una roccia triangolare. Mi chinai e per un momento tutto intorno si fece silenzio, come se la natura intera mi assecondasse. Posai la prima lettera e con il fiammifero che avevo portato accesi il fuoco. Le bruciai una ad una e a ogni fuoco la sensazione di freddo diminuiva e l’ombra del bosco pareva svanire, divenendo sempre più luminosa. Alla fine restai ferma in contemplazione. Nel bosco si udivano i passeri cinguettare, i grilli cantare e lo scorrere del fiume lento sussurrare. Fu una grande emozione…- -lo immagino- non potei che ricordare quei momenti di emozioni vissuti tanti anni fa. -E la lettera che hai tenuto per te? Di che cosa parlava?- -Di una grotta- disse, e improvvisamente tutto mi fu chiaro…

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Patti col diavolo? Osservai Felona e, più che riflessiva, per la prima volta la vidi stanca. -Vuoi che vada avanti?- le domandai, ma la sua era un’espressione assorta, come se stesse sognando a occhi aperti. L’idea di conoscere il contenuto della lettera era per me allettante, ma io stesso, dopo quell’estenuante giornata, mi sentivo troppo stanco e per una ragione inconscia, la sua risposta non mi sorprese. -No, non sono riuscita a seguire bene quest’ultimo capitolo, mi sento stranamente debole, ho voglia di riposare. Andiamo a dormire, continueremo domani- affermò, e io acconsentii. Dormii come un ghiro e non credo che la mia sia stata una notte agitata, anche se prima di addormentarmi ebbi come la sensazione che a provocare la nostra stanchezza non fosse stato il lungo camminare che avevamo fatto tra strade sterrate e percorsi lungo le rive di un fiume, ma piuttosto quell’apparente salto temporale in cui entrambi ci eravamo sentiti come bambini, come se il viaggio reale fosse stato quello, e il percorso a ritroso nel tempo fosse stato così estenuante da privarci di ogni energia. Mi svegliai che il sole era già alto, come al solito, e mi sentivo riposato, ma già temevo la sfuriata di Felona che probabilmente mi stava attendendo con l’ordinazione del pranzo già fatta. Mi vestii alla svelta e rimasi sorpreso quando, scendendo verso la sala d’attesa, non la incontrai ad attendermi. Mi preoccupai e subito domandai al custode se l’aveva vista. Eravamo gli unici ospiti fissi in quei giorni e il custode non aveva difficoltà a capire a chi mi riferivo e quando mi rispose che non era ancora scesa e che le inservienti ai piani si stavano lamentando perché sulla porta della sua stanza stava ancora appeso il cartello “non disturbare”, presi il telefono e digitai il numero della stanza. Ascoltai il telefono suonare per un po’, quindi sentii una voce assonnata rispondere. -Pronto?- le sentii dire quasi con fatica e mi resi conto di averla appena svegliata. -Felona, stai bene?- le domandai. Dovette osservare l’orologio da qualche parte e la sentii imprecare. -Accidenti com’è tardi-. Cercai di tranquillizzarla -avanti non è successo niente, un po’ di riposo sovrappiù non può farti male. Senti vuoi che ordini qualcosa da mangiare mentre ti vesti?- non la sentii dubitare il che invece procurò dubbi in me. -No, non c’è tempo, puoi salire?- mi domandò. -Sì, certo, arrivo subito- risposi. Chiusi la comunicazione e osservai la faccia divertita del custode e, nell’intuizione dei suoi pensieri la mia voglia di prenderlo a pugni tornò a farsi più forte in me. Lo ignorai e salii le scale per andare da lei. Bussai -è aperto- sentii dire. Entrai e ascoltando lo scroscio dell’acqua intuii che stava sotto la doccia. Attesi finché non sentii l’acqua chiudersi -tutto bene Felona?- le domandai. Uscì dal bagno con un asciugamani avvolto sulla testa e cominciò a vestirsi. -Perché non mi hai svegliata prima? Io odio perdere tempo- rispose irritata. -Forse perché non mi sono svegliato io prima?- le risposi. Mi guardò attraverso lo specchio -già, in questo più che in ogni altra condizione non sei per niente affidabile- disse. Trovai la situazione divertente -almeno hai dormito bene?-. Mi guardò contrariata -fin troppo- rispose adirata, poi, quasi con timore aggiunse -sei riuscito a sognare questa notte?- -Niente sogni, come al solito- risposi fiero del mio sonno senza intrusi, ma subito vidi il suo timore tramutarsi in paura. Posò l’asciugacapelli che ancora la sua chioma era umida e l’effetto con cui tale condizione le lasciava cadere i capelli sulle spalle la rendeva affascinante e mi fece provare un inebriante e piacevole desiderio, non fosse stato per quello sguardo preoccupato, forse avrei cercato di approfittarne. -Ricordi cosa ti ha detto il custode del cimitero ieri quando ti ha visto?- Riflettei, ma non avendo avuto molta stima per quell’uomo non avevo memorizzato gran che delle sue parole. Strinsi le spalle -ha detto tante cose- risposi con superficialità. Lei riprese a vestirsi velocemente -ha detto che tu sembravi uno di loro- mi ricordò.

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Sorrisi trattenendo una risata -ah sì, è vero, ha detto così, solo che non è vero, io non sembro così vecchio come invece appare lui-. -E se non si fosse riferito all’età?- mi fece notare, e la mia spavalderia svanì. -E a che altro avrebbe potuto riferirsi?- le domandai, ma lei mi guardò come se la risposta fosse troppo complicata e invece che spiegare mi confessò -non ho fatto sogni questa notte, e io sono una che sogna sempre-. Restai perplesso, ma solo per un po’, poi ripresi il mio umorismo -e solo per questo temi di diventare come me? Avrai avuto semplicemente un sonno pesante come accade sempre a me. Ieri eravamo entrambi molto stanchi…- -Beh io non voglio essere come te…- mi aggredì, e io pensai che la sua reazione era eccessiva e che qualcosa in lei si stava facendo piuttosto preoccupante. -Non mi sembra il caso che tu ne faccia un dramma- cercai di riconciliare la calma. Nel frattempo lei aveva indossato un nuovo paio di jeans e una maglietta con degli strani disegni che nemmeno doveva aver valutato se idonea o no, ma che probabilmente era stata la prima che aveva trovato. -Devo tornare laggiù- disse. -Dove?- le domandai. -Al cimitero-. -Per fare che?- -Ho pensato a qualcosa mentre stavo sotto la doccia, e devo capire cosa voleva dire quel vecchio-. -Perché? Temi che la sua allusione potesse avere qualcosa di differente da ciò che era?- -Non lo so, ma è quello che voglio scoprire-. -E non vuoi mangiare qualcosa prima?- -Non ho fame-. Pochi minuti dopo eravamo sulla strada per Casterba, e senza che il nostro viaggio fosse interrotto da discussioni, mentre entrambi ci inoltravamo nei nostri pensieri, quelli di lei relativi a ciò che doveva scoprire e i miei relativi al dubbio di voler sapere che cosa voleva scoprire, giungemmo davanti al cimitero dove trovammo il custode nello stesso punto dove lo avevamo lasciato il giorno prima, appoggiato alla stessa lapide con la sua chitarra a suonare accordi stonati. -Buon giorno mia splendida principessa- salutò Felona, poi guardò me, forse attendendosi una mia reazione, ma io restai impassibile. -Che cosa vi conduce nuovamente nella mia dimora?- domandò. -Quando è morto Marco?- domandò subito Felona. -Nel 1997- ripose senza esitazione il giocatore. -Quanti anni aveva?- Il vecchio la guardò e nei suoi occhi non c’era sospetto ma piuttosto intuizione -puoi scoprirlo da sola principessa- le disse. Io feci un passo avanti -perché non rispondi invece che parlare per enigmi?- Mi guardò, ma senza rabbia o astio nei miei confronti -sai di chi è la lapide su cui sto appoggiato?- mi fece notare, e allora sia io che Felona finalmente ci apprestammo a porgere i nostri omaggi alla salma che ci stava davanti. Credo che il nostro stupore fu lo stesso, sulla lapide vi era un nome a noi noto “–Marco Aplicante 18 - 06 - 1970 – 11 – 08 - 1997 –”, poi sotto, vi era una lunga incisione e osservandola ci accorgemmo che la lapide era piuttosto recente. Io guardai il vecchio -come mai questa lapide appare più in buono stato delle altre? Te ne prendi cura personalmente?- -Niente affatto- rispose con calma il giocatore -è solo che è più nuova. È stata sostituita di recente-. -Che cosa rappresenta la scritta?- domandò Felona. -L’epitaffio? È la sua canzone- ci informò. Io e Felona ci soffermammo a leggere: “È difficile comprendere, più facile giudicare, ma per chi non ha mai provato la sensazione di smarrimento che si prova in un mondo statico, quando tutto nell’interiorità del proprio mondo è in movimento, niente di quanto si possiede, si ottiene o si realizza, può essere sufficiente. L’artista non è colui che si affida al commercio, nell’artista vero non c’è niente di commerciale. La vera arte nasce dalla comprensione di un tormento. Il vero artista nasce con la presa di coscienza

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della propria anima, imprigionata in un involucro che la rende inerme, poiché intorno a sé percepisce prigionieri senza coscienza. Non c’è più nulla per quella dannazione, se non l’atroce grido disperato che l’artista esprime in ogni sua forma. Quando vi capita di domandarvi perché persone che sembrano in apparenza avere tutto, fama, successo, notorietà, ricchezza, e quanto più si voglia aggiungere, finiscano per compiere atti definiti da voi comuni mortali gesti insani, non soffermatevi alla visione di un’esteriorità che limita la comprensione al semplice fattore di ciò che appare, ma cercate di oltrepassare quella invisibile ma spessa barriera che oscura le vostre menti, cercate attraverso le loro opere di penetrare in profondità, esaminate ogni dettaglio di ciò che hanno lasciato, di ciò che hanno fatto, di ciò che hanno vissuto… e allora forse, comincerete a sentire un sussurro, all’inizio vi farà paura e qualcuno fuggirà, ma se saprete sopportare l’iniziale sgomento, il sussurro si farà più limpido e diventerà una voce… ascoltate quella voce finché non la sentirete gridare, finché non sentirete ancora le urla di quelle anime imprigionate nella disperazione di un nulla che avvolge ogni particolare del vivere quotidiano… le sentirete gridare da lontano quelle voci, e non saranno nascoste tra gli oggetti accumulati in tanti giorni d’affanno, non saranno rinchiuse in ville lussuose o macchine potenti, non proverranno da una cifra scritta su banconote né da diamanti stretti da catene d’oro… saranno lì, semplicemente presenti, perché quando le sentirete gridare, non saranno più le voci prigioniere degli altri, ma sarà il sussurro della vostra anima che comincia a mormorare, e già da quel momento, il suo sussurro sarà il grido più feroce che abbiate mai sentito…” Restammo in un silenzio contemplativo, ma poi io fui preso dal mio superficiale distacco nel quale non volevo riconoscere, più che una canzone, un messaggio disperato. -E sperava di diventare un cantante scrivendo queste cose?- dissi. -Piuttosto lungo come epitaffio, è una lapide impegnativa- commentò invece Felona. Il giocatore non sembrò nemmeno aver sentito il mio inutile commento -non credo che fosse la preoccupazione di chi l’ha commissionata- -Chi l’ha fatta incidere? I suoi genitori?- domandò. -Erano due contadini anziani, non sapevano nemmeno che lui scrivesse canzoni- la informò superficialmente. -Allora chi? Tommaso D’amanti?- domandai io. Il giocatore sembrò rassegnarsi alla mia mancanza di deferenza. -Tommaso non ha nemmeno mai fatto visita alla sua tomba se non al suo funerale, presumo non sappia nemmeno dell’epitaffio perché l’ultima volta che l’ho visto qui è stato per incontrare Demetrio, e a quel tempo la lapide ancora non era stata sostituita-. -Allora non può essere stato che Demetrio- espose Felona. Il vecchio sospirò -io non credo che Demetrio sia tornato per un lavoro, ma per risolvere molte questioni. So che andò a trovare i genitori del Canta, forse per raccontargli cose strane relative ai suoi sogni e ai suoi spiriti, forse li voleva solo confortare. La lapide è arrivata qualche settimana dopo la sua partenza. Non so chi sia stato, ma se dovessi azzardare un nome, direi di sì, è stato lui-. Mentre ascoltavo osservai Felona che sembrava assorta in una specie di pensiero matematico. -Aveva 27 anni- disse dopo aver calcolato l’età del defunto. Vidi il vecchio sorridere -già, come le tre j eh? Curioso vero?- -E lui amava le tre j vero?- disse Felona mentre io non capivo di cosa stavano parlando. -Ehi, che diavolo sono queste tre j?- -Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, morti tutte e tre a 27 anni- rispose in modo autonomo come se non se ne rendesse conto Felona. -Per non dimenticare il più famoso di tutti- disse il giocatore. -Robert Leroy Johnson- annunciò Felona -lui stesso morto a 27 anni-. -Già- confermò il giocatore e subito dopo iniziò a suonare la chitarra, ma in un modo che di stonato non aveva nulla e la musica che propose pareva quasi ammaliante, e quando concluse, né io né Felona sembravamo più aver domande da fare. Ovvero, io di domande ne avevo molte, ma non erano al chitarrista che le dovevo porre ma alla mia compagna d’indagine che, senza più chiedere nulla al

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vecchio ma con l’aria sconvolta si voltò e si apprestò a uscire dal cimitero. La seguii e quando fummo fuori la vidi barcollare e subito mi apprestai a sostenerla. -Ehi, tutto bene?- le domandai, ma era evidente quanto fosse scossa. -Sì, tutto bene- rispose, ma io non le credevo. -Insomma, mi vuoi spiegare che cosa è successo la dentro? E chi è questo Robert Johnson?- La sua espressione si fece di una serietà mai vista -è stato un chitarrista blues vissuto tra gli anni 30 del secolo scorso, alcuni dicono il più grande di tutti, e su di lui circolano leggende inquietanti- parve non voler aggiungere altro, ma ormai doveva aver compreso che qualunque cosa avesse a che fare, o che si ritenesse dovesse avere a che fare con il nostro caso doveva essere condivisa. -E che cos’ha a che fare con noi?- la incalzai. Si fermò, combattuta dal non voler condividere la sua intuizione e la comprensione di non potermene tenere all’oscuro. -Robert Johnson visse in un modo piuttosto travagliato, si sposò a diciotto anni con una quindicenne che l’anno successivo morì nel dare alla luce un figlio, da quel momento diventò un girovago, un donnaiolo e un ubriacone. Una leggenda vuole che la sua passione per la musica lo abbia condotto a stringere un patto col diavolo che in cambio della sua anima gli avrebbe fornito le qualità per suonare la chitarra come nessun altro-. -E tu credi a queste stupidaggini?- le dissi, ma la mia voce tremava come se io stesso in realtà stessi valutando la consistenza di tali evenienze. -I suoi testi parlavano di spettri e demoni, e tal volta facevano esplicito riferimento al suo stesso patto col Demonio. E poi c’erano i racconti dei vari musicisti che avevano denotato la sua iniziale goffaggine nel suonare la chitarra, straordinariamente mutata nelle ultime apparizioni. Inoltre si racconta che Johnson scomparve dopo la morte della moglie per un anno, e fu dopo quel periodo che ricomparve dotato di quel mostruoso talento. Le voci dell’epoca tramandano di un incontro avvenuto ad un crocevia sperduto allo scoccare della mezzanotte…- Risi sarcasticamente come a voler esorcizzare quel racconto che già mi faceva rabbrividire -chissà perché sempre a mezzanotte- fu la formula che usai per il mio esorcismo, ma lei non si interruppe -…Un incontro con un misterioso uomo nero che gli avrebbe concesso il talento in cambio della sua anima…- ribadì. Io la osservai in silenzio per un po’ -non vorrai introdurre l’elemento demoniaco in questa assurda vicenda vero?- Sembrò ancora riluttante a voler proseguire, ma poi, forse per punire la mia costante insistenza nel voler essere reso partecipe dei fatti, lasciò da parte ogni riluttanza e aggiunse quel particolare che più di tutti gli altri avrebbe dovuto sortire l’effetto richiesto, e sicuramente, il conseguente mio sconvolgimento. -In realtà la versione ufficiale racconta che nel suo vagare Johnson avrebbe incontrato un misterioso bluesman di nome Zinneman che gli avrebbe fatto da maestro…- la nuova versione cominciava a piacermi di più e già mi stavo per rilassare, poi però Felona continuò la storia -la cui figura tuttavia risulta celata da un velo misterioso in quanto l’unico dato riguardante la biografia di questo misterioso insegnante riguardava la sua abitudine di suonare nei cimiteri, tra le tombe, al punto da essere riconosciuto come emissario del Demonio-. A quel punto compresi in che modo Felona temeva di collegare la vicenda del nostro autore con il misterioso chitarrista del nostro cimitero, e istintivamente mi voltai a osservare tra le tombe del camposanto, rabbrividendo nello scorgere il profilo del giocatore che strimpellava la sua scordata chitarra, a volte stonato e altre volte, assolutamente armonizzato. Felona si incamminò e io sconvolto la seguii. -Insomma Felona, vorresti veramente insinuare che quell’uomo potrebbe essere un emissario del demonio?- -Certo che no, o meglio non ci voglio credere, ma sai quanti sono i grandi musicisti morti all’età di 27 anni? Brian Jones fondatore dei Rolling Stones, Hendrix, Morrison, Joplin, Kurt Cobain, Amy Winehouse… tutti con una loro particolare storia, una particolare vita…- -Ma quelli hanno avuto la notorietà che avevano cercato, Marco Applicante per cosa si sarebbe venduto, per un’epigrafe in un cimitero abbandonato che nessuno avrebbe mai letto?-

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-Ti dimentichi di noi- mi rispose contrariata. -Cosa?- mi mostrai incomprensivo. -Noi l’abbiamo letta giusto?- -Sì, ma questo non significa nulla. Non puoi paragonare noi alla massa del grande pubblico che seguì tutti quei grandi artisti-. -Forse perché tu non hai ben compreso le parole di quell’epigrafe. Un artista non cerca veramente la fama, ma la possibilità di esprimersi, anche se per pochi…- -Ma se lui sapeva che non sarebbe mai divenuto un grande artista…- cominciai a sintonizzarmi col pensiero di Felona che mi guardò e annuì. -L’unico modo che gli restava per esprimere il suo messaggio era divenire parte di quel famigerato club-. -Ma lui aveva fatto leggere solo a Tommaso il suo testo, e probabilmente sapeva che Tommaso non avrebbe saputo interpretare la sua volontà…- -Tommaso no…- disse allora Felona rivelando ora la sua vera paura -ma uno come Demetrio sì-. -E quando Demetrio sarebbe venuto in possesso di tale scritto se nemmeno Tommaso ormai ne conservava più la copia?- domandai già intuendo la risposta con la contemporanea consapevolezza che non avrei voluta saperla. -Il sogno- confermò infatti con prontezza Felona -quando Demetrio racconta il sogno dell’incidente lui dice che stava sul treno nel sogno, con un foglio in mano-. -Demetrio avrebbe ricevuto il testo in quel sogno?- scossi il capo sconvolto -questo non possiamo accettarlo Felona. Né te né io. Non possiamo permetterci di uscire dalla nostra razionalità-. -Lo so, ma ormai non credo che siamo più in grado di comprendere quanta razionalità ci sia ancora in noi- le sentii dire, poi, come un macabro sigillo sui nostri tormenti, sentimmo il giocatore cominciare a cantare e a suonare, e ciò che proveniva dall’interno del cimitero era una canto affascinante e allo stesso tempo macabro. Felona guardò verso il piccolo cimitero e impallidì -andiamo via- disse, e io, senza indugi l’assecondai.

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Le cattedrali di marmo Non avevamo fatto null’altro quel giorno. Non avevamo camminato per nessuna via o campagna di Casteraba; non avevamo visitato monumenti o edifici; non avevamo nemmeno letto nessun altro passaggio del documento. Ce ne eravamo tornati all’hotel ignorando perfino lo sguardo irrisorio dell’antipatico custode che ci osservava discutere animatamente pensando nella sua limitata concezione a una lite tra amanti, e la sera era calata presto. -Non possiamo accettare l’idea di una vita parallela ad un sogno, in fondo il custode ne è una dimostrazione: è reale ed è addirittura uno dei protagonisti dell’assurdo racconto- continuavo ad insistere io per scacciare i troppi tormenti che l’accettazione dell’alternativa possibilità mi avrebbe condotto a dover sopportare, ma lei, pur ammettendo l’impossibilità di simile oggettività, tornava insistentemente ad inserire la costante del sogno come inevitabile punto di contatto tra due realtà apparentemente separate e impossibili da unire nell’unica plausibile spiegazione di tutti gli eventi vissuti, il che riconduceva sempre alla medesima conclusione: stavamo sognando o stavamo vivendo nella realtà? E se stavamo sognando, di chi era il sogno e, quindi, chi era l’unico essere reale di quel sogno, dal momento che il sogno poteva essere di una sola persona? Per un attimo, o meglio, per molto più di un attimo, temetti veramente che la pazzia fosse l’unica vera spiegazione a tutto. -Ma come potrebbero i sogni intervenire sulla realtà? È materialmente impossibile- avevo detto quindi ad un certo punto dell’animata conversazione per cercare un punto d’incontro tra noi che ci facesse rendere certi della nostra concreta materialità, e in quel mentre, finché il sole calava, dalla veranda sulla quale discutevamo osservammo senza particolare interesse una macchina che stava parcheggiando nell’area riservata all’hotel. La guardammo solo perché da quando eravamo lì non avevamo visto nessun altro cliente fermarsi per pernottare e immaginavamo che a quell’ora un’auto lussuosa poteva appartenere solo a qualche affarista che si trovava in zona per viaggio di lavoro, pensando, almeno io, che quella notte avremmo avuto un ospite in più nell’hotel. -Ci sono persone che predispongono il loro futuro su ciò che sognano- mi sottrasse quindi alla momentanea distrazione la voce di Felona senza impedirsi di esaminare l’uomo che scendeva dall’auto appena giunta. Io stesso tentai di farmi un’opinione del tutto disinteressata dell’individuo, solo per staccare la mente dai troppi tormenti, pensando che doveva trattarsi di una sorta di rappresentate, uno di quelli che girano il mondo per lavoro e sono costretti a indossare abiti eleganti e scomodi anche in piena estate. Portava camicia bianca e giacca scura che non doveva essere molto rinfrescante. I pantaloni erano abbinati alla giacca a formare un completo raffinato e sicuramente ricercato. Ciò che mi parve stonare fu il cappello nero che poco si addiceva a mio avviso ad un agente di commercio. -E nessuno glielo impedisce, ma credere in una cosa non significa renderla reale- risposi tornando a concentrarmi su di noi usando tutto il mio cinico realismo disinteressandomi dell’uomo che si avvicinava. -È come noi le interpretiamo e dalle nostre conseguenti azioni che le rendiamo concrete- rispose lei mentre il suo sguardo invece restava fisso sull’ospite -così come qualcuno è disposto a combattere una guerra in nome di un dio di cui non ha cognizione né conferme, non è molto diverso- continuò senza deviare la visuale, tanto che l’uomo dovette percepirlo il suo insistente sguardo e passandole accanto la salutò portandosi la mano sulla tesa del cappello accennando il classico gesto di chi se lo sta per togliere in segno di rispetto, ma senza realmente levarlo. Felona annuì contraccambiando il saluto con un altro accennato gesto di consenso, mentre io pensavo che il cappello che l’uomo in nero non aveva voluto togliere, serviva a mascherare una probabile calvizie. -Infatti, quel dio, come i sogni non sono dimostrabili- riportai la sua attenzione sull’argomento. -Ti sbagli, dei sogni abbiamo cognizione, e al contrario di un dio presunto, essi sono reali, e magari sono proprio loro il ponte tra la nostra incognita cognizione di dio-. L’uomo ci superò ed entrando nella sala di ricevimento dell’hotel scomparve alla nostra visuale mentre io restavo indifferente, a pensare al ponte che Tommaso non riusciva a superare. -La tua allusione al ponte non è casuale vero?- -Assolutamente no. Forse cominciamo a capire il vero timore di Tommaso-. -E cioè quello di accettare un dio che domina il nostro destino e che programma guerre e catastrofi?-

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-No, quello di accettare che un dio simile non esiste-. -Ha paura di scoprire che siamo solo il frutto di casualità chimiche?- -No, ha paura di scoprire che dio non è ciò in cui gli hanno insegnato a credere, ma qualcosa di totalmente diverso. Qualcosa che forse non sa nemmeno che noi esistiamo e che non si preoccupa dei nostri guai. Qualcosa di così vasto che il nostro pensiero a confronto è solo una virgola in un enciclopedia. Ha paura di dover rinunciare a tutte le sue certezze e dover perdere ogni cosa, perfino la ragione, così come gli sta accadendo-. -E per fare questo, ha bisogno del diavolo? Quello esiste?- -Così come il bene e il male e ogni condizione per cui sia necessario un contrario per essere riconosciuta. Quel Dio da cui fugge però non ha contrari. Quel Dio è ogni cosa, e lui, rifiutandolo accetta il dio degli uomini e conduce il demonio nei suoi sogni…- -Ma se Marco gli consegna il testo della canzone nella realtà, non può essere il demonio dei suoi sogni…- la guardai con sgomento e con altrettanto sgomento mi fissò lei. -Dementrio parla di un foglio che tiene in mano durante quel sogno, e si presume che tale foglio sia il testo della canzone di Marco…- -Vuoi dire che il Canta gli consegna il testo nel sogno?- -No, Marco non c’è nel sogno, lui è reale. Nel sogno c’è Tommaso…- -E quindi sarebbe stato Tommaso a consegnargli il testo?- -Lui non lo accetta, dopo qualche giorno già se ne dimentica, lo consegna a qualcun altro scaricando ogni responsabilità… e se fosse Demetrio il demonio dei suoi sogni?- disse a quel punto. -Un demone che si lascia martirizzare?- obbiettai io. -Il diavolo è un ingannatore- mi fece notare. -Ma tutto ciò che Demetrio ha fatto, sembra avere come scopo la rivelazione di una verità…- -Ma noi non sappiamo quale sia la verità che lui vuole rivelare-. -E il guardiano del cimitero? Il giocatore, cosa c’entra?- -È stato a lungo con Demetrio nei giorni del suo ritorno ricordi? Ce lo ha detto lui-. -Avrebbe stretto un patto con lui?- -O lui è il diavolo, e a stringere il patto è stato Demetrio-. -Ma per quale ragione?- -Forse per un atto di disperazione. Lui è pronto a rinunciare all’amore di Virginia per permetterle di comprendere qualcosa che ancora non vede, ma non cede al tentativo di risvegliare il vecchio istinto di Tommaso…- -E si venderebbe l’anima per questo?- -Per lui sono cose importanti, ricordi quando aveva detto a Tommaso che c’era molto di più in gioco della vita? Lui è convinto che vi sia una condizione più alta e per impedire che questo sfugga alle due persone che gli sono più care, è disposto a rinunciare a ogni cosa-. -Fino ad accettare di dannarsi per l’eternità?-. -C’è qualcosa che va oltre nel sacrificio. Il martirio è l’estrema rinuncia, e qualcuno ha detto che più alto è il prezzo che sei disposto a pagare, più grande sarà la ricompensa che riceverai. Se paghi con la vita, potresti avere in cambio la vita eterna. Così diceva Osho. Demetrio potrebbe andare oltre…- -E chi è adesso questo Osho?- domandai esasperato. -Un mistico e maestro spirituale del secolo scorso i cui insegnamenti enfatizzavano l'importanza della meditazione e della consapevolezza, dell’amore, della celebrazione, e della creatività, qualità che egli riteneva soppresse dall'adesione a sistemi di credenze statici come le tradizioni religiose. Fu, infatti, un forte critico delle religioni organizzate e dei sistemi di potere ad esse legati. Per screditarlo gli si attribuirono una serie di scandali, ma il suo pensiero ha finito comunque per influenzare grandi masse…- -Va bene, va bene, ho capito- la interruppi stanco di conoscere ogni volta nuove identità troppo coinvolgenti per ciò che stavo attraversando in quel periodo. Ricordo quindi che restammo in silenzio a lungo e un po’ mi sentii colpevole di quel momentaneo tormento che ci avvolgeva. -Non abbiamo letto nulla oggi del nostro racconto, che ne dici, proviamo ad andare avanti?- dissi dopo un po’ per interrompere il fastidioso silenzio.

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-Credo che non abbiamo altre alternative-. -Bene- dissi allora, e leggermente agitato iniziai a leggere: “le cattedrali di marmo”. …-Hai con te quella lettera?- le domandai con l’ansia che mi faceva dimenticare parte del mio auto controllo che forse poteva generare sospetti sulle mie invenzioni. Ma Vanessa non parve notare tale particolare e al contrario sembrò felice di assecondarmi. -La porto sempre come fosse il mio portafortuna, un amuleto avrebbe detto lui-. -Credi che sarebbe indiscreto se volessi leggerla?- le domandai ricomponendo la mia sincerità. Lei mi guardò un po’ sospettosa, ma non credo che fossero sospetti su di me, quanto piuttosto sulla sacralità della lettera. -Forse le regole delle buone maniere mi impedirebbero di far leggere la posta altrui, sebbene io per prima le abbia infrante. Forse, lasciare la lettera nelle mani di altre persone potrebbe apparire profanatorio…- disse, e per un momento mi sentii colto da una sensazione di smarrimento temendo che non avrei mai saputo cosa stava scritto nella lettera perché Vanessa ne era divenuta custode gelosa e soprattutto leale, come se il suo fosse un tesoro da difendere così come i cavalieri templari difendevano le loro reliquie. Ma poi compresi che il suo era solo un atteggiamento di rispetto verso suo zio, e per il nonno cui era indirizzata la lettera e verso il quale lei aveva avuto sentimenti di vera stima, e per la lettera stessa, quando per farmi comprendere le sue nobili norme di devozione aggiunse -ma non credo che potrei commettere nessun sacrilegio se la lettera la leggessi io. Per lei può andar bene?- mi propose. La guardai riconoscente -ne sarei onorato- dissi con sincerità. La vidi frugare nella borsa ed estrarre un astuccio di metallo che appariva una sorta di scrigno il cui contenuto si mostrava per lei più prezioso di qualunque gioiello. Osservai i suoi gesti come se assistessi ad un rituale, vedendo le sue delicate dita far scattare prudentemente la chiusura dell’astuccio, aprire con un lento gesto il prezioso forziere mentre gli occhi si illuminavano come se davanti a loro apparisse il più grande dei diamanti, prendere con delicatezza il foglio sul quale erano evidenti i segni del tempo e l’usura delle molteplici occasioni in cui era stata esaminata come se si trattasse di una fragile reliquia, e poi dispiegare con attenzione quella che sembrava quasi una pergamena. Nel disvelarsi del foglio, vidi apparire i segni calligrafici che osservati dalla distanza da cui li potevo solo parzialmente vedere apparivano geroglifici di altri tempi, poi, mentre i riflessi arancio del sole si facevano più intensi, cominciai ad ascoltare la sua voce che come il canto di un angelo recitato in un contesto sacro, sembrava portarmi fuori del tempo. “Ciao” esordiva Demetrio nella lettera, e poi non aggiungeva nessun aggettivo tipo papà, genitore o vecchio, né osava scrivere il suo nome come fosse superfluo giacché il padre sapeva che a lui era indirizzata quella missiva, non immaginando che magari un giorno anche altri l’avrebbero letta. “Mi trovo oltre il quarantacinquesimo grado sud, tra le acque del lago General Carrera, nella Patagonia del Cile, tra le pareti di quelle che qualcuno ha giustamente definito “Cattedrale di marmo”, un ambiente unico composto da un dedalo di caverne di marmo parzialmente coperte d’acqua. l’azzurro cobalto del lago, riflesso tra le pareti delle caverne crea uno scenario irreale, suggestivo e fiabesco. Qui dentro il cielo prende consistenza nel marmo e la terra si unisce ad esso in un turchese azzurro verde, dando l’impressione che ogni cosa, cielo, terra e mare, siano un'unica consistenza; come a rivelare con la densità più pura dell’elemento apparentemente più inanimato della terra, la roccia, o il marmo in questo caso, che cielo e terra sono una cosa sola, così come una cosa sola sono corpo e spirito, umano e divino, finito e infinito… Ovunque, riflessi sfuggenti richiamano l’attenzione verso un particolare che la luce modifica rapidamente, facendo credere che tra le lucide pareti creature fiabesche, fate, angeli o anche maranteghe, sorveglino attraverso occhi luminosi, ma non visibili ad una coscienza limitata come quella umana, che chiunque si addentri in tale meraviglia porti con sé il rispetto dovuto a ciò che la natura ha generato solo per mostrare quanto meravigliosa sia l’opera del grande artista… forse per tale ragione queste grotte sono di così difficile accessibilità all’uomo, perché a pochi è concesso di vedere oltre ciò che il proprio limite concede. Osservo meravigliato e attendo… attendo che uno spirito mi conceda il consenso di congelare in un’immagine la sua essenza, affinché il mio intervento profano in un tempio sacro della natura non possa divenire sacrilego. Sono qui per questo, per fare fotografie, e qualcuno osserva stupito e magari irritato che non mi accinga a fare il mio lavoro… avremo solo

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questa occasione, ma io sto in silenzio e in contemplazione… chiudo gli occhi e non oso pensare a ciò che i colleghi della squadra ipotizzano di me… il luogo è troppo sacro per mancargli di rispetto. Il silenzio mi avvolge, tra i costoni della cattedrale risuona solo il mormorio del mare contro le pareti di marmo e io sto in silenzio… poi percepisco la carezza sul viso, apro gli occhi e vedo ciò che mi chiama. Alzo l’obiettivo, inquadro il soggetto, ringrazio e poi… lascio scattare l’otturatore… forse la più bella foto della mia avventura in questo viaggio terreno… altri richiami poi mi attirano, gli spiriti della grotta sono riconoscenti del mio rispetto e si concedono agli scatti, mi chiamano e si mostrano in riflessi, in lievi suoni, in visioni… poi si fermano e cessano i loro inviti… apprendo che è tempo di chiudere, sigillo l’obiettivo, i colleghi mi osservano ma non commentano e per un momento percepisco pure in loro la necessità di rispettare la cattedrale. Chiudo gli occhi e congiungendo le mani al petto mi inchino agli spiriti della natura… qualcuno mi imita… forse, qualcuno ha compreso…” La lettera finiva così, nella flebile voce di Vanessa che aveva sugli occhi umidi segni di commozione, mentre io di nuovo ricordavo quando Demetrio mi aveva descritto il suo stile fotografico al vecchio mulino, e ripensavo alla meraviglia che avevano saputo esprimere quelle fotografie che io avevo pensato fossero state prese da prospettive errate. Pensai a dove avrei potuto trovare le foto scattate a quelle cattedrali di marmo, e se pure io avessi potuto vedere in quegli scatti gli spiriti della natura… ma sapevo che ormai io tali spiriti non li avrei più visti, sentiti ne percepiti, nemmeno nell’incanto della natura stessa … non li avrei visti nemmeno se mi fossi recato di persona in quelle cattedrali perché io non stavo tra quei pochi ai quali sarebbe stato concesso di vedere oltre il proprio limitato concetto umano … Guardai Vanessa costringendomi a trattenere la stessa commozione che era in lei. -Grazie- le sorrisi. Lei represse le lacrime mentre il sole ormai calava rapidamente. Ripiegò la lettera, la ripose nello scrigno e mi fissò con i suoi profondi occhi blu. -Mi dispiace signor D’amanti- mi disse con una sincera tristezza nell’animo, e io capii che si riferiva a tutto ciò che era avvenuto in quei pochi mesi. Compresi come si sentisse responsabile di una colpa che non aveva ma che sentiva di possedere solo perché qualcuno che si riteneva al di sopra di ogni condizione gliela aveva consegnata. E capii cosa significava essere vittime e schiavi allo stesso tempo. “Non preoccuparti, non è colpa tua” avrei voluto dirle, ma tutto ciò che riuscii a fare fu un sorriso, forse il primo di sincero da talmente tanto tempo che non ricordavo più quando fosse stato l’ultima volta che avevo percepito in me tale sincerità, e per la prima volta, senza dire niente che comprendesse esigenze di conforto, nella banalità più grande con cui le risposi riuscivo a dare il migliore dei conforti che mi fosse possibile, perché in quelle uniche parole vi era tutta l’espressione della mia comprensione. -Chiamami Tom- dissi con semplice spontaneità priva di ogni malizia. Lei mi guardò reprimendo un po’ della sua tristezza. -Abbia cura di lei signor D’amanti- rispose, e io provai un leggero sconforto nel comprendere che non l’avrei più rivista. Mi limitai a sorriderle riconoscendo nella sua cortesia l’eredità di Demetrio passare nel suo spirito, e come una percezione di cui non si dovrebbe ma ci si sente sicuri, ebbi la certezza che in questa vita non avrei più rivisto nessuno di tutti coloro che avevano fatto parte del mio destino. La osservai voltarsi piano e avviarsi lenta, senza più girarsi. Non era riuscita a chiamarmi “Tom”. Ma le fui grato per aver mantenuto in quella cortese fermezza, la sua nobile e leale integrità.

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Solo tra i fantasmi… -Tu credi che un demone possa scrivere cose così profonde?- dissi dopo aver concluso il capitolo. -Io credo che il demonio non sia come ce lo immaginiamo. Né brutto né stupido come chi per un proprio tornaconto vuole mostrarcelo così. Credo che il demonio che dobbiamo veramente temere sia quello nascosto in noi, pronto ad emergere, facile alle tentazioni ma soprattutto, abile nell’inganno e nell’opportunismo. E poi io non ho detto che Demetrio fosse un demonio, ho detto che potrebbe aver fatto un patto col diavolo-. -E quindi, secondo te, noi staremmo per svelare questo patto? E una volta scoperto l’inganno che cosa succede?- -Chi può dirlo, forse il diavolo chiede altre anime in cambio della sua…- -E sarebbero le nostre?- Non mi rispose, ma percepivo come in lei qualcosa stava mutando e temevo che una certa suggestione cominciasse a possederla. La guardai, e ripescando da una conoscenza che non sapevo dove avevo acquisito ma che sapevo aver scoperto forse in qualche film o sentito dire di sfuggita da qualcuno incontrato quasi casualmente, tentai di ricondurla nella realtà concreta rivelandole quello che intendevo come una sorta di mistero protettivo. -Ho sentito dire che per restare vittima di queste cose ci si deve credere, ma visto che noi siamo realisti, ci possiamo ritenere al sicuro- cercai di tranquillizzarla. Lei però mi fissò con occhi nei quali veniva espresso un concreto timore -ma io ci credo in queste cose- rispose, e la sua espressione era talmente sincera, che un timore allarmistico mi colse impreparato, al punto che non riuscii a rispondere. La osservai muoversi lenta, con un quasi riverenziale timore profano, e allontanarsi silenziosa. -Ceniamo assieme?- le dissi giacché non avevamo ancora mangiato niente. -No- mi rispose -sono troppo stanca, vado a dormire- rispose, e io restai incerto ad osservarla allontanarsi con un’insolita apprensione che mi assaliva. Dopo un po’ entrai e mi recai nella sala da pranzo. Il cameriere che si avvicinò mi domandò se ero solo quella sera. Risposi di sì informando che la signora non si sentiva bene. L’altro sorrise solo per compiacere, poco interessato ai motivi della mancanza della mia compagna. Ordinai un omelette e dell’acqua, nemmeno io avevo tanto appetito, poi osservai qualche tavolo più in là il rappresentante in nero che si era tolto il cappello e non era per niente calvo, ma grigio. Con me, era l’unico ospite della sala. Finita la cena uscii all’aria aperta, sedetti ad un tavolo sulla veranda, ordinai un caffé e mi accesi una sigaretta. L’aria era calda e stranamente la statale deserta. C’era un’insolita calma, quasi surreale, nella quale solo qualche timido grillo osava sfidare il silenzio. Osservai le nuvole di fumo prodotte dalla mia sigaretta e con un’ironica fantasia infantile, cercai di intercettare qualche illusoria figura. Le classiche scie di fumo prodotte dalle sigarette, mi facevano pensare a code di animali che si agitavano nel vuoto e poi svanivano nel nulla, incapaci di dar forma ad un concreto corpo, ma poi, alla terza o quarta sigaretta accesa, non ricordo né quante ne avevo fumate né da quanto tempo me ne stavo lì da solo sulla veranda, ebbi come la sensazione di vedere qualcosa di diverso nelle sagome che sembravano distogliere la mia memoria dai pensieri di quei giorni come se la mia stessa mente fosse stata trasportata altrove, in una sorta di paese delle meraviglie, e le scie di fumo si trasformarono in qualcosa simile a rombi. Sorrisi per quel cambiamento e subito soffiai dell’altro fumo come se immaginassi di poter dipingere con le sue nuvolette. Ciò che avvenne fu molto suggestivo, ma credo che la maggior parte della suggestione fosse stata introdotta dalla mia sconosciuta immaginazione che non sapevo di possedere. Tre scie di fumo si innalzarono e attraversarono i rombi non ancora dissolti, poi la nuvola più densa si unì all’insieme e per un attimo, ebbi la sensazione di vedere formarsi nel vuoto un vascello evanescente, che si smaterializzò in un istante e si dissolse, lasciandomi il sorriso generato dall’illusione del fantasma. Era tardi quando andai a dormire e prima di coricarmi osservai il fascicolo, rendendomi conto che ormai mancavano poche pagine ancora. Forse il giorno successivo saremmo riusciti a terminarlo. Non so quanto posso dire se le allucinazioni tra gli stati alterati di sonno e veglia della notte che trascorsi si potessero definire sogni, non avendo mai avuto ricordo dei miei sogni.

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Benché mi fosse stato detto per certo che tutti sognavamo, non potevo affermare con certezza se le mie erano allucinazioni vigili o sogni incerti, tenendo conto anche del fatto che avevo avuto decisamente difficoltà ad addormentarmi, forse per la troppa nicotina e il troppo caffé. Ciò mi faceva sembrare di aver dormito solo per qualche breve e alterno periodo il che non mi permetteva di essere in grado di affermare d’aver davvero dormito, ed era in quei brevi periodi che nella mia mente si formavano allucinazioni fatte di ricordi dell’infanzia, in cui la visione di una farfalla che si posava su un fiore, del quale non pensavo di aver mantenuto un vero ricordo ma piuttosto una irrilevante memoria di una circostanza osservata superficialmente tante volte senza porvi particolare interesse, veniva quasi schiacciata e sostituita dalla forma di un piede possente che indossava calzari che si potevano definire da antico guerriero. Poi mi coglieva lo stato di veglia con annesso mal di testa, la stanchezza e le palpebre che tornavano a chiudersi per inoltrarsi in quello stato confusionale dove il suono di spade che si scontravano tra loro sotto la forza di braccia energiche, si fondeva al rintocco di campane. Quindi di nuovo la veglia e poi l’oscurità nella quale prima delle allucinazioni apparivano scintillanti ombre che brillavano di una luce purpurea e mai veramente luminosa, ma che si ampliavano come cerchi generati da un sasso caduto in uno specchio d’acqua e si espandevano sempre più fino a svanire nel vuoto inconsistente di quell’oceano oscuro che era la mia mente. Non so quante figure fossero apparse in quelle allucinazioni, vidi guerrieri che sembravano divenire sacerdoti che portavano in mano fiaccole, che a loro volta diventavano candele sospese nel vuoto e che poco dopo sembravano illuminare l’antro di un luogo tetro, oscuro… sentii rumori fastidiosi, ronzii di insetti che solo per pochi secondi si trasformavano in piacevoli canti di grilli o gracidare di rane, per essere poi sostituiti da ruggiti veri e propri… in una certa visione mi parve di camminare su un tappeto di serpenti e in un'altra di essere circondato da migliaia di libellule dalle ali luminescenti… mi vidi all’interno di un bosco oscuro, sebbene tutto di quelle allucinazioni fosse avvolto da una lugubre ombra di nebbia che sembrava offuscare ogni cosa in un opaco fumo che sapeva di antico. Odori di legno, muschio, cenere, erba di prato e acqua che scorre si confondevano ad altri odori meno naturali, fatti di plastica, gomma bruciata, idrocarburi, ferro arrugginito e altri ancora e solo infine, dopo un tempo che mi parve esageratamente lungo come fossero passati anni, il sonno senza sogni o allucinazioni mi aveva rapito, e come un tempo in cui non avevo alcun singolare tormento nella mente, mi svegliai che il sole già illuminava il giorno da ore. Osservando l’orologio imprecai vedendo che mancava poco a mezzogiorno. Per un momento mi parve di essere tornato alla mia vita normale e quasi mi sentii sollevato al pensiero che forse, per la prima volta in vita mia, avevo veramente sognato e niente di ciò che era avvenuto era reale. Ma poi mi resi conto che il letto in cui stavo non era il mio, ma quello di una stanza d’albergo. L’insieme dell’ambiente me ne diede conferma e con essa mi rigettò in quella realtà che avrei tanto desiderato essere un sogno. Imprecai di nuovo perché mentre i miei ricordi si ricomponevano e prendevano il posto delle allucinazioni che già cominciano a svanire dalla mia memoria, pensai che Felona questa volta non mi avrebbe perdonato l’insensibile brutta abitudine. Passando davanti alla porta della sua camera notai che il classico cartello “non disturbare” non era appeso e rinunciai subito a quella che già di per sé era una flebile speranza che come il giorno prima si fosse addormentata pesantemente e fosse ancora tra le coperte del suo letto. Scesi le scale e mi diressi verso la sala da pranzo certo di trovarla ad attendermi, ma al tavolo dove eravamo soliti sederci non c’era nessuno, sebbene il posto fosse apparecchiato. Diedi uno sguardo veloce in giro, notando di sfuggita che nella sala pranzava con una tranquillità quasi impensabile solo l’uomo in nero giunto la sera prima. I suoi movimenti erano di una lentezza incredibile e ogni volta che inghiottiva un cucchiaio di minestra, pareva gustarla come se non avesse mai mangiato nulla di tanto saporito. Mi disinteressai dell’uomo e preoccupato andai verso il banco dell’accettazione dove non incontrai il solito antipatico custode ma, con mia sorpresa, il loquace e per un certo senso simpatico custode che avevamo incontrato il primo giorno e che ci aveva parlato di come Valbordi fosse decisamente più interessante di Frolìa. Fui felice di non dover sopportare il solito irrisorio ghigno e con un po’ d’ansia domandai a lui informazioni. -Mi scusi- esordii distraendolo dall’opuscolo che stava leggendo. -Sì- rispose alzando la testa e osservandomi con uno sguardo cortese e affabile, che certamente si addiceva a uno che svolgeva quel lavoro ma che non sembrava per nulla forzato, come se tale cortesia

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non fosse la costretta gentilezza imposta dagli obblighi della sua professione, ma fosse sincera e spontanea. Ad ogni modo quel sorriso affabile ebbe la capacità di tranquillizzarmi e con altrettanta cortesia le domandai se aveva visto Felona, indicandola ovviamente come la signorina della stanza 411. Il sorriso del custode si accentuò -la signorina Bussola?- disse chiamandola professionalmente con il cognome col quale io non l’avevo mai nominata -sì- disse -è scesa che avevo appena preso servizio, molto presto stamattina. Mi ha pregato di consegnarle questa- estrasse una busta da sotto il banco e me la porse. Osservai lo strano, perché inatteso, dono e, confuso balbettai -ma che cosa significa? Dov’è adesso?- domandai al cortese usciere. Il suo sorriso si affievolì come se percepisse che si stava creando un imprevisto non valutato -beh, la signorina ha pagato il conto della camera e poi è andata via. Mi ha pregato di chiamarle un taxi ed è uscita-. -Andata via?- ripetei con aria idiota come se non avessi capito. La mia sorpresa dovette far comprendere al commesso che tale condizione non era prevista ma con professionalità non osò intromettersi in quella che doveva valutare una storia finita male. -Posso fare qualcosa per lei?- si limitò a domandarmi. Lo guardai come se fosse la prima volta che lo vedevo e senza riuscire a nascondere il mio stato d’animo sconvolto mi girai e risposi -no grazie- ma quasi non me ne resi conto. Mi andai a sedere al tavolo e pensando a mille cose senza senso, aprii la busta. Il cameriere si avvicinò al tavolo e domandò se volevo ordinare. -Solo un po’ di minestra- risposi inconsapevole, forse condizionato dal fatto che prima avevo osservato l’uomo in giacca nera gustare una specie di brodo, quindi aprii la busta. Dentro c’era una lettera, e una strana carta. Iniziai a leggere e nemmeno mi accorsi del piatto di minestra fumante che il cameriere mi posò davanti. “Caro Donato” iniziava la lettera “sono stata sveglia tutta notte a pensare, e alla fine ho capito che la cosa migliore da fare è questa. So che non riuscirai a capirmi e nemmeno a perdonarmi, ma questa vicenda è diventata troppo traumatica. Ho capito di aver subito troppe influenze e di essermi lasciata troppo suggestionare da ciò che abbiamo vissuto in questi giorni. Ma quello che ho capito veramente, è che tutto questo non è avvenuto per una banale coincidenza. Ora non sono nemmeno convinta che quel documento fosse destinato a te. Ho avuto modo di riflettere molto e di indagare a fondo dentro di me attraverso i molti ricordi che tutto ciò ha saputo risvegliare in me. Non so in che modo, e non saprei nemmeno come spiegartelo, perciò mi limiterò a dirti che qualcosa, chiamala sensazione, chiamala percezione, presentimento o anche semplicemente follia, mi spinge a ricercare qualcosa che temo non abbia nulla a che fare con te e che non potrei trovare se restassimo assieme. Ho capito che le nostre strade si sono intrecciate per una ragione, ma che per la stessa ragione ad un certo punto avrebbero dovuto separarsi e sono certa che quel momento sia giunto. Io so solo che qualcosa mi chiama e che devo scoprire di che si tratta, ma temo che per me non ci sia altro da sapere… sono certa che troverai ciò che ancora ti manca nelle ultime pagine del documento, ma per me restare significherebbe solo perdere l’occasione, o come preferirebbero dire i più teatrali, non aver colto il momento. Sento che se non seguo il mio istinto e aspetto, quel singolo momento che si potrebbe interpretare come l’attimo preciso in cui lanciare i dadi, andrebbe perso. Ti chiedo scusa per questa fuga, ma ti lascio qualcosa che non so in che modo potrà esserti utile. Nulla è un caso e tra le cose che ho capito questa notte, indagando, vi è anche la consapevolezza che in quel documento tutto ha una sua particolare motivazione, perfino il numero delle sue pagine. La struttura del testo, infatti, sembra scritta in modo tale da poter far sì che le pagine risultanti siano quelle desiderate. Non so quanto la mia intuizione possa esserti d’aiuto, ma tra ciò che potrei dedurre da questa indagine mi sovviene un’ispirazione… ma non voglio condizionarti, giacché, come già espresso, la mia via probabilmente non combacia con la tua. Quindi ti lascio questa, come ispirazione e come ricordo del nostro incontro. Non odiarmi. Ciao.” Restai non so quanto tempo con la lettera tra le dita, e quando osservai la strana carta che mi aveva lasciato, non sapevo né comprendere di che cosa si trattasse, né perché me l’avesse lasciata. Era una banale carta da gioco, di cui non conoscevo né origini né senso. Raffigurava un angelo con le braccia aperte e sotto due figure, una maschile e una femminile, entrambe nude separate da un albero su cui si attorcigliava un serpente e subito pensai ad una riproduzione della storia di Adamo ed Eva contenuta

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nel libro della Genesi di cui spesso avevamo parlato. Provai a fare mille congetture, ma nessuna aveva senso e malgrado i molti riferimenti simbolici su cui la psicologa mi aveva istruito, non riuscivo a capirci niente. L’unica cosa che comprendevo era d’essere affranto e solo dopo parecchio tempo, decisi che forse era giunto il momento di chiudere con l’assurdo documento, consapevole del fatto che quella storia mi avrebbe lasciato solo due cose: un prolifico conto in banca che non meritavo, giacché ero consapevole che non avrei capito nulla di quanto mi era accaduto, e l’amarezza per aver coinvolto e avviato verso chissà quale assurdità una giovane ragazza che ora sapevo di aver perso definitivamente. Sospirai e in silenzio, presi a leggere quello che sembrava l’atto finale del racconto: “solo tra i fantasmi” …E così tutto si era concluso. Demetrio era andato via per sempre e una di quelle certezze di cui non si conosce l’origine ma si sa che è concreta, mi faceva capire che non l’avrei più rivisto. Virginia era partita, probabilmente alla ricerca di un destino che non avrebbe mai compreso, portandosi via quella figlia che non avrei mai potuto riconoscere e alla quale non potevo dare nulla. Anna mi aveva lasciato, e con lei avevo perso anche Dennis pure al quale non potevo spiegare le motivazioni della mia condizione. E infine anche Vanessa era sparita per sempre dalla mia vita, nella quale restavano solo oscuri e tormentanti fantasmi che dopo tanto aver cercato di seppellire in un cimitero segreto, avevano rotto i sigilli delle loro catene attraversando le barriere delle tombe che io avevo eretto, senza pensare che per spettri di quel genere non vi erano lapidi incontenibili. Ero rimasto solo con i lamenti delle sirene, delle ninfe dei prati, dei demoni delle guerre passate, degli spiriti inquieti mai assecondati, delle maranteghe e di quel cuore notturno che non sentivo più battere. Fu così che cominciai a cercarli. Andai sulla collina che non esisteva più, e nessun spirito si fece sentire. Andai al mulino sperando di poter sentire le voci degli spiriti benevoli, ma non ero più in grado di udirli ormai, o forse loro non volevano parlare con me. Una notte andai come un ladro perfino nel giardino delle sorelle di Demetrio, alla ricerca della voce del vellutato animaletto, ma quello era andato via già da tempo. Percorsi le rive del Tregnon e mi fermai davanti a quel ponte che dopo quello costruito al parco non serviva più e che le intemperie avevano ormai ridotto a un rudere barcollante, insicuro e instabile. Lo guardai a lungo, ma senza osare attraversarlo poiché un cartello che lo definiva pericolante avvertiva di non percorrerlo. Infine mi allontanai da Casterba e andai lontano, in un luogo che, se non fosse stato per Virginia, nemmeno avrei saputo dove trovare: le grotte di Oliero, dove lei mi aveva raccontato di aver vissuto una specie di visione mistica. Ci andai in un periodo di poca affluenza turistica e, corrompendo i custodi e le guide del parco, riuscii a farmi condurre nelle grotte in completa solitudine. Mi lasciarono solo, come richiesto, per qualche decina di minuti. Non erano grandi grotte, anzi, erano così ridotte che per visitarle non occorrevano più di quindici, venti minuti, e io usai quel tempo per restare in assoluta contemplazione. Era vero ciò che Virginia aveva detto, sembrava di essere all’interno di una cattedrale di roccia dove le stalattiti erano colonne di varie dimensioni e le levigate vie di calcare riflettevano una strana luce che dava la sensazione di un pavimento intagliato e poi, c’erano quelle che le guide definivano “macchie di leopardo”, ossia residui di alghe lasciate dal crescere e calare delle acque all’interno della grotta. Strane macchie che davano l’impressione di geroglifici, come incisioni che dovevano raccontare qualcosa, se solo fossi stato in grado di decifrarli. Alla fine però compresi che tali incisioni erano solo la casuale impronta lasciata da elementi della natura, che non potevano raccontare nulla se non una particolare conformità geologica che poteva interessare, appunto, solo i geologi. Così me ne andai anche da lì senza aver risolto nulla e cominciai a passare in solitudine le mie notti rinchiuso nella solitaria, grande e ormai inutile dimora e, prima che la mia solitudine mi portasse al definitivo deperimento, cedetti ogni mio possedimento. Tenni per me solo la dimora dei fantasmi come a voler trattenere dei ricordi solo per potermi punire e lasciai tutto ciò che avevo ad Anna. Dopo un po’, rinunciai perfino agli incontri con mio figlio concedendo ad Anna di fare in modo che potesse dimenticarsi di un padre instabile e senza onore, e lasciai che l’oblio mi divorasse lentamente. Qualcuno ha detto, e molti lo vogliono continuamente ripetere, che nulla avviene per caso. Io ho smesso di crederci da molto tempo, ma se così fosse, quanto è avvenuto a me, se non è avvenuto per caso, deve avere per forza un senso di punizione. Forse hanno ragione quelli che pensano che quanto si fa in una vita verrà restituito o pagato in un'altra… io in questa vita ho avuto molto sul piano

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professionale, ma alla fine mi è stato sottratto tutto, e con questo spero di aver pagato ogni mio debito, sia questo dovuto ad Adamo ed Eva, al Cherubino con le spade fiammeggianti, a Glauco o Diomede, a Ruggero, Orlando, Angelica, Perseo o Andromeda. Ai draghi o ai fantasmi, alle maranteghe o agli spiriti della natura, a Demetrio o chi per lui… e l’unica cosa in cui spero adesso, è solo un po’ di pace, seppure qualcosa mi induca a credere che tutto non sia ancora concluso…

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Un ultimo un drink… Voltai la pagina aspettandomi che nell’ultimo foglio che restava da esaminare mi si svelasse ogni arcano perché, pur intuendo che il racconto era concluso, contavo su un epilogo che mi svelasse ogni cosa, o per lo meno, il motivo di tutto quell’assurdo racconto, perché, che tutto si concludesse così non lo potevo accettare in quanto, di ciò che mi aspettavo non mi veniva smascherato niente… ma dietro alla pagina contrassegnata col numero 320, non c’era più niente. Solo un semplice foglio bianco con scritto in piccolo nel lato basso a destra il numero 321, e nemmeno il pensiero che solo per leggere quel semplice numero compivo il mio dovere e acquisivo il diritto a ritenermi meritevole del compenso accordato, mi fece sentire svincolato, restandomene così con una tormentata delusione e un vuoto tra le mani che mi conduceva al singolo pensiero che l’unico scopo del maniaco scrittore sembrava veramente quello di pagare qualcuno che leggesse il suo folle romanzo confuso e scadente che, se non fosse stato per le molteplici delucidazioni datemi da Felona, sarebbe stato anche incomprensibile. Se era di un giudizio quello di cui questo pazzo aveva bisogno, allora avrebbe fatto meglio a rivolgersi ad un critico letterario che a mio parere sicuramente gli avrebbe consigliato di cambiare mestiere giacché nemmeno un accademico con una cultura al di sopra delle righe, ma solo un visionario forse, avrebbe potuto comprendere ciò che aveva cercato di descrivere, se veramente la volontà di descrivere qualcosa ci fosse stata. Così, adesso, quei trecentoventunomila euro che stavano al sicuro nel mio conto svizzero mi sembravano ben poca cosa rispetto a ciò che avevo perso e a ciò che non avevo trovato, e tuttavia, malgrado la mia incapacità deduttiva che mi assicurava che ormai non avevo più nulla da decifrare né da scoprire perché le mie facoltà limitate non mi avrebbero condotto da nessuna parte, una sorta di eco rimandava nella mia mente le parole conclusive del racconto in cui l’astruso artista scriveva che tutto ancora non era finito. Cercai di soprassedere e dimenticare, convincendomi che se non era tutto finito per lui, sicuramente lo era per me. Io avevo svolto appieno il mio incarico e quei soldi me li ero guadagnati tutti perché avevo letto fino all’ultima pagina, compresa quella lasciata in bianco come succede nelle stampe dei migliori romanzi dove alla fine si va sempre alla ricerca di un qualcosa in più, e lo scrittore non mi dava nessun altro indizio per cui svolgere una ricerca che, non dovevo dimenticarlo, nemmeno mi era stata commissionata. Pensai, “che andasse all’inferno”, lui, la sua identità segreta che non aveva voluto svelare e il suo stramaledetto e stupido romanzo mediocre e, deciso a saldare il conto con l’hotel e tornarmene a casa, mi alzai dal tavolo dove avevo letto l’ultimo inutile capitolo e mi recai al banco della ricezione. Notai con disappunto che non vi era nessuno ma non avendo voglia di infastidire alcunché, decisi che potevo attendere qualche minuto e approfittarne per scolarmi un ultimo drink. Così mi recai al bancone del bar dove, con mia sorpresa, osservai l’uomo in nero, solitario davanti ad un bicchiere di qualche cosa. Ordinai un Burbon con ghiaccio che mi fu servito in pochi secondi e, in seguito al primo sorso, presi il pacchetto di sigarette per accenderne una ma, con mio disappunto, mi accorsi che il pacchetto era vuoto. Stavo per imprecare quando una scatola quasi nuova di sigarette strisciò sul banco e giunse fino a me. Mi voltai e vidi l’uomo in nero sorridermi e fare un gesto a indicare di servirmi. Ringraziai e presi il pacchetto tirando fuori una bionda, poi presi i fiammiferi, ma subito il barman mi riprese. -Mi scusi signore, ma non si può fumare all’interno del locale- mi ricordò con gentilezza. “Dannazione” pensai, ma cordialmente annuii e lo ringraziai. L’uomo in nero si avvicinò. -Beve Bourbon americano?- mi domandò. Non credevo di essere in vena di chiacchierare, invece lo guardai con affabilità e risposi. -Un drink perfetto, specie se accompagnato da una buona sigaretta, peccato che qui…- -Si può uscire- mi propose -anche a me piace farmi una sigaretta dopo un buon scotch- prese il pacchetto e si avviò. Io ero appena rientrato e non ero molto convinto di voler tornare sotto il sole, ma avevo tra le mani un bicchiere di ottimo Bourbon e quella era probabilmente l’ultima sigaretta che avrei fumato prima di sera, così lo seguii. Lo vidi sedersi ad un tavolo dove un albero gettava un po’ d’ombra e mentalmente lo ringraziai. Lo strano tizio mi porse l’accendino e io accesi la sigaretta offertami.

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-Non discuto sul Bourbon americano, ma secondo me non c’è niente di meglio di uno scotch- alzò il bicchiere con il liquido marrone all’interno -un buon scotch scozzese invecchiato venticinque anni che ti fa sentire il sapore del legno in cui è stato rinchiuso per tanto tempo-. Lo guardai e sorrisi osservando che nel suo drink non c’era ghiaccio e pensai che con quel caldo, o era matto o era un vero intenditore che non apprezzava annacquarne il sapore. Prese a sua volta una sigaretta e l’accese, poi mi porse la mano -mi chiamo Lucio. Lucio Ferro- si presentò. Mi scappò un monosillabo ironico che bloccò un’imminente sarcasmo -chissà quante ironiche battute avrà dovuto sopportare- dissi per giustificare la mia apparente sgarbatezza. -Beh, soprattutto da ragazzo, ma non ci faccio più molto caso ormai. Anzi, in certi momenti è ottimo per rompere il ghiaccio-. -Davvero? Rompere il ghiaccio con chi?- domandai, non per curiosità ma solo per una gentile forma di cortesia nell’avviare un dialogo che non sembrava avere nulla di interessante e che, in quel momento, probabilmente, era l’unico tipo di dialogo che potevo sostenere. -Sono un agente assicurativo, sì, mi occupo di assicurazioni. Un articolo difficile da trattare e ho a che fare con tante di quelle persone che non sempre è facile trovare il modo giusto per iniziare una conversazione amichevole che poi deve trasformarsi in una conversazione d’affari. Le battute ironiche sul mio nome spesso introducono la prima parte-. -Capisco. Quindi ha saputo fare di necessità virtù-. Sorrise -e lei invece, perché sperduto tra queste desolate valli?- -Affari- risposi con superficialità, non sapendo come giustificare la mia presenza lì. -Di che si occupa?- non notai che il tono della sua voce si era fatto più cupo e serio, come se per lui fosse veramente importante sapere la motivazione della mia presenza lì. -Indagini- dissi, ma subito dopo me ne pentii. -È un investigatore?- si incuriosì. Lo guardai cercando di prendere un po’ di tempo per pensare a una frottola da raccontargli non avendo voglia di imbattermi in curiosi che volevano sapere come era la vita di un investigatore privato, pensando che fosse movimentata e avventurosa come quelle che venivano proposte nei film americani, ed ebbi occasione di osservare il suo volto che sembrava bruciato dal sole come se fosse uno che passa giornate intere a prendere la tintarella. Doveva essere sui cinquanta a giudicare dalle rughe sotto gli occhi che, tuttavia, potevano trarre in inganno visto lo stress cui doveva essere sottoposta la pelle nella continua abbronzatura. Ma i capelli grigi e la piccola cornice di barba con cui adornava il mento, anch’essa grigia, non potevano essere ingannevoli. -In un certo senso. Faccio indagini di mercato. Sa, le agenzie mi assumono per capire quanto si possa investire su un territorio in fatto di commercio, e visto che da queste parti sembra ci sia in atto uno sviluppo commerciale a livello turistico, sono qui per rendermi conto dell’eventuale potenziale del territorio-. Mi stupii per quanto bene mi era venuta la bugia, seppure non fossi totalmente persuaso della convinzione del mio interlocutore che si accigliò e mi guardò con sospetto. -Deve essere un lavoro impegnativo- sorseggiò il suo scotch -di responsabilità, voglio dire-. -Sì, in effetti- risposi senza aggiungere altro. -E quell’aria affranta, sta ad indicare che le prospettive non sono buone?- mi domandò, e la sua mi parve una domanda del tutto innocua, da vero curioso o da vero solitario che ogni tanto sente l’esigenza di scambiare quattro parole con qualcuno. -In realtà le prospettive apparirebbero buone. No- continuai senza sapere bene il perché -in realtà sono un po’ giù di morale perché stamattina la mia compagna se ne è andata via- confessai. Lo vidi di nuovo accigliarsi -la ragazza del taxi?- disse con un’accentuata sorpresa che non superò la mia. -Lei l’ha vista?- gli domandai come se mi fosse stato rivelato il segreto dei misteri dell’area cinquantuno. -Se allude alla giovane che stava con lei ieri sera sì, anzi, abbiamo scambiato quattro chiacchiere assieme mentre attendeva-. -Davvero, e che cosa le ha detto?-

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Mi guardò con sospetto -niente di importante. Abbiamo parlato del più e del meno come facciamo io e lei. Lei però non mi ha detto di essere un agente di mercato. Ha detto di essere una psicologa e che doveva incontrarsi con qualcuno. Io pensavo che fosse andata via per una questione di lavoro, non credevo che voi due foste… pensavo fosse sua figlia-. Mi portai una mano al sopracciglio e intuendo l’allusione con uno sbuffo ironico cercai di rimediare all’incomprensione, ovvero, a quella che volevo far apparire come un’incomprensione. -No, ma non è come crede. Sa, io mi occupo della parte strutturale dell’indagine, lei è più rivolta alle risorse umane, solo che è agli inizi ed è un po’ permalosa così…- -Ah, capisco- disse con la classica superficialità che denotava come non credesse ad una sola parola di ciò che avevo detto. Sospirai lasciando intuire che non volevo approfondire, poi, come se fossi stato sorpreso da un lupo mannaro in una notte di luna piena, sussultai e con impulsività interrogai -aspetti, ha detto che doveva incontrarsi con qualcuno?- L’uomo mi guardò con un sospetto strano negli occhi, quasi fosse stato più sorpreso dal fatto che non lo avessi chiesto prima. -Sì, ha detto che stava aspettando un taxi che l’avrebbe portata in un posto perché doveva incontrare una persona-. -Che posto? E chi era quella persona-. Allargò le braccia -amico mio, io non sono invadente fino a quel punto. Non l’ho chiesto e lei non lo ha detto, anche perché il taxi è arrivato poco dopo- confessò. Mi sentii oppresso e rassegnato, e forse a causa della mia incapacità di ragionare coinvolsi lo sconosciuto più di quanto avrei dovuto fare. -Lei sa cos’è questa?- gli mostrai la carta che Felona mi aveva lasciato. La guardò senza gran meraviglia -è una carta dei tarocchi- mi spiegò. -Prego?- dissi lasciando intendere che non capivo. -Un arcano, uno di quelli che certe persone usano per predire il futuro. Cose da ciarlatani ma che sembrano far guadagnare un bel po’ di soldi-. -E cosa significa?- domandai. -Ah, nello specifico non saprei, ma è evidente che si tratta di una dichiarazione-. -Dichiarazione? Ma che cosa vuol dire?- -Amico mio, se quella non è sua figlia, la cosa mi pare abbastanza evidente: sopra la carta c’è scritto il nome dell’arcano, non vede? Gli amanti. Non so che cosa sia avvenuto tra voi due, ma credo che quella ragazza si sia innamorata. Forse non doveva incontrarsi con nessuno. Forse stava solo scappando da qualcuno che, in qualche modo deve averla respinta- bevve la rimanenza del suo scotch, poi sorrise. -Amico mio, fossi in lei, mi darei da fare per trovarla se la sua aria affranta mi rivela ciò che penso. Ad ogni modo buona fortuna-. Disse, e alzandosi se ne andò via.

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La doppia faccia della perfezione… Osservai con stupore la carta e iniziai ad esaminarla più dettagliatamente. Era vero che sopra la figura stava scritto così: “Gli manti”. Osservai quindi meglio nel dettaglio e mi accorsi che sotto, composto in cifre romane appariva un numero: il sei. Improvvisamente mi sovvenne l’intuizione di cui Felona faceva accenno nella lettera che mi aveva lasciato, in cui diceva che perfino il numero delle pagine non doveva essere casuale e io riflettei su quell’ultima pagina del documento che portava scritto null’altro che il numero conclusivo del dattiloscritto: 321. Mi allontanai e, in disparte nella sala degli ospiti tirai fuori il documento per osservarlo. Mi resi conto che se il racconto fosse stato scritto con caratteri normali non sarebbero state necessarie tante pagine e intuitivamente concordai con Felona: neppure quello era un caso. L’autore aveva di proposito scritto in quel modo, in maniera da far sì che il fascicolo fosse composto da un numero di pagine precise e mi domandai perché. Ma l’intuizione successiva che fu quasi più rapida della domanda mi stava già conducendo alla risposta. Non ero mai stato una cima in matematica, ma non ci voleva molto a sommare le tre cifre che componevano le pagine del racconto e con una sorpresa minima mi accorsi che tre più due più uno dava come risultato sei. Tutto quel racconto era collegato al numero sei, e Felona mi aveva detto che ogni cosa in questo mondo aveva un significato simbolico e forse, ricordandomi di alcuni dialoghi fatti non so più con chi su tematiche che coinvolgevano sistemi numerologici legati alla cabala, compresi che i numeri forse più di ogni altra cosa di significati simbolici ne avevano fin troppi. In particolare, forse perchè lo avevo visto in qualche film, sapevo che il sei era un numero spesso accostato al diavolo. Un brivido mi colse giacché negli ultimi dialoghi relativi alla nostra ricerca ci eravamo imbattuti nell’argomento “diavolo”, seppure in un modo che sembrava discordarsi da tutto ciò che ci aveva condotto fino a Casterba e per quanto riluttante a voler accettare determinate condizioni, l’imprevisto di quel numero ora mi metteva a disagio. Tuttavia, con l’entusiasmo di chi ha appena fatto un’importante scoperta, mi apprestai a riprendere la mia ricerca. Era evidente che c’era qualcosa che dovevo scoprire legato a quella carta e seppure le prospettive non fossero luminose ma piuttosto oscure, la nuova traccia stava già agitando in me una certa adrenalina eccitante, un turbamento che non potevo ignorare. Felona aveva intuito qualcosa, poi per una ragione che mi sfuggiva se ne era andata, come se non volesse, per timore o addirittura per protezione, coinvolgermi. Aveva scritto in quella lettera che lei doveva seguire una strada e io un'altra, ma l’indizio che mi aveva lasciato ci teneva ancora legati l’uno all’altra e io, al contrario di lei, non credevo che le nostre strade si dovessero dividere, non ancora per lo meno. Il problema era che io non sapevo niente di tarocchi, numeri e cose del genere, e sospettavo che nemmeno l’uomo in nero ne sapesse più di quanto mi aveva già detto. Corsi quindi al banco della ricezione, ma invece di chiedere il conto mi rivolsi al custode gentile e gli domandai -avete una biblioteca qui?- -Nell’albergo? No signore. Ma ne troverà una ben fornita nel piazzale adiacente al municipio- mi informò. Senza attendere corsi fuori e con un nuovo entusiasmo mi convinsi che lì avrei trovato anche Felona. Uscito di corsa dall’albergo salii rapidamente sulla Mercedes e senza rendermi conto che il piazzale municipale distava non più di tre chilometri accelerai con foga, facendo slittare e stridere le gomme e immettendomi sulla statale in un modo tanto avventuroso che se nelle vicinanze vi fosse stata una pattuglia della polizia oltre ad una sontuosa multa mi avrebbero certamente ritirato anche la patente. Fui fortunato e non trovai forze dell’ordine in quei pochi minuti di strada ma subito mi si rivelò l’inutilità dei rischi presi rendendomi conto che la mia frenesia veniva ricambiata dalla mancanza di parcheggi per cui fui costretto a lasciare l’auto a qualche centinaia di metri di distanza. Speravo che la biblioteca osservasse orario continuato perché ormai era tardi, e ora imprecavo contro il mio maledetto vizio di dormire troppo. Se Felona era stata alla biblioteca in cerca di qualche indizio relativo al numero sei probabilmente era ancora lì, solo per questo speravo nella regola dell’orario continuato che le avrebbe dato modo di precedermi nella ricerca e potersi così fare burle di me solo per dimostrare l’inefficienza della mia pigrizia della quale, per una volta, me ne sarei rallegrato. Mi avvicinai alla porta e spinsi ma, con mia delusa e non sorpresa scoperta, costatai che la porta era chiusa. All’interno tuttavia vidi una signora che stava catalogando dei documenti. Bussai sui vetri e attirai la sua attenzione. Questa mi guardò e dal suo sguardo percepii una spiacevole sensazione. Era

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una signora sulla cinquantina dall’aria austera e poco cordiale che dopo avermi osservato tornò a dedicarsi al suo lavoro ignorandomi completamente. Allora bussai di nuovo con insistenza finché la vidi interrompere il suo lavoro e voltarsi con aria indignata, annoiata e rigida. Si avvicinò alla porta, girò le chiavi e aprendo solo uno spiraglio mi informò: -La biblioteca è chiusa, riapre alle quattro signore. Ripassi più tardi-. -Mi scusi- la fermai prima che potesse chiudermi fuori -per caso è venuta qui una giovane donna questa mattina?-. La bibliotecaria mi guardò sospettosa e subito mi resi conto che non potevo contraddirla. Io ero uno sconosciuto che si presentava fuori orario e invece di chiedere informazioni su libri o documenti che erano gli articoli trattati in una biblioteca, domandavo informazioni su persone che l’inserviente non era autorizzata a fornire. Ma le mie priorità andavano oltre determinati protocolli e proseguii. -Si tratta di una ragazza giovane, capelli neri, lunghi…- simulai i capelli passandomi una mano lungo il viso -occhi azzurri, alta più o meno come me… non è di queste parti-. La signora però mi guardò con maggior sospetto e dedussi che non era convinta di ciò che le dicevo. -Siamo ricercatori universitari- iniziai quindi a cercare giustificazioni più credibili -io a dire il vero sono un docente…- mentii -stiamo facendo un’indagine territoriale sui fiumi di questa zona e cerchiamo informazioni di tipo storiche relative ai paesi coinvolti…- istintivamente mi accorsi di avere con me la busta che conteneva il documento incriminato, dove assieme stava il libro di fotografie riguardanti Casterba e Valbordi scattate da Demetrio, così per dare più credibilità alla storia mostrai il fascicolo. -Vede? Cerchiamo documenti relativi alla vie fluviali del territorio e credo che la mia collega sia venuta a fare ricerche qui, ho urgente bisogno di parlarle, allora ha per caso visto questa giovane…- -Non è venuto nessuno questa mattina- mi interruppe sbrigativamente, certamente poco convinta della mia spiegazione e con un’aria che faceva presumere che se avessi insistito un altro po’ avrebbe finito per chiamare le forze dell’ordine. Mi ritrassi istintivamente e l’austera signora si apprestò a chiudere la porta. Poi però un istinto imprevisto mi condusse ad un altro azzardo che solo dopo avrei dedotto pericoloso ma coraggiosamente tornai ad affrontare la commessa. -Un momento solo- dissi -avete dei libri di numerologia?- le domandai facendo chiaramente cadere la storia del ricercatore geologico. -Prego?- rispose di rimando l’arcigna. -Sì, insomma, libri che parlano di numeri, significati, simboli… cose del genere-. -Certo che ne abbiamo, nel reparto dedicato all’esoterismo, ma non è molto fornito-. -Mi concederebbe qualche minuto per fare una ricerca? Sarò veloce- assicurai, ma l’arcigna non era ben disponibile. -La biblioteca è chiusa le ripeto, torni più tardi- disse. Riflettei sulla possibilità di renderla più sensibile e a costo di umiliarmi, presi un tono supplichevole. -Potrei almeno prenderne uno? si tratta di un’emergenza- implorai. La vecchia sembrò intenerirsi per una lievissima sufficienza, che tuttavia non le permetteva di andare oltre ad un suo ulteriore dovere. -Dovrebbe avere la tessere della biblioteca per poter prelevare dei volumi, e lei non mi sembra di queste parti-. Fui sul limite dell’imprecazione -per favore- implorai di nuovo ed estraendo il portafogli tirai fuori la mia carta d’identità -posso lasciarle questo documento e anche un deposito in denaro se serve-. La donna guardò la carta, poi osservò la mia espressione supplichevole. -Che cosa cerca esattamente?- mi domandò, e io fui colto dal panico dell’impreparato. -Non saprei, qualcosa sui numeri ma più rivolto al loro significato esoterico che matematico- cercai di spiegarle. -Aspetti qui- mi disse. La vidi avviarsi lungo un corridoio e tornare dopo un po’ con un libro dalla copertina plastificata color bianco in mano. Me lo mostrò dandomi così la possibilità di scoprirne il titolo: “i misteri dei numeri”. Non so quanto potesse servirmi ma mi parve adatto alla ricerca, sebbene ancora non sapessi cosa cercavo. -Grazie, gliene sono veramente molto grato. Lo riporterò oggi stesso- dissi, e allungai la mano per prenderlo, ma la bibliotecaria ritrasse il libro.

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-Abbiamo solo questa copia, il suo valore è di ventotto euro- mi fece notare facendomi perdere ogni possibile considerazione di stima che avrei potuto avere nei suoi confronti. Estrassi dal portafogli tre banconote da dieci e le misi tra le sue mani, poi feci per riporre il mio documento ma l’arcigna fu più lesta di me e me lo strappò dalle mani. -Questa la tratterrò io- mi guardò sospettosa -in caso dovessi catalogarla come cliente non affidabile- mi disse. -Una fotocopia non le basta?- rimbeccai allora io. La donna sorrise perfida -non c’è tempo. La biblioteca riapre alle sedici- mi disse, e senza troppe cortesie mi spinse fuori chiudendo la porta. -Bisbetica- sussurrai senza preoccuparmi di far intravedere il labiale attraverso i vetri trasparenti della porta che stava chiudendo, e il suo sorriso si smorzò in un serio rimprovero dispregiativo. Restò per qualche secondo ad osservarmi sospettosa, probabilmente ancora pensando di chiamare i tutori dell’ordine, al che pensai che era meglio allontanarsi e tornare nell’orario di apertura. Guardai l’orologio al polso che segnava poco oltre l’una e desolato cercai una panchina dove iniziare a leggere il libro. Il mio sistema di lettura non era certo regolare, in effetti, non sapendo nemmeno ciò che cercavo, sfogliavo velocemente le pagine dedicandomi inizialmente al sommario per perdermi rapidamente in una serie di titoli tipo “i nomi delle cifre indiane”, “numeri e teoria dei numeri” “le cifre e la stampa”, tutte cose che mi apparivano assurde e inutili alla mia ricerca. Mi spazientii e demoralizzato, pensai che il libro carpito all’arpia non mi sarebbe stato di alcuna utilità e per un momento mi lasciai tradire dal pensiero che la vecchia strega sapeva ciò che cercavo e mi aveva deliberatamente sabotato ma poi, mentre stavo per richiuderlo pensando che non ne avrei ricavato nulla, nello scorrere dei capitoli vidi qualcosa di attinente. Un capitolo che si intitolava “i misteri del sei e del ventotto”. Del ventotto ovviamente non mi importava nulla, ma quel sei appariva propiziatorio. Rallegrato sfogliai il libro fino alla pagina indicata dal sommario ed entusiasta presi subito a leggere, felice di costatare che il capitolo non era poi così lungo. Ben presto però cominciai a sospettare che per avere un quadro preciso di quello che cercavo avrei dovuto leggere l’intero libro. A pagina duecentoventicinque, dove iniziava il capitolo cui ero interessato, infatti, si facevano riferimenti al sei come numero perfetto e ai sui molti riferimenti biblici primo tra tutti la creazione avvenuta in sei giorni e altri accenni a cose di cui non conoscevo nulla e di cui non sarei comunque riuscito a dedurre le giuste interpretazioni. L’unica cosa che potevo desumere era che ancora una volta mi imbattevo in quella misteriosa creazione che stava divenendo quasi una dannazione e iniziai a percepire una certa avversione verso chi aveva scritto il libro della Genesi con le sue odiose simbologie. Subito dopo si passava al numero ventotto facendo notare come il primo versetto della Genesi, ancora lei, era composto di ventotto lettere, corrispondenti al secondo numero perfetto sottolineando poi come anche lo stesso numero fosse più volte menzionato in altri versi. Ma io di tutto questo non sapevo che farmene, né sapevo che cosa si intendesse per numero perfetto. Stavo per cedere quando nello scorrere le pagine a ritroso nella speranza di trovare ciò che cercano di solito coloro che non sanno cosa cercare nel modo confusionale che non conduce mai a nessuna soluzione, mi imbattei nella definizione di numero perfetto con cui si indicavano quei numeri che erano uguali alla somma dei loro divisori, tuttavia la cosa non mi sembrava poi così interessante a livello esoterico. Mi appariva piuttosto un insignificante studio matematico che mi faceva pensare che in realtà il libro che mi trovavo tra le mani fosse effettivamente uno studio matematico che non serviva al mio scopo, finché non lessi, quasi per noia più che altro, che i numeri perfetti erano molto rari giacché, sebbene due fossero molti vicini tra loro, il sei e il ventotto appunto, per trovarne un terzo bisognava addentrarsi fino al conteggio di quattrocentonovantasei, i quali a loro volta rappresentavano gli unici tre numeri perfetti compresi tra lo zero e il mille. Il quarto numero perfetto si trovava addirittura oltre l’ottomila. Per un momento il mondo dei numeri cominciò ad affascinarmi, e con la mente che probabilmente cominciava a familiarizzare con la tipologia di comunicazione simbolica, iniziai a pensare che cosa ci fosse di così perfetto nel racconto che mi era stato donato, o meglio, che cosa ci vedesse di perfetto il suo autore perché era evidente che se il suo scopo era stato quello di farmi scoprire i misteri del sei e la sua relazione con la perfezione matematica, era con questo concetto di perfezione che voleva farmi confrontare. Sei quindi, era un riferimento alla perfezione, dedussi, ma a quale? Per quanto mi sforzassi, non ci trovavo nulla di perfetto in ciò che mi era stato raccontato. Presi la carta contenuta

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nella busta che mi aveva lasciato Felona e la osservai. Forse non tutto era relativo al sei, e magari quel numero indicava proprio la carta stessa, così pensai che forse avrei fatto meglio a chiedere un libro sui tarocchi. Osservai l’orologio accorgendomi con sorpresa meraviglia di quanto veloce fosse stato lo scorrere del tempo dal momento in cui avevo iniziato ad entusiasmarmi nella ricerca e che mancavano solo pochi minuti alle quattro, così mi avviai verso la biblioteca, dove mi sarei fatto restituire i trenta euro dalla strega e avrei consultato un libro in tutta tranquillità, facendomi beffe della sua impotenza di fronte all’impossibilità di allontanarmi ancora malamente da un ente pubblico. Prima di avviarmi provai a comporre il numero di casa di Felona, non avevo quello del suo cellulare, ed era già la terza volta da dopo che se ne era andata, ma come nelle precedenti occasioni a rispondermi fu la segreteria telefonica. Chiusi la comunicazione e mi avviai verso la biblioteca cercando distrazione nel prepararmi psicologicamente ad affrontare la strega della biblioteca. Giunsi che mancavano ancora cinque minuti alle sedici e notando che la porta era aperta pensai che la strega, o si era presa gioco di me, o a casa non godeva dello stesso potere che aveva in quella biblioteca e così sfuggiva dalla schiavitù per divenire dittatrice nell’unico regno in cui potesse sentirsi importante. Mi avviai tenendo il libro bene in vista, come a voler dimostrare che non ero un ladro , ma quando spinsi la porta ed entrai, mi sorprese l’accoglienza di una giovane ragazza dai capelli biondi, gli occhi azzurri e un’espressione molto più cordiale della vecchia strega dell’ora precedente. -Salve- mi salutò come se per lei non fosse occasionale avere a che fare con clienti mai visti. -Buon giorno- risposi quasi balbettando per l’imbarazzante sorpresa. -Posso fare qualcosa per lei?- mi domandò dopo un po’ notando il mio imbarazzato silenzio. Allora mi ricomposi -sono venuto a restituire questo- le feci vedere il libro -sono passato circa…- riflettei sul fatto che avrei dovuto dare troppe spiegazioni se avessi detto che ero stato lì in orario di chiusura e quindi sorvolai -sono passato stamattina…- dissi, sperando che la strega non le avesse raccontato del nostro incontro. -E lo ha già letto?- disse scherzosamente la giovane, ma nell’immediato io non colsi l’ironia. -Veramente no, ma non credo fosse quello che cercavo-. -Davvero?- disse come se le sembrasse strano -mi faccia vedere- prese il libro e lo esaminò. -Lei è un matematico?- mi domandò. Scossi la testa -no, oltretutto ho lasciato un deposito…- la informai con maggior imbarazzo. La giovane mi guardò sorpresa -un deposito?- -Sì, e un documento. La collega che ho incontrato stamattina aveva fretta di chiudere, così ha preteso deposito e carta d’identità- le rivelai. La giovane rovistò nel cassetto e trovò il documento con dentro i trenta euro. Sorrise e scosse il capo con indulgente tolleranza -Adelina- sussurrò, poi si rivolse a me -le chiedo scusa, ma Adelina è sempre un po’ scontrosa- si scusò per la collega e improvvisamente io mi sentii come in dovere di giustificarla. -Beh, magari non aveva tutti i torti. Sa come si dice fidarsi è bene…- La giovane mi esaminò e dal mio abbigliamento dovette dedurre che non ero certo un pezzente -sì certo, ma così si esagera. Non ha il diritto di sequestrare documenti, avrebbe potuto fare una fotocopia e poi, non credo che qualcuno sia così disperato da commettere il furto di un libro che può comunque trovare in una qualsiasi buona libreria-. -Lei me lo avrebbe lasciato senza precauzioni?- le domandai per testare la sua sincerità. -Avrei fatto una fotocopia del documento certo, ma non le avrei chiesto un deposito- disse restituendomi documento e soldi. -Aveva fretta- insistei a giustificare, e lei sorrise. -Non ci si mette mica un’ora per una fotocopia- precisò allora l’altra -ma piuttosto- continuò -perché ritiene che non sia il libro che cercava? Ha bisogno di qualcosa in particolare?- mi domandò. Non fui molto riluttante, primo perchè ero cosciente di avere bisogno di una mano nella mia ricerca, secondo perché la giovane nuova bibliotecaria, oltre che carina, mi dava la sensazione di una persona affidabile. -Sto cercando riferimenti simbolici sul numero sei per…- improvvisai una scusa imprevista che mi fece esitare un po’ -…una ricerca di tipo esoterico-. -Ah, è uno studioso dell’occulto?- esclamò baldanzosa la giovane e il mio istinto mi tradì.

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-No- dissi troppo frettolosamente, e subito mi trovai a dover dare spiegazioni -a dire il vero lo sto facendo per un’amica, è lei che si interessa a queste cose, io in realtà non so da dove cominciare- ammisi, e l’imprevisto si trasformò in opportunità. -Davvero? Allora è fortunato, io sono un’appassionata di queste cose, magari me la fa conoscere questa sua amica- mi propose. -Ne sarei felice, le chiederò se vuole incontrarla, nel frattempo potrebbe consigliarmi qualcosa di adatto?- -Certo, vuole portare via il libro o lo vuole consultare qui?- -Per il momento preferisco consultarlo, voglio solo capire se ci sono cose che le possono interessare sa…- Mi guardò sospettosa -vuole fare un regalo e vuole essere sicuro che sia quello giusto?- ammiccò con complicità e assecondarla non mi parve poi così drammatico. -Sì, in effetti- cercai perfino di arrossire. -Bene, mi segua- e mi condusse per lo stesso corridoio percorso dalla strega della mattina fino ad una piccola sala. -Questa è la nostra sezione dedicata al mistero, all’occulto e a tutte le cose arcane, non è molto fornita perché da queste parti non sono molti ad interessarsi a queste cose, ma ciò le procurerà comunque la dovuta tranquillità. Se è orientato verso la numerologia le potrei consigliare questo-. Tirò fuori un piccolo libretto intitolato “il messaggio segreto dei numeri” e me lo introdusse. -Descrive le simbologie bibliche dei numeri con riferimenti alla cabala. Se invece cerca qualcosa di meno impegnativo le posso consigliare il dizionario dei numeri e poi questi- estrasse velocemente alcuni libri e li pose su un tavolo vicino. -Non esiti a cercare altro se lo desidera e se ha bisogno di qualcosa mi chiami pure-. -La ringrazio- le dissi mentre si allontanava, sbalordito dalla sua cortesia. Quindi mi misi alla ricerca trovandomi ben presto in una condizione di totale caos dove il sei mi si presentava come numero perfetto, numero dell’ambivalenza, numero dell’esagramma, del bene e del male, numero solare e quindi divino e allo stesso tempo numero del diavolo e dopo un po’ mi trovai a domandarmi come poteva un numero essere allo stesso tempo attribuito a Dio e al Diavolo e mi chiesi perché mai tante persone perdessero il loro tempo in idiozie del genere. Pensai che chi si dedicava a queste speculazioni doveva avere o un’elevata dote di follia nel cervello o un elevato tempo da perdere e, temendo di non trovare nulla che potesse servirmi, quasi con disperazione mi portai le mani al viso. Non so per quanto restai così, tanto che a riportarmi alla realtà fu la voce della giovane commessa. -Allora tutto bene?- mi domandò, probabilmente notando la mia disperazione, la stessa con la quale la osservai e scuotendo il capo ammisi -no, non proprio-. -Non sono ciò che cercava neanche questi volumi?- mi domandò premurosa e stranamente sentii di potermi fidare di lei al punto da confidare, se non tutto, alcune piccole verità. -Il fatto è- cominciai riflettendo su come avrei potuto esporre il mio dilemma -che questa mia amica si diverte a… come dire… giocare?- Lei mi guardò con sospetto, forse pensando a giochi di tipo poco decorosi e sentendomi in imbarazzo cercai di rimediare rapidamente. -Lei è appassionata di queste cose e cerca di coinvolgermi attraverso delle specie di cacce al tesoro- vidi la sua espressione rilassarsi -così qualche giorno fa mi ha spedito questa cosa- estrassi una busta -e io ho pensato che avesse qualcosa a che fare con ciò che si aspetta che io le regali- mentii in modo spudorato ma con un senso di giustificato senso della responsabilità, come avviene in quei casi in cui certi adulti dicono a certi bambini che a volte, se lo si fa a scopo di bene, anche mentire è giusto. -Anniversario?- sorrise di nuovo con complicità e io non vidi alcuna ragione per lasciarle quella sua visione romantica. Piegai la testa e con una smorfia di ironica rassegnazione finsi di non poter nascondere il segreto inesistente. -Posso vedere di cosa si tratta?- mi domandò. Non desideravo altro giacché speravo in un aiuto non previsto. -Sì, certo- e le passai la busta. La giovane aprì l’involucro e tirò fuori la carta.

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-Ma questo è un arcano dei tarocchi- esclamò senza esitazione con quello che potrei definire addirittura entusiasmo, e io la guardai stupito, come se non mi sembrasse vero che tante persone si interessassero a cose così inutili. -Sa di cosa si tratta?- la giovane sorrise, anzi, quasi rise. -Ma certo, e specificatamente definiti universali. Il sei è il numero relativo all’arcano, ma il suo significato simbolico sta più in ciò che rappresenta la carta-. -Davvero? E che cosa rappresenta?- -La scelta- disse senza esitazione, e di nuovo mi sentii sospingere all’interno del racconto dove la scelta, o le scelte, sembravano aver condizionato ogni situazione di quell’intrigante racconto. La giovane si sedette vicino a me, non andò nemmeno a cercare altri libri tra gli scaffali e, come se dei libri non avesse bisogno, cominciò a darmi indicazioni sulla carta. -L’arcano degli amanti rappresenta il libero arbitrio degli esseri umani, ecco vede? Le due figure, quella maschile e quella femminile osservano in direzioni opposte, le direzioni verso cui dirigere la propria scelta, verso il basso, osservando la terra, istinto e materialità. Verso l’alto, osservando la figura divina, intelletto e spiritualità. In queste direzioni vi è ogni cosa, tentazioni, seduzioni, desideri, comportamenti, sentimenti… tutto. La lama numero sei rappresenta quindi il concetto di scelta, ma anche di dubbio, di decisione o di incertezza, così gli sguardi si possono rivelare anche nel simbolismo degli opposti tra cui è necessario scegliere. Gli amanti possono anche rappresentare una prova, un esame da superare come per esempio una tentazione cui resistere… ad un livello più terreno si fa sentire molto forte la componente sentimentale e può indicare il rapporto tra uomo e donna, l’innamorarsi e anche il colpo di fulmine…- Provai un brivido che pareva prodotto proprio da un fulmine e pensai a Demetrio e a quel suo amore per Virginia nato all’età di sei anni. Poi sentii la giovane proseguire. -Gli arcani non hanno la pretesa di predire il futuro come molti pensano, ma solo di dare indicazioni. La scelta in questo caso non dovrebbe riguardare un unico proprio vantaggio, ma un bene comune, sia rivolto a se stessi che agli altri-. La guardai con l’espressione riconoscente, ma ancora incerto -e perché è contrassegnato dal numero sei?- La giovane rise di nuovo, ma non per sarcasmo, piuttosto per il piacere, forse, di poter descrivere tante di quelle cose da cui lei era attratta e di cui pochi, secondo quanto aveva detto poco prima, si interessavano. -Il sei indica l’equilibrio che nasce dall’unione degli opposti. Per questo il suo simbolo geometrico è l’esagramma, conosciuto anche come stella di Davide-. -I due triangoli che si intrecciano?- questo lo ricordavo. -Esatto. Sotto questo aspetto nell’arcano degli amanti il sei rappresenta la scelta tra due strade, una diretta verso l’alto, la via spirituale, e l’altra verso il basso, che riguarda la parte più materiale dell’uomo, quella più fisica. Il sei rappresenta l’unione perfetta perché le due parti che lo compongono hanno lo stesso peso, tre più tre, rappresentato dai lati dei triangoli, che nel simbolismo indù viene rappresentato con il cerchio del tai chi, da noi conosciuto come il più classico simbolo della vita, quel cerchio con i due opposti bianco e nero che si intrecciano in una spirale con un pallino bianco sullo sfondo nero e viceversa…- -Ho letto però che è anche associato al diavolo- la interruppi, non per competere con lei o per provocarla, ma per avere una visione più completa visto che la giovane sembrava ben preparata. -È ovvio- mi rispose, e io non ci vidi niente di tanto ovvio, al punto che la fissai come se mi prendesse in giro. -Ma allo stesso tempo è definito anche il numero perfetto che rappresenta il sole e quindi Dio. Come può una cosa rappresentare sia Dio che il Demonio?- dissi per giustificare la mia perplessità. La giovane rise di nuovo nello stesso modo affabile di prima e riprese, felice di poter continuare a dare tante indicazioni. -Proprio per il fatto di essere l’interazione tra due entità perfette che si attraggono e allo stesso tempo si respingono-. Ammetto che cominciavo a sentire un crescente mal di testa -il diavolo sarebbe un entità perfetta?- domandai incerto di poter comprendere.

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-È una questione di punti di vista, di prospettive se vogliamo. Il bene e il male sono due concetti decisamente diversi, ma solo perchè all’opposto l’uno dell’altro, tuttavia nel male supremo come possiamo negare la suprema perfezione?- -Sì, ma si parla di una perfezione distruttiva- le feci notare. -Solo in parte- disse però lei -il bene resterebbe un concetto astratto se non fosse per la sua componente opposta. Per fermare un criminale, come ad esempio Hitler, fu necessario un atto di distruzione. A volte è necessario distruggere per poter ricostruire…- pensai a Shiva e al suo concetto di distruttore che avevo incontrato nel percorso di lettura del racconto. -Quindi Dio e Diavolo sono complementari?- cercai di comprendere. -No, sono alleati. L’uno non può esistere senza l’altro. Se esistesse solo la luce lei saprebbe dire che cos’è la luce?- Riflettei. Istintivamente stavo per rispondere affermativamente, ma poi mi resi conto che se avessi vissuto in una dimensione di sola luce, probabilmente non avrei saputo riconoscerla perché non avrei avuto nulla con cui confrontarla e come un ebete rimasi in silenzio. Alla giovane però era chiaro che il mio silenzio era una conferma di comprensione di quanto aveva cercato di dimostrare, quindi tornò ad occuparsi della descrizione del sei. -Il sei è considerato semplicemente numero del diavolo come opposto al numero divino. L’esagramma, stella di Davide o stella a sei punte è un simbolo solare perché comunque la si ponga ella indica tutte le direzioni, così come il sole che risplende in ogni direzione. Rappresentando noi la divinità sotto forma di luce ed essendo il Sole la fonte di luce più grande che noi conosciamo, identifichiamo nel sole il Dio supremo, ma allo stesso tempo se dovessimo invertire la prospettiva della luce, il sole nel suo contrario diverrebbe la fonte di ombra più profonda, l’oscurità nella quale noi identifichiamo il Diavolo. Ecco perché il sei è numero sia del divino che del demonio-. Non so in che modo, ma ogni cosa improvvisamente cambiava prospettiva nella mia visione quotidiana. -Ogni cosa lo dimostra- proseguiva intanto la giovane bibliotecaria -anche i colori. Il giallo per esempio è colore dell’oro, il minerale più puro che ci sia sulla terra e per tanto nell’oro noi riconosciamo il lato divino, ma è anche il colore dello zolfo, che al contrario è un minerale povero e puzzolente, e in questo collochiamo la presenza del diavolo-. La osservai stupito e una sorta di provocazione questa volta mi sovvenne -entrambi però hanno origine dalle profondità della terra- le feci notare. -Questo perché rappresentano la parte materiale, oro e zolfo sono fisici, luce e ombra no. L’oro e lo zolfo rappresentano la ricerca che nasce dal profondo e da ciò che scopriamo in noi, la scelta verso il bene e il male, la luce che proviene dal sole invece ha origine dal cielo, così come l’ombra che essa produce. Se siamo attratti dall’oro o dallo zolfo è evidente che il nostro percorso di ricerca è molto materiale e si basa su concetti concreti, fisici, dimostrabili e conoscibili. Se al contrario siamo più attratti dalla luce e dall’ombra, la nostra ricerca è rivolta più verso ciò che è astratto, immateriale, percettivo, indimostrabile e inconoscibile-. Quando concluse, mi sentii come svuotato. Discutemmo ancora per un po’ ma in modo più confidenziale. Avrei voluto rivelarle che cosa mi aveva condotto a quell’assurda ricerca, ma qualcosa mi induceva a pensare che ormai ero solo. Solo con quella carta dei tarocchi tra le mani.

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Senza futuro… Quando tornai all’albergo era già sera e nell’intrigante quanto affascinante ricerca che mi aveva condotto nell’universo che avevo solo in parte cominciato ad esplorare grazie a Felona, mi resi conto di aver completamente perso di vista il motivo dell’impegno che mi aveva condotto alla biblioteca, ossia, proprio ritrovare Felona. Era partita la mattina, non so a che ora ma probabilmente presto e sicuramente ormai doveva già essere a casa. Così riprovai a chiamarla al telefono, ma come nelle altre precedenti chiamate a rispondermi fu la segreteria. Dedussi che doveva essersi recata allo studio e aver ripreso il suo quotidiano lavoro di terapeuta e come se fossi un cliente che voleva prendere un appuntamento composi il numero dello studio. Una sorpresa imprevista mi sconcertò con una meraviglia che non poteva creare più stupore quando una voce registrata dalla sgradevole cadenza meccanica mi avvertì che il numero composto era inesistente. Pensai di aver sbagliato a comporre il numero e quindi riprovai, rendendomi conto solo un istante dopo aver dato l’invio che non potevo aver sbagliato un numero che era memorizzato nel cellulare e al quale già in precedenza avevo chiamato, tuttavia restai ad ascoltare e di nuovo la voce meccanica, con indifferenza e nessuna irritazione per la mia insistenza, tornava a ripeter che il numero era inesistente. Valutai che forse il numero era stato cambiato, forse proprio per impedirmi di rintracciarla come se desiderasse veramente che tra noi non vi fossero più contatti, ma la cosa mi parve strana e insensata giacché se non avesse più voluto avere niente a che fare con me le sarebbe bastato dirlo, e ormai la conoscevo abbastanza bene da sapere che non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farlo. Ciò però non mi rallegrò perchè se questa poteva essere una possibilità che spiegava l’impossibilità di ricontattare lo studio, il mistero di dove fosse Felona cominciò a crearmi sospetti poco positivi. Riposi il cellulare nella tasca ed entrai nel salone dell’albergo. Il custode del mattino stava ancora al suo posto, attendendo probabilmente la chiusura del suo turno e io fui contento di potermi rivolgere nuovamente a lui invece che al collega irritante prima che svanisse nella conclusione della sua giornata lavorativa. -Mi scusi- attirai la sua attenzione avvicinandomi al banco. -Prego?- mi rivolse ancora l’affabile sorriso con la cortesia dell’impiegato diligente. -La signorina Bussola…- dissi, poi attesi come ad assicurarmi che comprendesse di chi stavo parlando. -Quella dell’appartamento 411?- confermò. -Sì, esatto, questa mattina, ha chiamato un tassì per andarsene giusto?- -Sì esatto, l’ho chiamato io stesso- mi rispose con l’inossidabile cortesia. - Mi scusi se insisto, ma non le ha detto per caso dove era diretta?- Allargò le braccia in segno di negazione, ma poi parve sovvenirgli alla mente qualcosa. -Non ha parlato di dove volesse andare, ma mentre stavo sbrigando le pratiche della chiusura del conto, disse qualcosa a proposito di un cimitero, anzi, ora che ci penso mi ricordo che domandò se io conoscevo il custode del cimitero di Casterba-. -Davvero?- come i miei occhi, le mie speranze ripreso a illuminarsi. -Sì, forse perché sapeva del mio interesse per Valbordi e conseguentemente per quel paese che ormai non esiste più, sa, come le raccontavo…- Stava per riprendere la sua loquace discussione sulle differenze tra i paesi nei quali era vissuto, ma io non avevo tempo ne possibilità di lasciargli avviare un argomento che mi avrebbe portato via tempo prezioso. -È possibile quindi che si sia recata laggiù?- gli domandai come se lui dovesse in qualche modo saperlo. Il suo sguardo mi fece comprendere l’assurdità della mia domanda, ma non nel modo in cui l’avevo interpretata io, ma piuttosto per una rivelazione che non consideravo, non ancora almeno. -Ne dubito- rispose -Casterba è un paese fantasma ormai, laggiù vi sono solo case diroccate e cani randagi e che io sappia, non esiste nessun custode del cimitero, soprattutto dopo il terremoto- comunicò. Stupito provai quasi terrore -di quale terremoto parla?- gli domandai. -Quello del 2012- rispose con la serenità di chi pensava che quella calamità fosse ancora ben lucida nelle menti di chi aveva un’età compresa tra la mia e la sua, ma proseguì, forse in valutazione del

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ragionevole dubbio -tra la primavera e l’estate di quell’anno l’Emilia Romagna fu colpita da una serie di scosse di terremoto comprese tra il quarto e il sesto grado della scala Richter. La formazione geologica del sottosuolo fece sì che le scosse si divulgassero nel tempo per diversi giorni, ma le onde d’urto si propagarono anche ai paesi vicini della Lombardia e del Veneto, e Casterba, non molto lontano dall’epicentro, non ne restò immune. Essendo un paese già vecchio, subì diversi danni, molte strutture crollarono e l’antico cimitero fu una delle più danneggiate. Inoltre il paese era già talmente piccolo quando era abitato che i defunti venivano sepolti a Valbordi. A dire il vero Casterba non si poteva nemmeno considerare un paese, già a definirlo frazione si sarebbe esagerato, e comunque il cataclisma ne segnò la definitiva disfatta e il totale abbandono-. Restai stupefatto e incredulo. Io avevo visto il cimitero, e ora quell’uomo, che proveniva dagli stessi luoghi, mi informava di qualcosa che non poteva essere reale. -Ne è certo? Io sono stato a Casterba e ho visto sia il cimitero che la chiesa. Ci sono case abbandonate è vero, ma non sembrano poi così mal ridotte-. Il custode rise -lei vuole scherzare vero? Casterba è disabitato da almeno vent’anni. Io ci sono nato e già quando ero bambino non c’erano abbastanza ragazzini neppure per tenere aperte le scuole, la chiesa restò come un monumento, ma per celebrare le messe veniva fatto venire un sacerdote da fuori paese, in quanto al cimitero, come lo ho detto, credo che gli ultimi a essere stati sepolti laggiù risalgano ad almeno… sì, almeno vent’anni fa. Io di funerali in quel paese ne ricordo forse due. Mi creda, non c’è più niente a Casterba -. -Mi prende in giro vero?- dissi quasi agonizzante, e con un senso di nausea cominciai a ricordare ciò che stava scritto nell’avvertimento, dove il misterioso scrittore ipotizzava la possibilità di una morte collettiva di cui ogni concittadino del piccolo paese poteva essere ignaro e continuasse a vivere una realtà alternativa da non morto e non vivente. -No signore, e se non fossi abbastanza perspicace per capire che deve aver fatto confusione con i luoghi della zona, direi che è lei a prendermi in giro-. Lo disse con gentilezza e sincerità, ma sono certo che se avessi insistito avrebbe cominciato a considerarmi pazzo da tanto spontanee erano le sue affermazioni. Restai inebetito per un po’, quindi presi istintivamente il portafogli e annunciai -voglio chiudere il conto-. Il gentile custode mi guardò quasi temesse di essere colpevole del mio voler lasciare l’albergo e temesse un rimprovero dal direttore -ma signore…- balbettò -tra poco serviamo la cena-. -Lo so, ma non m’importa. Devo proprio andare- dissi consapevole di quanto dovevo apparire strano agli occhi del giovane inserviente. Lo vidi grattarsi la testa, poi quasi timoroso di scatenare una reazione che non avrebbe saputo contenere con un certo timore cercò di avvertirmi -la cena di questa sera comunque…- -La metta pure nel conto, conosco le regole- lo giustificai. Senza ulteriori esitazioni prese il registro e iniziò a digitare tasti per scrivere sul computer, poco dopo il conto apparve sul display e l’ormai inerme custode me lo mostrò senza dire nulla. Gli passai la carta di credito che con un movimento né rapido né lento fece strisciare nell’apposita fessura. Attese la risposta dell’avvenuto pagamento e mi consegnò la fattura. Gettai le chiavi della camera sul banco e senza dir altro mi voltai per andarmene. -Signore- mi sentii richiamare -non vuole nemmeno liberare la stanza dai suoi effetti personali?- Non avevo niente da portare via, escluso qualche ricambio di biancheria intima usata che scompostamente avevo lasciato nel bagno, e forse qualche inutile scontrino. -Buttate via tutto quello che trovate, se non vi serve- risposi, e con tutta la follia che dovevo dimostrare, senza nemmeno ringraziare corsi fuori. Allontanandomi, potei osservare l’unico ospite rimasto, l’uomo in nero, mentre consultava quella che sembrava una tabella degli orari dei treni, e nella frenesia, senza preoccuparmene, nemmeno lo salutai.

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…Se non vedi il futuro che hai davanti guada quello che hai dietro… Quando giunsi a Casterba tutto apparve diverso, mutato e totalmente irreale rispetto a come lo ricordavo, il che mi condusse a pensare che ciò in cui credevo era che fossi entrato veramente in una dimensione allucinogena, oppure ne ero appena uscito, e quindi quella che vedevo era la realtà che precedentemente avevo osservato in forma fenomenale. La mia mente cominciò a vorticare in un caos di follia schizofrenica in cui cominciavo a convincermi che stavo vivendo nella forma di una doppia personalità in cui, né l’una né l’altra sembravano essere reali, rendendomi così incapace di valutare chi tra il Donato che aveva visitato il decoroso cimitero e quello che stava guardando adesso il decadente paese fosse quello effettivo. Le case erano veramente ruderi senza più alcun valore di interesse commerciale, strutture desolate dai muri instabili, pericolanti edifici che sembravano più vecchie delle rovine dei tempi antichi. Fragili corpi di mattoni senza anima, privati dello spirito e della memoria, dove pigre piante nascondevano dietro un superficiale e smorto verde vegetale, un cupo e grigio tormento che sapeva di desolazione e morte. La chiesa che stavo superando non era restaurata e ordinata, ma decadente, ostile e sconsacrata, con le campane che pendevano senza oscillazione, immobili perfino al soffio del vento come zavorre appese al filo del tempo, in attesa di essere sconfitte dalla gravità, o dalle intemperie del tempo che le stava corrodendo. L’unica cosa che potevo presumere a quel punto, era che se una vecchia chiesa esisteva su quel suolo che poco prima mi era stato descritto invece come privo di ogni cosa, probabilmente esisteva anche un vecchio cimitero che seppure non fosse stato quello che avevo osservato nell’allucinazione precedente, doveva avere una sorta di ruolo in ciò che più di qualsiasi altra condizione, ora più che mai, cominciava ad apparirmi come un sogno. E fu quando mi fermai davanti al cancello diroccato e scardinato di tale rudere che riconoscevo come il cimitero di Casterba, che ricordai le parole di Felona: “Se tu non sogni allora, forse sei tu stesso un sogno”, aveva detto, e adesso, simile condizione non mi pareva più tanto folle. Lento fermai la macchina che nel suo lusso appariva come l’oggetto assurdo visibile in uno di quei dipinti di arte moderna in cui gli autori cercavano di stupire in qualche sciocco modo gli osservatori, senza magari aver ben chiaro nemmeno loro stessi la banalità di determinati contrasti privi d'effetto. Mi avvicinai con timore. L’inferriata pendeva da un lato costringendomi ad un inchino per oltrepassarla e a una sorta di contorsione in cui dovevo stare attento a far passare gli arti uno alla volta in una giusta sequenza per non rischiare di incastrarmi o cadere. A quel punto un sospetto mi colse, ma solo come una speranza in quanto se tale supposto fosse stato assecondato, gran parte dei miei timori avrebbero potuto prendere una direzione diversa e trovare molte soluzioni che avrei saputo accettare più della conferma del dubbio che consisteva nell’effettiva esistenza di un custode. Ma già sapevo che nascosto dietro una lapide, qualcuno mi stava attendendo. Mi guardai introno e quando non lo vidi iniziai a sperare veramente che il mio dubbio fosse fondato, ma proprio quando stavo per cessare la ricerca come un bambino che per avere conferma ad una sua speranza non vuole addentrarsi oltre in una camera buia in cui teme possa nascondersi l’uomo nero e già si sente vincitore perché tuttavia è riuscito a varcare la semplice soglia della porta, come se il mio uomo nero avesse intuito quel desiderio di fuggire, un accordo stonato di chitarra spezzò il silenzio circostante e in un solo istante l’illusione mi condusse fuori del sogno per consegnarmi all’inaccettabile realtà che Casterba era reale, io ero reale, e quel musicista stonato non era un fantasma. Voltai lo sguardo verso la provenienza del suono e vidi il manico della chitarra spuntare da dietro la lapide rovinata, sporca e logorata, senza alcun sintomo di restauro o riproduzione recente. Rabbrividii, ma conscio, o meglio, inconscio del mio ruolo, mi avvicinai. -Dov’è?- domandai a colui che consideravo l’emissario del diavolo, forse per intimidirlo come facevo in certe mie indagini con taluni elementi che con resistenza negavano ogni evidenza. Ma il guardiano delle anime non era soggetto alle intimidazioni e come mi stesse attendendo, quando parlò compresi che non avevo a che fare con un indagato riluttante. -Salve- disse infatti con una calma surreale -guarda chi si rivede. Allora il paese ha veramente del potenziale turistico se la gente ritorna- ironizzò.

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Lo osservai guardingo, accorgendomi che di tutto ciò che era stato solo il giorno precedente, l’insignificante musicista, o giocatore, o qualunque altra cosa fosse stato, era l’unica cosa che si poteva dire essere rimasta uguale, compresa la sua chitarra scordata. -Non ho tempo per i tuoi giochi- dissi cercando di nascondere la paura che tuttavia doveva trasudare da ogni mio poro e produrre perfino l’odore di se stessa. -Dimmi dov’è- lo incalzai cercando di apparire minaccioso, ma ancora il mio atteggiamento non scalfì la sua calma. -Devi essere preciso nelle tue domande investigatore, altrimenti la tua indagine rischia di subire contaminazioni. Dov’è chi?- rispose evidenziando l’inutilità dal mio tentativo intimidatorio. -Felona- dissi allora rassegnandomi al fatto che non avevo nessun controllo della situazione. -Ah, la bella assistente? Non lo so. Come mai, ti ha mollato?- Improvvisamente mi sentii smarrito perché avevo l’impressione che il vecchio pazzo non stesse mentendo e con la stessa improvvisazione sentii anche l’incapacità di reagire e di arrabbiarmi al punto che, stanco e rassegnato crollai a terra sedendomi sulla tomba che stava di fronte al vecchio chitarrista. Appoggiai come lui le spalle al marmo e mi lasciai cadere il viso tra le mani. -Sei depresso amico?- mi sentii domandare. Alzai lo sguardo e lo fissai -tu sai tutto vero?- -Tutto cosa?- Gettai a terra il documento che stava nella custodia della borsa che ormai mi portavo sempre appresso. -Sapevi del documento, sapevi quello che stavamo cercando, sapevi come sarebbe finita, è così? Sei un suo complice-. -Complice? E di chi?- -Del diavolo- proruppi, senza rendermi conto dell’immensa potenza che stava nelle parole appena pronunciate. Parole che in un contesto normale mi avrebbero assicurato una cella in una struttura per malati di mente, ma che in un contesto fuori del normale, potevano scatenare eventi ingestibili e veramente incontrollabili da una mente limitata come la mia. Il custode mi guardò perplesso -sei sicuro di sentirti bene?- mi domandò quasi fosse veramente preoccupato per la mia salute. -Non ho più voglia di essere preso in giro, dimmi cosa sta succedendo. Perché sapevi tutte queste cose? Chi sei veramente?-. -Ho riconosciuto il documento perché ho visto mentre veniva scritto- rispose come se realmente la sua fosse una figura del tutto estranea ai fatti accaduti -e siccome ho ancora una certa capacità di deduzione, ho immaginato che stavate facendo una ricerca-. -Perché? Perché immaginavi che stavamo facendo una ricerca?- -Perché si dice che il vecchio Tommaso impazzì pochi giorni prima di andarsene, e i pazzi lasciano sempre qualche segno della loro follia…- -Prima di andarsene?- domandai sorpreso. -Sai- cominciò il guardiano posando la chitarra a terra -la pazzia ha molte sfaccettature e può sfumare in molti contesti che alla fine si possono considerare: punti di vista-. -Che cosa vuoi dire?- Mi guardò, e come a volermi confermare di quante fossero le sfumature con le quali si poteva considerare la pazzia sembrò volermene dare una dimostrazione. -Tu sai prevedere il futuro?- mi domandò, e io valutai quel suo cambio di direzione nel dialogo proprio come se avessi a che fare con un pazzo, il che non mancò di essere inteso dal custode. -Ecco vedi? Questo ne è un esempio- riprese la chitarra e strimpellò alcuni accordi, armonici, intonati. -Perché fingi di non saper suonare?- gli domandai allora dandogli forse un altro esempio della mia follia che mi conduceva da un’indagine seria ad una apparentemente inutile. Il vecchio mi guardò -io non so suonare, tal volta mi capita di azzeccare qualche nota intonata…- disse, poi mi ripropose la domanda -allora, lo sai prevedere il futuro?- -Certo che no, perché dovrei saperlo prevedere?- -Perché sei uno di noi- disse riformulando l’allusione già fatta. -Io non sono per niente come te, o uno di chiunque tu intenda- dissi irritato.

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-Oh sì che lo sei, solo che ancora non te ne rendi conto- rispose con la sua perentoria calma -altrimenti- continuò -perché saresti ancora alla ricerca?- -Perché ho preso un impegno- dissi anteponendo la mia professionalità perfino alla irreale circostanza in cui mi trovavo. -Ma il tuo impegno è finito- disse il vecchio -o devi ancora finire di leggere il documento?- mi domandò. Io osservai i fogli sparsi a terra e mi resi conto che, sebbene non comprendessi in che modo poteva sapere quale fosse il mio impegno, aveva ragione. -Ma questo fascicolo non mi ha condotto a nulla- dissi allora come se la cosa dovesse importargli. -E con questo? Rifletti, qual’era l’impegno che avevi preso con il cliente?- Non risposi perché ero certo che quell’uomo già lo sapeva -come sai queste cose?- gli domandai invece. -So osservare amico mio- mi rispose, poi tornò a suonare -e tutto quello che vedo mi rivela più di quanto le parole non possano fare- continuò a suonare e io lo lasciai parlare mentre si accompagnava con tristi arpeggi. -Sai, la gente di Casterba ha sempre vissuto in una sorta di scrigno dorato, un regno incantato dominato da un retto imperatore. Il vecchio D’amanti, negli anni dell’abbondanza, assicurava a tutti un prolifico futuro, ma lui era un uomo che aveva creato il suo impero dal nulla, ovvero, dal poco che la sua famiglia gli aveva lasciato. Certo quando lui iniziò ad espandere i suoi possedimenti e ad aumentare il suo capitale patrimoniale erano tempi diversi, tempi in cui uno che sapeva approfittare e sfruttare le opportunità poteva facilmente costruirsi una fortuna, e il vecchio D’amanti era uno che sapeva bene come sfruttare le occasioni, ma restava pur sempre un uomo che poteva contare solo sulle proprie esperienze e sul proprio intuito, perciò, quando il suo patrimonio passò nelle mani dell’erede, il buon Tommaso, la gente di questo paese si sentì ancora più sicura del proprio futuro. L’erede non solo poteva contare sugli insegnamenti e sull’esperienza acquisita dal padre, ma aveva anche una solida istruzione alle spalle…- -Laureato in economia e commercio, scienze politiche e legge- sottolineai io. -Già, immagina la combinazione di una mente scaltra grazie alle esperienze acquisite e la conoscenza del difficile mondo burocratico moderno. Un vero governatore… solo che la gente di questo paese non aveva valutato che questo non era ciò che lui voleva essere. Lui è diventato così per soddisfare le esigenze degli altri, della famiglia, dei sudditi del paese che si aspettavano da lui la continuità delle tradizioni di famiglia che assicuravano abbondanza e lavoro a tutti… lui era come noi, un sognatore che si annoiava ai convegni finanziari ma che si eccitava di fronte alle fantasie di quattro folli visionari… il suo mondo è stato represso, spianato come una collina di detriti su cui erigere un edificio artificiale, circoscritto da muri di cemento e acciaio e chiuso da porte senza chiavi…- Ebbi l’allucinazione di un sogno descritto nel documento e un’intuizione mi fece collegare la sua allusione alla collina spianata come la metafora simbolica che si traduceva nella realtà della creazione del parco come il simbolo di una volontà mai espressa. Il custode intuì il mio pensiero e continuò -…e in questo castello lui era al sicuro solo se accettava di essere imperatore del volere altrui, dove un sovrano può congiungersi solo con i sui simili…- nella mente mi saettò veloce una voce che diceva “incesto” mentre l’altro continuava -…in un regno così, non si può mostrare la propria diversità…- omosessualità fu la parola che saettò questa volta, forse il simbolo più potente con cui l’umanità sapeva sottolineare la diversità -…ma quando il suo mondo cominciò a declinare e la sua mente non riuscì più a contenere tutto ciò che aveva represso, la sua ragione cedette e alla gente non fu difficile condannare la sua pazzia quando lasciò tutto ciò che aveva alle multinazionali cedendo tutto il suo capitale alla moglie e al figlio per infine, scomparire-. -Quindi se ne andò- sospirai -e dove? Cercò Demetrio per vendicarsi ritenendolo l’ispiratore della sua pazzia?- Il vecchio scosse la testa -non credo abbia mai ritenuto nessuno responsabile delle sue conseguenze, non dopo che le ebbe comprese almeno. No, andò a cercare Virginia-. -Ma non la trovò vero?- Scosse di nuovo la testa -come lo sai?- mi domandò, ma io ero certo che già conosceva la risposta. -È scritto lì- indicai il documento.

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-A già- disse con aria riflessiva -è che io non so come finisce-. -Finisce così, con lui che dice che non ha più rivisto nessuno di tutti coloro che hanno fatto parte della sua vita. Forse si è ucciso?- -Ucciso?- ripeté come se la mia fosse stata una bestemmia intollerabile -assolutamente no. Lui fece qualcosa di molto bizzarro, ma evidentemente non lo racconta in quel libro- -Dipende. A cosa ti riferisci?- -Non racconta della grotta?- -Quella di Oliero? Sì ne parla-. Di nuovo scosse la testa -no, lui comprese che non trovava Virginia perché la cercava nei luoghi sbagliati, e la grotta era rimasto il suo unico indizio da cui iniziare la ricerca di Virginia… la vera ricerca. A proposito, lei è tornata sai?- -È tornata? E quando- improvvisamente tutto mi parve secondario a quella notizia, se potevo trovare lei, potevo avere tutte le informazioni che desideravo. -Non molto tempo fa- mi sorprese. -Sii più preciso-. -Non saprei dirlo con esattezza, io non conto più il passare del tempo da molto ormai, non ne ho più necessità-. -Dimmi dov’è- dissi quasi gridando spazientito allora. -Ci stai seduto sopra- mi rispose allora con più calma del solito, se era possibile, mentre io con un balzo mi alzavo dalla tomba e con irrispettoso ribrezzo osservavo l’epigrafe sul marmo “Virginia Turchese 29 05 1969 – 03 06 2023”. -Sepolta qui? Perché- domandai. -Secondo il suo volere la figlia l’ha fatta seppellire in questo cimitero, dove stanno tutti coloro che ha amato-. -Intendi la sua famiglia?-. Il guardiano sorrise -allora, cominci a prevedere il futuro adesso?- -Non ricominciare con questa assurdità e rispondi alla mia domanda-. -Non hai ancora capito vero?-. -Che cosa dovrei capire?- -Le risposte che trovi sono nel futuro, per questo il racconto si chiude senza risposte-. -E come posso vedere il futuro?- gridai esasperato. -Se non trovi le risposte cerca le domande- disse il guardiano delle anime e qualcosa mi condusse ad un ricordo che già svaniva nella mia mente. -Ho già sentito queste parole, sei tu l’anonimo che…- non osai andare oltre perché ogni cosa stava divenendo veramente, intollerabilmente, troppo assurda. -Se non vedi il futuro che ti sta davanti, osserva quello che ti sta dietro- propose un nuovo aforisma impossibile. -Come può il futuro stare dietro?- dissi cominciando, più che a percepire, ad accettare i segni della follia in me. -Torna da dove tutto è cominciato, rivivilo nella tua mente… il futuro vive nel passato…- la voce del vecchio si confuse alle note di una musica malinconica e rilassante allo stesso tempo che le sue dita raggrinzite arpeggiavano su quella chitarra che ormai più niente aveva di scordato, e io rividi me stesso mentre aprivo il pacco, leggevo la nota introduttiva, facevo una telefonato, poi incontravo Felona e iniziavo la mia ricerca ma… prima di quegli ultimi passaggi c’era stata quella telefonata nella quale ricevevo un’informazione che mi aveva condotto al ricordo di una vecchia indagine compiuta tra le valli della Lessinia, in Veneto. Guardai il vecchio suonatore che con un sorriso smise di suonare. -Casterba non esiste- dissi sconcertato ricordando come l’amica dell’anagrafe territoriale mi aveva informato di non avere nessun riferimento su un paese chiamato Casterba ma di avere un risultato su un paese chiamato Casterra. Non attesi la risposta del guardiano e girando su me stesso, con un terribile sospetto corsi fuori del cimitero, salii sulla mia Mercedes e mi avviai veloce verso la Lessinia. Il campanile, se le sue campane fossero state quelle dell’allucinazione precedente, avrebbe suonato le sette, ma di tutta quella folle metamorfosi quasi non mi rendevo più conto ormai e mentre mi

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allontanavo non potei vedere il sorriso del vecchio mentre tra i suoi denti logori sussurrava: -Esiste amico mio, esiste eccome- poi tornava a suonare le sue malinconiche melodie.

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Angeli protettori… Guidai veloce superando la città attraverso la via della tangenziale, ma pur avendo avuto occasione di imbattermi già in passato in quel borgo quasi sconosciuto, dovetti affidarmi al navigatore perché mi condusse oltre la trafficata strada lungo vie di collina che poi si innalzavano verso i monti e divenendo sempre più strette, mi portavano fin oltre quel paese dove si trovava il suggestivo parco delle cascate per arrivare dopo un po’ più di un’ora a rimembrare strane reminescenze di quei luoghi dove, oltre che per le vie suggestive, potevo ricordare anche per gli ottimi vini. Era piccolo Casterra, e alto, sul livello del mare intendo, oltre mille metri di altitudine, dove la sera calava presto, e le ombre già si allungavano sul tramonto dietro i monti, e i riservati montanari non sembravano possedere lo stesso entusiasmo dei curiosi turisti per passeggiate serali. Tuttavia, forse perché ancora non era rientrato a casa e ancora sfruttava qualche minuto per una bevuta con gli amici, forse perché già se ne era uscito di casa per un caffé con gli amici, qualcuno sfidava la fatica del lavoratore montano e in quello che poteva definirsi l’unico bar del paese, ebbi occasione di osservare che un gruppo di anziani stava seduto ad un tavolo a giocare a carte mentre due giovani discutevano al bancone di argomenti che non potevo intercettare. Decisi così di fermarmi per domandare informazioni, riprendendo a fare ciò per cui ero pagato: l’investigatore. Posteggiai la macchina con fatica in un punto che non poteva essere definito un parcheggio e mi diressi verso il locale. -Scusate- dissi rivolto a nessuno in particolare. I quattro anziani si girarono ad osservarmi con la tipica aria sospettosa riservata agli estranei, mentre i due giovani al bancone nemmeno si interessarono continuando a discutere dei loro argomenti astrusi. -Sto cercando una persona che abita da queste parti, forse potete aiutarmi- osservai i quattro anziani pensando che avrei ottenuto più cortesie da loro, o almeno da uno dei quattro. Questi però continuarono a guardarmi con sospetto e restarono in attesa. -Si chiama Nausica…- poi pensai che non sapevo niente altro su di lei, ma immaginai che, conoscendone la storia, il cognome che portava dovesse essere quello della madre che, guarda caso, avevo scoperto quella sera stessa leggendolo sulla tomba. -Nausica Turchese- azzardai a precisare allora, poi, osservando la riluttanza e l’apparente ostilità dei quattro mi disimpegnai in una improvvisata descrizione -è una giovane ragazza che qualche anno fa ha perso sua madre, si chiamava…- -Virginia- sentii una voce estranea subentrare. Una voce che non apparteneva a nessuno dei quattro anziani, né ai due giovani, né al ragazzo che stava dietro al bancone. Alzai lo sguardo oltre il tavolo dei vecchi e osservai l’anziana signora che usciva spostando la tenda di sughero della porta che dal bar doveva condurre all’interno di quella che doveva essere la casa dei proprietari. Dedussi che doveva essere la madre del ragazzo dietro il banco e che il bar fosse di sua proprietà, o della sua famiglia. -La conosce?- le domandai disinteressandomi a quel punto di tutti gli altri presenti. -La conoscevo- disse. Ovvio, pensai, poi osservai come le espressioni dei quattro anziani si fossero fatte molto più serie e austere, quasi minacciose, più che verso di me, verso l’anziana stessa, solo che questa sembrava produrre una sorta di dominio su di loro, come se fosse la monarca di un paese rimasto fermo nel tempo alle origini delle ere governate dal dominio matriarcale. -Io sto cercando sua figlia, sa dirmi dove abita?- le domandai percependo la tensione farsi sempre più intensa. Anche i due giovani avevano smesso di parlare e si limitavano ad osservare le loro birre nei boccali. Il figlio, o quello che ritenevo essere il figlio, smise per un attimo di asciugare tazzine e bicchieri, poi riprese in silenzio ma con lo sguardo basso seguiva ciò che avveniva come una spia in incognito. -Non esattamente- disse l’anziana disinteressandosi, come non avesse alcun timore di nessuna delle figure che stavano nel locale, di qualunque tipo di sguardo o di qualunque pensiero potesse percepire nelle loro espressioni ostili. La guardai a mia volta sospettoso, deducendo che, o non voleva rivelare nulla, come se fosse una devota sacerdotessa di qualche culto strano praticato tra quei monti e temesse di profanare un qualcosa che per loro doveva essere sacro, o non doveva essere completamente sana dal momento che in un paese come quello, più ancora che in uno come Casterba, sicuramente tutti dovevano conoscere tutti e sapere tutto di tutti.

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-Virginia è arrivata qui circa dieci anni fa mi pare…- meditò, e io a mia volta feci lo stesso e, attingendo alle informazioni in mio possesso derivate dal documento misterioso, che quasi ormai cominciavo a definire “manoscritto segreto”, come quei rotoli di rame di cui si parlava in alcuni documentari sulla vita di Cristo e argomenti attinenti, dedussi che l’arco di tempo poteva essere corretto. La donna nel frattempo osservò i quattro seduti al tavolo. -Sì, anno più anno meno- rispose uno di loro, cercando di simulare un distacco che la tensione tradiva facilmente. Tornò quindi a rivolgere la sua attenzione verso di me. -Perché la sta cerando? Che cosa vuole da quella ragazza?- Il silenzio parve moltiplicarsi come se in quel momento, perfino gli insetti dell’altura fossero desiderosi di conoscere il motivo della mia presenza lì e la ragione dell’interessamento verso una ragazza che forse non era niente di più che una cameriera, ma che per qualche mistero lassù, sembrava rappresentare una divinità. Mi resi conto che tutto quel mistero e quel comportamento minaccioso, nascondeva in sé un atto di protezione, come se la gente del posto fosse una sorta di famiglia affettuosa o di guardie il cui ruolo era di proteggere la principessa del bosco incantato. Questo me li rese ammirevoli e riconobbi il loro lato onorevole, tuttavia non me la sentii di abbassare la guardia e prendendo un contegno cattedratico cercai di rassicurarli facendo credere loro di non aver alcun interesse per la ragazza al di fuori di un contesto puramente professionale. -Devo consegnarle una cosa, un documento- passai loro questa informazione e mostrai il fascicolo che avevo ancora nella mia borsa di cuoio per esibire la mia improvvisata sincerità -sono impiegato di uno studio legale- continuai a inventare, notando subito un certo nervosismo nei riguardi del riferimento ad uno studio legale, termine che doveva produrre in quei signori una forma di avversione, e subito mi destreggiai in una soluzione pacifica che li potesse rassicurare e rasserenare. -Qualche tempo fa presso lo studio per il quale lavoro è giunto questo fascicolo. Le indagini svolte hanno rivelato che è stato redatto dal padre di Nausica. L’uomo ha mandato un assegno presso lo studio incaricandoci di consegnarlo alla figlia. Io svolgo attività di investigatore in questo studio- mostrai il tesserino sperando di acquisire fiducia. In effetti, una parte di tensione parve dissolversi. Lo sguardo degli anziani si fece più disteso, i giovani ripreso la loro conversazione, il figlio barista riprese ad asciugare tazze e bicchieri con disinvoltura, e l’anziana cominciò a fissarmi con maggiore interesse. Ripresi la mia spiegazione -così sono stato incaricato di scoprire l’identità e la residenza della figlia e di portare a termine il compito per cui siamo stati pagati- dissi. -Il padre?- esclamò dopo un po’ però uno degli anziani, e per un momento temetti di aver commesso un errore di valutazione. Quella effimera distensione che avevo percepito, d’improvviso parve svanire. -Virginia non ha mai parlato del padre di Nausica- disse allora la vecchia con severità ponderando una mia possibile menzogna -pensavamo tutti che fosse morto, solo per una visione romantica, ma in realtà ciò che crediamo è che fosse un uomo che le aveva semplicemente abbandonate, o peggio, dal quale erano fuggite- rivelò le sue preoccupazioni. Cercai di trovare una rapida soluzione -forse non ne ha mai parlato perché suo padre non l’ha riconosciuta come figlia- dissi, supponendo che non sapessero molto della loro storia -e lui non ha mai saputo nemmeno dove si trovasse, per questo si è rivolto a noi. Forse dopo tanti anni è stato colto dal senso di colpa e vuole rimediare. È tutto scritto nella lettera nella quale si rivolge allo studio legale, solo che quella purtroppo non l’ho qui con me, fa parte del contratto stipulato tra le parti. Io so solo che devo consegnare questo documento. Niente altro-. -Dov’è ora quest’uomo?- domandò uno dei quattro giocatori di carte e io lo osservai percependo che ora iniziava la parte più difficile da sostenere. Ogni bugia adesso doveva essere credibile e sostenuta, e tutto doveva essere perfetto perché quella gente cominciasse a fidarsi e a dirmi ciò che mi occorreva. L’alternativa, con tipi come quelli, consisteva in un sacco di legnate. -Io di preciso non saprei dirvelo. Non ho un ruolo di consociato nello studio, mi occupo di indagini, come vi ho detto, ma temo che questo sia il risultato di ciò che si potrebbe definire l’ultimo desiderio di un uomo…- -Vuole dire che è morto?- pretese che fossi più preciso. Allargai le braccia -da ciò che ho sentito dire dai responsabili, se non lo è, lo sarà presto-. -Che cosa c’è nel fascicolo?- domandò la donna.

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La guardai con decisione -non sono autorizzato a divulgare altre informazioni, ma credo si tratti di lettere. Le posso garantire che lavoro per uno studio che non accetta lavori che mettano a repentaglio nessuno. Se questo lavoro è stato accettato, sicuramente è stata valutata ogni condizione di sicurezza, sia per il cliente che ha richiesto lo svolgimento professionale, sia verso le persone che ne saranno coinvolte-. -Non c’è mai da fidarsi di niente e di nessuno quando ci sono di mezzo soldi- disse irritato un altro dei quattro, e io temetti che la situazione si stesse indirizzando verso le legnate e, seppure amareggiato, pensai che era meglio battere in ritirata. -Come volete- dissi cercando di apparire il più possibile cordiale. Riposi la busta nella valigetta e feci per andarmene. -Virginia non abitava qui- disse allora la vecchia fermandomi, e io la guardai sorpreso, nello stesso modo in cui la guardarono gli altri. -Le mie informazioni mi guidano qui…- dissi pacato. -Sì, ma qui faceva la babysitter - si affrettò ad aggiungere allora uno dei vecchi -ha accudito per anni la nostra nipotina- disse, e da quel “nostra” dedussi che il giocatore di carte dalle folte ciglia bianche doveva essere il marito dell’anziana. Lo guardai tra stupore e commozione -era una brava babysitter, così come era una brava mamma. Non so come possano certi uomini avere il coraggio di trattare male simili angeli- disse senza nascondere la rabbia nella sua voce roca. Io restai in silenzio. -Quando si è ammalata Nausica ha preso il suo posto, anche se avrebbe potuto farne a meno-. -Che vuole dire?- domandai al vecchio che ora cominciava a commuoversi. L’anziana camminò verso di me e mi accompagnò fuori del locale -Nausica dispone di un capitale, una sorta di eredità se volgiamo considerarla tale, che gli è stato donato da quel padre di cui nessuno qui conosce nulla, ecco perché siamo sospettosi…- mi confidò in disparte. -Le garantisco che le mie intenzioni…- -In teoria non ha necessità di lavorare- mi interruppe disinteressata alle mie giustificazioni e ciò che credevo di intuire era che non sospettava di me, né di voler sapere null’altro di più di quanto già avevo detto, ma semplicemente assicurarsi che non venisse fatto nulla di male al giovane angelo che era per loro Nausica. -Ma Virginia non ha mai voluto beneficiare di quei soldi. Non li ha mai usati se non per mantenere gli studi della figlia. Tutto il resto lo ha fatto con le proprie forze. La piccola Nausica è cresciuta con questi valori e dopo che la madre è morta ha continuato a seguirne gli insegnamenti. Tutta la comunità di questo paese si è data molto da fare per convincerla ad usare quei soldi. Fosse stato per lei, una volta divenuta unica beneficiaria, li avrebbe dati tutti in beneficenza. L’abbiamo convinta ad usarli per crearsi un’istruzione, per andare avanti con gli studi convincendola che poi, una volta diplomata, avrebbe potuto fare ciò che voleva…- -Questo paese è diventato la sua famiglia? Per questo siete così protettivi- dissi. -Qui tutti vogliono bene a quella ragazza- mi disse, e la sua espressione sottintendeva una sorta di minaccia che faceva intendere che non avrebbero permesso che nessuno le facesse del male. -Senta- cercai nuovamente di essere rassicurante -io devo solo consegnarle questo, poi sparirò. Non ho nessun contatto con il padre, non saprei nemmeno dove trovarlo e non potrei nemmeno dire a lui dove trovare lei, benché non sia questo ciò che nel contratto stipulato chiede. L’unica sua volontà, per ciò che mi concerne, è che la ragazza abbia questi documenti…- -Ma lui potrebbe trovare lei- disse l’anziano dalle folte ciglia avvicinatosi. Non potevo dargli torto, come ormai non potevo nemmeno dirgli che io quel fantomatico padre nemmeno lo conoscevo e nemmeno sapevo se esisteva, tuttavia scossi la testa. -Le ripeto che ho la sensazione che per quell’uomo non ci sia più molta speranza di trovare nessuno, ma se vuole posso fare ricerche, posso chiedere allo studio…- -Nausica abita più in su- disse la vecchia sovrastando ogni gerarchia e ogni altra intromissione -Virginia voleva un luogo isolato, amava il silenzio, la natura e la libertà, e voleva che Nausica imparasse a vivere con ideali sani-. -Dove?- domandai consapevole ormai di una flebile fiducia che la donna voleva concedermi. -Oltre il paese, proseguendo verso nord troverà una piccola casa isolata, era un rudere quando Virginia venne qui. La comprò per pochi soldi, ma si fece apprezzare subito per la sua cordialità e

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disponibilità e molti di noi la aiutarono sistemare il rudere. Non abbiamo mai voluto sapere perché non facesse uso dei suoi soldi, seppure ci avesse confidato di usarli per gli studi di Nausica e inoltre, in questi luoghi, a nessuno piace farsi gli affari degli altri. Nausica sta ancora là, ora ha ripreso gli studi e presto andrà all’università. Lei mi pare un buon uomo, se è vero ciò che ha detto, concluda il suo lavoro ma poi, la lasci in pace- sembrava quasi una supplica. -Le do la mia parola- la ringraziai.

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Padrone del destino… Non fu difficile trovare il luogo indicato, sebbene quando vi giunsi fossero già le nove passate e una sensazione di inquietudine mi pervase nel momento in cui, parcheggiando l’auto ai bordi della strada, osservai l’abitazione. La struttura era decisamente dissestata e non la faceva affatto apparire la dimora di una che possedesse dei beni che andavano oltre un misero stipendio da commessa nella più umile delle botteghe del borgo di Casterra. Almeno per quello che si poteva notare da fuori. Era una vecchia casa di montagna fatta di pietra in cui i segni dell’abbandono, benché abitata da forse più di dieci anni, erano ancora evidenti ma che, nella sua umiltà trasmetteva una certa condizione di serenità che potevano, anzi, sembravano trasmettere già da quella distanza il senso di modestia e semplicità che dovevano caratterizzare l’inquilina che la abitava, sebbene ancora non l’avessi conosciuta. Per un momento ripensai alle parole dell’anziana protettrice, considerando che io, perfetto sconosciuto, mi stavo apprestando a sconvolgere l’essenza di un’armonia che qualcuno per lei aveva con difficoltà costruito, domandandomi se avevo il diritto di profanare quel sacro beneficio alla serenità che rare volte la vita concede a pochi eletti. Ma forse, pensai poi, non esistevano persone che nella propria esistenza umana potessero raggiungere un tale livello di elezione da poter essere immuni a stravolgimenti che la vita, a quanto pare, non era disposta ad elargire, e il fatto che io fossi giunto fin lì, ne era la prova. Scendendo dalla macchina respirai a fondo l’aria fresca dei monti sperando che l’ossigeno puro potesse rigenerare la mia mente, ma quel dubbio restò, conducendomi a valutare ancora con quale diritto mi apprestavo ad entrare nel privato della vita altrui, intuendo solo in quel momento che questo era ciò che avevo fatto per metà della mia vita, prima come tutore delle forze dell’ordine agli ordini di leggi infrante per prima dagli stessi che le avevano prodotte, poi da investigatore privato al servizio di gente che non sempre, per non dire mai, erano guidati da nobili sentimenti. E la mia esistenza mi parve improvvisamente squallida e misera, basata sui presupposti che la mia sopravvivenza era sostenuta dai drammi, dalle tragedie e dai difetti degli altri. Mi riconobbi in un miserabile speculatore, un approfittatore delle negligenze altrui, sulle quali mai avevo ponderato le circostanze, motivate o meno che fossero, per cui io in fine mi permettevo di giudicare e in un certo senso, condannare. Così ogni mia certezza e sicurezza si dissolveva nella triste realtà che forse, tutte quelle imperfezioni che cercavo negli altri, non erano altro che una chimera dietro le quali mi nascondevo, per non vedere le mie. Questa era la prima volta che mi trovavo a considerare e a valutare che la persona con cui avevo a che fare non aveva nessuna colpa, come probabilmente non lo avevano avuta molte altre che avevo finito per usare, senza mai vagliare quali circostanze o quali trascorsi della loro vita le avessero condotte a comportarsi in determinati modi, e nel silenzio della montagna, con le ombre del tramonto che rubavano il posto al giorno per consegnarlo alla notte esitai, considerando la possibilità di lasciare ogni cosa così com’era. In fondo, l’unica cosa che mi restava a quel punto era la scelta, e io potevo scegliere di lasciare la serenità o toglierla, a mia discrezione. In quel momento ebbi come la sensazione che una forza che travalicava la mia volontà mi stesse concedendo un potere nel quale io avevo facoltà di svolgere un compito di esagerata responsabilità, come se per pochi secondi potessi essere io padrone del destino e disporne come meglio credevo. Solo che ancora non comprendevo che l’unico destino di cui potevo essere padrone era il mio, e che le conseguenze che avrei dovuto poi considerare dovevano essere relative a quanto i mutamenti apportati dalle mie scelte avrebbero influito sul movimento del destino stesso, e alle condizioni in cui le mutazioni che ne sarebbero convenute nelle altrui presenze, avrebbero influito sulle mie. Qualunque scelta avessi fatto, aveva il potere di modificare gli eventi, ma dovendomene assumere la responsabilità, in fine, era su di me che gravavano le conseguenze e per tanto io divenivo semplicemente artefice del mio futuro, divenendo unico e semplice responsabile di quanto tale futuro avrebbe inevitabilmente corrotto o nobilitato il mio spirito. Ma tutto ciò in quel momento era ancora un debole pensiero passeggero di cui ancora non ero totalmente consapevole perché, da essere umano, la capacità introspettiva di cui disponevo era toppo limitata e la mia convinzione restava che io potevo influire positivamente o negativamente solo sul futuro, sul destino e sulle conseguenze generalizzate in una molteplicità che coinvolgeva solo coloro che stavano all’esterno, ossia, sul destino e sul futuro

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degli altri, ai quali avrei potuto fare del bene o del male solo in conformità alle conseguenze delle loro azioni, e non delle mie, perché da quelle era dipeso il mio intervento. Conseguentemente, la mia riflessione si inclinò sulla visione personale di ciò che era giusto o sbagliato nei riguardi di tale persona, e ogni altra sfuggevole supposizione si dissolse, come in ogni altra circostanza che io in definitiva non ero il colpevole ma piuttosto, un ministro di giustizia. Se avessi dedotto che dal mio comportamento sarebbe dipeso il mio mutamento morale e non quello degli altri, forse avrei valutato che lasciare la serenità sarebbe stata la cosa migliore, giacché non sempre la verità rispecchia il bene delle persone, ma proprio perchè invece consideravo che il bene delle persone dipendeva dalla conoscenza della verità, in fine, decisi che se il destino mi aveva condotto fin lì, il suo volere era proprio quello di rivelare, pensando ovviamente ancora una volta, che il destino cui mi riferivo era quello degli altri, e non il mio. Così mi avvicinai con passi lenti alla casa. Mi soffermai davanti alla porta ad osservare con riverenza l’aspetto di antico che ancora rivelava la struttura mentre dalle finestre si vedeva una debole luce, prodotta forse da una vecchia lampadina a basso voltaggio accesa, segno che Nausica era in casa, forse intenta a preparare la cena, e mi domandai come dovevano essere le serate di una ragazza giovane e sola come lei. Immaginai una serenità malinconica dovuta al vuoto lasciato dalla madre e ai pochi ricordi che ancora la sua giovane età poteva concedergli come compagni, e per un istante pensai che probabilmente non stavo portando così cattive novelle, ma anche prospettive di nuovi ricordi che potevano essere accolti come nuovi amici, nuove ricerche e nuovi stimoli, senza considerare che, ovviamente, le mie erano solo suggestive giustificazioni. Quindi osai tirare la corda cui stava appesa una simpatica campana di bronzo con sopra l’incisione di una mucca, probabile regalo di uno degli angeli custodi del paese. Si sentì un deciso rintocco dal suono limpido e molto più romantico di quello che in una casa moderna sarebbe stato sostituito da un campanello dallo sgradevole suono elettrostatico. Il tempo intorno a me sembrò fermarsi e per un istante ebbi la visione della giovane ragazza che fermava ogni sua attività e si girava ad ascoltare la nota che annunciava una visita inattesa. Aspettati in leggero imbarazzo accorgendomi che non mi ero nemmeno preparato a dare una credibile presentazione di me, dal momento che dovevo propormi da sconosciuto. Sentii il movimento di passi veloci che correvano verso la porta e mi resi conto che forse la ragazza si stava lasciando prendere da un entusiasmo che non avrebbe dovuto avere in quei luoghi solitari. Pensai quindi che avrei dovuto darle dei consigli, tipo quello di essere più prudente, ma quando la porta si aprì e la ragazza mi si presentò davanti, mi resi conto che la visita non era per niente inattesa, seppure non fossi certo io ad essere l’atteso. Subito restai folgorato dalla sua bellezza. Una ragazza esile, col viso dai lineamenti delicati, lunghi capelli neri corvini e occhi profondamente blu. Indossava un abito da sera e in mano teneva due orecchini che probabilmente stava per indossare nel momento in cui aveva sentito il suono della campana. Era evidente che aspettava qualcuno, il che giustificava la sua corsa ad accogliere l’ospite, come evidente fu il suo imbarazzo e la sua sorpresa nello scoprire che l’ospite giunto non era quello atteso. Per qualche secondo, entrambi imbarazzati per l’imprevisto che ci aveva colto di sorpresa, restammo in silenzio, poi io, che ero l’intruso, notando un timido timore nel suo viso che passava dal sorriso all’incertezza, cominciai a dare informazioni rassicuranti, cercando di introdurre il motivo della mia visita e la prima cosa che domandai ovviamente era se lei era Nausica Turchese, il che, dedussi, non era certo il massimo della rassicurazione che potevo offrire da sconosciuto. -Sì, sono io- rispose timidamente la giovane -ma lei chi è?- domandò ovviamente. Mi resi conto che sarebbe stato opportuno presentarmi e qualificarmi prima di chiedere informazioni su di lei, e a quel punto ogni mia valutazione, considerazione e organizzazione su tutto ciò che mi ero preparato a dire, svanì dalla mia mente. -Mi chiamo Donato Mastammi- mi affrettai a presentarmi imbarazzato -sono un investigatore privato e sono qui per conto di suo padre- la informai dimenticando ogni invenzione fatta precedentemente con gli angeli custodi, e mi resi conto di correre troppo velocemente vedendo la sua espressione mutare da imbarazzo in stupore. Compresi che dovevo ristabilire in fretta l’equilibrio -ma forse sono giunto in un brutto momento, stava aspettando qualcuno?- domandai più che altro per prendere tempo. Per un attimo sul volto le riapparve un sorriso che distolse la sua attenzione dall’annuncio appena ricevuto, ma la notizia traumatizzante fece svanire in fretta l’illusione.

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-In effetti sì- rispose quasi senza ricordare la domanda, subito dopo infatti tornò a ciò che le avevo introdotto con troppa irruenza -ma cosa diceva su mio padre?- Mi resi conto che ormai avevo superato un confine che non potevo in alcun modo arginare, e cercando di accantonare ogni emozione presi un contegno professionale. -Sono qui per conto di suo padre- ripetei e a quel punto, come se per la giovane la ripetizione avesse avuto la necessità di confermare qualcosa che non credeva di aver capito bene, la serietà del suo viso si fece concreta. -Intende il mio vero padre?- mi domandò, facendomi capire che ancora aveva vaghi ricordi di un’infanzia in cui un padre che non era stato suo padre era ancora presente e un padre che era stato suo padre, al contrario, non era mai stato partecipe nella sua vita. Ogni mia preliminare preparazione a quel dialogo si smarrì totalmente e come chi si appresta a fare un discorso in pubblico dopo essersi preparato per giorni e all’improvviso non si ricorda più nulla dovendo improvvisare, mi trovai completamente spiazzato. Il distacco professionale non mi era per niente complice e ogni mio sforzo di contegno sembrava totalmente inefficace in quanto, in conseguenza a tutte le considerazioni fatte poco prima, già mi sentivo affezionato alla giovane e la complessità delle mie rivelazioni mi si presentavano ora così traumatiche che non riuscivo ad inventarmi nulla che potesse essere confortante, e dopo un’esitazione di inutile ricerca giustificante, rassegnato ammisi -il suo vero padre-. Per un attimo pensai che sarebbe svenuta vedendola impallidire. La sua espressione si fece seria e brusca per qualche secondo, poi sul viso parve tornare la serenità. -Io non ho mai conosciuto il mio vero padre, e mia madre non me ne ha mai parlato, se non per dirmi che l’uomo che per qualche anno della mia infanzia avevo considerato mio padre, in realtà non era mio padre-. Mi invitò a entrare. Esitai pensando che avrei dovuto evitare complicazioni, ma non trovavo alcun sistema per districarmi ormai dalla condizione che io stesso avevo creato. Mi fece accomodare al tavolo e quasi dimenticando che aveva un appuntamento mi offrì un bicchiere d’acqua, unica bevanda di casa sua aveva velocemente spiegato con un sorriso riluttante. -Veramente io sono qui solo per consegnarle una cosa- cercai di velocizzare e chiudere al più presto l’incontro, rendendomi conto un istante troppo tardi che l’unica cosa che potevo consegnarle era il manoscritto di suo padre, nel quale avrebbe scoperto verità che sicuramente l’avrebbero condotta a quel trauma che avrei voluto evitarle e mordendomi il labbro imprecai contro me stesso. Lei però sembrava interessata ad altro e quasi parve non sentire la mia motivazione. -Lei lo ha conosciuto?- -Prego?- domandai incerto di aver capito la domanda visto che la mia mente stava cercando di elaborare una soluzione. -Mio padre, lo ha conosciuto?- pose davanti a me una tazza il cui decoro aveva forse lo scopo di rendere l’acqua più attraente. No, non lo avevo conosciuto, pensavo dentro di me, eppure, avevo come la sensazione di conoscerlo da tempo, forse, a causa di quel manoscritto, da sempre. Tuttavia quella condizione mi offrì uno spiraglio. -A dire il vero no- le risposi -molti miei clienti preferiscono restare anonimi e mi contattano attraverso intermediari o attraverso dei documenti in cui mi spiegano il motivo delle loro richieste-. -Ma lui è vivo?- mi domandò, e di nuovo mi sentii ingabbiato in quella cella da cui credevo di essere appena uscito. -Io…- cercai una veloce risposta sapendo che da ciò che dicevo avrei potuto scatenare una conseguente reazione. Se le avessi detto che era vivo, avrei potuto innescare l’istinto della ricerca, se le avessi detto che era morto, avrei dovuto giustificare comunque la mia presenza in quelle circostanze e improvvisamente la citazione biblica, “la verità vi farà liberi”, mi parve un assurdo paradosso. Qualunque cosa avessi detto a quel punto, avrebbe scatenato una reazione che in nessun modo potevo controllare. Respirai a fondo e forse per la prima volta in vita mia, mi lasciai veramente guidare dall’istinto. -Nausica, io so solo che lei è beneficiaria di un fondo monetario con il quale suo padre ha voluto assicurarle un futuro. Le ragioni che lo hanno spinto a cercarla non mi sono state rivelate, forse dopo tanti anni ha avuto una crisi di coscienza, o forse ha solo voluto farle sapere che non ha mai smesso di

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pensare a lei e in questo modo le vuole dimostrare il suo affetto. Sinceramente non so dove sia suo padre e nemmeno posso dirle se sia ancora vivo o se tutto questo faccia parte di un testamento redatto in un tempo precedente. Tutto quello che posso dirle è che, nel rispetto di uno scrupolo, credo che suo padre voglia che lei continui a vivere la sua vita così come ha sempre fatto e non si lasci coinvolgere da errori che lui o altri hanno commesso in passato. Credo semplicemente che tutto ciò che volesse fare sia di chiederle perdono e di accettare ciò che è stato-. Pensai di essermela cavata bene e per un momento mi sentii fiero di me, ma mi resi conto poco dopo di sbagliare. -Perché si è rivolto proprio a lei? Lo conosceva?- insisté come se non avesse sentito ciò che le avevo detto ma con una semplicità che non ammetteva falsità, non potendo accettare che fosse uno sconosciuto a portarle notizie nelle quali forse non sperava più, o non aveva mai sperato. La guardai in silenzio cercando di farle capire che non volevo rispondere a questa domanda, ma lei mi fece intendere che era necessario, giacché per lei era come se le avessi rivelato che lo conoscevo, e quando proseguì, mi resi conto che io stesso le avevo fornito quell’alternativa. -Parla di lui come se lo avesse conosciuto. Ho quasi vent’anni ormai e non so nemmeno chi sia stato mio padre. Forse lei non può capire, o forse gli è stato imposto di non dire niente per proteggermi da qualche azzardato tentativo di ricerca, ma se sa qualcosa di più su di lui, allora me lo deve dire, almeno così potrei capire il perchè di tante cose, potrei capire il perchè della tristezza di mia madre, e potrei capire se mi amava o se…- Provai una forte emozione, e quasi senza difese non riuscii a impedirmi di provare quell’assurdo sentimento di cui tanto si parlava nel manoscritto e, bisognoso quasi di dare un conforto, contro la citazione biblica, le mentii, pensando che non sempre la verità era a fin di bene e non sempre il mentire era a fin di male. -Sì- le dissi -l’ho conosciuto, ma indirettamente e non di persona- mi affrettai ad aggiungere giacché comprendevo che se avessi esagerato avrei potuto trovarmi nella condizione di dover rivelare troppo e in quel momento il suono di un clacson che disturbava la quiete della montagna giunse, malgrado l’inopportuna gravità sgraziata del suo stridente urlo, come un salvatore. Ringrazia il propizio intervento dell’ospite atteso da Nausica e mi apprestai a concludere la mia fatica, sebbene ancora non comprendessi cosa realmente avessi concluso. Vidi la giovane chiudere gli occhi in un atteggiamento di giustificazione -mi perdoni- disse -mi ero scordata che avevo un appuntamento-. -Il suo ragazzo?- le domandai, senza immaginare che tra non molto sarei stato rigettato nell’abisso. -Sì- disse velocemente, ma poi la condizione imprevista ebbe il sopravvento perfino sul cavaliere azzurro -non ci vorrà molto, gli dirò che ho un imprevisto e di tornare domani-. Mi sentii intrappolato come un lupo preso in una tagliola e subito pensai che se non mi divincolavo al più presto la tagliola mi avrebbe troncato le zampe e non sarei più potuto fuggire, ma solo restare in attesa del cacciatore che mi avrebbe finito, e quel cacciatore, si chiamava “destino”. -No, Nausica- dissi forse con troppa irruenza -io non posso restare- allargai le braccia in segno d’impotenza -inoltre ho fatto una promessa e sono vincolato dal segreto professionale- la guardai farsi cupa e triste. -E secondo lei io dovrei restare così? Nell’oblio di un’illusione che nemmeno mi attendevo si potesse verificare un giorno?- Provai repulsione verso me stesso e scossi il capo ammettendo nella rassegnazione tutta il mio rammarico. -Senti, posso solo dirti che non ti odiava…- -E se io la ingaggiassi? Se volessi usare i miei soldi perché lei mi raccontasse di lui, allora potrebbe parlarmene?- -Sarebbe un’assurdità. Perché vuoi…- -Sono soldi miei, li posso usare come voglio no? Quanto mi costerebbe?- Potevo intuire quanto era sconvolta, e potevo capire solo in quel momento quanto io ero meschino -non le costerebbe nulla- le dissi a quel punto lasciando il tono confidenziale che nemmeno mi ero reso conto d’aver preso per tornare a quello professionale, e il suo volto si fece un misto di speranza e

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dubbio -le chiedo solo di pensarci. Ma le ripeto che io so solo ciò che mi è stato raccontato, per questo le ho detto che lo conosco solo indirettamente…- -Sì, ma io sento che lei può rivelarmi qualcosa da quel poco che ha saputo-. Il clacson suonò di nuovo ma nessuno sembrò sentirlo. -Ha detto che doveva consegnarmi qualcosa, è qualcosa che apparteneva a lui?- mi ricordò, e io mi sentii come il boia che si apprestava a infliggere l’estrema condanna. Chiusi gli occhi e annuii sentendo di non aver scampo, poi, frugando nella borsa, sentii la mano che, oltre alla documentazione che avevo deciso di donare a lei perché ritenevo che a lei appartenesse, incontrava un altro elemento presente. Non mi ci volle molto ad intuire di che cosa si trattasse, la cosa che fu più drammatica fu la brevità dell’istante in cui mi trovai a dover compiere una nuova scelta. Non volevo distruggere la sua realtà e quando estrassi la mano dalla borsa, anziché il documento scritto da suo padre, tenevo in mano il libro di fotografie di Demetrio. -È un libro che parla di dove è vissuto. Lui ha aiutato il fotografo suo amico a trovare i soggetti per realizzarlo. Credo che sia l’unica cosa che in qualche modo ritenga potesse avere un legame tra di voi-. -Demetrio- disse la giovane e io la guardai sorpreso -era il suo amico fotografo, mia madre parlava spesso di questo fotografo, credo che ne fosse segretamente innamorata, ma diceva che lui era una specie di nomade… ha in qualche modo a che fare con tutto questo?- il clacson suonò ancora nella sua completa inerzia da tanto era ignorato. -Sì ma…- non so quanto potevo osare, e non so nemmeno quanto volevo -sua madre non ne era innamorata, lo stimava molto certo ma…- -Allora lei sa- lo disse quasi come un’accusa. Di nuovo si sentì suonare. La vidi aprire la finestra e gridare all’ospite qualcosa che aveva a che fare con l’aspettare, poi tornò a rivolgersi a me, ma prima che potesse parlare io le stavo porgendo un biglietto. -Tenga questo e ci pensi, le chiedo solo di concedersi qualche giorno. Vada col suo ragazzo ora e pensi a divertirsi-. Mi guardò incerta e triste, poi sospirò -lo farò solo se mi promette che se deciderò di chiamarla lei risponderà-. Sorrisi in modo amichevole -lo farò- la rassicurai e subito vidi il suo viso stendersi in una sorta di ringraziamento. Gli occhi le luccicarono mentre il clacson suonò di nuovo. Mi guardò e a sua volta, scuotendo il capo sorrise -Dennis è un caro ragazzo, ma a volte non è molto paziente- e mentre il suo sorriso tornava a riportarle serenità sul volto, io mi sentii raggelare. -Il tuo ragazzo si chiama Dennis?- le domandai mentre sistemava velocemente gli orecchini. -Sì- rispose. -E come lo hai conosciuto?- non valutai la mia invadenza improvvisamente angosciato di cercare una risposta che non ero certo di voler sentire, e lei, nemmeno la notò. -Al funerale di mia madre. In realtà l’ho solo rincontrato. Eravamo compagni di scuola ai tempi delle elementari e mia madre era la nostra insegnante, per questo lui era al funerale. Ci siamo incontrati dopo tanti anni, non è curiosa la vita? Da un dramma è nato comunque qualcosa di nuovo, abbiamo ripreso a frequentarci e ora, pensi, stiamo addirittura progettando di sposarci… ho perso mia madre ma ho trovato l’amore- disse con un leggero ma sereno imbarazzo. Io la guardai -già, proprio bizzarra la vita- risposi mentre per un istante valutai la possibilità di consegnare il vero oggetto della mia presenza lì, poi l’irritante clacson suonò di nuovo e lei si girò verso la porta, quindi tornò a fissarmi. -Allora abbiamo un accordo?- Io annuii, sapendo che ora anch’io avevo un buon motivo per cui riflettere sul quanto e sul perché rivelare ciò di cui ero a conoscenza. Uscii per primo e lei mi seguì, ci stringemmo la mano, quindi io mi diressi alla mia auto mentre lei si avviava lenta verso il… fidanzato. Immaginai di che cosa avrebbero parlato e di come quella non sarebbe stata una normale serata per loro, così come per me quella non sarebbe stata una normale nottata perché un insolito istinto mi faceva presumere che l’avrei passata in un luogo oscuro. Vidi la macchina di Dennis avviarsi verso una strada che non sapevo dove portava e sorrisi amaramente pensando a come il destino aveva giocato subdolamente quella partita. Virginia era fuggita da Casterba senza rivelare la paternità di Nausica, accettando di essere considerata un’adultera nel

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tentativo di proteggerla e ora, da morta, lasciava a me, un completo sconosciuto, il triste compito di svelare verità scomode. Tommaso, suo complice, era stato compromesso da questo evento, eppure, mai si era saputo che il suo tradimento era stato con Virginia. Tuttavia il destino aveva trovato un modo per punirlo e quel suo ritrarsi da ogni responsabilità lo aveva condotto verso sentenze ben più gravi. Era stato spinto verso una sorte ben più angosciosa con l’accusa di un adulterio al limite della pedofilia, visto la differenza, sebbene entrambi adulti, delle età di coloro che in questo fantomatico giudizio si erano ritrovati compromessi. E la beffa era che proprio quel tradimento con la giovane Vanessa, mai avvenuto, era stato il motivo del suo divorzio… ma poco importava ormai fare un esame degli eventi, ciò che restava da considerare era che attraverso questi nessuno ora sapeva che i due amanti che io avevo appena osservato fuggire via, erano fratelli. Anna, la madre di Dennis, ritenendo Vanessa la sua rivale e non Virginia, non sapeva nulla di tutto questo, ed essendo lei all’oscuro della relazione che avrebbe dovuto essere stata la vera causa del loro divorzio, non aveva ragione di intromettersi tra i due incestuosi amanti. Tommaso era scomparso, presumibilmente morto, così come era morta Virginia senza mai rivelare l’identità del vero padre a Nausica, non certo pensando che un giorno lei stessa sarebbe stata la causa che avrebbe fatto nuovamente incontrare i due fratelli in circostanze di totale inconsapevolezza. E io adesso, ero l’unico conoscitore della verità e forse solo in quel momento mi si rivelava il motivo della mia ricerca, e pensai che il destino, veramente giocava con dadi dalle facce prive di numeri.

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I treni ritornano… Non so per quanto tempo vagai senza una meta lungo strade che non conoscevo, non so nemmeno per quanto tempo la mia stessa mente avesse errato solitaria tra le vie dei pensieri che quasi nemmeno sentivo e conseguentemente, non so che cosa fu a condurmi a tornare laggiù. Forse il mio ultimo contatto con la realtà prima di perdermi nel labirinto del vuoto, legato a quei dadi dalle facce bianche, o forse la musica trasmessa dal canale radio su cui automaticamente lo stereo si era sintonizzato quando avevo acceso il motore e che, per quella che non potrei più definire un’ironia della sorte, trasmetteva un concerto per chitarra classica che si era intromesso come sottofondo ai miei pensieri mentre guidavo. So solo che era notte fonda, forse più profonda di quanto mai fosse stata, come se il tempo le avesse aggiunto delle ore in più per renderla più assoluta e oscura, quando giunsi al cimitero di Casterba, dove il vuoto della luce artificiale che non serviva agli spettri, dava al concetto di notte un'altra prospettiva. Una piccola falce di luna calante che si avviava verso la fase di luna nuova, non aveva capacità di gettare sufficiente luce riflessa sulle ombre del paese fantasma e tutto ciò che si poteva distinguere erano solo sagome oscure di forme che solo la memoria poteva condurre a identificare come lapidi. Davanti al tetro cancello pensai che una persona normale, in una condizione normale, non avrebbe mai osato addentrarsi all’interno di un luogo che ad uno sguardo razionale avrebbe proposto il senso di una maledizione da evitare. Ma io ormai non mi potevo più considerare una persona normale, e sebbene su tale concezione avessi potuto convincermi che potevo comunque riservarmi dei dubbi, sul fatto che la condizione in cui mi trovavo non era normale non potevo avere alcun sospetto. Così alla mia vista, o meglio alla condizione che i fatti vissuti avevano condotto la mia vista, quel luogo tetro e oscuro non appariva sotto forma di minaccia ma piuttosto di comprensione, e fu con una totale mancanza di timori che osai oltrepassare l’inferriata diroccata, contorcendomi tra le sue ringhiere scardinate. Mi guardai intorno, certo non alla ricerca di fantasmi perché malgrado tutto, in quel paese fantasma, l’unica cosa di sicura era che di fantasmi non ce n’erano. Osservai verso la piccola casa di legno immaginando che il custode stesse dormendo e per un momento congetturai con perfidia la possibilità di essere io a spaventarlo spalancando violentemente la porta in piena notte, laddove nessuno avrebbe osato farlo e dove lui sicuramente non si attendeva che qualcuno lo facesse. Me lo figurai balzare in piedi con gli occhi spalancati in un atto di puro terrore al pensiero che le anime sulle quali vegliava erano reali e si erano destate per ribellarsi alla sua pigra sorveglianza, ma mi rendevo conto che stavo solamente per ingannarmi da solo perché dietro quel tentativo di ironizzare su scherzi che si sarebbero potuto fare solo da adolescenti, mentre mi incamminavo tra le lapidi, nascondevo il presentimento di sentire degli occhi su di me, ed ero certo che lì dentro qualcuno non stava dormendo. Tutto ciò che mi auguravo a quel punto, era che a non dormire fosse proprio il custode e non qualcos’altro, capendo che in definitiva, per quanto cercassi di nasconderlo a me stesso, avevo paura. Il silenzio era forse più penetrante dell’oscurità, e quando l’eco si fece percepire al mio senso uditivo, ogni ironia non avrebbe avuto alcun potere di esorcizzare nessuna paura, e nello svanire dell’umorismo macabro un brivido mi tolse, oltre al respiro, tutte le certezze, portandomi a credere che quei fantasmi che mi ostinavo a non considerare probabili, stavano invece fissandomi e magari, anziché alla pigra sorveglianza del custode era alla sgradita presenza di un intruso che non volevano nel loro regno, che rivolgevano la loro attenzione. Quel rumore somigliava ad un ritmico suono di percussioni, ma non di quelle percussioni che si potrebbero sentire ad un concerto di musica rock o classica che fosse, ma a percussioni prodotte da un tamburo che se avessi potuto definirlo in qualche modo, lo avrei determinato come fatto di vento, solo che nella notte più profonda del profondo, non c’era vento, e non c’era niente altro che potesse percuotere qualcosa che non aveva forma come il vento. La paura mi bloccò e inerme restai ad aspettare l’assalto degli spiriti mentre l’eco si faceva più intenso e percepibile, poi sembrò come scappare tra un improbabile rumore d’ali e io finii per immaginare che angeli oscuri si stessero involando su di me pensando che in fine, tutto si sarebbe concluso tra le braccia di demoni che in qualche modo avevo offeso, forse perché non avevo saputo gestire ciò che mi era stato affidato con uno scopo che ancora non avevo compreso. Sentii quindi un fonema acuto che non riuscii a interpretare e che nemmeno tentai di fare giacché già mi consideravo condannato, finché una voce non mi assalì alle spalle.

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-È solo un gufo- disse, e improvvisamente l’incanto della paura si indebolì e dopo l’accelerazione, il cuore cominciò a farsi più regolare. Era bastata la sua voce per ricondurmi alla normale concezione che fantasmi e demoni non erano reali e nel voltarmi, osservai il custode seduto dietro la solita lapide, riuscendo a determinare quell’ultimo acuto che non avevo saputo interpretare, quello della chitarra scordata. -Rilassati, non ci sono fantasmi qui, ormai anche loro se ne sono andati-. Restai in silenzio attendendo che la mia ansia si placasse mentre il guardiano mi fissava. -Sai, una persona sana di mente avrebbe timore ad entrare qui in piena notte- disse, forse per farmi capire che percepiva i miei pensieri dal momento che la ragione per cui ero lì, ne avevo la sensazione, già la conosceva. -Non avrebbe tutti i torti, soprattutto sapendo che ci sei tu-. Gli sentii fare una risata. -Allora amico, riesci a prevedere il futuro adesso?- mi domandò successivamente, ma io a quella che supponevo una domanda insensata non diedi molta attenzione. -No, non ancora- risposi con semplicità, ma già, tra tutto ciò che avrei potuto apprendere quella notte, se qualcosa avessi comunque potuto apprendere, percepivo come se ignorare la sua prima domanda, non fosse del tutto sottovalutabile. -Ancora solo? Non è tornata la tua graziosa collega?- fu la seconda domanda, che era più un’affermazione. -No- risposi senza perdermi in ulteriori dettagli. -Ah, capisco- sospirò -ma forse lei ha capito più di quanto non abbia fatto tu e così ha deciso di andarsene prima che sia troppo tardi- aggiunse al mio semplice no, e io non potei evitare di sentirmi minacciato. -Che cosa intendi dire?- Il guardiano mi osservò attentamente. -Hai trovato quello che cercavi tra le tue montagne?- mi domandò. -Come sai da dove arrivo?- -Perché se sei ciò che dici di essere a questo punto ormai dovresti aver scoperto tutto-. -E tu che ne sai di che cosa avrei dovuto scoprire?- -Non molto, ma se cercavi la figlia di Virginia e l’hai trovata, è dalle alture che devi provenire-. -E che ne sai se l’ho trovata?- -Non saresti qui altrimenti- si limitò a dire -e soprattutto non saresti solo-. Un senso di confusione cominciò ad assalirmi in maniera frenetica -tu sapevi che Nausica era figlia di Tommaso vero?- -Lo sospettavo-. -E sapevi pure dove stava vero?- -Certo-. -E perché non mi hai detto niente?- -Per due motivi, il primo è che non lo hai chiesto, il secondo è che io sono solo un custode ubriacone ricordi?- -Perché non la smetti con tutta questa farsa e mi dici cosa sta succedendo?- -Avviene semplicemente ciò che deve avvenire amico mio, per cui io faccio ciò che devo fare io, e tu fai quel che devi fare tu. Il resto, è solo passato, o futuro…- -Cosa vuoi dire?- -Che viviamo di ricordi e di prospettive senza capire perché siamo qui ora- mi fissò, e per un momento ebbi l’impressione che i suoi occhi fossero due profondi abissi senza fondo -tu lo sai perché sei qui ora?- mi domandò. Per un motivo oscuro la domanda mi sorprese con un brivido, come se percepissi che avrei dovuto sapere perché ero andato lì invece che tornarmene a casa e dimenticare tutto, e l’unica cosa che potevo determinare, era che non sapendo la mente umana reagisce sempre nel modo più arrogante, pur avendo paura, e pretende di avere delle risposte, seppure poi se ne dovrà pentire. Fu per questo che risposi con la classica arroganza che non fa riflettere: -Sono qui per avere delle risposte-. -No, tu non sei qui per avere delle risposte, giacché tu stesso non conosci le domande- espose il suo paradosso che nell’apparente banalità aveva una logica e tutto quel parlare per enigmi mi fece quasi

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pensare di essere al cospetto di un oracolo al punto che, per quanto mi sforzassi di scacciare dalla mia mente una simile paranoia, osai assecondarlo. -Ne ho un’infinità di domande- mi ribellai. -Allora ponile- disse lui tornando alla sua quieta tranquillità, e come per assurdo, non seppi che cosa domandare. -Lo vedi? Tutti pensano di avere domande sensate da fare e poi, al momento opportuno, ogni cosa svanisce. Tu non hai domande perché non hai risposte, e non hai risposte perché non sai nemmeno chi sei, e sei qui perché non sai quello che stai cercando-. Il custode sembrava avere domande e risposte per entrambi e io non riuscivo a capacitarmi del perché, fatta eccezione per l’assurda alternativa che volevo ostentatamente rifiutare, ovvero credere che quell’uomo fosse qualcosa di più di un semplice essere umano piuttosto che un uomo invecchiato precocemente prima ancora di esser stato giovane. -Io voglio sapere che cosa devo fare con Nausica- dissi allora, osando sfidare la mia logica razionalità. -E perché?- -Sposerà suo fratello- urlai. -E allora? È forse causa tua? È forse un problema tuo? Hai qualche legame con loro per cui ti deva interessare quello che faranno?- -Ma non capisci? Io ho ricevuto questo incarico per rivelare loro la verità…- -E qual è la verità…- si sporse in avanti fissandomi -…Donato-. Rabbrividii con una paura che adesso poteva superare anche quella degli spettri mentre pronunciava con un accento macabro il mio nome. -Perché non le hai consegnato il manoscritto se dovevi rivelargli la verità?- Osservai la borsa che ancora pendeva dalla tracolla sulle mie spalle e lui sorrise mentre un freddo intenso mi avvolgeva. -Non lo so-. -Oh sì che lo sai, tu hai fatto una scelta, siamo tutti qui per fare delle scelte…- -Non sempre abbiamo il tempo per fare quelle giuste…- -Abbiamo il tempo che ci serve, quello che ci è concesso. Facciamo delle scelte e queste ci conducono a delle conseguenze, ciò che non comprendiamo, è la ragione, il motivo della nostra scelta, ecco perché siamo qui… ospiti- aggiunse quell’ultima affermazione con un’apparente mancanza di senso, eppure, nulla di quanto quel pazzo stava dicendo mi appariva senza senso. -Lei mi ha invitato a incontrarla di nuovo, vuole parlare di suo padre…- -È naturale, tu non lo vorresti al suo posto? La bomba l’hai innescata tu-. -Sì, ma io potrei ancora…- un accordo stridulo bloccò le mie parole e una forte emozione mi fece temere che ormai fosse troppo tardi per rimediare. Il guardiano mi fissò con intensità -potresti ancora cosa?- -Fare la differenza tra la felicità e la malinconia, a seconda di ciò che deciderò di rivelare-. -E perché hai esitato nel momento più opportuno?- Stavo per domandargli come faceva a sapere della mia esitazione, ma poi dedussi che sarebbe stato inutile in quanto tutto era evidente, dal mio sguardo alle mie parole, tutto in me rivelava ogni mio atto. Potevo trovare la risposta da solo dal momento che lui sapeva che nella mia borsa il fascicolo che avrei dovuto consegnarle era ancora con me. -Perché ancora non sapevo che Dennis l’aveva trovata-. -Non significa niente. Tu avevi un incarico e ad un certo punto hai dovuto fare una scelta. Ora cerca di comprendere perché hai fatto quella scelta, senza cercare giustificazioni-. -Non volevo sconvolgere la sua vita- ammisi allora, e vidi il guardiano congiungere le mani al petto e proporre un lieve inchino. -Nobile atto- disse -ma non era la verità-. Un’eco giunse a sussurrare una frase nella mia mente che già troppe volte avevo sentito in pochi giorni -la verità vi farà liberi- sussurrai e il custode sorrise. -Sì, ma qual è la verità? E che cos’è la libertà?- -Tutto questo non mi serve a niente- imprecai contro di lui.

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-Solo perché temi di apprendere che la verità in cui tu credi non è la verità, e che la libertà di cui credi di essere possessore non è la libertà…- -E allora quale sarebbe la verità? Come fai a emettere così tante sentenze? Chi sei tu?- lo aggredii nel modo in cui ci si adira contro la sorte avversa. Lui però non sembrò minimamente impressionarsi, prese la chitarra e iniziò a suonare. -Io so solo ciò che la vita mi ha concesso di apprendere, se sei venuto qui in cerca di risposte assolute, allora sei nel posto sbagliato. Dico a te solo ciò che avrei dovuto dire a me stesso tanto tempo fa, e ciò fa di me solo uno stolto, e non un saggio. Di verità conosco solo la mia, così come tu puoi conoscere solo la tua-. -Tu non sai un accidente- lo rimproverai e con una sorta di delusione accennai ad andarmene, ma prima gli rivolsi un ultima domanda: -Che cosa ti ha concesso di apprendere la vita?- -Lo chiedi per sapere quanto sia alto il prezzo di una sopportazione?- rispose con una domanda, e malgrado l’oscurità, vidi luccicare una lacrima sotto il ciglio degli occhi. -Lo chiedo per sapere che cosa sia che ancora non ho appreso da questa mia, dal momento che una simile avventura non sembra sia stata tanto fortuita-. Lo sentii sospirare -ci sei stato alla grotta?- -Era solo un sogno la grotta-. -Ma non era il tuo, dico bene? Tu non lo hai vissuto, lo hai sentito raccontare-. Ancora un brivido mi trafisse mentre parole che mi sembravano essere state pronunciate secoli prima mi ricordarono quello strana opinione emessa da Felona secondo cui, se io non sognavo, allora potevo essere io stesso il sogno. -Pur sempre di un sogno si trattava- mi ribellai cercando anche di essere convincente. -Ne sei certo?- obiettò lui. -Nello stesso modo in cui sono certo di essere qui adesso- cercai di riprendere il controllo della situazione convincendomi che avevo a che fare con un pazzo. -E sei certo che questa che stai vivendo sia la realtà?- -Sì- risposi con l’irruenza degli incerti, solo per evitare di lasciarmi trascinare nel vortice dei dubbi nel quale, tuttavia, ero già immerso -è la realtà perché non può essere diversamente, e tu sei solo un folle- la rabbia stava prendendo il sopravvento su di me e quasi ne ero contento. -Questo è vero, quanto è vero che per dare una deduzione logica della realtà si dice che ogni uomo è mortale, tu sei mortale quindi tu sei un uomo- lo ascoltai, ma tutto mi pareva senza senso e infuriato lo attaccai verbalmente. -E questo cosa c’entra? Stai fuorviando ogni premessa senza darmi le riposte che cerco- lo aggredii non volendo accettare il fatto che stavo tentando di fuggire a parole che avevo già sentito, temendo che concedere al dubbio di farmi credere che quell’oracolo potesse sapere che già qualcun altro mi aveva condotto a quel ragionamento, poteva rappresentare l’ultima barriera che si sgretolava per aprirmi il varco verso la definitiva pazzia.. -Solo perché non ascolti. Tu sei certo che questa sia la realtà e di conseguenza sei certo di essere reale, ma se tu sei reale come uomo, e ogni uomo sogna, allora, anche il sogno può essere reale?- Provai un senso di vertigine e barcollai -il sogno è solo un’illusione prodotta dalla mente per mantenere le nostre funzioni vitali…- cercai di sgretolare la sua illusoria convinzione con una dimostrazione scientifica, ma non potevo evitare quella sensazione di già vissuto nel comprendere che quanto dicevo era solo ciò che avevo sentito dire da Felona, così come quanto lui stava ripetendo erano parole da lei stessa già pronunciate in un passato recente ma che già sembrava remoto, e non riuscivo a trovare una giustificazione che potesse rendere tale coincidenza, una coincidenza. E mentre lottavo contro me stesso, lui girò contro di me le mie ormai esili convinzioni. -Allora perché ora pretendi di accettare che le tue sensazioni possano essere dei sogni se come hai sempre affermato, tu non sogni?- -Io ammetto la realtà dei sogni, il non ricordarli non significa che ne sia privo-. Nemmeno mi rendevo conto ora che il custode parlava di cose che non poteva conoscere di me. -Quindi potresti ora dubitare che il sogno della grotta non fosse il sogno di qualcun altro?- mi provocò, e io a quel punto mi sentii preda del terrore. Se ammettevo il sogno, ammettevo la sua verità,

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se rinnegavo il sogno, ammettevo la mia realtà, e se la mia era realtà, significava che avevo lasciato Felona alle insidie di un carnefice pronto a gettarla tra le fauci di una bestia che ancora non conoscevo. Il sorriso del custode si fece perfido -ora sei sul baratro amico mio. Ti trovi su un bivio, da un lato Felona, dall’altro Nausica, e tutto questo, come sempre, richiede una scelta-. -Perché? Felona se ne è andata via, ed era sveglia quando se ne è andata-. -E tu? Eri sveglio?- Non riuscivo più a controllare la conversazione, ma quello che più mi spaventava, era di avere di non riuscire più a controllare la realtà. -Ma questo è assurdo. Tu stai insinuando che io starei sognando e che lei è svanita dal mio sogno? E quale sarebbe la ragione di tutto ciò? Io potrei comunque controllare il sogno se fosse come dici tu, inoltre, anche tu ne faresti parte e saresti di conseguenza un’illusione. Tu sei un’illusione?- -Assolutamente no amico mio. Io sono reale quanto tu mi puoi considerare reale. Ma se la vita stessa fosse solo il frutto di un sogno? Che differenza farebbe essere la fantasia di uno o dell’altro? Io resterei ciò che sono-. “Tu sembri uno di noi” ricordai le sue parole. -Finché chi ti sogna non si sveglia- dissi con perfidia, minacciandolo come se io adesso fossi quel dio che poteva disporre del suo destino. -È possibile, a meno che il sogno non continui a vivere da solo, e comunque non potrei cambiare le sorti del destino, per questo non lo combatto. Più si fugge dal proprio destino, e più ci si imbatte in lui. Ma più si evita di affrontarlo e più questo diventa complicato. Ora, devi fare la tua scelta, e poi, comprenderla-. -Io non posso scegliere sapendo che dovrò sacrificare qualcuno…- -La vita, in qualunque modo tu la percepisca, è piena di scelte difficili-. -Tu quindi saresti disposto a svanire?- dissi intendendo che avrei potuto decidere di svegliarmi e quindi, secondo le sue allusioni, porre fine al fantomatico e illusorio mondo in cui anche lui esisteva. -Io sono disposto ad accettare ciò che deve essere, te lo ho già detto. Ma non dimenticare che sono solo un ubriacone che a volte desidera solo poter discutere in un mondo di solitudine come è quello mio, altre volte, desidera non esserci mai stato in un mondo come il mio…- Improvvisamente compresi la sua sofferenza, ambigua e imprigionante di chi ad un certo punto vorrebbe andarsene ma è costretto a restare, e pensai al club del ventisette, quello delle star dannate, e mi sovvenne la consapevolezza che Felona, aveva ventisette anni. Il guardiano mi guardò come se avesse compreso il mio pensiero. -Tommaso, dopo che restò solo, non sparì subito. Restò nella sua villa, per scrivere quello, penso- indicò la borsa di cuoio -e quando io andai da lui, la sera in cui mi consegnò questa- fece suonare un accordo alla chitarra -vidi qualcosa-. -Che cosa?- gli domandai quasi senza interesse. -Terra-. -Terra?- -Esattamente. Sulle sue scarpe, e sulle scale che portavano nel seminterrato-. -E questo cosa vorrebbe dire?- Allargò le mani -forse niente, ma l’impressione che ho avuto, era che laggiù stesse scavando-. -Scavando? E che cosa?- -Chi può dirlo, forse la sua tomba o forse ormai era ridotto alla follia, ma prima che me ne andassi, pregandolo di non parlare troppo di me nel suo manoscritto, mi disse che stava cercando qualcosa, e che per trovare quel che cercava doveva costruire qualcos’altro-. -E che cosa doveva costruire?- -Non lo so amico. Io non l’ho più visto da allora-. Volevo continuare a parlare, a fare domande, ma avevo l’impressione che non vi fossero più domande né parole da dire. Non capivo perché mai d’improvviso avesse rinunciato alla sua filosofia del sogno per raccontarmi quella storia che non poteva far altro che condurre altrove la sua filosofia, ossia confermare che non esisteva nessun sogno, che non stavamo vivendo in nessun sogno e che tutto era semplicemente realtà. Forse, dedussi, era veramente un uomo solo che necessitava solo di poter parlare con qualcuno, o forse aveva solo voluto farsi beffe di me, ma qualunque fosse stata la sua intenzione,

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ciò che aveva detto non mancava di farmi riflettere. Il silenzio sembrò suggellare la dichiarazione che quella sarebbe stata l’ultima volta che ci saremmo incontrati, che si trattasse di sogno o realtà, e il suo abbassare il capo per dedicarsi alla triste chitarra mi si manifestò come il suo saluto. -A volte perdiamo il treno- sussurrò mentre mi avviavo, allora mi fermai, ma senza voltarmi e aspettai di sentire le sue ultime parole -ma i treni tornano ogni volta alla stazione da cui sono partiti…- riprese a suonare, mentre io restavo immobile a cercare di capire cosa avesse voluto dire in quelle ultime poche parole, poi, me ne andai sconsolato.

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La fermata del diavolo… Quando mi misi al volante deciso a dimenticare tutto e tornarmene a casa, era quasi l’alba. Tuttavia, non so come, prima ancora di avviare il motore, un sonno improvviso mi colse e forse, proprio perché così profondo da non ricordare di aver mai dormito in un modo che al risveglio mi faceva pensare di non aver mai dormito prima, solo dopo tre ore mi svegliai con pensieri e turbamenti diversi da quelli che avevo ipotizzato per il mio futuro, ossia quello di abbandonare ogni cosa. Dopo l’uscita dal cimitero, avevo compreso che la mia mente non era fatta per sopportare contesti di troppa elevate elaborazioni. Mi ero convinto di essere capitato in un luogo di pazzi, resi tali probabilmente dall’isolamento geografico e da un’elevata necessità di adeguarsi e inserirsi nel contesto urbanistico che mutava. Valbordi ne era una prova. Un paese totalmente separato da ogni via di comunicazione o di accesso viabile per cui l’unica alternativa che aveva era quella di pubblicizzare se stesso al fine di farsi conoscere perché solo sapendo che esisteva qualcuno poteva decidere di recarvisi. Al contrario dell’introverso Frolìa che invece, attraversato non da una ma bensì due arterie stradali di importanza regionale, per cui chi era costretto a seguire quella tratta doveva per forza passare da lì e conseguentemente conoscere o rendere noto tale centro, sembrava agire in modo da occultarsi al mondo. E così a Valbordi avevano concepito l’assurda idea dell’attrazione turistica, e per renderla attraente avevano generato tutte le loro fiabesche invenzioni su abitanti storici di un castello che appariva l’unica vera risorsa, incorniciandoli di racconti fiabeschi fondati su creature mitologiche e spiriti che avevano abitato le valli attraversate da un fiume dall’arcano aspetto che celava misteriosi segreti inesistenti, confermati dalla scultura fantasiosamente elaborata posta nel piazzale del centro trasformando con grande abilità quella che poteva essere definita una sorta di tragedia, in un luogo quasi di culto, potendo sostenere di essere praticamente i custodi di un paese fantasma e narrando che non per altre necessità i propri abitanti lo avevano abbandonato, ma piuttosto per una serie di strane vicende che avrebbero potuto tranquillamente attribuire a insolite apparizioni spettrali o cose del genere, trasformandolo in ciò che ben presto sarebbe potuto diventare l’attrattiva principale, perché, malgrado l’ostinata diffidenza e lo scetticismo della gente, in tempi mistificati dai burloni sostenitori della New Age, null’altro avrebbe potuto essere più attraente. Così avevo dedotto d’aver avuto l’opportunità nel sonno profondo di elaborare inconsapevolmente argomentazioni e giustificazioni sufficienti a placare la mia coscienza. In fondo, anche il custode lo aveva detto: la sorte di quei due ragazzi non si era realizzata per causa mia, e a me nessuno aveva chiesto di fare nulla, se non leggere, ed era quello che avevo fatto, guadagnando onestamente tutto il compenso promesso. Felona, l’avevo solo marginalmente coinvolta, in seguito era stata lei a volersi intromettere, e se ora se ne era andata turbata da qualche rivelazione di cui solo lei poteva conoscerne le ragioni, io non potevo farci niente. La cosa più giusta a quel punto, mi ero detto, era di farla finita. Me ne sarei tornato al mio appartamento, avrei lasciato passare qualche giorno, poi, mi sarei ritirato dalla mia attività, venduto ogni proprietà e cercato un luogo pacifico in cui godere di una considerevole tranquillità. In fondo, in questi dieci anni avevo risparmiato abbastanza e con l’ultimo ricavato potevo permettermi di passare il resto dei miei giorni nella più assoluta serenità. Era tempo di cambiare. Me ne sarei andato altrove. Niente più indagini, niente più compromessi, niente più responsabilità e soprattutto, niente più tolleranze, condiscendenze e compatimenti. Il fascicolo, al limite, se proprio ne avessi sentito l’esigenza, avrei sempre potuto spedirlo, ma pensando che comunque quei due ragazzi già erano stati amanti, mi domandai quale trauma avrebbero potuto subire dal conoscere la verità e quello che avevo dedotto era che forse quel fascicolo era solo un pericolo. Lo avevo sperimentato su me stesso che pure potevo osservarlo con il distacco di chi non ha nessuna complicità negli eventi, e avevo potuto vederne gli effetti su Felona, che pure era estranea a ogni avvenimento narrato. Figuriamoci in che modo avrebbe potuto influire su chi invece ne era stato protagonista. Le fiamme, le fiamme dell’inferno erano la sua giusta collocazione. Ma questo non era ciò che veramente avevo potuto approfondire in quelle tre ore. Non ad una convinzione razionale mi aveva condotto quel sonno, ma piuttosto a degli ulteriori indugi ed esitazioni

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che al risveglio facevano vacillare tutte le mie certezze che, come sorprese da un virus influenzale, apparivano inefficienti e debilitate. Non potevo dire di aver sognato, a meno che non si possa definire la sensazione di aver visto colori iridescenti danzare nell’oscurità un sogno. Piuttosto lo avrei definito il rimasuglio di quelle immagini che restano proiettate nella retina e quando si chiudono le palpebre si trasformano in piccole ombre dall’aspetto incerto ma che tu sai essere il residuo delle ultime visioni, come il chiarore di una lampadina o anche la fisionomia di una persona magari vista su una pagina di giornale illuminata da quella lampadina e di conseguenza motivarle in allucinazioni da stanchezza. Sta di fatto che non avevo più sonno e con esso avevo perso anche la sicurezza di voler andarmene definitivamente. Feci una pausa riflessiva e pensai che mi serviva solo un altro po’ di tempo per disintossicarmi da tutte quelle paranoie acquisite in troppa rapidità, ma nell’inutile tentativo di rilassarmi una frase tormentosa continuava a vorticare nella mia mente, come quando si sente fischiare da qualcuno un motivo musicale che pure si detesta ma che, inevitabilmente rimane poi a tormentarti senza che nessuno sforzo riesca a fartene liberare: “a volte perdiamo il treno, ma i treni tornano ogni volta alla stazione da cui sono partiti…” Che senso avevano quelle parole? Erano follia di un folle? Cercai di sorridere, ma quel folle aveva fatto discorsi troppo profondi prima di lasciarsi andare a tale semplicità, e come le allucinazioni ballerine delle mie immagini impresse nella retina, mi ricordai di come, mentre fuggivo via dall’hotel, avessi potuto osservare l’uomo distinto dallo sguardo profondo e cupo, consultare una tabella degli orari dei treni davanti allo schermo di un computer assistito da uno degli inservienti, e qualcosa in me scattò come l’allarme di una di quelle antiche sveglie che si caricavano a molla. Raccontarvi della velocità con cui avviai la macchina e percorsi la strada fino all’hotel di cui ero stato ospite fino la sera prima per correre ad informarmi se quell’uomo era ancora loro cliente sarebbe superficiale, perché bastò solo una sillabazione apparentemente errata a rendermi concreti tutti i miei più sospettati tormenti e terrificanti orrori. Alla mia domanda informativa, infatti, il responsabile dell’accettazione quella mattina, un giovane dall’esile fisico, naso adunco, occhiali spessi e una parlata alla quale sembrava mancare metà alfabeto e la capacità di usare le doppie lettere in una parola, aveva semplicemente risposto, per avere una conferma di chi cercassi: -Il signor Lucio Ferro?- Ma in quel suo biascicare privo di parte dell’alfabeto ciò che era risultato percepibile alla mia mente era stato: -Il finor Lufiofero?- Se non fosse stato per quella “o” di troppo, le mie più inattese conferme non avrebbero avuto nemmeno il breve tempo di esitazione trascorso tra la valutazione della menomazione lessicale del giovane e ciò che il suo biascicare finiva per dare conferma al mio tragico, inatteso e mai considerato epilogo. Senza quella “o” di troppo il nome che il ragazzo aveva pronunciato era lo stesso sul quale io avevo fin da subito ironizzato con lo stesso Lucio Ferro la sera che si era presentato: Lufifero, che, tradotto nella corretta dizione di cui era sprovvisto l’inserviente, diventava semplicemente: Lucifero. So che a questo punto, constatata la mia razionalità, avrei dovuto semplicemente definirmi paranoico, ma sono certo che raccontare che la mia prossima destinazione era la stazione sia nuovamente superfluo quanto il raccontare del mezzo che usai per andarci, così come ero certo che, in quella stazione deserta dove i biglietti ormai si facevano attraverso un apparecchio elettronico e i passeggeri in partenza erano quasi una rarità, non sarebbe stato difficile convincervi che l’unico passeggero in attesa era proprio il signor Lucio Ferro. L’unico problema che riuscivo a valutare in quel momento, era che colui che per me ormai non era più Lucio Ferro, ma Lucifero, non era in attesa su una panchina, ma davanti a un binario dove stava giungendo un treno, il che mi portò alla conclusione che stava per salire su uno di quei vagoni e andarsene, cosa che non potevo permettergli di fare. Non vi racconterò nemmeno, ora, di come una calda giornata di fine estate potesse sembrare fredda come una di pieno inverno, e nemmeno di come fui costretto a ignorare tutte le esitazioni che il tempo non voleva concedermi per precipitarmi a corrergli incontro mentre il treno si fermava. Con una serenità che poteva permettersi solo chi sapeva di essere al di sopra delle parti e che già conosceva ciò che stava avvenendo, il demone mi guardò.

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-Temevo non sarebbe più venuto- fu la sua semplice affermazione mantenendo lo sguardo fisso sui binari vuoti. -E io che il suo treno fosse già partito- risposi, non privo di ansia ma facendogli capire che avevo intuito, o che per lo meno sospettavo, chi era. -Oh, i treni vanno e vengono- rispose lui con altrettanta calma -su quale salire per me non ha importanza-. -Allora può evitare di salire su questo?- la mia domanda parve più una supplica e lui mi guardò con indifferente ironia. -Sì, potrei, ma ho già fatto il biglietto-. Trovai decisamente fastidiosa l’ironia del diavolo e senza rendermene conto lo provocai. -Perché proprio su questa tratta? Forse non ha importanza il treno che prende ma piuttosto chi ci trova sopra?-. Mi guardò mantenendo il sorriso ironico -credo che lei si sia fatto un idea sbagliata di me…- si limitò a rispondere. -Già, sono gli altri che cercano lei, vero?- Di nuovo mi propose quel suo sguardo sereno ed enigmatico allo stesso tempo. -E perché dovrebbero cercarmi?- mi domandò, e per un attimo mi sentii colto da mille dubbi e tormenti. E se mi stavo sbagliando? -Per quello che sei- decisi però di rispondere senza voler più indugiare sulle mie percezioni e sulla mia nuova convinzione, ignorando quell’ultima ragionevole parte razionale che mi consigliava di essere prudente perché se mi sbagliavo potevo finire in un ospedale psichiatrico, dove forse avrei incontrato Felona a farmi da terapeuta. Il treno si fermò e le porte automatiche si aprirono. Lucifero si mosse per salire. -Aspetti- lo richiamai -non può andarsene così, io ho bisogno di parlare con lei-. Mi guardò, e per un momento ebbi la sensazione di averlo convinto a restare. -Mi dica buon uomo, chi crede che io sia se è lecito chiedere?- domandò, e io, per quanto certo delle mie deduzioni, provai indecisione, temendo la reazione che avrei potuto scatenare da ciò che ancora non credevo possibile poter rivelare. -Resti e glielo dirò- osai azzardare, ma l’uomo sorrise e guardò il suo orologio. -I minuti scorrono amico mio, e proprio non ho tempo per restare solo perché lei mi faccia delle domande che non so quanto valga la pena ascoltare, visto che mi sta osservando come se fossi un alieno, ma se vuole può salire con me su questo treno, sarò lieto di ascoltarla e di avere un po’ di compagnia, sa, il viaggio è lungo- mi propose. Riflettei per quel breve istante che mi era concesso, e improvvisamente pensai che seguirlo non era una buona idea, solo che il tempo non mi era alleato e come aveva detto il custode, per le nostre scelte non abbiamo altro che il tempo che ci è concesso. Un controllore si avvicinò a Lucifero e lo invitò a salire. Il demone gli consegnò il biglietto, l’altro lo esaminò poi gli sorrise e lo lasciò passare, poi osservò me -deve salire signore?- mi domandò. “No” avrei dovuto rispondere, ma nell’impossibilità di riflettere, senza pronunciare alcuna parola saltai su. -Il suo biglietto?- mi domandò subito. Lo guardai irritato -dov’è diretto questo treno?-. Mi guardò con disprezzo annoiato, e senza dirmi se fosse un diretto o un locale rispose -Torino-. Tirai fuori il portafogli e pagai il prezzo del biglietto intero, poi, mentre la carrozza si metteva in movimento facendomi intuire che avevo perso ogni occasione di rinuncia, raggiunsi colui che ancora non sapevo se definire uomo o demone e mi sedetti accanto sul posto vicino. Non feci nulla per nascondere la mia contrarietà al suo inganno e con provocazione lo assalii verbalmente come in un atto di sfida. -Allora, chi deve incontrare su questo treno?- Mi guardò simulando imbarazzo -continuo a credere che lei mi abbia scambiato per qualcun altro signore- disse, poi l’espressione imbarazzata si tramutò in un sorriso ingannevole -e poi, ho già incontrato qualcuno- disse, e io, come un allocco, temetti di essere caduto nella sua trappola. -Potrei sfuggirti alla prima fermata- dissi cercando di nascondere il mio timore.

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-Sì è vero, solo che lei non sa quale sia la prima fermata, e da ciò che deduco lei si è fatto un’idea insolita di me, e dovendo indovinare, se io fossi chi lei pensa che sia, quanto pensa che dovrebbe essere lungo, o corto, il tragitto per riuscire a impedirmi di fare ciò che secondo lei dovrei fare?- Trasalii in un chiaro atto di panico e probabilmente impallidii perché il vecchio mi guardò e improvvisamente sembrò preoccuparsi. -Si sente bene figliuolo?- mi domandò, e per una strana necessità, cercai di convincermi che il demonio non poteva avere certe premure. -Sì, sto benissimo- risposi riprendendo una certa dignità. L’altro mi guardò per qualche secondo, poi, rassicurato dal mio colorito che riprendeva la giusta tonalità tornò a domandare: -Allora, mi dica, chi crede che io sia?- Il treno si era ormai avviato in velocità e ormai, non avendo altre alternative se non quella di farla finita, decisi di affrontare con coraggio la mia sorte e sorrisi. -Avrei dovuto capirlo subito quando si è presentato che quel suo nome sul quale si poteva fare dell’ironia, non era per nulla ironico-. Ora la parte razionale mi portava a valutare la possibilità che avrei dovuto stare attento non più a sembrare pazzo, ma piuttosto a non innervosire colui che poteva dannarmi solo con lo sguardo, sebbene ormai credessi di non essere poi così tanto lontano dalla dannazione. L’uomo seduto accanto a me ricambiò il sorriso -amico mio- disse -io mi presento per ciò in cui ognuno in questo mondo mi vuole riconoscere- ammise mantenendo la sua enigmaticità. Lo guardai senza riuscire a impedirmi la smorfia sarcastica -davvero? E in che altro modo qualcuno potrebbe riconoscerti?- -Ah- sembrò quasi sospirare come di sollievo -di nomi me ne hanno dati tanti, ma per esempio, un tempo, non saprei definire quanto giacché per me il conteggio del tempo è relativo, in quella terra che voi chiamate Gran Bretagna, qualcuno mi chiamò: Mark Angel-. Non so se restai più stupito o se mi sentissi più preso in giro, so che mi sovvenne istintiva una risata sprezzante -un Arcangelo? Tu?- -Certo- rispose per niente infastidito dal mio sarcasmo -ti sembra così illogico?- -Beh, direi proprio di sì- dissi questa volta con una sincerità che non mi sembrava nemmeno mia -certo deve essere stato molto tempo fa e tu devi essere stato veramente abile, ma del resto, non è da te essere ingannevole?- -Non più di quanto gli uomini ingannino se stessi- rispose, ma contrariamente a ciò che era avvenuto fino a quel momento, tale risposta provocò in me il vero brivido della paura, perché in quel modo mi stava semplicemente confermando ciò che era, e la mia speranza che fosse lui il folle che si credeva il diavolo perse ogni consistenza. -Quindi lo ammetti?- -Ammetto che cosa?- -Di essere il diavolo- quasi lo aggredii. Scosse il capo -sono solo ciò che tu vuoi che io sia, quindi sì, se vuoi che io sia il diavolo, sono il diavolo-. -Smettila con questi giochi di parole, ne ho avuto fin troppi in questi giorni. In quali altri modi ti può riconoscere la gente che non sia troppo sconsiderata da scambiarti per un angelo?- -Il diavolo è pur sempre un angelo, e comunque non sempre succede che mi diano nomi del tipo Lucifero, Mefistofele, Gabriele o Uriel-. -E in quali altri nomi ti hanno riconosciuto?- ora sembravo un disperato che cercava solo di aggraziarsi la propensione del nemico, ossia, un ruffiano. Parve riflettere -vediamo, l’ultima volta non è stato molto tempo fa, seppure sia raro ormai che qualcuno trovi nuovi appellativi, ma recentemente qualcuno mi ha chiamato: “Grande Bianco”- e mentre lo disse lo sguardo che rivolse dritto ai miei occhi si fece profondo, cupo, serio, sereno e mistico allo stesso tempo, penetrandomi fin nel profondo dell’anima. -Suppongo che tra qualche secolo- proseguì poi tornando alla normale tonalità di voce ed espressione negli occhi -tale epiteto verrà deformato o storpiato in qualche modo, e diverrà un diminutivo come Grabian, o magari Randebian, ma questo non ha molta importanza, è tipico della pigrizia umana

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cercare di ridurre tutto all’esenziale giusto? Ciò che ne risulterà, magari per consolazione, potrebbe essere definito una sorta di… totem. Tu che ne dici?- Non avevo nulla da dire, se non che il pensiero tornava a quei passaggi del manoscritto e a quelle storie già sentite su come si generava un mito o un totem. -Che cosa vuoi da me?- gli domandai ormai convinto di essere al cospetto del principe delle tenebre e sentendo la mia voce distorta dal fluido denso che cominciava ad impastellarmi la gola. Mi guardò, e questa volta vidi severità nei suoi occhi, una severità che mi faceva comprendere che ormai si faceva sul serio. -Se non ho mal inteso le tue parole, siete sempre voi a cercare me, non io a cercare voi. Quindi la domanda giusta è: “Che cosa vuoi tu, da me”- rispose, e io mi sentii confuso come non mai, pensando semplicemente che il diavolo ti incontrasse per due ragioni, la prima per suggellare un patto, la seconda per riscuotere. -Questa è la prima volta che ci incontriamo?- gli domandai allora ormai rassegnato e impaurito. Se la sua risposta fosse stata affermativa, come speravo, allora avrei ancora potuto rimediare. Ma il diavolo, come lo avevo accusato prima, è ingannevole e non rispose nel modo che mi aspettavo. -Dimmi giovanotto, secondo le vostre tradizioni, o secondo ciò che pensi tu, com’è che funziona?- Non capivo che cosa voleva dire, ma sapevo che era inutile contrastarlo. -Ti si invoca e ti si chiede qualcosa, in cambio di qualcos’altro- risposi, omettendo che quel qualcos’altro cui mi riferivo per il diavolo era sempre un’anima. Si strofinò il mento più volte assottigliando la barba bianca con una punta che lo rendeva sempre più somigliante alle classiche caricature che i fumettisti facevano del diavolo. -Capisco- disse dopo un po’ -e quindi tu ora sei incerto, perché da quel che posso percepire, una volta stipulato il patto, il contraente dimentica di averlo fatto?- -Sì, è così-. Cominciò a tamburellare con le dita, unendole e dividendole all’altezza del petto come se stesse applaudendo usando solo i polpastrelli. -La cosa si complica allora amico, perché io non tengo un registro delle richieste. A questo punto quindi, saresti tu a dovermi ricordare ciò che volevi- disse dopo un po’, e io, riflettendo su come avevo ricevuto il manoscritto, compresi che in quel testo avrei dovuto semplicemente trovare ciò che avevo chiesto al principe delle tenebre, ma per quanto mi sforzassi di ricordare, non ne avevo la più pallida idea. -Che cosa voleva colui che ti ha fatto diventare Grabian?- domandai allora, cominciando a pensare che forse le rivelazioni del manoscritto non erano ancora complete. Il diavolo non sembrava avere difficoltà a rispondere, non era vincolato da nessun segreto professionale, militare o confessionale. -Comprendere- disse con semplicità. -Comprendere che cosa?- -Solo ciò di cui aveva bisogno-. -E lo comprese?- -Alla fine? Certo-. -E che cos’era?- -Semplicemente l’attesa-. Ripensai al manoscritto e a come spesso si faceva riferimento alla rinuncia di Demetrio nei confronti di Virginia solo perché lei aveva necessità di comprendere qualcosa per cui non era ancora pronta, cosa che di conseguenza sarebbe divenuto il motivo dell’attesa cui il diavolo faceva riferimento. -E che cosa domandasti in cambio per il tuo servizio?- volli sapere quanto era stato disposto a pagare Demetrio, ma a quel punto lui mi guardò perplesso. -Io non domandai niente, fu lui a offrirmi ciò che pensava di dovermi- rispose, e io mi resi conto di quanto era subdolo l’inganno infernale. -Tu giochi con i sentimenti dell’animo umano vero?- sentivo la rabbia assalirmi. -Io non gioco affatto amico mio, siete voi che pensate che per ogni servizio reso si deva a propria volta rendere qualcos’altro. È come quando andate alle feste di compleanno di qualcuno e portate un regalo e il festeggiato si sente a sua volta in dovere di ricambiare poi alla successiva occasione, o viceversa, voi stessi considerate che egli vi deva a sua volta qualcosa in cambio-.

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Sorrisi con ironia -allora… che cosa avrebbe pensato di doverti in cambio?- -Un’occasione…- -Cosa?- dissi con enfasi stupita, incapace di poterci credere. -Un’occasione che potesse rendere consapevole qualcun altro, o magari anche più di qualcun altro…- Il freddo nelle mie vene si fece gelo e qualcosa bloccò il mio stomaco in uno spasmo che mi faceva sembrare che con esso l’intero universo si fosse contratto su di me. -Ero io quel qualcun altro- rivelai a me stesso -ma perché mai avrebbe dovuto offrirmi questa opportunità, io nemmeno lo conoscevo, non so tutt’ora chi sia…- Il diavolo mi guardò con un sorriso che non sembrava affatto quello di un demone -ne sei certo?- -E come potrebbe essere diversamente? Prima di quel documento io non conoscevo nemmeno l’esistenza di Casterba e non ho mai visto una fotografia di Demetrio Dilago, per me è un completo sconosciuto-. In lontananza un treno fischiò e il diavolo si girò a guardarlo venire avanti dal finestrino, poi annunciò. -Strano come il tempo scorra veloce quando si fa una bella conversazione, siamo già arrivati-. Io guardai sorpreso il mio orologio, il tempo era veramente volato via, eppure, mi pareva di essere su quel treno solo da pochi minuti e ciò, invece che farmi star meglio perché significava che durante il viaggio il diavolo non aveva compiuto alcun sortilegio su di me, provai angoscia perché ancora non avevo avuto le risposte che cercavo. -Non può finire tutto così, io ho molte domande a cui non hai risposto- gli dissi. -Se sono solo risposte che vuoi, allora comincia a domandarti chi sei. Se rispondi a questo, non ti serviranno altre domande-. -E chi sono io?- gridai mentre il treno cominciava a rallentare. Lucifero mi guardò sereno -devi cercare nel profondo. Forse ti è sfuggito qualcosa nella tua ricerca?- -Che cosa dovrebbe essermi sfuggito? Perché non mi riveli una volta per tutte ciò che devo sapere?- -Perché nessuno crede a ciò che gli si rivela se ciò che cerca non lo trova da solo, quindi, così come credi che io non possa essere anche un arcangelo, io non posso farti altre rivelazioni se non quelle di cui già sei convinto-. -Ma dove dovrei cercarle queste rivelazioni? Se ti dicessi che ti credo allora potresti dirmelo?- -Certo, ma la sincerità è qualcosa che non si può simulare e per te io resto il diavolo, quindi tu con me hai fatto un patto e, visto che secondo le tue teorie mi devi in cambio qualcosa, sarà meglio che ti sbrighi a capire che cosa mi devi e che paghi in fretta il tuo debito, perché se io sono qui, significa che non hai molto tempo- ora il suo tono era di vera minaccia. -Il diavolo accetta solo anime in cambio dei suoi servigi, quindi se è la mia anima che ti ho promesso perché non te la pendi e basta?- Sembrò farsi riflessivo mentre il treno cominciava a frenare -sai, ho incontrato persone che non sempre pensano che sia la loro anima che il diavolo vuole. A volte succede che qualcuno creda che il diavolo si possa ingannare offrendogli le anime di altre persone, persone che loro coinvolgono con stratagemmi, e concludono il loro patto assicurando che nel tempo prestabilito saranno in grado di condurre queste anime dal demonio. Potrebbe essere che tu abbia contrattato in questo modo?- mi suggerì, e io ancora rabbrividii. L’unica persona che avevo coinvolto in quella vicenda era stata Felona, e non potevo pensare di aver potuto promettere la sua anima al diavolo, sebbene cominciassi a supporre che potevano esistere delle anime che il diavolo preferiva ad altre, giacché alcune probabilmente, come la mia, già sapeva di possederle. -No, non puoi volere la sua- dissi con angoscia. -Io non so ciò che stai pensando amico mio, ma qualunque sia la tua scelta, devi farla in fretta perché il tempo stringe-. -Io voglio fare un nuovo patto- lo supplicai senza più nemmeno pensare all’irrazionalità che stavo vivendo, nella quale avrei potuto semplicemente perdermi dichiarando al mia pazzia. -Va bene- rispose il diavolo, e per un momento mi sentii alleviare dalle attuali pene, pur sapendo che ciò che avrei detto me ne avrebbe assegnate molte di più.

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-Ma sappi che un nuovo patto non annulla il vecchio. Aggiungerà solo un ulteriore debito- mi rivelò e drammaticamente cominciai a pensare che quello poteva non essere stato il mio primo patto col diavolo. Rabbrividii al pensiero di quante anime potevo aver condannato -che significa?- -Significa che tu non hai nessun controllo e devi comprendere i tuoi limiti umani. Ci fu un tempo in cui qualcuno fece un patto col diavolo, egli voleva sapere prevedere il futuro, ma non specificò quale futuro e il diavolo lo accontentò, consentendogli di poter prevedere solo il giorno della sua morte. Capisci? Ci sono dei limiti alla natura umana e per quanto saggio tu possa essere, non riusciresti mai a ingannare quell’entità che pensi potrebbe risolvere i tuoi guai. O tu puoi prevedere il futuro?..- quell’affermazione non poté far altro che procurarmi un nuovo ulteriore brivido, più intenso di tutti quelli provati prima. Anche il custode del cimitero mi aveva posto la stessa domanda e quasi mi sentii illuminare -il futuro, è il futuro che volevo prevedere? Se è solo la data della mia morte che posso prevedere allora lo accetto, in cambio che tutto il resto sia annullato- scongiurai. Il diavolo rise, e in quella sincerità improvvisamente potei solo vedere la realtà di un semplice uomo. -Forse tu sei solo un po’ condizionato. Mi è piaciuto conversare con te e calarmi in questa parte, ma credimi, io non sono ciò che pensi. Figliolo, perché non te ne torni a casa e ti riposi un po’, sembri molto affaticato- mi suggerì. In quel mentre una ragazza giovane, forse tra i venticinque e i trent’anni si avvicinò a noi. Il treno era fermo da qualche minuto -excusez moi, cet endroit est libre?- La giovane molto graziosa dai capelli biondi, gli occhi azzurri e il classico piccolo naso definito alla francese indicò il posto vicino a Lucifero con una pronuncia che denunciava la sua origine francese. -Oui mademoiselle- rispose con naturalezza l’altro, e io non potei evitare di osservarlo con ribrezzo mentre il viso della giovane si illuminava. -Vous parlez francais?- domandò preludendo la possibilità di poter condividere il viaggio con qualcuno con cui discutere. Io avrei voluto metterla in guardia su con chi stava per avviare una comunicazione, ma io non conoscevo una parola di francese e non potei che restare a osservare l’inevitabile dramma che stavo prefigurando. -J’ai certainement, été souvent en France- continuò a rispondere, dopo di che non seguii più il loro dialogo, semplicemente mi alzai, comprendendo che per me non vi era più alcuna risposta. -Ci lascia signor Mastammi?- mi domandò Lucifero. Lo guardai nervosamente -come sa il mio nome? Non mi sembrava ci fossimo presentati- gli dissi, ma lui sorrise. -O sì invece, solo che non se lo ricorda-. -Devo andare- dissi -questa sembra sia la mia fermata-. Lucifero scosse il capo -i treni tornano nelle stazioni da cui sono partiti signor Mastammi- mi disse e io lo colsi come un suggerimento. Osservai dispiaciuto la ragazza che inconsapevole prese il mio posto. -Non la inganni come ha fatto come me, Lucifero- gli dissi, consapevole che la ragazza non poteva comprendere le mie parole. L’altro sorrise -non si inganni lei signor Mastammi, e non sottovaluti che magari questa giovane potrebbe non vedermi nello stesso modo in cui mi vede lei. E poi, come abbiamo già avuto modo di chiarire, siete voi a cercare me, non il contrario- rispose senza darmi tregua. Gli sorrisi a mia volta -già- ammiccai rassegnato -fate buon viaggio- augurai a entrambi, osservando prima lui, poi la ragazza. -Tradurrò per lei- mi rassicurò con ironia. Annuii -ne sono certo- dissi, poi scesi dal treno.

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Le scale dell’inferno… Fin dal principio avevo presagito che l’innocuo custode non fosse del tutto estraneo a questa assurda congettura, ma mi riusciva più difficile pensare che una serie di sconosciuti si fossero messi all’opera semplicemente per creare una condizione da film fantascientifico con un obiettivo finalizzato alla vendetta, probabilmente ingaggiati da qualcuno che doveva ritenermi responsabile di qualcosa scaturito da qualche mia indagine che doveva avergli causato, oltre che a disagi economici e sociali, anche menomazioni mentali, che non credere in tutte quelle assurdità che erano ben più difficili da dimostrare. Era questo che pensavo mentre consultavo gli orari dei treni per trovare quello che mi avrebbe ricondotto alla stazione di partenza, giacché i treni tornano sempre da dove sono partiti. Dovetti attendere quasi due ore prima di poter salire a bordo della carrozza del treno che mi avrebbe riportato indietro, e in quelle due ore avevo avuto modo di meditare, seduto su una panchina all’interno di una stazione affollata che tuttavia per me era come fosse deserta. Ora sembrava che vi fosse un tema ricorrente sul quale non avrei mai considerato di dovermi concentrare: il futuro. Sia il custode del cimitero che il presunto Lucifero, pensavano che io potessi prevedere il futuro, o almeno ritenevano che dovessi farlo. Perché? I minuti scorrono veloci quando si fa una buona conversazione, aveva detto Lucifero, e in quel momento potevo constatare come scorressero veloci anche quando si fa una riflessione con se stessi. Mi stavo talmente perdendo nei miei pensieri che quando giunse il mio treno quasi non me ne resi conto, non fosse stato per l’annuncio dell’interfono che mi destò quel tanto che bastava per farmi riportare l’attenzione al tempo reale. Mi resi conto, infatti, che in quella riflessione, la stazione mi era parsa deserta solo perché intorno a me non sentivo più alcun rumore, né di passi frenetici e voci circostanti di persone che si salutavano o che davano raccomandazioni o che litigavano e imprecavano. Nulla. In quella riflessione mi ero completamente estraniato dal mondo circostante e quasi immaginai come poteva essere una di quelle meditazioni buddiste nelle quali alcuni asserivano di giungere a perdere il contatto con la realtà. Salii sul treno e cercai di trovare un posto isolato. Malgrado la folla che stava in stazione, non fu difficile perché sul mio treno non erano saliti in molti. Mi appostai vicino al finestrino e attesi che il treno si avviasse, quindi, dopo aver superato i confini della stazione e successivamente quelli della città, perdendomi nelle immagini del paesaggio che scorreva davanti ai miei occhi, tornai a perdermi nelle mie riflessioni. A poco a poco il ritmico suono delle rotaie, inizialmente fastidioso, parve quasi, nell’estatica condizione riflessiva che mi stava nuovamente trasportando altrove, diventare una sorta di piacevole mantra inebriante e dopo un po’, come era avvenuto nella stazione, la mia mente abbandonò totalmente la razionale realtà circoscritta dei pensieri quotidiani per immergersi ancora nella riflessiva ricerca del perché mai, secondo le strane figure di ciò che assomigliava sempre più a un sogno ma che sogno non era, avrei dovuto saper prevedere il futuro. Non ricordo quale fu la condizione in cui il custode del cimitero era stato considerato una sorta di oracolo. Non so se fu lui a presentarsi in quel modo, se fossi stato io a considerarlo tale, o se fu Felona a chiamarlo così, ma so per certo che in tutte le cose sconsiderate che aveva detto quel giocatore chitarrista fallito custode del cimitero, avevo percepito come una conoscenza più elevata, che poteva sì essere frutto di una vita che gli aveva dato modo di fare esperienze per le quali avrebbe potuto dispensare consigli ed esortazioni motivate, ma che tutto sembravano fuorché desiderio di consigliare, motivare o giudicare. Alla fine, ricordo, avevo concluso per riconoscergli determinati meriti e tuttavia, le sue parole continuavano a lasciarmi vagare nella nebbia. Pensai ai suoi discorsi e alle sue domande, e di domande me ne aveva fatte parecchie, ma erano state tutto frutto di un dialogo che sembrava avere senso solo nel momento stesso in cui si effettuava, e di cui adesso avevo difficoltà a ricordare perfino quanto era stato detto. In quanto a rivelazioni, quali mai avrebbe potuto farmi? In definitiva alla fine tutto ciò che aveva raccontato, per sua stessa ammissione, era semplicemente il risultato di elaborazioni determinate in conseguenza alle proprie considerazioni e analisi sulla sua stessa vita. Niente più di quanto lo aveva condotto a diventare ciò che era, così, tutto ciò che mi rimaneva era una sorta di dialogo in cui, a suo modo, ognuno aveva raccontato la propria vita, non fosse stato per quel particolare sulla mia capacità a poter, o dover prevedere il futuro che, per quanto assurda, non riuscivo a considerare come una coincidenza.

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E così la mia mente sembrava ormai essere una camera magmatica in cui si fondevano nel calore ogni genere di supposizioni, pensieri, immagini e illusioni che sembravano troppo angoscianti per essere accettate, conducendomi a considerare che se avessi continuato la mia testa sarebbe esplosa come un vulcano spargendo nell’aria ceneri oniriche di un corpo che ormai non sembrava più in grado di distinguere il reale dal fantastico e nel fuoco tormentoso che mi ardeva nella mente, dovetti riconoscere che chi aveva ordito una simile congettura doveva essere tanto diabolicamente geniale da non poter essere altro che, appunto, diabolico come solo il diavolo stesso poteva essere. Sempre più mi convincevo di un complotto nel quale, in un modo che non potevo ancora comprendere, mi ero lasciato travolgere da eventi che avevano richiesto l’intervento di entità di cui non potevo razionalmente accettare l’esistenza, e tutto restava in quell’assurdo limbo in cui la mia mente stava in bilico tra ciò che si poteva e ciò che non si poteva accettare perché, credere che diavoli, angeli, oracoli e profeti stessero veramente danzando attorno a me, restava pur sempre drammaticamente ostico e, affacciato al finestrino con le immagini che scorrevano veloci ma che nemmeno vedevo, a bruciarmi le ultime cellule cerebrali sane che ritenevo mi fossero rimaste, ponderai prima sulla possibilità di tornare dall’oracolo del cimitero, poi, con quasi più convinzione, sull’eventualità che tutto fosse solo una montatura ben organizzata e inscenata a regola d’arte solo per rappresaglia, il cui scopo era di punirmi con il più atroce dei castighi: la pazzia. Stava a me ora riuscire a capire l’inganno e non assecondarlo, ma fu quando tentai di convincermi di questo, con la mente che cominciava a raffreddarsi e la scelta che protendeva verso il rifiuto del fantastico a favore della razionalità, che, nell’avvicinarmi alla destinazione d’arrivo, il cielo cominciò ad oscurarsi e l’imminente serata estiva soleggiata che fino a pochi minuti prima non lasciava supporre alcuna possibilità di tempesta, si fece improvvisamente grigia e minacciosa. Non so se potessi essere così suggestionato da supporre un segno divino in questo, ma quando il treno si fermò e io scesi ritrovandomi nel piazzale della stazione da cui ero partito, mentre il vento si alzava, l’idea che avevo di fuggire via da tutto e realizzare il progetto supposto solo poco prima di tornarmene nei miei alloggi in riva al Mincio, ormai era divenuta più instabile di ogni razionalità che non riuscivo più ad avere, e quando avviai la macchina, anziché prendere la via del ritorno a casa, presi la direzione che mi avrebbe condotto nuovamente a Casterba, dove avrei consultato, e questa volta con la vera intenzione di interrogarlo, l’oracolo con i dadi bianchi. La tempesta si scatenò poco dopo. Non c’era pioggia ma un vento forte faceva contorcere gli alberi e volare foglie, sterpaglie, carta, detriti e polvere ovunque, e il cielo si era oscurato a tal punto che dovetti accendere i fari, ma pur se qualcosa sembrava combattermi, ormai ero deciso ad andare fino in fondo. Solo che quel qualcosa che io, nella mia nuova concezione dell’impossibile, potevo immaginare come un cavaliere dell’apocalisse, non mi stava affatto contrastando, ma piuttosto spingendo là dove avrebbe voluto che mi recassi. Fu nell’avvicinarmi a Casterba, infatti, che ricordai le parole dell’oracolo, quelle in cui mi raccontava di ciò che aveva visto nella casa di Tommaso D’amanti l’ultima volta che c’era stato: “Stava scavando” aveva detto, forse cercava qualcosa, aveva aggiunto o forse, costruiva qualcosa. Per un momento il vento parve quietarsi e io ebbi la sensazione di poter capire che cosa si potesse provare all’interno dell’occhio del ciclone, nella calma avvolta dal caos. L’istante fu breve e sfuggevole, ma sufficiente a farmi credere che forse non era dall’oracolo che dovevo recarmi, ma in quella casa dove ancora non ero stato. In quella casa dove tredici anni prima qualcuno aveva iniziato a scavare per cercare o costruire qualcosa, e quando giunsi in prossimità della villa appartenuta ai D’amanti, che precedeva l’entrata nel paese, mentre il vento si faceva più intenso, cominciai a rallentare. L’antico stabile costruito sulla struttura dei vecchi edifici d’appartenenza ai grandi proprietari terrieri, si stagliava oscuro contro le nuvole tempestose, quasi più minaccioso delle nuvole stesse. Lo riconobbi per due condizioni, una era dovuta al libro su Valbordi dove la casa di coloro che avevano praticamente mantenuto il villaggio di Casterba era stata immortalata dall’abilità di Demetrio, l’altra, semplicemente per un brivido di presagio. Era alto, me ne resi conto solo in quel momento. Un edificio di tre piani più un seminterrato con una struttura quadrata che ben poco aveva, esteticamente, di attraente. Era una forma architettonica per niente elaborata, priva di dettagli degni di richiamare l’attenzione che ricordava più una caserma piuttosto che una casa e, seppure inerme nella sua immobilità di cemento e

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pietra, pareva essere più letale dei fulmini e tuoni della tempesta in arrivo, e mentre mi avvicinavo al gigante di pietra, un senso di prigionia mi avvolse con l’inquietante paura che doveva provare un imputato sotto processo che stava comprendendo la sua condanna, e già mi sentivo carcerato, solo che nella mia condizione attuale la complementarietà dei contrari manifestava tutta la sua insensata validità nella forma di come invece che essere un carcerato che cercava di fuggire, ero un uomo libero che tentava di imprigionarsi. Quando fui più vicino potei notare la sagoma delle finestre dei primi due piani, squadrate, tutte della stessa misura e poste tutte alla stessa distanza, mentre il piano superire doveva essere la soffitta dove appena sotto la copertura del tetto, quasi nascoste dalle grondaie, apparivano finestre più piccole, irregolari come forma e distanza, che davano la sensazione del sorriso macabro di una bocca sdentata. Forse non l’avevo mai vista sotto quell’aspetto lugubre perché ci ero passato davanti sempre in condizioni di buona luminosità e mai gli avevo concesso particolare interesse, o forse quando l’avevo incontrata nelle occasioni precedenti vivevo in un'altra realtà. Non lo so, ma nella visione che ne avevo adesso, concentrandomi sulla sua struttura che appariva tanto semplice quanto macabra, ponderai se fosse veramente saggio ciò che stavo facendo. Ma la mente ragionava su un binario differente dalla materia, e mentre i pensieri mi mettevano in guardia sui vari pericoli che avrei potuto incontrare, già le mani stavano manovrando il volante per far svoltare l’auto all’interno dell’ampio cortile della villa, e quando girai le chiavi per spegnere il motore mi sembrò quasi, nel fulmine che illuminò la prospettiva circostante, di aver acceso le fornaci dell’inferno. Paura, tensione e inquietudine mi stavano domando la mente, eppure sembrava non esserci esitazione in me, come se la decisione di entrare in quella casa non fosse determinata da un desiderio ma piuttosto da una necessità cui non potevo sottrarmi. Il vento, con il suo sibilo non sembrava spingermi, ma piuttosto accompagnarmi, e nell’incamminarmi notai che l’entrata era posta sopra una rampa di gradini che mi facevano intendere che i tre piani della casa erano costruiti sul rialzo di un seminterrato, il che rendeva la struttura di quattro piani. Avendo imparato a non sottovalutare nulla ormai, mi domandai se non vi fosse un particolare motivo per cui la casa fosse costruita sulla struttura del numero quattro, giacché la sua forma quadrata già di per sé rimandava al simbolo geometrico del quattro, ma pensai che non avevo abbastanza nozioni per cercare di capire, e nemmeno il tempo necessario per potermi informare sui significati che lo stesso numero avrebbe potuto svelarmi. Così prosegui e mi avvicinai al portone di legno salendo lento gli scalini, sette in tutto, poi spinsi la porta e aprii nuovamente la casa all’aria, o meglio, al vento. Restai inerme a guardare, incerto se proseguire o no. Non vi era corrente elettrica all’interno, e l’oscurità del temporale non permetteva una visuale di ciò che mi attendeva. Timoroso esitai e, come a volermi dare un’ulteriore spinta, un fulmine illuminò l’esterno e l’interno della casa. Nel breve tempo di illuminazione, potei osservare un grande salone che non sembrava tanto minaccioso come invece era apparsa la casa dall’esterno, così, quasi temessi che una forza divina mi stesse osservando, pronta a incenerirmi se non proseguivo, oltrepassai la soglia e mi addentrai in quella che al momento mi sembrava la caverna di Ade. Dietro di me il vento sibilò e come se avesse atteso solo per darmi il tempo di giungere al riparo, la pioggia si scatenò quasi come un diluvio. Sentii freddo e nell’istinto che ogni condizione normale dovrebbe generare, chiusi la porta per proteggermi dal vento e dalla pioggia. Solo dopo considerai se mi stavo proteggendo o danneggiando, ma ormai ero dentro e non potevo più fuggire. Nella poca luce che ancora mi permetteva di vedere, osservai la maestosità del grande salone che mi accoglieva. Certo erano visibili i segni dell’abbandono, polvere e ragnatele, ma ancora una certa maestosità lo rendeva nobile e dignitoso. L’interno, non era lugubre come l’esterno, anzi, appariva sicuro e accogliente, almeno quella parte di interno che vedevo al momento. Intravidi la forma di un candelabro sul tavolo che dominava la sala. In tasca avevo ancora i fiammiferi per le sigarette, così presi il candelabro e accesi le tre candele che ancora stavano in attesa di svolgere il loro ruolo di portatrici di luce, ed ebbi l’occasione di vedere come veramente l’interno della casa fosse signorile, prestigioso e imponente, denotando quella che era stata la ricchezza di un tempo. Tommaso aveva mantenuto la proprietà della casa di famiglia e le qualità che dovevano averla caratterizzata. Un imponente lampadario, probabilmente in vetro di Murano, si mostrava come dominatore del cielo di quel piccolo microcosmo, mentre alle pareti erano appesi quadri di dimensioni notevoli che davano al salone quasi l’impronta di

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una pinacoteca. Il tavolo doveva essere di un qualche legno pregiato, in stile settecentesco mentre il pavimento era di marmo. Vi erano intonaci bianchi, con bassorilievi in gesso che incorniciavano il soffitto adornando gli angoli con intagli floreali e mobili di fattura d’antiquariato che contribuivano all’armonia dell’ambiente, affascinante in sé, ma che pure allo stesso tempo infondeva uno strano senso di malinconico abbandono e indifferenza, come se in realtà tutte quelle cose accumulate nel tempo, non avessero altro che la valenza di oggetti privi di interesse per chi aveva abitato nella casa, e che stavano lì solo perché qualcuno li aveva portati prima. C’era tristezza e solitudine ormai tra quelle mura, e seppure fossi stato convinto che ogni altra stanza mi avrebbe mostrato il suo nobile e dignitoso passato, preferii non indagare su quanto poteva rivelare che nessuna ricchezza e nessuna incolumità era per sempre. Così cercai di capire in che modo la struttura della casa avrebbe potuto condurmi là dove non avrei voluto andare, ma dove sentivo di dover andare, e istintivamente intercettai quella porta che, quasi avesse avuto un’insegna sopra, identificai come l’ufficio di Tommaso. Mi avvicinai, attesi un istante come in segno di reverenza, poi aprii e oltrepassai anche quella soglia, ritrovandomi di fronte alla scrivania sulla quale doveva aver scritto il documento che ancora stava con me, nella borsa di cuoio sulla mia spalla. Per un momento mi sembrò di vedere la sua sagoma china sulla tastiera del computer che digitava tasti velocemente, come se temesse che i pensieri più veloci delle mani potessero sfuggirgli via, poi l’illusione svanì e mi riportò nella solitaria penombra illuminata dalle tre candele. Anche lì si poteva notare lo stato di abbandono. Tommaso doveva aver trascorso lì dentro gran parte del suo tempo prima di scomparire, e sulla scrivania stavano fogli sparsi con annotazioni scritte a mano. Parole, frasi a metà e tanti numeri che forse rimandavano a pagine di libri letti. Alcuni libri infatti erano sulla scrivania, altri su apposite scansie, altri a terra e alcuni malamente gettati in un angolo con pagine strappate che ora erano confuse ai fogli con le annotazioni. Felona avrebbe trovato sicuramente infiniti spunti di ricerca tra quelle annotazioni, pagine strappate e numeri, ma io non avevo tempo per cercare tra quella confusione perché già avevo intravisto la traccia di terra di cui l’oracolo mi aveva parlato. Forse ero troppo eccitato, o spaventato, o concentrato per preoccuparmi del fatto che quelle tracce sembravano troppo fresche per essere lì da tredici anni, e non valutai l’eventualità che qualcuno potesse essere stato lì da poco o che addirittura fosse lì da sempre. Semplicemente osservai le impronte di terra che conducevano ad una porta che si sarebbe potuta definire di uscita, ma io sapevo dove conduceva, eppure, nessuna consapevolezza poteva essere sufficiente a prepararmi per ciò che stavo per vedere. Quando mi avvicinai, ero ancora sereno. Le pareti della casa erano spesse e il sibilo del vento esterno sembrava solo una lieve brezza. La pioggia batteva sui vetri, ma non creava alcuna intimidazione e le mura della stanza sembravano guardie pronte a rassicurare che lì dentro non vi era nessun pericolo. Mi sentivo protetto, così aprii quella porta e di fronte a me vidi un corridoio scalinato che scendeva verso il basso. Non sembrava tanto profondo come mi ero immaginato, e nemmeno pericoloso come avevo temuto. Era un semplice corridoio di scalini che portavano in una cantina, ma quando oltrepassai quella nuova soglia, un brivido mi colse ed ebbi la sensazione di essere avvolto da un soffio gelido, come se il vento che stava all’esterno, provenisse dal profondo di quello stesso corridoio. La paura che pensavo di non dover avere tra le mura protettive mi colse con un impatto tremendo e nella porta che, spinta da una molla di sicurezza si richiudeva alle mie spalle, percepii la vera sensazione di essere finito nell’antro del diavolo, dove in fondo a quelle scale mi attendeva il drago.

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L’anello magico… Il silenzio si fece intenso e nel placarsi del soffio di vento il gelo lo accompagnò. Le fiamme delle candele, dopo essersi piegate per un istante alla supremazia di quell’alito tornarono erette e fatta eccezione per la loro lieve vibrazione, tutto il resto era immobilità. Il mio respiro si condensava in piccole nuvole di vapore che si dilatavano e poi svanivano nella fioca luce delle candele, in quell’antro in cui l’oscurità sembrava più tetra. Tremolante, non so se più per il freddo o per la paura, mossi un passo in avanti. Le candele vibrarono al lieve movimento e gli occhi si abbassarono a osservare quello che adesso appariva un pozzo profondo, un altro passo e avrei posato il piede sul primo scalino. Era l’ultima occasione per fuggire, lo sentivo. Se avessi messo il piede sul gradino, ne ero certo, nessuna volontà sarebbe più stata in grado di farmi tornare indietro, perché ormai nessuna paura avrebbe più potuto abbandonarmi. Se fossi fuggito, sarei stato libero dal sapere che cosa mi attendeva in fondo al pozzo, ma se non avessi saputo, la paura che provavo in quel momento non mi avrebbe più abbandonato e con lei avrei dovuto condividere il resto dei miei giorni. Per questo non potevo tornare indietro. Dal fondo di quella rampa vi era una forza gravitazionale che mi attraeva, e così come si dice che un buco nero abbia il potere attrattivo di attirare a sé le stelle per inghiottirle nel proprio vuoto, anch’io come una stella vittima del buco nero, stavo per precipitare nel profondo oscuro e distruttivo della sua oscurità, con l’unica differenza che io non brillavo di alcuna luce. E fu così. Nel momento stesso in cui posai il piede sul gradino sentii l’impossibilità di fuggire e l’ultima cosa che mi restava era la speranza che tutto ciò fosse veramente solo un sogno. Le candele illuminavano una piccola porzione del corridoio, sufficiente a farmi vedere dove mettevo i piedi e a osservare le pareti che attorno a me sembravano farsi più strette. Dopo aver sceso i primi gradini, già mi sembrava di essere in un abisso e avevo la strana percezione di essere andato così lontano che se mi fossi voltato indietro non avrei più visto la porta che mi ero lasciato alle spalle, ma sapevo anche che non dovevo guardare indietro perché, per quanto ridotto in uno spazio circoscritto, temevo che tutto ciò che avrei visto sarebbe stato l’infinito, che non ero ancora pronto ad affrontare. E continuai a scendere. So che se avessi potuto vedere la scala nella sua realtà, i gradini che avrei contato non sarebbero stati più di dodici, ma l’impressione che avevo era di averne già discesi mille, mentre le pareti si facevano sempre più distorte e meno definite, come se a un certo punto le mani dell’uomo avessero smesso di lavorarle e tutto ciò che mi circondava ora fosse solo pietra e terra. L’odore di muffa e l’umidità mi facevano pensare che non stavo più nel corridoio di una casa, ma in una caverna scavata negli abissi della terra, e come in un sogno che non avevo sognato, appresi che le scale erano finite già da molto tempo e mi trovavo in ciò che lo scrittore maledetto aveva cercato, o costruito: una grotta. Nella mia insensata fantasia, ebbi come l’impressione di aver varcato un’altra soglia e osai pensare di essere passato da una stanza ad un'altra trovandomi in una dimensione che poteva essere veramente quella onirica, dove ogni cosa, compreso il mio corpo, era sottile ed evanescente, solo che ormai non potevo più dire se fossi passato dalla realtà al sogno, o dal sogno alla realtà. Fu allora che cominciai a scorgere uno spiraglio di luce dal profondo dell’abisso, ma l’unica cosa che mi spinse a proseguire fu la stessa che mi aveva impedito di fuggire, ossia, la consapevolezza che ormai non potevo fare altro che andare avanti. E così continuai a scendere, e a vedere che quella luce si faceva più intensa, ma sapevo bene che non sarebbe mai stata abbastanza intensa da rivelarmi dove mi trovavo, e quando giunsi alla sua origine, scoprii di essere dentro una caverna talmente vasta che le decine e forse centinaia di candele che erano la fonte di luce, non sarebbero mai state sufficienti a rivelarla per intero. Tutto ciò che mi permettevano di osservare adesso non erano più stanze decorate da intagli d’ebanisteria o bassorilievi in gesso, ma uno spazio quasi sconfinato dominato da stalattiti, rocce e formazioni calcaree per cui, dovevo ammetterlo, la prima sensazione che provai fu di meraviglia. Non avrei saputo dire quanto fosse vasta la grotta, e la mente razionale poteva solo condurmi a pensare che lo scrittore aveva scavato nella terra finché sotto di lui non si era aperto quel varco che lo aveva condotto per istinto, forse, a percepire che sotto le fondamenta della sua casa vi fosse un prodigio della natura. Ma la razionalità ormai era fuori gioco e non potendo credere che tutto ciò potesse essere stato costruito dall’uomo, osai pensare solamente che lo scrittore avesse sempre saputo cosa avrebbe trovato sotto quella terra.

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-Perché?- La voce che mi aggredì come un’eco tra i monti sembrò esplodere con la potenza di un tuono senza tempesta e trasalendo sobbalzai per lo spavento. Subito mi girai alla ricerca di qualcuno. -Chi c’è- gridai, e come quella voce anche la mia si confuse in mille rimandi di eco. -Perché credi che l’uomo non possa costruire un simile prodigio- disse allora la voce, e io continuai a girare su me stesso alla ricerca di qualcuno. Ma l’eco confondeva ogni sensorialità e nella paura che mi impediva di concentrarmi non potevo intuire da dove provenisse. -Chi sei- gridai allora. E la voce rispose: -Chi sei tu-. -Mi chiamo Donato, Donato Mastammi- risposi sperando che il mio presentarmi fosse realmente ciò che la voce voleva sapere e che comunque l’essere cordiale in quel momento fosse più ragionevole dell’essere ostile, solo che non ero certo che la voce avesse voluto conoscere il mio nome e nemmeno che la sua risposta fosse stata una domanda. -Perché?- domandò di nuovo, ma questa volta, sebbene l’acustica della grotta lo amplificasse, il suo sembrò un sussurro e l’eco che quasi non l’accompagnò mi permise di comprendere in quale direzione osservare. Girai rapidamente lo sguardo, ma ciò che il mio senso visivo intercettò mi lasciò senza respiro. Una rupe si innalzava verso l’alto, facendo sembrare che la profondità nella quale mi ero inabissato fosse più profonda di quanto avessi potuto pensare. La sua struttura a colonna pareva sorreggere una cupola che la luce delle candele non aveva capacità di raggiungere e il vuoto sopra di me dava sempre più la sensazione dello sconfinato infinito nel quale mi perdevo. Ma non fu questo a togliermi il respiro, e nemmeno la voragine che precipitava al di sotto della colonna, dando la sensazione di un’estensione verso il basso della stessa, definendo così il concetto di abisso tanto esteso verso l’alto quanto verso il basso. Ciò che mi tolse il respiro fu la figura che si manifestò prima come un profilo indefinito, poi come una silhouette astratta e poi, mentre mi avvicinavo e la luce delle candele andava sciogliendo l’oscurità dell’ombra come il calore del sole discioglie la neve, sotto l’aspetto di una figura umana. Nella nostra concezione immaginaria e nel contesto iconografico costruito dalla nostra limitata cultura, il diavolo aveva forma umana, ma dalla sua fronte comparivano corna da toro, tra le mani stringeva un forcone infuocato, il suo busto si prolungava con una coda a frusta e le sue zampe avevano zoccoli caprini. Credo che se fosse stata questa la fisionomia che la luce delle candele avesse illuminato, non avrei potuto restare più sconvolto di quanto invece ero. Legati alla rupe da una corda sdrucita che dava la sensazione di potersi spezzare da un momento all’altro, i polsi di Felona non sembravano avere la forza di sostenere un corpo che sembrava inerme. Quasi urlai per il terrore e per l’angoscia che provai, sapendo che se la corda si fosse spezzata la sorte di Felona sarebbe stata quella di precipitare nella voragine, dalla quale improvvisamente, sentii espandersi il rombo di un ruggito feroce. Osservai Felona con ribrezzo non riuscendo ad immaginare ciò doveva aver subito. Il suo corpo, coperto solo da una tunica di seta bianca, logora e strappata, era esposto al freddo della caverna e al ruvido e lacerante contorno della roccia. Sangue colava dalle ferite che la graffiante pietra aveva inflitto alla sua fragile pelle, e tali ferite erano forse il motivo della sua inconsistente reazione. Il suo corpo inerme, come privo di sensi, era sospeso come chi, privo di forze, cede nel lasciarsi trattenere da un sostegno di cui ignora la consistenza, ma la sensazione che avevo era che Felona non fosse priva di sensi per la mancanza di forze, ma piuttosto come se fosse sotto l’effetto di droghe o meglio, di una condizione estatica indotta. Ciò che potevo intuire tuttavia, era che il suo sangue colava nella voragine e che ciò che aveva ruggito sotto di noi non era un bianco unicorno, ma piuttosto un feroce leone o, peggio, un drago. Inorridito mi lanciai verso di lei, senza più pensare se ciò che vivevo era sogno o realtà. Qualunque fosse stata la verità, Felona era lì per causa mia, e anche se fosse stata solo parte di un sogno, lei in quel sogno era reale, e senza pensare che il mio avventato soccorso rischiava di farmi precipitare nella voragine del drago, corsi verso di lei per liberarla come Ruggiero si era lanciato al salvataggio di Angelica ma, nella visione di quell’ultima illusione, finii per esitare. Angelica era scomparsa usando un anello magico dopo che Ruggiero l’aveva liberata, era fuggita via da lui svanendo come svaniscono i sogni… fu in quel momento che il mio dubbio si manifestò nella sua più intensa atrocità: se questo era un sogno e io, che non sognavo, ero quindi il sogno stesso, liberando lei avrei finito forse per destare il

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sognatore, finendo così per cancellare la mia stessa presenza dalla realtà che, per quanto irreale, era la realtà in cui esistevo... La bestia ruggì di nuovo e la corda si logorò facendo cedere il corpo di Felona ancor di più verso la voragine. L’istinto mi spinse in avanti, con un salto avrei potuto raggiungerla, ma una nuova emozione, non ancora elaborata perché non ancora considerata come parte di me mi frenò. Se avessi avuto la possibilità di analizzare tale nuova emozione, avrei potuto concepirla come: egoismo. Invece la definii semplice paura e nell’ultimo atto della mia esitazione, sentii il ruggito del drago far tremare le pareti della grotta e vidi l’ultima resistenza della logora corda cedere al peso sostenuto. Il resto sembrò quasi procedere in un tempo che si stava fermando, lento ma preciso. Vidi la corda spezzarsi e le braccia di Felona aprirsi come se dei centurioni romani l’avessero presa per crocefiggerla, il suo corpo cadere all’indietro ed essere attirato verso il basso dall’inerzia della gravità e quindi, non trovando appoggio alcuno, precipitare verso l’infinito vuoto della voragine sotto di lei. La mia mano mollò la presa del candelabro che cadde a terra e nell’oscurità che tornò ad avvolgere ogni cosa il mio grido si infranse in mille suoni di eco tra le pareti mentre disperato cercavo un ultimo tentativo di salvataggio allungando le braccia per afferrarla, incurante del rischio di cadere io stesso nella voragine…

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La frattura dei sigilli… …Lo scossone del vagone che rallentava mi fece sobbalzare e nell’incapacità che si ha di controllare i propri movimenti nello destarsi improvviso, provai la netta sensazione di precipitare nel vuoto che per un istante mi tenne collegato al sogno credendo veramente di essere ancora lanciato verso la voragine, poi la forza gravitazionale del mondo reale mi condusse quasi a rimbalzare al contrario e ricadendo senza controllo sbattei la testa contro il finestrino presso il quale mi ero assopito. Il dolore non fu abbastanza forte da farmi imprecare in quanto lo sconvolgimento che mi aveva colto quasi nemmeno me lo fece notare. Mi ci volle più a rendermi conto che, forse per la prima volta in vita mia, avevo sognato, o per essere più precisi, ricordavo di aver sognato, cosa che tuttavia faceva passare in secondo piano il possibile bernoccolo che mi stava per affiorare sulla fronte. Il treno intanto continuava a rallentare, segno che eravamo arrivati. Osservai fuori dove il cielo adesso era oscurato non da un’imminente tempesta in arrivo ma dalla notte inoltrata, il che mi dava conferma della realtà in cui stavo tornando e del fatto che, se ero riuscito a sognare allora io non ero un sogno come ero giunto a ipotizzare, a meno che… mi sovvenne alla memoria una frase che Felona aveva citato durante il nostro periodo trascorso assieme, nella quale un saggio orientale aveva proposto una sorta di paradosso in cui affermava, dopo aver sognato di essere stato una farfalla, di non sapere se al suo risveglio era l’uomo che aveva sognato di essere una farfalla o se fosse la farfalla che sognava d’essere un uomo. Mi sorpresi a valutare il paradosso perché, nonostante tutto, era nell’una o nell’altra realtà che avevo conosciuto Felona senza la quale ormai credevo di non poter vivere. Mi era difficile ammetterlo, ma lei, o tutto l’insieme di questa storia aveva stravolto e cambiato la mia vita e ormai, più che affezionato a lei, ne ero innamorato e non volevo perderla. Per tanto, se lei era una creatura del mio sogno, avrei volentieri rinunciato alla realtà per vivere nel sogno con lei piuttosto che senza, e tutto ciò che avevo vissuto in questi giorni mi pareva troppo assurdo per essere reale, il che mi conduceva alla possibilità che tutto ciò che mi circondava esistesse nella consistenza del sogno… ma un sogno poteva sognare? Se io ero già un sogno, potevo avere un sogno all’interno dello stesso sogno? E se ero un sogno che cos’altro avrei potuto sognare se non la realtà? Ma seppure fosse complicato, cos’altro si poteva definire realtà per un sogno? Cercai di liberami da tutte le congetture possibili per accettare solo quella che mi faceva più comodo, ossia, quella in cui esisteva Felona. Lei era troppo perfetta per questa realtà, quindi lei era un sogno, ed era nel mio sogno, quindi in quel breve intervallo io ero stato la farfalla che aveva sognato d’essere un uomo, e ora ero tornato nella dimensione dove Felona era reale e stava rischiando di precipitare in quell’abisso che io le avevo preparato. Con questa convinzione, una volta fermo scesi dal treno, consapevole che ora finalmente tutto mi si svelava e che potevo comprendere la condizione delle mie scelte: dovevo salvare il sogno per fare in modo che potesse continuare a esistere e quindi liberare Felona per fare in modo che il sogno potesse essere come lo desideravo, il che mi conduceva alla conclusione più drammatica: se io avevo fatto un patto col diavolo, allora ciò che dovevo dare in cambio era l’anima di chi aveva generato il sogno che altri non poteva essere che il mio alter ego del mondo reale. Ma chi era costui? Ero io stesso? E se così fosse stato, in che modo avrei potuto far sì da continuare a sognarmi? Forse proprio cedendo l’anima al diavolo? Il dubbio mi colse improvviso e fulmineo come il lampo che aveva illuminato la notte durante la tempesta del sogno. La vittima sacrificale del sogno era proprio Felona, e se fosse stato quello il tributo che dovevo al diavolo? Se la mia scelta si fosse dovuta risolvere nel scegliere proprio tra me e lei? Se il mio alter ego della realtà avesse dovuto morire per rendere possibile la realizzazione del sogno, e con lui io stesso avessi dovuto dissolvermi? Che ne sarebbe stato di lei e di tutto quel mondo? Che fine avrebbero fatto l’oracolo del cimitero, gli amanti incestuosi, la ricerca dell’amore eterno del fotografo filosofo? Che cosa proponeva il diavolo in cambio della mia anima? A ogni passo la mia mente si accumulava di pensieri e paradossi, ma quando sedetti al volante della lussuosa macchina, tutto ciò che sapevo, o per essere più precisi, tutto ciò di cui mi ero convinto, era che tutte le risposte stavano in quella casa che mai avevo visitato se non nell’unico sogno, o incubo, della mia vita. Ebbi solo un attimo di esitazione quando il motore si avviò: -Assurdo- mi limitai a

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sussurrare, poi mi avviai, in contrasto con me stesso tra l’impossibilità di accettare una realtà irreale, e quella di desiderare l’irrealtà della realtà. Quando giunsi a destinazione e fermai la macchina nel grande cortile della casa abbandonata di colui che, secondo la realtà del sogno avrebbe dovuto essere stato l’autore del manoscritto, mi sembrò di essere un giocatore d’azzardo che si gioca tutto a testa o croce, e mentre mi avviavo verso l’entrata immaginai la monetina che, lanciata in aria, roteava su se stessa nascondendo le sue facce nell’incertezza sospesa del suo esito, poi la vidi sparire dalla mia immaginazione e pensai che, giacché nel sogno tutto era possibile, la monetina non sarebbe mai tornata verso il suolo e nessuno, nemmeno io, avrei mai saputo quale sarebbe stato l’esito del lancio. A me bastò entrare nella casa per avere conferma di quello cui ormai ero convinto, infatti, tutto quel che mi trovai ad affrontare era esattamente quanto già avevo visto nel sogno. Il grande lampadario, il tavolo in legno massiccio, i muri con i rilievi di gesso, gli arazzi, i quadri e i mobili antichi con gli intarsi ebanistici, tutto uguale a come lo ricordavo, e l’unico ricordo che potevo avere dell’interno di quella casa, era proprio quello che avevo visto nel sogno. Una sola cosa restava da verificare, lo studio che stava dietro la porta che già avevo individuato, e il successivo corridoio che, se ogni cosa doveva confermare il sogno, mi avrebbe condotto nella grotta. Lì avrei salvato Felona e forse avrei distrutto me stesso, ma a questo punto, ero disposto anche al sacrificio. Attesi solo qualche secondo, magari per vedere se riuscivo a materializzare di nuovo la monetina e vedere cosa sarebbe risultato dal lancio. Testa, pensai, si va, croce si torna. Ma la monetina non si materializzò, qualche dio del cielo doveva essersene appropriato ironizzai con me stesso, e non avendo quindi altra sorte a cui aggrapparmi, varcai la soglia della porta e distogliendo la vista dalla scrivania, come a non voler vedere che gli stessi fogli, libri e matite erano lì come nel sogno, mi diressi subito alla porta della grotta. Ormai sapevo che lì dietro l’avrei trovata. E fu così. Scesi le scale al buio, nel sogno premonitore avevo delle candele in mano, ma nella frenesia del sogno realizzatore le avevo scordate. Sapevo comunque che avrei trovato la luce necessaria dove stavo andando e discendere delle scale non era difficile, bastava un po’ di prudenza. Appoggiai le mani alle pareti del corridoio per sostenermi nell’oscurità fino che a un certo punto non notai la differenza della solidità che passava dalla struttura di mattoni alla nuda roccia, sentii l’umidità della terra e l’odore di muschio e mi resi conto che tutto era reale, cioè, sogno. Poi vidi i primi bagliori. Non so se fu entusiasmo o paura a farmi pulsare il cuore più velocemente, so solo che tale pulsazione sembrava accompagnare il movimento dei passi che andavano progredendo con l’aumentare della luce e del battito cardiaco. Alla fine optai per la paura, ma la volontà di rivedere, e soprattutto, di trarre in salvo Felona, prevaricava la mia angoscia. Sapevo dove trovarla e quando fui illuminato dalle candele non attesi nessun suono di voce, nessun eco e nessun suggerimento suggestivo. Solo che quando individuai la rupe a forma di colonna, tutto ciò che vidi fu una corda spezzata, e il tamburo che avevo nel petto, che tanto aveva pulsato fino quel momento, quasi si fermò. -Non puoi fare niente per lei- La voce che mi sollecitò era la stessa del sogno, con lo stesso tono e lo stesso eco. Allora, nel sogno, la voce mi aveva condotto a Felona, ma ora non poteva farlo perché lei, da quello che potevo dedurre, era già nell’abisso. Così mi voltai con il cuore fermo e la rabbia nell’animo per cercarlo, e sebbene l’eco potesse confondere, non ebbi bisogno di investigare a lungo. Colui che aveva parlato, infatti, non sembrava affatto volersi nascondere, e forse nel sogno non lo avevo visto perché ancora non ero pronto a vederlo. Era un uomo, o almeno così sembrava. All’inizio vidi solo un’ombra che non potevo definire quanto fosse reale, o quanto fosse pericolosa. Non avevo dimenticato, infatti, che nonostante la convinzione di vivere ormai in un sogno, colui che avrei affrontato in quella grotta era niente meno che il principe delle tenebre: il vero Lucifero in demoniaca persona. -Che cosa le hai fatto?- lo affrontai come se avessi di fronte un comune mortale. -Il sogno è tuo- rispose però lui, scaricandomi addosso la responsabilità di quanto deducevo sarebbe successo a Felona. Cercai di ingannarlo tentando di nascondere le mie sensazioni e il pensiero che mi tradiva, pensando che comunque, nemmeno il diavolo avesse la possibilità di leggere la mente.

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-E in base a quali circostanze dovrei dedurre che questo sia veramente un sogno?- L’essere che mi ospitava era seduto su una roccia che, forse scolpita da lui stesso, aveva la forma di un trono di pietra e indossava un mantello che copriva il suo volto con un cappuccio, così non potevo vederlo in faccia. Allargò le braccia e tenendo il viso nascosto sotto il cappuccio proferì -non hai risposto alla mia domanda-. -Quale domanda?- non dovetti forzarmi questa volta di cercare di illuderlo, infatti lui non aveva fatto alcuna domanda, o almeno così credevo. -Perché credi che l’uomo non possa generare un simile prodigio?- Intuii quanto mi sbagliavo. La domanda l’aveva posta, solo che era stato nel sogno. Feci alcuni passi verso di lui. -La natura impiega migliaia di anni per generare una cosa come questa- risposi alla sua domanda -un uomo da solo non può eguagliarla-. -E che ne sai tu della natura?- mi domandò successivamente, senza mostrare alcuna ostilità ne forma di aggressività. Era semplicemente calmo, seduto e calmo. -Ne so abbastanza da poter affermare che un uomo non può compiere una simile opera- osai replicare, senza nascondere la mia indignazione. Vidi l’incappucciato congiungere le mani e portarle davanti al volto come a volerlo nascondere, sebbene ancora non mi fosse possibile vederlo. -Nemmeno nei sogni?- domandò allora lui, ma questa volta ero certo che la sua non era una domanda, ma piuttosto una risposta, e che in tale risposta vi era anche la rivelazione alla precedente affermazione. Se fossi stato acuto, avrei potuto intuire anche un’altra cosa: nel sogno non aveva detto generare, ma costruire, e ciò che nel sogno si generava, era evidente, era l’opera di un uomo o, dal punto di vista del sogno, di un dio. Provai una sorta di delirio di onnipotenza e quasi convinto di quanto avevo appena realizzato mi sentii quasi in grado di contrastare il mio nemico, perché se lui era il diavolo di quel sogno, io di certo ne ero il dio. -Se questo è il mio sogno, allora io ne sono padrone e dio allo stesso tempo- gli dissi. Ma il demone si limitò a sorridere e, pur mantenendo nascosto il suo viso lo potei percepire -e chi ti avrebbe potuto nominare dio di un sogno?- Mi sentii raggelare perché nonostante tutto, mi rendevo conto che non avrei mai potuto realizzare tutto da solo. Se avevo desiderato un sogno tutto mio, in che modo avevo potuto realizzarlo? La mia sicurezza vacillò e il demone lo comprese. -Se non sono nel mio sogno, allora dove sono?- -La domanda è errata amico mio. Tu sei nel tuo sogno, il punto è: come ci sei arrivato?- -Sei stato tu?- -E perché avrei dovuto farlo?- -Perché noi abbiamo un patto- dissi sicuro. Il diavolo inclinò la testa -davvero? Allora immagino che sia giunto il momento di riscuotere, o magari sei tu che hai deciso che è giunto il momento di pagare- disse con tranquillità. -E qual è il prezzo?- domandai con irruenza. -Tu hai stipulato il patto, e quindi tu hai stabilito il prezzo. È sempre così, non te lo ricordi?- -Io non ricordo niente- dissi rabbioso. -Forse perchè il prezzo lo hai stabilito successivamente al patto? Forse non avevi ancora bene chiaro ciò che potevi offrire?- Con ribrezzo mi voltai a osservare la colonna dove inerme giaceva la corda spezzata e inorridito rinnegai me stesso. -No, non posso averti offerto lei in cambio- mi ribellai. -Mi sembri molto confuso. Forse dovresti riflettere ancora un po’- consigliò. -Su che cosa dovrei riflettere?- domandai sentendo la rabbia che urlava vendetta contro me stesso rivelarmi che io non potevo essere un dio, perché per quanto crudele, un dio non poteva essere tanto subdolo. -Sul motivo della tua presenza qui adesso- mi disse, e questa volta la sua voce era seria e decisa. Davanti gli occhi mi si manifestò la visione del sogno in cui Felona legata sopra il baratro con le ferite che le laceravano il corpo un tempo languido e ora martoriato, dissetava la bestia nell’abisso col suo

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sangue. Il motivo per cui ero andato lì era liberarla, ma se lei era il prezzo che avevo negoziato per quel sogno, lo comprendevo in quel momento, come avrei mai potuto liberarla? A questo punto tutto ciò che mi restava da fare era rinunciare ad un sogno del quale lei non era più parte. -Sono venuto per liberare gli innocenti di questa assurdità- affermai allora, ma il demone mi osservò con aria avversa. -E chi sono gli innocenti cui ti riferisci?- domandò. -Tutti coloro che non hanno avuto scelta-. -Tutti hanno una scelta- rispose il demone. -Davvero? E quale sarebbe stata la scelta di Felona? E quella di Nausica? Di Virginia?- -Se tu fossi veramente un dio, comprenderesti che non puoi manipolare il destino di nessuno, in qualunque mondo, universo, sogno o dimensione esso esista-. -Ma se non sono un dio allora la conseguenza del destino di queste persone può essere la causa di ciò che io ho fatto- dissi con disperazione, e il demone sorrise di nuovo. -Questo sì, è possibile-. Ricordai la teoria dell’effetto farfalla -quindi Felona e gli altri sono vittime del mio desiderio, sono vittime di questa realtà che io ho generato, e questo non lo posso accettare- sentenziai. -E quindi, saresti disposto a rinunciare a tutto?- Riflettei su che cosa poteva significare quel tutto, realizzando che la soluzione era in una delle supposizioni fatte precedentemente. Quale che fosse tuttavia mi era impossibile da decifrare, forse mi sarei svegliato per scoprire che ero l’uomo del sogno che vive nella realtà, e che tutte le persone del sogno magari erano reali ma io non le conoscevo, o magari non avrei ricordato nulla e la realtà del sogno si sarebbe semplicemente dissolta con il mio risveglio. Pensare che ogni cosa sarebbe svanita mi fece rabbrividire, ma sapere che se non avessi agito in quel modo Felona, Nausica e tutti gli altri avrebbero continuato a subire le conseguenze della mia sconsideratezza, restava comunque insopportabile -sì, sono pronto a rinunciare- dissi allora. -E non pensi alle conseguenze?- -È proprio per questo che voglio rinunciare. Perché non voglio essere responsabile del tormento altrui- -Quindi la ragione per cui sei qui, è di porre fine al sogno?- considerò il sovrano dell’abisso. -Se questo è l’unico modo per evitare tutto, sì-. -E ciò che accadrebbe a te? Non hai pensato a questo? I patti hanno sempre delle piccole clausole…- -Non mi importa. Qualunque sia il prezzo sono pronto a pagarlo- dissi risoluto, ma a quel punto il demone parve farsi titubante. -Capisco, ma se questo si realizzasse, ogni cosa di questa realtà avrebbe fine. Hai considerato tale eventualità?- -Ne ho considerate molte di eventualità, ma se è questo che dovrà essere sono disposto ad accettarlo- dissi, pensando che il suo avviso si riferisse alla condizione in cui io sarei stato l’unica vittima. Ma mi sbagliavo perché ancora non avevo preso in considerazione veramente tutte le presenze del sogno, e in particolare quelle più potenti. -Allora non hai considerato che con la cessazione del sogno, ogni creatura, essere e forma di questa realtà, verrebbe cancellata… e se io ora fossi l’imperatore di questo regno? Credi che potrei accettare una simile eventualità?- Mi sentii raggelare -ma questo è il mio sogno, e io ne dispongo per ogni sua conseguenza e per ogni sua scelta…- cercai di apparire determinato, ma la paura era ben troppo manifesta nella mia incapacità di articolare bene le parole mentre intuivo che io non ero un dio, ma solo uno che aveva fatto un patto con qualcuno che invece un dio, seppure nel senso negativo, lo poteva essere. E quel dio negativo, cominciavo a comprendere, era proprio colui che mi trovavo di fronte che, assegnandomi l’universo del sogno richiesto, ne era divenuto anche il padrone. -Questo è il tuo sogno finché il tuo volere non compromette l’equilibrio e la stessa esistenza del sogno- confermò, infatti, un istante dopo la mia riflessione -ma quando il creatore minaccia il creato, ciò che è stato creato potrebbe ribellarsi e cercare di sopravvivere…- -Tu non puoi opporti al volere del creatore- dissi, cercando un’assurda opposizione nel più assurdo tentativo di determinarmi in colui che aveva generato la realtà dell’universo parallelo dove gli stessi demoni da me generati erano solo un’illusione nella quale loro stessi tuttavia non credevano. E con

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ribrezzo mi trovai a considerare come chiunque, nell’eventualità di una minaccia, avrebbe combattuto per sopravvivere, uomo o donna che fosse, spirito della natura, vegetale o roccia, angelo o demone…. incapace di vincere il timore di non poter essere io a ribellarmi a chi invece di tale illusione aveva fatto una realtà. Il calmo sovrano non appariva intimorito dalle mie minacce o dai miei ordini e nella sua calma continuava -posso oppormi al pericolo di essere distrutto, annientato, cancellato. Fa parte della mia possibilità di scegliere…- disse invece, e queste, seppure conferme, mi parvero tuttavia affermazioni più da umano che da demone. -Tu non puoi scegliere…- mi opposi sentendomi un po’ incitato da un’intuizione che non potevo definire convincente, ma che restava comunque una speranza. -La creazione è concepita in relazione a determinate conoscenze. Il sogno necessita di conoscenze e di ricordi per avere un’immagine, e tutto ciò che il creatore concepisce diviene parte della creatura generata. Così come tu hai la facoltà di scegliere, tale facoltà è medesima nella creazione. Se qualcuno vuole distruggere ciò che è stato creato, ciò che è stato creato può scegliere di combattere per sopravvivere… fa parte di ciò che il creatore ha donato alle sue creature- spiegò come un professore di filosofia che discute una tesi di teologia, ma con una convinzione che poteva essere data solo dalla certezza che era così come aveva detto solo perché quelle erano le convinzioni con cui ero cresciuto io, e che inevitabilmente divenivano le condizioni della mia creazione: “Libero arbitrio” pensai, mentre nella mente percepii la sensazione che doveva provare un padre tradito dal proprio figlio. -Quindi, ti ribelleresti al creatore?- ormai non mi rendevo nemmeno conto di ciò che accadeva e tanto meno di quanto megalomane fosse quel dialogo. -Che cos’è la ribellione, se non un atto di sopravvivenza?- Non so quanto fossero miei e quanto appartenessero al sogno, ma nei miei ricordi tornavano continuamente alla memoria teorie di insegnamenti ricevuti da una dottrina che da tanto tempo avevo dimenticato e rifiutato. -Gli angeli ribelli sono stati condannati per questo- ricordai quindi a colui che stava divenendo, effettivamente, un ribelle. -Ma sono sopravvissuti- rispose con calma il demonio del mio mondo. -In catene- lo sfidai di nuovo. -Ma dalle catene ci si può liberare- rispose nuovamente l’angelo ribelle e improvvisamente ebbi la sensazione che nella sua calma non stesse cercando di ribellarsi, ma piuttosto di farmi comprendere qualcosa. -Tu saresti disposto a imprigionare ogni essere, ogni creatura e ogni cosa di questo sogno quindi, in una realtà opprimente?- -Sono disposto a dare loro una speranza- mi disse, e come se fossi io il demone, cominciai a sentirmi più un persecutore che un salvatore. Lo guardai con aria di sfida, non accettando di essere condotto dalla parte del malvagio. -Ogni creatura di questo regno, dovrebbe comprendere le ragioni della sua prigionia per avere la possibilità di liberarsi-. -E non è questo il senso della scelta?- disse lui, e io ripensai alla carta degli amanti, l’arcano numero sei di quel gioco definito Tarocchi che ancora stava nelle mie tasche. -Quindi tu sei qui per sfidarmi, ma non hai potere su di me…- per una ragione che mi era difficile capire, la paura cominciava a svanire, come se fossi consapevole che quel demone non poteva farmi alcun male, se escludevo l’oltraggio di contrastarmi. -Ho il potere della conoscenza. Io conosco il creatore e per tale ragione ho la possibilità di farlo conoscere…- -Ma solo attraverso la sofferenza- lo attaccai, certo che nessuno ambisse a voler veramente divenire il persecutore di un universo. -Credevo che a questo ci fossi già arrivato- rispose però l’angelo ribelle, rivolgendosi ora a me, creatore, come se fossimo fratelli. Ma non fu quel confidenziale atto a farmi illuminare, ma piuttosto ciò di cui molto prima, con qualcun altro, avevo concepito: “Per conoscere la luce è necessaria l’oscurità. Se esistesse solo la luce, non sapremmo nemmeno che cosa sarebbe la luce”. Razionalmente

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cominciai a percepire la mia inconsistenza e la mia inferiorità. Io non potevo essere un creatore, al massimo forse, potevo considerarmi un distruttore, come Shiva. -Chi sei tu?- finii così per domandargli come se ogni mia considerazione fatta finora mi si rivelasse errata e non avessi veramente capito con chi stavo trattando. -Sono ciò per cui sei qui: io sono la scelta- rispose vagamente. -La scelta? Quale tipo di scelta?- -Quella che sei obbligato a comprendere-. -E se distruggo il sogno, non avrei facoltà di comprendere?- -No, perché ciò che dovrai comprendere è come il sogno possa essere distrutto senza che il creatore stesso sia distrutto con lui- disse, e tutto mi si rivelò. -Per annientare questa realtà devo annientare me stesso- sussurrai. -Questa è la ragione per cui sei venuto qui. Non per comprendere, non per salvare, ma solo per distruggere… finché tutto non ti sarà manifesto, allora potrai avere facoltà di dominio, ma ora devi comprendere le ragioni della scelta-. -È in questo modo che combatti la tua battaglia? Se giungerò a comprendere e ad avere facoltà di dominio, tu non potrai più contrastarmi- gli feci notare, come se pensassi che aveva compiuto un errore nel rivelarmi tale segreto. -No! Se giungerai a comprendere, io non avrò più necessità di contrastarti-. -Perché?-. -Lo hai detto tu stesso. Io non ho potere su di te, non ti posso sconfiggere, posso solo cercare di salvarti-. -Salvarmi? Da cosa?- -Da te stesso-. -Ma se io salvo me, che ne sarà di tutte le persone che ho imprigionato?- -Continui a riferirti a coloro che hai coinvolto nel tuo viaggio? Rifletti, se tu sei il creatore, tali esseri, che cosa sono?- -Mie creazioni?- l’angelo ribelle parve annuire soddisfatto. -Anche loro prigioniere però- gli feci notare. -Sì, ma forse il loro scopo era proprio questo non credi? Altrimenti come saresti giunto qui?-. -E se invece tutto questo non fosse un sogno? Se fosse una realtà in cui io sto impazzendo?- -Staresti comunque parlando con una creatura della tua follia, che non è disposta a lasciarsi distruggere-. -E in che modo potresti impedirmelo a questo punto?- -Perché se la tua è follia, allora non potresti liberarti del tuo sogno nemmeno distruggendoti-. Mi avvicinai al baratro -davvero? Vogliamo vedere?- dissi lasciando chiaramente intendere la mia intenzione di farmi precipitare nell’abisso. Il ribelle inclinò la testa di lato e mi studiò sereno -se ti lasci inghiottire dalla bestia, resterai prigioniero del tuo stesso incubo e la tua follia vivrà per sempre nella memoria dei folli che l’hanno abitata. Per distruggere te stesso, devi essere cosciente di ciò che sei. Se getti un sasso nell’acqua, questo con il tempo si sgretolerà, ma la sua essenza non sarà dispersa… se getti una foglia nel fuoco, si brucerà ma resterà la cenere e il vapore della sua parte umida sarà nell’aria, ma se tu comprendi che il sasso deve compiere la sua evoluzione e la foglia la sua trasformazione, allora lascerai che ognuno compia il suo destino affinché possa un giorno giungere alla comprensione che la propria distruzione non è possibile. Tutto è destinato a disciogliersi nel tutto. Tu, questo lo puoi comprendere?- Mi sentii stravolgere, ma ciò che mi turbava di più era: se ero io il creatore e lui la creatura, come poteva lui sapere ciò che avrei dovuto sapere io? -E tu lo puoi comprendere?- domandai allora. -Io lotto per sopravvivere. Quale altra ragione potrei avere per farlo? Se non fossi convinto che l’essenza del mio essere è destinata a qualcosa di più grande, quale timore dovrei avere a lasciarmi annientare?- -Quindi sono io l’incosciente-. -Perché sei qui?- mi domandò allora il ribelle, e io compresi che le parti si stavano invertendo. Io potevo essere il creatore, ma se lo ero, ancora non sapevo il perché.

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-Per porre rimedio ai miei errori- dissi come illuminato da un’intuizione. -E quali sono i tuoi errori?- non mi diede tregua l’avversario. -Ho lasciato che persone innocenti subissero ingiustizie a causa mia-. Il ribelle sospirò -nessuno può avere il controllo del tutto. Se conoscessimo il nostro destino potremmo cercare di cambiarlo, ma la mutazione porterebbe solo alla creazione di un nuovo destino nel quale altre esistenze sarebbero coinvolte. Come pensi che potresti controllare ogni cosa?- -Con il libero arbitrio- ammisi quasi con rammarico -quindi dovrei lasciare tutto così com’è, e accettare che altri soffrano al mio posto?- -La sofferenza fa parte del tutto. Così come la luce ha bisogno di ombra, la felicità necessita di sofferenza. Ancora non accetti questa condizione?- -Non accetto di esserne responsabile-. -Eppure sei venuto qui per fare un sacrificio-. -Cosa?- dissi sbalordito, e di nuovo ebbi l’impressione di essere stato illuminato. -Qualcuno deve causare il male per far conoscere il bene- disse l’angelo. -Non intenzionalmente…- risposi io, e ancora compresi nella rapidità del pensiero che sembrava correre più della luce ciò che l’angelo mi avrebbe confermato un istante dopo a prole. -Ma forse, ciò che nel mondo è oscuro, serve solo per rendere più luminoso ciò che brilla-. Mi spostai in avanti -chi sei tu- domandai di nuovo cominciando a temere di non volerlo veramente sapere. -Ancora non lo hai capito? Quando venisti qui la prima volta chi credevi di trovare?- -Intendi dire nel sogno?- annuì. -L’autore del manoscritto-. -E quindi?- -Pensavo che avrei trovato Tommaso D’amanti-. -E adesso invece, chi credi che io sia?- Provai una forte paura e inconsciamente mi avvicinai al ribelle. -Immaginavo che avrei trovato colui con cui avevo stretto un patto, e speravo di poterlo cambiare…- -E in che modo avresti potuto cambiarlo se ancora non hai capito né con chi hai stretto quel patto, né che tipo di patto avresti stretto? Guardami e dimmi chi pensi che io sia adesso? Solo così puoi cambiare le sorti del tuo presupposto patto. Sono forse il diavolo?-. Lo fissai ancora, ma ormai avevo solo dubbi nella mente -io non lo so- dissi rassegnato. Allora l’essere di fronte a me alzò il viso e una luce fioca dal basso illuminò un volto giovane, che seppure adornato da una barba appuntita che poteva renderlo simile alle caricature del diavolo e lo rendesse minaccioso a causa delle ombre, non sembrava avere niente di più di ciò che si poteva definire umano. -Mi riconosci adesso?- domandò ancora. Un presentimento mi assalì, ma non osai rispondere per timore e per desiderio di non sapere, ma tale desiderio non era anche nelle facoltà del misterioso uomo o demone che fosse e, stanco di aspettare che prendessi il coraggio di parlare, rispose per me. -Io sono lo scrittore, io sono Demetrio Dilago, sono Virginia, Vanessa, Nausica, Dennis, e perfino il custode del cimitero, io sono Tommaso D’amanti… io, sono te- disse togliendosi il cappuccio per togliere le ombre dal viso e scoprire un volto nel quale non potevo, o non volevo riconoscermi. -No, io so chi sono… il mio nome è Donato Mastammi- mi ribellai, ma con terrificante illusoria tetraggine vidi il giovane scrivere sulla terra con un bastone che non credevo di avergli visto prima tra le mani quel nome che avevo appena pronunciato e poi, cancellandole una alla volta per riscriverle appena sotto, osservai le lettere del mio nome scomporsi e ricomporsi in quell’anagramma che rivelava un altro nome ben definito: Tommaso D’amanti. -Qual è il tuo ricordo più lontano?- mi domandò mentre componeva l’anagramma e in quel momento infinite informazioni mi si confusero nella mente. Già qualcun altro me lo aveva chiesto, così come qualcun altro mi aveva detto che non potevo prevedere il futuro perché ci vivevo dentro e improvvisamente intuii che se pensavo a me come Donato Mastammi, non avevo ricordi, ma se pensavo a me stesso come Tommaso D’amanti, tutto mi appariva limpido come un racconto appena scritto, o letto.

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-Non è un caso che tu abbia scelto questo nome sai? Così come non è un caso che in tale nome vi sia la corrispondenza con la carta che hai in tasca- Estrassi l’arcano degli amanti e lo associai al mio nome: D’amanti. Una sensazione stravolgente mi fece provare un senso di vertigine e per un momento la vista mi si offuscò sottraendomi ogni immagine recente per sostituirla con una strana luce di colore giallo ocra. -Che significa?- domandai. -Quello che non puoi evitare: la scelta-. -Ma io ero reale quando tutto è iniziato-. -E quand’è che tutto è iniziato?- Non cercai nemmeno di capire perché rispondevo alle sue domande -quando ho ricevuto quel pacco e quall’assurda offerta…- -Perché era assurda? E perché hai scelto di accettarla?- La memoria tornò a quel giorno infausto e a quell’assurdo incarico che mai avrei potuto considerare così illogico, irrazionale e al contempo tanto rivelatore. Se avessi potuto immaginare, avrei facilmente saputo rinunciare, ma era facile con il senno di poi trarre le conclusioni, ma di un futuro che non posiamo prevedere non possiamo nemmeno ritenerci responsabili finché non ne conosciamo gli esiti comprendendo che ogni cosa in questa vita ha un prezzo o ora mi sembrava quasi assurdo, giacché ero andato laggiù per offrirmi come vittima sacrificale in cambio della libertà di un altrui persona, che il valore della mia vita avesse un così basso costo: trecentoventunomila euro ora mi sembravano assurdamente superflui, e tuttavia, non potevo evitare di considerare che probabilmente, io stesso lo avevo stabilito. -Perché non sapevo, perchè non immaginavo…- risposi distrattamente alla domanda, consapevole della menzogna in essa celata. -Che cosa non immaginavi?- le sue domande sembravano un interrogatorio dove io ero già stato giudicato colpevole. -Che sarei arrivato qui- dissi. -E qui, dov’è?- mi domandò a quel punto il ribelle e tutto mi parve vuoto e incompleto. Il qui in cui mi trovavo, non era un qui nel quale credevo di essere, era un qui illusorio, privo di consistenza e di realtà nel quale ormai non potevo più nemmeno considerare la possibilità che fosse un sogno. -Io non so dove sono- dissi con disperazione. -Perché i tuoi ricordi si dissolvono nella realtà del tuo non essere. Per questo hai creato una figura nella quale nasconderti…- -Donato… non esiste- sussurrai con terrore. L’angelo ribelle sorrise -solo la sua illusione non esiste-. -Ma allora, se io non sono io, chi sono?-. -Sei un ospite- rivelò, e io ricordai Glauco e Diomede. -Di chi?- -Del tutto, e sei qui per ristabilire il tuo patto d’ospitalità-. -Sei tu dunque, il padrone di questo regno?- Scosse il capo -no, io sono ora tuo ospite, e sono qui per rispettare le regole dell’ospitalità, sono qui per donarti un sùmbolon: la tua ombra-. -La mia ombra? Ma che significa?- -La comprensione della luce…- lasciò la frase in sospeso, e nel silenzio che subentrò successivamente era chiaro che attendeva la mia conclusione. Quindi riflettei, e lo feci attraverso ciò che avevo appreso in quei giorni. -La comprensione della luce passa inevitabilmente attraverso l’ombra…- sussurrai, e quel semplice pensiero mi fece percepire il lume di una candela che si accendeva alle mie spalle, mi voltai e osservai tale lume farsi sempre più intenso, finché ebbe la capacità di illuminare gran parte dell’oscura caverna e pensai, quasi con ironia, che per quanto veloce fosse la luce, ella arrivava sempre dopo l’ombra. Il ribelle mi guardò e sorrise -cominci a capire dove sono i tuoi ricordi?- e un’altra candela si accese più vicina e, come se avesse avuto la possibilità di farmi leggere nel libro della mente, mi rividi bambino in una stanza, solo tra la compagnia dei miei pensieri e delle matite con le quali disegnavo. Una terza candela poi si accese e la sua luce parve meno nitida e confuse alla mia vista in un contesto

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di colore giallo ocra, altre candele si accesero successivamente e la caverna divenne luminosa al punto che quasi le sue pareti non erano più visibili mentre l’angelo davanti a me diveniva un fascio di luce che investendomi proiettava la mia ombra nella luce stessa. -Sono morto, era vero allora, sono morto in quel lontano giorno- dissi. Ma il fascio di luce, perché ormai solo di questo potevo avere cognizione, rispose -sono solo ricordi- e io valutai le mie sensazioni. Dopo quel giorno ne avevo avuti altri, e pensai ad un terremoto. Avevo avuto l’occasione di vivere l’esperienza di un terremoto da bambino, ma non c’erano state conseguenze, tuttavia, se arretravo in un passato più profondo, riuscivo a vedere una catastrofe nella quale potevo percepire il dolore di conseguenze più disastrose che potevo sentire come se le avessi veramente vissute e provai la triste angoscia di sentirmi soffocare da macerie che cadevano su di me e la mia mano stretta nella mano di una donna -Virginia- sussurrai, e la memoria mi portò in un tempo più lontano, fuori da quello che avrei potuto considerare il tempo attuale, dove su un’isola circondata da un mare blu, vedevo me stesso assieme a lei sulle rive del mare che si infrangeva contro scogli luminosi e pensai ad un vecchio dialogo avuto con un amico: “E’ possibile che un amore possa avere origini tanto profonde nel tempo, da far sì che un bambino si possa innamorare di una bambina mai vista al suo primo incontro?” -L’amore eterno- dissi, ma ormai non vedevo più nulla. -Quante volte sei morto prima di oggi?- sentii dire al fascio di luce. Pensai all’ultima che avevo ricordato, quella in cui mi ero ritrovato nella luce giallo ocra -non è stata la prima?- -Non c’è mai stata- disse allora la luce. -Vuoi dire che non sono mai morto?- -Se non sei mai morto allora, non sei nemmeno mai nato- mi fece notare la luce. -Ma come ho potuto immaginare tutto, se non sono reale?- -Perché la tua irrealtà, per divenire consapevole del suo essere, ha dovuto generare realtà. Siamo qui per fare esperienze, per comprendere chi o cosa siamo, questo è lo scopo dei nostri continui viaggi. La scelta che ancora non hai compreso, è tutta lì-. -Ho scelto di dividermi dal vuoto per capire che cosa fosse quello stesso vuoto… ho scelto di separarmi dalla luce e divenire ombra per comprendere che cosa fosse la luce… per questo sono stato condotto qui? Ma in che modo?..- -Nel modo in cui avviene per chiunque. Tu ti sei separato per giungere a osservare il tuo riflesso. La tua comprensione ha fatto sì che tu formulassi una scelta, quella di essere consapevole e questa scelta ti ha condotto a incontrare tutto ciò di cui necessitavi. Tu stesso hai generato le modalità per farlo, i tuoi maestri, ti hanno dato e condotto solo ciò che tu volevi…- -Demetrio allora era reale, e pure Virginia…- -Tu hai scelto di incontrarli, di vivere nel loro tempo…- -Ma quando?- -Il quando, nello spazio di quella scelta non ha tempo, il tempo ti viene consegnato nello spazio della comprensione di tale scelta. Tutto ciò che hai vissuto successivamente, nelle vesti di Donato Mastammi, lo hai fatto fuori di questo tempo: egli sta oltre il tempo, è il ricordo che ricorda…- -Così io non sono il creatore, sono l’ombra che conduce alla luce- osservai la mia ombra farsi sempre più grande e rabbrividendo cominciai a capire. -Sono qui per celarmi nell’oscurità e divenire il demone del mio regno-. Osservai il demone che svaniva nella luce mentre nell’ombra riconoscevo sempre di più la mia immagine -ma se io sono l’ombra di questo universo, chi ne è la luce?..- Ormai il dialogo era più un monologo perché ormai mi fondevo sempre più nell’essere col quale parlavo. -La creazione ha origine dalla divisione, luce e ombra generano la materia, l’uno si divide per dare origine alla prima forma. Tu ti sei separato dalla luce, e in questo modo puoi rispondere alla domanda-. -Quale domanda?- -È possibile innamorarsi di ciò che non si è mai conosciuto?- Demetrio aveva posto quella domanda, era nei ricordi di Tommaso D’amanti, e improvvisamente iniziai a capire. Demetrio era l’ombra divisa dalla sua luce, Virginia, destinato ad attendere finché

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anche la luce fosse stata consapevole della sua ombra, allora avrebbero potuto riunirsi per l’eternità. Ma se Virginia era la luce di Demetrio, il quale doveva aver generato a sua volta un proprio inferno per giungere alla comprensione del suo errare su questo mondo, chi era la mia luce? Non sentii alcuna risposta, ma non ebbi necessità di farlo, istintivamente mi voltai e osservai la colonna dove era stata legata Felona. -Ciò che hai creato, ora devi comprenderlo. Ora tu non sei più parte di quella realtà, ma parte di chi tale realtà la deve interpretare-. Come un prigioniero mi sentii incatenare al mio oscuro destino e con un brivido atroce immaginai che nell’universo che si stava creando proprio in quel momento, forse le prime forme di intelligenza consapevoli avrebbero adorato una divinità femminile e l’avrebbero chiamata Felon, o qualcosa di simile, mentre avrebbero concepito la parte oscura signore degli inferi con un nome simili a Tomanti. Avevo finalmente realizzato il mio sùmbolon e nello stesso tempo realizzavo che lo stavo perdendo, al solo scopo di incamminarmi lungo una via tortuosa e, probabilmente, infinita. -Mi sono condannato per i miei crimini?- dissi incerto che lo stato in cui mi stavo calando fosse un privilegio. -Al contrario, l’inferno non è ciò che una mente limitata immagina. Tu non sei stato condannato, ma liberato, e per questo ora hai scelto di essere ciò che sei, un ombra che conduce verso la luce…- -Io sono l’angelo… l’angelo ribelle- rivelai a me stesso con rassegnato orrore. Non potevo vederlo, tutto ciò che stava intorno a me ormai era solo luce, fatta eccezione per la mia ombra, e nonostante tutto percepii un sorriso. -Tu sei il generatore di un nuovo universo, nel quale ogni tua creazione ha ora necessità di comprendere. Tu non puoi distruggere ciò che hai creato, ma solo aiutarlo a divenire coscienza di sé-. -Sono il demone del mio universo, il dio creatore che distrugge se stesso, colui che deve morire perché tutto abbia inizio…- ma non lo domandai, seppure con reverenziale terrore, lo affermai. -In fine hai fatto la tua scelta e ne sei divenuto consapevole solo oscurandoti, perciò ora scegli di oscurare tutto ciò che hai generato. Il tuo sogno è ora realtà e tu ne sei il custode. Hai spezzato la luce creando il sùmbolon che ti legherà per sempre ad essa, hai compiuto il tuo sacrificio per un bene più alto, hai nutrito la bestia, l’hai imprigionata e domata… ora, sei padrone del tuo destino perché lui appartiene a tutto l’universo di cui ora sei il principe…- Un sussurro lontano parve suggerirmi un aggettivo ulteriore, e ancora memore di antichi ricordi sentii la voce finire con l’ultima affermazione che avrei ricordato di quell’assurdo viaggio onirico: -Principe delle tenebre-… Poi la luce si spense, le voci svanirono e io mi ritrovai solo all’interno di una stanza comune, senza stalattiti, senza rocce, senza radici, ma con una struggente sensazione di vuoto e la consapevolezza, seppure sfuggevole, che qualcosa fosse rimasto incompiuto e ancora non tutto mi si fosse completamente manifestato. Era come, ripensando al racconto che mi sembrava di aver letto secoli prima, all’epilogo dell’assurda allucinazione, mancasse una parte. In quel romanzo strano che avevo letto in quel tempo assurdo, l’autore aveva svelato due confini, il primo, quello dell’illusione, il secondo quello della realtà, poi, c’era stato un terzo confine, che non deducevo perché scritto nel racconto ma perché vissuto direttamente, vale a dire, quello della scelta… ma qualcosa oltre quei confini mi spingeva a ritenere che vi fosse dell’altro… solo che io adesso mi trovavo in quella cantina, e non sapevo nemmeno perché, né da quanto ero laggiù. Avevo l’impressione di essermi addormentato e di aver sognato. Un sogno strano, assurdo, forse legato al ritorno di Demetrio e a quei giorni trascorsi assieme, in cui avevo avuto possibilità di rivivere determinati ricordi smarriti, o forse all’emozione per quella sera in cui li avevo invitati tutti e come un tempo avremmo rivissuto una di quelle fantastiche serate, sebbene gli anni trascorsi forse avrebbero condizionato il dialogo per l’evoluzione del pensiero che in noi si era trasformato come i nostri corpi nell’arco di quei vent’anni…

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Epilogo

OLTRE I CONFINI

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…Il primo sigillo: l’occultamento …Fu la voce di Anna che mi chiamò da sopra a destarmi dall’oblio in cui ero caduto immergendomi nella cantina -Tom, farai tardi- diceva, e impossibile fu allo stesso tempo ricordare come anche quella mattina lei stessa mi avesse destato dal sonno sentendomi tremolante e lamentoso al limite del delirio. “Di nuovo vittima degli incubi?” mi aveva chiesto e io, confuso tra ricordi che svanivano nei quali credevo di riconoscere realtà che non erano illusorie, ammettevo quasi spaventato il mio sentirmi preda di un aggressore onirico. “Sei sicuro sia una buona idea quella di invitare qui questo tuo amico? È da quando è tornato che sei tormentato da questi incubi” mi aveva detto preoccupata. Ma io avevo sorriso, rassicurandola che era tutto a posto. Tuttavia, malgrado i ricordi svanissero rapidi, non potevo in certi contesti evitare lo strano collegamento tra il suo ritorno e l’inizio degli incubi. Per un istante, nel passare dall’allucinante momento di smarrimento al concreto contatto con la realtà, la cantina quasi mi parve una grotta dipinta dalla luce di candele soffuse di uno strano colore giallastro, o meglio, un giallo ocra che mi conduceva lontane memorie. Sorrisi come a prendermi in giro da solo e osservai la cantina attorno a me, quasi incerto del tempo che avevo trascorso lì sotto e perfino di quando ci ero sceso, mentre la memoria mi conduceva all’episodio che aveva impresso nella mia mente la particolare nuance quando, in un età molto infantile, una sorta di principio di svenimento, senza nessun preavviso né sintomo, aveva dipinto il mondo intorno a me di quel colore giallo ocra… c’era stato poi un vuoto, per cui successivamente ricordavo solo di essermi svegliato sdraiato a terra con mio padre che mi schiaffeggiava e mia madre che piangeva preoccupata. Non doveva essere durato più di pochi minuti, e il medico fatto correre in fretta aveva detto che si era trattato di un semplice mancamento. Aveva consigliato una dieta ricca di potassio e ferro, e tanta frutta e verdura che da quel giorno divennero immancabili in ogni mio pasto, colazione, pranzo e cena. Sorrisi ripensando a quei giorni lontani. Certo questo non doveva essere stato lo stesso sintomo, in seguito a quella lieve mancanza, infatti, non avevo avuto perdita di sensi né ero caduto a terra, forse il tutto era durato solo pochi secondi e dava più il senso di un ipotetico istante di auto ipnosi dovuta forse alla penombra che per un attimo doveva aver trovato il modo di rilassare troppo la mia mente, e non me ne preoccupai. Tuttavia ricordai con una certa inquietudine a come in seguito, anche a distanza di anni, mi fosse capitato spesso di chiedermi se non fossi morto in quella determinata circostanza e non me ne fossi reso conto, continuando a vivere una vita alternativa come quella che spesso si vedeva in certi film di spiriti e mentre lasciavo scorrere i lontani ricordi tornavo a realizzare il motivo della mia discesa in cantina. Avevo invitato Demetrio a cena quella sera, e con lui i cari amici Vincent e Val, ed ero sceso in cantina per cercare un vino pregiato da offrire loro e, poiché la nostra era una cantina ben fornita, dovevo essermi stordito nel soffermarmi a cercare di capire quale fosse la scelta migliore. Alla fine avevo optato per un buon Amarone della Valpolicella, e al richiamo di Anna ero risalito. La cena non l’avevo organizzata a caso, anche se il pretesto del ritorno di Demetrio dava molte opportunità per farlo credere. Per me si trattava di una sorta di ritorno ai vecchi tempi. Il destino è strano e imprevedibile, e credo che nessuno di noi venti anni prima avrebbe supposto che Vincent avrebbe studiato teologia e Val sarebbe divenuto una sorta di diplomatico che girava il globo come traduttore in vari sedi delle ambasciate italiane nel mondo. Per me tuttavia era interessante vedere in che modo si sarebbe svolto un dialogo tra loro, dopo tanti anni e un’ormai raggiunta maturità. Demetrio era diventato famoso, ma la sua notorietà, ne ero certo, non aveva sicuramente intaccato le sue vecchie ideologie e la mia si poteva azzardare come una sorta di provocazione, ma mai come in quella sera avrei potuto percepire come certe condizioni finiscano inevitabilmente per rivolgersi esclusivamente a chi le determina, forse per rivelare ad ognuno che non è negli altri che vanno ricercate le proprie verità. La festa organizzata in onore di Demetrio era stato uno degli eventi più importanti che il paese ricordasse, in cui erano stati organizzati incontri con giornalisti di varie testate regionali e avevano partecipato emittenti televisive locali e perfino nazionali. Demetrio ci aveva resi famosi per un giorno e quasi tutti, anche se non per scopi propriamente nobili e disinteressati, ne erano stati grati e partecipi. Ufficialmente era tornato perché sembrava che il National Geographic fosse interessato al territorio

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della bassa pianura padana e volesse pubblicare un servizio sull’ambiente e sui fiumi della sua geografia nella quale si stava sviluppando un progetto di reintroduzione della fauna quasi estinta. Demetrio, in quanto originario della zona, era stato selezionato come miglior candidato a documentare queste terre e nel suo progetto aveva implicato l’idea di associare ai fiumi più noti altri minori e meno popolari, ma con caratteristiche particolari come quelle di annoverare, ad esempio, elementi distintivi di tipo folcloristico che li rendeva originali e attraenti. Il Tregnon era stato il primo a cui aveva pensato, così nel suo articolo, accanto alle immagini del territorio, sarebbero apparse le storie dei centri da questo piccolo fiume attraversati e i racconti delle mitologiche creature che secondo la tradizione lo avrebbero abitato. L’idea era stata approvata dalla redazione e tutti sapevano che le immagini del Tregnon sarebbero apparse sul National Geographic, e con esse i nomi dei nostri paesi, cosa che non aveva mancato di attirare l’attenzione non solo dei paesi interessati ma di tutta la provincia che non aveva mancato di cogliere l’occasione pubblicitaria offerta dall’opportunità. Ovviamente in quella serata Demetrio era stato tropo impegnato tra formalità e cerimoniali, e io avevo avuto solo l’opportunità di un rapido saluto e cogliere l’occasione per offrirmi come assistente durante la settimana che gli sarebbe occorsa per realizzare il servizio. Una settimana nella quale, oltre all’onore di accompagnarlo, avevo colto l’occasione quasi irresistibile di rivivere ricordi di un tempo passato che, stranamente, mi sembrava lontano secoli. È strano come a seconda della posizione i punti di vista siano differenti. A vent’anni, vent’anni non sembravano un periodo tanto lungo, ma vent’anni dopo apparivano, al contrario, uno spazio di tempo che poteva dare quasi la sensazione che fosse trascorsa una vita intera. In effetti di cose ne erano accadute in quel tempo in cui lui era stato lontano e, come già detto, sembrava impossibile poter pensare che un giorno Vincent, il cui futuro appariva per tutti già predisposto al vagabondaggio da alcolizzato, sarebbe stato in quel venerdì mio ospite dopo essersi diplomato in teologia, anche se poi quegli stessi studi l’avevano condotto a ripudiare la via intrappresa. Aveva rinunciato al sacerdozio, e per sua stessa ammissione non sarebbe mai entrato nemmeno in una chiesa da libero pensatore. Io non avevo mai osato domandare il perché della sua scelta, seppure avessi avuto occasione di incontrarlo molto spesso nei giorni a seguire dal momento che il comune gi aveva offerto un posto come operatore ecologico in cui, tra le altre mansioni, si occupava dei cimiteri di Valbordi e Casterba. A Demetrio, durante un’escursione della settimana in cui ci eravamo incontrati, aveva confessato che quella era la parte che preferiva del suo lavoro. Ai morti, aveva detto, si potevano raccontare molte storie, senza rischiare giudizi o rimproveri. Demetrio lo aveva definito il custode delle anime e in quell’occasione gli aveva regalato dei dadi per giocare con loro. Erano dadi speciali gli aveva detto, e Vincent aveva sorriso nel vedere che non avevano numeri. Li usava una zingara conosciuta in un viaggio nei Balcani, che si definiva un oracolo e che gli aveva rivelato che quel dono era destinato ad una persona che lui avrebbe riconosciuto al momento giusto, una sorta di amuleto da tramandare perché il suo potere consisteva nell’essere una sorta di guida o ispirazione, che stava con chi necessitava del proprio potere finché non fosse giunto il momento di separarsene. La zingara, aveva continuato, aveva detto che il possessore di quell’amuleto avrebbe capito sia il momento in cui avrebbe dovuto separarsi da lui, sia a chi avrebbe dovuto donarlo. Io l’avevo considerata un’altra bizzarria del fantasioso amico di un tempo, ma Vincent si era compiaciuto dell’onore di un tale dono, rivelando nel suo apprezzamento un valore che io forse, pur con tutte le mie ricchezze, non avrei mai potuto comprendere. Del passato da teologo di Vincent non sapevo molto, ma credevo che gli studi lo avessero in qualche modo influenzato, per questo restai quasi scioccato quando durante la cena alla domanda di Demetrio, sul perchè avesse abbandonato la vocazione, con leggera superficialità aveva risposto: -Sono riuscito a controllare il vizio del gioco amico mio, ma ancora mi piacciono troppo le donne- aveva scherzato, poi però aveva aggiunto che aveva smesso di credere in una dottrina che pretendeva di dogmatizzare le scienze divinatorie ma poi non sapeva dare risposte, e parlando di sé e di ciò che lo aveva spinto a scegliere quella via, come attraverso il non credere più in quella stessa via, era riuscito a comprendere molte più cose di quante ne potesse capire passando la vita a studiare su libri che pretendevano di conoscere verità al solo scopo di valorizzare semplicemente quel che era importante all’unico fine di un interesse dal collettivo individuale.

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-La teologia- aveva detto -si prefigge di rivelare il messaggio della rivelazione accolto dalla fede e si fa ambasciatrice di dogmi che per una presunzione umana si definiscono incontestabili e infallibili. Ma allo stesso tempo poi non sa dare risposte. Sinceramente, quando dopo essere precipitato nell’abisso fino al punto in cui si dice che una volta toccato il fondo non resta che scavare, io che non avevo una vanga e ho creduto che fosse meglio cercare di risalire, ho avuto modo di riflettere a lungo si di me, su quello che è stata la mia vita, sulle conseguenze delle mie azioni e su ciò che queste hanno significato per altre persone-. C’era stato un attimo di silenzio mentre tutti andavamo col pensiero alla giovane sposa che Vincent aveva avuto e alla figlia che non aveva mai conosciuto perché, a causa del suo vizio del gioco, del bere e dell’essere seduttore, quel suo matrimonio non era durato che pochi mesi, sufficienti però a far sì che la sposa restasse incinta. Lui steso sembrò volerci lasciare il tempo per meditare su tale evento. -Ho avuto modo di capire che certi avvenimento hanno il pregio e la potenza di farti comprendere tante cose. Ho incontrato pure persone che mi hanno aiutato a intuire molte di queste cose, sapete, si può veramente apprendere molto da quelle associazioni tipo gli A.A. o altre comunità di recupero, e ho anche conosciuto dei sacerdoti che avevano pensieri un po’ discordanti, quasi in contrasto con la loro stessa dottrina, soprattutto missionari. Per un certo tempo ho pensato che la teologia potesse essere la via giusta per me, ma quando qualcuno ti chiede perché Dio fa succedere certe tragedie come terremoti o inondazioni, quando una madre ti chiede perché Dio si è preso suo figlio in un incidente, quando ti si domanda perché Dio lascia morire i suoi figli di fame in certe parti del mondo o perché permetta che ci siano tutte queste guerre… bèh, sinceramente rispondere che solo lui conosce il disegno divino, e che per tutto c’è una ragione, mi sembra troppo poco. Forse poiché in un certo senso io ho potuto provare determinate difficoltà, mi appare troppo semplicistico dire a qualcuno che ha subito un’ingiustizia o si porta sulle spalle il peso di un tragico evento, che ogni cosa ha un motivo di essere e che Dio ne conosce comunque la ragione. Chi cerca risposte a simili domande ha bisogno di qualcosa di più di un conforto sul quale non può fare affidamento. Dio esiste forse, e magari veramente sa ciò che fa, ma per quanto mi sforzi di capirlo, io credo che non sarei mai stato in grado di accettare simili risposte. Così il mio ruolo mi è apparso improvvisamente inutile… in quel contesto- aveva inghiottito un boccone lasciando intendere che non aveva null’altro da aggiungere. Avevo osservato Demetrio con attenzione aspettandomi una sua reazione, ma sembrava che ormai, l’uomo che da ragazzino mi aveva avviato all’arte della riflessione, fosse andato oltre, e fosse in grado di accettare senza difficoltà la rassegnazione di chi si era arreso all’evidenza di una sorte incontrastabile. Anche Val aveva ascoltato con interesse, ma ritenevo che lui non fosse ancora pronto a sostenere argomentazioni così profonde. Nonostante tutto, Val sembrava rimasto fermo nel tempo e il suo principale interesse era ancora quello del viaggio. Non sapevo quanto mi sbagliavo, ma tutto ciò che volevo in quel momento era che la serata non si limitasse ad una semplice cena. Io volevo, anzi, avevo bisogno di qualcosa di più, come ai tempi dei fatali incontri, e incautamente fui io a forzare la discussione. -Ma è così no?- Tutti e tre mi osservarono con la classica espressione di chi aspettava di ricevere altre informazioni su ciò che non era ben chiaro. -Tutto avviene per un motivo- dissi allora -se noi accettassimo che la nostra condizione è pura casualità, che senso avrebbe essere qui?- gli occhi su di me sembrarono improvvisamente sassi scagliati ad una lapidazione e mi sentii bisognoso di un riparo dietro il quale nascondermi. Osservai Demetrio e cercai di coinvolgerlo -tu hai sempre detto che a ogni cosa vi è una ragione e che nulla avviene per caso, dico bene?-. Temevo di essere stato troppo invadente e impulsivo, ma in realtà non vi era alcuna accusa in nessuno di loro mentre mi fissavano, al contrario, tutti e tre sembravano comprendere che in quella stanza io solo ero l’unico ad avere necessità di conferme. Demetrio mi guardò e sorrise, poi riprese a mangiare -non significa che quello che io penso deva essere un dogma Tommaso- disse con calma -io non ho la chiave della verità, ho solo delle opinioni, così come può averle Vincent, o Val-.

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Mi parve quasi stesse suggerendomi di rivolgermi proprio a Val e, senza più valutare che non fosse all’altezza, ma piuttosto per cercare un alleato, fu quello che feci. -Sì Val, tu che ne pensi?- ma l’amico, con il suo fare giocoso lasciò cadere la forchetta e alzò le mani in segno di resa. -Ah no amico mio- disse -io sono un diplomatico, ho l’immunità a queste cose- si limitò a rispondere. Improvvisamente mi sentii smarrito, solo e deluso, oltre che irritato. -Allora secondo voi tutto si riduce alla casualità? Chi nasce ricco è un privilegiato e chi nasce povero è un disgraziato? La colpa è del caso?- Vincent mi guardò, non severo ma con evidente serietà -vai avanti amico mio, forse mi convinci a riprendere i voti- disse, e io non capii se la sua era ironia o indulgenza. -Ma come ragazzi- ripresi -e tutti quei bei propositi di un tempo, la nostra poesia, il nostro ricercare i segni divini nelle forme della natura, i nostri sogni…- -Non ricordo che tu avessi particolari sogni Tom- sembrò provocarmi Vincent facendomi credere che si sentisse sotto accusa. Ma la provocazione in realtà, la vedevo solo io, forse perché effettivamente, solo io la stavo praticando. Sospirai -li vivevo, e li vivevo attraverso di voi, attraverso ciò che voi riuscivate a esprimere liberamente, mentre io dovevo mantenere un certo contegno- gli rivelai allora. -Sono passati molti anni Tom- osò allora intromettersi Val, mentre Demetrio restava nel suo silenzioso ascolto -le cose cambiano e ci si rende conto che non tutto è come lo si immaginava-. -Questo cosa verrebbe dire?- stavo perdendo il controllo e temevo di far diventare la serata quasi una sorta di conferenza diplomatica di fronte alle parole di Val. -Io ho avuto occasione di assistere a molte cose, e sono stato a contatto con molti diplomatici nei miei viaggi. Mi ritengo fortunato a essere solo un traduttore e non uno di quei presuntuosi che pretendono di decidere le sorti del mondo. Come vedi la fortuna è anche questa, una questione di opinioni. Davanti all’umanità c’è sempre il profitto, a nessuno importa di ciò che si calpesta per avere un tornaconto, e anche chi ha ideali benevoli, una volta attirato nel vortice subisce l’influenza delle acque avariate e corrotte, ed è inevitabile che ogni suo ideale ne subisca la corruzione. Noi stiamo ai margini Tom, e non possiamo fare altro che stare a guardare e cercare di capire per non rischiare di bruciare nel rogo. Io non so se a tutto vi sia una ragione, ma so che comunque noi possiamo contribuire. Certo non è detto che dobbiamo salvare il mondo, non potremmo farlo, ma a volte è sufficiente un piccolo gesto…- Val sembrò chiudersi in sé stesso e probabilmente nessuno intuì di quanto il suo ruolo lo coinvolgesse emotivamente. Lui traduceva per i burocrati governativi, nei quali lui stesso riconosceva le radici di un male profondo che affliggeva il mondo. Guardai deluso tutti e tre, domandandomi dove erano finiti i ragazzi di vent’anni prima. -Se rinunciamo a quei sogni ragazzi- dissi amareggiato -dove andremo a finire?- -Perché non lo dici tu a noi- mi sollecitò Vincent -tu sei dalla parte dei privilegiati, sei nato ricco, qual è la tua opinione? Se c’è una ragione a tutto, se nulla è un caso, quale sarebbe il tuo scopo?- Lo guardai stupito e incredulo. Non era stata mia intenzione offendere nessuno ma sembravo esserci riuscito, solo che, mi rendevo conto, l’unico vero offeso ero io perché non avevo una risposta. Fu a quel punto che intervenne Demetrio -tu sei fortunato Tommaso- disse, e del suo intervento solo io sembrai stupito -hai represso la tua sensibilità nei tempi passati e ora hai l’occasione di viverla, noi invece l’abbiamo esaurita in quei tempi, e ora non ci resta che l’accettazione. È un po’ il concetto di involuzione. In un certo senso tu ora sei libero, e noi schiavi-. -Io non sono mai stato libero Mage- risposi con rammarico, e lui sorrise. -Sai Tommaso, io ci sono stato tra quelle miserie di cui si è parlato. Ho visto gli effetti di certe tragedie naturali, ho visto le conseguenze delle assurde guerre, e ho visto quei bambini morire di fame. Non è facile comprendere la ragione di tutto ciò, e tanto meno è facile dire che anche questo ha un senso. Ma più di una volta ho avuto la sensazione che quei bambini mi stessero comunicando qualcosa. Sembravano chiedere che cosa fosse la vita, perché loro non lo sapevano, e quando sorridevi solo per dare quel minimo di conforto di cui parla Val, sembravano provare sollievo e dire “vedi, tu sei fortunato, puoi capire di esserci e sapere che cosa significhi vivere”. Sembravano lanciare un messaggio, sembravano dire “la vita è un dono prezioso, non sprecare la tua occasione”. Ognuno di noi

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ha la possibilità di creare le condizioni per cui la vita abbia un senso oppure disprezzarla come fosse una maledizione, sta a noi cercare di capire e scegliere che cosa volgiamo che sia. Nessuno ti impedisce di credere che a tutto vi sia una ragione, ma la devi cercare tu, perché qualunque essa sia, è la tua ragione, e non può essere quella di nessun altro-. Una folgorazione mentale, lancinante, mi provocò un istantaneo dolore, come uno spillo che mi penetrasse nel cervello, e breve, fulmineo ma intenso ebbi la visione di un ricordo di cui non conoscevo l’origine, come se appartenesse ad uno di quei sogni in cui si sogna qualcosa di sconosciuto, comprendendo ciò che aveva voluto dire Vincent, ma come se non fosse da lui che lo avevo sentito dire. L’unico dogma possibile era il nostro, e compresi con la medesima natura anche ciò che aveva voluto dire Val, così come nello stesso modo percepii le parole di Demetrio: l’unica cosa che potevamo fare era sfruttare ciò che ci era concesso di poter fare, senza andare oltre i nostri limiti, ammettendo che l’unico mondo che potevamo cambiare, era quello che stava dentro di noi. Il dessert, servito dalla domestica, arrivò a salvare la serata. Le argomentazioni si spostarono su temi di altri svariati generi e seppure tutti in qualche modo si riferissero a esperienze di vita propria, ognuno di noi sembrò dimenticare la parentesi diplomatica. Ma un velo di malinconia e di strana complicità aleggiava nella sala, e la disinvoltura dei miei ospiti sembrava quasi finzione, come se in realtà fossero molto più consapevoli di ciò che stava per avvenire di quanto lo fossi io, anche se, tra tutti, io ero l’unico che ancora non aveva compreso che per me le cose non sarebbero più state le stesse. Quando se ne andarono provai un’intensa angoscia assalirmi, come se per una ragione assurda fossi stato in grado di prevedere il futuro e mi stessi rendendo conto che non avrei più rivisto nessuno di loro. Avevo come l’impressione che qualcosa si stesse spezzando e come un sigillo che si rompe per rivelare la lettera all’interno di una busta, ciò che provavo era la sensazione che a rompersi in quel momento fosse il sigillo del tempo, ma che cosa ci fosse scritto sulla lettera contenuta nella sua busta, non mi era concesso sapere. Tutto ciò che mi era stato concesso di prevedere in quegli ultimi minuti con loro, era che Val sarebbe partito il giorno successivo per un incarico che lo avrebbe portato in medio oriente dal quale prevedeva di tornare entro un paio di mesi, Vincent aveva intenzione di concedersi una vacanza della quale ancora non conosceva la destinazione, e Demetrio sarebbe stato ospite nel suo ultimo giorno di permanenza dei suoi fratelli che avevano accolto la sua richiesta di tornare in quel podere dove aveva la necessità di fare qualcosa all’interno del giardino. Per l’occasione questi avevano organizzato una riunione di famiglia che aveva le sembianze di una riconciliazione, giacché tra lui e i suoi fratelli da tempo vi era stata molta discordia. Ma, ciò che più mi fece provare quella sensazione di abbandono, fu l’annuncio che la Domenica, quando sarebbe partito per tornare al suo lavoro, non sarebbe stato solo. Virginia aveva accettato la sua proposta di seguirlo e sarebbe partita con lui, portando con sé Nausica. Immaginai una scena come se fossi stato al cinema nella quale mi vedevo parlare con Virginia il giorno successivo, in un assurdo tentativo di convincerla a ripensarci e sentivo le sue parole che credevo di aver già sentito in un altro tempo mentre mi diceva che voleva per lei e per Nausica una vita diversa. Nausica era una bambina con molta fantasia e immaginazione e lei era certa che Demetrio era la persona migliore per far sì che il suo mondo fatato non avesse mai fine. Voleva risparmiare alle sue favole l’agonia della morte cui le avrebbe condotte il mondo degli adulti e, come passando poi a osservare un altro film e vedendo Nausica seguire le impronte del suo nuovo padre, immaginai il suo futuro da documentarista naturalista. L’idea di correre da Virginia mi abbandonò in modo improvviso con la comprensione che non era mio diritto intromettermi nelle sue scelte, e tutto ciò che potevo fare, pensai, era solo salutarli…

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…il secondo sigillo: la ricerca Ho difficoltà a ricordare bene gli eventi dei giorni in cui la presenza di Demetrio rese quel breve periodo molto, ma molto intenso. L’emozione di sapere che l’avrei rivisto era stata così forte che la notte precedente al suo arrivo, con tormentati sogni che mi avevano poi accompagnato per tutta la settimana in cui era rimasto, fu per me quasi straziante. Ma non più di quanto lo era stata la notte prima della sua partenza. La sensazione che questo fosse il definitivo addio mi lasciava uno sgomento interiore che non potevo ancora comprendere, così come ancora non potevo capire in che modo la nostra amicizia nell’età infantile e adolescenziale mi avrebbe portato in un futuro che ancora non era giunto, a capire ben più di quanto una persona qualunque avrebbe potuto apprendere in una sola vita. Di quella notte tormentata posso dire che l’emozione mi provocò un sonno agitato quasi al limite della tortura, e quando mi svegliai la mattina ero tutto indolenzito, con spasimi che mi contraevano lo stomaco e brividi che mi facevano tremare per il freddo. Avevo fatto un altro strano sogno, forse il peggiore di tutti, nel quale mi riconoscevo nelle vesti di un'altra persona che in conclusione si rivelava solo essere un’illusione, e seppure potessi intuire che il sonno era stato frammentario e insufficiente, il sogno, o meglio, ciò che ricordavo del sogno, mi sembrava essere durato gironi, per non esagerare dicendo anni. In molti frammenti ricordavo di aver sognato quell’età infantile in cui Demetrio mi rivelava i suoi segreti e i suoi tormenti. Ricordavo poi di aver sognato la sua partenza dopo la delusione che aveva subito a causa di Virginia e il pensiero, che forse non era un sogno, che il suo ritorno fosse ancora legato ad un desiderio di volerla rivedere. Ma ciò che ricordavo più nitidamente di quel sogno, era un’oscura caverna nella quale credevo che secoli prima si fossero celebrati dei rituali, forse di natura iniziatica, dove avevo osservato una coppia di amanti come oggetto del rituale. Solo che invece che celebrare la loro unione, in quella caverna illuminata da fiaccole e piena di persone che indossavano tuniche, ciò che si celebrava era la loro separazione, suggellata da un patto di sangue in cui il compagno incatenato ad una rupe veniva flagellato niente meno che dalla compagna stessa per poi essere lasciato cadere in una voragine dove temevo che al suo interno si celasse una bestia che lo avrebbe divorato. Qualcuno, o qualcosa mi suggeriva che ciò che stavo vedendo era la concretizzazione di un vincolo chiamato simbolo perché ciò che veniva spezzato sarebbe stato un giorno riunito e alla mia domanda che non ricordavo di aver posto, relativa al perché mai tale simbolo avesse dovuto essere spezzato, la risposta che il suggeritore mi aveva dato era: necessità. Di quale necessità si fosse trattato, ancora oggi mi è oscura la ragione, so solo che il sogno mi mostrò molte altre cose. La vecchia collina che ormai non esisteva più, quel ponte che non avevo mai avuto il coraggio di attraversare, la perdita di ogni cosa simbolicamente manifestata nella riduzione di quel paese in cui abitavo e che io stesso avevo contribuito a far rivivere, in un paese fantasma, e infine il ritorno in quella grotta dove avevo incontrato un demone. Le ultime immagini di quel sogno mi fecero intravedere una corda che si spezzava e una donna che precipitava in un baratro, facendomi pensare che la seconda parte del simbolo aveva iniziato il suo viaggio alla ricerca della controparte a cui ricongiungersi. Poi una scena che sembrava uscire dalla fantasia e prodursi in una delle tante realtà di ogni giorno, dove due ragazzi, probabilmente amanti, litigavano per una qualche ragione che osai interpretare nel desiderio della ragazza, giovane e bella, di iscriversi ad un’università che l’avrebbe condotta lontana e il ragazzo, giovane e ricco, opporsi a tale decisione. Non saprò mai come si sarebbe conclusa la lite perché i sogni, ovvero i ricordi dei sogni tradiscono, ma so per certo che le ultime parole pronunciate dalla ragazza che non conoscevo e che non sapevo che cosa ci facesse nel mio sogno, erano state che la loro storia era finita… Poi ricordo un incrocio di strade sterrate, e la sagoma di una persona, un uomo anziano che stava in attesa, e colui che stava attendendo, temevo, ero io… Mentre mi preparavo per andare alla stazione a salutare lui e Virginia, nella cui vicenda io avevo avuto un ruolo importante ma troppo complesso per essere descritto in questi brevi ricordi, ripensai ai momenti della settimana appena trascorsa con lui.

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“È un peccato che la collina non esista più…” mi aveva detto quando eravamo giunti nei pressi del luogo che aveva dato l’avvio alla nostra consolidata amicizia. Ero stato io a farla bonificare, e su quel tratto di terra dove avevo vissuto i momenti più intensi che riuscissi a ricordare, avevo fatto costruire un parco per le famiglie per evitare che Casterba rischiasse di diventare un paese fantasma a causa della crisi economica che faceva allontanare i giovani verso le città alla ricerca di lavori sicuri. Così avevo ceduto una porzione di terra per lo sviluppo di una zona industriale che permettesse l’insediamento di fabbriche, avevo insistito perché le scuole non chiudessero, anche se malgrado il mio potere nel consiglio comunale, avevo soltanto ottenuto che nel piccolo paese restasse attivo solo l’asilo. Ma i giovani avevano voluto dar fiducia a quel paese e molti erano rimasti. “…Ma penso che ogni cosa a questo mondo sia passeggera. Tutto si crea per una ragione e poi, concluso il suo ruolo, tutto torna da dove è arrivato” aveva detto, ma io credevo che il suo riferimento non fosse proprio alla collina. Erano ricordi recenti, eppure mi sembravano già vecchi, addirittura antichi, ma probabilmente aveva ragione ancora lui quando mi diceva che il tempo non ha valore dove non esiste il tempo, e il passato ormai esisteva in quella dimensione di non tempo per cui anche un minuto precedente ormai poteva essere considerato infinitamente antico. Trovai lui e Virginia vicino ai binari, ma lui stava con un’altra giovane ragazza e Virginia attendeva da sola con la figlia Nausica per mano. Mi avvicinai a lei mentre lo osservavo parlare alla persona che probabilmente sarebbe rimasta più influenzata da lui di qualunque altra nel suo futuro. La ragazza con cui stava parlando, infatti, si chiamava Vanessa, sua nipote. La sera prima, ricordai, aveva cenato con i suoi fratelli, incontrando tutti quei nipoti che non aveva mai avuto occasione di conoscere. Come la sera prima, ebbi la sensazione di assistere alla visione di un film nel quale lo sentivo discutere dei suoi viaggi e delle sue avventure, ed ebbi la chiara sensazione di sentirlo raccontare una strana vicenda che riguardava qualcosa per cui i suoi fratelli lo avevano a lungo rimproverato. Il racconto che riferiva loro, riguardava un sogno, in cui rivelava di aver incontrato suo padre proprio il giorno in cui era morto. Morto fisicamente aveva specificato. La circostanza che i suoi fratelli gli avevano sempre rimproverato, infatti, era quella di non essere tornato per il funerale. Guardavo la scena del film immaginario e, invece che ironia sui volti dei fratelli vedevo comprensione e commozione, come se fossero convinti, o magari volessero solo convincersi per una sorta di conforto personale, della realtà del suo racconto. Il film non mi permise di vedere che cosa aveva fatto nel giardino della villa ma avevo l’impressione che Vanessa invece fosse stata privilegiata dell’onore di potervi assistere. Non saprò mai che cosa le disse o mostrasse, ma so che Demetrio manteneva ancora quella sua condizione di sognatore pieno di segreti e misteri che sapevano affascinare e sedurre. Deduco fu in seguito a quell’incontro che Vanessa decise di dedicarsi al mondo artistico piuttosto che a quello finanziario come era previsto nei progetti familiari. Quel momento però, mi sembrava ora concesso da un destino che forse voleva darmi un’opportunità, sebbene non potessi sapere quale fosse, e mi sembrava di dover scegliere adesso tra un’approvazione e un rimprovero. Tutto ciò che potevo dedurre al momento era legato a ciò che conoscevo, e ciò che conoscevo era che vent’anni prima, dopo la sua prima partenza, Virginia si era sposata, aveva avuto una figlia e poi si era separata e adesso, si apprestava ad avviarsi verso un futuro incerto, coinvolgendo la bambina senza sapere che cosa l’attendeva. Forse il destino stava cercando di darmi l’opportunità di farla ragionare sulla sua scelta, ma quando le fui accanto l’unica cosa che le dissi fu -sei sicura della scelta fatta?-. Lei aveva semplicemente annuito rivolgendo lo sguardo verso Nausica tornando poi a rivolgerlo a me con un’aria che sembrava celare un misterioso segreto che, avevo l’impressione, doveva coinvolgermi. -Le regalerò una vita in cui le favole non soccombono- disse, e io rividi quell’istantanea del futuro in cui Nausica era alle prese con la natura nella veste di documentarista. Prima che il tempo dei rimproveri o delle approvazioni terminasse, ebbi l’opportunità di vedere che Demetrio consegnava a Vanessa qualcosa, una sorta di regalo, dedussi, simile a quello che aveva fatto a Vincent. Da quella distanza, non eccessiva a dire il vero, mi sembrò che si trattasse di una lettera che a giudicare dalle condizioni in cui era, doveva avere parecchi anni. Non osai cercare di capire l’origine di quel dono, non cercai di capire se era qualcosa che lui aveva ricevuto da qualcun altro con l’istruzione

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di cederlo poi a sua volta a qualcun altro che lei avrebbe saputo intuire chi fosse, o se la lettera era stata scritta da lui stesso e quella fosse l’unica occasione che aveva per consegnarla. Pensai solo che era inutile cercare di capire perché ogni cosa che avveniva, temevo, non era casuale e, come si era discusso due sere prima, aveva una sua logica e una sua ragione. Così, quando infine si avvicinò a me, non so quale forza mi impedì di abbracciarlo, sebbene ancora oggi la percepisca come una sorta di timidezza che mi metteva in imbarazzo, ma so per certo che lui dovette percepirla come una sorta di ostilità contro la quale io ancora dovevo combattere e, allo stesso modo in cui aveva fatto con Vanessa, regalò qualcosa anche a me. Niente di speciale, una busta chiusa cui poneva l'unica condizione di aprirla solo quando lo avessi ritenuto necessario. Vanessa era andata via prima che il treno partisse e quando questo avvenne io ero il solo rimasto ad osservarli allontanarsi, fatta eccezione per la compagnia di una sorta di smarrimento e le immagini di sogni nella memoria che mi sembravano troppo lontani nel tempo, seppure li avessi fatti solo nei giorni precedenti e successivi al suo arrivo e partenza. Tutto ciò che mi rimase di quel giorno fu proprio lo svanire dei ricordi, con una sensazione simile a due sere prima in cui percepivo il crepitio di sigilli spezzati, come appartenessero ad una realtà, o a un tempo che non era mio. Aprii la busta quando il treno fu oltre il mio orizzonte visivo. Io, pensavo, non avevo la capacità di intuire quali fossero i momenti giusti. Conteneva una semplice carta da gioco. Una carta strana, nulla che avesse a che fare con le consuete carte da gioco che ero abituato ad usare. Era contraddistinta da un numero, il sei, e da un titolo: “Gli amanti”. Non capii quale fosse il suo senso e distrattamente la infilai nelle mie tasche.

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…il terzo sigillo: la vocazione Nei giorni successivi mi sentii preda di un grande vuoto interiore, quasi fossi stato defraudato di qualcosa che volevo giustificare nell’aver perso definitivamente un amico che con sé aveva portato via anche quell’ultimo legame che mi collegava ad un passato che somigliava sempre più a un sogno. Che fossi stato innamorato segretamente di Virginia non potevo nascondermelo, seppure fosse avvenuto in quel periodo in cui io stesso avevo cercato di far di loro una coppia di amanti, ma la verità che non volevo ammettere era che quel vuoto non poteva essere giustificato dalla loro assenza, ma piuttosto dall’assurdo presentimento che ciò di cui ero stato defraudato, fosse niente meno che la mia anima. Non avevo mai voluto ammettere, o meglio, avevo rinunciato in un tempo lontano al credere ai concetti di anima, spirito o altre astrazioni, eppure, la sensazione che avevo era proprio quella, e sentivo l’esigenza di parlarne con qualcuno che, seppure cresciuto con un’educazione cattolica e fossi tutt’ora praticante, non poteva essere un prete. Non mi ero mai fidato dei preti, e il mio essere osservante e praticante del culto cattolico era effetto solo di un insegnamento condizionato ricevuto negli anni formativi del mio stato sociale e proseguiva ora più per assecondare Anna, che invece osservava per vocazione, e desiderava che nostro figlio, Dennis, crescesse con gli stessi valori e principi. Fu così che dopo qualche tempo cominciai a rivolgermi alla psicologia, sottoponendomi ad una terapia. Mi ero rivolto ad una specie di studio in cui praticavano più soci che si trovava in un paese sulle rive del Mincio. Non volevo rendere nota la mia terapia, per questo avevo optato per un luogo piuttosto lontano da Casterba, e fui felicemente sorpreso di trovarmi a dover condividere le mie angosce con una psicologa, giovane e carina. Forse la mia vita era stata tutta una farsa e non mi sembrò poi strano iniziare a provare per quella psicologa dal nome strano, una sorta di attrazione che andava oltre la fisicità, e forse mi accorsi troppo tardi che quella nuova condizione, che potevo forse considerare con un po’ più di coraggio, emozione, stava per sgretolare tutto l’illusorio mio mondo. Si chiamava Felona, e sarebbe stato un nome strano per chiunque non avesse vissuto a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, o non avesse conosciuto quell’album delle Orme in cui si narrava la vicenda di due pianeti, uno oscuro e l’altro luminoso. Sarebbe stato anche un ottimo appiglio per un approccio con diverse affinità dalla terapia, discutere sull’origine di quel nome insolito, ma poiché io ero il paziente, le domande non spettavano a me. Fu a lei che raccontai le vicende della mia vita, dall’infanzia, a cominciare da quel ricordo più lontano che per molti anni mi aveva fatto ponderare sulla possibilità di essere morto e di vivere una realtà alternativa, alle avventure sulla collina in cui avevo vinto la paura della Marantega, alle discussioni con Demetrio e al suo credere negli spiriti della natura, alla percezione di un battito notturno che mi dava la sensazione di un cuore lontano, all’incapacità di attraversare quel ponte fino al suo abbattimento e in fine, al racconto dei miei sogni, in cui guerrieri antichi si alternavano a persone contemporanee che sembravano fondersi in un vortice di mescolanza dei tempi, presenti, passati e futuri, fino al sogno della grotta. Ci vollero parecchie sedute prima che lei passasse da una comunicazione del tutto professionale, nella quale io parlavo e lei suggeriva poche ipotesi, ad una più intima e costruttiva, nella quale io non avevo saputo distinguere che per lei si trattava ancora di una conversazione professionale e da cui avrebbe avuto origine quel mio sentimento che forse da troppo tempo, da dopo Virginia per essere più preciso, avevo sepolto nel mio profondo, ma tutto finì quando giungemmo a parlare della luce e dell’ombra, o del bene e del male. Era come se in qualche modo io avessi necessità di avere una risposta che non potevo pensare di trovare in me stesso, così come era successo durante la cena con Demetrio e gli altri. Quando ci eravamo inoltrati in quella discussione, nella quale io persi di vista la cognizione che mi trovavo sotto terapia, la sensazione che ebbi fu quella di entrare all’interno di un labirinto. “Forse lei non si rende conto che tutta la sua vita è stata uno scontro” aveva detto la psicologa quando avevo ammesso di avere la sensazione di aver sempre combattuto contro un drago, ossia contro un avversario irreale che, se avessi saputo ragionare come uno psicologo, o come Demetrio, avrei potuto concretizzare nella forma di un conflitto interiore. Forse Demetrio lo avrebbe descritto in modo diverso, forse lui avrebbe parlato di conflitto tra corpo e spirito, o tra materiale e immateriale,

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diversamente da come invece lo descriveva la psicologa per la quale il conflitto era un contrasto tra ciò che io desideravo essere e ciò che invece ero costretto a essere. “Non credo di essere qualcosa di diverso da ciò che dovrei essere”. Non avevo obiettato nel senso che avrei dovuto fare se mi fossi sentito offeso da quella diagnosi. “Proprio perché il suo condizionamento è così forte da essere convinto lei stesso di dover essere così. Da ciò che racconta tuttavia emerge chiaramente come abbia soppresso ogni sua vocazione. Il suo parlare di draghi e sensazioni legate ad un mondo alternativo rivela una decisa creatività che tuttavia non ha sviluppato. Ciò è avvenuto perché lei ha preferito soddisfare le aspettative altrui invece che le sue”. Avevo ammesso più spesso a me stesso che molte volte avevo posto davanti alle mie esigenze quelle degli altri, ma ero convinto che questa condizione non fosse negativa, anzi, l’avevo ritenuta nobile. “Non vedo in che modo questo potrebbe recarmi danno, l’altruismo dovrebbe essere considerato un pregio, o almeno così mi è stato insegnato…” nell’istante stesso in cui avevo fatto quell’affermazione, cominciavo a capire che rispondevo da solo ai miei tormenti e non avrei nemmeno avuto la necessità di sentire la psicologa dirmi che ciò che avevo detto confermava le sue deduzioni. “Lei dice che così gli è stato insegnato, e la conseguenza è che le sue azioni sono guidate da una concezione non sua. L’altruismo è senza dubbio un pregio, una qualità e una virtù, ma quando tali caratteristiche cominciano a sembrare imposte piuttosto che spontanee, ecco che appare il conflitto, così lei si domanda quanto corrette e attendibili siano le sue azioni e percepisce un contrasto tra ciò che le appartiene e ciò che invece le manca, così da origine al lato oscuro…” “L’ombra?” avevo precisato io con una domanda, e la psicologa aveva annuito. “E cosa dovrei fare allora?” “Io non posso darle una risposta a questa domanda. Posso solo dirle che se non comincia a liberarsi di certi concetti e pregiudizi tutto il controllo che ha avuto fino ad ora potrebbe farsi molto complesso. Spesso le scelte da fare sono difficili, ma le domande che si dovrebbe porre sono alternativamente semplici. Che cosa vuole veramente lei dalla sua vita e da se stesso?” La riflessione successiva mi aveva condotto a soluzioni drammatiche che non ero certo di poter considerare. Quel giorno avevo lasciato lo studio particolarmente turbato e la notte, come ormai avveniva sempre più spesso, fu tormentata dai sogni. Nei giorni seguenti avevo concluso che io avevo rinunciato a vivere. Per una ragione che non volevo attribuire ad un destino sul quale Demetrio mi avrebbe sicuramente fatto riflettere, mi era stato concesso di conoscere la donna che avrei voluto sposare, ma che per un gesto di lealtà non avevo assecondato. In questa rivelazione la psicologa avrebbe potuto indicarmi una paura inconscia, forse dell’amore il quale poteva condurre anche alla rinuncia di tutto ciò che si possedeva. Se io avessi sposato Virginia e poi avessi compreso che la sua vita accanto a me era deprimente e noiosa, essendo stato il mio un amore puro, avrei rischiato di perdere tutto ciò che avevo in questo mondo per renderla felice, così avevo trovato una giustificazione per allontanarmi da lei, seguendo quell’istinto in cui davanti al mio volere vi erano sempre le aspettative di altre figure. Sempre attraverso quelle ragioni che non volevo attribuire al destino, fin da bambino mi era stata svelata la mia vera natura, legata alla comprensione dei misteri del mondo, ma che per timore del giudizio esteriore avevo rinnegato, giustificandola con la responsabilità che avevo nei riguardi della mia famiglia e di tutti coloro che dipendevano dalla mia capacità di gestire un’azienda che offriva lavoro a molti dipendenti e alla fine, tutto ciò che potevo dedurre era che se mi fossi lasciato coinvolgere da queste sensazioni, le soluzioni avrebbero potuto essere drastiche. Se dovevo ammettere a me stesso la verità, avrei dovuto riconoscere che non amavo Anna, che non mi importava nulla della mia azienda e che tutto ciò che avevo fatto lo avevo fatto solo per un orgoglio che nemmeno mi apparteneva. In definitiva, avrei dovuto rinunciare a tutto, e non credevo che fosse questo che la psicologa voleva che facessi, tuttavia, quando glielo avevo domandato, la sua risposta mi aveva sconcertato. “Lei ha posto una domanda a cui io, le ripeto, non posso dare risposte. Io posso solo dirle ciò che potrebbe avvenire. Chi si nasconde dietro illusioni spesso finisce per divenire lui stesso un’illusione. Per questo lei si domanda sovente se è reale o se è lo spirito di un morto che non ha compreso di

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essere morto. Ma ci sono tanti modi di essere morti, uno di questi è quello di non vivere per ciò che siamo e accettare ciò che si vuole che siamo. Io posso solo consigliarle di rivedere le sue azioni”. “Lei cosa farebbe al posto mio?” le domandai, e forse in quella domanda si rivelò più che in ogni altra l’attrazione che cominciavo a provare per la giovane psicologa. Cosa di cui lei, credo, si fosse accorta da molto tempo ormai. “Io ho sconfitto da tempo la mia ombra” mi aveva risposto, e in quel momento percepii qualcosa che non riguardava più la pura professionalità, e intuii che nelle sue parole vi era una sorta di rivelazione. Stava a me ora accettare se assecondare il destino o cercare di raggirarlo di nuovo. Il silenzio era la cosa migliore, mi dissi, per restare nell’oblio che non mi avrebbe spinto a nessuna reazione. Ma ero rimasto inerme per tutta la vita e forse questa era l’ultima occasione per mutare qualcosa in me, anche se non potevo sapere quale ne sarebbe stato il prezzo, e sfidando l’istinto, avevo osato approfondire “e come ci è riuscita?” “Comprendendola e accettandola. Il lato oscuro è una forza che noi ignoriamo e cerchiamo di combattere perché lo riteniamo negativo, in realtà è proprio la comprensione di ciò che è negativo a farci comprendere che cosa sia favorevole per condurci alla conoscenza di noi stessi”. Solo pochi gironi prima un’affermazione del genere mi avrebbe lasciato indifferente e magari ne avrei riso, ma in quel momento mi parve la cosa più saggia che avevo sentito in tutta la mia vita, ma forse era solo perché era la prima volta che la consideravo. In quel momento fui certo che Felona, la psicologa, poteva essere colei che avrebbe sostituito Virginia, ma il mio azzardo fu troppo impulsivo. “Accetterebbe un invito a cena?” le avevo chiesto, comprendendo solo in quel momento quanto sarebbe stato difficile per me combattere contro quell’ego interiore ormai troppo padrone della mia mente, che sentendosi minacciato combatteva spietatamente per non lasciarsi sopprimere. La psicologa mi fissò, poi diede il suo esito definitivo “credo che la terapia sia finita”. Quando uscii per l’ultima volta dal suo studio, provai di nuovo quella sensazione di rottura, come se il tempo stesso si stesse spezzando e io mi trovassi a camminare come un funambulo su una sottile corda sospesa tra un passato e un futuro senza presente.

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…Il quarto sigillo: la solitudine Ero rimasto solo. Ed era successo tutto nella maniera più imprevista e inaspettata. Mi ero innamorato della psicologa, ma tra me e lei vi erano quindici anni di differenza e nessun legame oltre quello professionale, al quale, con la mia seppure occultata dichiarazione, avevo posto fine. Tuttavia, che le cose non avvengono per un caso fortuito cominciava a divenire per me una convinzione grazie alla settimana trascorsa con Demetrio, nella quale avevo riscoperto il legame con il mio vecchio io interiore, ed ora, anche quell’episodio diveniva per me degno di considerazione e di valutazione. Quelle settimane di terapia, oltre ad aver lasciato uscire emozioni represse, così come Pandora scoperchiando il vaso aveva lasciato liberi tutti i vizi del mondo, mi avevano condotto ad una presa di coscienza e nel riscoprire il sentimento dell’amore, ad accettare che un legame forzato non poteva condurre altro che ad un inevitabile epilogo nel quale ogni costruzione, fisica, morale o affettiva, si sarebbe sgretolata. Felona probabilmente mi ricordava troppo Virginia, e per questo avevo finito per innamorarmene, e questo evento altro non significava che io dovevo ammettere a me stesso che la donna che sempre avevo desiderato era Virginia, così come quella che desideravo adesso era Felona. Troppe cose mi avevano impedito di accogliere quella verità, prima tra tutte le lealtà verso l’amico Demetrio, successivamente i timori che in un coinvolgimento troppo affettivo avrei rischiato di perderla anche come amica e infine, ma forse tra tutti il meno sottovalutabile, quella necessità di un’immagine da difendere nell’integrità morale che il suo cambiamento mi aveva condotto a credere, attraverso ciò che gli altri avrebbero visto in lei, che non fosse la ragazza giusta per me e per ciò che la società si aspettava da uno come me. In pratica mi ero comportato con lei come con Demetrio e avevo lasciato che il giudizio esteriore condizionasse le mie scelte. Adesso però, per una ragione che mi era ignota e che mi faceva sentire come se fossi stato liberato da un’ombra che offuscava la mia mente e la mia visione, sapevo cosa fare e avevo il coraggio di farlo. Virginia era partita con Demetrio era vero, ma Demetrio aveva comunicato che sarebbe tornato l’inverno successivo per completare il suo servizio fotografico includendo scatti dei medesimi posti già immortalati nell’aspetto suggestivo in cui la stagione fredda li avrebbe trasformati per evidenziare come le diverse prospettive potevano mutare la stessa visione. Quello in cui aveva invitato Virginia, potevo presumere, era quindi solo un viaggio quasi a livello di vacanza e quando sarebbe tornata, io sarei stato lì ad accoglierla. Era successo così. La primavera, quando Demetrio era tornato, se ne era andata portandosi via Demetrio stesso, Virginia, Val che in medio oriente aveva finito per stabilircisi e Vincent che dalla sua vacanza in Francia dove aveva affermato sarebbe andato a ricercare le sue origini, non era più tornato. Poi era giunta l’estate trascorsa a psicanalizzarmi giungendo a scoprire, tramite la figura di cui mi ero innamorato che se per l’appunto potevo ancora innamorarmi, significava che innamorato non lo ero mai stato. Quindi era giunto l’autunno nel quale io avevo finalmente consolidato il mio coraggio e la mia sentenza di voler finalmente dominare il mio destino. Fin dalla primavera Anna si era accorta che qualcosa in me era cambiato, e quando le parlai rivelandole le mie sensazioni con la conseguente confessione che non l’amavo più, lei non si sorprese più di tanto. Giungemmo in fretta ad un accordo per lo scioglimento del matrimonio. Lei aveva un buon lavoro e non voleva niente da me, ma Dennis non doveva essere privato di ciò che gli spettava, il che era anche nelle mie intenzioni. Forse avrei dovuto riflettere un po’ sulla questione eredità in cui la pretesa di Anna fu che Dennis restasse l’unico beneficiario di ciò che avrei dovuto lasciargli in eredità, ma sempre per una sensazione le cui origini mi erano ignote, ero abbastanza certo che non avrei avuto altri figli e che a Nausica, che sarebbe divenuta mia figlia adottiva se le cose fossero andate come speravo, avrei comunque potuto garantire un buon futuro… Quando infine giunse l’inverno, quelle sensazioni che mi avevano fatto presumere che non avrei avuto altri figli mi si rivelarono nel modo però più inatteso. Demetrio non era tornato, e con lui nemmeno Virginia. Ero stato tradito.

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Inizialmente fu la disperazione a cogliermi ma poi, quando cominciai a fare delle ricerche mi resi conto che l’unica cosa che potevo accettare era la rassegnazione. Io avevo aggirato troppe volte il destino che pure troppe volte aveva cercato di indicarmi la via da seguire. Alla fine ero stato io stesso il masso che aveva rotto gli argini del fiume, e quando le falle cominciano a farsi troppo grandi diviene sempre più complicato e difficile arginarle. Attraverso conoscenze e amici con contatti nel mondo editoriale riuscii a contattare la redazione del National Geographic e a chiedere informazioni su quando sarebbe uscito l’articolo sulle valli italiane, ma la risposta che ricevetti era una di quelle da congelatori. Il progetto non era mai stato approvato sebbene proposto e quell’articolo non sarebbe mai uscito, poi, alla successiva domanda se sapevano dove si trovasse Demetrio Dilago il gelo che mi travolse fu quello antartico. Demetrio Dilago aveva collaborato con il National Geographic, ma era un fotografo autonomo che non aveva un ruolo nella redazione. Erano diversi anni, avevo appreso, che il fotografo italiano non aveva avuto occasione di collaborare con loro e che per la mancanza di suoi contatti, nemmeno potevano darmi informazioni sul come rintracciarlo, in pratica, per quanto ne sapevano, Demetrio poteva anche essere morto. Quella definizione, “morto”, mi riportò alle mie congetture sull’esistenza alternativa e per qualche tempo desiderai che fosse così. Improvvisamente mi ero ritrovato completamente solo. Avevo perso tutti gli amici, giacché quelli relativi alla sfera professionale non erano proprio amici. Avevo perso la famiglia, avevo perso l’unica donna che avessi veramente amato mentre quella che amavo adesso non potevo averla. La solitudine che avevo cercato di evitare per tutta la vita, iniziando proprio con l’allontanare da me l’amico più nobile, si abbatté su di me come la colata piroclastica che aveva devastato il monte Sant’Elena in Canada e a quel punto la morte mi sembrava l’alternativa migliore. Ero pronto a sentire quel rumore di strappo che mi faceva pensare alla rottura di un sigillo, attraverso il quale avrei potuto verificare la mia inconscia morte e poter riposare finalmente in pace, ma quando quello strappo avvenne, il sigillo che si ruppe non mi condusse al meritato riposo, ma in un luogo che non credevo esistesse e che quasi avevo dimenticato…

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…Il quinto sigillo: la rivelazione …avvenne il giorno stesso in cui desiderai comprendere la mia morte, sebbene nell’incapacità ormai di distinguere tra realtà e irrealtà, morte o vita, sogno o veglia, non fossi nemmeno in grado di capire se era giorno o notte perché, nonostante il sole illuminasse il giorno, mi trovavo in un luogo che non conoscevo e nel quale non sapevo come vi ero giunto. Camminavo su una strada di campagna, di una campagna deserta circondata da campi incolti, dove tutto ciò che era visibile era terra arrida bruciata dal calore, ciottoli di pietre sparsi, rocce lontane, una strada su cui passeggiavo che sembrava un semplice sentiero segnato chi vi aveva camminato, con la polvere alzata dal modesto vento caldo che soffiava, e l’orizzonte che si perdeva nell’infinito irraggiungibile che si allontanava ad ogni paso compiuto. Era un paesaggio surreale nel quale mi era impossibile riconoscere la realtà e che quindi mi lasciava alle sole due alternative possibili: quella della morte, o del sogno. In entrambi i casi, pensai, non potevo oppormi e quindi tanto valeva assecondare l’illusione che mai forse avrei potuto comprendere. Fu in quel momento, quando mi rassegnai all’accettazione, che vidi l’ombra in lontananza stagliarsi contro l’orizzonte infinito. Dapprima si manifestò come un miraggio che fluttua senza una precisa definizione e che ci si aspetta di vedere svanire da un istante all’altro, poi si concretizzò nella sagoma oscurata dalla luce contro la quale si stagliava, quindi divenne sempre più limpida finché non compresi che l’ombra era ferma e non si allontanava con l’orizzonte. Mi stava aspettando e io ormai non esitavo più. Quando la raggiunsi sorrisi. Si trovava nel punto in cui un sentiero trasversale si congiungeva a quello che stavo percorrendo formando un crocicchio, e per un momento pensai a molte di quelle leggende, tipo quella di Robert Johnson, in cui all’intersezione di un crocicchio come quello, si poteva incontrare qualcuno. Qualcuno di oscuro, con cui stipulare un patto, la cui origine stessa era oscura. -Ciao Grabian- lo salutai. Indossava un vestito estivo chiaro che sotto la polvere che lo aveva colorato di uno strano color giallo ocra, forse doveva essere bianco. In testa aveva un cappello a tesa larga che lo riparava dal sole, dello stesso colore del vestito, che come il vestito, non distinguevo se colorato della polvere. Sorrise a sua volta e attese. -Ti offendi se ti chiamo Grabian?- domandai allora, consentendomi una certa spavalderia come se fossi consapevole che ormai non poteva più farmi nulla. -Non mi sono offeso quando mi hai chiamato Lucifero, perché dovrei farlo adesso?- rispose con un sorriso che non riconoscevo se ironico o sincero. -Che ci fai qui?- domandai dopo aver colto la sottile lungimiranza di chi poteva permettersi la calma ottenuta dalla consapevolezza di essere al di sopra di ogni evento. -Attendo- rispose tranquillamente. -Che cosa?- insistei io percependo che in lui non vi era ormai nessuna ragione di nascondermi le risposte che cercavo. Si girò e osservò verso l’orizzonte. Una nuvola di polvere si stava alzando muovendosi verso di noi. -Quello- indicò, e sorrise, ma questa volta con ironico divertimento, come se ciò che si stava avvicinando fosse stato per lui stesso imprevisto. Guardai la nuvola di polvere, e dopo un po’ mi accorsi che era l’effetto prodotto dai pneumatici di un autobus di antica fattura. Piccolo e malconcio come se viaggiasse ininterrottamente da anni. Guardai Grabian, o chiunque fosse -è il mezzo che mi condurrà all’inferno?- gli dissi, ma senza aggressività. -Sarebbe molto originale- rispose lui senza realmente rispondere. -In che senso?- mi incuriosii. Lui mi guardò con un’espressione sorpresa, che non potevo dire se fosse finta o sincera. -Nel senso che da uno come te ci si aspetterebbe una barca manovrata da un timoniere scheletrico su un fiume sotterraneo dalle acque nere e melmose, per quel genere di viaggio- disse. -Sono dunque tanto prevedibile?- -No- sorrise di nuovo lui -è che sarebbe molto più suggestivo per il tuo romanzo- disse, e io provai un brivido che non credevo potessero provare i morti. Ricordavo qualcosa a riguardo di uno scritto, o di un romanzo come lo definiva quell’essere, ma non ricordavo di aver mai osato scrivere niente che non fosse un documento commerciale o fiscale…

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Ma quel brivido, lo percepivo, non era un semplice timore provato per qualcosa che si intuiva ma non si comprendeva, era più simile al brivido che si prova quando si apre una porta e ci si affaccia su un esterno freddo, e con quella che era una sensazione che ormai provavo spesso in questi ultimi tempo, ebbi come la sensazione che qualcosa si stesse rompendo. L’autobus intanto giunse fino a noi, e come se quella fosse una fermata, sebbene priva di insegne, si arrestò con un cigolio metallico di freni usurati, ammortizzatori scarichi e altre parti meccaniche logorate. La polvere ci avvolse, in parte depositandosi lenta al suolo in parte sollevandosi più leggera verso l’alto. Poi le porte, precedute da un suono di pistoni ad aria si aprirono con un movimento a scatti, nel quale io percepii come un rumore di carta strappata, ed improvvisamente riprovai quella sensazione di freddo. Quando si spalancarono un vento gelido mi avvolse, intenso ma breve, e il brivido provato mi diede la sensazione di affacciarmi su un altro mondo, come se il salire su quel mezzo avesse significato spostarmi in una diversa dimensione mentre l’effetto di carta strappata diveniva uno di quei sigilli che già in altre occasioni avevo sentito rompersi. Guardai Grabian -sono morto?- gli domandai. Lui mi fissò con decisa sorpresa questa volta -se così è- disse -il mezzo che hai scelto per il tuo trapasso è veramente singolare- ironizzò nuovamente senza rispondere alla mia domanda. Lo avrebbe fatto invece alla successiva -dove ci condurrà questo rottame?- gli chiesi mentre mi invitava con un cenno a salire. Gli vidi scuotere il capo come a dire che non la sapeva -il sogno è tuo- disse, e in quel momento ebbi la conferma, con una certa delusione, che il mio desiderio di essere morto non si era avverato. Salii sul bus con una certa delusione e osservai il conducente che sembrava il timoniere descritto da Grabian, quello che sarebbe stato giusto per il mio romanzo, e nel suo ignorarmi ebbi l’intuizione che non avevo colto nel brivido precedente. Quando mi girai verso Grabian con l’aria stravolta, percepii nel suo sorriso che già aveva capito quale fosse la mia intuizione, così come io percepii che non era necessario avere fretta per confidargliela. Così cercai un posto dove sedermi. Non che fosse difficile giacché il bus era vuoto, oltre al conducente, io e Grabian eravamo gli unici passeggeri. Ciò che cercavo era piuttosto un posto che non sembrasse troppo mal ridotto. Lo trovai al centro del mezzo e mi sedetti. Grabian sedette acanto a me. Dai finestrini senza vetri entrava vento caldo e polvere. -Sono qui come Tommaso D’amanti o come Donato Mastammi?- gli domandai, e nella veste del secondo potei ricondurre il riferimento al romanzo citato da Grabian. -Il sogno è tuo- ripeté l’altro -secondo te chi è che sta sognando?- -Donato Mastammi non esiste vero?- ammisi allora. -Abbastanza ovvio- rispose colui che ancora non sapevo se definire demone, angelo o illusione. -E come potrebbe essere ovvio se tutto è stato così reale?- -Solo nell’apparenza. Donato Mastammi non ha ricordi, e soprattutto non sogna, rammenti?- -Diceva di non sognare, ma in quanto ai ricordi…- -Un investigatore il cui passato era legato ad un romanzo. Ma rifletti bene. I suoi ricordi si fermano a ciò che trova scritto in quel romanzo. Lui ricorda le vicende dell’infanzia, ricorda perfino le lezioni di storia alle scuole elementari. Ricorda le guerre dei suoi tempi, le dittature in Haiti, la guerra del golfo, l’attacco alle torri gemelle. Ricorda le catastrofi ambientali, il terremoto di Sumatra e quello del Giappone. Ma tutto si conclude nel tempo in cui vive Tommaso D’amanti. Da lì in poi, Donato Mastammi fa un salto temporale, si proietta nel futuro, ma tutto ciò che può prevedere, è il presente che vive in quel futuro. Una proiezione di te stesso senza ricordi, una visione di ciò che accadrà secondo determinate circostanze-. -Ma come è possibile?- -Ricordi quando da bambino pensavi di poter vivere una realtà in cui ti si mostrava una vita che poi avresti potuto decidere se vivere veramente o se cambiare? In un certo senso, il tuo desiderio si è concretizzato-. -Ma perché mi sarebbe stata data questa opportunità? Ho forse fatto qualcosa che potrebbe compromettere il futuro dell’umanità?- -No, solo quello che potrebbe compromettere il tuo, come è avvenuto-. -Ma allora, tutto ciò che ho vissuto tramite il romanzo…-

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-Tutto reale, solo che quelli erano i ricordi veri elaborati da un’ombra fittizia. Quella del sogno che non poteva sognare-. -Nausica quindi è veramente mia figlia?- -Sì, e questo è ciò che volevi cambiare. Sapevi di avere una responsabilità che non avresti potuto sopportare. Ovviamente non hai potuto cambiarla come avresti voluto. Ma lei ora è lontana…- -E io sono solo-. -Tutto ha un prezzo-. -E che ne sarà del resto?- -Il destino continuerà a seguire il suo nuovo corso-. -E la grotta? Che cosa significa tutta quella visione?- -Quello che volevi cambiare nella realtà fisica, non coincide con ciò che volevi comprendere delle altre verità-. -Quali verità?- -Quelle sugli spiriti della natura, sulla possibilità di realtà alternative, sul corso del destino, sulle responsabilità e sulle conseguenze dei nostri comportamenti, sul perché e sulla ragione del nostro essere, ma soprattutto, di una in particolare-. -E sarebbe?-. -Quella da cui tutto ha avuto origine, quella che ti ha condotto a creare le condizioni per cui la tua ricerca avesse esito-. -L’origine del tutto?- -No, l’origine della ricerca del tutto- -E quale sarebbe stato quel momento?- -Quello in cui tu hai deciso che potevi essere d’aiuto a qualcun altro-. Una certa malinconia cominciò ad avvolgermi e senza necessità di essere guidato ricordai una domanda specifica di Demetrio “è possibile che un ragazzino di sei anni possa innamorarsi di una ragazzina mai vista prima?..” Era stato questo il principio. Era stato a quella rivelazione che io avevo iniziato la mia opera umanitaria nel tentativo di unire i due amanti. Ma il mio altruismo non era stata la ragione vera del gesto. In quel momento avevo percepito una diversa attrazione. In quel momento avevo sentito il richiamo forte come il ruggito di un tuono risvegliarmi da un letargo durato millenni. In quel momento avevo cominciato a comprendere il senso di ciò che si chiamava anima gemella, il significato del sùmbolon e la relazione con un’ospitalità perduta legata ad un luogo, uno spazio, una dimensione troppo antica che nemmeno il concetto di un tempo ancestrale poteva farmi comprendere, e ogni cosa cominciò ad essermi più comprensibile. Quello che cercavo, ossia quello che avevo cominciato a percepire di cercare, era l’origine della mia provenienza. Se Demetrio fosse stato con noi in quel momento avrei potuto rispondergli “sì, era possibile, perché colei di cui si era innamorato era la manifestazione di quello spazio incomprensibile anche dal concetto ancestrale dal quale si era diviso, quel luogo di non tempo in cui la morte non può sussistere perché, per quanto inconsistente, era solo un concetto fisico. Quel luogo da cui provenivamo e dove eravamo destinati a tornare, ma solo dopo aver compreso il nostro ruolo di sùmbolon, ovvero, la nostra rottura e divisione dal tutto. Quella rottura che dava forma alla vita così come la conoscevamo, nella quale il nostro affanno era riconducibile alla ricerca della possibilità di ricongiungersi alla sorgente. Grabian accanto a me sorrideva perché intuiva i miei pensieri, e non dovevo fare nulla per spiegarglieli. -Demetrio quindi ha riconosciuto la sua parte mancante? È questo che intendeva dirmi con quella domanda?- Grabian annuì, ma poi mi disilluse -ha riconosciuto una parte di essa. La separazione avviene per gradi. Un po’ come i numeri. Si comincia dall’uno, poi si trova il due, che non è un numero aggiunto, ma una divisione dell’uno. Si può andare avanti all’infinito, dividendosi sempre più, finché non si comincia a intuire che ogni separazione ci conduce sempre più lontani-. -Non credo di capire- ammisi.

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-Perché la separazione è una rottura che non si può più aggiustare. Per questo la leggenda della Genesi pone il Cherubino con le spade fiammeggianti a guardia del giardino dell’Eden. Nonostante tutto nessuno può più tornare indietro-. -Ma allora, che senso ha tutto questo? Perché ricercare l’anima gemella se comunque non possiamo tornare là dove tutto ha avuto origine?- -E dov’è che tutto ha avuto origine?- Riflettei, ma sapevo che non avevo risposte adeguate, perché io ancora ero Tommaso D’amanti, privo di ogni concetto e pieno di banalità. -Ciò che voleva rivelare Demetrio, è relativo a quello che vi è prima della vita. Lui si è separato dalla sua controparte rappresentata da Virginia che nella sua innocente ingenuità di bambino ha saputo riconoscere… Oppure, in alternativa, Virginia potrebbe essere lei stessa una manifestazione di quella separazione, con la quale lui ha percorso un tratto del viaggio che necessita tuttavia, di essere completato per apprendere qualcosa che li può condurre altrove…- “Altrove” pensai. Un termine usato spesso da Felona quando ero Donato Mastammi, e mi rividi nella grotta, mentre la mia controparte mi sfidava non accettando che io stesso potessi annientarlo come creatura di un mondo fittizio -è questo il senso della grotta? La profondità da dove tutto si genera?- -Come si può generare qualcosa se tutto già esiste?- Cominciavo a perdermi, seppure già da tempo mi fossi smarrito. -Se tutto già esiste, in che modo noi possiamo essere generati?- domandai allora più istintivamente che per deduzione. -È questo il punto. Tu consideri la morte come una fine dell’esistenza, ma quando mi hai chiesto se eri morto, avresti potuto farlo se così fosse stato?- -Non attraverso il corpo- dissi senza cercare stupide congetture o facili risposte del genere che dopo la morte non poteva esserci altro perché Grabian aveva chiuso la porta a simili concezioni prima che potessi farlo: se già gli avevo chiesto se ero morto, era logico che consideravo che vi fosse qualcos’altro dopo la morte, sebbene quello che stavo vivendo, per sua stessa ammissione era un sogno. -Tuttavia la tua concezione ti conduce a pensare che vi sia un seguito, e questo seguito quindi ci conduce ad una sola possibile conclusione-. -Quale?- -Che se non vi è morte, non vi è fine. E se non vi è fine, significa solo che tutto è infinito, e se vi è solo l’infinito, non vi è nemmeno il tempo per come lo concepisce la realtà fisica dell’uomo…- -Quindi vi è solo la vita, ma come possiamo allora comprendere la vita?- -Non possiamo farlo, non nel tempo del non tempo, dove non vi è né principio né fine. Ecco perché siamo continuamente in viaggio-. Osservai la monotonia del paesaggio che non mutava attorno a noi -ma un principio deve esserci, altrimenti come possiamo uscire dal giardino?- -Iniziare a divenire consapevoli di esserci, non significa non essere mai stati, ma semplicemente voler comprendere che cosa siamo, ecco il principio-. -Noi quindi siamo eterni, e come tali, siamo una particella di Dio?- -Basterebbe poco per far comprendere l’inutilità della ricerca scientifica a proposito, non ti pare?- ora il suo sorriso era veramente ironico e io lo assecondai pensando a quanti sforzi inutili facevano gli studiosi delle scienze fisiche e gli studiosi delle scienze teologali nella ricerca di qualcosa che era tanto vicina loro da non essere nemmeno considerata, e continuando a sorridere dissi -il punto più in ombra è quello che sta sotto la luce-. -Cerchiamo lontano ciò che è vicino e non vediamo al di là di ciò che ci limitiamo a vedere-. -Siamo noi stessi ciò che non vediamo. Gli spiriti della natura, la voce dei fiumi, l’essenza delle piante e delle rocce, tutto questo è un riflesso, tutto ciò che Demetrio mi mostrava, era il riflesso divino… quella particella che noi stessi rappresentiamo e che non possiamo vedere se non attraverso un riflesso che tuttavia non riusciamo a riconoscere…- Grabian rimase in silenzio. Allora io mi guardai attorno e tutta le desolazione che osservavo mi provocava tristezza -dove stiamo andando?- domandai. Lui riprese la sua superficialità -questo è il tuo sogno- ripeté.

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-Ma è un sogno vuoto. Io ricordo di aver combattuto contro l’ombra di me stesso che non voleva lasciarsi annientare. Se tutto questo ha un senso, in che cosa lo trova?- -Il tuo mondo è sterile, ancora non è formato- disse lasciandomi nel vago. -Che cosa significa? E in che modo può mutare?- -Nel tuo mondo reale tu hai amato una donna. Ti sei chiesto perché non hai vissuto con lei?- Riflettei -lei non era la mia anima gemella. Ho potuto amarla solo perché attraverso una condizione che si potrebbe definire casuale ho avuto la possibilità di conoscerla. Ma non mi sono innamorato di lei come aveva fatto Demetrio. Virginia è la compagna del suo viaggio e lui ha saputo riconoscerla e ha saputo attendere perché anche lei lo potesse riconoscere… questo significa che loro hanno trovato la via del ritorno?- -Non esiste una via di ritorno, esiste solo un seguito. Un seguito che li condurrà a generare un mondo in un universo non più sterile. Nessuno può dire dove li condurrà la loro evoluzione, nemmeno io. Ognuno ha una ragione per esistere, forse loro diverranno la luce e l’ombra di quell’universo, o forse continueranno a percorrere la via che hanno seguito fino ad ora cercando di comprendere sempre più a fondo, o forse finiranno per separarsi definitivamente per diventare qualcosa che va al di là della nostra concezione…- -Intendi dire Angeli? O qualcosa del genere?- -Chi può dirlo, il destino di noi tutti è ignoto a ognuno di noi-. -Ma tu sei una guida, una specie di angelo…- mi resi conto di quello che dicevo solo dopo averlo visto sorridere. -Ma prima di essere un angelo sono stato un demone per te, ricordi?- -Sì, ma questo perché io avevo un'altra visione-. -È possibile quindi che il destino di noi possa dipendere anche da quello degli altri, tuttavia, quello che sono oggi può non essere definitivo per me. Chissà, dopo questo viaggio, o magari dopo altre esperienze in questa condizione, potrei cambiare sorte. L’evoluzione non ha mai termine, così come l’infinito non ha inizio e non ha fine-. -Ma dopo tutto questo allora io, chi sono? E cosa devo fare?- -Tu devi fare solo ciò che devi. Non cercare di capirlo, vivilo-. -In che modo?- Grabian sorrise -hai ancora la carta nelle tue tasche?- Rovistai con la mano e tirai fuori l’arcano degli amanti: -La scelta- dissi allora. Grabian sorrise e l’autobus si fermò -sembra che siamo arrivati- disse. -Arrivati dove?- Scosse il capo -da nessuna parte-. Guardai attorno a me e tutto era come prima, vuoto, arrido e caldo, e l’autobus, era ancora fermo sul crocicchio da cui era apparentemente partito. Lui scese e io lo seguii, ma quando cominciò a camminare io restai fermo mentre l’autobus si allontanava. -Grabian- lo chiamai. Si voltò paziente. -Se non era Virginia la mia controparte, chi era?- Si limitò a sorridere, non rispose e riprese a camminare. -Dovrò camminare ancora a lungo per capirlo?- Non si fermò -solo tu puoi saperlo-. -E quando lo capirò?-. -Quando questo sogno non sarà più sterile-. …Mi svegliai, mi alzai e osservai me stesso allo specchio, poi provai uno strano desiderio: avevo bisogno di un ombra.

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…Il sesto sigillo: la separazione Non vi svelerò che cosa vi riserva il futuro, non potrei. Non vi racconterò oltre, quindi, dei miei seguenti tredici anni, gli ultimi di questa mia attuale vita, e per delle ragioni molto convincenti. Prima di uscire dall’allucinante sogno avevo chiesto a Grabian che cosa ne sarebbe stato del futuro che avevo vissuto, quello in cui ero Donato Mastammi divenuto un’ombra al servizio del lato oscuro come ambasciatore del demonio. “Il futuro può essere cambiato” aveva risposto il presunto angelo sul quale, nonostante tutto, alla fine non avrei potuto evitare di mantenere dei dubbi sulla sua reale natura angelica piuttosto che demoniaca. “È il passato che non può essere toccato” cosa che adesso mi appariva abbastanza ovvia. “Ciò che è stato è stato e così deve rimanere. Così ogni cosa che tu hai vissuto come Tommaso D’amanti è invariata, mentre quel futuro che hai potuto vedere solo in parte come Donato Mastammi, non ha più esito. Molte cose come hai potuto appurare sono mutate. Demetrio ha conosciuto i suoi nipoti, Virginia se ne è andata con lui e Nausica, sebbene non sia impossibile, probabilmente non sposerà sua fratello”. “Sebbene non sia impossibile?” mi ero preoccupato. “Nulla del futuro è conoscibile e molte sono le variabili che nessuno, nemmeno gli esseri del non tempo possono definire. Basta poco, una piccola mutazione, una scelta apparentemente innocua invece che un'altra, e tutto diventa imprevedibile. Ecco perchè non ci è possibile né prevedere il futuro, né modificare il passato”. “Ma io l’ho fatto” obbiettai “perché?” “Tutto ti sarà chiaro nel futuro che continuerai a vivere. Qualche volta avviene che le regole possano essere infrante, ma mai per un volere superiore ma, seppure ad un livello totalmente inconscio, sempre per un desiderio di natura inferiore e personale, e mai senza che vi sia un prezzo da pagare”. Quell’ultima parte mi fece rabbrividire perfino nel sogno “ma se è successo una volta, potrebbe avvenire ancora, e se io riuscissi a prevedere il mio futuro…” Grabian sorrise e scosse il capo “impazziresti prima di poter realizzare anche un solo lieve mutamento” sentenziò con calma. “Perché?” “Se tu potessi prevedere il tuo futuro, avresti la facoltà di cambiarlo, ma non saresti in grado di calcolarne le variabili. Ogni tua mutazione equivarrebbe a una conseguente mutazione di cui dovresti tenere conto e continuare di conseguenza a prevedere e cambiare, sperando di fare la scelta giusta perché comunque tutto si ridurrebbe alla necessità di effettuare scelte. Inoltre, considerando ciò che sarebbe vantaggioso per te rischieresti di compromettere o danneggiare chi in conseguenza alle tue mutazioni subirebbe inevitabilmente le conseguenze delle tue azioni. Potresti arrivare a generare il caos più totale e ad alterare la realtà stessa fino al rischio di farla collassare su se stessa, provocando addirittura scenari dalle possibili conseguenze apocalittiche. Immagina se tu potessi cambiare il corso della storia, cambiando eventi di straordinaria rilevanza come probabilmente deciderebbe di fare chiunque avesse la possibilità di cambiare il passato. Immagina di poter impedire la fine dell’impero romano, o di poter evitare le crociate, la scoperta dell’America e la conseguente invasione europea, impedire la rivoluzione francese, la prima o la seconda guerra mondiale, l’attacco alle torri gemelle o altre gravi tragedie… quante realtà muterebbero solo mutando uno di questi eventi, quanti mutamenti dovresti fare per mantenere tutto in equilibrio per non rischiare il tracollo della realtà…” “Equilibrio? Dirai che sono matto, ma tutto ciò che hai elencato non mi fa pensare proprio ad un equilibrio”. “È vero. Ma questo perché a nessuno è dato di conoscere la vera natura dell’equilibrio e ciò che sia veramente l’armonia. Tu hai avuto occasione di vederla nella natura. La natura è selvaggia. Un essere umano si commuove nel vedere un leone che annienta una gazzella e ne soffre, eppure in questo vi è un equilibrio, un’armonia. La terra è imprevedibile e può compiere catastrofi con i suoi terremoti e le sue inondazioni, eppure anche in questo vi è un equilibrio e un’armonia. L’uomo non la comprende perché ritiene che a lui tutto sia dovuto. L’aria che respira, il sole che lo scalda e che gli permette di coltivare la terra… ma se un giorno qualcuno ci presentasse il conto? L’uomo non riesce a comprendere quanto

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sia fragile l’armonia che tiene ogni cosa in equilibrio, pur avendo la capacità di poterla sperimentare e comprendere. L’uomo elogia se stesso quando compie grandi imprese e maledice gli dèi quando subisce determinate disgrazie, delle quali spesso è lui stesso responsabile… per questo non può comprendere il senso delle parole equilibrio e armonia…” “Sì è vero, noi non possiamo comprendere quelle leggi di cui parli, ma accettare che eventi come le grandi guerre siano comunque effetto di un equilibrio appare un assurdità. Se vi fosse una possibilità di fermare la causa primaria che le ha scatenate non può essere considerato sbagliato”. “Perché non tieni conto delle variabili, come ti ho già detto. Innanzitutto come potresti conoscere per certo le cause primarie? Credi ad esempio che cancellare Hitler potrebbe essere sufficiente a fermare la seconda guerra mondiale? E se invece tale gesto non provocasse reazioni a catena ben più devastanti? Se i suoi seguaci prendessero tale occasione per scatenare una guerra ancora più atroce? O se si riuscisse veramente a fermarlo prima che possa innescare tutto il meccanismo distruttivo di cui si è reso responsabile, come potresti essere sicuro che tra le vite che avresti salvato non possa esservi qualcuno di ancora più malvagio, potente ed astuto? Un nemico che magari non riusciresti a sconfiggere? Pur prevedendo il futuro, saresti costretto a fare delle scelte, credi veramente che riusciresti a sopportarne la responsabilità? Potresti impedire tutte le dittature di questo mondo? E quante altre ne creeresti? Per quanto tragico il passato sia stato, e per quante altre tragedie il futuro ci prospetti, seppure incomprensibile, tutto fa parte di una condizione che non può essere alterata e tutto comporta equilibrio. La cosa penosa, quella di cui ogni essere umano dovrebbe rendersi conto è che dopo aver potuto sperimentare tutto ciò che oggi si vorrebbe mutare, ancora non si fa nulla per realizzare tale mutazione e per questo il futuro continuerà a riservarci tragedie, il più delle quali sarà l’uomo stesso ad esserne responsabile”. “È per questo dunque che io ho avuto la possibilità di cambiare il futuro?” “No, tu hai avuto una breve licenza di immaginare un futuro. È diverso”. “Ma l’ho cambiato”. “Per tua scelta?” Ripensai a come avevo desiderato rivedere Virginia per dichiararle il mio amore, e valutai ciò che tale realtà avrebbe potuto realizzare “il destino mi ha impedito di proseguire su quella via” dissi. “Il destino ti ha dato solo un’opportunità, ma non può impedirti di andare a cercarla se tu scegli di farlo, né potrebbe impedirti di stare con lei se le condizioni si creassero. Tuttavia non potrebbe impedire nemmeno le conseguenze che tali azioni comporterebbero”. “Per questo non mi fece seguire l’istinto quando Marco si suicidò?” “Un'altra variante. Il destino, o ciò che ritieni possa essere a guidare ognuno di noi nella vita, ti ha dato un’informazione. La scelta seguente ha generato una conseguenza anziché un'altra. Se la tua scelta fosse stata diversa, il corso delle cose sarebbe mutato…” “E sarebbe potuto succedere qualcosa di catastrofico?” “Assolutamente no. Il corso degli eventi si sarebbe adattato a quella nuova condizione, che in quel momento non sarebbe stata nuova ma solo un continuo scorrere del presente…” “E se invece che mutare un grande evento, si potesse mutare una sola piccola condizione?” “Le cose non cambierebbero. La più piccola mutazione del passato potrebbe generare uno sconvolgimento incontrollabile. Che cosa succederebbe se tu tornassi indietro e salvassi adesso la vita del tuo amico? Quante varianti riesci a immaginare?” “Magari potrebbe sposarsi e avere dei figli” avevo iniziato a ipotizzare “oppure si sarebbe comunque suicidato il giorno dopo…” “Ma nel frattempo quante cose avrebbero potuto mutare? Quel treno che deragliò magari ha impedito una sciagura più grande, o magari ha creato le condizioni, attraverso il tempo di blocco delle stazioni, di dar modo a due persone di incontrarsi e creare qualcosa assieme. E nel caso dei figli? Quante variabili potresti calcolare anche su una singola persona in più che oggi non c’è? Il passato è inflessibile e così deve essere. Tu tornerai nel tuo mondo col tuo passato, e vivrai il tuo futuro per ciò che deve essere, e che tu lo accetti o no, questa è armonia…” Potrei ora dirvi che non ricordai più nulla di quei sogni, ma la verità è che essi rimasero a tormentarmi per il resto dei miei giorni, per tutti i successivi tredici anni.

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Ora, se dopo tutto questo tempo trascorso a meditare su quanto avvenne in quel tempo, sui relativi ricordi, sugli eventi di tutte le azioni di quel passato, di quel presente e di quel successivo futuro, sono riuscito in qualche modo a definire qualcosa e ad avere un minimo principio di consapevolezza, posso quasi affermare che chiunque abbia ascoltato o letto la mia narrazione, sia giunto, come me, a domandarsi quale significato e quale relazione possa avere ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà e ciò che ho vissuto, in realtà o in sogno, con quella strana figura di cui ancora non posso definire la realtà o l’irrealtà e con le sue rivelazioni sull’inflessibilità del passato e sull’armonia del futuro. Ebbene, tutto ciò che posso dire è che ancora non mi è possibile dare una risposta plausibile. Ho trascorso i successivi tredici anni a riflettere su tutto questo. Mi sono liberato di ogni intralcio al mio pensiero, abbandonando il mio lavoro, cedendo tutto ciò che mi era rimasto senza trattenere nulla per me al di fuori di quel poco che mi sarebbe occorso per il più semplice dei sostentamenti, isolandomi nella solitudine, nel vuoto e nel nulla, ricercando, viaggiando nei luoghi mistici delle più meditative religioni e nei luoghi più remoti del mondo a contatto con civiltà quasi primitive, dagli aborigeni agli Inuit, dai monaci buddisti ai Sufi del deserto, al solo scopo di giungere ad una comprensione che potesse condurmi al perché di tutto questo, per tornare infine alle origini da dove tutto è iniziato, in quella vecchia casa, unica proprietà ancora in mio possesso, con una raccolta di memorie scritte sui miei viaggi, sui miei pensieri, sulle emozioni e sulle sensazioni provate. Ma privo di ogni comprensione. Spesso mi sono ritrovato a vivere nei sogni visioni e frammenti dei tempi passati sia come Tommaso D’amanti che come Donato Mastammi, senza riuscire veramente a concepirne il significato. Spesso mi sono lasciato trasportare dall’intuizione del confronto in cui, riconoscendo Demetrio come una sorta di alter ego, e cercando di concepirlo come colui che era riuscito ad unire i suoi lati, l’ombra e la luce, il bene e il male, il passivo e l’attivo, il femminile con il maschile, mi identificavo con il suo cammino, pensando che come lui anch’io stavo cercando la mia controparte che, nei ricordi di Donato Mastammi potevo identificare nella figura di Felona. Ma Grabian era stato chiaro: nessuno ha un cammino simile, tutti siamo differenti e ognuno di noi ha uno scopo o una missione diversa. Secondo lui, Demetrio e Virginia avevano iniziato un cammino e si erano ritrovati per percorrere ancora un tratto di viaggio assieme, forse solo per completare o migliorare qualcosa che solo assieme potevano concludere, ma alla fine sarebbero tornati a dividersi per compiere ciò che dovevano realizzare individualmente. Altre volte avevo sognato, o solo ricordato, quell’illusione onirica in cui Felona mi appariva come vittima sacrificale nella grotta, senza mai riuscire a comprendere se il suo fosse un sacrificio volontario o l’oggetto di un’offerta data in cambio di qualcosa. Ma l’enigma più grande rimaneva come mi fosse stato possibile avere l’opportunità di osservare, sebbene per un lieve tratto, il mio futuro e creare quella sorta di realtà alternativa che con le rinunce successive non si era realizzata. La conclusione più ovvia, era che questo privilegio mi era stato offerto per riparare a un danno di cui sarei stato responsabile e del quale forse non sarei riuscito a sopportarne il peso, giacché tra le tante cose scoperte nei miei viaggi meditativi, qualcuno mi aveva detto che a nessuno veniva dato di subire più di quanto poteva sopportare. Ma poi, era come se nella mia mente s’infiltrasse la voce di Grabian per dirmi che quella era la conclusione più ovvia e semplice cui potevo giungere, e conseguentemente, quella più limitativa che, seppure con grande nobiltà ero riuscito a mutare, non avrebbe certo finito per influire sullo scorrere del tempo e del destino perché comunque, tempo e destino, riconducibili a equilibrio e armonia, sapevano adattarsi e adeguarsi. Così ogni volta finivo per restare privo di quella comprensione che fino alla fine non ho saputo interpretare. E perfino al momento della separazione, solo senza nessuno a piangere per la mia anima, tutto ciò che mi rimane è ciò che mi ha accompagnato per tutti questi tredici anni nei quali mai ho dimenticato e nei quali mai ho saputo capire veramente se i miei ricordi, i miei sogni, la mia vita, fossero reali o irreali. Ecco perché non posso dirvi nulla del futuro, perché ancora non so se il mio essere abbia mai avuto quel futuro, quel presente, e quel passato… Un’ultima cosa posso dire mentre mi addormento, o mi dissolvo: quel mondo che ho vissuto, mi è apparso più volte, forse in sogno o forse come allucinazione, ma sempre, nel vederlo o nel percepirlo

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ho desiderato che non svanisse, come se in qualche modo mi sentissi responsabile di tutte quelle presenze delle quali sebbene simili ad ombre, sembravano tutte mie creature… ho desiderato così profondamente poter dare loro una realtà, al punto che nel mio pensiero sono giunto ad accogliere la possibilità di poter divenire anche il loro demone, se questo fosse bastato a rendere loro consapevoli di esistere…

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Il settimo sigillo: l’ultimo pensiero… …Se un giorno qualcuno dovesse mai avere l’occasione di leggere queste mie memorie, allora forse saprà dare un significato a questa mia follia e a determinare se io ne sia stato effettivamente parte. Se così dovesse essere, tutto ciò che posso dirgli, come un avvertimento, è di fare attenzione…

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Conclusione

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Un altro lancio… Nei pressi di Arles, nella Provenza francese, in un piccolo paese adiacente, contagiato dalla storia dell’antica città e dalle acque del vicino Rodano, un artista di strada, appoggiato al muretto di protezione posto sull’argine del piccolo fiume che rendeva il borgo una suggestiva miniatura della stessa Arles, suonava quieto la sua chitarra acustica un po’ scordata. Portava un cappello sdrucito, sotto il quale si scioglievano lunghi capelli grigi, il che denotava la non sua più giovane età. Florence Boussol, una giovane studiosa di antropologia passò e lo osservò. Era da poco tornata da un viaggio presso un sito archeologico nel nord, dove aveva avuto occasione di fare pratica direttamente sul campo come assistente di un noto ricercatore al quale era stata segnalata dal suo docente universitario. La sua aspirazione era quella di divenire ricercatrice professionista e questa per lei era stata un’importante occasione. Tuttavia l’esperienza si era rivelata molto impegnativa ed estenuante, soprattutto perché lei l’aveva colta come un’occasione dalla quale ricavare un considerevole prestigio e quindi ponendo nell’attività un impegno intensivo che l’aveva condotta a consumare molte energie. Si alzava presto la mattina, seguiva ogni direttiva che gli era impartita ma trovandosi spesso a dover svolgere i lavori più umili assegnati dai più esperti che non la tenevano molto in considerazione. Alla fine aveva imparato molto, ma non credeva di aver ottenuto esattamente ciò che si attendeva. Era rimasta lontana da casa circa due mesi e nonostante tutto tornava delusa ed esausta con l’unico desiderio di concedersi un lungo e rigenerante riposo. Florence era ancora giovane e facile preda dello sconforto, fisicamente aveva doti che in altri ambiti le avrebbero reso le cose più facili, un fisico esile e longilineo, lunghi capelli biondi un po’ crespi a causa dalle poche cure che le prestava, un bel viso aggraziato, simmetrico, dolce, con occhi profondi e intensamente azzurri, ma che tuttavia nel ramo da lei privilegiato non contavano molto. Sapeva che per farcela doveva contare sulle proprie forze, ed era ben determinata a riuscire nel suo obbiettivo, e mentalmente si sforzava di convincersi che ogni avversione, per quanto sconfortante, era solo un occasione per renderla più combattiva e desiderosa di arrivare. In pratica, la sua volontà la induceva a trasformare le avversità in opportunità, sebbene ancora non sapesse quali avverse condizioni avrebbe potuto produrle il destino per metterla alla prova. Il treno era arrivato tardi nella piccola cittadina e lei che abitava in periferia camminava a passo spedito per giungere a casa prima che facesse buio. Si allontanò in fretta dal traffico e si avviò verso il modesto centro storico dove l’accesso alle auto era vietato, qui si rilassò e rallentò il suo passo. Superò una torre passando attraverso l’arco che, conducendo lungo le vie del borgo che ancora manteneva la sua struttura medievale, sembrava immettere in una diversa dimensione del tempo. Il rumore del traffico restò fuori delle mura storiche e come d’incanto a lei, che del tempo era studiosa, parve quasi d’entrare in un sogno. Quasi si fermò per assaporare l’istante in cui, sentendo i rumori metallici affievolirsi, una sorta di tranquillità la metteva in pace con se stessa. Fu allora che cominciò a sentire la melodia arpeggiata del musicista. Osservò intorno a sé per comprendere da dove provenisse il suono che non aveva nulla di nuovo ma che, in quel momento, sembrava quasi irreale. Camminò per un po’ avvicinandosi sempre più alla fonte della melodia finché lo vide, seduto contro il muretto dell’argine con il cappello che gli copriva il volto, chino sulle corde della chitarra, e come se all’improvviso il tempo non avesse più alcuna importanza si fermò e restò ad ascoltare gli arpeggi. Erano arpeggi di una malinconica ballata che sembrava rubata ad un passato in cui lungo le vie di quel centro dovevano aver camminato cantastorie e trovatori di passaggio. Immaginò il loro vagabondare per l’Europa da nomadi viaggiatori, e l’insieme le ricordò un suo viaggio fatto in Italia in un tempo che già sembrava troppo lontano. Dopo un po’ prese qualche spicciolo dalle sue tasche e lo depositò con grazia nella custodia della chitarra. Il musicista si fermò per un istante, alzò la testa, si levò il cappello e accennò un inchino per quanto la sua posizione gli permetteva, proponendo alla ragazza un sorriso sincero e allo stesso tempo malinconico, ma di una malinconia che non sembravano triste, ma piuttosto, gratificante. -Mercì madamoiselle- la ringraziò. Florence sorrise a sua volta, ma poi notò qualcosa di insolito negli occhi rugosi dell’artista che sembravano poco più che fessure su un viso roccioso scolpito dal tempo, uno sguardo che per un attimo parve sottrarre a lei ogni percezione del tempo stesso e della dimensione, come se stesse osservando in un abisso profondo, e un brivido la distolse da ogni romantica sensazione riportandola alla considerazione che si stava facendo tardi e alla cognizione della

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propria stanchezza, e quando il musicista tornò al suo arpeggio staccando le fessure di roccia dai suoi occhi, come conscia di un’insidia, riprese il suo cammino sostenuto e si allontanò. …Dopo un po’, lungo lo stesso tratto dalla giovane da poco percorso, un signore distinto, con un vestito elegante di uno strano colore a metà tra il fumo e la polvere e una borsa di cuoio in mano che sembrava quasi una valigetta, passò anch’esso vicino al musicista. Anche lui si fermò e ascoltò, ma la sua espressione era più severa, come se non apprezzasse la presenza di un vagabondo nel suo paese. La sua espressione sembrava voler dire che uno come lui poteva anche starci per le vie di Parigi, ma non lì, nella miniatura di Arles. Il musicista di nuovo si fermò, alzò la testa e osservò l’uomo di fronte a lui. Si levò il cappello e, come aveva fatto con la giovane poco prima, propose il suo inchino. Restò però in quella posizione per un po’ e da quella prospettiva alzò le iridi azzurre a osservare gli occhi austeri che da un altezza dominante continuavano e fissarlo severi, e per un momento i loro sguardi si incrociarono come fossero strade provenienti da direzioni diverse che si incontravano. Solo successivamente tornò ad alzare il viso dall’inchino, appoggiò la chitarra a terra e infilò una mano nelle tasche. L’uomo distinto restò ad osservare incuriosito, pensando che l’invasore stesse per mostrargli qualcosa, e infatti, quando il musicista estrasse la mano, il distinto poté comprendere nel gesto di protenderla verso di lui, che gli stava offrendo qualcosa. Avvicinò lo sguardo curioso e quando il chitarrista aprì la mano, poté osservare sul palmo disteso dei dadi. Incerto indietreggiò e ripropose al musicista lo sguardo severo. Questi sorrise, quindi lanciò a terra i dadi e mentre rotolavano domandò -una scommessa signore?- L’uomo attese finché i dadi si fermarono e senza rispondere si accinse a guardarne l’esito. Notò con un certo stupore che i piccoli oggetti erano di legno e sembravano intagliati a mano, ma la cosa più curiosa però, che stimolò sul suo viso austero un sorriso beffardo, era che sulle facce dei dadi non vi era nessun numero. Guardò divertito il suonatore -non amo il gioco d’azzardo- rispose. Il musicista sorrise a sua volta, prese i dadi e li ripose nelle proprie tasche. -Forse un po’ sì- rispose alludendo al suo attendere di vedere che cosa sarebbe risultato dal lancio. L’austero, che forse nella sua mente aveva pensato un numero, accentuò il sorriso e in esso manifestò un’ironia che evidenziava come cominciasse a provare una leggera simpatia nei confronti del vagabondo. Con un cenno della mano portata alla fronte simulò un saluto e senza nessuna offerta si allontanò. Il musicista ripropose il suo inchino, quindi, dopo averlo osservato per un istante allontanarsi, riprese ad arpeggiare.

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Tutto continua… La mattina seguente il campanello suonò di buon’ora svegliando Florence prima di quanto avesse previsto. Intontita chiuse gli occhi si rigirò nel letto e quasi si riaddormentò. Era appena rientrata da quell’impegno estenuante e insoddisfacente e tutto ciò che desiderava adesso era solo riposo e, decisa a ignorare ogni cosa l’avesse potuta distogliere dalla sua convinzione di non fare nulla di più che concedersi pace non prese in considerazione nessun fastidio, sperando che il visitatore, chiunque fosse, se ne andasse. Ma quando il campanello riprese a suonare con insistenza, svegliandola definitivamente, le riuscì impossibile trascurarlo e imprecando aprì gli occhi lasciando che si riadattassero lentamente alla luce penetrante dalle persiane ma senza forzare il suo levarsi, nonostante l’insistenza del suono elettrico del fastidioso annunciatore di seccatori. Addirittura, mentre si vestiva con calma, pensò che dopo quel brusco risveglio e dopo aver mandato via chiunque fosse stato ad infastidirla, avrebbe staccato il campanello e non lo avrebbe ripristinato per almeno i prossimi tre giorni. Osservò la sveglia sul comodino che segnava le nove in punto e già sentiva che il sole di quel giorno preannunciava una giornata calda, così si infilò una maglietta di cotone e dei pantaloncini corti mentre il ronzio si ripeteva ancora una volta. Non pensò di gridare allo scocciatore che stava arrivando, ancora non era ben sveglia, anzi, pensò che dopo aver risolto con chiunque fosse stato, sarebbe tornata a dormire, quindi infilò le infradito e senza nemmeno fare una sosta in bagno si avviò alla porta. Passando di fronte allo specchio non si preoccupò nemmeno di sistemarsi i capelli. Malgrado tutto anche così arruffata non mancava di esprimere quel certo fascino del quale tuttavia non sembrava importarle molto. L’unico desiderio che aveva era di far smettere il fastidioso suono e tornare a dormire. Attraversando il corridoio ascoltò un’ultima volta il suono elettrico che ormai diveniva sempre più irritante, poi non sentì più nulla e pensò che lo scocciatore l’avesse sentita avvicinarsi e che, decidendo di interrompere la sua insistente molestia sonora, si fosse rassegnato ad attendere la sua lentezza. Sebbene confusa dal risveglio affrettato lo ringraziò mentalmente mentre terminava il suo lento tragitto fino alla porta, ma quando aprì, ad attenderla non c’era nessuno. Più sorpresa che irritata si guardò attorno incerta. Era sicura che il suonatore esasperato di campanelli, vista la sua insistenza, fosse qualcuno dalla paziente volontà di attendere e un po’ si rammaricò di non poter scoprire contro chi sfogare la sua irritazione, poi abbassò lo sguardo e notò il pacco posto sul gradino davanti alla porta e s’immaginò il fattorino postale che, nell’esigenza di continuare il proprio lavoro, aveva finito per cedere al pensiero che in casa non c’era nessuno e aveva lasciato il pacco per proseguire il suo giro. Una sorta di pentimento la sorprese con un lieve senso di colpa sentendosi rammaricata per aver osato imprecare contro chi, in definitiva, stava solo facendo il proprio dovere che lei, con il suo atteggiamento aveva solo intralciato e scusandosi mentalmente, giacché non poteva farlo direttamente, si abbassò e raccolse ciò che aveva lasciato. Esaminò lo strano involucro di non eccessive dimensioni, incartato con una semplice carta riciclata e soppesandolo dedusse che doveva trattarsi di qualcosa che doveva assomigliare ad un libro. Poi notò la lettera che lo accompagnava sulla quale vi era l’indirizzo del destinatario, cioè lei, ma nessun mittente. Si guardò intorno ancora alla ricerca di qualcuno cui chiedere spiegazioni, ma il fattorino probabilmente doveva aver avuto molta fretta, visto il suo modo insistente di suonare e dopo aver compreso che stava perdendo troppo tempo doveva esser quasi corso via e un sorriso ironico le addolcì il viso mentre se lo immaginava ora a imprecare lui contro quei fastidiosi clienti che non stavano mai in casa al momento delle consegne. La periferia era deserta e pensò che era inutile insistere a cercare qualcuno, quindi decise di rientrare e, visto che la sorpresa ormai le aveva tolto il sonno, una volta in casa, dopo aver versato in un bicchiere un po’ di succo d’arancia, decise di ispezionare lo strano e inaspettato dono. In fondo per lei leggere era una buona cosa e un libro era sempre gradito. Strappò la carta nel quale era avvolto senza preoccuparsi di poterla nuovamente riciclare e rimase stupita nello scoprire che il contenuto non era un libro ma una risma di fogli dattiloscritti piuttosto consistente. Valutò che a prima vista potevano essere almeno sulle trecento cartelle e immaginò un amico o un parente scrittore che pensava di farle leggere la sua opera. Ancora sorrise divertita, ma prima di dedicarsi alla lettura avrebbe avuto piacere di sapere chi fosse il misterioso scrittore, e pensò che nella lettera che accompagnava il dono vi sarebbe stata la sua descrizione e magari una spiegazione a tutto ciò. Così si accinse ad aprirla, ma nel farlo, sollevandola da sopra le pagine, scoprì il primo foglio del dattiloscritto e prima di dedicarsi a quella che supponeva essere una lettera di presentazione, in caratteri

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allargati lesse ciò che suppose essere il titolo del racconto. Un titolo strano, insolito e a sua vista inappropriato che si esauriva in un'unica parola che secondo lei non significava nulla. La parola, o ciò che lei riteneva il presunto titolo era:

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3 “Avvertimento”.

Sorrise, poi aprì la busta… Caro lettore, amica lettrice, se sei giunto a leggere queste ultime righe, suppongo che in qualche modo il racconto abbia attratto la tua curiosità o attenzione. La mia speranza è quella che ti abbia coinvolto, o coinvolta, inducendoti a giungere al termine anche per un lieto piacere e che la lettura non sia stata forzata ma spontanea. Come promesso, il libro è totalmente gratuito, tuttavia, se ritieni che in qualche modo ti abbia trasmesso qualcosa, che sia valsa la pena di dedicargli parte del tuo tempo e ritieni che possa meritare un piccolo riconoscimento, spontaneamente e senza nessun obbligo, puoi fare un’offerta attraverso il tasto “donazione” che trovi sul sito www.vibrazionart.com. Un piccolo contributo che puoi considerare come: “un caffé con l’autore”. Un’alternativa alla donazione, se questo romanzo ti è piaciuto, potrebbe consistere nell’acquisto del mio primo romanzo “Dolan Her – il tocco degli angeli” che puoi ordinare direttamente attraverso il sito, considerando così che avresti due libri al costo di uno. Tuttavia, restando fedele alla promessa iniziale, come terza opzione, ti propongo di ignorare tutto questo e rimanere contento della lettura fatta. Per il privilegio che mi hai concesso con il tuo gradimento, io ti ringrazio e ti auguro un buon proseguimento del tuo viaggio. Con affetto, Ferdinando…

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Nota dell’autore 2 Prologo 7 Avvertimento 1 10 Avvertimento 2 12 Il primo confine: l’illusione 16 1 Tutto scorre 17 2 Ritorno a Casterba 25 3 L’ospitalità perduta 30 4 Risveglio dal letargo 35 5 La collina 38 6 …Le cose non cambiano 43 7 Perché sei tornato? 45 8 L’anima gemella… 54 9 Radici… 59 10 Innamorato di un sogno 63 11 L’amore eterno… 70 12 …le radici dell’odio 75 13 Il tempo scorre… 87 14 Le grida degli spiriti… 93 15 Solo ciò che possiamo sopportare… 97 16 La verità vi farà liberi… 103 17 E sotto scorre il fiume… 111 18 Il battito di un cuore lontano… 120 19 Inferi o Empirei? 128 Il secondo confine: la realtà 131 1 Le nuove favole… 132 2 Il virus… 141 3 L’inconscio collettivo… 145 4 Il teatro delle marionette… 140 5 Vittime di Crono… 153 6 L’araldo degli dèi… 162 7 “Spirito libero…” 165 8 Il Cerbero infernale… 174 9 Quando si diventa adulti?.. 179 10 La notte dei tori… 184 11 “Vittime e carnefice…” 189 12 Il guardiano del bivio 191 13 Il parco 201 Il terzo confine: la scelta 203 1 Non si fugge ovunque si fugga 204 2 I tempi cambiano ma tutto resta uguale… 209 3 I fulmini divini… 213 4 Lo scrigno di cartone… 216 5 Patti col diavolo? 219 6 Le cattedrali di marmo 224 7 Solo tra i fantasmi… 228 8 Un ultimo un drink… 233 9 La doppia faccia della perfezione… 236 10 Senza futuro… 243 11 …Se non vedi il futuro che hai davanti guarda quello che hai dietro… 245 12 Angeli protettori… 250 13 Padrone del destino… 254 14 I treni ritornano… 260 15 La fermata del diavolo… 266 16 Le scale dell’inferno… 273 17 L’anello magico… 277 18 La frattura dei sigilli… 280 Epilogo – Oltre i confini 290 1 …il primo confine: l’occultamento 291 2 …il secondo sigillo: La ricerca 296 3 …il terzo sigilli: la vocazione 299 4 …il quarto sigillo: la solitudine 302 5 …il quinto sigillo: la rivelazione 304 6 …il sesto sigillo: la separazione 309 7 …il settimo sigillo: l’ultimo pensiero 313 Conclusione 314 1 Un ultimo lancio… 315 2 Tutto continua… 317 3 “Avvertimento” 319

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FINE…

Al fiume Tregnon, e a mio padre