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Racconti di guerra

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Laboratorio di scrittura

II A e II B

Scuola Secondaria I grado

E. e P. Prandoni ,Torno

a.s. 2014-2015 2

INTRODUZIONE

Quest’anno, durante il laboratorio pomeridiano del mercoledì, noi alunni delle

classi 2^A e 2^B abbiamo seguito un laboratorio di scrittura, tenuto dalla

professoressa Grazia Miccolis.

Nel primo quadrimestre ci siamo esercitati sui vari generi di racconto e stili

di scrittura.

Nel secondo quadrimestre abbiamo deciso di scrivere alcuni racconti storici

legati alla Grande Guerra poichè quest’anno ricorre il centenario dell’ingresso

italiano nella Prima Guerra Mondiale.

Il racconto storico è una storia verosimile ambientata in un tempo reale e

storico. Quindi prima di metterci al lavoro la professoressa ci ha mostrato

presentazioni, filmati e immagini sull’argomento. Una volta scesi nel laborato-

laboratorio di informatica della scuola, abbiamo iniziato ad approfondire

l’ambiente del nostro racconto con delle ricerche. Dopo aver raccolto il mate-

riale, divisi in coppia, abbiamo iniziato a scrivere i nostri racconti. Essi sono

stati sviluppati con l’acrostico di una parola chiave, che ognuno di noi ha scel-

to per il proprio racconto: la storia è inventata, l’ambientazione è reale, sto-

rica e circostanziata. Terminati i racconti abbiamo iniziato a illustrarli con

disegni, legati al loro acrostico. Per la realizzazione dei disegni abbiamo avu-

to il sostegno della professoressa Tiziana Tettamanti. Successivamente, ab-

biamo aggiunto a ogni testo il corrispettivo disegno. Abbiamo infine realizza-

to una raccolta di tutti i racconti. Il primo racconto “Un calcio alla guerra” è

stato scelto per partecipare ad un concorso intitolato “Racconta il tuo

sport”, poiché parla di calcio durante la Prima Guerra Mondiale. La classe ha

vinto un premio speciale.

Siamo convinti che tutti gli otto racconti siano belli e interessanti, pieni di

spunti di riflessione e colpi di scena, perciò…

BUONA LETTURA

I ragazzi del Laboratorio

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Un Calcio alla Guerra

Soldera Giuseppe era un ragazzo come tanti, nato nel 1898. Viveva a Vero-

na, in Veneto. La sua famiglia era abbastanza benestante: suo padre era un

avvocato piuttosto conosciuto in città e sua madre, contrariamente alle al-

tre donne del tempo, lavorava fuori casa, essendo direttrice di una scuola.

In famiglia tutti ascoltavano musica e leggevano grandi opere letterarie.

Giuseppe era diverso: lui amava stare tutto il tempo in giardino a giocare a

pallone, era innamorato pazzo del calcio.

Giocava nella società di calcio della sua città, l’Associazione Calcio Hellas,

fondata nel 1903 da alcuni studenti del liceo classico cittadino, sostenuti

dal loro professore di greco. Da qui il riferimento all’antico nome della Gre-

cia. A detta di tutti, Giuseppe aveva un grande talento per questo sport.

Giocava, giocava per ore e ore con il suo pallone senza pensare ad altro.

Quell’anno lui compiva diciassette anni ed era il 1915, proprio l’anno in cui

l’Italia entrò in guerra. Fino al 1917 la vita di Giuseppe, tutto sommato, non

era molto cambiata: tra grandi difficoltà, dovute alla guerra e alla crisi eco-

nomica di quei tempi, lui proseguiva i suoi studi, sperando di diventare un

giorno un bravo avvocato come suo padre e un grande campione di calcio. Co-

sì continuava a giocare con l’Hellas nel Campionato regionale, con l’obiettivo

di qualificarsi con la sua squadra alle finali nazionali. A diciassette anni que-

sti erano i suoi sogni, mai Giuseppe avrebbe immaginato che una lettera gli

avrebbe di colpo stravolto la vita: a soli diciotto anni era già sul fronte per

combattere contro gli Austriaci.

Quasi in ogni istante, un’idea, un pensiero fisso lo tormentava: il terrore di

morire si faceva sempre più angosciante, ogni giorno che passava. Il suo

compito era quello di stendere le linee telegrafiche nei luoghi di battaglia

presso Vittorio Veneto, sulle rive del fiume Piave.

Giuseppe era sempre più divorato dalla nostalgia della sua famiglia, ma forte

era anche la mancanza del suo sport adorato, il calcio. Lui avrebbe voluto

giocare ancora a calcio, andare a scuola, prendere bei voti, riabbracciare i

suoi parenti, ma nulla di questo era possibile. Chissà se poi sarebbe riuscito

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a sostenere una partita, mangiando così poco e male, sembrava più uno

scheletro che un valoroso calciatore dell’Hellas. Era da più di un mese che si

trovava sul fronte e il lavoro che gli avevano assegnato era assai faticoso.

La guerra si faceva sempre più brutale sia per i morti, i feriti… ma anche

perché ogni giorno si assisteva alla violenza, al dolore, alla disumanità. Giu-

seppe nonostante questi terribili momenti, riusciva ad essere ancora il ra-

gazzo di prima: salutava tutti i suoi compagni allegramente, cercava di tira-

re su il morale ai suoi amici e si mostrava sempre disponibile con tutti.

Una notte Giuseppe scrisse una lettera alla mamma per farle sapere come

stava, in un momento in cui sia l’artiglieria austriaca sia quella italiana ave-

vano cessato di sparare. Era uno di quei pochissimi spazi in cui si potevano

rilassare le orecchie e la mente. Scrisse la sua lettera con tutto l’affetto

possibile e facendo attenzione all’ortografia, così sua madre sarebbe stata

contenta, proprio come faceva a scuola. Era da più di due mesi che non

prendeva in mano una matita e un foglio, ma era ancora molto bravo nella

scrittura. Terminata la lettera, i suoi ricordi furono interrotti dai colpi di

artiglieria degli Austriaci che iniziarono di nuovo a sparare e lui fu co-

stretto a ripararsi nei cunicoli della trincea.

All’indomani Giuseppe andò in ben dieci centrali telegrafiche per rimettere

a posto i fili dell’elettricità e quel giorno fu per lui veramente snervante.

Mangiava pochissimo, rischiava ogni minuto di essere colpito e, chissà per-

ché, il pensiero del calcio diventava sempre più forte. Il calcio in quel mo-

mento era la sua voglia di vivere: voleva tirare ancora il pallone, voleva an-

cora segnare un goal, voleva ancora sognare di diventare un grande calciato-

re, ma ora questo non era possibile… e perché mai non doveva essere possi-

bile? Allora prese una decisione: andò convinto dai suoi compagni di trincea

che contava all’incirca venti persone e chiese loro se ci stavano a fare una

partita di calcio contro gli Austriaci! E loro incredibilmente, senza neanche

una esitazione, dissero tutti di SI!!!!!! Questo urlo si sentì fortissimo e solo

due cose mancavano per fare la partita:

la prima era chiedere agli austriaci se accettavano la sfida

la seconda era costruire un pallone con cui giocare.

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Nella trincea su venti persone ne avrebbero giocato undici più quattro ri-

serve, come in una partita vera.

Dopo aver scritto su un foglio la formazione, Giuseppe si ricordò che con

alcuni stracci si poteva fare un pallone di piccole dimensioni: non era gran-

ché, ma sarebbe stato l’unico possibile con cui giocare. Adesso mancava solo

sapere se gli austriaci accettavano e la partita si sarebbe disputata nella

terra di nessuno.

Riccardo, il compagno di Giuseppe mandò un biglietto alla trincea austriaca;

gli Austriaci, evidentemente stanchi anche loro della guerra, accettarono.

Allora Giuseppe e un soldato austriaco uscirono dalla trincea e pianificarono

tutto, poi chiamarono i loro “giocatori” e iniziò una partita avvincente con

attacchi e contro attacchi, fino a quando finalmente il risultato si sbloccò.

Il goal era dell’Italia, ma non di Giuseppe anche se fece l’assist.

Autogol, la partita cambiò e diventò 1-1.

In quel momento la sfida si fece più tranquilla e si stava andando verso la

fine della gara; successivamente tornò avvincente e a due minuti dalla fine

l’Italia ritornò in vantaggio 2-1 e questa volta segnò proprio Giuseppe con un

tiro, una vera fucilata, una Fucilata piena di vita, dalla distanza.

La partita terminò e festeggiarono tutti insieme, sia Italiani sia Austriaci.

La guerra ricominciò, ma Giuseppe non poté vederne la fine, perché una

“maledetta fucilata” lo colpì al petto e il suo sogno di diventare uomo e

campione di calcio svanì all’ istante.

FRANCESCO GALBIATI, MARCO PESENTI

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Vincitore del premio speciale al Concorso “ Racconta il tuo

sport” promosso dall’ACSI, IX edizione

Premiazione Terme di Caracalla, Roma, 23 maggio 2015

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Un’amicizia ritrovata

Pietro, un bambino italiano di nove anni, alto e magro con i capelli neri e gli oc-

chi marroni e Lucas, anche lui italiano, un bambino di nove anni magro e molto

alto con due occhi azzurri ghiaccio e dei capelli biondissimi, stavano sempre in-

sieme, dalla mattina alla sera: niente li poteva separare, andavano a giocare nei

campi e prima che diventasse buio tornavano sempre a casa insieme. Il loro le-

game era molto forte. Si ricordavano sempre il giorno in cui si erano conosciuti:

il primo giorno di scuola elementare, una scuola molto triste, ma non per le mae-

stre, bensì per il luogo sporco, pieno di muffa sulle pareti. La maestra comun-

que, come la scuola, non aveva un bell’aspetto: era una donna alta, con i capelli

ricci che sembravano quasi un cespuglio, un enorme neo sul naso e senza denti;

aveva assegnato a loro i posti vicini, da quel momento non si separarono più.

Improvvisamente una notizia li sconvolse: il padre di Lucas, un uomo d’affari,

per motivi di lavoro, doveva partire per Vienna insieme alla sua famiglia. I ra-

gazzi erano disperati perché questo significava non passare le giornate insieme

nei campi o a scuola. I bambini si fecero una promessa per riconoscersi in futu-

ro: promisero che appena compiuti sedici anni si sarebbero fatti tatuare un sole

sulla mano destra, in ricordo delle giornate trascorse insieme e della loro amici-

zia. Alla mattina successiva i due bambini si salutarono per l’ultima volta, gli

sguardi si incrociarono, i volti erano molto tristi e pieni di lacrime: la macchina

con Lucas si allontanava sempre di più, i bambini si sbracciavano nei saluti e im-

provvisamente si persero di vista.

Arrivato a Vienna, Lucas si sentiva molto solo, gli mancava il suo amico. Passato

qualche giorno, Lucas dovette andare a scuola, ma lì non conobbe nessuno che

potesse sostituire Pietro. Passarono anni e Lucas non si toglieva dalla testa il

ricordo di Pietro. Raggiunti i sedici anni senza comunicarselo, Pietro e Lucas,

come promesso all’ infanzia, si tatuarono il sole sulla mano destra.

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Il 28 giugno 1914 l’Austria fu sconvolta da una notizia, l’omicidio dell’Arciduca

Francisco Ferdinando e sua moglie Sofia. Qualche giorno dopo Lucas trovò un

giornale italiano sulla strada che parlava dell’ attentato. Il giornale riportava:

“l’Arciduca ereditario di Austria e la sua consorte assassinati a Sarejevo a colpi di rivoltella dopo il lancio di una bomba. Gli assassini sono di nazionalità serba. La dolorossissima impressione a Vienna, il cordiglio del mondo civile. La tragica notizia al vecchio imperatore“. Lucas rimase sconvolto da questa notizia e corse

subito a casa. Un mese dopo Lucas venne a sapere che l’Austria aveva dichiara-

to guerra alla Serbia. Lucas era molto fiero di andare in guerra per quello che

era accaduto all’Arciduca e sua moglie. La mattina successiva si recò in una

piazza con altri ragazzi, anche più piccoli di lui. Gli diedero le armi e... Iniziò la

sua avventura. La prima tappa fu quella dell’ addestramento con le armi. Di se-

guito i ragazzi dovettero costruire una trincea : uno stretto fossato scavato

per circa due metri di profondità e altrettanti di larghezza che si estendeva

per diversi chilomentri lungo il territorio di guerra. In un primo momento Lucas

era molto coinvolto perché considerava che il fatto accaduto all’Arciduca e sua

moglie fosse stato terribile per tutto l’ Impero Austriaco , ormai considerato

sua patria di adozione. Arrivato in trincea Lucas si rattristò e in quei giorni

pensava sempre più spesso a Pietro.

Volle il destino che nel 1915 l’ Italia entrò in guerra contro l’Austria. Lucas

aveva il terrore di trovarsi di fronte a Pietro e viceversa. Un giorno del 1915

Lucas uscì dalla trincea austriaca, con i suoi compagni nella terra di nessuno per

scontrarsi contro i soldati italiani. Lucas sapeva chi c’era nell’esercito opposto .

Riconobbe gli italiani dalla divisa che portavano: era blu, con una giubba e un

pantalone di maglia pesante. La giubba era ad un petto, con un colletto, degli

spallini a salsicciotto che erano fissati all’attaccatura delle maniche, alle mani

portavano dei guanti. Pietro sapeva che l’esercito contrapposto era austriaco

perché aveva sentito dei suoi compagni parlarne. Lucas a malincuore dovette

andare a combattere contro l’esercito italiano, ma dimenticò il guanto della

mano destra. Nell’esercito opposto anche Pietro dovette andare a combattere

contro gli Austriaci.

Iniziò la battaglia……una di quelle battaglie che non finivano più. Prima di andare

a combattere Pietro trovò una lettera, dimenticata nella trincea:

“Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto ti invio il mio Pensiero affettuosissimo. Un fuoco infernale di artiglieria e di bombarde 10

Non avevo mai visto tanta rovina. È terribile, sembra che tutto debba essere inghiottito da un’immensa fornace. Eppure, col tuo aiuto, coll’aiuto di Dio, da te fervidamente pregato, il mio animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo”. Nel leggere queste parole a Pietro si fermò quasi il cuore,aveva paura! Non

voleva più andare a combattere. Si nascose in un angolo “deserto” della trince-

a. Lucas non stava più nella pelle e voleva sapere se tra i soldati italiani c’era

Pietro, decise di passare dal retro della trincea, mentre tutti erano impegnati

a combattere. Lucas si spaventò quando vide un soldato italiano che gli puntava

il fucile contro, istintivamentre, per proteggersi il viso, alzò la mano destra.

Pietro si accorse del tatuaggio, abbassò il fucile, si tolse il guanto della stessa

mano e andò ad abbracciarlo.

Una volta ritrovati, non vollero più sopportare quella condizione e scapparono

insieme: erano diretti a Silandro, il posto della loro infanzia. Scapparono, ap-

pena arrivati in un posto tranquillo lontano dalle trincee, Pietro scrisse alla sua

famiglia una lettera:

Cari genitori, vi scrivo per dirvi che sono scappato dal mio esercito. Magari non tornerò o forse presto sarò a casa. Non vedo l’ora di abbracciarvi e ritornore a una vita normale: uscire con i miei amici, studiare, correre nei campi... questo poco tempo è stato un inferno; nei primi momenti della guerra avevo tanto entusia-smo, ma avevate ragione, la guerra non fa bene al cuore, anzi lo distrugge. Pietro PS Ho rincontrato il mio amico Lucas

E dopo due mesi, non sapevano neanche loro come, arrivarono a Silandro. Tutti

erano contenti del loro arrivo. Andarono nei campi a giocare agli stessi giochi

di quando erano piccoli e tutti e due si promisero che nessuno li avrebbe mai

separati.

Decisero di andare a visitare la loro vecchia scuola che non era cambiata, anzi,

sembrava addirittura peggiorata, ma la nostalgia era sempre più forte e deci-

sero di trasmettere questo sentimento ad altri bambini e così diventarono

maestri di quella scuola nella quale insegnarono fino alla pensione.

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Margherita Roscio e Arianna Orlando

Mario in guerra Doveva ancora compiere 18 anni, originario di Torno, sul Lago di Como, abitava

a Torino. Suo padre si era offerto volontario per andare in guerra e nella bat-

taglia di Caporetto era deceduto, ucciso da un cecchino austriaco. Pochi giorni

prima, alla famiglia era giunta una lettera dalla quale si capiva che il padre era

letteralmente sconvolto:

“Carissimo Mario, tra pochi minuti andrò all’ assalto, ti invio questa lettera; un fuoco spaventoso di artiglieria e bombarde sconvolge il terreno mentre ti scrivo, non avevo mai visto tanta distruzione, è terribile, sembra che tutto debba essere ingerito da un’ immensa fornace . Io farò il mio dovere fino all’ ultimo, ma tu, piccolo mio, non dovrai mai partire per la guerra. Ora ti spiego: il giorno prima che compirai 18 anni, se la guerra non sarà ancora finita, dovrai nasconderti nei boschi sul monte Musinè un monte sulla cresta orientale tra la Doria Riparia e Stura di Lanzo ed è situato a circa 20 Km da Torino. Ti voglio bene mio Mario. Tuo padre”

Il problema era che gli ufficiali dell’ esercito decisero di arruolare anche i co-

siddetti soldatini dell’ ‘99...I soldati sono appena entrati in casa di Mario an-

nunciando che il giorno successivo sarebbe partito per la guerra. Mario quindi

aveva solo un giorno per progettare la fuga, visto che l’indomani i soldati sa-

rebbero arrivati per portarlo via. Preparò lo zaino per partire ,contenente due

bottiglie di acqua dolce, una coperta, vestiti e riserve di cibo.

Si preparò per la partenza e nel cuore della notte partì , la sua meta erano i

boschi sul monte Musinè.

In mezzo al cammino i soldati lo sorpresero e lo minacciarono di morte se non

fosse tornato subito a casa e se lo avessero sorpreso ancora a scappare l’ a-

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Era quasi spacciato, ma poi decise di tentare di scappare nei boschi sopra a

Torno visto che in quei luoghi erano presenti pochi soldati e lui quei luoghi li

conosceva molto bene. Per arrivare in quei boschi serviva l’auto ma a quei

tempi erano rarissime allora pensò di andare a cavallo.

Raramente Mario era andato a cavallo perciò non fu un’ impresa molto facile

per lui. I soldati la mattina arrivarono a casa e chiesero alla mamma di Mario

dove fosse andato il figlio, la mamma rispose che la sera precedente era in

casa, ma al risveglio il figlio era scomparso.

Zaccaria, un soldato poco più grande di Mario, disse alla madre che doveva

ritrovare il figlio oppure sarebbe stata imprigionata; lei disse che non sape-

va dove fosse andato, ma al soldato non importava. La madre disse al soldato

di darle tempo, almeno due giorni, il soldato in un primo momento era irremo-

vibile, ma dopo un po’ cedette e la madre ottenne i due giorni.

Il giorno seguente la madre decise di recarsi a dorso d’ asino a Montepiatto

dove si era recato il figlio, ma non lo trovò. Il giorno dopo ricominciò le ricer-

che ma niente. Proprio quando credeva di non avere speranze, sentì una voce

leggera che sussurrava :” Mamma, che ci fai qui ?“ Lei rispose che i soldati

avevano scoperto la sua fuga, ma non sapevano dove si nascondeva. Il figlio le

disse di rifugiarsi con lui nei boschi e la madre accettò la proposta.

Omar, l’ ufficiale inviato il giorno seguente, giunse a casa di Mario, ma non

trovò nè lui nè la madre e andò a riferire l’ accaduto al superiore che ordinò

di cercarli e di procedere con l’esecuzione di entrambi; l’ufficiale si diede su-

bito alla ricerca, ma non trovò nulla; allora il superiore ordinò di abbandonare

le ricerche e di sorvegliare la casa che prima o poi sarebbero dovuti tornare.

Nonostante Mario e la madre non avevano lasciato tracce, i soldati continua-

rono a sorvegliare la casa, ma non immaginavano che Mario e la madre stavano

tornando per rifornirsi di cibo e acqua; erano quasi arrivati, ma all’ improvviso

videro i soldati che circondavano la casa, perciò non poterono entrare ma non

sapevano cosa fare perché non potevano entrare neppure nelle botteghe vi-

sto che erano ricercati e qualcuno avrebbe potuto denunciarli.

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Erano ormai spacciati, ma all’ improvviso a Mario venne il colpo di genio: ruba-

re lo zaino e il fucile di un soldato e camuffarsi.

Il piano riuscì ed entrò in casa, prese scorte d’acqua e cibo. Ora rimaneva solo

un problema: trovare un posto dove passare la loro vita visto che non era sicu-

ro stare nel bosco. Mario iniziò la ricerca di un riparo.

Pochi giorni dopo trovarono un signore anziano nemico della guerra che diede

loro ospitalità e quando morì, visto che non aveva figli, lasciò la baita a loro e

così vissero per sempre felici e contenti nutrendosi di quello che la natura of-

friva.

Luca Caprani, Mattia Cattaneo, Mirco Gaffuri

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LA GUERRA È UNA “BELLA” COSALA GUERRA È UNA “BELLA” COSALA GUERRA È UNA “BELLA” COSA

25 settembre 1915, Como

Caro Tobia,

sei ancora vivo? Come va lì la situazione? Mi piacerebbe essere forte e coraggioso come te, per raggiungerti. Non so come fai a resistere, ma sappi che qui l’addestramento è più duro di quanto pensassi! Ho saputo che al fronte alpino nell’ultimo mese sono morti circa duecento soldati, un po’ per il freddo e un po’ per il resto. Sono davvero preoccupato per la tua vita. Ora devo andare a guadagnare qualche soldo per me e la mia sorellina. A presto, conto su di te. Simone

26 ottobre 1915, fronte dell’Isonzo

Caro Simone,

oh beh sì, qui “ tutto bene”, lì invece? Come sta la tua sorellina Alyssa? Come mi piacerebbe essere lì con voi per potervi aiutare! Ma purtroppo devo aspettare la fine della guerra. Quando tornerò stai sicuro che staremo insie-me e ci aiuteremo a vicenda. Sarà l’inizio di una nuova era. Ah e per risponderti alla seconda domanda… Io sono vivo!! Vado perché è in arrivo un nuovo attacco da parte degli austriaci. Tobia”

28 novembre 1915, fronte dell’Isonzo

Caro Simo,

la mano, che dolore! Scusa se scrivo così. Ma il problema è che il giorno dopo che ti ho scritto c’è stato un attacco quasi ben riuscito degli austriaci e mi hanno ferito la mano. Ti avrei voluto scrivere prima, ma non ho potuto. La fe-rita non è delle più gravi, così sono già quasi guarito. Peccato… Tobia”

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29 dicembre 1915, Como

Caro Toby,

dannata guerra! scusa se ti rispondo solo ora, ma ero molto impegnato nel co-struire delle nuove trincee alla Spina Verde; così non ho avuto tempo. Aly sta alla perfezione anche se certe volte ha paura ad andare a scuola. Ieri sono andato a trovare tua mamma e l’ ho trovata bene, anche se è preoccupata per te. Mi dispiace molto per la tua mano, non credevo proprio che queste cose potessero accadere anche a te: Tobia Mauri. Ora devo andare a badare ad Aly. Alla prossima! Non vedo l’ora che tu torni a casa, ti vogliamo bene. Simone

30 gennaio 1916, fronte dell’Isonzo

Caro Simo,

arriva un altro attacco tra poco. Questa sarà una lettera piuttosto breve. Tra cinque minuti vado in seconda linea, ora stanno bombardando la terra di nessu-no. Zero morti oggi, ma parecchi feriti durante la settimana. Con la guerra non riesco più ad essere tanto ottimista, forse è per via della stanchezza, o forse… Per altro, insomma. Oh no, hanno ferito un soldato. Devo attaccare al suo posto. Tobia”

2 febbraio 1916, Como

Caro Tobia,

tra poco, quando la guerra sarà finita, noi ci incontreremo. Sarà una cosa fan-tastica! Sono sicuro che ce la farai! Ho un sacco di cose in programma per quan-do tornerai da noi. Sai, l’anno scorso credevo che la guerra sarebbe stata un’opportunità per tutti noi, ma alla fine ho capito che non è affato così. Spero che questa sia la prima e ultima guerra a cui parteciperemo. In questi giorni all’addestramento stiamo terminando la trincea alla Spina Verde; l’abbiamo fat-ta lunga circa 3,6 chilometri. Domani inizieremo a costruire delle postazioni di avvistamento, perché si teme un attacco dai tedeschi. Il generale Cadorna pensa che i tedeschi possano attaccare dopo aver invaso la Svizzera. A presto! Simone

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25 aprile 1916, fronte dell’Isonzo

Caro Simone, io non ne posso proprio più. Spero possa finire presto, anche se non ne sono del tutto convinto. Non so che fare, sono stanco morto. Ma so che devo com-battere fino alla fine. A volte penso che potrei disertare, ma poi guardo in faccia la realtà e capisco che non è così semplice. Vorrei fare un sacco di cose qui, ma l’unica cose che si può fare è combatte-re. Mi manca vendere il cibo al negozio di mio padre, mi manca fare scherzi a tua sorella e alle sue amichette. Mi manca fare tutto quello che facevamo prima che io me ne andassi a combattere per questa dannata guerra. Ciao. Tobia

28 maggio 1916, Como

Caro Tobia,

non vedo l’ora che la guerra finisca! Ma chi lo sa tra quanto finirà? Spero molto presto. Ormai è da più di un anno che la guerra è iniziata. Vorrei tanto che tu non ti fossi mai arruolato nell’esercito, ma cosa possiamo farci?! Prima o poi finirà. Simone

Il 4 novembre 1918 l’Austria si arrende e la guerra finisce

05 novembre 1918, fronte del Carso

“Cara mamma,

oggi ho ricevuto la bella notizia che la guerra è finita. Tra poco noi soldati torneremo a casa. Come stai tu? E Simone? È da molto che non lo sento. Spero che vada tutto bene. Stiamo già sistemando le nostre poche cose rimaste. Sono così contento di rivederti, non sai quanto ho prega-to perché arrivasse questo momento. Io e gli altri sopravvissuti siamo così contenti che, quando torneremo a casa, daremo una festa per la nostra vitto-ria. Sai, la guerra mi ha insegnato molte cose, soprattutto a rifuggire dalla violenza. Oggi sarei disposto a far del male solo a chi dice : “La guerra è una bella cosa”. A tra poco mamma. Ti voglio bene! Tobia

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Giorgia Galdini e Aurora Ponisio

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AMICO DI GUERRA Giovanni Pigamotto era un giovane ragazzo nato il 09 / 09 /1899, alto per la

sua età. Aveva capelli e occhi castani, era dolce, allegro ma determinato. Vi-

veva nella città di Vicenza nel Veneto.

Giovanni era sempre stato felice di vivere a Vicenza perché era un ragazzo

che amava l’arte e in questa città vi erano molti musei. Inoltre Vicenza ospi-

tava molte chiese e molti palazzi antichi che a lui piaceva visitare. La casa di

Giovanni si trovava in periferia, era piccola, ma con un grande giardino, dove

andava sempre a divertirsi con gli amici.

Osvaldo Carta, un ufficiale dell’esercito, irruppe nella casa di Giovanni. Lui e-

ra fuori, quindi si rivolse alla madre di Giovanni e le disse con fermezza – Do-

mani, suo figlio si arruolerà nell’ Esercito Italiano per partire per la guerra .-,

la mamma di Giovanni ribatté dicendo: -Mio figlio? Ma non è ancora maggio-

renne! Ci deve essere un errore! - L’ufficiale disse: – No signora, nessun erro-

re, aspetteremo suo figlio domani alle 7. Se non si presenterà lo cercheremo

e poi lo fucileremo, sono stato chiaro? Eccole l’uniforme.- La donna pallida e

tremante annuì. Serio come era entrato, l’ufficiale uscì e la donna non riuscì a

trattenere le lacrime e pianse fino a sera.

Quando arrivò Cesare, il padre di Giovanni, chiese alla donna perché stava

piangendo. Ella gli rispose - Giovanni andrà in guerra, è venuto un ufficiale a

ordinarlo e io non so come dirglielo. - Mentre diceva ciò, Giovanni entrò, sentì

tutto e rimase sconvolto: aveva appena compiuto diciotto anni e non pensava

certo di dover partire. Lui, confuso e spaventato, corse in camera sua. I ge-

nitori provarono a consolarlo, ma senza risultati.

Risuonò la sveglia nella casa, era mattina, ma nessuno aveva dormito per la

preoccupazione.

Giovanni si sedette a tavola, ma non riuscì a mangiare niente, indossò

l’uniforme e a quel punto pianse come non aveva mai fatto neanche da bambi-

no, adorava dimostrarsi forte, ma ora proprio non ci riusciva.

Erano le 6 :30 e Giovanni era pronto per andare verso quella che lui chiamava

la fine, si rilassò sul divano e dopo fece un ultimo giro della casa.

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Con sé aveva preso poco, di vestiti non aveva bisogno, i giochi non li usava più

da tempo, quindi portò il suo rasoio e il pennello da barba: glieli aveva regalati

suo nonno a cui era molto legato

Giovanni volle salutare i suoi genitori prima di partire perché alla stazione in

mezzo a tutti non voleva dimostrarsi fragile, la famiglia si abbracciò e la casa,

fino a quel momento rifugio di serenità e sicurezza, diventò un luogo di dolore.

In un batter d’occhio si erano già fatte le sette meno dieci e la famiglia si in-

camminò verso la stazione, che distava circa 5 minuti a piedi dall’ abitazione.

Arrivarono. Giovanni si diresse verso l’ufficiale, lui lo notò e gli disse che sa-

rebbe stato un fante. Non capendo molto bene Giovanni chiese - E di cosa si

occupano i fanti?- Osvaldo non era sicuro di volergli svelare subito il suo com-

pito, ma Giovanni aveva il diritto di saperlo, quindi disse –Giovanni Pigamotto,

hai avuto l' onore di difendere il territorio italiano attraverso attacchi di

massa, insomma è un compito di cui dovresti andare entusiasta, abbiamo biso-

gno di giovani ragazzi come lei per salvare la nostra amata Italia.- Giovanni era

rimasto senza parole ma riuscì a dire –Per la mia patria tutto-. La verità era

che non era del tutto sicuro di volerlo fare, anche se si trattava della propria

patria, ma sfortunatamente non aveva scelta.

Salutò i genitori per un’ ultima volta, salì sul treno e si sedette vicino a me, ci

presentammo e diventammo subito amici.

Io mi chiamo Giorgio, anch’io ero un fante.

Quando arrivarono tutti e 56 il treno partì diretto a Vittorio Veneto. Per noi

due, è stato il viaggio più brutto e lungo di tutta la nostra vita anche se è du-

rato solo 3 ore e 30 minuti.

Parlammo per molto tempo, poi ci addormentammo.

Sognai una battaglia e in quello scontro Giovanni moriva e io disperato piange-

vo perché avevo perso il mio migliore amico. Ero molto preoccupato, soprattut-

to dopo quell’orribile sogno.

Zzzzzzzz, un ronzio di una vespa mi svegliò di soprassalto, guardai fuori dal

finestrino e vidi che il treno era fermo, così toccai subito Giovanni per sve-

gliarlo. Poco dopo l’ufficiale aprì il nostro vagone per farci scendere, il mio a-

mico ed io scendemmo per ultimi e ci trovammo davanti una terra desolata, de-

vo ammettere che mi metteva molta inquietudine e penso anche a Giovanni, ve-

dendo la sua faccia, in poco tempo eravamo divisi a seconda degli incarichi.

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Dato che noi eravamo tutti e due fanti ci esercitammo insieme, il nostro co-

mandante si chiamava Guglielmo Lotti ed era molto simpatico o almeno con

noi, dal momento che ci esercitavamo bene.

Dopo qualche tempo eravamo pronti per iniziare a combattere, ma ci sarem-

mo cimentati nella guerra solo più avanti.

Eravamo molto stanchi e come ogni sera ci sdraiammo sulle nostre brande

per scambiarci le nostre opinioni. Io dissi a Giovanni che fino a quel momento

non era stato poi così traumatico, essendo abituato alla fatica del lavoro dei

campi e lui concordò con me, in fondo cosa ci doveva essere di tanto faticoso

nel fare ore di marcia, rispetto a quello che ci aspettava?!

A quel punto ci addormentammo.

La mattina ci svegliammo con un rumorosissimo colpo di fucile, ci lavammo e ci

vestimmo e uscimmo dall’ accampamento ancora mezzi addormentati, iniziam-

mo un duro addestramento e incominciarono a farci male gambe e braccia.

Infinito.- Disse Giovanni- questo addestramento non finirà più! -

Poco dopo aver pronunciato queste parole, Giovanni si rese conto che

l’addestratore aveva richiamato l’attenzione e che Osvaldo era entrato con le

nostre armi in una sacca, lui non lo avrebbe ammesso mai, ma io notai che era

diventato tutto rosso per l’imbarazzo; pensai che non volesse sentirselo dire,

quindi tralasciai l’argomento e lo trascinai con me verso l’ufficiale. Ci disse

che noi due, i più giovani, avremmo combattuto insieme.

Io non potevo essere più felice di così, certo avrei preferito non combattere

per niente, ma se dovevo farlo, Giovanni l’avrei voluto con me e così fu.

Avevamo un po’ di tempo per prepararci e per imparare ad usare le armi. Io

avrei usato la balestra mentre Giovanni il pugnale; mi ci volle un po’ a capire

che avrei dovuto usare quell’ arma medievale contro delle persone, che si tro-

vavano nella mia stessa situazione, ma nonostante ciò dovevo farlo. Giovanni

mi confidò che non era soddisfatto della sua arma perché se doveva combat-

tere doveva farlo bene. Ero d’accordo con lui, Giovanni si meritava un’arma

molto più potente.

Non feci in tempo a dirgli di andare dal comandante a chiedergli se poteva

dargli un’altra arma che lui era già lì -Mi scusi capitano, potrei avere un’arma

diversa?- Disse Giovanni – Perché dovresti?- rispose il capo – La tua non ti

soddisfa?- Giovanni rispose con determinazione –Penso solo che mi sentirei

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più a mio agio con la picca o con la spada piuttosto che con il pugnale- dopo

qualche minuto di riflessione Osvaldo disse –Va bene, ti assegno la picca, pe-

rò non fare più i capricci, ti cambio arma solo per la tua determinazione, ec-

coti la picca- - Grazie- rispose Giovanni.

Ora eravamo pronti per imparare a maneggiare le armi.

L’addestramento alle armi durò diversi giorni, poi ci dirigemmo verso la trin-

cea.

Arrivammo al fronte, la nostra trincea aveva un aspetto molto inquietante,

ma cercai di non pensare al posto in cui mi trovavo, ma al perché mi trovavo lì.

Era il 31 ottobre 1918 e noi eravamo coloro che dovevano mettere fine alla

guerra con un grande attacco di massa, sperando in una vittoria.

I nostri commilitoni che erano lì già da un po’ ci consigliarono di non affezio-

narci troppo ai nostri compagni perché quest’ultima battaglia sarebbe stata

fatale per molti di noi.

In quel momento mi sentii male per due motivi: io un amico ce l’avevo già e la

parola “fatale” continuava a martellarmi nella testa.

Parlai con Giovanni cercando di distrarmi, anche lui aveva molta paura, ma mi

svelò che il capitano Osvaldo gli aveva già riferito il suo compito e che lui era

pronto.

Un po’ ero arrabbiato perché lui non mi aveva detto niente, ma non potevo

biasimarlo, neanche io glielo avrei detto.

Cercammo di dormire, ma quel posto era proprio sgradevole.

La mattina del 4 novembre ci svegliammo con un colpo di fucile, saremmo do-

vuti andare all’attacco, avevamo passato tre giorni per valutare la situazione

del nemico e ora eravamo pronti.

Ci concessero cinque minuti per svegliarci completamente prima di andare

all’attacco.

Combattemmo la battaglia a “Vittorio Veneto” vicino al Piave.

Non mi ricordo molto dell’attacco di massa, ma quando uscimmo dalla trincea

iniziai a trovare degli spazi tra la schiera dei miei compagni per sparare, riu-

scii a colpire e a uccidere circa tre persone, ma anche loro uccisero alcuni dei

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nostri uomini, eravamo rimasti in pochi quando con un colpo di balestra un au-

striaco colpì Giovanni in pieno. Volevo andare ad aiutarlo, ma nella “terra di

nessuno” non ci si potevano permettere distrazioni.

Ero così arrabbiato che cercai di colpire i nemici il più possibile fino a quando

non rimasero in pochi e incredibilmente … si arresero. Quando buttarono a

terra le armi capii che avevamo vinto e i capi degli eserciti lo confermarono

firmando l’armistizio.

Quando Osvaldo confermò la vittoria, io mi isolai dal resto del gruppo e corsi

verso Giovanni, ma purtroppo non c’era niente da fare, era morto.

Sara Lamarucciola, Lucrezia Fagone

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LA GUERRA DI ALESSANDRO

Generalmente lo sferragliare di un treno mi metteva tristezza e malinconia: il

treno mi intristiva perché l’ho sempre associato al distacco da qualcuno o da

qualcosa.

Questo treno invece mi portava a casa dove erano mia sorella e la mia

mamma.

Quando uscii dal treno vidi la stazione, che mi ricordò subito di quando, da

piccolo, andavo dai nonni. Camminavo e iniziavi a ricordare che quando ero più

piccolo nel mio villaggio vi erano più case abitate, invece ora vi sono tante ca-

se disabitate, perché gli uomini sono andati in guerra, non vi era nessuno per

sostenere il villaggio.

Poi andai in cerca della strada di casa mia, appena fuori dal villaggio, circon-

data da campi.

Una sola strada portava a casa mia, e mentre mi avvicinavo sentii delle voci

proprio dall’interno della mia casa. Bussai e qualcuno venne a rispondere, non

riconobbi la sua faccia, ma quando pronunciò le parole :<<Chi sei?>>, semplice-

mente le dissi << Io, Alessia >> e lei << Alessandro>> : ci abbracciammo e en-

trammo e lì c’era la mamma che piangeva. Alessia, la mia unica sorella, disse

alla mamma :<< Alessandro è tornato>>, la mamma non disse nulla, evidente-

mente non credeva alle sue orecchie, ma quando entrai nella stanza, mi corse

incontro e mi abbracciò con il viso rigato di lacrime. Più tardi, passata

l’emozione, mi chiese cosa fosse successo in quegli anni del fronte, allora ci

siamo seduti e cosi ho iniziato a raccontare di quel inferno.

“Era appena iniziata l’ultimo anno di Liceo a Torino e dovevo riabituarmi ad

alzarmi presto per affrontare la dura giornata dello studente; un pomeriggio

stavo tornando a casa in compagnia di amici e passammo davanti alla caserma

dell’ottantaduesimo reggimento di fanteria. Ogni tanto ci veniva in mente l’

idea di andare ad arruolarci, ma questo pensiero passava in fretta.

Un giorno, non ricordo come e perchè arrivammo a questa decisione, tutti noi

entrammo in caserma per arruolarci e partire per la guerra. Mia madre,

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preoccupata cercò di convincermi a rinunciare a questa pazzia, ma io non volli

ascoltarla. Alle 4:30 ci incontriamo come programmato, l’ufficiale addetto

alla documentazione non sembrava molto felice e cercò di fare il più veloce

possibile.

Senza chiederci quanti anni avevamo, ci disse in modo sbrigativo di venire a

piazza Castello dove vi erano tutti quelli pronti per l’arruolamento.

Rapidamente entrammo in questo campo dove c’erano molti ragazzi poco più

grandi di noi.

In seguito, durante l’addestramento, nel nostro gruppo eravamo in trenta, al-

cuni piu grandi di noi. Lorenzo era molto piccolo e lo mandarono a casa subito,

a me diedero il fucile d’assalto mentre a Francesco diedero un fucile di pre-

cisione e Alfredo fu addestrato ad usare la mitragliatrice e gli altri i fucili

d’assalto.

Io rimasi in questo campo per 6 mesi.

Al 24 febbraio io e i miei amici prendemmo il treno per andare al fronte. Era-

vamo in tanti, non riuscivo neanche a contarli tutti, io rimasi con i miei amici.

Arrivammo al fronte il 1 Marzo, dovemmo camminare per tanto tempo, erava-

mo esausti, al primo giorno”

Raccontai tutto questo alla mia mamma che era molto interessata, mentre A-

lessia preparava da mangiare e contemporaneamente anche lei ascoltava inte-

ressata. Così continuai il mio racconto.

“Finalmente arrivammo alla base dove il capitano ci mandò in prima linea con i

camion, così potei riposare i piedi, era una lunga strada piena di fango e bu-

che con diversi ponti da attraversare. Passò un’ ora guardando il tramonto del

sole e, subito dopo, arrivammo vicino alla nostra trincea.

C’ erano un paio di uomini che venivano verso di noi e a voce sommessa ci dis-

sero << Avete fatto male a venire qui, questo è l’inferno>>.

Era un uomo abbastanza alto e sembrava stanco con il fango sulla faccia, cre-

do che avremmo sostituito chi era lì già da un po’ di tempo. Io rimasi lì,

all’inferno, per alcuni mesi. Il 12 ottobre ci mettemmo in marcia, destinazio-

ne Caporetto.

Anche lì facemmo il cambio con altri soldati e andammo verso il territorio di

Caporetto. Alle prime ore del mattino si senti subito un bombardamento, era

come vedere l’inferno in prima persona. Alcuni dei miei amici erano già morti

perché erano davanti io ero un degli ultimi nella fila di soldati. Mentre mar-

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saltare in aria dopo essere stati colpiti dai colpi sparati dai cannoni austriaci

che avevano cominciato a sparare colpi che, a contatto con il suolo rilasciava-

no gas tossico. Il gas colpiva tutti, ma mentre gli austriaci avevano delle ma-

schere molto efficaci, noi dovevamo coprirci con i fazzoletti. Nel frattempo

dietro di noi vedemmo soldati austriaci e fu allora che capimmo di esser stati

circondati.

Cosi gettammo a terra le armi e dopo la resa fummo deportati in un carcere

di guerra nell’impero austriaco.

Nelle prigioni non si stava poi cosi male.

il giorno del 3 Gennaio 1919 sono stato liberato e il treno mi riportò nella mia

città dove tornai a casa mia a piedi, senza i miei amici.” Un silenzio calò sulla

mia casa

Alfred Stephenson

Alex Butti

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Edward e Jacob alla ricerca della

salvezza

Il 26 maggio del 1915, a Sagrato, in Friuli Venezia Giulia, un ragazzo serbo diciannovenne di nome Jacob e suo fratello ventunenne di nome Edward sono voluti andare in guerra, credendo che sarebbe stata una piccola e vittoriosa guerra, ma quando dovettero andare in battaglia e videro così tanti morti ebbero paura e si nascosero. Solo dopo, finita la battaglia scapparono rifugiandosi sul monte Carso insieme a un amico incontrato in guerra per poi raggiungere i propri zii a Moccò . Come finirà sul monte? Riusciranno a salvarsi?

Cittadini di Sagrado, Edward e Jacob con i loro genitori si erano trasferiti

in quella città da pochissimo tempo. Edward, il più grande aveva 21 anni, era

biondo con occhi verdi mentre Jacob, il più piccolo aveva 19 anni ed era moro

con gli occhi azzurri. I due non andavano molto d’accordo: il più grande era

invidioso del più piccolo per le attenzioni che riceveva.

Era il 26 maggio 1915 quando i due fratelli vennero a sapere dal comandante,

Filippo Corridoni, che sarebbero dovuti andare in guerra e loro ne erano fieri

perché rancorosi nei confronti dell’Austria che li teneva soggiogati e anche

perchè era un’esperienza nuova, ancora da scoprire e così si sarebbero senti-

ti importanti.

Andarono ad avvisare la loro famiglia e mentre il padre condivideva il loro en-

tusiasmo, la madre, invece, era molto spaventata e si mise a piangere. Il figlio

più piccolo la consolò mentre Edward disse che ormai era grande e che sape-

va badare a se stesso e se ne andò in camera sua sbattendo la porta.

Arrivato il momento di partire, salutarono i genitori e partirono entusiasti

con il pullman e con tutti gli altri soldati più o meno tutti della stessa età. La

meta era San Martino al Carso in Friuli Venezia Giulia. Loro credevano che

sarebbe stata una guerra breve e vittoriosa per l’Italia.

Durante il viaggio conobbero una coppia di amici di nome Alexander e Set: lo-

ro due vollero raccontare ai due fratelli come si erano conosciuti, lavorando

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presso una famiglia originaria della Serbia, avevano fatto amicizia e avevano

deciso di arruolarsi. Parlando di sogni, aspettative e futuro, il tempo era vo-

lato ed erano già al Carso.

Scesero dal mezzo di trasporto e davanti a loro videro una distesa brulla da

una parte dovevano costruire una trincea dall’altra, invece, la trincea nemica,

nel mezzo c’era la terra di nessuno

E dissero loro che si sarebbero dovuti preparare subito alla battaglia.

Rifugiandosi nelle trincee aspettarono l’esercito nemico.

Edward era “pronto” ma Jacob aveva ancora seri dubbi ad affrontare la bat-

taglia.

Era giunto il momento…dovevano affrontare quella terribile guerra…

Jacob, Edward, Alexander e Set uscirono dalla trincea…l’esercito nemico era

arrivato….era ora di combattere…

Nella terra di nessuno tutti iniziarono a sparare…e un colpo di fucile colpì il

povero Alexander, che morì sul colpo.

Alla vista del corpo dell’amico, i tre compagni di sventura non ressero il dolo-

re, si nascosero e…calmate le acque, decisero di rifugiarsi sul monte Carso

per poi arrivare dai propri zii nel paese di Moccò.

Sul monte era dura andare avanti, la mancanza di cibo, l’assenza di un rifugio

e la fatica erano dure da sopportare. Durante la scalata si accorsero che Set

era ferito e voleva fermarsi per non rallentarli, ma i due fratelli non voleva-

no; dopo molte, ma molte discussioni Set per farla finita si lasciò cadere nel

precipizio e morì, Edward e suo fratello versarono un mare di lacrime.

Continuarono il viaggio che si fece sempre più duro e arrivarono ad un punto

insormontabile.

Ora i due fratelli erano quasi arrivati alla tant’attesa meta, ma da lontano

scorsero dei soldati italiani, loro presi dal panico si nascosero ma fecero

troppo rumore e li stavano per scoprire…ma…grazie ad un cinghiale che si

trovava lì per caso i soldati credettero che quel rumore lo avessero fatto gli

animali e così non si fecero scoprire e arrivarono a Moccò sani e salvi.

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SAN MARTINO DEL CARSO

Di queste case

Non è rimasto

Che qualche

Brandello di muro

Di tanti

Che mi corrispondevano

Non è rimasto

Neppure tanto

Ma nel cuore

Nessuna croce manca

E’ il mio cuore

Il paese più straziato

( G.Ungaretti )

Beatice Civardi & Beatrice Caprani

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Lettere dal FronteLettere dal FronteLettere dal Fronte

20 Giugno 1916

Caro Pino,

Ti scrivo per dirti che sono appena stato portato in trincea, l’ambiente è

brutto e sporco, il cibo fa schifo, abbiamo i pidocchi e non ci laviamo mai. Mi mancate tutti, soprattutto tu e mamma che litigate sempre e non vi vede-te più. Come stai da quando la mamma ti ha cacciato di casa perché ti ha scoperto che volevi arruolarti come volontario? Che lavoro fai ora? Hai avuto figli? Devi informarmi dopo due anni che non ci vediamo. Qui in trincea si mangia male: il cibo è ammuffito, crudo e freddo ma siamo obbligati a mangiarlo perché altrimenti non saremmo in grado di so-stenere una battaglia e moriremmo di fame. L’acqua è come fango e come se non bastasse, ci laviamo solo quando torniamo al campo base e abbiamo le zecche e i pidocchi. Io e i miei compagni abbiamo intenzione di fare una grande festa con tutte le nostre famiglie non appena tutto questo sarà finito ed è il principale motivo per cui cerchiamo di resistere. Ti andrebbe di venire a questa festa? Aspet-to la tua risposta … Tuo, Gino.

23 Luglio 1916 Ciao fratellino,

ricordati che a casa ti aspettiamo tutti, io e la mamma abbiamo fatto pace

e adesso abito con la figlia del dottor Carli, che è molto ricco, ma non riuscia-mo ad avere un bambino, già tre tentativi falliti dopo pochi mesi, ma conti-nueremo a provarci perché dobbiamo mandare avanti la nostra famiglia. Ho una brutta notizia da darti e non so proprio come dirtelo, non voglio darti un dispiacere e toglierti la forza di combattere, ma … papà è morto!! E’ suc-cesso tutto mentre stava riportando a casa dal lavoro un amico con il carro.

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Un cervo è sbucato all’ improvviso dal bosco e papà per non investirlo ha sbandato ed è caduto in un dirupo, con il carretto e il suo amico che miracolo-samente si è salvato è andato ad avvisare la mamma. Il funerale lo faranno tra tre giorni. Che tristezza! Ora ti prego: cerca di essere forte e di reagire, papà era molto orgoglioso di te quando sei partito e diceva sempre che se fossi ritornato ti avrebbe orga-nizzato una grande festa. P.S. Grazie a me riusciremo ad aggiustare il mulino perché ho trovato amici che mi aiutano. Tuo Pino.

26 Agosto 1916 Ciao Pino.

io spero di tornare presto, perché qui non riesco più a stare e ho nostalgia di

casa, di voi e dei miei vecchi amici. La trincea è sporca. Adesso mi sono fatto dei nuovi amici che sono la mia famiglia qui in trincea, le uniche cose che contano qui sono gli amici e sopravvivere. Potresti morire da un momento all’ altro!!! Secondo me sarebbe meglio scappare perché qui è come vivere in un carcere, ma un carcere sarebbe meglio. Non posso scappare perché se lo facessi ver-rei condannato e fucilato per diserzione!! E, cosa più importante: deluderei papà. Non sai quanto sto male per la sua morte. Forse avrei dovuto scappare per venire al funerale, spero di poter re-carmi alla sua tomba e pregare per lui. Vorrei tornare al più presto, non ne posso più, mi mancate tanto e non riesco a dimenticarvi…rispondimi presto.

Tuo Gino

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30 Settembre 1916 Caro Gino,

nonostante i problemi di spedizione ho ricevuto la tua lettera…mi dispiace

per te e per come stai in questo momento senza nessuno che ti supporti e ti faccia compagnia anche se hai molti nuovi amici. Non scappare!! Come hai detto, moriresti da disertore e anche se non c’eri al funerale, papà, sono sicuro, che è fiero di te, basta che preghi per lui. Spero che tu riceva questa lettera prima di mettere in atto un’eventuale fuga. Se potessi vedere la nuova vigna saresti la persona più felice del mondo perché tutte le famiglie del nostro piccolo paesino sono gentilissime e ci hanno aiuta-to a ricostruirla tutta da cima a fondo. Dobbiamo piantare nuove piantine di viti che dovrebbero crescere in poco tempo. Ultimamente sono stato assunto da un banchiere molto ricco che mi paga molto bene e non mi licenzierebbe mai per nessun motivo al mondo, neanche se glielo chiedessi, perché sono molto bravo con il mio lavoro. Ti ricordi a scuola com’ero in difficoltà?! La matematica non mi andava proprio giù e la maestra che era molto paziente mi spiegava e rispiegava tutto, ma io non ca-pivo mai niente anche se mi impegnavo. Invece ora sono in banca!!! L’ altro giorno quando è venuta la mamma e mi ha visto si è messa a piangere e mi ha detto che era molto orgogliosa di me. Tuo, Pino

24 ottobre 1916 Caro Pino,

ci sto da quasi un mese in trincea e non mi piace affatto. Non sono riuscito a

scappare perché mentre stavo uscendo dalla trincea è scoppiata una batta-glia e io ho dovuto correre alle armi. Avrei potuto scappare dopo, ma la bat-taglia è durata tantissimo e alla fine non avevo più le forze per fuggire. An-che la mamma mi ha inviato una lettera dove diceva che non dovevo scappare, ma mi ha anche scritto che non è contenta che io sia partito di mia spontanea volontà per la trincea e che se tornerò mi manderà a dormire nella vigna, for-tunatamente hai detto che è bella, grazie per averla sistemata!!

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Comunque io dico che mi sembrava di far bene a partire per la trincea, mi pareva una scelta logica, ma alla mamma no e la capisco. E’ preoccupata per me, ma tu cerca di consolarla e di starle vicino. Se io non dovessi mai torna-re cerca di consolarla e prenderti cura di lei fino alla fine qualsiasi cosa do-vesse succedere. Gino

16 Ottobre 1916

Caro fratello Pino,

e oggi è l’ultimo giorno in cui posso scriverti perché da domani abbandone-

remo la trincea e andremo in una già costruita dai nostri alleati che ci aiute-ranno e non potremo più scriverci. Oggi a causa di un bombardamento sono morti centinaia di soldati e io sono impaurito e ferito, ci sentiremo quando finirà la guerra, sempre se tornerò. Non mi sono mai sentito così triste in vita mia. Un foglio di carta e questa matita che mi hai regalato tu quando avevi cinque anni (sì l’ho tenuta per tutto questo tempo e conservata per un’occasione speciale o importante e questa mi sembra abbastanza importante) sono da tutta l’ estate l’ unico mezzo di comunicazione che ho con te e ora non ne avrò più nessuna. Maledi-co il giorno in cui ho deciso di venire in guerra!!!! Tuo, Gino

16 Novembre 1916

addio,

forse è l’ultima cosa che posso scriverti… ho tanta paura di perderti e anche la mamma. Non so come ho fatto ma gliel’ ho detto e lei si è messa subito a piangere e a pregare per te. Entrambi speriamo di poterti riabbracciare un giorno, perderti sarebbe la cosa peggiore che mi potrebbe mai capitare. Non volevo che tu partissi.

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Ora lo sai, ma è veramente troppo, troppo tardi per tornare indietro.

Forse ci vedremo quando tornerai.

Addio e buona fortuna!!

Pino

RICCARDO FERRARI E MARCO DELLA MALVA

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INDICE

Introduzione pag. 3

Un Calcio alla Guerra pag. 5

Un’amicizia ritrovata pag. 9

Mario in Guerra pag. 13

La Guerra è una “bella” cosa pag. 16

Amico di Guerra pag. 20

La Guerra di Alessandro pag. 24

Edward e Jacob alla ricerca della salvezza pag. 28

Lettere dal Fronte pag.31