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1 Stavo in ufficio da mio fratello quando mio padre telefonò per dirmi che mio zio Abu Taher stava in coma e che dovevo partire presto per la Palestina. Mio padre, come tutti gli altri della famiglia, non poteva ritornare al proprio paese dopo che fu cacciato fuori insieme ad altri milioni di palestinesi a causa dell’occupazione israeliana per la Palestina, e l’unico della famiglia ad avere un passaporto europeo ero io. Mi ricordo bene la voce vibrante di mio padre che quasi piangendo mi disse: domani all’alba partirai per Safarin, tuo zio sta morendo. Mia madre mi svegliò alle cinque del mattino, mentre stavo facendo colazione il clacson della macchina che mi doveva accompagnare svegliò tutto il quartiere. Stavo salendo in macchina quando mio padre si avvicinò a me, mi abbracciò forte e con le Il ritorno a casa Naser Ghazal

I racconti di un Arabo

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I racconti di un Arabo

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Stavo in ufficio da mio fratello quando mio

padre telefonò per dirmi che mio zio Abu Taher

stava in coma e che dovevo partire presto per

la Palestina.

Mio padre, come tutti gli altri della

famiglia, non poteva ritornare al proprio

paese dopo che fu cacciato fuori insieme ad

altri milioni di palestinesi a causa

dell’occupazione israeliana per la Palestina,

e l’unico della famiglia ad avere un

passaporto europeo ero io.

Mi ricordo bene la voce vibrante di mio padre

che quasi piangendo mi disse: domani all’alba

partirai per Safarin, tuo zio sta morendo.

Mia madre mi svegliò alle cinque del mattino,

mentre stavo facendo colazione il clacson

della macchina che mi doveva accompagnare

svegliò tutto il quartiere.

Stavo salendo in macchina quando mio padre si

avvicinò a me, mi abbracciò forte e con le

Il ritorno a casa

Naser Ghazal

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parole impastate con le lacrime mi disse:

salutamelo tanto, bacialo anche per me e digli

che avrei voluto esserci anche io, però non ho

le ali per violare i confini.

La macchina cominciò ad allontanarsi lasciando

immobile mio padre davanti gli scalini di casa

nostra, mentre nel cuore cresceva un odio che

non si era mai valorizzato per l’ingiustizia

degli uomini che abitano questo mondo.

E’ giusto che la morte separi due fratelli

senza nemmeno potersi fare l’ultimo saluto?

Con le tante domande che mi facevo alle quali

trovavo e non trovavo risposte arrivammo dopo

due ore ai confini con Israele.

Dissi all’autista di aspettarmi perché avevo

paura che non mi facevano entrare, neanche

adirlo e dopo pochi minuti stavo di nuovo in

macchina perché quest’ingresso era solo per

gli Arabi, mentre per i non Arabi l’ingresso

per Israele é da Aqaba, quattro ore di

macchine dal punto dove stavamo.

Dissi all’autista di portarmi gentilmente là.

Con il caldo bruciante del deserto e la musica

d’Um Kalthum arrivammo ad Aqaba, da là fu

facile anche perché di turisti c’erano solo

quattro persone ed io. La procedura

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dell’interrogatorio, però, era una cosa

indispensabile per gli israeliani:

“Di dove sei?”

“Italiano d’origine Palestinese ”

“Dove vai?”

“A Safarin ”

“Cosa e’ Safarin?”

“E’ un piccolo villaggio in ...”

“In ..dove?”

“Non so se dopo questi negoziati di pace posso

chiamarla Palestina o in ogni caso devo dire

in Cis-Giordania?”

“Chiamala come vuoi, non importa il nome, cosa

vai a fare?”

“Ho tanti parenti ancora a Safarin ”

“Porti con te qualcosa d’illegale?”

“No, assolutamente ”

“Ok, prego ”

Entrai ma non seppi cosa fare, in pratica

cinque metri prima c’era la Giordania, passati

questi pochi metri mi trovai già in Israele,

non importava se adesso si chiama Israele e

prima si chiamava Palestina quello che

m’importava è come dovevo fare per uscire

fuori da quel deserto ed arrivare a Safarin.

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Dopo mezza ora d’attesa arrivò un taxi, salii

e senza dire una parola mi lasciò al centro

della prima città israeliana che é Elat.

Elat e’ una città moderna, nuova e molta bella

però non e’ una città del mio popolo.

Ebbi molta difficoltà a comunicare con la

gente che non e’ la mia gente, anzi e’ il mio

occupante da più di quarant’anni, ma tutto

questo non aveva importanza alcuna visto che a

pensarla in quella maniera c'ero solo io, le

forze mondiali o meglio le super potenze

(meglio chiamarle cosi se no qualcuno si

offende) la pensano diversamente!

Non vedevo l’ora di lasciare la bella città

delle costruzioni enormi, delle macchine

lussuose e della gente elegante, volevo

arrivare a Safarin dove le costruzioni sono

ancora di terra cotta, dove le macchine sono

meravigliosamente gli asini e dove la gente

indossa ancora il Kumbaz1 e la Kufia2.

Agli orecchi dei passanti Safarin sembrava una

parolaccia, nessuna mi sapeva dire come potevo

fare per arrivarci, povero villaggio mio non

ti conosce più nessuno o forse ti hanno

1 È 2 È un abito caratteristico lungo che indossano i contadini palestinesi

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cancellato dalla loro mappa. Pero neanche

questo importava che vuoi che sia cancellare

il nome di un villaggio in confronto della

cancellazione d’identità dei popoli interi!

Allora provai a chiedere di Nablus, almeno

questa e’ una gran città dove risiedono ancora

palestinesi sotto il dominio israeliano, anche

questa importava poco, se é sotto il dominio

Israeliano o un altro dominio, l’importante

era arrivare a Safarin, purtroppo i miei

tentativi erano tutti inutili, perché anche

Nablus l’hanno cambiato il nome.

Mi dissero alla fine, e dopo quattro ore di

girare, che l’unico modo era arrivare a

Gerusalemme e poi da là potevo trovare il modo

per arrivare a Safarin.

Il viaggio con il pullman fu comodo e piegò

quattro ore.

Arrivai a Gerusalemme Est (dove gli abitanti

sono tutti israeliani) anche qua non fu

emozionante per niente, era un’altra città

moderna e basta.

Fermai un taxi e gli dissi di portarmi a

Gerusalemme Ovest (dove sono i palestinesi),

per la mia fortuna questo parlava l’arabo,

quindi mi spiegò a lettera quello che dovevo

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fare per arrivare al villaggio dimenticato dal

tempo.

Quando il taxi si fermò ed i miei piedi

toccarono per la prima volta la terra più

amata, dai miei occhi scorreva un fiume di

lacrime.

Fu un’emozione terribile, unica,

indescrivibile ma bella. Non avevo mai visto

la mia Palestina, perché quando gli israeliani

con l’aiuto della potenza prima e della super

poi ci cacciarono fuori dal nostro villaggio

avevo gli occhi ancora chiusi.

Mia madre raccontò che quando ci cacciarono

via dal nostro villaggio, non portammo con noi

nulla se non quattro figli il più grande di

quindici anni e il più' piccolo stava ancora

nella culla e quest'ultimo ero proprio io,

quindi non ebbi mai la possibilità di

rivederla, ma questa volta grazie al mio

passaporto italiano mi fecero entrare.

Grazie Dio, grazie Italia, pensavo di morire

senza nemmeno vederla!

Asciugai le lacrime e recai al primo albergo

più vicino, il tempo di farmi la doccia che

stavo già per le strade di Gerusalemme

malgrado la tardi ora.

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La mattina dopo mi svegliai e subito a

prendere un taxi insieme ad altri quattro

passeggeri, spostarsi da una città all’altra

si faceva con questi taxi che chiamavano

macchine di servizio, arrivammo a Nablus dopo

quasi due ore. Presi un altro taxi sempre

insieme con altri passeggeri, e la cosa bella

che il tassista partiva solo quando stava al

completo, vale a dire cinque passeggeri, e

quando gli altri passeggeri non arrivavano mi

veniva di pagare per cinque persone cosi

partiva, però avevo il dubbio che poteva

essere un gesto offensivo.

Arrivammo dopo quasi quaranta minuti a

Tulkarem, e’ il capoluogo del mio villaggio.

Chiesi, allora, dai taxi che portano a Safarin

e mi affermarono che non c’erano. “Nel

piazzale dietro trovi alcune macchine ferme

forse qualcuno di loro ti può portare ” disse

uno di loro.

In quel piazzale trovai delle persone unite

dalla disperazione e dalla disoccupazione e

delle loro macchine fanno una specie di taxi.

Il taxi che accettò di portarmi era una pegeut

405 station wagon anni cinquanta, fu un

viaggio divertente e bellissimo. Sulle strade

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asfaltate (ed erano contate) andavamo a 30 km

l’ora, mentre su quelle non asfaltate (quasi

tutte) andavamo a 10 km l’ora ed ogni volta

che beccavamo una buca si apriva lo sportello

vicino a me, e con il disaggio dell’autista

che mi diceva, ogni talvolta, che si apriva:

guarda che non hai chiuso bene lo sportello.

Arrivammo finalmente a Safarin, e quando

l’autista mi chiese dove mi doveva lasciare,

Non sapevo che rispondere, che gli dicevo

lasciami in Oxford street o in Via Roma, ma se

non ci sono le strade come fanno ad averne i

nomi!

Cominciai a chiedergli se conosceva qualcuno

dei miei parenti e gli dicevo i loro nomi,

alla fine mi portò proprio a casa di mio zio

quello che stava in coma.

Quando la macchina cominciò ad attraversare i

vicoli del villaggio tutta la gente si

chiedeva che fosse questo straniero, non mi

conosceva nessuno e non conoscevo nessuno se

non un cugino che studiava in Italia anche

lui.

Mio zio stava proprio agli ultimi sospiri, mio

cugino mi presentò, e sdraiato a letto mi

abbracciò forte, sembrava la forza per

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aggrapparsi alla vita, le mie lacrime si

confondevano con le sue e quelle di mio padre,

solo allora capii quelle lacrime del mio papà.

Quando con la voce quasi inesistente provai a

dirgli che mio padre gli mandava tanti saluti

e abbracci e che malediceva il mondo che gli

ha impedito di vederlo, coprì con le mani quel

viso pieno di tante rughe, che sembravano

volere designare la mappa della Palestina che

il mondo cancellò ma non dal suo viso, e

scoppiò un pianto doloroso al punto che

cercavano di calmarlo piangevano anche loro,

soprattutto quando mi disse: non vedrò mai più

tuo padre, è vero?

Per alleggerire un po’ l’atmosfera, mio cugino

mi portò fuori casa, e mi fece vedere in

mezz’ora tutto il villaggio:

Sono passati trent’anni da quando fummo

cacciati ma la nostra casa è rimasta in piedi

fedele per il nostro ritorno, i campi d’oliva,

di frutta anch’essi sono rimasti a difendere

il nostro villaggio dall’occupazione, tutti i

parenti rimasti là con il gran coraggio di

sopravvivere per conservare l’identità di un

popolo che il mondo cattivo vuole cancellare e

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per rimanere una spina nella gola degli

occupanti.

Passai una settimana nel mio stupendo

villaggio, che non lo cambierei per nessun

posto al mondo nemmeno per Roma o Parigi.

Queste due bellissime città sono ricche di

monumenti unici, di storia e civiltà a

differenza del mio villaggio che non ha niente

di tutto questo neanche la corrente e l’acqua

però lì ci sono nato e lì ci sono le mie

radici!

E poi giunse il momento della partenza,

salutai tutti con altre lacrime ancora e per

ultimo mio zio, cosa che non avrei voluto fare

mai, quando mi vide disse: pensi che vedrò tuo

padre?

Non avevo altre lacrime neanche la voce per

rispondere, scossi la testa come per

affermargli che l’avrà visto. Mi girai le

spalle senza aggiungere una parola lo lasciai

là sul suo letto senza nessuna speranza di

vita ma con l’unica speranza di vedere il

fratello.

Mentre il taxi che attraversava molto

lentamente i veicoli del mio amato villaggio,

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nella mia menta scorrevano solo le immagini di

mio padre e di mio zio e tante domande.

La Prima era cosa doveva raccontare a mio

padre?

La seconda era ritorneremo per sempre al

nostro villaggio che non dimenticheremo mai?

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’intercity delle 22.20 per Venezia Mestre

in partenza dal terzo binario ” rimbombò la

voce dall’altoparlante nella incasinatissima

stazione di Roma mettendo in agitazione la

gente incrodata per fare il biglietto. Per la

mia fortuna ero arrivato in anticipo e da

vanti a me c’erano rimaste solo due persone.

“Mi fa passare davanti a lei a fare il

biglietto se no perdo il treno ” disse una

ragazza rivolgendosi a me.

Senza aspettare la mia risposta la trovai

davanti: “Grazie mille, non conosco Roma bene

e mi sono persa in mezzo il traffico ”

aggiunse. Fece il suo biglietto e aspettò

finché non feci il mio e camminando verso il

terzo binario mi disse: “Allora anche lei sta

andando a Venezia, ci va per lavoro o per

altro?

“Per lavoro ” le risposi

Si fermò di fronte ad una cabina e disse:

possiamo salire qui che é vuota.

Volevo solo dormire, anche perché il viaggio

era lungo ed il sonno mi bruciava gli occhi,

era diventata un’abitudine dormire durante i

La Ragazza Del Treno

“L

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lunghi viaggi nonostante l’insicurezza sui

treni.

“Ti ringrazio veramente, se non fosse stato

per te sarei rimasta fino a domani mattina

alla stazione ” disse la ragazza tirando fuori

della sua borsa un libro.

“Non mi devi ringraziare, ho fatto quello che

mi sentivo di fare ” le risposi, pensando che

s’era infilata davanti a me senza il mio

consenso.

“Adesso mi sento decisamente sicura nella tua

compagnia sai cosa vuol dire per una ragazza

viaggiare di notte da sola?” aggiunse.

“Lo so, é dura, soprattutto in questi giorni,

comunque se vuoi dormire stai tranquilla, é

difficile che io mi addormenti ” le risposi.

Mi veniva da ridere ricordando quel maledetto

viaggio da Milano a Roma e coltempo non volevo

raccontarlo a lei per non impensierirla.

Quella volta avevo preso il treno da Milano

verso le due del mattino, avevo lavorato tutto

il giorno ed ero stanchissimo, però era

l’ultimo del mese, avevo preso lo stipendio e

non vedevo l’ora di vedere mia moglie e mia

figlia che abitavano ancora a Roma.

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Salì sul treno, cercai una cabina vuota, tolsi

le scarpe e dopo pochi secondi stavo già in

profondo sonno.

“Biglietto prego, biglietto prego ”.

Con tanta difficoltà aprì gli occhi, glilo

mostrai , e lui augurandomi un buon viaggio

spense la luce. La stanchezza era tanta e così

anche il sonno, pensando alle cinque ore

rimaste per il mio viaggio tornai a dormire.

“Svegliati, hei sveglia ”, questa volta la

voce era roca, pensavo che stessi sognando, ma

una mano mi scuoteva con una certa forza e la

voce roca arrivò di nuovo “svegliati, siamo a

Roma ”.

Mi svegliai intontito, cercavo di alzarmi ma

non avevo tanta forza, mi sentivo debole, e se

non era per la mano del poliziotto che mi

reggeva sarei caduto per terra.

“Dove hai il portafoglio ” mi chiese un

poliziotto.

Allungai la mano alla tasca, ma non lo trovai,

mentre le grida della gente riempiva il treno

e mi svegliava dalla anestesia.

Ci portarono in questura per fare la denuncia

e ci spiegarono che dei banditi erano saliti

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sul treno, avevano spruzzato un spray per

drogarci.

Malgrado questo brutto episodio non avevo mai

rinunciato a dormire sui treni, l’unica cosa é

che non portavo più soldi nel portafoglio.

“Un bellissimo libro, l’ho appena finito ”

disse riportandomi di nuovo nella realtà

lontano da quell’incubo. E senza aspettare il

mio commento aggiunse: “parla di una storia

d’amore tra una ragazza italiana ed un

immigrato arabo, lei lo ama alla follia anche

se lui non la ama perché intende sposarsi una

ragazza del suo paese ” .

“Dovrebbe essere una storia interessante anche

se credo che sia difficile che due culture

diverse possano convivere sotto lo stesso

tetto e soprattutto se non sono uniti da

grande comprensione ” risposi.

“Io sono convinta che quando c’é l’amore non

ci sono ostacoli ”replicò.

“Direi che il rispetto é la base di ogni

rapporto, non vedi ”? le chiesi.

Sembrava essere scottata dal mio parere e come

se l’argomento la toccasse in prima persona

allora disse: “sai anche se il ragazzo la

maltrattava e la trascurava e soprattutto era

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intenzionato a sposarsi con una ragazza del

suo paese, lei lo stesso non se era rassegnata

perché lo amava veramente e poi al cuore non

si comanda, no?

L’argomento si fece sempre più sensibile, lei

sempre più agitata. Allora cercai di attenuare

la tensione dell’atmosfera e le dissi: “si,

hai ragione al cuore non si comanda, però, non

possiamo assecondare sempre i nostri cuori,

bisogna usare anche la testa per avere un

certo equilibrio ”.

Gli occhi mi cominciavano a bruciare, il treno

continuava la sua corsa rompendo il silenzio

della notte, e mentre lei seguiva il filo di

fumo della sigaretta le chiesi: “insomma,

com’é andata a finire tra loro?

“Per capire certe cose bisogna viverle, in

ogni caso ti consiglio di leggere il libro ”

rispose rassegnandosi ad un profondo sonno.

Quando la voce si diffuse tramite gli

altoparlanti annunciando l’arrivo alla

stazione di Mestre, aprì gli occhi, ma la

ragazza che non avevo neanche saputo il nome

non c’era più, andò senza neanche salutarmi!

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Notte d’estate, notte di mondiale, pur di

seguire tutte le partite indiretta mi ero

addormentato sulla poltrona che insieme con un

tavolo, quattro sedie ed un televisore anni 70

b/n faceva parte del molto modesto arredamento

di un salotto adatto per una casa dove

vivevano quattro studenti palestinesi al loro

primo anno d’università.

Quella notte mi sentivo particolarmente

stanco, non so dire se a causa delle partite o

l’ansia dell’esame del giorno dopo. La cosa

certa che sono crollato su quella poltrona con

tutti i miei pensieri che erano rivolti a

Boccaccio, visto che l’esame del giorno dopo

era proprio la storia contemporanea.

Mentre mi stavo ripetendo l’anno della sua

nascita sentii bussare alla porta di casa in

modo molto violento, pensai per un istante che

L’ACHILE LAURO

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avessi sbagliato la sua data di nascita,

invece i colpi violenti sulla porta di legno

aumentarono sempre di più.

Mi alzai impaurito e andai verso la porta e

dissi: chi é?

- Polizia apri

Guardai dalla spia ma non vidi niente allora,

sempre più impaurito dissi:

- Fatemi vedere qualcosa che lo dimostra

I colpi sulla porta sono sempre più forte

- Apri subito

Non aprii, andai da uno degli amici che

abitavano con me e gli dissi: dicono che sono

poliziotti che faccio li devo aprire?

Con tutto il sonno del mondo negli occhi ed

incoscientemente mi disse: apri, altrimenti

che fai?

Nel momento in cui aprii la porta mi buttarono

per terra

- Non ti muovere se no sparo! Disse uno di

loro

Accucciato come un gatto impaurito non ebbi

nemmeno la forza di rispondere.

Mentre entrarono altri ed altri ancora e

svegliarono i miei amici ovviamente con le

mitre rivolti su di loro.

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In quel periodo ci fu il sequestro

dell’Achille Lauro, noi leggevamo sempre ogni

evento che riguardava i palestinesi o gli

arabi in generale, ed era ovvio se prendevi

qualsiasi giornale lo trovavi aperto

direttamente sulla cronaca estera.

Quando loro hanno trovato questi giornali e

tutti sullo stesso argomento; “L’Achille

Lauro”, pensavano di aver trovato i

responsabili ossia l’indizio che gli portasse

ai responsabili di quell’operazione che in

ogni modo io condanno.

Avevano cercato tutta casa, l’avevano messa

sotto sopra e alla fine non trovando niente

che ci possa condannare ci portarono via con

loro.

Abitavamo dentro una palazzina dove c’era un

cortile largo per le macchine degli abitanti,

e quando siamo scesi da casa due di loro mi

presero a parte dove era parcheggiata una

macchina BMV e mi dissero di aprirla, e io gli

risposi che non era mia, a quel punto uno di

loro mi disse: si, ma tu sai come fare per

aprirla. Gli risposi che non so niente di

niente, poi mi chiese se ero io il capo

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gruppo, e gli risposi che non esisteva nessun

gruppo.

Alla fine ci portarono alla questura centrale,

ogni uno di noi dentro una macchina di

polizia, a dire la verità in quel momento mi

ero sentito un vero terrorista ma non avevo

minimamente paura.

Arrivammo alla questura e ci fu un piccolo

interrogatorio: chi vi paga? A quale gruppo

terroristico appartenete? Dove nascondete le

arme?

E non trovando risposte che potessero

soddisfare i loro dubbi e condannassero noi,

ci portarono nelle celle buie e brutte

ovviamente ogn’uno dentro una cella e non

tutti insieme come avremo tanto preferito per

essere la prima esperienza!

Quando sentii le sbarre a chiudere dietro a me

allora mi resi conto che avevo molta paura,

uno perché, appunto, era la mia prima e unica

volta dentro una cella, due perché era troppo

buia, tanto é vero che quando i mostri della

mia cella mi saltarono a dosso chiedendomi una

sigarette non ebbi il modo di vederli ma solo

di sentire le loro voci.

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I miei compagni di cella, scoprii dopo essermi

abituato al buio, che erano quattro, qualcuno

fu arrestato per motivi di droga, altro per

armi, ecc. ed il piccolo io, lo studente

universitario arrestato per motivi

sconosciuti, anzi per motivi d’identità,

motivi di nazionalità pericolosa e per essere

nato nell’amata Palestina!

In un secondo solo avevo programmato un piano

e cioè di far impaurire loro per non far

capire a loro la mia fottuta paura, allora nei

due metri di cella arrivai al muro e gli diedi

un cazzotto, ritornai all’altro muro gli diedi

un altro cazzotto e quando uno di loro mi

chiese il perché mi avevano portato lì, gli

risposi subito di non capire il suo dialetto

essendomi palestinese e credo che in quel

momento mi sono sentito molto orgoglioso di

essere palestinese perché ha funzionato per

fargli paura.

Passai tutto il tempo sveglio, loro erano

abituati a dormire su quel cimento armato

avvolti con una schifosa coperta.

All’improvviso sentii il rumore del cancello

della cella ad aprirsi, mi svegliai dal sonno

tutto impaurito mi alzai, guardai l’orologio,

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andai a lavarmi il viso e mi resi conto di

aver dormito male su quella poltrona. Fece

colazione e mi recai all’università per fare

il mio primo esame in ogni caso fu bocciato

non so dirvi se era l’incubo o perché non ci

ero proprio andato a fare l’esame!

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L’idraulico

La mattina dopo sarebbe venuto l’idraulico per

sistemare le ultime cose nella sua nuova

abitazione. Era il primo giorno dentro una

casa indipendente, tutta sua "Finalmente posso

fare ciò che voglio senza chiedere permesso a

nessuno” si diceva.

Con tutta la felicità della nuova casa era

caduto in un profondo sonno con un sorriso

vittorioso e un pensiero rivolto

all’idraulico.

Fu lo squillo del telefono a rompergli i primi

secondi di un felice sonno:

- Pronto

- Ciao Marco, sono la mamma, ti ricordi che

domani mattina deve venire l’idraulico?

- Si mamma ricordo bene, mi vuoi lasciare in

pace a godere la mia casa!

- Si amore di mamma,buonanotte.

Ritornò a dormire pero’ il telefono squillò di

nuovo:

- Si sono Marco e tu chi sei?

- Scusami se ti ho svegliato, sono Marta

- No, non preoccuparti

- Volevo invitarti a colazione, che dici?

- Ok, una buon’idea. Ci vediamo fra un’ora

Marta.

E’ stato solo il tempo di mettere la cornetta

a posto ed ecco un’altra voce femminile che

gli disturba il sonno e gli rallegra l’animo:

- Chi e’?

- Ciao Marco, sono Elena, come va?

- Buongiorno Elena, che bella sorpresa!

- Volevo sapere se possiamo pranzare insieme,

oppure hai altri impegni?

- No affatto, nessun impegno,una ottima idea,

ci vediamo alle due.

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“ Sembra che la casa nuova mi porti fortuna e

tante donne” si diceva,e neanche il tempo di

pensarlo che sentì bussare alla porta.

- Chi e’?

Apri, sono Marta, visto che hai fatto tardi al

nostro appuntamento ho pensato di passare

direttamente a portarti la colazione e così

tifaccio gli auguri per la casa nuova.

- Sei gentilissima, vieni dentro.

- Ti vedo imbarazzato Marco o mi sbaglio?

- No, assolutamente

- Meriti tutto il mio amore, vieni vicino a me

che ti coccolo un po’.

Lei si avvicinò e mentre stava per baciarla i

colpi sulla porta aumentarono per svegliarlo

impaurito dal suo profondo sonno.

- Chi é?

- Apri sono l’idraulico!

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I ricordi di un pollo

Caro mio fratello professore, La Makluba é quel timballo di riso con pollo e melanzane rovesciato sul grande piatto d’alluminio, decorato con pinoli e mandorle tostate, senza l’aggiunta del prezzemolo, che a te fratello, non piaceva. Era il piatto tipico palestinese più amato dai nostri stomachi. Caro mio fratello professore, Ho scelto te per le mie parole perché nessuno meglio di te può ricordare quei giorni, ed a nessuno più di te piaceva mangiare la Makluba i cui ingredienti variavano secondo la tua presenza. Quando il silenzio regnava dentro casa ciò significava che avresti pranzato con noi e la Makluba si presentava con il riso, il pollo, le melanzane, niente prezzemolo, niente cavolfiore e con le tante mani che si allungavano per prendere il riso con buone maniere e tanta educazione. Caro mio fratello professore, Ti confido che le nostre buone maniere e l’educazione alle quali tu severamente ci tenevi, venivano a mancare quando ritardavi per il pranzo. Passavamo tutto il tempo a giocare fuori nel cortile e non a studiare come ti dicevamo, finché non ci giungevano gli odori della Makluba quasi contemporaneamente alla voce di nostro padre che, per elogiare l’arte culinaria di nostra madre, le cantava le serenate d’amore. Allora capivamo che la Makluba ci stava aspettando, così ci affrettavamo avidamente ad occupare posti attorno al delizioso piatto.

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Sotto gli occhi orgogliosi e felici dei nostri genitori cominciava la battaglia della Makluba; si alzavano nove mani e, con la velocità di un falco lanciato per afferrare la sua preda, così le nostre mani raggiungevano il piatto di Makluba nel tentativo di catturare il pezzo di pollo preferito. Tutto questo, ovviamente, dopo che nostra madre aveva liberato dalla nostra fame il petto di pollo e lo aveva nascosto per te, mentre la battaglia diventava rovente. Qualche fratello gridava addolorato per una spinta o per un pizzicotto, un altro rubava il pezzo di pollo all’altro, mentre si alzava la voce di nostro padre che c’invitava alla calma assicurandoci che il cibo era sufficiente per tutti. I nostri genitori non partecipavano con noi, ma aspettando il tuo arrivo, si limitavano a guardarci con tanti sorrisi che forse per loro avevano un certo significato! Poi arrivavi tu e la battaglia della Makluba cessava, con tanta calma prendevi posto e con la stessa cominciavi a mangiare in compagnia dei nostri genitori, e così cominciava un’altra battaglia tra te e loro; quando tu cercavi di dividere con loro la tua parte del pollo e i tuoi tentativi fallivano di fronte all’insistenza di nostro padre che ti diceva: che Dio ti benedica figlio mio, tu sai bene che io non mangio del pollo se non il collo e le ali. Invece con la sua voce fine nostra madre ti diceva: che Dio ti protegga figlio mio, tu sai bene che non ho i denti buoni per mangiare il pollo, mettimi solo due chicchi di riso! La vostra battaglia cessava con la tua rassegnazione di fronte alla loro insistenza e con il tuo rifiuto di mangiare da solo tutto il petto del pollo, perciò, ti alzavi

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lasciando più della metà sopra il piatto del riso. Caro mio fratello professore, Ti confesso che io rimanevo indifferente a quelle loro parole soprattutto perché il mio pezzo di pollo l’avevo ingordamente mangiato, Però non rimanevo altrettanto indifferente quando vedevo che quello che lasciavi del tuo pezzo di pollo era più di quello che mangiavi e nello stesso tempo non trovavo nessuna spiegazione! Caro mio fratello professore, La situazione dei palestinesi, come dicevi, era molto difficile e la povertà dominava tutte le loro case, forse per questo che tu lasciavi il tuo pezzo di pollo, con la speranza che uno dei nostri genitori lo mangiasse? Forse per questo nostro padre ci diceva che gli piaceva solo il collo e le ali del pollo? Forse per lo stesso motivo nostra madre ci diceva che non aveva i denti buoni per mangiare il pollo? Caro mio fratello professore, La situazione difficile e la povertà, della quale mi parlavi, adesso è cambiata, almeno possiamo mangiare quanto ne vogliamo di pollo! Caro mio fratello professore, Che gusto ha, però, mangiare il pollo se non c’é più nostra madre! Caro mio fratello professore, Scusami se non provavo le cose che provavi tu! E solo perché non le capivo!

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La Storia Di Roberta

“Ti racconto una storia Shaden, così ti

addormenti. E’ la storia di una ragazza che tu

conosci”.

“Chi è questa ragazza papà?”

“Ti ricordi Roberta?”

“ Quella che mi faceva i tatuaggi quando ero

piccola?”

“Si, é proprio lei Shaden…”

“ Ebé che ha fatto?”

“Ora ti racconto tutto, intanto dici alla

mamma di farci una tazza di té alla menta e

poi vieni a metterti vicino a me”. Lei obbidi.

Nel frattempo mi ero sistemato il mio angolo

notturno; il materasso e i cuscini sul

tappeto, il posacenere e le sigarette, un

libro che avevo iniziato a leggere, quaderno e

penna per prendere qualche appunto.

Amavo molto sdraiarmi per terra, ora a leggere

un libro, ora a guardare la televisione oppure

a giocare con la mia piccola Shaden, passavo

le ore in quell’angolo. Era l’unico modo per

sentirmi vicino alla mia terra, alle mie

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tradizioni e alla mia gente.

Mi ricordo bene, vent’anni fa, il giorno in

cui ero arrivato in Italia, avevo tagliato

ogni legame con il mio vecchio mondo, e più

anni passavano più mi trovavo lontano dal mio

passato, dalle mie tradizioni e dalla mia

religione ma soprattutto mi trovavo con una

nuova identità.

“E’ pronto questo té Shaden?”

“Si, quasi pronto papà, un attimo e te lo

porto”.

Qualche anno prima che nascesse Shaden

quest’angolo non esisteva, al posto del té

alla menta c’era l’immancabile birra doppio

malto ed una confusione mentale; non sapevo se

ero ancora musulmano o altro, se ero ancora

orientale o ormai occidentale, se mi dovevo

comportare in una maniera o un’altra ecc..!

Finché non arrivò lei e la mia vita fu

travolta da un’ondata di coscienza; solo

allora capì che non avevo mai negato la mia

identità o le mie origini ma le avevo

semplicemente sepolti, ed era giunto il

momento di tirarli fuori. Era un dovere far

capire a Shaden le sue origini e la sua

religione in maniera che lei potesse scegliere

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quando crescerà.

“Papà, non ti sei mica addormentato? Guarda

che mi hai promesso di raccontarmi la storia

di Roberta”

“Versami una tazza di té che ti racconto

tutto”

Shaden versò il tè ed io cominciai:

“Non so Shaden se tu sai che Roberta conviveva

con un uomo da quasi quattro anni. All’inizio

era tutto bello ed era molto felice, però

negli ultimi tempi le cose erano cambiate; non

si parlavano più e sovente litigavano per dei

motivi molto banali e com.. ”

“Quali sono questi motivi, papà?”

“Per esempio l’ultima volta che sono stato a

casa loro avevano litigato a causa della

cipolla”

“Cosa c’entra la cipolla? Mi chiese con un

tenero sorriso

“Hai ragione Shaden, sembra buffo ma è la

verità, lui le sgridò: sono quattro anni che

stiamo insieme e tu metti ancora la cipolla

nel sugo!

E lei con una voce ancora più violenta gli

rispose: ma tu mi devi dire il ragù senza

cipolla che ragù è?

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“Ti ricordi quando siamo andati al teatro, io

ero venuto con te anche se non mi piaceva,

l’avevo fatto solo per farti felice”. Lui

replicò

“E con questo?” commentò lei

“Con questo voglio dire che tu non dovevi

mettere la cippola” rispose lui convinto.

Shaden scoppiò a ridere, io presì una

sigaretta, la accese e versai un altro po’ di

té.

“Tu ridi Shaden ma è così quando manca il

dialogo in un qualsiasi rapporto - una figlia

con i genitori, un amico con un altro oppure

un marito con la moglie- sarà molto facile che

questo rapporto si rompa, hai capito papi?”

“Vuoi dire che il motivo era perché non

avevano più dialogo?”

“Si, esattamente così, i loro problemi non li

avevano mai risolti radicalmente ma si sono

abituati a convivere con essi finché era

arrivato il momento che nessuno di loro due

poteva sopportare l’altro.

Infatti, un giorno lei tornò a casa distrutta

dal lavoro e trovò una bella sorpresa, un

biglietto scritto da lui: addio Roby, é tutto

finito, ti auguro tanta fortuna.”

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“Quindi l’ha lasciata?

“Si, si n’andato senza neanche aver parlato

con lei per risolvere i problemi, ammesso che

dei problemi seri ci fossero stati”.

“ papà, non è meglio così, almeno non litigano

più, no?

“Si, anche io la penso come te Shaden visto

che non hanno mai voluto parlarne”

“Invece Roberta che dice?

“Ho sentito che lei ha sofferto molto la sua

lontananza e che ha capito di essersi

innamorata solo dopo che lui si n’era andato.

Ma secondo me lei non era innamorata ma

semplicemente si era abituata a lui, quindi le

manca la sua presenza, la vita che ha condotto

per tanti anni con lui, la routine.

Dal giorno in cui lui s’era andato che lei non

andava più a lavoro, aveva pensato mote volte

di uccidersi: “Se avessi il coraggio mi sarei

tolta la vita” disse una volta a Sandra la sua

amica del cuore e dei dolori. Poi aveva

pensato di andare lontano, molto lontano

magari in qualche isola dove non vive nessuno

ma anche quest’idea fu scartata pensando alla

paura di stare sola avvolta dalle tenebre

della notte.

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In realtà lei cercava un’alternativa qualsiasi

per uscire dalla sua solitudine. Non aveva mai

pensato a quello che era successo o perché era

successo. Lei in fondo non era triste perché

il suo uomo l’ha lasciata, ma per il fatto che

sta sola a vivere nel vuoto.

“Volete vivere notte di mille e una notte,

volete conoscere le emozioni di un amore

platonico?Le nostre ballerine di danza del

ventre saranno in vostra compagnia per la

serata inaugurale del Falafel, il primo locale

arabo a Mestre…Non mancate”

Saltò dal divano con il giornale in mano,

lesse l’annuncio ad alta voce come per

convincersi dell’idea, chiamò subito Sandra,

le disse dell’inaugurazione di questo nuovo

locale e della sua intenzione di andarci.

Davanti l’insistenza dell’amica sofferente,

Sandra non ebbe il coraggio o il modo di dire

no alla proposta di passare la serata al

Falafel.

“Ci vediamo sotto casa mia alle otto in punto”

disse Roberta all’amica convinta che in quel

locale avrebbe trovato l’amore perduto.

Le attese di Roberta non erano tanto lontane

da quello che ha trovato; locale bello e

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accogliente, personale simpatico e gentile ed

una notte da mille e una notte, era così

stupita e coinvolta dalla bravura delle

ballerine che in fin di serata ballò anche

lei.

“Come ti è sembrato il locale Sandra?

Sandra è una ragazza timida, molto equilibrata

e difficilmente sbilanciata ma soprattutto

amava stare sola a differenza dell’amica.

“E’ un bel locale, abbiamo passato una serata

diversa, ci ha fatto bene, soprattutto a te

Roby, No?

“Si, credo che tu abbia proprio ragione, ma

poi hai visto come mi guardava quel ragazzo

che ci ha servito il té! Mi ha chiesto anche

il numero di telefono”.

“Vai con cautela Roby che ancora lo devi

conoscere”.

“Guarda che è diverso dagli altri, è molto

colto, mi ha già stregato con il suo modo di

parlare del suo mondo e della sua cultura”,

replicò Roberta

“Stai attenta a quello che fai, non farti del

male e pensa solo a stare bene”. Con queste

parole Sandra salutò Roberta augurandole una

buona notte e tanta fortuna.

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Un giorno telefonai a Roberta per sapere come

stava, era passato tanto tempo senza sentire

le sue notizie, dalla sua voce traballante

capì che aveva superato quella crisi, m’invitò

a casa sua a prendere un caffè ed io accettai

volentieri l’invito.

“Questo è Musa, il mio principe d’oriente ”

disse presentandomi il ragazzo che quando

arrivai a casa sua era abbracciata a lui.

Era seduto vicino a lei sul divano, parlava

piano e con buone maniere ed aveva veramente

l’area del sultano o del principe, non certo

per il suo modo di parlare ma per il fatto che

non si muoveva, lei gli faceva tutto, gli

sbucciava la frutta e gli la imboccava, gli

accendeva la sigaretta e gli la metteva in

bocca…ecc.

“Mi ha fatto piacere rivederti Roby, spero che

adesso stai bene!” le disse mentre la stavo

salutando sui gradini della porta.

“Si, sto molto bene, questa volta ho trovato

l’uomo che fa per me, che mi ama, sono proprio

innamorata” commentò lei con un sorriso timido

“Roby, invece io credo che tu stia abituando

di nuovo alla presenza di un altro uomo nella

tua vita e non che ti stia innamorando ”, le

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dissi mentre salivo in macchina alzando la

mano per augurarle la buona notte.

“E’ rimasto del té Shaden?

Guardai a Shaden e la trovai addormentata con

un sorriso che le riempiva il viso, pensai che

forse s’era addormentata quando le raccontai

della cipolla, le diedi un bacio, spinse la

luce e mi addormentai vicino a lei.