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77 II IL RIFLESSO OSSIDIONALE 1. Proliferazione delle fortezze e ossessione dell’assedio Nel mondo antico ogni grande compagine politica, governata da un’autorità centrale efficiente, fa fronte ai suoi nemici esterni munendosi di fortificazioni periferiche, opportunamente disposte e presidiate, che divengono così anche un segno di ricchezza e di superiorità organizzativa rispetto ai potenziali aggressori. Alla metà del II secolo d.C. Elio Aristide poteva scrivere che la città di Roma non aveva bisogno di mura perché sufficientemente pro- tetta dal metaforico muro delle sue legioni schierate ai confini del- l’impero, ma meno di cento anni dopo le fortificazioni, prima di- slocate esclusivamente sul limes, cominciano a diffondersi all’in- terno segnalando da un lato la sopravvenuta debolezza dell’auto- rità centrale e dall’altro la necessità di salvaguardare gli abitanti inermi dalle penetrazioni barbariche sempre più frequenti e profonde. Nel dicembre del 406 Alani, Vandali e Svevi, superato il Reno nei pressi di Magonza, erano dilagati in Gallia e nulla aveva potu- to proteggere la popolazione dalle loro violenze: «Non la densità delle selve – lamentò il vescovo Orienzio – né l’asperità delle alte montagne, né la corrente dei fiumi dal rapido gorgo; non i castel- li dei singoli luoghi, né le città difese da mura; non l’intransitabi- le mare, né lo squallore del deserto; non i burroni scoscesi e nep- pure le caverne nascoste fra le rupi», così che l’improvvisa emer- genza venne percepita come catastrofe «piombata sul mondo in- tero». Il Commonitorium di Orienzio pur esasperando, per amo- re di retorica, la realtà dei fatti, rivela che le mura urbane e le for-

II IL RIFLESSO OSSIDIONALE 1. - rm.univr.itrm.univr.it/rivista/vetrina/dwnld/Settia.pdf · bari insediatisi sul territorio dell’antico impero romano d’Occi- dente: in Italia,

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II

IL RIFLESSO OSSIDIONALE

1. Proliferazione delle fortezze e ossessione dell’assedio

Nel mondo antico ogni grande compagine politica, governatada un’autorità centrale efficiente, fa fronte ai suoi nemici esternimunendosi di fortificazioni periferiche, opportunamente dispostee presidiate, che divengono così anche un segno di ricchezza e disuperiorità organizzativa rispetto ai potenziali aggressori. Allametà del II secolo d.C. Elio Aristide poteva scrivere che la città diRoma non aveva bisogno di mura perché sufficientemente pro-tetta dal metaforico muro delle sue legioni schierate ai confini del-l’impero, ma meno di cento anni dopo le fortificazioni, prima di-slocate esclusivamente sul limes, cominciano a diffondersi all’in-terno segnalando da un lato la sopravvenuta debolezza dell’auto-rità centrale e dall’altro la necessità di salvaguardare gli abitantiinermi dalle penetrazioni barbariche sempre più frequenti eprofonde.

Nel dicembre del 406 Alani, Vandali e Svevi, superato il Renonei pressi di Magonza, erano dilagati in Gallia e nulla aveva potu-to proteggere la popolazione dalle loro violenze: «Non la densitàdelle selve – lamentò il vescovo Orienzio – né l’asperità delle altemontagne, né la corrente dei fiumi dal rapido gorgo; non i castel-li dei singoli luoghi, né le città difese da mura; non l’intransitabi-le mare, né lo squallore del deserto; non i burroni scoscesi e nep-pure le caverne nascoste fra le rupi», così che l’improvvisa emer-genza venne percepita come catastrofe «piombata sul mondo in-tero». Il Commonitorium di Orienzio pur esasperando, per amo-re di retorica, la realtà dei fatti, rivela che le mura urbane e le for-

tezze rurali allora già esistenti erano di numero ed efficacia del tut-to insufficienti poiché fu necessario cercar scampo in rifugi occa-sionali offerti dalle condizioni naturali del terreno: caverne e go-le nascoste in zone boscose e deserte, sommità rocciose ritenuteinaccessibili, ostacoli fluviali e marini solo apparentemente insu-perabili. È verisimile perciò credere che quella dura esperienzaabbia contribuito a incrementare l’allestimento di altre cerchie ur-bane e, nelle aperte campagne, la costruzione di nuove fortezze dirifugio più sicure.

La storiografia corrente sino a pochi anni fa soleva senz’altrodatare al III secolo tutte le mura di età romana ancora oggi esi-stenti, e solo di recente la più raffinata valutazione delle tecnichecostruttive da un lato e l’apporto degli scavi archeologici dall’al-tro, hanno consentito di individuare più fasi che dal III secolo siestendono almeno sino al V interessando tanto le città quanto icentri abitati minori. La progressiva diffusione di fortificazionipubbliche e private all’interno dell’impero, destinata a contrasse-gnare durevolmente la storia dell’Occidente, ha dunque i suoi ini-zi nel mondo tardo antico. I barbari avanzanti incontrano così da-vanti a sé sempre nuove mura elevate non solo per iniziativa di sin-gole città, ma secondo un disegno strategico d’insieme che perse-gue, appunto, lo scopo di frazionare la forza d’urto delle penetra-zioni nemiche. In tale «preludio di Medioevo», di fronte a cittàche si trasformano in fortezze, la guerra tende sempre più a ma-nifestarsi come guerra d’assedio, caratteristica che rimarrà co-stante per molti secoli.

L’utilità delle fortificazioni dipende invero, più che dalla soli-dità, dalla risolutezza dei difensori: le città infatti, talora paraliz-zate da un eccessivo numero di rifugiati, piuttosto che affrontarei disagi di un assedio, preferiscono molto spesso negoziare un ri-scatto. Le fonti letterarie cominciano a far menzione di residenzefortificate private anche fuori delle città: Sidonio Apollinare de-scrive il burgus di Ponzio Leonzio (costruito all’inizio del IV se-colo in corrispondenza dell’odierno Bourg-sur-Gironde, alla con-fluenza fra Garonna e Dorgogna) enfaticamente presentato comeun formidabile complesso dotato di torri e di mura che nessunamacchina da guerra, ariete, catapulta, né qualunque altra delle piùavanzate tecniche d’assedio potrà mai abbattere. Ma quelle murain realtà rinserrano lussuosi edifici termali con colonnati rivestiti

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di preziosi marmi importati da lontane regioni, ampi granai, loca-li riscaldati per l’inverno e un’officina di tessitura costruita in for-ma di tempio; sulla torre centrale, poi, si trova una sala da pranzocon vista sulle montagne che dominano l’orizzonte.

Non è da meno la grandiosa dimora che nel secolo successivoil vescovo di Treviri, Nicezio, ha fatto elevare sulla Mosella; essa,nella descrizione di Venanzio Fortunato, appare come un gran-dioso recinto murario guarnito di ben trenta torri attorno all’aulasorta su un’altura sino a poco prima boscosa. La moda di tali me-ravigliosi complessi dalla Gallia era passata in Italia: verso la finedel V secolo una fortezza simile aveva costruito nella sua diocesiil vescovo di Novara Onorato, definita dalle fonti come «affida-bilissima speranza di vita» contro i pericoli di una possibile guer-ra. Nello stesso periodo il futuro re dei Goti Teodato aveva tra-sformato in residenza fortificata un’isola del lago di Bolsena: allesue rocce, già protette dalle acque, l’opera dell’uomo aveva ag-giunto «mura, ponti, propugnacoli e torri» al riparo dei quali ilpadrone poteva soggiornare sicuro in previsione, anche qui, di«orribili guerre».

Le descrizioni poetiche tendono retoricamente a presentarecome fortezze inespugnabili quelle che erano in realtà sontuoseville residenziali il cui apparato difensivo, prendendo a pretesto leesigenze di sicurezza effettivamente sentite in alcuni momenti, mi-rava a una semplice esibizione simbolica divenuta moda aristo-cratica. Le fonti epigrafiche e i dati desunti dallo scavo archeolo-gico e dal rilievo di strutture sopravvissute sino ai nostri giorni at-testano nondimeno la comparsa, fra IV e VI secolo, di numerosefortificazioni minori certamente nate dalla necessità di protegge-re le popolazioni locali. Nell’Italia del Nord molte si collegano alsistema difensivo alpino: si tratta di «castelli» di diverse dimen-sioni e struttura costituiti da robuste cerchie murarie allestite aprotezione di insediamenti della pianura e del pedemonte, men-tre sui rilievi più aspri sorgono rifugi resi sicuri dalla loro stessaposizione.

Apprestamenti analoghi e coevi sono attestati in Francia ed en-tro l’area romanizzata della Germania: si va da ville romane raffor-zate con fossato e terrapieno ad autentiche fortezze indicate neitesti di Sulpicio Severo e di Gregorio di Tours con i termini ca-strum, castellum e oppidum, la cui natura è stata confermata in più

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casi dalle ricerche archeologiche; esse erano comprese nei pos-sessi di grandi famiglie aristocratiche e costituivano lo sdoppia-mento di insediamenti di pianura con evidenti funzioni di rifugio.Siamo anche qui di fronte a un certo «preludio di Medioevo» ilquale però – sia chiaro – è ancora di là da venire; va quindi evita-ta la tentazione di vedere semplicisticamente le fortificazioni tar-do-antiche come veri e propri castelli ante litteram: quelli che al-cuni secoli dopo riempiranno della loro presenza l’intero Occi-dente non avranno alcun rapporto diretto con le lontane antici-pazioni dei secoli IV e VI, da considerare quindi, tutt’al più, co-me una «preistoria» del vero castello medievale1.

La riprova, comunque, della frequenza dei luoghi fortificati edella importanza militare da essi assunta si ha attraverso le ven-tennali vicende della guerra greco-gotica, combattuta in Italia nelVI secolo, note attraverso il circostanziato racconto di Procopiodi Cesarea. Le operazioni consistettero in massima parte nell’at-tacco e nella difesa di località murate rispetto alle quali gli scontriin campo aperto furono numericamente insignificanti riducendo-si di fatto alle pur importanti battaglie di Tagina e dei Monti Lat-tari. Caratteristiche analoghe assumono le guerre combattute daiFranchi per la conquista dell’Aquitania dove, accanto a impor-tanti cerchie urbane, erano stati recuperati molti antichi oppida, enumerosi «castelli» erano sorti sui percorsi stradali; la toponoma-stica rivela, da parte sua, una fitta serie di punti fortificati special-mente lungo le frontiere settentrionali e orientali. La «guerra deicastelli», inaugurata dunque da Belisario in Africa e in Italia, fupraticata anche in Spagna dai Visigoti contro Baschi e Bizantini,e dai Franchi e dagli Aquitani contro Visigoti e Arabi; gli Aquita-ni indipendenti vi ricorsero per contrastare il ritorno offensivo deiPipinidi, e questi ultimi la riproposero contro i propri nemici, tan-to che – come si sa – nella penisola iberica proprio la frequenzadei castelli sarebbe all’origine dei nomi di Catalogna e di Castiglia.

I Longobardi, divenuti dopo il 569 padroni dell’Italia, assimi-larono abbastanza rapidamente, a proprio vantaggio, i criteri di-fensivi che erano stati propri dell’ultimo periodo romano e del-l’età di Teodorico applicandoli contro i loro avversari transalpini,Franchi e Avari: la presenza di numerose città fortificate fu sfrut-tata ponendola in coordinamento con le Chiuse alpine che furo-no strumento, ancora per qualche secolo, di una difesa «elastica»

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in profondità di tipo tardo antico. Le Chiuse almeno dal IV seco-lo sbarravano le principali vie di accesso attraverso le Alpi ed era-no collegate a un sistema di avvistamento e di rifugio; sino a metàdell’VIII secolo si poté così esercitare un’azione ritardatrice incorrispondenza delle valli alpine e il logoramento dell’aggressorelungo gli assi di penetrazione verso sud. In condizioni sfavorevo-li i Longobardi si chiudevano nelle città della pianura padana elu-dendo il contatto con gli invasori, i quali erano perciò costretti aritirarsi senza poter conseguire risultati decisivi. Se invece il rap-porto di forze era positivo per i difensori, il nemico, sboccato inpiano, poteva essere sorpreso e annientato in campo aperto, co-me infatti avvenne in più occasioni2.

Coloro che vissero nei territori romani durante gli ultimi tem-pi dell’impero dovettero soffrire di un vero e proprio «complessodell’assedio» percepibile attraverso numerosi indizi. Nel IV seco-lo l’anonimo autore del trattato De rebus bellicis parla con ap-prensione dei barbari circumlatrantes: essi, abbaiando come cani,«stringono tutto intorno con la loro morsa l’impero romano». Al-l’incirca nello stesso tempo Vegezio dedica gran parte della suaEpitoma rei militaris alla difesa delle località fortificate, implicita-mente denunciando il fallimento di una concezione difensiva glo-bale, il frantumarsi dell’unità imperiale e l’incapacità del potere diproteggere i suoi sudditi. La preoccupazione per l’assedio comerealtà sempre incombente sembra passare integralmente ai bar-bari insediatisi sul territorio dell’antico impero romano d’Occi-dente: in Italia, in specie, i Goti di Teodorico ereditano dall’etàtardo antica, insieme con superstiti idee di grandezza imperiale,anche le angosce di un mondo abituato ormai da secoli a vivere instato di assedio, ed esse sembrano ben presenti, secoli dopo, nel-la mente di un barbaro romanizzato come Paolo Diacono.

È da notare, innanzitutto, che nella sua Storia dei Longobardidi fronte a non meno di trentacinque episodi di assedio e conqui-sta di luoghi fortificati, le battaglie in campo aperto rievocate o ri-cordate in modo più o meno ampio non sono più di tre: tali daticonfermano dunque l’importanza complessiva che l’assedio ha as-sunto rispetto ad altre forme di guerra. Nelle opere di Paolo si as-siste poi alla sottolineatura e alla costante drammatizzazione di fa-mosi assedi del passato: ecco Antiochia e Tiana assediate nel 271dall’imperatore Aureliano, Metz, Orléans, Aquileia e Ravenna as-

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sediate da Attila, e Roma sottoposta a blocco da parte di Totila.Sotto la penna dello scrittore tali rievocazioni si arricchiscono dinuovi particolari leggendari e la durata attribuita agli assedi ten-de a lievitare: forse la suggestione viene da Giordane che già at-tribuiva al blocco di Ravenna da parte di Teodorico una duratatriennale, certo è che, contro ogni dato storico reale, Paolo portaa tre anni gli assedi posti da Attila ad Aquileia e dagli Arabi a Co-stantinopoli nel 717.

Ad assumere intensità, durata e drammatizzazione prima igno-ta sono però soprattutto certi episodi relativi a Pavia. Qui, dovegià Odoacre aveva assediato Oreste, padre dell’ultimo imperato-re d’Occidente, Teodorico sarebbe stato bloccato per due anni; inseguito sarà Alboino a stringerla in un assedio, dalla sacramenta-le durata di tre anni, concluso da un miracolo che salva la città dal-la distruzione, ricalcato su quanto le storie di Aureliano racconta-vano a proposito di Tiana. In realtà è da respingersi non solo ladurata triennale ma l’intero avvenimento che ha tutta l’aria di uncalco fantasioso suggerito dalla mitizzazione dell’assedio comefatto topico, presente in forma quasi ossessiva nell’immaginazio-ne di Paolo Diacono. Egli bene esprime, dunque, un modo di sen-tire più generale tipico non solo del proprio tempo ma anche ditempi precedenti e successivi nei quali appare di fatto già piena-mente operante il «riflesso ossidionale»: di fronte a un attacco sitende, cioè, a reagire automaticamente rinchiudendosi con le pro-prie forze entro i luoghi fortificati3.

In tale quadro sembrerebbero nondimeno fare eccezione iFranchi che, sino ai primi decenni del IX secolo, sono costante-mente all’attacco nella sottomissione dell’Aquitania, nella lunga efaticosa conquista della Sassonia e del regno longobardo, nellosforzo di imporre la loro autorità in Bretagna e sugli Avari; essisvolgono quindi senza dubbio un’intensa attività di espugnazionee di distruzione di fortezze nemiche ricorrendo anche – sempre infunzione offensiva – alla costruzione di nuovi apprestamenti. So-lo quando i confini dell’impero carolingio cessano di ampliarsi sipensa ad allestire, oltre l’Elba, una linea difensiva continua arafforzamento del limes Saxonicus; altre fortezze (utili, probabil-mente, tanto per l’attacco quanto per la difesa) sorgono sulla fron-tiera orientale mentre, per contro, all’interno dell’impero, le anti-che cerchie urbane vengono cedute a privati e tranquillamente

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usate come cave di materiali. Tale atteggiamento, manifestato daCarlo Magno e dai suoi immediati successori, era probabilmenteimplicito nella natura stessa dello strumento militare messo in pie-di dai Pipinidi: organizzato per l’espansione e collaudato da un se-colo di guerre di aggressione, esso era di fatto privo di mentalitàdifensiva, cosa che non mancherà di avere contraccolpi sulle con-dizioni dell’età immediatamente seguente.

Il disinteresse per le fortificazioni dovette ben presto subireuna rapida inversione: esse divennero infatti indispensabili con ilprogressivo deteriorarsi della sicurezza dovuto sia alla conflittua-lità interna fra i competitori al trono, sia alle aggressioni di nemi-ci esterni (Vichinghi, Saraceni e poi Ungari), cui i regnanti non so-no in grado di porre valido riparo. Dagli ultimi decenni del IX se-colo poi, nei regni usciti dalla disgregazione dell’impero, vengo-no quindi aumentando le fortezze pubbliche e private: si tratta diun intenso processo che vede sorgere castelli ovunque sia ritenu-to utile e possibile. Anche l’impero carolingio finisce così per se-guire, sia pure con modi e tempi ad esso peculiari, il medesimo ci-clo che si era verificato per altri imperi: giunti al limite delle con-quiste, essi tendono a fortificarsi contro le offese esterne, resisto-no per un certo tempo ricercando una loro omogeneità sinché, di-venuta impossibile la difesa periferica, le fortificazioni si moltipli-cano all’interno chiudendo di fatto il ciclo.

L’incastellamento dei secoli X e XI non rappresenta, però, unsemplice proseguimento della tendenza alla proliferazione deipunti fortificati in atto sin dal III secolo, ma un fatto del tutto nuo-vo e originale poiché esso si attua a cura di signori, ecclesiastici elaici, che agiscono autonomamente dal potere centrale in forte cri-si; l’incremento numerico dei castelli contrassegna perciò, nellostesso tempo, il collasso della potenza imperiale carolingia e an-che, contraddittoriamente, un momento di grande sviluppo e vi-vacità economica e demografica. D’allora in poi, per molti secolia venire, chiunque in Europa potrà costruire castelli privati – co-me recita un testo famoso – «per ripararsi dai nemici, trionfare de-gli eguali, opprimere gli inferiori». Il loro numero raggiunge cosìuna densità senza precedenti; il valore difensivo è, in generale, tec-nicamente basso, ma viene esaltato dalla limitatezza dei mezzi adisposizione degli attaccanti: il «riflesso ossidionale» è pertantodestinato a radicalizzarsi e a condizionare il modo di combattere

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in Occidente ancora per mezzo millennio4. Se, per tutta l’età me-dievale, come si è visto, gran parte dell’attività bellica consistettein azioni di razzia e di distruzione, vengono quantitativamente su-bito dopo le operazioni che riguardano l’attacco e la difesa di luo-ghi fortificati lasciando assai poco spazio alle battaglie combattu-te in campo aperto che in passato sono state a torto consideratecome l’unica «vera» forma di guerra.

2. Le tecniche ossidionali in Occidente

L’arte di attaccare e di difendere le fortificazioni (poliorcetica)raggiunse il suo livello più alto nell’età ellenistico-romana tantoche Frontino, componendo intorno all’anno 84 d.C. i suoi Strate-gemata, riteneva che la meccanica militare avesse ormai da lungotempo raggiunto la perfezione e che non fosse più possibile mi-gliorarla. Dai tempi in cui il trattatista terminò la sua opera il li-vello della tecnologia cessò effettivamente di elevarsi e nella tardaantichità tese anzi a diminuire; in tale campo tuttavia la superio-rità dei Romani sui barbari non fu mai messa in discussione e leregole allora formulate – si può dire – rimasero valide, sia pure at-traverso dimenticanze e parziali recuperi, sino alla fine dell’età me-dievale.

Per attaccare in modo attivo una fortificazione occorreva in-nanzitutto potersi avvicinare in sicurezza, e a tale scopo i mezzipiù semplici e comuni erano i plutei o musculi («topolini»), cioègrandi scudi su ruote per proteggere i tiratori che, sfidando i col-pi degli assediati, dovevano spianare il terreno e colmare il fossa-to difensivo aprendo così la strada ai mezzi più pesanti e spetta-colari incaricati di agire direttamente sulle mura. Il primo di que-sti a entrare in azione era di solito la vinea o «testuggine»: si trat-tava di un robusto capannone «blindato» dotato di un tetto mol-to inclinato per favorire lo scivolamento dei proiettili e delle ma-terie incendiarie che il nemico lanciava dall’alto; sotto di esso i mi-natori potevano arrivare indenni alle mura per scalzarne le fon-damenta con appositi attrezzi, oppure per aprirvi brecce percuo-tendole con l’ariete, grossa trave dalla testa ferrata in bilico su ro-busti sostegni. Più imponente era la torre mobile («elepoli», «tur-

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ris ambulatoria») di altezza superiore alle mura, montata su ruo-te e spinta da uomini che agivano dal suo interno; essa era muni-ta di ponti volanti che consentivano di superare le mura dall’alto.Fornite di ruote erano talora anche le scale d’assalto perché po-tessero essere più facilmente avvicinate e più difficilmente rove-sciate dai difensori. Era infine possibile giungere sulle mura an-che mediante congegni a contrappeso come la sambuca e il tolle-none, capaci di sollevare interi drappelli di uomini armati sino al-l’altezza della merlatura.

Dal momento che sia l’attaccante sia il difensore facevano ri-corso a composizioni incendiarie, tutti i mezzi di avvicinamento,costruiti in legno, dovevano essere protetti contro il fuoco da pel-li di bovini appena scuoiati, da strati di terra e da materiali spu-gnosi imbevuti d’aceto. Le macchine d’assalto operavano accom-pagnate dal tiro delle «artiglierie», mezzi di grande importanza einteresse dal punto di vista meccanico; esse, disposte in posizionearretrata, erano in grado di far piovere proiettili di pietra sulle di-fese nemiche. Sotto il livello del suolo, infine, se le condizioni delterreno lo consentivano, si potevano aprire gallerie sia per far crol-lare le mura sia per sbucare di sorpresa nel loro interno. Era con-sigliabile che le diverse componenti dell’attacco agissero in sin-cronia fra loro: nello stesso momento in cui le macchine da lancioiniziavano il tiro contro la sommità delle mura, gli arieti doveva-no batterle dal basso e i minatori attaccarle sotto il livello del suo-lo: il nemico, impossibilitato così a rispondere a tante minacce si-multanee, avrebbe ceduto più facilmente.

Non è facile stabilire quanto dell’antica e raffinata tecnologiad’assedio si sia potuto conservare nella pratica: le popolazioni checonquistarono il potere in Occidente furono generalmente inca-paci di dominare la complicata e ingombrante attrezzatura neces-saria per affrontare convenientemente le fortificazioni romane,ma si mostrarono comunque in grado di improvvisare gli stru-menti più ovvi ed elementari: Attila fece infatti tremare le mura diOrléans sotto i colpi dei suoi arieti, e in Spagna, sui blocchi ci-clopici della cerchia di Terragona, si riconoscerebbero ancora og-gi le tracce lasciate dall’assedio dei Visigoti di Eurico. Le difficoltàche i barbari incontravano nell’assimilare fino in fondo la tecno-logia di tradizione greco-romana sono ben esemplificate da un ce-lebre episodio occorso durante la guerra greco-gotica. Vitige nel

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536 ritenne di poter prendere Roma per mezzo di arieti, scale etorri mobili di legno alte quanto le mura della città, trainate sulposto da buoi. All’avvicinarsi di quegli strumenti – racconta Pro-copio – i Romani rimasero sbigottiti, ma Belisario, «vedendo loschieramento nemico incedere con le macchine, se la rideva e or-dinava ai soldati di starsene fermi e di non venire alle mani fino aun suo cenno.

Perché ridesse, lì per lì non dava a conoscerlo, ma più tardi sicapì. Tuttavia i Romani, pensando che facesse lo spiritoso, lo in-solentivano chiamandolo impudente e s’arrabbiavano assai per ilfatto che non cercasse di arrestare l’avanzata nemica. Quandoperò i Goti arrivarono presso il fossato, il generale fu il primo atendere un arco e a colpire, prendendolo in pieno nel collo, unodi loro, tutto corazzato, che guidava un reparto». Diede poi ordi-ne alle sue schiere di mirare soltanto ai buoi così che, caduti su-bito questi, i nemici non erano più in grado di far muovere le tor-ri né, «ricevuto quello smacco, riuscivano a escogitare un rimedio.Ed ecco come ci si poté rendere conto della previdenza di Belisa-rio nel non tentare d’opporsi ai nemici ancora a distanza, e anchedel perché rideva dell’ingenuità dei nemici che, con tanta sconsi-deratezza, speravano di poter portare in giro dei buoi sotto le mu-ra avversarie». È dunque evidente che i Goti, pur capaci di co-struire torri mobili, non conoscevano i meccanismi per farle muo-vere stando al coperto, né avevano tenuto conto della gittata e del-l’efficacia delle armi da lancio di cui disponevano i difensori del-la città5.

Sembra che, in generale, abbia fatto difetto agli invasori so-prattutto la capacità di mettere a punto le grandi macchine da get-to carreggiabili di cui erano dotati gli eserciti ellenistici e romani:catapultae e ballistae in grado di lanciare dardi o sassi fino a circa700 metri mediante due fasci di fibre elastiche sottoposte a torsio-ne. Tali strumenti, considerati «il capolavoro tecnologico dell’an-tichità», erano entrati in uso, nella loro forma definitiva, soltantonel III secolo d.C. e venivano impiegati sia in battaglia per scom-paginare a distanza le file nemiche, sia, soprattutto, nelle opera-zioni di assedio. Le alte competenze tecniche necessarie per la co-struzione e per l’impiego di tali artiglierie erano però possedute so-lo da rari specialisti tanto che nel IV secolo si trovò conveniente ri-piegare sull’«onagro», una nuova macchina che forniva prestazio-

86 Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo

ni simili alle precedenti ma che, essendo dotata di un’unica gran-de molla, era molto più semplice da costruire e da utilizzare. Il suopeso raggiungeva però le due tonnellate ed era, quindi, essenzial-mente adatta a funzioni di difesa statica: si trattò di una «novità re-gressiva» indice del peggioramento delle capacità tecnologiche checaratterizzò appunto gli ultimi due secoli dell’impero.

Non è chiaro quanto di tali capacità sia pervenuto sino ai se-coli dell’alto Medioevo. Una parte della storiografia ritenne che inOccidente si succedessero più secoli «senza artiglieria», ma si è inseguito osservato che gli intervalli fra una guerra e l’altra non fu-rono in realtà così lunghi da provocare una completa dimenti-canza delle tecniche d’assedio tardo-antiche. Le stesse operazionidi cui si ha notizia fra VII e VIII secolo lascerebbero anzi pensa-re che Ispano-visigoti, Aquitani e Franchi ancora conoscessero letradizioni poliorcetiche romane. La sicurezza è però difficilmen-te raggiungibile poiché spesso le scarse fonti di quell’epoca si li-mitano a dare notizia di assedi senza fornire alcun particolare; ac-cennano a «piogge di pietre» senza menzionare i mezzi con i qua-li esse vengono scagliate, parlano genericamente di «macchine»senza indicarne la natura. Qualche elemento in più lo fornisce so-lo Gregorio di Tours in occasione dell’assedio di Comminges, nel-l’alta Garonna, avvenuto nel 585. Per distruggere la città il ducaLeudegiselo prepara «nuove macchine»: carri con arieti coperti digrate e di tavole, al di sotto delle quali l’esercito possa avvicinarsiper sfondare i muri». La stessa designazione degli arieti su ruotecome «nuove macchine» fa pensare alla ripresa – forse attraverso«consigli» scritti – di tecniche ormai generalmente desuete. Anchei difensori, tuttavia, sono in grado di rispondere con il lancio di pie-tre e di botti incendiarie confezionate con pece e con grasso.

Secondo Paolo Diacono nel 603 il re longobardo Agilulfoavrebbe espugnato Mantova dopo averne «abbattuto le mura congli arieti»; «arieti e diverse macchine da guerra» sarebbero poi sta-ti impiegati da Rotari per impadronirsi «senza alcuna difficoltà»di Bergamo, ma non vengono forniti altri particolari. La sofistica-ta tecnologia delle macchine da getto, derivata dalle esperienze dietà antica, che i barbari non furono mai in grado di utilizzare, do-veva già essere caduta in desuetudine nel corso del VI secolo poi-ché, dopo la guerra greco-gotica, non si ha più alcuna notiziadell’«onagro»; ma non tutto è così chiaro ed esiste pur sempre la

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possibilità che le tecniche romane non siano mai state completa-mente dimenticate. In ogni caso, proprio intorno al VI secolo, sivennero affermando nell’area mediterranea macchine del tuttonuove con funzionamento a bilanciere che, rispetto alle artiglierieantiche, non solo si presentavano più semplici da costruire e damantenere, ma avevano anche una potenza considerevolmentemaggiore.

Esse sono per la prima volta attestate nella raccolta dei mira-coli di san Demetrio che descrive l’assedio posto a Tessalonica da-gli Avaro-slavi nel 597: i barbari, rivestiti di ferro, dispongono diun impressionante parco di macchine fra le quali spiccano certi«petroboli» (lanciatori di pietre) che superano l’altezza delle mu-ra. Essi sono costituiti da un affusto quadrangolare sul quale stain bilico una grande trave che reca, da un lato, la sacca di una fion-da destinata ad accogliere il proiettile, e dall’altro i cavi per la tra-zione manuale; quando questi vengono azionati, enormi blocchidi pietra volano per l’aria con spaventoso rumore, e da essi la cittàsi salva solo grazie alla protezione del santo patrono.

Sorprende che gli Avaro-slavi fossero in grado di costruire e diutilizzare simili apparecchi e si pensa che essi ne siano venuti a co-noscenza attraverso istruttori bizantini. Alcuni cronisti ricordano,infatti, che nel 579 durante l’assedio di Appiaria, sul Danubio, unsoldato trace di nome Busa, catturato dagli Avari, per salvarsi lavita avrebbe insegnato loro il modo di costruire macchine d’asse-dio che essi ancora ignoravano. I diversi autori parlano, in verità,di «elepoli» o di arieti e non di macchine da lancio; anche qui dun-que non tutto è chiaro. Il mangano «a trazione», descritto nei mi-racoli di san Demetrio è nondimeno già menzionato nelle fontiarabe all’epoca del profeta Maometto (571-632 d.C.), mentre dalVII secolo in poi fanno la loro comparsa nei documenti bizantinii temini manganon e petraria, entrambi sconosciuti nell’antichità.Sapendo che le artiglierie a bilanciere erano operanti in Cina mol-ti secoli prima, si può così ipotizzare un itinerario di penetrazio-ne di tale mezzo da lancio che dall’estremo Oriente, attraverso ilmondo arabo, approdò all’area mediterranea orientale; di là soloin un secondo momento raggiungerà la Francia, allora centro po-litico, culturale e militare del mondo occidentale.

Rimane dubbio – come si è detto – se prima di allora i Franchiavessero continuato a conoscere il funzionamento delle macchine

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a torsione dell’età tardo-antica o se avessero recuperato procedi-menti ormai dimenticati attraverso la lettura di trattatisti come Vi-truvio, Vegezio o l’anonimo autore del De rebus bellicis, fatto che,per quanto in teoria possibile, appare nondimeno assai difficile darealizzare. Certo in ambito franco non si ha notizia né di manga-ni né di petrarie prima del IX secolo inoltrato, né i due terminiviaggiano insieme. La precedenza sembra spettare alla petraria ci-tata come vettore di proiettili incendiari in un codice della Map-pae clavicula che venne forse trascritto nei primi decenni del IXsecolo a Saint-Armand presso Tours. Gli Annales Laurissenses, re-datti intorno all’830, narrano poi, sotto l’anno 776, l’assedio di Sy-burg da parte dei Sassoni ben dotati di petrarie, per quanto queibarbari si mostrino incapaci di impiegarle in modo corretto. L’at-tendibilità dell’episodio è peraltro discussa potendo trattarsi diun’interpolazione alquanto posteriore.

All’incirca nello stesso tempo ecco comparire nelle fonti nar-rative franche anche il mangano. L’anonima vita di Ludovico ilPio, scritta verso l’850, ci presenta il protagonista nell’atto di as-sediare Tortosa mediante mangani e altre macchine di tradizioneantica; il monaco di Saint-Germain Abbone, autore nell’890 circadi un poema sulla difesa di Parigi assediata pochi anni prima (885-886) dai Normanni, ci fornisce addirittura una rapida descrizionedella macchina da lancio «volgarmente chiamata mangano». Se ladenominazione era già allora considerata popolare non potevatrattarsi di un calco libresco, possibile invece per le altre macchi-ne insieme menzionate. La cronaca di Reginone di Prüm sottol’anno 873 ci mostra infine Carlo il Calvo assediare Angers occu-pata dai Normanni servendosi di «nuovi e raffinati macchinari»;di essi in verità non viene dichiarata la natura, ma potrebbe ap-punto trattarsi di macchine da lancio a bilanciere. La presenza delmangano è del resto attestata anche da una fonte iconograficasinora non sufficientemente valorizzata: una miniatura del Librodei Maccabei, databile al 925 circa, rappresenta appunto, fra letorri di una città assediata, l’inconfondibile sagoma di un man-gano a trazione. Si ha pertanto conferma che le artiglierie di nuo-va concezione erano presenti in Francia negli anni in cui l’imperocarolingio era ormai in crisi, mentre non è del tutto sicuro che diesse avessero già potuto servirsi gli eserciti del tempo di CarloMagno.

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Altrettanto incerto rimane, per ora, se i Franchi siano venuti aconoscenza di mangano e petraria mediante i contatti diretti cheessi ebbero con gli Arabi nella penisola iberica, oppure attraversol’Italia per il tramite bizantino e longobardo. In favore di que-st’ultima ipotesi vi è il fatto che il termine petraria risulta usato unaprima e unica volta nella Storia dei Longobardi di Paolo Diacono.Egli scrisse, è vero, la sua opera negli ultimi decenni dell’VIII se-colo, ma in essa, parlando dell’assedio di Benevento da parte del-l’imperatore bizantino Costante, avvenuto nell’anno 663, si narrache costui – fatto decapitare il precettore di re Grimoaldo – ne lan-ciò la testa in città «con una macchina da guerra che chiamano pe-traria». Questa parola è da interpretare come un «neologismo tec-nico» poiché non compare in nessun altro testo latino anteriore;se si considera poi che, nel racconto, la macchina risulta impiega-ta dai Bizantini, petraria potrebbe davvero essere un recente calcodal greco. Va ancora aggiunto, per completezza, che l’episodio diBenevento appare coniato su un altro analogo presente negli Stra-tegemata di Frontino: Domizio Corbulone all’assedio di Tigrano-certa lancia in città la testa di un prigioniero mediante una balli-sta. Il fatto che tale vocabolo sia stato sostituito dal neologismo pe-traria acquista quindi un non trascurabile valore documentario6.

Le fonti narrative a Roma e nell’Italia centromeridionale con-tinuano, nei secoli seguenti, a menzionare la petraria ignorandoperò il mangano. Va nondimeno tenuto presente che il solo nomenon è di per sé sufficiente a testimoniare con certezza l’esistenzadell’oggetto da esso indicato; in mancanza di altri dati più precisiè quindi, per ora, impossibile arrivare a conclusioni definitive sul-la natura, sui modi e sui tempi in cui le nuove macchine da lanciofurono adottate e, più in generale, sui progressi della tecnologiad’assedio in Occidente, problema sul quale gravano non poche al-tre incognite. Il già citato poema di Abbone sull’assedio di Parigiha indotto più di uno a constatare, non senza sorpresa, che le tec-niche di attacco e di difesa di una fortificazione apparirebbero giàallora molto progredite. Circa un secolo dopo l’opera di un altrofrancese, le Storie di Richero, descrivono nei particolari torri mo-bili e arieti dando da intendere che essi erano al suo tempo di im-piego corrente.

Oltre che, come si è visto, del mangano, Abbone parla dell’u-so di dardi avvelenati, di proiettili lanciati con fionde e baliste, di

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mura attaccate alla base mediante macchine chiamate musculi, difuoco liquido composto di cera, olio e pece, di grandi frecce ca-paci di trafiggere d’un colpo più nemici; il cielo di Parigi appareattraversato da proiettili di pietra e di piombo lanciati da catapul-tae e ballistae «nervis iaculata», azionate cioè mediante meccani-smi a torsione; si accenna a protezioni per tre o quattro uominiche «la penna latina chiama plutei e crates», cioè specie di man-telletti; si parla, infine, di testudines formate di scudi e di arieti suruote. Si tratta di un armamentario di vocaboli e di procedimentiche si richiamano evidentemente alla trattatistica antica: a Vitru-vio e a Vegezio, innanzitutto, ma anche ai racconti di Cesare, sen-za che sia però possibile indicare un’unica, precisa fonte. Abbonepotrebbe quindi aver avuto a disposizione una di quelle raccoltesul genere della Mappae clavicula dove, insieme con «ricette» percomporre colori e per fondere metalli, si trovano indicazioni di«balistica incendiaria», consigli per l’avvelenamento di frecce eper la costruzione di arieti su ruote.

Si ha, in conclusione, più di una ragione per sospettare che ilpoema di Abbone contenga elementi libreschi ai quali, del resto,l’autore stesso sembra alludere quando parla di una «penna lati-na» dalla quale ha desunto la sua nomenclatura. «Quanto più ci sifamiliarizza con gli scritti degli antichi – è stato giustamente osser-vato – tanto più ci si accorge che molte descrizioni degli storici me-dievali sono semplici riprese degli autori precedenti, che con la ve-rità del fatto realmente accaduto hanno poco o niente a che fare».Ciò non esclude che tale tendenza «di tipo umanistico» a richia-marsi a modelli antichi abbia talora contribuito alla rinascita di cer-te tecniche attraverso un consapevole collegamento con il passato.

Simile è il caso di Richero la cui opera, giuntaci nel manoscrit-to originale, non è sospettabile di interpolazioni. Egli, verso la fi-ne del X secolo, descrive con una certa ampiezza un ariete su ruo-te con il quale, nel 938, il re di Francia Ludovico IV avrebbe de-molito le mura di Laon costringendo la città alla resa, e parla diuno strumento dello stesso genere risultato invece inefficace nel988 quando Ugo Capeto tentò di rioccupare la medesima città.Più complesso e macchinoso il funzionamento di una torre mobi-le, fatta costruire nel 985 da re Lotario contro Verdun, alla qualegli avversari contrappongono una macchina simile, pur essendoalla fine costretti ad arrendersi.

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Neppure delle descrizioni di Richero è possibile indicare unamatrice precisa, ma anch’esse risultano ispirate alla trattatisticatecnica del genere vitruviano. Potrebbe trattarsi, in specie, di ex-cerpta di una traduzione latina di Apollodoro di Damasco, con ilquale si notano indubbie somiglianze. Il fatto stesso che non si no-minino mai i costruttori delle macchine, personaggi chiave in talisituazioni, rafforza l’impressione che si tratti di dati desunti daun’opera tecnica. Né ciò stupisce dal momento che in altri puntidel suo lavoro Richero (allievo, ricordiamo, del grande Gerbertodi Aurillac, di cui condivide gli interessi scientifici) si compiacedi digressioni mediche anch’esse verisimilmente tratte da antichitesti mentre, per la narrazione di battaglie e per altri particolaridi interesse militare, attinge volentieri al Bellum Iugurtinum diSallustio.

Del resto, di fronte alla normale laconicità delle fonti coeve su-gli aspetti tecnici, la precoce e inusuale loquacità di Abbone e diRichero riesce di per sé sospetta. Tali autori andranno perciò in-terpretati non come specchio di una realtà effettiva, ma come te-stimonianza di un’aspirazione, che era ai loro tempi in atto, versoil recupero della tecnologia antica di cui si vedranno a non lungascadenza i frutti. Si dovrà partire dall’ipotesi che nei secoli IX eX, quando non si trattava di attaccare fortificazioni ereditate dal-l’età tardo antica, tanto le difese quanto le concezioni difensiveerano elementari e risultavano efficaci solo per l’insufficienza deimezzi d’attacco. L’azione si sviluppava mediante assalti frontali,incendi, iniziative individuali basate sulla sorpresa e, soprattuttoattraverso il blocco statico che era la tecnica più correntementeadottata dall’assediante.

I cronisti dell’Italia meridionale riferiscono, infatti, molti casidi assedi condotti senza l’impiego di particolari strumenti, e sol-tanto nell’821 mostrano Napoli duramente attaccata con «iaculiset scorpionibus»; arieti e altre generiche macchine vengono poimesse in campo nell’887 contro l’anfiteatro di Capua. I dati suc-cessivamente forniti dal Chronicon Salernitanum (redatto nel Xsecolo) documentano però che da tempo in Campania venivanoimpiegate petrarie (insieme, anche qui, con più generiche «mac-chine») da parte sia dei Bizantini, che nell’861 avevano assediatoAvellino e Capua, sia dei Saraceni che assalgono Salerno nell’871.Le ripetute campagne intraprese da Ludovico II in quelle regioni

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lo videro impegnato in numerose, anche se non sempre fortunateoperazioni di assedio, specialmente contro Bari. Le esperienze diguerra compiute nell’Italia del Sud, che coinvolsero dunque eser-citi di diversa provenienza e capacità tecnica, poterono avere nonpoco peso nello stabilire la tradizione di tecnologia ossidionaleche sembra sottintesa nelle numerose notizie date dal cronista sa-lernitano. Esse avrebbero costituito, nel secolo successivo, un ter-reno di coltura favorevole per i futuri sviluppi della poliorceticanormanna7.

Sarà infatti la seconda metà dell’XI secolo a rivelare progressisignificativi, consistenti essenzialmente nel recupero di procedi-menti già in uso nell’antichità greco-romana, sia attraverso i con-tatti degli occidentali con le civiltà araba e bizantina, che avevanoconservato memoria diretta di quelle pratiche, sia riscoprendo einterpretando autonomamente la trattatistica antica. I progressi simanifestano, forse non a caso, lungo la linea di contatto fra la cri-stianità e il mondo islamico, dalla penisola iberica alla Sicilia, daun lato, e con il mondo bizantino dall’altro, includendo i mari in-terposti. Alcuni importanti assedi ebbero luogo in Catalogna e fraessi vi fu nel 1064 quello di Barbastro; benché la scarsità delleinformazioni disponibili non permetta in concreto di dire qualecontributo esso abbia apportato allo sviluppo della poliorcetica,sta però di fatto che, in anni di poco successivi, gli Usatges catala-ni proibiscono di assediare fortezze servendosi di ingenia «che irustici chiamano fundibula, gossa e gatta», ossia – si dovrà inten-dere – di macchine da lancio, per scalzare le mura e per accostar-si ad esse al coperto. Tecniche simili, assai probabilmente, eranonote nel medesimo periodo anche agli Arabi, che nella penisolaiberica si contrapponevano all’iniziativa militare cristiana, e ai ma-rinai di Pisa e di Genova che, sin dall’inizio dell’XI secolo, aveva-no condotto spedizioni navali contro le basi islamiche nelle gran-di isole del Mediterraneo occidentale e in Nord Africa.

Le celebrazioni poetiche ed epigrafiche di quelle gesta, in ve-rità, poco ci dicono sugli aspetti concreti delle tecniche utilizzate,mentre migliori possibilità offrono le fonti disponibili per l’Italiameridionale e per la Sicilia dove, nella seconda metà del secolo,operano con successo i guerrieri venuti dalla Normandia. La tec-nica d’assedio da costoro praticata nei primi decenni era preva-lentemente statica e tendeva a indurre l’avversario a cedere so-

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prattutto per fame; fra 1053 e 1098 essi si mostrano nondimenoin grado di minacciare i luoghi fortificati mediante l’esibizione dimachinamenta appositamente «preparati per prendere le città»; laloro natura non viene precisata, ma l’effetto psicologico è cosìgrande da indurre talora gli assediati alla resa a prima vista.

Tali macchinari saranno da identificare con le scale «artificio-sissime» impiegate nel 1071 nella presa di Palermo e con le torrisu ruote, munite di arieti e di ponti d’assalto, poi utilizzate da Ro-berto il Guiscardo nel 1068 all’assedio di Bari e, vent’anni dopo,in quello di Durazzo, operazioni nelle quali egli fu in grado di im-pressionare e mettere in difficoltà tanto gli Arabi quanto i Bizan-tini. I Normanni avevano sin d’allora assimilato integralmente latecnologia d’assedio dell’età ellenistica, con tutta probabilità at-traverso codici come quello dell’XI secolo oggi conservato in Va-ticano e verisimilmente proveniente dalla biblioteca dei re nor-manni: esso contiene una silloge di poliorcetica che va sotto il no-me di Erone di Bisanzio, vero e proprio manuale corredato da il-lustrazioni sufficienti per consentire la riproduzione pratica deimeccanismi descritti.

Attraverso il raccordo sempre attivo fra i Normanni d’Italia edi Normandia, i progressi avvenuti in Puglia e in Sicilia si estese-ro ben presto dalle rive del Mediterraneo centrale alle spondeatlantiche: nel 1066 Guglielmo il Conquistatore impiega infatti,nell’assedio di Londra, grandi macchine per abbattere e scalzarele mura; Exeter viene indotta alla resa da attacchi condotti per piùgiorni, con gli stessi mezzi, sull’alto delle mura e dal sottosuolo.Boemondo di Altavilla, qualche decennio dopo, certo si giovò inPalestina delle esperienze fatte nell’Italia meridionale per affron-tare con successo, accanto ad altri guerrieri occidentali, i grandiassedi che segnarono l’intero corso della prima crociata da Niceaa Gerusalemme: là dunque confluirono le conoscenze poliorceti-che messe a punto durante le «precrociate» europee dai Nor-manni, dalle città marinare italiane e dai reduci degli assedi cata-lani. Con il ritorno dei crociati in Europa le innovazioni tecniche,arricchite dalle esperienze di Terrasanta, rifluirono poi in Occi-dente, e se ne videro risultati significativi, per esempio, nell’inve-stimento di Durazzo da parte di Boemondo nell’ottobre del 1107,nelle operazioni condotte dai Pisani alle Baleari nel 1114, dai Mi-lanesi a Como nel 1126, dai crociati anglonormanni a Lisbona nel

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1146 e, infine, nei numerosi assedi che ebbero luogo, dopo la metàdel XII secolo, nell’Italia padana nelle lotte tra Federico I e i co-muni italiani e nella Francia di Filippo Augusto.

È questo, si può dire, il momento più alto raggiunto nel recu-pero della poliorcetica antica: arieti, «gatti» e gigantesche torrimobili sono ormai presenti in ogni grande assedio dell’Occiden-te, appoggiati dal tiro delle macchine da lancio secondo precisischemi tattici, messi a punto da Pisani e Genovesi sulle coste delMediterraneo orientale subito dopo la prima crociata, e che ritro-viamo negli assedi di Maiorca e poi di Como: una o più coppie ditorri mobili, alle quali viene interposto un «gatto», protette dal ti-ro incessante delle macchine da lancio, attaccano le fortificazionimentre i tiratori appostati sulle torri mobili non danno tregua aidifensori costretti così in breve ad arrendersi. E se i nomi dellemacchine da lancio sono ancora gli stessi che già circolavano inetà carolingia, lo stupore dei cronisti davanti alle loro prestazionisottintende progressi di cui non è possibile stabilire la natura, mache devono averle migliorate di molto: nel 1159 i mangani cre-maschi, secondo Ottone Morena, lanciano pietre grandissime «ta-li che si crederebbe impossibile se non fossero state viste con gliocchi».

Se ci lasciamo guidare dalle innovazioni lessicali (che sono delresto l’unica possibilità di cogliere un rinnovamento tecnologico),progressi decisivi dovrebbero essere intervenuti tra il sesto e l’ot-tavo decennio del XII secolo allorché, accanto al mangano e allapetraria, compare nell’Europa mediterranea il «trabucco», cioè lamacchina da getto a bilanciere, munita di contrappeso, che con-feriva nuove possibilità al vecchio mangano e apriva prospettivedi ulteriori perfezionamenti. La prima menzione del trabucco acontrappeso comparirebbe in area bizantina nel 1165, ma nel1189 già si trova in Italia settentrionale la forma diminutiva: inquell’anno, infatti, gli uomini di Solagna giurano fedeltà al comu-ne di Vicenza impegnandosi a non tirare in città «nec cum man-gano, nec trabuchello, aut cum prederia». Il nuovo mezzo dove-va dunque essere già presente da tempo, avanguardia di una dif-fusione che nei primi decenni del Duecento si estendeva ormai atutta l’Europa.

Dovette aprirsi, così, un periodo di intensa ricerca volta a mi-gliorare ulteriormente l’efficacia del mezzo i cui risultati si colgo-

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no, anche qui, innanzitutto attraverso la comparsa di nuovi ele-menti lessicali: l’opera di Egidio Romano, scritta nell’ottavo de-cennio del Duecento, menziona infatti quattro tipi di macchine dalancio, indicandone anche brevemente il funzionamento: accantoal semplice trabucco, dotato di contrappeso fisso, esiste ormai labiffa (detta anche blida, biblia, briccola) munita di contrappesomobile, il tripantum (o tripontum) che possiede l’uno e l’altro,mentre una quarta macchina senza contrappeso sarà da identifi-care con il vecchio mangano a trazione manuale rimasto in uso ac-canto ai nuovi tipi, ciascuno dotato di caratteristiche balisticheproprie.

Se i progressi nel campo delle macchine da lancio continuaro-no, non così sembra si possa dire per le altre tecniche di assedio.La superiorità degli attaccanti aveva permesso nel 1160 a Federi-co I di trionfare a Crema, ma egli fallisce nel 1174 contro Ales-sandria: questa città, fondata da pochi anni, è priva di mura e af-fida la sua difesa a forti spalti di terra battuta e a un ampio fossa-to: anche qui, come a Crema, l’assedio si svolge per buona partenella stagione invernale e gli strumenti impiegati sono gli stessi, senon che i risultati ottenuti risultano molto diversi. Le due parti, insostanza, finiscono tecnicamente per equivalersi lasciando dun-que pensare che lo scompenso in favore dell’attaccante – provo-cato, verso la metà del XII secolo, dall’arrivo delle nuove tecno-logie – al tempo dell’assedio di Alessandria fosse già stato recu-perato e fosse subentrata fra attacco e difesa una nuova posizionedi stallo.

Nel Duecento gli sfoggi di tecnologia non trovano più alcuncronista disposto a stupirsi, segno evidente che la diffusione dicerte innovazioni è ormai un fatto acquisito e la costruzione di ef-ficaci macchine da lancio e di avvicinamento, insieme con l’usodel fuoco e delle gallerie di mina, sono divenute pratiche corren-ti. Si spiegano così anche i numerosi insuccessi di assedi che si ve-rificano nel corso di quel secolo, dalla crociata antialbigese nelSud della Francia a quelli di Federico II contro le città italiane.Per dare una nuova fondamentale scossa ai procedimenti polior-cetici occorrerà ormai attendere l’avvento delle armi da fuoco8.

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3. «Mirandi artifices»: gli ingegneri militari

Nel mondo greco sin dal IV secolo a.C. la poliorcetica «si eraormai meccanizzata a tal punto che il successo sembrava toccarea chi si assicurava il servizio degli specialisti più numerosi e qua-lificati nella costruzione dei macchinari d’assedio». L’importanzaallora assunta dai detentori del sapere tecnico, rimasta in parte vi-va anche nell’alto Medioevo, tornò a crescere, insieme con il pro-gressivo recupero dei procedimenti poliorcetici antichi, sino atoccare il culmine nel corso dei secoli XII e XIII. Chi erano colo-ro che per tanto tempo ebbero nelle mani le sorti delle guerre? Larisposta non è facile poiché essi poco scrissero di se stessi e gli sto-rici raramente li tengono in conto, e non tanto per riconoscerne imeriti, quanto per deplorarne la doppiezza e l’inaffidabilità, comesi è visto per Busa, accusato di aver insegnato agli Avari il modo dicostruire le macchine d’assedio impiegate contro Tessalonica.

Si trattava, in generale, di artigiani, fabbri e carpentieri, in pos-sesso di un sapere empirico acquisito attraverso la pratica e tra-smesso quasi esclusivamente per via orale, di padre in figlio o damaestro ad apprendista. Al vertice della gerarchia stava l’«archi-tetto» (detto poi «ingegnere») il quale, condividendo l’esperienzadei suoi subordinati, era in grado di organizzare e dirigere il com-plesso dei lavori d’assedio. Le fonti solo occasionalmente lascianointravedere la loro figura, per lo più sotto forma di uomini itine-ranti disposti, per necessità o per desiderio di lucro, a mettere leproprie nozioni di tecnologia militare a disposizione di un com-mittente interessato a servirsene.

Vitruvio – uno dei pochi «architetti» che, in età romana, abbiaaffidato il suo sapere allo scritto – dopo aver esposto il modo dicostruire le macchine da guerra, si compiace di ricordare famosiassedi del passato nei quali l’opera degli «architetti» aveva con-sentito di raggiungere il successo. La raccolta di esempi ha pro-babilmente un’intenzione apologetica, quasi una «rivincita del-l’architetto» nei confronti degli storici i quali citano talora nomidi semplici soldati protagonisti di combattimenti omettendo in-vece quelli di uomini che, con la loro opera, hanno contribuito al-la vittoria in modo ben più concreto. Nella mentalità corrente lapartecipazione degli «architetti» o «ingegneri» alla guerra non erasufficiente a farne dei veri guerrieri né, d’altra parte, l’impegno in

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problemi puramente tecnici bastava per meritarsi un prestigio in-tellettuale; essi, in breve, pur essendo apprezzati per le proprie ca-pacità pratiche, non potevano essere messi sullo stesso piano nédei combattenti né dei «sapienti». Si tratta di una sottovalutazio-ne del sapere tecnico che trascorre, senza interruzione, dall’anti-chità all’età medievale quasi fosse un impulso antropologico in-sopprimibile dell’uomo occidentale. A maggior ragione i tecnicivengono trascurati dalla letteratura epica concepita a esaltazionedell’eroe e delle sue capacità di colpire direttamente l’avversario;solo incidentalmente, quindi, è possibile cogliere la presenza de-gli «ingegneri» nel bel mezzo di un’azione di guerra.

Nel gennaio dell’886, mentre Parigi è assediata dai Normanni– racconta Abbone – costoro erano intenti a costruire una com-plessa macchina d’assalto su ruote quando un proiettile lanciatodai difensori colpì a morte i due artifices o magistri che sovrinten-devano ai lavori: «Essi furono così i primi – osserva compiaciutoil poeta – a subire il trapasso che stavano preparando per noi».Nulla viene detto sull’abilità né sulla provenienza dei due, la cuiimportanza è però indirettamente provata dal fatto che, scompar-si loro, la macchina non poté più essere completata. Decisamenteeccezionale, per l’epoca, è la figura del «maestro» messa in scenanel X secolo dall’anonimo autore del Chronicon Salernitanum. In-torno al 946 il principe Gisulfo assediava il ribelle castello diAquino, ma pur giovandosi – dice il cronista – di «diverse mac-chine», non riusciva ad averne ragione. Fu allora che si presentòa lui Sichelmanno, «uomo valido nel lavorare il legname», ori-ginario dell’alpestre luogo di Acerno: «Mio principe, vuoi cheprendiamo questo castello?» egli propose confidenzialmente aGisulfo, e rapidamente realizzò «una macchina che noi chiamia-mo petraria, di mirabile grandezza» in grado di «danneggiare for-temente le mura» e di indurre infine i ribelli a cedere.

Il principe Gisulfo già aveva a disposizione «diverse macchi-ne», ma la loro efficacia era evidentemente modesta; solo la per-sonale abilità di Sichelmanno riesce a rendere la sua petraria mi-gliore delle altre: un semplice artigiano – viene da domandarsi –come aveva acquisito tanta abilità nel fabbricare «mirabili stru-menti di guerra»? Nessuna spiegazione viene fornita; è però no-tevole che la vicenda sia stata tramandata insieme con il nome delprotagonista: Sichelmanno diventa così l’antesignano di tutta una

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serie di personaggi presenti nelle storie dei secoli successivi, il cuiprototipo andrà forse ricercato negli «architetti» dell’antichità ri-cordati da Vitruvio.

Può non essere casuale che, un secolo dopo, altre notizie sul-l’esistenza e sull’attività di uomini esperti nella costruzione dimacchine d’assedio provengano ancora dall’Italia meridionale.Nel 1042 il barese Argiro, imbevuto di cultura bizantina, allesti-sce o fa allestire a Trani una torre d’assedio giudicata dai cronisti«mai vista da occhi umani in tempi moderni», espressione che ri-vela a un tempo la rarità dell’oggetto e il suo recupero dal passa-to. Negli anni immediatamente successivi l’espansione normannain Puglia fu accompagnata dall’attività di «artefici dottissimi» checonoscevano machinamenta in grado di «abbattere mura e torri».Non si specifica, nemmeno qui, né la provenienza delle personené la natura delle macchine costruite, ma è assai ragionevole cre-dere che sia Argiro sia i «dottissimi artefici» al servizio dei Nor-manni avessero attinto le loro conoscenze alla tradizione dell’an-tica trattatistica greca.

Nello stesso periodo sviluppi analoghi si scorgono nella peni-sola iberica: nel 1058 il conte di Barcellona Raimondo Berengarioha ai suoi ordini un «Adalbertus ingeniator» in grado di costrui-re macchine d’assedio, al quale viene imposto di giurare il segre-to sulle tecniche a lui note. Altri ingegneri militari accompagnanol’esercito catalano attivo contro Saragozza e, nello stesso anno, siparla del «donum de ingeniatores» con il quale i vassalli del con-te dovevano contribuire alle ingenti spese richieste da quello sfor-zo economico non indifferente. La precoce menzione di ingenia-tores (termine che compare ora per la prima volta nelle fonti eu-ropee occidentali) implica evidentemente una ricerca in atto an-che se mancano esplicite indicazioni sui risultati conseguiti.

Qualcosa di più dice il carme pisano che celebra la vittoria del-la spedizione contro Madia (una base araba dell’Africa setten-trionale) avvenuta nel 1084. Prima di dirigersi contro di essa Pi-sani, Romani, Genovesi e Amalfitani, che costituivano il grossodel contingente, attaccarono e conquistarono il munitissimo ca-stello di Pantelleria, contro il quale – dice il poeta – certi «miran-di artifices» costruirono alte torri di legno che consentirono unsuccesso ritenuto impossibile. Fra gli «artefici» che realizzaronola memoranda impresa è possibile che vi fosse anche il grande Bu-

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scheto, costruttore del duomo di Pisa, il cui epitaffio, insieme conl’abilità e i meriti artistici, celebra una sfida da lui vinta contro unnemico, del quale non si dichiara la natura, e che potrebbe ben es-sere un nemico reale anziché simbolico9.

Dall’Italia meridionale, come si è visto, le innovazioni tecno-logiche raggiunsero rapidamente la Normandia. Proprio là, al-l’assedio di Bréval, nella Quaresima del 1094, fa la sua comparsaun «ingegnosissimo artefice» che costruisce per Roberto di Bellê-me le macchine da impiegare contro la fortezza nemica: si trattadi una torre mobile su ruote e di un ordigno capace di lanciare«ingenti sassi»; lo stesso «artefice» consiglia inoltre agli attaccantiil modo di distruggere il vallo e le siepi difensive, e abbatte «i tettidelle case provocando agli abitanti così gravi disgrazie da indurlialla resa»: era evidentemente un uomo esperto in ogni campo del-la tecnologia d’assedio. La sua «ingegnosa sagacia» – dice Orderi-co Vitale – giovò in seguito ai cristiani nella conquista di Gerusa-lemme; proprio in Terrasanta le cronache tornano a mostrarci al-l’opera figure di «ingegneri» portatori di raffinate nozioni tecni-che, e li ritroveremo in seguito sempre più spesso presenti sui prin-cipali teatri di operazioni d’Europa e del vicino Oriente.

I crociati il 14 maggio 1097 avevano cinto d’assedio Nicea e dasettimane – racconta Alberto di Aquisgrana – si stavano inutil-mente accanendo contro le sue formidabili mura, allorché si pre-sentò ai capi dell’esercito cristiano «un tale di nazione longobar-do, maestro e inventore di grandi arti e opere». «Vedo – egli dis-se – che le macchine da voi allestite si affaticano invano, molti deivostri cadono sotto le mura e anche altri corrono grave pericolo»:nessuno strumento, infatti, riusciva a intaccare le fortificazionidella città «fondate dall’astuzia degli antichi». Se si vorrà dareascolto ai suoi consigli – proseguì il «Longobardo» – fornire imezzi necessari e promettere un premio adeguato, egli si dichia-rava in grado di abbattere la torre sottoposta sino allora a inutilisforzi. Ottenuto quanto richiedeva, il «maestro d’arte», senza per-dere tempo, «connette parti inclinate e adatta graticci di verghe»dando così forma a un «mirabile strumento» in grado di resisterealle frecce, al fuoco e alle pietre lanciate dai difensori turchi; sot-to tale protezione si adopera «con i rimanenti suoi operai» a mi-nare le fondamenta della torre sinché, incendiati i sostegni di le-gno predisposti, essa precipita nella notte con rumore di tuono.

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Quel risultato non fu di per sé sufficiente a provocare subito la ca-duta della città, ma giovò intanto a rinsaldare il morale dell’inte-ra spedizione e quindi al conseguimento del successo finale.

Si trattava verisimilmente di un «Longobardo» venuto dalla«Longobardia minor» al seguito di Boemondo di Altavilla, cioèdall’Italia meridionale dove, come si è visto, la frenetica attivitàbellica indotta dalle conquiste normanne aveva dato luogo, per uncinquantennio, a innumerevoli episodi di attacco e difesa di piaz-zeforti in un ambiente soggetto a non mai spente suggestioni cul-turali bizantine. Il «maestro d’arte» accompagnato, a quanto pa-re, da un gruppo di aiutanti, si trovava là con il preciso intento dioffrire i suoi servizi dietro compenso. L’apparecchiatura da luirealizzata ricorda poi, molto da vicino, la «testuggine da minato-re», in grado appunto di «far scivolare tutti i proiettili diretti con-tro di essa», illustrata nei Poliorketika di Apollodoro di Damasco,che evidentemente il «Longobardo» doveva conoscere10.

Quando i crociati, nel luglio del 1099, giunsero sotto le muradi Gerusalemme, i capi studiarono la possibilità di ingeniare lacittà cioè, si deve intendere, di attaccarla per mezzo delle mac-chine, ma, a quanto pare, i «maestri» colsero l’occasione per ap-profittare in modo poco nobile delle proprie competenze: si la-vorò alacremente per trasportare, anche da molto lontano, il le-gname necessario e tutti prestarono la loro opera spontaneamen-te e gratuitamente «eccetto gli artefici che si fanno invece paga-re». Non viene detto espressamente di chi si tratta, ma sembra siintenda alludere ai carpentieri della flotta genovese menzionati in-fatti poco dopo. Più onesto si mostrò l’«ingegnere» di origineorientale protagonista nel 1124 dell’assedio di Tiro. I crociati ve-neziani erano duramente bersagliati dalle macchine da lancio deidifensori e nell’esercito cristiano non vi era nessuno che avessesufficiente esperienza per dirigere il tiro; ci si risolse allora a ri-chiedere la collaborazione di «un tale di Antiochia di nazione ar-meno e di nome Havedic, che si diceva in ciò espertissimo». Eglisenz’altro accettò di sovrintendere alle macchine cristiane e ci riu-scì così bene che i loro proiettili raggiungevano senza difficoltàqualunque bersaglio venisse indicato. Fu subito stabilito di retri-buire pubblicamente Havedic con un congruo compenso in mo-do che potesse presentarsi decorosamente, e d’allora in poi egli siapplicò con tanta diligenza e sapienza che non solo l’assedio pro-

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seguì, ma dopo il suo arrivo i danni inferti al nemico furono rad-doppiati. L’episodio (che rivela implicitamente la scarsa prepara-zione tecnica dei Veneziani) ci mostra un «ingegnere» famoso e,ciò nonostante, diligentissimo esecutore, ben degno di essere ri-cordato per nome.

I «sapienti artefici» costruttori di macchine d’assedio ebberoun ruolo di grande importanza durante la spedizione pisana del1114 contro le Baleari. Il poeta che narra l’impresa nel Libro diMaiorca ci presenta il tecnico Oriciade sotto le mura di Ibiza men-tre «erge ad occidente una mirabile macchina per assalire lungotratto delle robuste mura», e poco dopo ci fa sapere che «la te-stuggine costruita dall’abile Oriciade» aveva già aperto nel muropiù di una breccia. In seguito il popolo pisano «si affatica per tra-sportare sopra le alte mura della città il castello di legno che Do-menico apparecchiò con ingegnosa cura»: qui dunque, di nuovo,i nomi di due tecnici vengono accomunati a quelli (certo moltopiù numerosi) dei combattenti che contribuirono alla riuscita del-l’impresa11.

Proprio grazie ad essa il prestigio tecnologico riconosciuto al-le città marinare dell’alto Tirreno dovette ricevere ulteriore im-pulso. Negli anni tra il 1115 e il 1125 l’arcivescovo di Compostel-la si rivolse infatti a Genova e a Pisa per avere uomini esperti nel-l’allestimento di navi da guerra: il genovese Augerius, «peritissimocostruttore di navi» e un giovane pisano «espertissimo nell’artenautica» risposero all’appello realizzando vascelli che consentiro-no vittoriose spedizioni contro i pirati saraceni. E, per quanto nonvenga espressamente detto, è verisimile credere che i due abbianoprestato la loro opera anche nelle operazioni d’assedio, altrettantovittoriose, intraprese in quegli anni dal bellicoso arcivescovo.

Anche i Milanesi, quando nel 1127 decisero di porre fine allaormai decennale guerra contro Como, cercarono proprio a Ge-nova e a Pisa gli uomini capaci di costruire le macchine necessa-rie all’espugnazione della città nemica: «Ritornano prontamente– scrive l’anonimo poeta – alla ventosa Genova, città molto inge-gnosa, e ricercano per nome noti artefici preparati nell’arte di fab-bricare castelli di legno e adatte baliste. Noti artieri, abili tanto dasapere debellare duramente gli spietati nemici. Tornano pure a Pi-sa, del pari molto ingegnosa, e vi assoldano parecchi esperti diquest’arte, mastri dotti nello scalzare le mura». Vent’anni dopo i

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crociati anglonormanni impegnati contro Lisbona, si videro mes-sa fuori combattimento la loro torre d’assalto insieme con l’inge-gnere che la dirigeva; come per caso apparve allora sulla scena unPisano qualificato come «uomo di grande industriosità» che inbreve allestì una «torre lignea di mirabile altezza» e la guidò consuccesso alla conquista della città. Sempre nel 1146 tecnici geno-vesi fornirono la loro fondamentale opera nell’espugnazione di Al-meria e di Tortosa. Esisteva, dunque, un vero e proprio mercatodi tecnologia militare che dalle città marinare italiane dell’alto Tir-reno raggiungeva da un lato le sponde atlantiche e dall’altro l’en-troterra padano. Nella seconda metà del XII secolo Pisa e Geno-va parteciperanno con i loro tecnici alle lotte fra i comuni italianie Federico Barbarossa; esse rappresentarono in Italia uno dei mo-menti culminanti nello sviluppo della poliorcetica medievale, chevide applicare nell’Europa continentale le esperienze d’oltremare.

Nel 1158 un contingente pisano composto di balestrieri e di«edificatori» (cioè di uomini specializzati nella costruzione dimezzi d’assedio) partecipò al primo blocco di Milano; gli «artefi-ci» genovesi fornirono invece la loro opera nel 1174 nel fallito as-sedio di Alessandria e assicurarono la collaborazione di artifices edi magistri ai loro alleati a nord dell’Appennino: nel 1173 Geno-va promette infatti di fornire «due artefici» ai marchesi di Gavi enel 1181 agli Alessandrini tre mastri di legname e un «ingegnosoartefice»12. È questo il momento in cui i cronisti sono propensi amitizzare la funzione e l’importanza degli ingegneri militari: dallaloro valentia e dalle loro scelte di campo, come già era avvenutoin età ellenistica, possono addirittura dipendere le sorti di unaguerra.

A Crema nel 1159 ritroviamo la figura del tecnico giunto da re-gioni lontane per stupire gli astanti con le sue capacità: Vincenzoda Praga riferisce infatti che «venne all’imperatore un uomo daGerusalemme, il quale, insieme con i Gerosolimitani, aveva di-strutto, mediante i suoi strumenti, molte fortezze dei Saraceni; co-stui prometteva di fare una torre di legno tale da condurre gli at-taccanti in mezzo al castello di Crema». I Cremonesi subito gli for-nirono il denaro e i materiali indispensabili per realizzare l’operache, portata a termine con grande rapidità, ottenne effetti risolu-tivi. Se a Nicea sessanta anni prima un exploit simile era stato com-piuto da un «maestro» proveniente dall’Italia meridionale, l’uo-

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mo attivo a Crema proviene, al contrario, dalla Palestina. Sembrase ne possa concludere che i flussi delle conoscenze tecnologicheprocedettero prima da Occidente verso Oriente e poi, arricchitidelle esperienze delle prime crociate, rifluirono in Europa. AncheCrema disponeva però di un suo «maestro assai più ingegnoso ditutti gli altri» di nome Marchese, autore di gran parte delle mac-chine che servivano alla sua difesa, e poi responsabile della scon-fitta perché, allettato dai regali di Federico I, fuggì di notte met-tendosi spudoratamente al servizio della parte imperiale.

Si è proposto di identificare il costruttore della grande torremobile che permise l’espugnazione di Crema con l’architetto cre-monese Tinto Muso di Gatta sovrintendente, l’anno dopo, alla co-struzione delle mura di Lodi. L’identificazione non è sicura, macerto il 30 dicembre 1159, quando ancora perdurava l’assedio,l’imperatore elevò Tinto alla dignità di conte «per grandi e parti-colarmente segnalati servizi» non meglio precisati. Si assiste cosìal massimo riconoscimento ottenuto da un semplice «ingegnere»che, grazie al suo sapere tecnico, viene elevato ai fastigi dell’ari-stocrazia funzionariale. Gli si avvicina il caso di mastro Guintel-mo, il celebrato «ingegnere» che fu al servizio di Milano dal 1156al 1162, particolarmente abile nell’allestire, oltre che macchined’assedio, ponti e carri da guerra. Grazie ai meriti conseguiti me-diante le sue abilità tecniche, gli vennero affidate delicate funzio-ni politiche tanto nella buona quanto nella cattiva fortuna: dopoaver dettato le condizioni di resa ai Pavesi, sconfitti a Vigevano nel1157, l’«ingegnosissimo mastro Guintelmo, nel quale i Milanesiavevano riposto le loro speranze», cinque anni dopo ebbe il tristeincarico di consegnare le chiavi della città all’imperatore in segnodi resa.

Un «ingegnere» giunge ad avere un nome e, probabilmente,un elevato livello sociale anche nella Chevalerie Ogier, famosopoema epico francese del XII secolo: Malrin, costruttore dellamacchina indispensabile per prendere il castello di Ogier, vieneinfatti rappresentato nell’atto di rivestire l’usbergo e di allacciarsil’«elmo brunito», equipaggiamento di solito riservato ai guerrieridi élite. È un altro segno del prestigio che ormai circonda gli «in-gegneri», e non è poca cosa che esso provenga da quell’ambienteletterario di solito così sdegnoso nei loro confronti. Ma l’abilitàpuò anche avere delle contropartite inattese e infelici: Lanfredo,

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«lodato sopra tutti gli architetti di Francia del suo tempo» per lacapacità di costruire torri imprendibili, secondo una voce raccol-ta da Orderico Vitale, sarebbe stato ucciso dai suoi stessi com-mittenti perché non fabbricasse simili opere anche a vantaggio dialtri signori.

Costoro, del resto, compresa l’importanza crescente che la co-struzione delle macchine d’assedio aveva assunto nelle azioni diguerra (e quindi, in definitiva, nell’acquisizione e nella conserva-zione del potere), non tardano a dimostrare nei loro confronti unvivo interesse, non solo assicurandosi i tecnici migliori, ma sosti-tuendosi addirittura ad essi nel progettare ed eseguire le macchi-ne. In Normandia Roberto di Bellême, oltre a circondarsi, come siè visto, di buoni ingegneri, era egli stesso – al dire di Orderico Vi-tale – «ingegnoso artefice nel costruire edifici e macchine, e in al-tre difficili opere». Nel 1123 durante l’assedio di Pont Audemer –racconta ancora lo stesso autore – Enrico I d’Inghilterra istruiscedirettamente i carpentieri intenti alla realizzazione di una torre mo-bile redarguendoli quando sbagliano e lodandoli quando agisconorettamente, sinché per suo mezzo costringe il castello alla resa.

Nel 1147 Goffredo di Angiò dirige personalmente l’assediodel castello di Montreuil-Bellay mostrandosi perfettamente a suoagio nel maneggiare la carpenteria di guerra. Di Ezzelino da Ro-mano, futuro signore della Marca Trevigiana, si tramanda che nel1213 all’assedio di Este «benché giovane (ma era ormai sulla ven-tina) già costruiva macchine per lanciare sassi nella rocca». Fede-rico II vuole conoscere i nomi propri con i quali sono designatimangani e trabucchi, e re Carlo I d’Angiò nel 1269 non disdegna«di dare una mano ai ribaldi nel tirare le corde di un trabucco».Nel 1251 in Siria, durante la crociata di Luigi IX di Francia – scri-ve Joinville – il suo amico conte d’Eu, uomo «molto sottile», co-struì una piccola macchina da lancio (bible) con la quale per gio-co prendeva di mira la sua tavola durante i pasti spaccando piattie bicchieri.

Con l’aumento della sua importanza la disprezzata tecnologiasembra così acquisire una patente di nobiltà, ma c’è anche chi ve-de nel fenomeno un segno di decadenza e di svalutazione degliideali cavallereschi. Il trovatore Guiot de Provins, vissuto alla cor-te di Federico I e partecipante alla terza crociata, lamenta, attor-no al 1206, la bassa qualità dei principi del suo tempo mentre «ba-

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lestrieri e minatori, tagliapietre e ingegneri saranno d’ora in poipiù cari»13.

Nel XIII secolo, in coincidenza con la diffusione delle tecni-che d’assedio e soprattutto delle macchine da lancio, la menzionedi ingegneri militari indicati con il loro nome non è più un’ecce-zione. Ciò nonostante, nel 1216, durante l’assedio di Beaucaire,nella Canzone della crociata albigese, quando i difensori riusciro-no a bloccare l’ariete attivo contro il castello, fu necessario atten-dere l’arrivo dell’ingegnere che l’aveva allestito, in quel momentoassente; non appena ritornato egli si insinuò furtivamente in unanfratto roccioso per tentare di aprire una breccia con altri mez-zi. È quindi evidente che gli esperti in quell’arte erano ancora po-chi e la presenza dello specialista indispensabile; lo stesso, perquanto rimanga anonimo, viene poco dopo designato come «abi-le ingegnere dal cuore fermo e generoso». Resiste nondimeno iltopos del geniale straniero, dotato di abilità eccezionali che, so-pravvenuto al momento opportuno, consente con la sua opera laconquista di una città imprendibile o la vittoriosa difesa di unafortezza in grave pericolo.

Nel luglio del 1238, mentre Federico II cinge d’assedio Bre-scia, Ezzelino da Romano gli invia prigioniero «un certo Spagno-lo di nome Calamandrino, uomo esperto di trabucchi e briccole»;costui cade però nelle mani dei Bresciani e gli effetti della sua pre-senza in città appariranno ben presto evidenti: sulle torri mobiliche gli assedianti avvicinano alle mura erano stati legati ostaggi,ma Calamandrino, erette le sue macchine, lanciava da par suo pie-tre contro le torri mostrandosi così buon ingegnere da distrug-gerle senza colpire alcun prigioniero. Naturalmente l’attacco fallìe l’imperatore dovette abbandonare l’impresa. Al non frequentecaso di uno Spagnolo operante in terra italiana fa riscontro la pre-senza di un Italiano in terra spagnola, fatto che, come si è visto,aveva numerosi e antichi precedenti. A Giacomo I di Aragona,impegnato nell’assedio della città di Buriana, si presenta nel 1254«un maestro di Albenguena (cioè di Albenga) che aveva nome Ni-coloso», il quale già nel 1229, durante l’assedio di Maiorca, avevacostruito un trabucco per il re. Egli si rivolge al sovrano con unafamiliarità di eloquio che ricorda quella di Sichelmanno di frontea Gisolfo di Salerno: «Messere, non vale la pena di stare qui se voinon potete prendere questo luogo; se volete lo potrete prendere

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in quindici giorni». Il re gli domanda come, ed egli chiede suffi-ciente legname per costruire una torre mobile («castell de fusta»)che entro breve si rivelerà infatti risolutiva.

Ma ormai sia una città assediata, per condurre efficacementela propria difesa, sia l’assediante in difficoltà, non hanno più bi-sogno di attendere l’esperto straniero giunto provvidenzialmenteda lontano per mettere a disposizione la sua competenza: la dif-fusione delle tecniche su scala generale fa sì che ciascuno possa farfronte attingendo all’interno della città o dell’esercito, come mo-strano, per esempio, lo sforzo tecnologico operato nel 1243 da Fe-derico II contro Viterbo e le vittoriose contromisure di cui furo-no capaci i suoi abitanti. E nel 1256 fra i crociati antiezzelinianiche assediavano Padova ecco rivelarsi, al momento del bisogno, lafigura di un anonimo frate minore laico, già «maestro ingegnere»di Ezzelino, esperto nella costruzione di «macchine e trabucchi egatti nonché arieti per prendere città e castelli». Egli, obbedendoai suoi superiori, costruì rapidamente un «gatto» che permise inbreve l’espugnazione della città14.

Insieme con tali racconti, che ricalcano evidenti motivi tradi-zionali, nel XIII secolo conosciamo per nome ingegneri militari alservizio tanto di monarchi quanto di grandi e piccole città. Nel1201 un mastro Urric accompagna Giovanni senza Terra in Nor-mandia «ad facienda ingenia»; nel 1249 Jocelin de Cornaut «mai-stres engignierres» di Luigi IX di Francia costruisce 18 enginscontro i Saraceni di Damietta; Alfonso di Poitiers, in vista di unaspedizione in Terrasanta, stipula nel 1268 un contratto annualecon il «magister Assaut machinator» promettendogli la paga di 5soldi tornesi al giorno. La città di Tolosa dispone di suoi validi in-gegneri e quando, nel 1216 si vede minacciata dai crociati di Si-mone di Monfort, i consoli non hanno che da ordinare a «Ber-nardo Parayre e a mastro Garnier, uomini esercitati alla bisogna,di andare a tendere i trabucchi, e per tirare i cavi vi furono dieci-mila uomini».

Anche un piccolo comune come Imola si serve nel 1222 del-l’opera di mastro Buvalello incaricato di «costruire e disporremangani» e altre macchine da lancio; e non stupisce certo che ilpodestà di Genova, nell’aprile del 1227, abbia ai suoi ordini un«mastro Marino» in grado di erigere un trabucco contro Albiso-la. Il 7 aprile 1233 il romano Oddone Monticelli sottoscrive un

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contratto con il comune di Siena impegnandosi, per 100 soldi almese, a «fare, rifare e amministrare» diversi tipi di macchine dalancio per tutto il tempo della guerra contro Firenze, escludendoperò di rimanere, senza la sua volontà, rinchiuso in qualunque for-tezza assediata, salvo che si tratti della città di Siena. L’entità del-lo stipendio pattuito e l’accettazione di certe condizioni mostra-no che l’opera dei «maestri ingegneri» rimaneva preziosa.

Costoro, d’altra parte, avevano un alto concetto di se stessi. Se-gatino da Bassano – personaggio per ogni altro verso sconosciutoalle storie – offrendo il 7 febbraio 1318 i suoi servizi al comune diTreviso dichiarava di sentirsi «più utile e più perfetto nonchémaggiormente necessario e idoneo di cinquanta uomini d’arme».Un suo ben più noto collega, il senese Mariano di Iacopo dettoTaccola, all’inizio del trattato De machinis da lui completato nel1449, non esita a presentarsi come «Ser Marianus Taccole aliasArchimedes vocatus», dichiarando nel contempo, alquanto ipo-critamente, che gli «ingenia, machinas et tormenta» ivi illustratinon sono stati messi a punto per essere usati contro cristiani, masolo «contra infideles et barbaricas gientes».

Fra gli inconvenienti che la professione offriva vi era anche ilpericolo di venire incidentalmente e inaspettatamente proiettatinel vuoto al posto di un proiettile. Si è tramandata la disavventu-ra accaduta nel 1232 a un «maestro» veronese impegnato nella di-fesa del castello di Nogarole assediato dai Mantovani: manovran-do una librilla da lui stesso costruita, si trovò lanciato in aria e, do-po aver percorso un notevole tragitto, cadde miracolosamente in-colume nel bel mezzo del campo nemico. Quell’avventura finì be-ne, ma chissà quanti altri rimasero vittima di incidenti legati al-l’impiego delle grandi macchine da lancio. Proprio all’inizio delTrecento Marin Sanudo Torsello nel suo progetto di crociata, re-datto con viva conoscenza dei problemi tecnici e pratici, racco-mandava la necessità di avere a disposizione macchine dalla gitta-ta il più possibile ampia, al che ingegneri ed esperti facenti partedell’esercito dovevano «aguzzare la loro mente»; era perciò ne-cessario fare tutto il possibile per disporre di «buoni ingegneri»,oltre che di legname da costruzione perfetto. Antonio Cornazza-no gli faceva eco, nel suo Dare militari, ancora nel 1476: «Ond’ioconsiglio in questo ogni signore / O l’artifice bon di tener lassi, /o se gli è bon gli facci utile o honore»15.

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Il famoso taccuino compilato da Villard de Honnecourt mo-stra che gli «ingegneri» medievali non si occupavano solo di mac-chine militari, ma certo tutti quelli che hanno lasciato memoria disé furono innanzitutto uomini di guerra poiché – per quantospiaccia ammetterlo – è innanzitutto «la perpetua sete di potenzache spinge gli uomini verso il progresso». In ciascuno di essi, men-tre cercava di valorizzarsi vendendo a caro prezzo la propria ca-pacità di costruire e governare macchine d’assedio, vi era proba-bilmente la stessa frustrazione, che abbiamo visto emergere in cer-te pagine di Vitruvio, nel vedersi sottovalutato e posposto, non so-lo ai combattenti, ma anche agli uomini della cultura ufficiale, fru-strazione che si ritrova così viva in certi scritti di Leonardo da Vin-ci. Del resto, ancora dopo di lui, Francesco Guicciardini facevadire al maresciallo di Francia Giangiacomo Trivulzio: «Le guerresi fanno con le armi de’ soldati e col consiglio de’ capitani; fanno-si combattendo in su la campagna, non co’ disegni che degli uo-mini imperiti si notano in su le carte, o si dipingono col dito o conuna bacchetta nella polvere»16. La tecnologia avrà infine i suoi ri-conoscimenti soltanto nell’inoltrata età moderna.

4. Le vittorie della fame

Il De regimine principum, redatto da Egidio Colonna intornoal 1280, si rifà alla trattatistica antica soprattutto attraverso il Dere militari di Vegezio, dal quale tuttavia trae solo quanto vieneconsiderato ancora valido per i suoi tempi e non trascurando diintrodurre opportuni aggiornamenti. Tre sono per il Colonna imodi di prendere una fortezza: per sete, per fame e per battaglia.Non a caso la sete viene messa al primo posto: se mediante diver-si accorgimenti, infatti, alla mancanza di viveri si può per un cer-to tempo sopravvivere, è invece praticamente impossibile ovviarealla sete. Chi intraprende un assedio deve quindi innanzitutto fa-re in modo di privare di acqua gli assediati. È inoltre opportunoiniziare le operazioni durante la stagione estiva, prima che i pro-dotti del nuovo raccolto siano venuti a integrare le scorte dell’an-no precedente, e quando più facilmente l’acqua si può esaurire.

Non si tratta di suggerimenti peregrini o puramente teorici: nel1059 Roberto il Guiscardo e suo fratello Ruggero decisero di

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bloccare Reggio Calabria proprio «al tempo in cui si cominciava-no a raccogliere le messi»; l’anno dopo i cittadini di Troia, asse-diati a loro volta, «vedono che è venuto il tempo di mietere e chealtri mieteranno là dove essi avevano seminato, e le provviste cheintendevano riporre nei loro granai sono perdute». Cristiano diMagonza, secondo Boncompagno da Signa, procedette all’asse-dio di Ancona proprio «alla fine del mese di maggio quando i vi-veri scarseggiano»17.

Le storie, nondimeno, sono piene delle drammatiche vicendedi valorosi difensori che, debilitati e abbrutiti dalla fame, conti-nuano ciò nonostante eroicamente a resistere nella speranza di ri-cevere un aiuto dall’esterno. E a questo scopo gli Strategemata re-datti nel II secolo da Frontino già elencavano espedienti che gliassediati, ridotti ormai allo stremo ma intenzionati a non cedere,potevano mettere in atto per dare al nemico l’impressione di unainesistente abbondanza. Certi Traci bloccati su un monte – rac-conta Frontino – nutrirono con l’ultimo grano loro rimasto alcu-ne pecore e le lasciarono cadere nelle mani degli assedianti; quan-do questi, uccidendo gli animali, li trovarono pieni di grano, cre-dettero naturalmente che gli avversari ne avessero in tale quantitàda usarlo per alimentare persino gli animali e quindi, scoraggiati,ritennero opportuno togliere l’assedio.

Tale aneddoto ha ispirato racconti simili riferiti ad assedi me-dievali del tutto leggendari o ha contribuito ad arricchire di nuo-vi favolosi particolari assedi realmente avvenuti. Appartiene allaprima categoria la favola di «dame Carcas», signora eponima diCarcassonne in un tempo in cui la città avrebbe sostenuto unquinquennale assedio da parte di Carlo Magno. Ella con l’ultimograno rimasto avrebbe pasciuto una scrofa che, gettata poi dallemura nel campo nemico, scoppiò spargendo il grano ovunque einducendo perciò senz’altro i Franchi costernati a rinunciare al-l’impresa. Non troppo diversamente si sarebbe comportato Ga-gliaudo Aulari, un immaginario cittadino di Alessandria che nel1175, quando essa era sottoposta ad assedio da parte di FedericoI, sempre con l’ultimo grano disponibile, provvide a rimpinzareuna vacca e la spinse poi nel campo nemico «facendo così crede-re al Barbarossa che la città, in realtà stremata, nuotasse nell’ab-bondanza, donde la decisione dell’imperatore di togliere il bloc-co». Il valore di tale espediente viene senz’altro riconosciuto da

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Antonio Cornazzano che scrive infatti nel suo De re militari: «Tol-to qual dentro havean poco frumento / ne pascono cavai, pecoree buoi, / e d’industria lason torsi l’armento. / Uccisi questi li ni-mici suoi / per tal pasto trovato in la ventraglia / qual disperati sipartir da poi, / cassi di tutti i fer che pungie e taglia»18.

Lo stesso motivo si trova ripetuto anche altrove testimonian-do così la fortuna di certi aneddoti raccolti da Frontino e, nellostesso tempo, la frequenza dell’assedio condotto per affamarel’avversario mediante l’elementare tecnica del blocco. Nel mondooccidentale, per buona parte del Medioevo, infatti, l’ignoranzadelle tecniche d’assedio antiche o l’insufficienza dei mezzi dispo-nibili riduceva spesso l’azione degli attaccanti a un elementareblocco statico che mirava a ridurre alla fame i difensori per co-stringerli così alla resa. Le vicende della guerra greco-gotica che,come si è già visto, fu soprattutto combattuta attraverso l’espu-gnazione di località fortificate, videro numerosi presidi arrender-si per fame tanto da parte dei Goti quanto dei Bizantini, nono-stante l’indubbia superiorità tecnica di questi ultimi. Nel 538 con-tro Rimini i Goti di Vitige, dopo vani tentativi iniziali di prende-re la città con la forza, «rimasero tranquilli – dice Procopio –aspettando che i nemici si arrendessero per fame». L’anno dopo iGoti stretti in Orvieto da Belisario, razionarono gli ultimi viveririmasti e, prima di arrendersi, «ancora per molto tempo si nutri-rono di cuoio e di pelli ammorbidite nell’acqua». La stessa sortesubirono i presidi di Osimo e di Fiesole dopo che il primo si eraa lungo nutrito di sola erba; e per fame fu piegata nel 540 la stes-sa Ravenna.

Due anni dopo i Goti, passati alla riscossa sotto la guida di To-tila, costringono i Napoletani a cedere perché «la stretta della fa-me li soffocava». I cittadini di Milano si arresero perché «eranocosì travagliati e sopraffatti dalla fame che i più si cibavano di ca-ni, di topi e di altri animali quali mai prima erano serviti di ciboall’uomo». Nel 546 fu la volta di Piacenza in cui i Bizantini, «pri-vi ormai totalmente di viveri, ricorsero a cibi impuri sotto la pres-sione della fame»; difatti, prima di arrendersi a discrezione, giun-sero a cibarsi dei loro simili. L’anno dopo, costretti a cedere per-ché «ormai privi di ogni mezzo di sussistenza e senza speranza diaiuti», furono i difensori di Rossano Calabro, e poco dopo la stes-sa sorte toccò a Reggio Calabria.

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Insieme con la fame ha naturalmente grande peso la sete; lamancanza di acqua può anzi da sola indurre alla resa presidi an-cora agguerriti e disposti alla resistenza. Prima cura di chi inten-da bloccare una città fornita di acquedotto è perciò l’interruzionedel rifornimento idrico: Belisario, disponendosi nel 536 all’asse-dio di Napoli, «tagliò la conduttura che portava l’acqua in città»,del resto senza provocare molto disagio poiché all’interno dellemura esistevano numerosi pozzi. Del pari i Goti, assediando Ro-ma, «tagliarono tutte le condutture, che erano ben 14, perché incittà non entrasse più acqua». Assai peggiore fu la situazione deiluoghi in cui l’unica fonte esistente era talvolta esterna alle mura.È questo il caso di Osimo dove Belisario, dopo aver tentato inu-tilmente di far demolire l’antico e robusto fabbricato che proteg-geva la sorgente, «ordinò ai soldati di gettare nell’acqua carognedi animali ed erbe capaci di avvelenare gli uomini, e di mettervi incontinuazione calce viva». I Goti di Urbino, «fidando nella sal-dezza della posizione e nell’abbondanza dei viveri», dileggianodapprima dall’alto delle mura gli attaccanti, ma poi, per un casodel tutto inspiegabile, l’unica fonte esistente in città «in breve siseccò spontaneamente e cominciò a non buttare più. In tre giornil’acqua mancò al punto che i barbari, attingendo di lì, la beveva-no mista a fango, e perciò decisero di arrendersi».

Nel corso della guerra greco-gotica troviamo dunque, ampia-mente esemplificate, situazioni destinate a ripetersi infinite voltenei secoli successivi in circostanze altrettanto drammatiche: ovun-que le fonti hanno tramandato notizie sufficientemente ampie diassedi conclusi in favore degli attaccanti, le rese per fame riman-gono a lungo prevalenti anche quando questi non si limitano alpuro blocco statico. Così nei numerosi attacchi a piazzeforti in-trapresi nella seconda metà dell’XI secolo dai Normanni nell’Ita-lia meridionale, di cui dà notizia Amato di Montecassino. Nel1060 in Puglia i cittadini di Troia erano bensì disposti a pagare ilsolito tributo, aggiungendo anzi oro e cavalli greci, ma Roberto ilGuiscardo non si accontenta: egli vuole disporre del sito più altodella città per costruirvi un castello che li riduca alla completa ob-bedienza. I cittadini rispondono con il lancio di pietre e di saette,ma il duca non molla: «Non lasciò uscire fuori quelli della città,né entrare i villani con le vettovaglie o per prestare aiuto. Il panevenne loro a mancare e fanno poco fuoco perché c’è penuria di le-

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gna; occorre loro il vino, né hanno acqua». Fu così che la città do-vette venire a patti e accontentare il vincitore in tutte le sue ri-chieste. Due anni dopo il principe Riccardo chiede ai cittadini diCapua di mettere a sua disposizione porte fortificate e torri e, alloro rifiuto, assedia la città. «Quelli di Capua, benché indebolitidalla fame», resistono eroicamente: risarciscono le mura, però«continuano a non poter portare dentro le cose di cui avevano bi-sogno per vivere» così che, venuta meno la possibilità di riceveresoccorso dall’esterno, si arrendono nel maggio del 1062.

La medesima situazione dopo cinquanta giorni di resistenza siripete a Trani assediata dal Guiscardo nel 1073 e, sempre permancanza di viveri, si arrendono nel 1076 Santa Severina, Ca-strovillari e Salerno. Per quest’ultimo luogo sappiamo da altri cro-nisti contemporanei che i cittadini, rimasti bloccati per sette me-si per mare e per terra, patirono tanta fame da ridursi a mangiaregli animali domestici e i topi. Canne, a sua volta, si arrese a Ric-cardo nel 1073 «per difetto di acqua» essendo le sue cisterne ri-maste a secco. Ciò avveniva non solo in una regione notoriamen-te povera di acqua come la Puglia, ma anche altrove. Nel 1064 inSpagna la città di Barbastro, assediata dai Normanni, cadde per-ché l’enorme pietra di un muro «costruito dagli antichi» ostruì in-cidentalmente il condotto sotterraneo che forniva acqua alla città;gli abitanti temettero di morire di sete e vennero a patti, che poi ivincitori non si curarono di mantenere: ne seguì un massacro e ungrande bottino. Anche Mont-Saint-Michel, in Normandia, asse-diato nel 1091 da re Guglielmo e dal duca Roberto, si arrese do-po quindici giorni «per grandissima penuria d’acqua»19.

Straziante la situazione in cui vennero a trovarsi i crociati chiu-si nel castello di Xerigordo, presso Nicea, nel settembre del 1096.I Turchi per prima cosa li privarono dell’acqua «e i nostri – rac-conta l’Anonimo – soffrirono talmente la sete da aprire le vene deicavalli e degli asini per suggerne il sangue; altri imbevevano pan-ni nelle latrine e ne spremevano il liquido in bocca; qualcuno ori-nava nella mano d’un compagno e beveva; altri scavavano il suo-lo umido, vi si coricavano e spargevano la terra sul loro petto, tan-to era l’ardore della sete». Gli stessi rivoltanti espedienti sonoperò ripetuti, un secolo dopo, nell’Historia de expeditione Fride-rici dai crociati tedeschi oppressi dalla sete, così che c’è da do-mandarsi se non si tratti, più che di un’accertata realtà, di orrifici

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luoghi comuni. La solita ricerca di cibi alternativi toccò anche aicrociati bloccati nel 1098 in Antiochia: si cibano della carne di ca-valli e di asini e poi si cuociono foglie di fico, vite, cardo e di ognialtro albero; si cercano residui proteici nelle pelli disseccate di ca-valli, di cammelli, di buoi e di bufali.

Ancora un secolo dopo nell’Italia del Nord, durante le lottedella prima età sveva (quando le tecniche d’attacco avevano ormaifatto notevoli progressi) casi simili continuano a ripetersi. Nel1155 in Tortona assediata da Federico I la rapida caduta della cittàbassa costrinse tutta la popolazione a rifugiarsi nella parte alta chedisponeva di un’unica sorgente; gli assedianti naturalmente prov-videro presto a renderla imbevibile, prima immergendovi carognee putredine e poi spegnendovi torce impregnate di pece e di zolfo.In capo a tre mesi i cittadini furono costretti ad arrendersi – diceOttone di Frisinga – non tanto perché logorati dai continui attac-chi quanto perché sopraffatti dalla sete. Nel 1161 anche i difen-sori di Castiglione, strettamente bloccati dai Milanesi, «non pote-vano accedere all’acqua che era fuori del castello» ma, proprioperché ridotti alla disperazione, essi trovarono la forza di operareuna sortita che si rivelò decisiva per la salvezza20.

Epica fu, nel 1173, la difesa di Ancona bloccata dalla parte diterra dall’esercito di Cristiano di Magonza e per mare dalla flottaveneziana, di cui Boncompagno da Signa ci ha lasciato un celebreresoconto redatto – assicura – sulle testimonianze di coloro cheerano stati presenti ai fatti. Gli Anconetani furono ben presto acorto di viveri, i prezzi delle derrate in città non tardarono a sali-re e «cominciò quindi a esservi la pestilenza della fame, perché sidice propriamente che c’è la fame allorquando si offre il denaro enon si riesce a trovare chi abbia da vendere». I cittadini, uomini edonne, continuano nondimeno a difendersi con grande valore,molti compiono esemplari atti di eroismo e gli anziani invitano igiovani alla resistenza.

Il pane e i legumi mancano ormai del tutto; anche qui si ricor-re dapprima agli animali domestici e ai topi, poi si passa al cuoiocotto in diversi modi, e poiché sale, olio e vino non mancavano an-cora, con essi si ritemprano parzialmente le forze giovandosi inol-tre dei frutti di mare «che stanno sott’acqua attaccati alle pietre»;ciò nonostante tutti erano pallidi e denutriti e gli uomini «a sten-to si potevano spostare se non per andare a combattere». A quel

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punto le donne avrebbero addirittura deciso di offrirsi come ciboper i combattenti: «Forse che le carni degli asini sono più sapori-te da mangiare delle nostre? Mangiate dunque noi!». Questo e al-tri aneddoti edificanti, suggeriti al nostro autore dalle sue risorseretoriche, potranno lecitamente non essere presi alla lettera. Inogni caso i terribili sacrifici richiesti agli Anconetani non furonosofferti invano: dall’esterno venne infatti organizzato un esercitodi soccorso che indusse il nemico a togliere l’assedio e l’eroicacittà fu salva.

Non così avvenne in tanti altri casi, per esempio a Penne d’A-genais assediata dai crociati antialbigesi nel giugno e nel luglio del1212: nonostante la poderosa azione delle macchine da lancio, «segli assediati avessero avuto di che mangiare e bere gli altri certa-mente non l’avrebbero ancora presa e non vi sarebbero potuti en-trare». Ma «il calore era grande, ed essi non poterono resistere; lasete li tormentava tanto che cadevano ammalati; i pozzi erano asecco», così che la resa fu inevitabile. I crociati furono a loro vol-ta assediati nell’agosto del 1216 nel castello di Beaucaire; dopoaver resistito oltre due mesi, la guardia affacciata al torrione «mo-strò la tovaglia e la bottiglia trasparente per far capire che i viverifacevano difetto e che avevano mangiato tutto il loro pane e be-vuto tutto il loro vino». Ciò nonostante la resistenza continua, matra i cavalieri riuniti a consiglio si ripetono ormai le dichiarazionidi sfiducia. Dice Guglielmo de la Motte: «Ecco che cofani e gra-nai sono vuoti, non abbiamo più uno staio di alcuna specie di gra-no e i cavalli sono talmente affamati che cominciano a mangiare illegno e la corteccia delle piante».

E poco dopo lo stesso interloquisce: «La fame ci opprime e lasola decisione che io conosca per darci sollievo è di mangiarci inostri ronzini e i nostri destrieri, poiché la carne di mulo che ab-biamo mangiato ieri era buona; ci basterà un quarto di cavallo algiorno ogni cinquanta uomini, e quando saremo alla fine e avre-mo mangiato l’ultimo, allora ciascuno mangi un suo compagno!Colui che si difenderà meno bene e si abbandonerà alla paura saràgiusto e ragionevole che sia mangiato per primo». E poi maca-bramente insiste: «Non mi è mai sembrato che la carne umanaavesse buon gusto, ma per il momento in cui i corsieri arabi sa-ranno stati divorati, ci resta solo un pane e un po’ di vino nellacantina». È un invito a battersi sino alla morte.

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In Calais, assediata dagli Inglesi per un intero anno dall’agostodel 1346 e lentamente privata di ogni possibilità di rifornirsi di vi-veri, ritroviamo la stessa terribile situazione già sperimentata da al-tre città. Nel giugno del 1347 Jean de Vienne espone infatti al re diFrancia che ormai gli assediati, divorati cani, gatti e cavalli, nonpossono più trovare viveri in città se non mangiando carne umana,e se non verranno soccorsi entro breve tempo saranno costretti aconsegnarsi al nemico non senza prima aver sostenuto un’ultimabattaglia «per vivere o per morire, poiché è meglio onorevolmen-te morire sul campo piuttosto che mangiarci l’un l’altro».

A causa del blocco posto da Francesco Sforza nel 1449, i Mi-lanesi rivissero i medesimi tormenti che i loro lontani antenati ave-vano patito durante la guerra greco-gotica: «Erano oppressi daextrema fame in forma che più non potevano supportare, e moltierano poveri, come sempre grande numero vi è in Milano, qualeper sostentare da la fame non solamente mangiavano cavalli et asi-ni ma gatte, cani e toppi e molte altre cose le quale sono abhor-rende a la natura umana, il che ne la pubblica piaza del brolettose vendevano come fosse stata cosa suave al vivere umano, il per-ché spesso nascevano contentione e tumulto, mangiando herbe eradice senza alcun condimento. Nesuno se non era ricco gustavavino, molti vechii et amalati per tale necessitate perivano per levie, onde ogni cosa era piena di pianti, ululi, stridi e di lamenti»21.

A indurre gli assediati a sopportare tali inauditi sacrifici percontinuare la resistenza è la speranza, invero non sempre ben ri-posta, di ricevere un soccorso dall’esterno che possa, se non to-gliere l’assedio, almeno rifornire di viveri e rafforzare il presidiocon uomini freschi, operazioni che avvengono per lo più di notte:il castello di Exmes, in Normandia, sottoposto nel 1090 a un duroblocco invernale, fu audacemente soccorso da novanta cavalieriche, entrati con il favore delle tenebre, portarono alimenti e armiinducendo così gli assedianti alla rinuncia. In modo simile fu soc-corso nel 1228 il castello di Bazzano stretto dai Bolognesi: l’eserci-to di Modena si attestò sul fiume Samoggia e dopo tre giorni, sen-za attaccare direttamente il nemico, un drappello di fanti sceltiforzò il blocco con un riuscito colpo di mano notturno introdu-cendo carri pieni di pane, vino, pece, zolfo e frecce da balestra.

In un quadro in cui per vincere – come ricordava Vegezio e,dopo di lui, Egidio Colonna – la fame conta molto più della spa-

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da, assume grande peso la presenza dei «non combattenti» ovve-ro, come più icasticamente e impietosamente vengono detti, del-le «bocche inutili»: si tratta delle persone che, rinchiuse nella for-tezza assediata, consumano viveri senza recare alcun valido con-tributo alla resistenza; per il solo fatto di esistere esse lavorano co-sì in favore del nemico. Prima di lasciarsi bloccare in Roma dal-l’esercito goto, Belisario, prevedendo con esattezza i futuri pro-blemi di sussistenza, ordinò di trasferire a Napoli donne, bambi-ni e servi non necessari alla difesa delle mura «per evitare di ri-dursi alla carestia». Il saggio provvedimento non riuscì comunquea evitare la temuta mancanza di viveri. Nel 1155 la caduta di Tor-tona fu causata dal sovraccarico di abitanti, in massima parte noncombattenti, ammassati in uno spazio ristretto. Un dramma simi-le si ripete, in piccolo, nel 1292 nel castello di San Cassiano in ValLamone assediato da Maghinardo di Susinana: in un’area ridottaerano rinchiuse duecento persone «tra maschi, donne e bambini»che rimasero perciò ben presto senz’acqua.

Gli assedianti che vogliono più rapidamente avere ragione diuna fortezza – consiglia Egidio Colonna – se catturano alcuni de-gli assediati hanno interesse non a ucciderli, ma piuttosto a muti-larli rendendoli invalidi e a rimandarli indietro perché contribui-scano così a consumare più in fretta le scorte senza essere di alcungiovamento per la difesa. Non si tratta di una spietatezza pura-mente teorica: nel 1305, racconta Giovanni Villani, i Fiorentini ei Lucchesi assediarono Pistoia «e chiunque era preso che n’uscis-se, all’uom era tagliato il piè e alla femina il naso, e ripinto dentronella città per un ser Lando d’Agobbio, crudele e dispietato uffi-ciale, il quale per gli Fiorentini fu soprannominato Longino»22.

Secondo una tale «tattica logistica» le «bocche inutili» diveni-vano un’autentica arma nelle mani dell’assediante, di cui l’asse-diato aveva tutto l’interesse a liberarsi. Anche Antonio Cornazza-no nel 1476 esortava: «Quando el raccolto pur non gli bastasse /tutta l’età disutile a far facti / per lo consiglio mio fora si casse: /femine, putti, vecchi, i ciechi, i matti; / ma questo esser convienein sul principio / perché l’hoste da poi ne guasta i tracti». Menospietato si dichiarava però, in quegli stessi anni, un uomo di guer-ra come Diomede Carafa: se gli assediati vogliono cacciare la«gente dessutile», «se voleria evitare quanto fosse possebile. Maquando puro lo fecissero» saranno da accogliere e lasciar andare

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via senza danno «che s’à da havere respecto al nostro Signore Idioed a quelle et quilli che sono innocenti».

Usò accortamente e spietatamente l’arma delle «bocche inuti-li» Filippo Augusto di Francia quando nel 1203 decise di pren-dere per fame il formidabile complesso di Château Gaillard. In es-so si erano rifugiati molti abitanti dei dintorni e il comandante del-la guarnigione, ormai alle strette, decise di espellere coloro chenon erano in grado di portare armi; il re da parte sua, rendendo-si conto che così gli assediati potevano resistere più a lungo, nonpermise loro di uscire; più di quattrocento persone, uomini, don-ne e bambini, respinte dagli uni e dagli altri, rimasero bloccatenello spazio intermedio costrette a vivere in grotte e a nutrirsid’erba od occasionalmente di qualche animale di passaggio, cosìche i più morirono di fame. Una simile, terribile odissea toccò nel1495 a Novara occupata dai Francesi di Carlo VIII e assediata daLudovico Sforza: non appena i viveri cominciarono a scarseggia-re il duca di Orléans espulse dalla città, come al solito, «i poveri egli inutili».

Sorte analoga ebbero molte altre persone anche nel corso del-l’età moderna. Siena, assediata dagli Spagnoli, si trovò nel 1555nella necessità di espellere più di quattromilacinquecento «boc-che inutili»: «quei disgraziati cercavano di attraversare le schierenemiche – scrive Blaise de Monluc, responsabile della difesa – mavenivano ricacciati verso la città; tutto l’esercito restava in arminotte e giorno a questo scopo, e ce li respingevano fino ai piedidelle mura perché li rimettessimo dentro per farci mangiare piùalla svelta quel po’ di pane che ci restava, e per tentare di far ri-voltare la città». Anche qui i malcapitati sono ridotti a vivere dierbe e condannati a una lenta decimazione dalla quale soltanto laquarta parte riuscì a salvarsi: «È la legge della guerra – concludeMonluc – bisogna essere crudeli se si vuole avere la meglio sul ne-mico. Dio deve essere molto misericordioso verso di noi che fac-ciamo tanto male». Ciò nonostante non esita, poche righe dopo,a consigliare la stessa condotta ai futuri uomini di guerra cui vuo-le lasciare un insegnamento, anche se, come dicono i fatti stessi,la spietatezza non è certo garanzia di vittoria.

Talora la sorte delle «bocche inutili» fu meno terribile: nel1228 i bambini rimasti rinchiusi in Bazzano furono «onorevol-mente» sfollati dai fanti modenesi che avevano soccorso il castel-

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lo, e nel 1347 più di millesettecento uomini, donne e bambiniespulsi da Calais, per cavalleresca decisione del re d’Inghilterra,poterono passare attraverso l’esercito assediante ricevendo ancheamorevole assistenza. Il popolo di Milano nel 1449 fu trattato daFrancesco Sforza con la solita italica doppiezza: «Molti per il con-sentimento de magistrati refugivano ne le vicine castelle dove permisericordia erano ricevuti, ma il conte comandò che niuno sub-sidio fusso loro sporto, ma fussino costrecti ritornarsene ne la af-flicta cità», salvo a farsi magnanimo quando si profilava ormai lasua caduta e vedeva vicina la possibilità di imporre su di essa lapropria signoria. Nel gennaio del 1450 «a cinquecento fameliciMilanesi donò un ducato per caduno e deteli licentia che puotes-sino tornare a Milano». Al momento di entrare nella città, final-mente nelle sue mani, l’affamatore diventa prodigo: «Seguitavaadunque il conte e tutti i luoghi per li quali havea a passare eranopieni d’infinita turba, li quali venevano o per videre il nuovo prin-cipe o per dimandare cibo a soldati. Et erano pieni li campi perspacio de diece miglia passi, a quali assai gratamente secondo iltempo li soldati satisfavano imperò che ciaschuno haveva portatotanto pane quanto potevano le sue facultate. Era bello a viderecon quanta avidità la turba spiccava il pane il quale pendeva dalcollo o da le spalle o dal braccio de soldati e con quanta ingordi-gia lo devoravano»23. Non fu l’unico caso in cui un nemico venneaccolto come liberatore.

5. Le macchine: efficacia e limiti

5.1. Le torri mobili. La conquista di una fortezza «per battaglia»esige l’impiego di macchine da lancio e d’assalto che richiamanole tecniche già in uso nell’antichità recuperate nella pratica, comeabbiamo visto, almeno dalla prima metà dell’XI secolo, ma appli-cate in modo razionale e completo solo nel corso del successivo.Già nel 1068 Roberto il Guiscardo, «abile più di chiunque altro acondurre un assedio tanto da superare il famoso Demetrio Po-liorcete» – scrive enfaticamente Anna Comnena – nell’ottobre del1107 davanti a Durazzo si attardò nella costruzione di «macchi-ne, testuggini, torri, arieti e ripari adatti alla protezione di operaie zappatori» che preludevano evidentemente a un investimento

II. Il riflesso ossidionale 119

ben concertato della città, anche se poi non raggiunse gli effettidesiderati. Nell’investimento finale di Maiorca da parte dei Pisa-ni agiscono nel 1115 quattro torri mobili appoggiate da un con-gruo numero di macchine da lancio e da zappatori, e dieci annidopo i tecnici genovesi e pisani chiamati dai Milanesi a operarecontro Como, di nuovo allestiscono due coppie di torri mobili «enel mezzo fra due torri un ‘gatto’ viene portato con la sua coper-tura, e un altro viene posto tra le altre due»: tali mezzi, protetti daltiro incessante di quattro macchine da lancio, attaccano le muramentre i tiratori appostati sulle torri non danno tregua ai difenso-ri costretti in breve ad arrendersi.

Una cooperazione simile fra torri mobili, macchine da lancio egallerie di mina viene attuata contro Lisbona nel 1147 dove, in-fatti, Tedeschi e Fiamminghi costruiscono un «maiale» (cioè unamacchina per scavare), un ariete e una torre. Le fonti però pon-gono in genere l’accento non tanto sull’esistenza di un progettooperativo definito e sulla sua corretta esecuzione, bensì sull’im-ponenza dei mezzi più appariscenti, cioè soprattutto sulle torrimobili, di cui ci si compiace di descrivere la potenza e la spetta-colarità. Suggestiva è l’azione, presentata dall’anonimo cronistadella prima crociata, svoltasi contro la città di Marra nel novem-bre del 1098. Raimondo di Saint-Gilles aveva fatto costruire un«castello di legno forte e alto congegnato su quattro ruote» nelquale erano saliti numerosi cavalieri insieme con «Everardo ilCacciatore che suonava forte la sua tromba». Avvicinata alle mu-ra da altri cavalieri corazzati, la torre resistette al fuoco e ai massilanciati dai difensori; dall’alto del terrazzo superiore, intanto, an-che i nostri lanciavano «immense pietre» e, inalberando sulle aste«onorevoli insegne», cercavano di arpionare gli avversari me-diante uncini ammanicati. L’operazione proseguì sino a sera men-tre «dietro la torre mobile i chierici rivestiti delle sacre vesti pre-gavano e scongiuravano Dio perché difendesse il suo popolo, esal-tasse la cristianità e deprimesse il paganesimo». Con tecnica nondissimile l’anno dopo verrà presa anche Gerusalemme24.

Boemondo d’Altavilla nel 1107 a Durazzo si serve di una gran-de torre mobile munita di ponti volanti in grado di far scendere isuoi uomini sulle mura: completamente chiusa sul davanti dal bas-so all’alto e divisa in più piani, la costruzione aveva feritoie aper-te sui fianchi dalle quali usciva una grandine di proiettili, e l’ulti-

120 Rapine, assedi, battaglie. La guerra nel Medioevo

mo piano era occupato da guerrieri corazzati con la spada in pu-gno, pronti all’attacco. I difensori riusciranno nondimeno, primaa porre la potente macchina in condizioni di non nuocere, e poi adistruggerla. In quello stesso anno, per costringere il castello diGournai alla resa, Luigi VI di Francia fa elevare anch’egli una tor-re a tre piani che, dominando dall’alto la fortezza, impedisce agliarcieri e ai balestrieri che la difendono di mostrarsi, costringen-doli infine a nascondersi in rifugi sotterranei. Un ponte consenteagli aggressori di calare sulle mura dove però una trappola li at-tende: i sostegni, cedendo, li farebbero precipitare su pali acumi-nati nascosti da uno strato di paglia; ma la guarnigione, venutameno la possibilità di essere soccorsa dall’esterno, preferisce pri-ma arrendersi. Non sembra comunque che la torre (come quellaimpiegata a Bari da Roberto il Guiscardo) fosse dotata di ruote.

Il poeta del Liber Maiolichinus si compiace a sua volta di esal-tare retoricamente le torri costruite dai Pisani alle Baleari: «Le lo-ro vette sublimi si spingono nel cielo con le nubi più eccelse, con-tro i venti freddi di settentrione. Nulla fece con maggiore arte De-dalo sagace». Una volta protette con graticci di vimini e pelli bo-vine le torri corsero sui rulli «spinte senza sforzo» e «molti astan-ti, che mai simili moli coi loro occhi avevano potuto vedere, am-mirano le torri che camminano» verso le mura nemiche. Di «am-mirevole altezza» appariva pure la torre costruita da un altro Pi-sano nel 1147 a Lisbona, ma nello stesso anno a Montreuil-Bellay,secondo Jean de Marmoutier, Goffredo d’Angiò fece elevare tor-ri di legno di tanta altezza da sopravanzare quelle della fortezzaassediata e anch’egli le fece avvicinare alle mura per mezzo di rul-li «piene di cavalieri e arcieri che tolsero agli abitanti ogni possi-bilità di muoversi sicuri per le strade»25.

La torre mobile allestita nel 1159 dai Cremonesi contro Cre-ma – dice Ottone Morena – era «di così ammirevole grandiositàche da questa parte del mare né eguale né simile mai era stata vi-sta»; a Crema, del resto, l’insolita mole delle macchine realizzatediventa un motivo dominante non meno della meraviglia da essesuscitata: accanto alla torre ecco infatti tre mangani così grandi«che tali mai non furono visti da nessuno» e due «gatti» «mirabi-li e grandi» destinati a operare di conserva con gli altri mezzi. Conenfasi ancora maggiore Vincenzo da Praga descrive il grande af-fusto della torre montato su quattro ruote, le enormi travi che la

II. Il riflesso ossidionale 121

compongono disposte con «mirabile ingegno» per sei piani so-vrapposti; e poi ne loda il rivestimento in lamine di ferro, la per-fetta manovrabilità e il grande ponte d’assalto destinato a calaresulle mura nemiche. Tale manovra invero fallirà, ma l’imponentecostruzione faticosamente avvicinata, consentirà – come era giàsuccesso altrove – di dominare dall’alto con il tiro degli archi edelle balestre l’intera fortezza nemica che sarà così in breve co-stretta alla resa.

Speciale interesse viene rivolto, come si è visto, all’altezza del-le torri, che doveva essere tale da poter dominare le mura nemi-che delle quali i costruttori dovevano quindi, prima di tutto, co-noscere la misura in modo il più possibile esatto; a tale scopo di-versi erano i metodi impiegati: si considerava l’ombra proiettatasul terreno, si contavano i filari di pietre che costituivano il para-mento murario, e chi disponeva delle conoscenze e degli stru-menti necessari, si avventurava in più complessi calcoli trigono-metrici. L’impiego di torri mobili continuerà senza grandi novitàanche negli ultimi due secoli del Medioevo quando già, insiemecon le macchine da lancio tradizionali, si sono ormai affermate lenuove artiglierie a polvere pirica. Durante la guerra dei cento an-ni ecco, per esempio, agire nel 1385 all’assedio di Pechpeyroux«un apparecchio su quattro ruote» a tre piani ciascuno dei qualiospitava venti balestrieri. Due anni dopo gli Inglesi, per attaccareRibadane, si servono anch’essi di un «apparecchio» su ruote che«si poteva comodamente spostare con le forze dell’uomo portan-dolo dove si voleva, dentro il quale stavano agevolmente cento ar-cieri e altrettanti uomini d’arme»; costoro con il tiro tengono im-pegnati i difensori consentendo nel contempo ai minatori di apri-re una breccia nel muro e di provocare così la caduta della città26.

Ben presto si tese a conglobare il maggior numero di funzionipossibile in un’unica grande macchina che, con la complessità, au-mentava anche il suo aspetto impressionante. La grande torre al-lestita a Durazzo nel 1081 da Roberto il Guiscardo recava sullasommità macchine litobole che ne appoggiavano così direttamen-te l’azione. Ancora più complicate furono le macchine allestite daBoemondo per il secondo assedio: l’enorme «testuggine» su ruo-te che egli fece avanzare per prima contro la città, coperta di pel-li e spinta da migliaia di uomini che agivano dall’interno, inglobain sé un ariete, e infatti non appena la macchina giunse a ridosso

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delle mura, le ruote furono smontate ed essa venne fissata salda-mente al suolo perché le scosse non ne sconnettessero la copertu-ra, quindi l’ariete cominciò a colpire le mura con grandi colpi ca-denzati, senza tuttavia conseguire molto successo. La riunione dipiù funzioni in realizzazioni definite «mostruose» continua nelcorso del tempo come dimostrazione di virtuosismo meccanico e,nello stesso tempo, per influire psicologicamente sull’avversario.Tale è anche la «gatta» allestita nel 1218 da Simone di Monfortcontro i Tolosani ribelli, «così potente che mai dal tempo di Salo-mone ne fu costruita una simile», essa «non teme alcun trabucconé petriera, né blocco di pietra perché la piattaforma, i fianchi, leputrelle, le capriate, le porte, le volte, la catena e la trama di que-sta gatta sono legate in ogni parte con ferro e con acciaio». «Met-terò nella gatta – dichiara Simone – 400 dei migliori cavalieri chesono con noi e 150 arcieri perfettamente equipaggiati, poi la spin-geremo a piedi sul fondo del fossato della città».

Nel 1243, durante l’assedio di Viterbo, Federico II fece eleva-re un «alto e insolito edificio detto maristella», ritenuto invenzio-ne di pirati: la sua forma oblunga ricordava infatti una nave e po-teva contenere non meno di trenta guerrieri corazzati in grado dioffendere con lance e con frecce. Ricoperto sul davanti con lami-ne di ferro, era dotato di un enorme rostro metallico con fortissi-me catene per agganciare e distruggere lo steccato della città. Al-l’assedio di Padova del 1256 – racconta Salimbene da Parma – unfrate minore laico, che era stato ingegnere di Ezzelino da Roma-no, rapidamente realizzò un «gatto» che «nella parte anteriore ar-deva e nella posteriore ospitava uomini armati».

Ma non sempre l’efficacia concreta di tali macchine era moltoelevata. Nel 1374 al tempo dell’assedio di Kyrinia, nell’isola di Ci-pro, secondo il cronista greco Macheras, i Genovesi misero incampo una torre di legno chiamata «troia» dotata di un dispositi-vo per tagliare le pietre delle mura mentre ognuno dei suoi tre pia-ni ospitava una macchina da lancio: essa poteva così, forse, averequalche relazione con il tripantum o tripontum, una delle macchi-ne rapidamente descritte da Egidio Romano, il cui nome sembrainfatti alludere a una struttura costituita da tre piani sovrapposti.I Francesi nell’agosto del 1387 conducono dinanzi alle mura diBergerac un grande apparecchio pure denominato «troia» (nomeche nel Trecento, tanto in Italia quanto in Francia, indicava pro-

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priamente un tipo di macchina da lancio), esso era composto inmodo da gettare pietre e da contenere nel suo interno non menodi cento uomini d’arme che potevano così avvicinarsi per assalirela città: vi erano perciò riunite le funzioni di una torre mobile, diun «gatto» e di una macchina da lancio, simile al dispositivo an-cora consigliato e descritto, nel secolo successivo, da Christine dePisan27.

5.2. Le «artiglierie». Quali erano il numero, le prestazioni e glieffetti delle macchine da lancio impiegate negli assedi medievali?Diciamo subito che è difficile rispondere poiché le fonti riporta-no, in genere, non dati concreti ma semplici impressioni defor-mate dall’enfasi retorica e dal desiderio di stupire. Il numero dei«petroboli» schierati dagli Avaro-slavi nel 597 a Tessalonica, se-condo l’estensore dei Miracoli di san Demetrio, doveva essere ve-ramente impressionante se davvero contro il solo muro orientalene furono impiegati più di cinquanta. Essi lanciavano enormiblocchi di pietra che solcavano l’aria con rumore di tuono tutta-via, grazie al miracoloso intervento del santo patrono, uno sologiunse a toccare le mura mentre gli altri caddero o al di qua o aldi là scavando grandi crateri. Perché non si pensi che i nemici, perloro inesperienza, tirassero troppo lungo o troppo corto e non sidica che il danno fu evitato per lo spessore del muro – argomen-ta l’agiografo – Dio permise che almeno uno dei proiettili colpis-se il coronamento del muro, e bastò quell’unico colpo per demo-lirlo sino al cammino di ronda. Le macchine sarebbero quindi sta-te in grado di abbattere le mura della città.

Le petrarie di «ammirevole grandezza» impiegate in Campanianel IX secolo (in genere non più di una alla volta) secondo il Chro-nicon Salernitanum non conseguivano effetti altrettanto impres-sionanti: quella costruita nell’871 dai Saraceni contro Salerno, coni suoi ripetuti colpi giunge a «danneggiare abbastanza» una torre,e l’analoga macchina realizzata da Sichelmanno contro il castellodi Aquino «intaccava fortemente il muro di quel castello», è vero,ma gli assediati furono poi indotti ad arrendersi perché «alquan-ti dei loro erano morti». Essa aveva dunque effetti letali contro ilpersonale non sufficientemente protetto mentre le strutture mu-rarie, pur messe in pericolo, resistevano. Le prestazioni delle nuo-ve macchine resero nondimeno opportuno rettificare e rafforzare

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le cerchie murarie preesistenti: il principe Grimoaldo, facendo ri-costruire le mura di Salerno, tenne infatti in debito conto gli even-tuali effetti che su di esse poteva produrre la «macchina che noichiamiamo petraria». Negli stessi anni gli «ingenti sassi» lanciatidai mangani parigini fecero scempio degli assedianti normanniprotetti soltanto dai loro scudi. Nel 1084 l’imperatore Enrico IV,secondo Guglielmo di Puglia, «aveva spezzato con le macchine dalancio (tormenta) le alte mura di Roma e demolito molte torri del-l’invitta città»; l’anonimo autore che redigeva in quegli stessi an-ni la Chanson de Roland ci mostra Carlo Magno lieto per la presadi Cordova di cui le sue macchine (catables) «hanno abbattuto letorri»28.

Simili sono gli effetti prodotti dagli apparecchi allestiti dai Pi-sani nell’impresa balearica, che il poeta, fedele alla terminologiaclassicheggiante, chiama baliste o semplicemente machine senzamai indicare con precisione il loro numero. Sin dalla partenza «sipreparano macchine che scaglino enormi massi sulle mura e scrol-lino e abbattano le case»; davanti alle fortificazioni di Ibiza «unaguerresca macchina è costruita e innanzi spinta dalle forze di ar-tefici periti, che disfaccia colpendo le alte torri»: è forse la stessache poco dopo, scagliando grandi massi, «va sgretolando le mu-raglie con immensa rovina» e «fa crollar le torri sotto i colpi in-cessanti». Più tardi entra in scena «una balista che nell’armata nonaveva l’uguale: con spessi colpi batteva il castello su in alto, ed orscagliava oltre le torri i sassi, ora al di fuori, e dei pagani faceva difrequente orrido scempio».

Pur nell’enfasi del linguaggio epico anche qui i «grandi massi»scagliati contro le fortificazioni possono certo «sgretolare» lenta-mente i muri e anche provocare alla lunga il crollo di torri, men-tre senz’altro le abitazioni vengono abbattute, le merlature alte so-no raggiunte e uccisi i combattenti allo scoperto. Non diversa-mente agiscono le baliste che nel 1126, durante l’assalto finalecontro Como, vanno «su tutta la città gittando massi», «senza ri-poso giorno e notte». A Lisbona nell’agosto del 1147 gli Anglo-normanni erigono due «fundae balearicae» (ovvero mangani atrazione), una sulla riva del fiume manovrata dai marinai e l’altradai cavalieri; gli «artiglieri» vengono divisi in gruppi di cento co-sì che, a un segnale stabilito, una «centuria» può dare il cambioall’altra. Se davvero – come sottolinea il cronista – in dieci ore fu-

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rono scagliate cinquemila pietre, la cadenza di tiro superò un col-po al minuto. Tale performance, certo molto faticosa per coloroche la realizzarono, mostra quali potevano essere le prestazioni diun mangano, ma non conosciamo né il «calibro» dei proiettili lan-ciati né i risultati raggiunti: si trattava del resto di un semplice ti-ro di copertura per proteggere l’azione di coloro che nel frattem-po minavano le mura.

Alla metà del secolo in Italia, se i tipi di macchine impiegatesono sempre gli stessi, sembra che vi sia nella loro potenza qual-cosa di nuovo: a Tortona nel 1155 la pietra lanciata da un manga-no dal basso all’alto, superando le mura superiori della città, siruppe in tre parti e ciascuna di esse raggiunse e uccise un cavalie-re tra coloro che in quel momento erano riuniti a parlamento ac-canto alla cattedrale; un risultato certo inatteso sia per le vittime,che se ne stavano tranquille ritenendo di essere fuori del tiro ne-mico, sia per gli autori stessi dell’impresa che tramandarono l’av-venimento come eccezionale. Le realizzazioni balistiche messe inatto nel 1159, durante l’assedio di Crema, dalle due parti in lottanon finiscono di stupire i cronisti: gli ingegneri cremonesi di-spongono di «tre mangani di dimensioni tali che nessuno ne ave-va mai visti di simili»; anche i mangani e le petriere fabbricati daiCremaschi lanciano «massi enormi», di «spaventosa grandezza»,«così grandi da non crederci se non si fosse visto con i propri oc-chi», tali «che mai furono visti lanciarsi»29. C’è davvero del nuo-vo, pare, almeno nel gigantismo delle macchine, se non nei loromeccanismi.

In realtà quale peso potevano raggiungere quei proiettili visi-vamente considerati «grandissimi»? Per tutta l’età del mangano edella petriera i dati numerici sono pochissimi e molto vaghi. I sa-raceni che difendono Tortosa danneggiano nel 1148 una torre mo-bile genovese in avvicinamento lanciando pietre da 200 libbre,corrispondenti a non più di 60 chilogrammi; saranno stati almenodelle stesse dimensioni i proiettili di mangano con cui, di riman-do, i Genovesi abbattono in seguito i muri di case e palazzi. Le pe-triere bizantine poste nel 1202 sulle mura di Costantinopoli, se-condo Roberto di Clari, lanciavano pietre «così grandi che un uo-mo non sarebbe riuscito a sollevarle da terra»; nulla in confrontoalla potenza dell’analoga macchina fatta erigere nel 1185 da Fi-lippo Augusto di Francia all’assedio di Boves se essa – come af-

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ferma Guglielmo il Bretone – era in grado di lanciare massi tra-sportabili da non meno di quattro uomini: un peso calcolabiledunque in un paio di quintali. Di fronte a simili proiettili non stu-pisce perciò che nelle robuste mura della fortezza si aprano benpresto vistose screpolature e che l’intero edificio, spezzato in piùpunti, minacci di crollare, ma è anche lecito supporre che l’enfa-si abbia indotto il poeta a qualche esagerazione30.

Appartengono ancora all’epoca del mangano e della petrierale macchine da lancio che vediamo in azione nella crociata antial-bigese. All’assedio di Termes nel 1210 – dice il poeta – «né man-gani né petriere facevano alcun male agli assediati» protetti dalleforti mura del castello e ben provvisti di viveri: essi infatti saran-no domati solo dalla dissenteria. Due anni dopo contro il castellodi Penne d’Agenais, pur altrettanto forte, «i crociati tedeschi coni loro grandi mangani lanciarono tante pietre che rischiarono difarvi breccia». A Moissac nel 1212 «le petriere tiravano tutto ilgiorno senza sosta: niente di straordinario che demolissero le for-tificazioni e le facessero a pezzi. Niente di straordinario che gli as-sediati prendessero paura»; ma quando «un grande spigolo dellemura della città precipitò nel fossato creando una breccia dallaquale si poteva passare», il fatto viene considerato un miracolofatto da Gesù in favore dei crociati. I numerosi proiettili lanciatinel 1216 dagli abitanti di Beaucaire contro il torrione sono cosìefficaci che «il legno, la pietra, il piombo vengono ridotti in bri-ciole»; una calabre «batte e demolisce la Porta della Vigna e il suomuro». Per converso una macchina analoga, messa in campo daSimone di Monfort, «tira tutto il giorno contro il portone dellacittà, sui merli quadrangolari e ne spezza le grosse pietre da ta-glio»; essa è «così solida e potente che rompe e demolisce e fa apoco a poco crollare tutta la porta».

Le macchine dunque, anche qui, come già avveniva nel secoloprecedente, provocano alle strutture murarie danni certo preoc-cupanti per chi li subisce, ma non tali da spazzare via senz’altro lemura, e quando davvero queste cadono l’avvenimento non vieneattribuito tanto all’efficacia delle macchine quanto a un interven-to soprannaturale. Al solito i proiettili sono molto efficaci controle persone non sufficientemente protette: a Boves nel 1185 benpochi difensori hanno il coraggio di rimanere sulle mura; nel 1212le perdite causate dalle petriere tra i crociati assediati nel castello

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di Tolosa sono così forti che chiunque si fermi sul cammino dironda cade in basso, deve ritirarsi insanguinato o viene colpito amorte poiché «le bertesche e i parapetti non li proteggono più».Lo stesso Simone di Monfort fu ucciso nel giugno del 1218 da unapetriera manovrata dalle donne di Tolosa: «La pietra cadde diret-tamente dove occorreva; essa colpì il conte sull’elmo d’acciaio co-sì fortemente che gli spezzò gli occhi, il cervello, i denti di sopra,la fronte e le mascelle; il conte cadde a terra molto insanguinato elivido».

Ci si aspetterebbe di assistere a mutamenti rilevanti allorché,dai primi decenni del XIII secolo in poi, venne diffondendosi suscala generale il trabucco a contrappeso fisso considerato, non atorto, ben più potente delle macchine da lancio precedenti; inrealtà le fonti, pur mettendo a disposizione dati numerici più ab-bondanti e suddivisi fra tipi di macchine diverse, non permettonodi cogliere cambiamenti molto significativi. Così almeno si con-stata nell’Italia comunale che, essendo teatro di continue guerre,riflette certo un andamento comune anche al resto dell’Occiden-te: mentre continua l’impiego del mangano, la petriera viene len-tamente sostituita dal trabucco. In un assedio gli attaccanti schie-rano in media un complesso di sette o nove macchine da lancio frale quali spesso vi è un solo trabucco, e anche quando il numerocomplessivo delle macchine giunge eccezionalmente alla quindi-cina, esso figura sempre in quantità assai ridotte; più volte si hamenzione dei suoi contrappesi di piombo. Dopo la metà del se-colo tale preminenza del trabucco passa a una nuova macchinachiamata blida, biffa, biblia, briccola: si tratta di un suo perfezio-namento dotato, come sappiamo da Egidio Romano, di contrap-peso mobile31.

Gli apparecchi vengono talora costruiti sul posto nel corso del-l’assedio, ma anche portati al seguito dai reparti operanti, proba-bilmente smontati, segno questo da un lato delle capacità tecni-che raggiunte e dall’altro dell’esistenza di veri e propri parchi diartiglieria. Per la produzione, la custodia e il trasporto di mezzitanto delicati e ingombranti era certo necessaria una complessa ecostosa organizzazione logistica; la disponibilità di macchine dalancio veniva così a costituire una prima discriminante, sul pianoeconomico e tecnico, fra la volontà di potenza e l’effettiva capa-cità di conseguirla, che escludeva senz’altro i soggetti più deboli.

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L’importanza attribuita alle macchine, e la loro relativa rarità,è segnalata anche dai nomi propri, retorici o pittoreschi, che ve-nivano ad esse attribuiti: nel 1168 i Faentini disponevano di duemangani battezzati «Asino» e «Falcone» impiegati nella conqui-sta di Argenta. Nel giugno del 1191, durante l’assedio di Acri, Fi-lippo Augusto di Francia schiera una sua eccellente petraria chia-mata Mala Vicina, contrapposta a una macchina turca detta MalaCognata. L’usanza si mantiene nel tempo poiché nel 1294 gli Or-vietani avevano un trabucco di nome Vattelana (cioè «battilana»),i Modenesi nel 1306 una balista chiamata Lupa, e nomi propri as-sumevano i trabucchi schierati nel 1304 da Edoardo I d’Inghilter-ra contro il castello di Stirling. Nomi simili saranno dati nel seco-lo successivo anche alle grandi bocche da fuoco: nei primi decen-ni del Quattrocento i principi d’Acaia possedevano in Piemontebombarde chiamate Spazacampagna, l’Ardie, Dame Loyse e la piùgrande di esse, in omaggio ad Amedeo VIII, portava il nome diDomina Amedea. Non diversamente, nel 1474 il duca di Milanopossedeva bombarde denominate Corona, Bissona, Liona e Ga-leazasca32.

Se nulla di preciso è dato conoscere sulla gittata delle macchi-ne a contrappeso, si può almeno registrare quanto fece scrivere ilgenovese Oberto Doria contro i Pisani che, nel 1283, progettava-no di avvicinarsi alla città rivale per lanciarvi simbolicamente, insegno di sfida, pietre fasciate di drappi rossi: «Ho sentito talvoltadire che i trabucchi sono apparecchi che tirano molto lontano»,ma se i Pisani entreranno in mare egli si avvicinerà loro tanto cheper raggiungerli non saranno più necessari «né trabucchi né bale-stre, né altri arnesi che tirino da lontano». Possediamo qualche da-to in più sul «calibro» dei proiettili lanciati. Fra le quattordicimacchine schierate nel 1249 da Ezzelino da Romano contro la roc-ca di Este – dice Rolandino da Padova – ce n’erano che «lancia-vano pietre dal peso di 1200 libbre e oltre», corrispondenti a ben580 chilogrammi se calcolati secondo la libbra padovana «grossa»o di 405 se ci si attiene invece a quella «sottile»: un peso, in ognicaso, impressionante.

Più modeste, ma egualmente ragguardevoli, erano le presta-zioni delle macchine impiegate dai Forlivesi nel 1277 contro Ba-gnacavallo, che lanciavano pietre di 600 libbre, cioè di circa 2quintali. Nel 1317 a Napoli Roberto d’Angiò ordina la costruzio-

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ne di dodici trabucchi: tre «grandi» in grado di gettare pietre dalpeso di due cantari; tre «mediocri» per pietre di un cantaro, e tredi un quarto di cantaro. Anche in questo caso le equivalenze mu-tano a seconda che si intenda il cantaro grande (89 kg) o piccolo(32 kg) dando per i trabucchi «grandi» proiettili dal peso massi-mo di 180 kg. Per quanto imponenti, essi non supererebberoquelli lanciati nel secolo precedente dalle petriere di Filippo Au-gusto. Si ha l’impressione che nel corso del Trecento vi sia la ten-denza a realizzare macchine sempre più potenti: i trabucchi chenella prima metà del secolo suggeriscono a Buridano la teoria del-l’impetus gettano infatti proiettili di 5 quintali; nel 1374 i Geno-vesi impiegarono all’assedio di Kyrinia, nell’isola di Cipro, «unamacchina chiamata troia» capace di lanciare pietre dal peso cheandava da 12 a 18 cantari, cioè da 570 a 850 chilogrammi; e si hanotizia che i Bernesi e i Veneziani possedevano trabucchi caricaticon proiettili pesanti sino a 12 e a 14 quintali33.

In quei decenni tuttavia le grandi macchine da lancio tradizio-nali cominciano ad essere affiancate dalle bombarde: al tempodell’assedio di Audenard nel giugno del 1382 – racconta Frois-sart – gli uomini di Gand costruiscono un apparecchio «meravi-gliosamente grande» largo 20 piedi e lungo 40 detto «mouton»per tirare pietre nella città e, accanto ad esso, una bombarda, pure«meravigliosamente grande» con un calibro di 53 pollici che get-tava frecce ancora «meravigliosamente grandi e pesanti», e quan-do era scaricata veniva udita di giorno alla distanza di 5 leghe e dinotte sino a 10 facendo «così grande tempesta da sembrare chetutti i diavoli dell’inferno fossero in cammino». Nel giugno del1387 l’esercito padovano assedia per otto giorni Montegalda con«molte e grandi bombarde e mangani, i quali tutti lanciavano pie-tre nel castello e nella bastita»; la cooperazione delle vecchie e del-le nuove artiglierie continuerà almeno per un altro secolo: quan-do Diomede Carafa consigliava ancora di «dare noia a quilli dedentro», oltre che con le bombarde, «dove se po de li trabucche»,e nel 1474 fra le dotazioni dell’esercito sforzesco figurano, insie-me a bombarde e spingarde, anche una bricola con «la perticha,el fuso, le braghe e altri legnami et fornimenti». La «svolta decisi-va» che in Francia avrebbe provocato la scomparsa delle antichemacchine «nel secondo quarto del secolo XV»34, andrebbe dun-que postdatata in Italia di almeno una ventina di anni.

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Ma quale era, in generale, l’efficacia dei trabucchi? I primimenzionati nella Canzone della crociata albigese sono manovratinel 1218 dai cittadini di Tolosa: «Belli e grandi quarti di roccia fu-rono messi nelle fionde ed essi abbattono, rovesciano, fanno apezzi il castello Narbonese, le sue porte fortificate, i suoi ripari, lebertesche, le caditoie che le collegano e le finestre alte della Tor-re Ferranda». Contro Ventimiglia nel 1221 i Genovesi fabbricanosul posto due mangani e due trabucchi che «con l’ingente moledelle pietre lanciate e con i loro formidabili colpi sconquassano lacittà e la riducono in rovina». Un trabucco costruito, anche là, inbreve tempo sul posto colpisce le mura del castello di Monteiarocon pietre grandissime, e una di esse, penetrata all’interno, rompela cisterna così che nel giro di diciotto giorni, gli uomini del presi-dio «non potendosi più proteggere», decidono di chiedere la resa.In condizioni da «non potersi più proteggere» dal tiro vengonoegualmente ridotti nel 1227 i castelli di Albisola e di Savona.

I trabucchi di Federico II nel 1237 martellano il castello diMontichiari, presso Brescia, «gettando a terra muri e case»; quel-li di Ezzelino da Romano «danneggiano molto» il castello di SanBonifacio, spezzano le mura del palazzo nei castelli di Noale e diMussolente nonché «muri, torri e palazzo» della rocca di Este.Nel 1230 a Cipro un trabucco abbatte quasi tutte le mura del ca-stello di Diodamore; la sua rocca «era così forte che non si potevascalare», ma il poeta cronista fa dire a uno dei difensori: «il lorotrabucco ci fa crollare addosso i nostri forni, e anche i muri e lecostruzioni di pietra, e merli e case: se ci danno l’assalto come cidifendiamo?». Sono parole che sembrano interpretare bene l’im-pressione di «non potersi più proteggere» espressa dagli Annaligenovesi. Guido di Montefeltro nel 1278 innalza sette «mangani»(è più probabile, però, che si trattasse di trabucchi, termine sem-pre ignorato dal cronista Cantinelli) i quali bombardano il castellodi Calboli notte e giorno «distruggendo e perforando i muri, ucci-dendo gli uomini» così che il presidio è costretto ad arrendersi35.

Gli effetti descritti, a ben vedere, non sono diversi da quelli giàottenuti da mangani e petriere, ma è possibile che la maggiore po-tenza delle macchine a contrappeso dovesse ormai fare i conti construtture murarie assai più resistenti rispetto a quelle dei secoliprecedenti: Egidio Colonna, negli ultimi decenni del Duecento,raccomandava di costruire le mura con un riempimento di terra

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pressata per meglio resistere ai colpi delle macchine da lancio e,nello stesso tempo, di usare come proiettili pietre di torrente piùsolide e adatte al tiro. Senza voler negare effetti distruttivi piùestesi, certo possibili contro fortificazioni di particolare debo-lezza, parebbe, in generale, che i danni riguardino soprattutto lestrutture abitative interne e non la cerchia esterna delle fortezzecolpite, cosa che del resto era sufficiente a mettere i presidi in for-te disagio sino a costringerli alla resa. Vi sono peraltro fortezzeche, per la loro posizione o per la grande robustezza delle mura,si rivelano del tutto inattaccabili: nel 1220 contro le mura di Mor-tennano, spesse 10 braccia, i proiettili di mangano e del trabucco«onerato plumbo» impiegati dai Fiorentini, facevano l’effetto disemplici «fave di marmo» così che si dovette ricorrere alle galle-rie di mina. Il castello di Montagnon, sui Colli Euganei, nel 1237«non poteva essere espugnato con macchine o trabucchi poichécon essi è impossibile raggiungerlo».

Teodoro di Monferrato all’inizio del Trecento, da ottimo os-servatore della realtà, consiglia espressamente di non dirigere il ti-ro sulle mura poiché poche sono le fortezze cui si possa nuocere,ma di colpire invece le bertesche e le garitte dove i nemici stannodi guardia o, fuori di esse, le case di abitazione e i loro annessi. Daparte sua il cronista pugliese Domenico da Gravina, assistendo nel1349 all’azione svolta da quattro trabucchi all’assedio di Corato,fa questa osservazione: «Come allora vidi e penso, un centro abi-tato (terra) non può mai essere preso per mezzo del trabucco il cuiimpiego è utile solo contro i castelli benché con i suoi colpi e conl’effrazione delle pietre lanciate, uccida molti uomini nelle berte-sche e spacchi moltissime di queste ultime»36.

Già nel corso della prima crociata e poi via via in modo cre-scente, si ha testimonianza che le macchine da lancio potevano ri-manere in funzione ininterrottamente giorno e notte. Per con-trollare quindi il tiro notturno Egidio Colonna consiglia di legaresempre alla pietra un tizzone acceso in modo che si possa verifi-care l’assetto della macchina e se sia da aumentare o da diminui-re il peso del proiettile. Implicitamente contrario a tale accorgi-mento si professa invece Teodoro di Monferrato facendo osser-vare che, con il favore del buio, è più difficile per gli assediati schi-vare i colpi in arrivo e la notte stessa, inoltre, «les grieve plus ettrouble»37.

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5.3. Gli effetti psicologici. Al di là della sua reale efficacia sul pia-no materiale il dispositivo d’assedio messo in atto contro una for-tezza assumeva, nelle sue varie componenti, un potente valore dipressione psicologica. Una silloge tattica greca consigliava all’asse-diante di disporre il proprio apparato a debita distanza dalle mu-ra, oltre che per evidenti ragioni di sicurezza, anche perché essoapparisse più terribile agli occhi del nemico. Grande effetto pote-va infatti esercitare sugli assediati il numero di coloro che li tene-vano chiusi e, forse anche di più, la vista dei macchinari posti incampo. Lo spiegamento dei mezzi, le scenografie dimostrative de-gli schieramenti, l’ostentazione della propria potenza e determina-zione mira a impressionare gli assediati per indurli alla resa: l’ap-parato ossidionale ha dunque un valore di dissuasione psicologicaforse superiore alle sue capacità di svolgere un’azione fisica diretta.

Cesare racconta nel suo De bello Gallico che gli Atuatuci fu-rono indotti alla resa alla sola vista di una torre d’assalto che simuoveva contro di essi: se i Romani erano in grado di spingereavanti con tanta rapidità macchine di mole così grande – pensa-rono – certo essi dovevano avere dalla loro l’aiuto divino. E un si-mile effetto, per quanto di per sé non risolutivo, poteva esercitar-si anche su popolazioni meno primitive e niente affatto estraneealle dimostrazioni di capacità tecnologiche. Anna Comnena scri-ve che quando gli abitanti di Durazzo, assediata nel 1081 da Ro-berto il Guiscardo, videro fuori delle mura le elepoli e l’immensatorre di legno interamente ricoperta di pelli la cui struttura supe-rava le fortificazioni della città, furono presi dal terrore, anche sein seguito seppero reagire in modo adeguato. Nel 1107 Boemon-do ripeté il tentativo già fatto da suo padre con uno spiegamentodi mezzi ancora superiore, e di nuovo la prima, enorme «testug-gine» da lui allestita apparve agli assediati come un «mostro in-descrivibile» presentando ai loro occhi «uno spettacolo terrifi-cante»; la seconda torre mobile, non meno della prima, risultò«spaventevole a vedersi» tanto più che «avanzava senza che si co-noscesse la causa del movimento e sembrava muoversi da sola co-me un gigante che emerge dalle nuvole».

«Grande paura» provarono – secondo gli Annali di San Disi-bodo – i Saraceni di Lisbona quando nel 1147 videro avvicinarsialle loro mura la torre mobile costruita dai crociati, tutta piena diarmati e anch’essa debitamente coperta di pelli di toro; pare anzi

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che tale misura di protezione contribuisca a dare ai mezzi d’asse-dio un aspetto più spaventoso e temibile. A maggior ragione lacomplessità delle macchine che riuniscono in sé – come si è visto –una molteplicità di funzioni conferisce loro un aspetto insolito cheimpressiona psicologicamente l’avversario: la «maristella» fattaallestire da Federico II contro Viterbo viene infatti descritta comeun «mostruoso edificio», e ancora nel 1377 gli abitanti di Berge-rac rimasero esbahis – dice Froissart – di fronte alla «troia» che iFrancesi avevano faticosamente trasportato davanti alle loro mu-ra, tanto da indurli ad arrendersi senza combattere. Non a torto,quindi, Teodoro Paleologo sottolinea l’utilità di dotarsi di appa-recchiature che «spaventino e stupiscano i nemici». Inoriamo checosa fossero esattamente i machinamenta di cui disponevano Ro-berto il Guiscardo e suo fratello Ruggero nel 1059 durante l’asse-dio di Reggio Calabria, ma gli abitanti appena li videro rimaseroterrorizzati e senz’altro si sottomisero; altrettanto fecero nel 1082in Grecia i trecento Varangi che difendevano Castoria, e nel 1098i ribelli cittadini di Capua38.

Un potere simile ebbero certe macchine da lancio e special-mente, nel XIII secolo, i trabucchi messi in campo dai Genovesi:nel 1216 Vernazza si ribellò al dominio di Genova aderendo aiMalaspina, l’esercito genovese intervenne, prese e bruciò il borgoe mise l’assedio al castello; coloro che vi erano rinchiusi, vedendoche si preparavano contro di loro macchine e trabucco, si arrese-ro immediatamente. Nel 1273 il presidio del castello di Taglioloalla sola vista delle macchine fu preso dal panico e cedette; du-rante le operazioni condotte in Corsica nel 1289 bastò che un tra-bucco tirasse un paio di giorni ininterrottamente contro il castel-lo di Rocca di Valle perché i difensori «timore moti» rinunciasse-ro a ogni ulteriore resistenza. Contro gli abitanti del fortissimo ca-stello di Caspigra fu addirittura sufficiente erigere il trabucco perindurli rapidamente alla resa. Non solo i prestigiosi artiglieri ge-novesi, del resto, conseguivano simili risultati: il marchese d’Estenel 1239, recuperando le sue terre occupate da Ezzelino da Ro-mano, ottenne il castello di Calaone – dice Rolandino – «per pau-ra dei trabucchi». La sola minaccia di ricorrere a tali macchine po-teva dunque avere un effetto deterrente tale da convinceresenz’altro un presidio alla resa. Non a torto quindi – raccoman-dava Marin Sanudo Torsello – ogni comandante di esercito deve

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ben riflettere sulle macchine da lancio poiché, se esse si mostranoall’altezza del loro compito, «il nemico ne avrà molta paura, tan-to che dal terrore sarà costretto a cedere il campo o la piazza»39.

All’impiego delle «artiglierie» si collegano usi che intendonoanch’essi esercitare una pressione psicologica non necessaria-mente basata sulla loro capacità distruttiva. Nel 1229 a Cipro, iltraditore che aveva indicato al nemico i punti deboli del castellodi Kyrinia sui quali indirizzare l’offesa, fu giustiziato – dice Filip-po da Novara – gettandolo con il trabucco contro le mura del me-desimo castello. Le macchine da lancio possono inoltre essere uti-lizzate per eseguire tiri, diciamo così, «non convenzionali» intesia ottenere effetti di natura puramente psicologica: nel 1097 i cro-ciati proiettarono in Nicea le teste dei nemici uccisi in uno scon-tro affinché i Turchi «si spaventassero maggiormente». Nel corsodel Duecento, specialmente in Toscana e in Emilia, si stabilì l’u-sanza di lanciare entro le mura di una città assediata, con intentodi insulto e sfida, disprezzo e irrisione, i corpi di certi animali, so-prattutto asini: cinque ne gettarono «per dispetto e vergogna» iFiorentini in Siena nel 1233; un asino vivo fu «trabuccato» dai Bo-lognesi in Modena nel 1249; e ancora nel 1289 i Fiorentini, dopola vittoria di Campaldino, «manganarono» in Arezzo «asini collamitria in capo per dispetto e rimproccio del loro vescovo».

Nel «manganare» o «trabuccare» un asino all’intenzione di di-leggiare l’avversario si univa probabilmente un’implicita dimo-strazione delle proprie capacità tecniche dato il peso cospicuodell’animale. Ma il lancio di materie «improprie» poteva anchepassare dal simbolico al pratico. Nel 1309 i Veneziani in lotta con-tro i Ferraresi, come da tempo era uso nelle battaglie navali, ri-corsero alla proiezione di «olle piene di sterco e orina, calce, sa-pone, zolfo e pece infuocati»; non a caso, dunque, Mariano Tac-cola nel 1449 contempla che città, rocche e castelli possano esse-re conquistati «per feci e pesce corrotto lanciati con mangano», epiù avanti aggiunge all’elenco «cadaveri umani e acqua putrefat-ta con cipolle, formaggio e biade»: i componenti del presidio si sa-rebbero così presto ammalati e quindi costretti a sottomettersi40.Eccoci dunque passati dal semplice dileggio a una vera e propriaguerra «batteriologica».

Gli attacchi – consigliano i trattatisti – devono essere reiteratisenza sosta con spiegamento di mezzi e di rumori improvvisi, di

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giorno e soprattutto di notte poiché il buio, come si è già visto, ac-centua ancora l’effetto terrorizzante. Durante la guerra greco-go-tica il presidio dell’inespugnabile fortezza rupestre di Petra Pertu-sa, lungo la via Flaminia, si arrese a discrezione perché spaventatodagli enormi blocchi di roccia che i Bizantini avevano fatto piove-re dall’alto di un dirupo. In certi casi può essere sufficiente a inti-midire l’avversario la determinazione di pochi. Parpanese, castel-lo pavese posto al confine con Piacenza e dotato di una solidissi-ma torre presidiata da oltre cento uomini, viene attaccato nell’ot-tobre del 1214 dai Piacentini e dai Milanesi che riempiono i fossa-ti e giungono sugli spalti; i difensori, vedendo che i nemici «nonintendevano desistere», si rifugiano nella grande torre. Alcuni Pia-centini, proseguendo nell’azione, spaccano con le scuri il ponte le-vatoio, lo abbattono e giungono di corsa con le armi brandite, le-vando alte grida, fino ai piedi del torrione dove cominciano a scar-dinare con grandi colpi la porticina posta accanto alla porta mae-stra. A quel punto i difensori, «fortemente impressionati e anzipresi da folle paura, facendosi con il braccio il segno della croce, siarrendono ai consoli di Piacenza». L’aggressività mostrata dagli at-taccanti aveva tolto ogni volontà di continuare una resistenza chein realtà avrebbe potuto proseguire ancora molto a lungo.

Durante la medesima campagna, altri castelli fortissimi comeBosnasco e Rovescala avrebbero ceduto semplicemente alla vistadel modo «mirabile» con il quale i Piacentini si preparavano adattaccarli. Casale Monferrato, assediato il 17 luglio di quello stes-so anno, resiste validamente sinché – dice ancora il cronista Co-dagnello – gli abitanti, scorgendo i nemici, risoluti a non desiste-re dall’impresa, dirigersi verso di loro armati e disposti «in schie-ra strettissima» con tutti i mangani, petriere, gatti, torri mobili,ponti e più di cento scale, furono presi dal panico e si diedero pri-gionieri al podestà di Milano. E i difensori di Soriasco, nell’Ol-trepò pavese, dopo un solo giorno di assedio, «vedendo i Milane-si e i Piacentini che stavano schierati attorno al castello con innu-merevoli scale e altre macchine, preparandosi a dare l’assalto, op-pressi dal terrore, ritenendo di non poter più resistere né difen-dersi», si arrendono.

Nell’opera di intimidazione, far credere agli assediati che leloro mura erano minate e stavano per cadere, poteva assumereun’importanza determinante. Nel febbraio del 1267 Carlo d’An-

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giò aiutò i Lucchesi nella conquista del castello pisano di Mutro-ne «che era fortissimo di mura grossissime» ben difficili da supe-rare; agli assediati si fece intendere che era in corso lo scavo di unagalleria di mina: «per ingegno e inganno – scrive Giovanni Villa-ni – la notte faceano recare calcinacci d’altra parte e il dì li facea-no gittare fuori mostrando che fosse del tagliamento del muro delcastello, per la qual cosa quegli d’entro impauriti s’arenderonosalve le persone; e usciti del castello, e vedute le cave, s’avidonodello inganno». In seguito tale espediente è dato dal Cornazzanocome pratica corrente: «Spesse volte anche dimostranza fassi / dicave già fornite e d’altri viste / onde la terra per temenza dassi»41.

Naturalmente anche il fuoco ha grande valore intimidatorio epuò essere utilizzato per piegare psicologicamente il morale deidifensori. Ad esso ricorrono con frequenza i Comaschi nella lorolotta contro Milano e i suoi alleati: nel 1120 viene attaccata la tor-re di Lierno «piena di uomini superbi, troppo vocianti ingiurieturpi; infatti sol parole dicevano», ma «mentre fanno gli spacconie tali ciance sbraitando vanno», ecco che «sul tetto avvampa lagettata fiamma: vinta di colpo la superbia cade e affloscia. Ora,annodate le funi, uno dopo l’altro, se ne fuggono via». L’anno do-po è la volta del castello di Drezzo: visto vano ogni sforzo i Co-maschi «preparan quindi il medicato fuoco» e Pagano Prestinariscocca una «infocata, fiammeggiante, luminosa saetta»; i tetti «ar-dono tosto fumigando e una densa caligine s’aderge ad offuscareil cielo»: i difensori resi trepidanti dalla paura, subito si arrendo-no. Più tardi coloro che sono rinchiusi nel campanile fortificato diMenaggio provocano i Comaschi insultandoli duramente; per tut-ta risposta il loro ariete scava nella parete una fessura e «per là lafiamma immettono e fan penetrare le torce. L’acceso fuoco tostofiammeggiando divampa in un baleno» e subito gli assediati «al-l’appressarsi della morte invocano aiuto», viene loro gettata unafune e tutti riescono a calarsi a terra «e così già di morte sulla so-glia al rischio sono sottratti».

Nel giugno del 1246 Padovani e Bassanesi assediano per con-to di Ezzelino da Romano il castello trevigiano di Mussolente cheresiste intrepido all’incessante martellamento dei trabucchi sin-ché, dopo nove giorni, vanno a fuoco il villaggio e la cinta ester-na: «A quella vista quelli che erano nel castello, pensando che lo-ro non poteva toccare che la morte, consegnarono la fortezza, se

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stessi e tutto ciò che avevano». Dieci anni dopo, quando i crocia-ti antiezzeliniani attaccano Bovolenta, un incendio danneggia gra-vemente il borgo: non solo i difensori del castello ne furono ter-rorizzati, ma «il fumo che si levò di là fu segno per tutti quelli del-la parte avversa, che stavano in Piove di Sacco e in Padova, chegrandi pericoli e paure li aspettavano, e fu premessa della succes-siva rapida sconfitta».

Talora interi gruppi di fortezze cadono, per una specie di «ef-fetto domino», in seguito alla paura da cui sono invasi coloro chedovrebbero difenderle. Quando nell’894 Arnolfo di Carinzia sce-se dalle Alpi per far valere le sue pretese imperiali – scrive Liut-prando di Cremona – «accolto dai Veronesi, va verso la città diBergamo dove, confidando nelle fortissime mura del luogo, non glisi aprono le porte credendo di poter tranquillamente resistere». Lemura invece, contro ogni previsione, cedono, si apre una breccia eattraverso di essa gli aggressori penetrano in città, la incendiano,trucidano la popolazione e infine impiccano sulle mura violate lostesso conte di Bergamo che aveva guidato la resistenza. Lo scon-certo provocato dall’inatteso avvenimento è tale che le più impor-tanti città del regno italico, benché protette da solide cerchie dimura, subito si sottomettono ad Arnolfo senza resistere. La gran-de emozione suscitata dall’improvvisa caduta di Bergamo (verisi-milmente dovuta a caso accidentale più che alla superiore periziapoliorcetica degli attaccanti) pesò sul morale dei difensori per tuttala durata della campagna e soprattutto pesò il trattamento inflittoalla città, brutale espressione di furor teutonicus cui la mentalità ita-liana, sotto la dominazione carolingia, si era disabituata. Fenome-ni simili accaddero in Puglia e in Sicilia durante la conquista nor-manna: gli invasori concentravano i loro sforzi contro una fortez-za e quando riuscivano ad averne ragione, vi irrompevano depre-dandola: «Per conseguenza – riferisce Goffredo Malaterra – anchei rimanenti castelli circonvicini, vedendo ciò che sarebbe loro toc-cato, spontaneamente si sottomettevano al loro potere»42.

6. La terra e il fuoco

«Gli assedianti – consiglia Egidio Colonna – devono segreta-mente scavare la terra in un certo luogo nascondendolo agli occhi

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del nemico, se necessario, con una tenda o con un edificio, e iviaprire gallerie sotterranee, come fanno i minatori per cercare ar-gento o altri metalli, più profonde di quanto lo siano i fossati del-la fortezza da espugnare in modo da arrivare sotto le sue mura»;queste vengono provvisoriamente sostenute con puntelli di legnoai quali in un secondo tempo si appicca il fuoco provocandone co-sì il crollo. Se la caduta avverrà verso l’esterno si otterrà anche ilriempimento dei fossati agevolando così l’accesso agli assalitori.Le gallerie possono anche proseguire oltre la cerchia, in modo dasbucare direttamente nella città o nel castello assediato in simul-taneità con la caduta delle mura. Bisogna però usare alcune ovvieavvertenze: occorre via via armare le pareti con legname per evi-tare che la terra franando soffochi i minatori; il materiale estrattova nascosto agli occhi degli assediati perché non si accorgano del-l’operazione in atto, e infine, al momento di appiccare il fuoco aipuntelli, occorre che tutti si ritirino in luogo sicuro per evitare dirimanere sepolti.

La pratica di minare le mura delle fortezze assediate, correntenell’antichità, sarebbe già stata impiegata nel 1066 in Inghilterrada Guglielmo il Conquistatore, il quale a Londra e a Exeter avreb-be anche avuto a disposizione macchine per scalzare le mura. Du-rante la prima crociata, poi, tale tecnica giovò, come si è visto, al-la presa di Nicea. L’uso delle gallerie da mina non si diffuse peròcon facilità e probabilmente dovette essere più volte riscoperto siaper semplice intuito, sia attraverso la lettura della trattatistica an-tica. Mentre durante il primo assedio di Durazzo, avvenuto nel1081, Roberto il Guiscardo ancora ignora le mine, esse vengonoutilizzate nel 1108 da suo figlio Boemondo: «Scavando avanzaro-no sotto terra come talpe che aprono il loro cunicolo – scrive in-fatti Anna Comnena – e progredirono in linea retta con una gal-leria molto larga e lunga togliendo continuamente terra con l’aiu-to di carri. Quando ebbero condotto sufficientemente avanti il lo-ro scavo, essi si rallegrarono come se avessero compiuto una gran-de prodezza», mentre la loro iniziativa era destinata al fallimento.Pochi anni dopo ecco gli zappatori pisani in azione contro le mu-ra di Maiorca: «Vacillavan le torri di Maiorca / e crollavan le mu-ra, che scalzava / lo scavatore, a cui per ogni giorno una biondamoneta si donava», sinché «ampia una breccia per quaranta pas-si fu aperta nelle mura».

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Meno buoni sono i risultati ottenuti nel 1147 a Lisbona daicrociati inglesi, tedeschi e fiamminghi: gli uomini di Colonia perben cinque volte tentano di minare il muro mediante «fosse sot-terranee» e per altrettante volte i tentativi vanno a vuoto; solo inottobre l’impresa finalmente riesce: crollano 200 piedi di muro,ma la resistenza opposta dai Saraceni è tale che le truppe d’assal-to non riescono egualmente a entrare in città43. Come già Gu-glielmo il Conquistatore, anche Federico I nel 1155 dispone a Tor-tona di una macchina denominata talpa, nome più che appro-priato per la funzione di scavo che è destinata a svolgere; Ottonedi Frisinga presenta, tuttavia, l’attacco mediante cunicoli come un«artificio inusitato». Nonostante la novità del procedimento i Tor-tonesi ne sarebbero venuti a conoscenza – sospetta il cronista –per il tradimento di qualcuno del campo imperiale, e furono ingrado di parare il colpo.

Ancora fallimentare fu il tentativo compiuto da Federico I nel-l’inverno del 1174 ad Alessandria: l’imperatore – scrive Romual-do Salernitano – «ordinò di fare fosse e cunicoli sotto terra, e vifece entrare cavalieri armati perché attraverso di essi improvvisa-mente irrompessero nella città» impreparata a quella trappola.Gli Alessandrini percepirono il pericolo e, armi alla mano, impe-dirono virilmente l’ingresso ai Tedeschi. La potenza divina vollepoi che una parte della galleria crollasse seppellendo coloro chevi si trovavano così che il disastro fu completo.

La vera e propria collezione di fallimenti cui abbiamo assistitofu interrotta in Francia dai tecnici di Filippo Augusto i quali nel1185, con la protezione di un «gatto», praticano sotto le muraesterne di Boves uno scavo «da manuale»: incendiati quindi i so-stegni il muro crolla; tra nembi di polvere e fumo i guerrieri co-razzati francesi irrompono sul nemico colto di sorpresa e «moltitrucidano e molti catturano». Altra brillante operazione piena-mente riuscita fu la mina (questa volta praticata direttamente allefondamenta delle mura) che permise al re di impadronirsi nel1203 dell’imprendibile Château Gaillard. Nonostante tali prece-denti, qualche anno dopo l’ambiente militare fiorentino, di nor-ma assai aggiornato nelle tecniche, considerava ancora la risolu-zione di un assedio mediante lo scavo di gallerie come «cosa inau-dita e per l’innanzi insolita». L’attacco sotterraneo condotto nel1220 contro le fortificazioni di Mortennano comportò spese in-

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genti e quaranta giorni di dure fatiche, ma la torre del castello e lesue mura spesse 10 braccia in un attimo furono distrutte dalle fon-damenta; il comune di Firenze, soddisfatto dell’esito, in segno diriconoscenza, esentò l’ideatore del progetto e i suoi discendentida ogni futura imposta e prestazione44.

Nel 1228 la medesima tecnica appare ben nota ai Bolognesiche giungono a scalzare le fondamenta del castello di Piumazzo«per terrarum cavernas» e, nello stesso anno, insieme con i Faen-tini, minano il castello modenese di Bazzano sinché «appiccato ilfuoco al legname che sosteneva il muro, questo crollò in quantitànon piccola»; solo l’accanita resistenza opposta dai difensori fecefallire l’attacco. Nel 1241 i minatori di Federico II penetrano inFaenza per cunicoli sotterranei sino a scontrarsi con gli avversari,e l’anno dopo l’imperatore con lo stesso mezzo sperò inutilmentedi ottenere Viterbo. Ezzelino da Romano per conquistare il ca-stello di Este nel 1249 ricorre ai minatori delle argentiere carin-ziane in grado – dice Rolandino da Padova, in vena di richiami mi-tologici – di far entrare in una notte «cinquecento fanti saltati fuo-ri miracolosamente dalla terra, come gli uomini di Cadmo dallasemina dei denti».

Lo scavo di gallerie sembra dunque conservare qualcosa di fa-voloso benché l’uso, là dove il terreno lo permette, sia ormai cor-rente. Firenze dopo il successo di Mortennano vi ricorre spessocontendendo a Siena i minatori (qui detti guerchi) che operanonelle miniere d’argento di Montieri, presso Volterra. Contro il ca-stello senese di Selvole nel 1231, a lungo e inutilmente bersaglia-to con i mangani e con il fuoco, i Fiorentini, «scavate le rive e pe-netrati sotto le mura, le ruppero insieme con la torre», e nel 1324la rocca di Cappiano si arrese loro «per tema di cave e di edificii».Non sono da meno, naturalmente, gli avversari di Firenze: i Pisa-ni nel 1263 scavano «fosse sotterranee» sotto la rocca di Casti-glioncello; Castruccio Castracani, assediato nel 1325 Montemur-lo, «fece cavare il castello – dice Giovanni Villani – dalla parte del-la rocca e fece cadere molto delle mura»; ciò nonostante i difen-sori respinsero le ingiunzioni di resa sinché furono avvertiti chequanto ne rimaneva era a sua volta minato e poteva crollare da unmomento all’altro; vollero controllare di persona e quindi, «veg-gendo per le cave cadere le mura e per li molti edifizii flagellati»,acconsentirono finalmente di arrendersi a patti. Non volle invece

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in nessun modo cedere il presidio della torre di Porto Pisano,messa «sui puntelli» dai Genovesi nel 1290, che crollò facendoscempio dei difensori45.

Il ricorso alle cave sotto le fortificazioni viene ancora consi-gliato da Jean de Beuil nel 1466, e dieci anni dopo da AntonioCornazzano, in tempi in cui la polvere da sparo era ormai da tem-po entrata nell’uso; sin dal 1403 però il fiorentino Domenico Be-nintendi aveva espresso l’idea di attivare le mine con la polvere dabombarda, e in seguito Mariano Taccola in uno dei suoi disegniaveva ben illustrato gli effetti teorici di una mina esplosiva. Filip-po di Clève, che conosceva la mina fatta brillare da Francesco diGiorgio Martini a Napoli nel 1495, ancora vent’anni dopo sugge-risce l’applicazione della polvere da sparo non per ottenere un’e-splosione, ma solo per accelerare la combustione dei tradizionalisostegni di legno posti sotto le fondamenta, una tecnica nella qua-le eccellevano allora, più che gli Italiani, i minatori belgi di Liegie di Namur46.

In verità da tempo immemorabile l’uso del fuoco era uno de-gli elementi immancabili nell’investimento di ogni piazzaforte: l’a-razzo di Bayeux raffigura due guerrieri che, brandendo lance por-tafuoco, si sforzano di incendiare la palizzata del castello di Di-nant; nel febbraio del 1115 il fuoco ebbe una parte importantenell’espugnazione di Maiorca da parte dei Pisani: «Appiccano iLatini alle moresche macchine le fiamme / nelle notturne tenebree con l’arte dagli avveduti Greci or non è molto / ritrovata, mira-bile, che all’uomo, / come se in nessun luogo sia, si cela, uno deicastelli bruciano alla svelta. / Carboni ardenti e volanti faville /qua e là si spargono, e sospinte / le scintille s’avventano attraver-so / il tavolato d’un altro castello, / che arde ben tosto dalle fiam-me avvolto».

Nei numerosi assalti a fortificazioni cui fu costretto, in queglistessi anni, Luigi VI di Francia, il fuoco non manca mai: nel 1101il castello di Monchy viene bruciato sino al recinto della torremaestra; Luzarches è attaccato l’anno dopo «ora con le armi oracon il fuoco», e Meung «fu oppresso in modo intollerabile con illancio di armi e di fiamme», sinché cedette. I Genovesi nel 1125attaccano il castello e il borgo di Piombino «appiccando il fuocoe combattendo»; nel 1239 Federico II si impadronisce del castel-lo bolognese di Piumazzo «premesso il fuoco al primo assalto con

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fiamma e incendio» e lo stesso avviene a Crevalcore: «Il nostro vit-torioso esercito, venuto allo scontro – scrive l’imperatore stesso –lo prese in un attimo e in un batter d’occhio con le fiamme e conla spada», e le sue macchine nel 1243 a Viterbo «lanciano spessoil fuoco»47.

Mancano, in tutti questi casi, particolari più precisi sull’usoche gli attaccanti facevano del fuoco; naturalmente, essendo leporte i punti più vulnerabili di ogni fortificazione, esse dovevanoessere l’obiettivo preferito anche mediante il semplice accosta-mento di materiali infiammabili: nel 1111 Luigi VI fece avvicina-re alla porta del castello di Puiset carri carichi di legna secca trat-tata con grassi per offrire maggiore alimento alle fiamme; i Pave-si nel 1202 attaccarono Robbio «ponendo con la forza il fuoco da-vanti alla porta di quel castello per bruciarlo insieme con quelliche vi erano dentro». A Padova nel 1256 l’esercito antiezzelinia-no tentò di forzare la porta Altinate mediante un «gatto»; i difen-sori lanciarono su di esso materiale incendiario che si propagò al-la porta; subito dall’esterno – scrive Rolandino – aggiunsero «le-gno al legno, fiamma alle fiamme, strame a strame» così che laporta bruciò provocando la caduta della città. Nel 1329 il princi-pe d’Acaia retribuì con 50 lire i «barattieri» che trasportarono lalegna per appiccare il fuoco alla porta del castello di Morozzo.

Tolosa, priva di mura, nel 1218 venne attaccata con il fuoco al-meno due volte: dapprima avanzarono «genti di razza straniera»portando a tradimento «fuoco, paglia, torce e tizzoni», ma esse fu-rono colpite prima che riuscissero a incendiare la palizzata; un’al-tra volta carrette cariche di sarmenti e di legna ardente furonocondotte di corsa sino al fossato, subito «la paglia fiammeggia,l’incendio si estende», ma i cittadini accorrono con acqua e conpietre, e coloro che avevano condotto le carrette sono costretti auna fuga precipitosa48. Talora il fuoco veniva semplicemente ac-ceso contro le mura delle fortezze attaccate: ecco ancora i Pisania Maiorca nel 1115: «Le schiere si fan sotto e il fuoco è posto aipiedi della torre». Pochi anni dopo i Comaschi contro l’Isola Co-macina «accatastata molta segata legna, ad essa dan fuoco. Tre-pidano gli assediati che sortire non possono dal castello circon-dato». Il castello di Salussola, presso Vercelli, viene messo in gra-ve pericolo dalla semplice accensione dei rovi secchi cresciutigliintorno.

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All’alba del 23 dicembre 1242 i Bresciani attaccano Palazzolosull’Oglio dopo aver «messo il fuoco in più luoghi» e, in un se-condo tempo, gettando il fuoco nelle case e nel «legname fattoportare presso le torri». Federico II lancia carrelli incendiari untidi grasso nel fossato di Viterbo insieme con fascine di sarmenti perappiccare il fuoco allo steccato, ma senza riuscirci. A Tezzoli,presso Mantova, nel 1267 gli attaccanti appiccano addirittura ilfuoco a una torre mobile e la spingono contro il castello il quale,«incendiato tutto intorno», viene facilmente conquistato. Maria-no Taccola nel 1449 propone un suo metodo di attacco che si col-lega all’antichissimo uso degli animali portatori di fuoco: se al-l’interno di un castello vi sono case coperte di legno o di altro ma-teriale infiammabile, si prenda un gatto o un topo e lo si imbevadi acquavite attaccando poi alla sua coda un canapo acceso trat-tato con zolfo; introdotto attraverso una fessura del muro o unafognatura, l’animale correrà qua e là causando inevitabilmente unincendio e agevolerà così la conquista del luogo poiché – aggiun-ge più avanti – gli assediati non potranno spegnere il fuoco e nelcontempo difendere le mura49.

Le fiamme, una volta accese, divengono facilmente pericoloseanche per coloro che le hanno provocate talché le lesioni causatedal «fuoco amico» non sono affatto rare. Nel 1169 i Genovesi, perimpadronirsi del castello pisano di Capalbio, incendiano tutto ciòche lo circonda, ma la fiamma «retro comburente» li costrinse a ri-nunciare all’azione. Qualcosa di analogo successe nel 1234 ai Pia-centini che assediavano il castello di Pigazzano: attraverso un foropraticato nel muro misero fuoco a un deposito di fieno e di legna ilquale produsse una temperatura tale che non solo impedì loro l’in-gresso, ma li indusse a ritirarsi. Nel 1263 i Pisani scavano galleriesotto le mura di Castiglioncello, i Lucchesi rispondono lanciandoil fuoco «liquido» attraverso un cunicolo di contromina, se non chele fiamme, attraverso i camini di tiraggio, si propagano alla roccasuperiore costringendo il presidio ad abbandonare la difesa. Nel1314 – narra Albertino Mussato – Cangrande della Scala incendiòAbano Terme per terrorizzarne i difensori, le fiamme però, libran-dosi inaspettatamente in senso contrario, uccisero molti suoi uo-mini e cavalli. Siamo qui ai margini di quegli effetti causati dal mu-tare improvviso del vento, o da altri imprevedibili elementi, chevengono volentieri interpretati come fatti miracolosi.

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Il fuoco fatto appiccare nel 1033 a un castello dal conte Gof-fredo costringe il presidio a rifugiarsi nel dongione e già pensa divenire a patti per avere salva la vita quando, miracolosamente, lefiamme si arrestano proprio davanti a una chiesa di legno. Per in-tervento del beato Pietro Levita di Salussola i rovi incendiati, co-me si è visto, attorno a quel castello, spinti dal vento, finisconoparte contro i beni di coloro che avevano suscitato il fuoco e par-te in luoghi disabitati e lontani mentre tre colombe – al dire di al-cuni testi – sorvolavano per tre volte il cielo. A Viterbo nel 1243un diabolico vento spirante da occidente favorì inizialmente gliespedienti incendiari messi in atto contro la città da Federico II,ma si rivolse poi – per virtù della beata Vergine – contro le sue tor-ri d’assalto, dodici delle quali furono ridotte in cenere.

Terribili erano gli effetti del fuoco nelle lotte cittadine duran-te le quali le tecniche della guerra d’assedio venivano applicate aun ambiente per sua natura di grande vulnerabilità. A Firenze nel1295 – scrive Dino Compagni – «il popolo trasse al palagio del po-destà con la stipa per ardere la porta» e facilmente ci riuscì conconseguente saccheggio e devastazione. Altrettanto facile e ricor-rente era l’incendio delle abitazioni appartenenti alla fazione av-versa: nel 1301, al rientro in città di Corso Donati, vengono presedi mira le case dei popolari, «e quelli difendendosi miservi fuocoe arseno le case d’intorno ch’erano loro». Più tardi lo stesso Cor-so Donati «con balestra e con fuoco combatté il palagio dei Si-gnori» e, nel corso dei disordini, i suoi seguaci «misero fuoco nela torre dei Rondinelli». Il culmine fu toccato il 10 giugno 1304 al-lorché Neri degli Abati, «uomo reo e dissoluto», non esitò a in-cendiare la casa dei suoi stessi consorti in Orsanmichele mentrealtri lanciarono il fuoco in Calimala e lo appiccarono alle case deiCavalcanti così che – conclude Giovanni Villani – «arse tutto ilmidollo, e tuorlo, e cari luoghi della città di Firenze»50.

Nonostante i suoi terribili effetti non risulta che l’impiego delfuoco in guerra fosse sentito come un atto poco cavalleresco ocontrario al codice morale corrente: non solo manca ogni con-danna esplicita di un suo uso indiscriminato, ma vediamo taloraconsiderate come imprese del tutto meritorie e onorevoli le azio-ni con esso condotte: nel 1244 Andriolo de Mari sottopose il ter-ritorio savonese a «fuoco e rovina» sino ai fossati della città e sene tornò a Genova «con onore», e Rolandino da Padova, sempre

II. Il riflesso ossidionale 145

attento a mettere in rilievo le virtù militari dei suoi concittadini eil loro spirito cavalleresco, considera che essi abbiano agito virili-ter incendiando uno dei sobborghi di Bassano e distruggendo me-diante il fuoco Villanova Veronese. Né le fonti, in genere, riten-gono degne di particolare attenzione le vittime di un impiego mi-litare del fuoco51.

7. La scalata, la forza, il tradimento

Tra i modi di impadronirsi di una fortezza «per battaglia», ilpiù «comune e pubblico» – dice Egidio Colonna – consiste nel-l’avvicinare scale alle mura e condurre un attacco appoggiati daltiro dei propri arcieri, balestrieri e frombolieri: un modo sempli-ce e diretto, è vero, ma pericoloso e difficile se non attuato di sor-presa. Secondo il cronista Malaterra gli uomini di Roberto il Gui-scardo penetrarono nel 1071 in Palermo e nel 1084 in Roma col-locando silenziosamente le scale in una parte poco sorvegliata del-le mura per poi aprire le porte dall’interno al resto dell’esercito.È per questo che l’attacco mediante scalata avviene assai spessonelle ore notturne e scegliendo i luoghi più accessibili e meno sor-vegliati. Nel 536 Belisario fece appoggiare alla cinta di Napoli lescale e ordinò la scalata, ma nessuna di esse arrivava fino agli spal-ti: i falegnami le avevano fabbricate al buio e non erano riusciti afarle della misura giusta. Le legarono allora a due a due e, salendo-le così accoppiate, i soldati riuscirono a superare le mura. Nel giu-gno del 1098, nella notte in cui Antiochia venne consegnata ai cro-ciati, sessanta di essi salirono per una scala «già drizzata e forte-mente legata alle mura della città», che però presto si ruppe facen-doli «piombare in grande angoscia e tristezza»: il colpo comun-que riuscì. Scale d’assalto assai sofisticate furono messe a punto,intorno al 1075, dal capopopolo milanese Erlembaldo per espu-gnare le case forti in città: esse erano alte venti cubiti, ferrate allabase, in grado di reggersi da sole52.

L’impiego di scale è documentato come corrente in ogni azio-ne di sorpresa, specialmente notturna, come quella che nel 1230consentì ai Senesi di prendere e distruggere il castello fiorentinodi Stiella: il comune retribuì poi con 10 soldi gli uomini che «re-

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cuperarono le scale usate a Stiella abbandonate da coloro che leavevano portate». In modo simile, nel dicembre del 1242, il po-destà di Brescia conquistò le torri di Palazzolo sull’Oglio: «I no-stri, agguerriti e valorosi, con somma audacia, come era stato di-sposto, valicato a guado il fiume Oglio nel luogo di Mora, appog-giando le scale superarono virilmente il muro» tenendosi quindipronti a un ulteriore balzo prima dell’alba.

I mercenari inglesi operanti in Italia dopo la metà del XIV se-colo avevano messo a punto scale particolarmente adatte alle sor-prese notturne nelle quali erano specialisti: «Scale avevano artifi-ciose – scrive Filippo Villani – che il maggiore pezzo era di tre sca-glioni, e l’uno pezzo prendea l’altro a modo delle trombe e con es-sa sarebbero montati in su ogni alta torre». Una scalata notturnanello stile dei mercenari inglesi viene analiticamente raccontata,nel secolo seguente, dallo Jouvencel di Jean de Beuil. Occorre agi-re in silenzio – egli spiega – per non svegliare le sentinelle nemi-che; sarebbe quindi preferibile avere scale di corda le quali, inol-tre, non si rompono mai, mentre ciò avviene spesso con quelle dilegno quando le si carica un po’ troppo. In ogni caso esse devonoessere smontabili in modo che ciascun uomo partecipante all’a-zione possa portarne agevolmente un troncone sul dorso; una vol-ta individuato il punto più favorevole per la scalata, senza che nes-suno dei componenti la squadra debba muoversi dal suo posto, itronconi vengono fatti passare di mano in mano e si innestano l’u-no sull’altro: i ramponi d’attacco devono essere stretti, i punti digiunzione ben scorrevoli e i pioli debitamente rinnovati in modoche non emettano il minimo rumore. Montata la scala, sale l’uo-mo più vicino che ha il compito di fissare sull’alto del muro, fradue merli, un grosso bastone dal quale far pendere una scala dicorda di riserva. Tutti saliranno in silenzio: in questo modo le sen-tinelle, sorprese, saranno eliminate e la fortificazione cadrà facil-mente nelle mani degli attaccanti53.

L’attacco per scalata non si limita tuttavia a subdole azioni not-turne, ma comprende anche audaci imprese compiute in presen-za del nemico, assai frequenti nel corso della prima crociata. Ec-co come l’anonimo cronista, con vivacità di testimone diretto, de-scrive l’ardore e il vigore dei tentativi messi in atto l’11 dicembre1098 sotto le mura di Marra: «I cavalieri combattevano ogni gior-no il nemico drizzando scale contro le mura della città, ma il va-

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lore dei pagani era tale che i nostri non potevano fare alcun pro-gresso. Ciò nonostante Gulfero di Lastours salì per primo sul mu-ro con una scala che si ruppe sotto il peso dei suoi compagni trop-po numerosi. Egli giunse nondimeno sul muro con alcuni altri;avendo intanto trovato una seconda scala la drizzarono rapida-mente: molti cavalieri e fanti subito vi salirono e scalarono a lorovolta il muro. I Saraceni li attaccarono con tale vigore, sul muro ein terra, lanciando frecce e puntando loro addosso le lance chemolti dei nostri, presi da paura, si gettarono dall’alto»; altri, percontro, resistono valorosamente mentre dal basso le mura vengo-no minate e la città è così costretta alla resa. Nel giugno del 1099,quando i crociati giunsero sotto Gerusalemme – dice lo stesso au-tore – «aggredimmo la città fortissimamente e in modo talmenteammirevole che se le scale fossero state pronte, essa sarebbe ca-duta nelle nostre mani al primo assalto».

Nel marzo del 1115 i Pisani attaccarono Maiorca: Ugo Focac-cia «sale per i gradini di una scala. / I cinque Mori che di soprastanno / le loro forze oppongono e si serrano / con molte gridasull’ardito giovane. / Nessuno infine può recare aiuto / a quel-l’ardimentoso, che resiste / con lo scudo e con l’elmo a mille col-pi» riuscendo infine a conquistare la torre. Pochi anni dopo eccoi Comaschi contro la fortezza di Capella: «Alla muraglia appog-giano le scale e, su per esse entrati, uccidon chi fa resistenza. /Scalzan la torre e ne abbattono la cima». La rottura di una scalain piena azione – come si è visto – non era un avvenimento raro:anche nel 1156, all’assedio di Zara, morirono così numerosi «no-bili loricati» veneziani. Non minore audacia mostrarono, circamezzo secolo dopo, i crociati conquistatori di Costantinopoli: nelluglio del 1203 – racconta Villehardouin – «drizzarono le scalecontro un barbacane presso il mare. E il muro era guarnito di In-glesi e di Danesi, e l’assalto fu forte, buono e duro. E di viva for-za due cavalieri e due ‘sergenti’ salirono sulle scale e conquistaro-no il muro contro di loro. Salirono circa una quindicina e si com-batteva a corpo a corpo con le asce e con le spade»54.

Dei trecentosettanta assedi del XIV secolo ricordati nelle Cro-nache di Froissart, nel 30 per cento dei casi si tenta un assalto, nel20 per cento si utilizzano macchine d’assedio e si pratica una sca-lata, tecnica che continua quindi ad essere più che mai attuale epericolosa per gli attaccanti. Il castello di Montegalda il 13 luglio

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1387 fu assalito dai Padovani «pensando – scrive Conforto da Co-stozza – di impadronirsene con la forza e con l’astuzia: vennerocon forte apparato, con fascine nei fossati e scale al muro del ca-stello», ma i difensori, che erano stati preavvisati, «sprezzando ilfurore delle balestre, li fecero retrocedere turpemente con massi-mo danno: si stima infatti che in quell’assalto morissero 50 dei piùaudaci e oltre 200 rimanessero feriti». L’apparato di scale neces-sario per assaltare in grande stile una città di riguardo – secondoJean de Beuil – poteva essere imponente: egli raccomanda infattidi provvedere non meno di 24 scale doppie, grandi e forti, lungheda 36 a 40 piedi e di larghezza tale da permettere a quattro uomi-ni di procedere di fronte; ci volevano poi da 120 a 160 scale di le-gno lunghe 25 piedi e altre più piccole. Si tratta, naturalmente, diprevisioni teoriche che dovevano essere commisurate all’impor-tanza della città da conquistare e al numero degli attaccanti55.

L’assalto mediante scalata in presenza del nemico è da consi-derare un momento di massimo dinamismo, ma in ogni assedioprolungato, a momenti di intensa azione si alternavano inevitabil-mente lunghi periodi di attesa che mettevano alla prova la resi-stenza nervosa di entrambi i contendenti. Durante il semileggen-dario assedio cui Canossa, intorno alla metà del secolo X, sareb-be stata sottoposta da Berengario II, Donizone ci mostra Adal-berto Attone rinchiuso nella rocca che «s’annoia costretto a un’i-nerzia sì lunga», e quindi «se ne stava sull’alto del castello dedi-candosi al gioco». Uno scudiero che nel 1155 a Tortona militavanell’esercito imperiale, «oppresso dalla noia del lungo assedio»,volle dare un esempio di come si sarebbe potuto procedere conmaggiore aggressività: armato della sola spada, di scudo e dellapiccola scure che di norma i suoi colleghi portano legata alla sel-la, scalò il terrapieno della Torre rossa scavandovi gradini con lascure; non si lasciò spaventare dal tiro incrociato dell’una e del-l’altra parte che faceva piovere una grandine di sassi e di frecce,giunse sino alla torre ormai semidiroccata, abbatté un avversa-rio e poi, evitando nuovamente tutti i pericoli, ritornò illeso negliaccampamenti. Federico I volle premiarlo con la cintura di ca-valiere ma egli rifiutò: era nato plebeo – disse – e tale preferivarimanere.

Per sollecitare l’iniziativa e l’ardire degli assedianti si usava of-frire premi a colui che per primo sarebbe entrato nella fortezza

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nemica. Ancora sotto le mura di Tortona, il mattino del 26 mag-gio 1155 i Pavesi promettono pubblicamente di dare «moltissimodenaro» al primo che fosse entrato in città, ma – osserva il croni-sta milanese – non poterono ottenere quanto desideravano. An-che il podestà di Bologna nel 1228 promise al primo che sarebbeentrato nel castello modenese di Bazzano, o ai suoi figli, un pre-mio di 100 lire e l’immunità da ogni onere comunale, senza tro-vare nessuno disposto a obbedire ai suoi mandati. Lo trovaronoinvece i Senesi i cui registri delle spese del 1229 segnano in uscita50 lire date a Ranieri Pulce che entrò per primo nel castello di Tor-nano. Gli statuti di Lucca del Trecento prevedevano addiritturain modo permanente, per il primo uomo che entrasse in un ca-stello conquistato, un premio di 10 lire o una coppa d’argento dipari valore.

Al tempo delle compagnie di ventura il premio che si attribui-va per lo stesso motivo aumentò sino a 25 fiorini, e Diomede Ca-rafa nel 1478 consiglia di attribuire premi non solo «allo primofosse stato in montare», ma anche al secondo e al terzo; invero piùche a denaro egli pensa a parole di encomio con lo scopo di mo-strare che il valore consegue «utele et honore, che sono le cose chead quisto mundo se desidrano et per che se travalglya». Si tratta-va di modi per stimolare e per favorire, quindi, la presa delle for-tezze mediante l’assalto diretto, evenienza che evidentemente nonfu mai troppo frequente56.

Nelle lotte comunali italiane i cronisti lasciano nondimeno in-tendere che le conquiste di forza talora avvenivano: i Milanesi nelmaggio del 1156, servendosi delle petriere costruite da mastroGuintelmo, presero «con sommo sforzo» il castello di Stabbio elo distrussero «sebbene fosse munitissimo e non si potesse espu-gnare quasi da nessuna parte»; ebbe importanza, in quel caso, l’e-mulazione nei riguardi dei commilitoni degli altri tre quartieri chepoco prima «avevano preso il castello e le torri di Chiasso con as-salto violento e quasi disperato». Nella successiva campagna chei Milanesi condussero nel Novarese il castello di Cerano, dopo so-li tre giorni di assedio, fu preso «con tale violenza che molti pre-ferirono la morte alla salvezza»; tentando poi di assalire il castel-lo di Morghengo, un certo numero di uomini annegò nel fossato,ma «lo conquistarono poi a forza». Giovanni Codagnello negli an-ni fra 1200 e 1220 segnala a sua volta almeno sette casi di castelli

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presi, come egli dice, vi o per vim senza però mai fornire partico-lari. Poco di più si apprende da Pietro Cantinelli: Maghinardo diSusinana il 18 giugno 1296 cavalca con i Faentini contro il castel-lo di Settefonti e, trascorso un paio di giorni, «dopo pranzo, perforza e con grandissima battaglia il castello fu preso e tutti coloroche vi erano dentro catturati o uccisi»: i morti, si precisa, furono11 e i prigionieri 34, ma non è detto nemmeno qui con quali mo-dalità la conquista sia avvenuta.

In realtà la presa di una città o di un castello «con la forza» as-sumeva un rilievo innanzitutto giuridico per il diverso trattamen-to cui andavano incontro i presidi che non scendevano a patti coni vincitori; lo riassume brevemente – nel racconto di Salimbene daParma – l’ultimatum lanciato da Guido di Albareto nel maggio del1283 agli uomini di Cavillianum rinchiusi nella pieve fortificata diSan Polo: «Ciascuno pensi alla sua anima, consegnatevi a noi e po-trete andarvene incolumi, se invece non accetterete e sarete presicon la forza sarete tutti impiccati senza misericordia». E non era-no minacce vane: se a Cavillianum le cose andarono altrimenti,sappiamo che, per esempio a Montepallero, a sud-ovest di Parma,nel 1267, quando il castello fu preso «per vim» dai Parmigiani,tutti quelli che vi furono trovati «vennero appesi agli alberi per lagola, eccetto tre nobili ai quali fu tagliata la testa». Nello stesso an-no il castello di Parola, presso Fidenza, fu conquistato «per vim»da Uberto Pelavicino «e tutti coloro che vi erano, in numero di36, furono appesi per la gola e tre, con il capitano, decapitati».

Tale costume era antico e universalmente diffuso; ecco comenel 536 Belisario cerca di indurre i Napoletani ad arrendersi perevitare di essere presi con la forza: «Ho visto più volte la presa diuna città e conosco per esperienza quel che succede in simili casi.Gli uomini fatti li si ammazza tutti, le donne che chiedono di mo-rire ci si guarda dall’ucciderle: violentate, sono costrette a subireun trattamento inumano e miserevole; i fanciulli, privi ormai dichi li nutra e li educhi, finiscono fatalmente schiavi e proprio deipiù aborriti nemici, sulle cui mani hanno scorto il sangue dei pa-dri. E lasciamo stare il fuoco che distrugge, oltre a tutte le sostan-ze, la bellezza della città»57.

La presa «per forza», per quanto non corrisponda a una tec-nica specifica chiara e facile da definire, ha comunque i connota-ti di una irruzione violenta. Nel 1208 i Fiorentini, all’assalto del

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castello senese di Rigomagno, si videro le scale spezzate da unapioggia di sassi; il primo degli attaccanti fece allora sgabello al se-guente e così via via, reggendosi vicendevolmente, raggiunsero lasommità delle mura nonostante che i difensori li respingesserocon le spade, con le scuri e con il getto di fuoco misto a zolfo; que-st’ultimo fu spento dalla pioggia e dalla grandine che però ferì chiera privo di armatura. Il castello infine cedette e più di duecentonemici caddero prigionieri. Secondo il racconto di Guglielmo diTudela, singolare fu il modo in cui nel luglio del 1209 fu presa Bé-ziers da parte non propriamente dei crociati antialbigesi, ma dei«ribaldi», cioè dai vagabondi che li seguivano. Essi, a piedi nudie armati soltanto di mazze, calano nel fossato della città, scalzanole mura con picconi e spaccano le porte; gli assediati, presi da im-provvisa paura, abbandonano gli spalti e si rifugiano nelle chiese.Viste le porte aperte, a quel punto anche i crociati si armano e siaffrettano a entrare facendo ressa. I ribaldi, riscaldati dall’azione,non avevano paura di morire e nemmeno di uccidere: massacra-no tutti coloro che incontrano, penetrano nelle case e si impa-droniscono degli oggetti di valore. Nulla si dice del comporta-mento dei crociati, ma sappiamo che tutta la popolazione vennesterminata.

Giovanni Villani racconta a sua volta il modo in cui l’esercitodi Carlo d’Angiò nel 1265 riuscì, del tutto inopinatamente, ad ave-re ragione dell’importante castello di San Germano. In esso reManfredi aveva posto «gran parte di sua baronia, Tedeschi e Pu-gliesi, e tutti i Saracini di Nocera coll’arcora e balestra e con mol-to saettamento, confidandosi più in quello riparo che inn-altro,per lo forte luogo e per lo sito, che dall’una parte ha grandi mon-tagne e dall’altra paduli e marosi, ed era fornito di vittuaglia e ditutte cose bisognevoli per più di due anni». Gli uomini del presi-dio, sentendosi perfettamente sicuri, si divertivano a schernire e aprovocare i nemici, fu così che i Francesi «con grande furore as-salirono la terra, e dando battaglia da più parti»; un gruppo di au-daci, in particolare, inseguendo alcuni che erano usciti per scara-mucciare, riuscirono a penetrare nella fortezza da «una postierlach’era aperta per ricoglierli»; essa fu presa «per forza d’arme, eentrarono dentro, e incontanente la loro insegna misono in su lemura». Per questo «quegli di fuori presono cuore e ardire, e chimeglio si poteva si mettea dentro alla terra. Quegli d’entro, vedute

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le ’nsegne de’ nemici in su le mura, e presa la porta, molti ne fuggi-rono, e pochi ne stettero alla difensione; per la qual cosa, la gentedel re Carlo combattendo ebbono la terra di San Germano a dì Xdi febbraio MCCLXV e fu tenuta grandissima meraviglia, per lafortezza della terra, e piuttosto fattura di Dio che forza umana,perché dentro v’avea più di M cavalieri e più di VM pedoni intra’quali aveva molti arcieri saracini di Nocera».

Il concorso, in gran parte accidentale, di circostanze sfavore-voli provoca così la caduta «per forza» di un castello ritenuto frai più sicuri. In altri casi l’attaccante viene spinto a superare la suainferiorità cercando complicità all’interno della fortezza nemicain modo da penetrarvi con l’inganno e il tradimento. Nel 544, du-rante la guerra greco-gotica, le porte di Tivoli erano guardate dicomune accordo dagli abitanti e dagli Isaurici che militavano nel-l’esercito bizantino; essi vennero a diverbio tra loro e gli Isauriciper dispetto introdussero in città i Goti di Totila che uccisero tut-ti gli abitanti compreso il vescovo. Altri Isaurici, per denaro, con-segnarono Roma nelle mani di Totila una prima volta nel 546 euna seconda nel 549. Durazzo, inutilmente assediata nel 1081 daRoberto il Guiscardo, gli viene aperta per tradimento da un abi-tante veneziano. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 1098 Antio-chia, da tempo assediata dai crociati, fu posta nelle mani di Boe-mondo dall’emiro turco Firuz diventato suo amico58. Nel 1241 ilcastello di Segno, presso Savona, anch’esso a lungo e inutilmenteassediato, viene preso per tradimento dal marchese Giacomo delCarretto; l’anno dopo la fortezza veronese di Arcole finì allo stes-so modo nelle mani di Ezzelino da Romano. Nel 1260, per con-tro, il castello e la fortissima torre di San Zenone, in cui si era rin-chiuso Alberico da Romano, dopo quattro mesi di resistenza, fu-rono consegnati al nemico dai difensori stessi desiderosi di ingra-ziarsi coloro che apparivano ormai i sicuri vincitori.

I traditori, se presi, vengono colpiti da punizioni di esemplareferocia allo scopo di scoraggiarne l’esempio: nel luglio del 1287 al-cuni congiurati – racconta Salimbene – dovevano aprire dall’in-terno le porte del castello di Reggiolo ai fuorusciti di Reggio; die-ci vennero scoperti e riuscirono a fuggire, ma uno di essi fu pre-so, torturato, appeso per le braccia al palazzo del comune, poi de-capitato, trascinato per la pubblica via in segno di derisione e in-fine bruciato; tutti i suoi congiunti furono banditi in perpetuo. Il

II. Il riflesso ossidionale 153

diacono di Sant’Antonino delle Castella confessò «spontanea-mente e prontamente, senza tortura» la sua intenzione di conse-gnare Bianello ai fuorusciti: «Subito gli segarono le canne dellagola e lo portarono in giro per il borgo morto e nudo, poi lo but-tarono giù dal castello come un vile cadavere. E così fu sepoltocon la sola camicia nella chiesa di Sant’Antonino». A sua sorellaBerta, ritenuta complice, «tagliarono la lingua e la espulsero daQuattro Castella»59.

8. Risorse della difesa

8.1. Le deficienze dell’attacco. La difesa – puntualizza EgidioColonna – deve innanzitutto poter contare sulla consistenza del-la fortezza basata sia sulla natura del luogo sia sulla struttura e sul-la disposizione di mura, torri e fossati; ovviamente, poi, per evita-re la fame, occorre provvedere sufficienti scorte di acqua e di vi-veri e allontanare per tempo i deboli e gli inutili. Non meno im-portante, s’intende, è la disponibilità di armi, munizioni e mate-riali di ricambio. La seconda risorsa di chi si difende va cercatanella sostanziale debolezza dell’offesa, che assai spesso induce anon tentare neppure un assedio, operazione di per sé lunga e co-stosa che richiede non solo mezzi e spiccate capacità tecnico-or-ganizzative, ma anche la disponibilità di un esercito numeroso perbloccare a lungo e il più ermeticamente possibile la fortificazionenemica. E ciò era tanto più vero se si trattava di un centro abita-to o di una città di rilevanti dimensioni. Ancora nel 1479 Diome-de Carafa consigliava somma prudenza prima di decidere un as-sedio: se la fortezza non è facilmente espugnabile e «se vedessechyaramente si li perderia lo tempo et le fatiche ultra lo dampno»,è meglio rinunciare in partenza, anche per non rimetterci in re-putazione.

I Milanesi, che pure erano in grado di mobilitare da soli eser-citi cospicui, quando nel 1126 vollero bloccare Como dovetteroricorrere all’aiuto di numerose altre città dell’Italia settentrionale:«Invitan molti, / e da ogni parte ad assalir le mura / di Como con-ducon gente», e solo allora, «insiem raccolte / tutte quante e do-vunque queste genti», occupando la campagna «duramente ser-

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rano / con stretto giro la città». Pochi anni dopo in Francia, solomettendo insieme le forze di tre diversi eserciti il castello di Co-sne poté essere «circondato da tutte le parti dai nemici in modoche nessuno poteva né entrare né uscire». Il ricorso a espressionicome «undique obsidere» o «expugnare», «ex omni parte hosti-liter circuire», significa che si trattava di casi inconsueti e per ciòstesso degni di essere segnalati. Il successo degli assedi posti daFederico I a Tortona, Crema e Milano ebbe come primo fattore ladisponibilità di effettivi numerosi. Si poteva, è vero, ovviare allascarsità delle forze mediante onerosi lavori di controvallazioneche richiedevano, però, non comuni capacità organizzative egrande disponibilità di tempo.

Secondo Liutprando di Cremona così già avrebbero agito nel924 gli Ungari che, operando per conto di Berengario I, «circon-darono con una fossa le mura della città di Pavia e, piantate le ten-de lungo il giro, impedivano ai cittadini ogni via d’uscita». Così,secondo Amato di Montecassino, pare si regolassero, nella primametà dell’XI secolo, i Normanni nell’Italia meridionale: «Circon-dano la fortezza nemica piantando i loro accampamenti presso lemura e apparecchiano quindi ‘castelli’ con fossati e palizzate», os-sia – sembra – una vera e propria controvallazione rafforzata datorri di legno fisse. Non diversamente nel 1103 Luigi VI di Fran-cia circonda il castello di Montaigu «di pali e di vimini» con val-lo guarnito da torri di legno60.

Tale rimane il modo abituale di bloccare una località fortifica-ta anche nei secoli successivi, come avvenne a Poggibonsi nel 1267:i Ghibellini vi furono assediati dai Guelfi di Toscana che «istec-carlo intorno intorno, e con torri e difici di legname – dice Gio-vanni Villani – acciò che la gente che v’erano rinchiusi dentro nonne potessero uscire né avere soccorso, e gittandovi dentro con mol-ti difici», cioè macchine da lancio. Era però di fatto praticamenteimpossibile bloccare le città più grandi: il pur numeroso esercitoostrogoto che assediò Roma nel 536, non essendo in grado di cir-condare una cerchia muraria che contava 14 porte, si accontentòdi controllarne circa la metà, pur potendo circolare a proprio ta-lento lungo l’intero perimetro esterno. I crociati sbarcati nel 1203a Costantinopoli si trovarono in una situazione «davvero terribilea vedersi perché – scrive Villehardouin – l’intero esercito arrivava

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ad assediare soltanto una delle porte della città che era di fronte aloro, a tre leghe di distanza dalla terraferma»61.

Talora è sufficiente incontrare una resistenza di poco superio-re alle previsioni per convincere l’assediante ad abbandonare l’im-presa. Ai Normanni, nel 1061 a Centuripe, presso Catania, e adAiello Calabro nel 1065, bastò la forte resistenza opposta sullemura dai tiratori per convincerli alla rinuncia. I Milanesi all’albadel 18 luglio 1160 mossero in forze contro Lodi decisi a espu-gnarla: avevano disposto di assediare la città per almeno otto gior-ni – osserva Ottone Morena – ma non rimasero nemmeno un gior-no e mezzo per paura dei Cremonesi e dell’imperatore. Si è già vi-sto che in modo simile fallì nel 1173 l’assedio posto dagli impe-riali ad Ancona.

Se l’impresa accenna a prolungarsi oltre il previsto è subito inagguato fra gli assedianti il pericolo della «noia». Nel 1059 Rug-gero d’Altavilla, quando vide che Squillace non poteva essere pre-sa rapidamente e che i suoi «erano afflitti dalla noia di quella fati-ca», fece bloccare la porta con un castello che tenesse sotto pres-sione la città e sciolse l’esercito. Anche durante l’assedio di Mon-treuil-Bellay, di fronte alle grandi difficoltà opposte dal sito, iltempo passava inutilmente e Goffredo d’Angiò, vedendo le suegenti «oppresse dalla noia», fu sollecitato a ricorrere all’astuzia eai ritrovati tecnici che gli daranno poi la vittoria. La rocca di Bi-smantova, in cui nel 1287 si erano rinchiusi i fuorusciti di ReggioEmilia, venne assediata per molti giorni dagli uomini di Dallo, maben presto anch’essi «presi dalla noia» – racconta Salimbene – di-scesero di lassù e si allontanarono.

D’altra parte la necessità di vettovagliare un grande esercitoimponeva agli assedianti le stesse preoccupazioni che si volevanoprovocare negli assediati. I cittadini di Béziers quando, nel lugliodel 1209, si videro circondati dai crociati antialbigesi «non crede-vano in nessun modo che l’esercito potesse mantenersi e che en-tro 15 giorni si sarebbe disperso poiché teneva lo spazio di una le-ga e le strade potevano appena contenerlo». Era la speranza di tut-ti i cittadini, che si sentivano invece sicuri e ben provvisti dietro leproprie solide mura. Nel 955 re Lotario chiude il conte di Poitiersnel castello di Santa Radegonda, ma dopo due mesi l’esercito «de-bilitato dalla mancanza di vettovaglie» deve rinunciare all’impre-sa. I Saraceni assediati in Maiorca dai Pisani nell’autunno del 1114

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furono presto in difficoltà: «Fame e gravi affanni / assai scemanoil popolo barbarico. / Oltre le carni, alle svernanti truppe tutto fuscarso: nulla più del vino. L’isola è saccheggiata. Offre il re i pat-ti». Ma anche gli assedianti non stanno meglio: «Non v’è dubbioche a noi le vettovaglie / mancano ed ai cavalli, né dobbiamo / piùtrattenerci in ansia così lunga», dicono i maggiorenti riuniti a par-lamento, ma si decide, nonostante tutto, di tener duro sino alla vit-toria. A Tolosa nel 1211, invece, dopo mesi di inutili tentativi, icrociati «si misero a smontare padiglioni e tende» e tolsero l’asse-dio «perché i viveri costavano troppo e non potevano procurar-sene a sufficienza: un pane per un breve pasto valeva ben due sol-di, e non avrebbero avuto di che nutrirsi senza le fave e senza ifrutti degli alberi, quando ne potevano trovare»62.

Peggio era, naturalmente, se l’assedio doveva svolgersi nei me-si invernali, come accadde nel 1174 all’esercito di Federico I de-ciso a prendere Alessandria ad ogni costo. Dopo tre mesi già «in-combeva l’asprezza dell’inverno e l’esercito pativa la mancanza ditutte le cose necessarie» sia agli uomini sia ai cavalli. I Boemi chefacevano parte della spedizione, in specie, cercavano di mante-nersi facendo scorrerie nei dintorni, ma alla sera ritornavanoavendo trovato soltanto paglia e talvolta nulla affatto. Terminatele provviste che avevano portato con sé chiedevano perciò al du-ca Ulderico di avere lo stipendio promesso dall’imperatore o ilpermesso di rimpatriare; non ottenendo né l’uno né l’altro, il gior-no prima di Natale decisero per la fuga finendo in gran parte nel-le mani dei Milanesi. Anche se non tutto l’esercito si sbandò l’as-sedio si risolse comunque in un grave fallimento.

Nel 1207 i Faentini assediavano Bagnacavallo ma, «vedendoche non era possibile prendere il castello in breve tempo e che,per la grandissima penuria di vettovaglie, non avrebbero potutorimanere, decisero di ritornare a casa». Anche i Fiorentini che nel1233 bloccavano Siena dovettero rinunciare a proseguire le ope-razioni per mancanza di un adeguato approvvigionamento. Il pro-blema non era certo venuto meno negli ultimi decenni del Quat-trocento quando Diomede Carafa faceva notare che con i lunghiassedi «se distrugino li exerciti, ché ei ragionevole stanno bentempo in un loco, mancano le strame et onne cosa necessaria: per-dite di cavalli, perdite di homini, carastie di victuaglie, et mille al-tri mali». Talora sono le intemperie a dare il colpo di grazia alle

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speranze degli attaccanti quando le operazioni si prolungano oltrela stagione appropriata: inondazioni – dice Tolomeo di Lucca –posero fine agli assedi di Fucecchio verso la fine del 1261 e diNozzano nel 126363.

Nemmeno il ricorso a macchine sofisticate e di avanguardia ga-rantisce il successo: basti ricordare che i due assedi di Durazzo daparte dei Normanni, nonostante la profusione di mezzi, non riu-scirono a piegare una guarnigione intenzionata a resistere. Il falli-mento dell’impresa è anzi spesso sanzionato proprio dal rogo del-le macchine d’assedio che l’aggressore mette in atto prima di riti-rarsi. Argiro lasciando Trani nel 1042 fece incendiare la torre mo-bile da lui costruita con grande maestria, forse perché non servis-se da modello ai suoi avversari. I Milanesi, abbandonando nel1161 l’assedio di Castiglione, bruciarono mangani, petriere e gat-ti; Federico I ad Alessandria, nel 1175, ordinò di incendiare in-sieme con gli accampamenti anche le torri di legno; non diversa-mente Federico II nel 1238, togliendo l’assedio a Brescia, «fecebruciare gli edifici e i castelli di legno», e il podestà di Genova nel1243, rinunciando a continuare gli attacchi contro Savona, ordinòdel pari di porre il fuoco ai trabucchi e agli altri edifici. La stessascena si può talora riproporre anche in caso di vittoria: a Cremanel 1160 «i Cremonesi e i Tedeschi posero il fuoco e bruciaronola torre mobile dell’imperatore e tutti i loro mangani, petriere egatti e macchine: esse, benché fossero state fabbricate in lungotempo e con la spesa di oltre duemila marchi d’argento, in po-chissimo tempo furono ridotte in cenere», nota con un certo rin-crescimento Ottone Morena64.

8.2. Le contromisure. Ad ognuna delle tecniche adottate dal-l’attaccante deve corrispondere l’adatta risposta da parte del di-fensore. Si previene la possibilità di scavare gallerie di mina me-diante fossati assai profondi e possibilmente pieni d’acqua; doveciò sia impossibile occorre vigilare se si vedono in atto trasporti diterra da parte del nemico o qualunque altro indizio che riveli lasua intenzione di scavare gallerie, individuarne il sito e quindi ri-spondere con un cunicolo di contromina. Così già fecero nel 1108i difensori di Durazzo di fronte all’iniziativa di Boemondo d’Al-tavilla: «Scavano dalla loro parte una larga trincea e vi si apposta-no per individuare il punto in cui gli assedianti opereranno la lo-

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ro penetrazione», e non appena i nemici sono scoperti, «brucianoloro la barba e il viso» con getti di fuoco liquido. Anche i Torto-nesi nel 1155, venuti a conoscenza dell’insidia sotterranea loropreparata da Federico I, seppero validamente reagire con una gal-leria di contromina soffocando gli attaccanti sotto terra. Si è giàvisto quanto accadde nel 1263 a Castiglioncello dove i Lucchesirisposero alle gallerie scavate dai Pisani in modo non diverso daquello già usato secoli prima dai Bizantini a Durazzo, sia pure conesito del tutto sfavorevole65. Invece del fuoco Egidio Romanopropone l’acqua: il cunicolo di contromina scavato dai difensori– egli consiglia – dovrà essere pendente in direzione dell’attac-cante; in esso sarà così possibile versare grandi tini di acqua o an-che di orina, tenuti in serbo per questo scopo. Tale accorgimento,egli dice, è già stato utilizzato in passato con buoni risultati e nonsarà quindi impossibile ripeterlo in futuro. L’acqua interviene pu-re per scoprire se si stia occultamente e silenziosamente lavoran-do nel sottosuolo; occorre per questo sistemare sulle mura una ba-cinella: se la superficie del liquido in essa contenuto si increspa, èsegno che vi è sotto il nemico che scava, si dovrà quindi prepara-re la contromina e, se possibile, deviare nel cunicolo un corsod’acqua.

Contro le macchine da lancio e i mezzi d’assalto messi in cam-po dagli assedianti si reagisce innanzitutto con il tiro delle proprieartiglierie. Le più antiche raffigurazioni di esse a noi note riguar-dano appunto macchine da lancio collocate su torri e mura in po-sizione difensiva: tale è la miniatura del Liber Maccabeorum di Lei-da, allestito attorno al 925, che raffigura una scena di assedio conun mangano in azione collocato in alto fra due torri. La «Bibbiadi Torino», attribuibile all’inizio del secolo XII, mostra un’analo-ga macchina piazzata sulla sommità di una torre. Il Liber in hono-rem Augusti alla fine dello stesso secolo presenta molte città e for-tezze dell’Italia meridionale munite di mangani dai quali pendo-no numerose e lunghe corde di trazione. Trabucchi che si affron-tano scagliandosi reciprocamente proiettili dall’alto e dal bassodelle mura si vedono negli Annali genovesi ad illustrazione del-l’assedio di Albisola del 122066.

Si tratta in questo caso di un duello di artiglierie impegnate inun’azione, assai ricorrente, che oggi diremmo di «controbatteria».Nel 1077, mentre Roberto il Guiscardo assediava il castello di Sa-

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lerno, un proiettile lanciato dai difensori colpì una petraria stac-candone una trave che ferì il duca al petto. A Tortona nel 1155 siassistette a uno scambio di colpi fra due mangani uno dei quali,colpito, dovette interrompere il tiro per essere riparato; tre annidopo a Milano un «onagro» mise fuori uso una petriera impiega-ta dagli imperiali spezzandone di netto l’asta di lancio. Nel corsodella terza crociata una petriera turca danneggiava con «veemen-ti e frequenti colpi» una macchina equivalente di Filippo Augu-sto di Francia che questi faceva tosto rimettere in efficienza. Il ti-ro difensivo delle macchine da lancio si indirizzava naturalmenteanche contro le torri mobili per metterle fuori combattimento pri-ma che raggiungessero le mura. Contro la torre che i crociati im-piegano a Marra nel 1098 «subito i pagani fecero uno strumentoche lanciava grandissime pietre così che uccisero quasi tutti i no-stri cavalieri» pur senza danneggiare, a quanto pare, la torre stes-sa, ciò che avviene invece in altri casi. A Ibiza nel 1114 contro unatorre mobile pisana «si scagliano dal sommo della rocca / nembidi dardi e volano di sopra agli abitanti d’Arno enormi massi»67.

Nel 1148 i Saraceni di Tortosa bersagliano una torre mobilegenovese in avvicinamento riuscendo a rovinarne un angolo, maessa viene presto accomodata e protetta con reti di corda in mo-do tale che poi non dovette più temere offese. L’avvicinamentodella grande torre messa in campo nel 1159 a Crema viene tena-cemente ostacolato dal preciso tiro dei mezzi da lancio dei difen-sori. Federico I tenta di impedirlo facendo appendere sull’enor-me macchina ostaggi milanesi e cremaschi (espediente già speri-mentato durante la prima crociata), ciò nonostante i danni subitisono tali che è necessario riportarla indietro per rivestirla con unadoppia protezione di vimini intrecciati, cuoio e panni di lana; ben-ché i mangani avversari non cessino di bersagliarla, raggiungeràinfine la prossimità delle mura.

Il crudele accorgimento di legare ostaggi alla torre viene imi-tato nel 1238 da Federico II durante l’assedio di Brescia, ma Ca-lamandrino, che dirigeva il tiro dei difensori, «erette le sue mac-chine, lanciava pietre contro le torri e mostrava di essere un otti-mo ingegnere» riuscendo a distruggerle senza colpire i prigionie-ri. La lotta, che doveva essere frequente, tra mezzi d’attacco emacchine da lancio schierate in difensiva, suggerì nel XIII secoloa un trovatore provenzale un «contrasto» fra una gata e un trabu-

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quet nel quale i due mezzi si scambiano battute: «Sono forte – di-ce la prima – e non mi potrai far male, scaverò una breccia nellemura e avrò ospitalità in città». Risponde il trabucco compian-gendola: «Quanto ti avrò ferita con tre colpi non potrai più esse-re guarita»68.

8.3. Fuoco «amico». Rimedio sovrano della difesa contro le mac-chine nemiche è soprattutto il fuoco, lanciato o «portato» nel cor-so di opportune sortite. I Turchi di Marra si oppongono alla tor-re mobile allestita dai crociati nel novembre del 1098 gettando, ol-tre che «grandissime pietre», anche «fuochi greci» pensando diincendiarla e devastarla, «ma Dio onnipotente non volle che quel-la volta essa bruciasse». Non sempre, dunque, il cosiddetto «fuo-co greco» è infallibile. Esso aveva invece eseguito bene il suo com-pito a Durazzo nel 1081 contro l’imponente torre di Roberto ilGuiscardo: furono preparati sugli spalti nafta, pece, spezzoni dilegna secca e macchine da lancio; appena venne l’ordine la partealta della torre era già in fiamme, e mentre gli uomini che la oc-cupavano cercavano affannosamente di mettersi in salvo, essa fuattaccata dal basso con le scuri così che in breve venne completa-mente annientata. Circa vent’anni dopo la stessa sorte tocca allatorre messa in campo da Boemondo: passato il primo smarrimen-to i difensori preparano sulle mura una sopraelevazione di legnoadatta al lancio del fuoco liquido e che permette di dominare dal-l’alto la macchina nemica avanzante; lo spazio intermedio fra es-sa e le mura viene riempito con ogni specie di materiali infiam-mabili, li si cosparge di olio e vi si appicca il fuoco con torce e tiz-zoni. Presto le fiamme si alzano e, quando ad esse vengono ag-giunti getti di fuoco liquido, l’intera temibile costruzione arde of-frendo un tremendo spettacolo per molte miglia intorno; gran par-te degli uomini che si trovano nel suo interno vengono inceneriti,e chi può cerca scampo gettandosi disperatamente dall’alto. Qual-cosa di simile accadde nel 1147 all’assedio di Lisbona quando ilfuoco gettato dai difensori contro una macchina da lancio bruciò,insieme con essa, anche l’ingegnere che ne dirigeva il tiro.

Il tentativo di incendiare le macchine nemiche, a seconda se siao no riuscito, risulta spesso decisivo per l’esito finale di un assedio.Nel 1127 i Comaschi «sortono fuori audacemente portando il fuo-co. / Cercan cupidamente d’incendiare le incombenti torri, senza

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frutto / però pel grandinare troppo fitto / delle pietre scagliate. Levolanti / frecce pur feriscono i cavalieri; / dal di sopra colpisconole torri / e via di là ricacciano i Comaschi»: la città poco dopo verràpresa. Egualmente inutili risultarono nel 1159 i ripetuti sforzi fat-ti dai difensori di Crema contro le macchine di Federico I: prima«con il fuoco acceso» uscirono dalla porta di Umbriano per bru-ciare il mangano dell’imperatore; esso fu però validamente difesoe furono incendiati solo tre o quattro dei graticci che lo protegge-vano. Un altro tentativo egualmente infruttuoso fu fatto contro ilgrande «gatto» da parte di un drappello uscito da un cunicolo;quella stessa pericolosa macchina fu di nuovo attaccata lasciandocadere dall’alto di un apposito ponte barili incendiari, ma coloroche in quel momento erano sotto il «gatto» (fra i quali lo stesso im-peratore) intervennero con acqua e con terra riuscendo a spegne-re l’incendio. Crema sarà condannata infine a cedere.

Un’improvvisa sortita degli assediati di Carcano nel 1160 riu-scì invece a distruggere con il fuoco la torre di legno ivi costruitadai Milanesi, e l’anno dopo a Castiglione un’azione simile giunse«con somma forza» a incendiare il loro «gatto» e a uccidere o cat-turare coloro che vi stavano sotto69. Entrambi quegli assedi falli-rono come fallì nel 1175 l’assedio di Alessandria, ancora priva dimura e difesa soltanto da forti spalti di terra battuta e da un am-pio fossato. Gli strumenti impiegati furono gli stessi che già ave-vano assicurato la vittoria a Crema: un grande «gatto» e una tor-re mobile altissima; anche là si trattò di un assedio invernale, mail tempo piovoso provocò gravi inconvenienti agli assedianti ri-masti privi di un adeguato supporto logistico mentre il fango im-pedì di manovrare secondo le aspettative. Ma soprattutto, al con-trario di quanto era successo a Crema, gli Alessandrini «uscironofuori – scrive Romualdo Salernitano – e messo il fuoco, bruciaro-no il castello di legno pieno di cavalieri corazzati che l’imperato-re intendeva far entrare in città,» e con essi – aggiunge GiovanniCodagnello – bruciarono i balestrieri genovesi che lo guarnivano.Sorte non diversa ebbero nel 1238 e nel 1243 gli assedi posti daFederico II a Brescia e a Viterbo: nel primo caso i difensori di-strussero con il fuoco la macchina (porca) che riempiva il fossato;i Viterbesi «per quelle cave che avevano fatto andavano con li fo-chi sino alli logiamenti e tutti li abbruciavano» insieme con le mac-chine e i «castelli» di legno nemici70.

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In ogni azione di guerra, tanto nell’attacco quanto nella dife-sa, il fuoco veniva «portato» o «lanciato». Già abbiamo assistitoalle sortite dei difensori di Como «audacemente portanti il fuo-co», di Crema «con il fuoco acceso» e di Viterbo che «andavancon li fochi»: si sarà trattato, in tutti questi casi, di «bastoni portafuoco» oppure di semplici torce. Di «torce infocate d’incendioapportatrici» parla più volte l’anonimo comasco; «plurimas fa-ces» fa preparare Federico II contro Viterbo, e contro di lui i citta-dini agiscono «accensis facibus». Sinibaldo di Corso Donati – ri-ferisce Dino Compagni – contribuì all’incendio di Firenze nel1304 con «un gran viluppo di fuoco a modo d’un torchio acceso».Le torce si prestavano anche ad essere lanciate a mano per di-stanze necessariamente limitate: «mittunt taedas», «iaciunt tae-das» dice dei suoi concittadini l’anonimo comasco, e così può es-sere avvenuto in molti casi in cui le fonti parlano di «igne proiec-to», «igne iactato», come avvenne a Padova nel 1256 quando «iac-tatus est ignis in gatto». Vi sono però molti altri modi di lanciareil fuoco: mediante sifoni, secondo una tecnica nota ai Bizantini ea pochi altri, o mediante speciali frecce incendiarie: nel giugnodel 1090 il castello di Brionne, in Normandia, venne incendiatolanciando sui suoi tetti di legno frecce le cui punte metalliche era-no state rese incandescenti sopra la forgia. Frecce incendiarieusano i Comaschi a Drezzo, e ben note esse sono anche ai Mila-nesi che nel 1161 scagliano nella città di Lodi «pilottos et sagit-tas igne accensos». La pratica durò certamente nel corso dei se-coli poiché anche a Firenze all’inizio del Trecento «si saettò ilfuoco in Calimala»71.

Materie incendiarie venivano naturalmente lanciate anche me-diante le grandi macchine da getto: Egidio Colonna descrive anziun’apposita fondina costituita da catenelle di ferro, o meglio «tes-suta con ferro», per poter lanciare blocchi di metallo incande-scenti contro le macchine nemiche. Con simili accorgimenti do-vettero operare nel 1161 le petriere milanesi che lanciarono il fuo-co dentro Lodi; a Siena nel 1230 vennero spesi 16 soldi per una«funda malliarum ferri», e i Viterbesi nel 1243 disponevano dimezzi adatti per lanciare contro gli assedianti «incudini infuocatee acute masse di ferro». Frequente dovette essere anche in terra-ferma l’uso delle olle incendiarie di terracotta specialmente con-sigliate per la guerra navale: «in conseguenza dell’urto – spiega

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Egidio – il vaso si rompe e la miscela infuocata accende la nave».A Siena nell’agosto del 1229 e nel giugno del 1230 vennero ac-quistate ampolle di vetro e olle, verisimilmente di terracotta, poitrasportate nei castelli di Montefollonica e di Quercigrossa, peressere impiegate nel lancio difensivo di miscele incendiarie. InPiemonte circa un secolo dopo il principe d’Acaia si approvvigio-na in diverse occasioni di tupini (orci) «per lanciare il fuoco» tan-to per l’attacco quanto per la difesa: essi furono portati nel 1306all’assedio di Lanzo, nel 1328 a quello di Carrù, e figurano nel1332 fra le dotazioni difensive del castello di Cavallermaggiore72.

8.4. Gli artifici incendiari. Abbiamo sin qui genericamente par-lato di fuoco impiegato in azioni di guerra, ma occorre precisarela molteplicità della sua natura: accanto al fuoco, diciamo così,«semplice» esiste un fuoco «artificiato» e infine la speciale misce-la incendiaria di difficile definizione che si suole indicare con ilnome di «fuoco greco». Le fonti solo raramente consentono distabilire una differenza fra i diversi tipi: dobbiamo pensare a fuo-co «semplice» dove si parla soltanto di legna o di «stipa» incen-diata, ma non si può escludere che anche in quei casi i materialifossero trattati con sostanze adatte ad agevolare o potenziare lacombustione, e si trattasse quindi di fuoco «artificiato». Tali so-stanze vengono incidentalmente menzionate in numerose occa-sioni. Ha fatto scuola, anche qui, il testo di Vegezio il quale, in al-meno tre diverse occasioni, accenna a fuoco composto di bitume,zolfo, resina, pece liquida e stoppa imbevuta di olio «incendia-rio». Vegezio viene, come al solito, quasi letteralmente ricalcatodai volgarizzamenti del Duecento e da Egidio Colonna che indi-ca quella stessa miscela con l’espressione di «ignis fortis». Allorasi andavano, d’altronde, diffondendo in Occidente ricettari comeil Liber ad comburendum hostes nel quale si nomina una gammaassai vasta di ingredienti per comporre fuochi di diversa natura. IlLiber «sembra essere la traduzione latina, fatta nel XII o XIII se-colo, di uno di quei trattati tecnici di ricette trasmessi e rimaneg-giati senza interruzione dall’antichità in poi attraverso l’Orientearabo e l’Occidente latino»73.

È tuttavia difficile trovare una traccia precisa di tali ricette neifuochi «artificiati» che le fonti ci fanno conoscere: i carri incen-diari usati a Puiset nel 1111 erano carichi di legna secca sempli-

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cemente trattata con grassi; i Comaschi nella loro guerra controMilano si servono più volte di «medicato fuoco» nella cui com-posizione entrano resina e pece bollente. Le botti lanciate dai Cre-maschi nel 1159 contengono, insieme con legna secca, zolfo, lar-do, olio, sugna e pece liquida. All’incirca le stesse sono le materiecon le quali a Padova nel 1256 viene alimentato l’incendio dellaporta Altinate: Rolandino enumera infatti «oleum, parve pulve-res, porcine carnes, sulphur, pix et similia incentiva», dove l’uni-ca novità potrebbero essere le misteriose «parve pulveres».

Anche fra i materiali incendiari radunati da Federico II a Vi-terbo nel 1243 vi sono sego, olio, pece comune e pece greca inquantità con carrelli «peruncta pigmentis». Legni ripieni di «bru-schi et catrano» furono preparati dai Genovesi nel 1241 per in-cendiare le navi savonesi. Si tratta quindi, in generale, di materia-li di uso più o meno corrente in grado di agevolare la combustio-ne, fra i quali ricorrono con particolare frequenza la pece e lozolfo. Di fuoco «mixto sulphure» si servono i Senesi contro i Fio-rentini che attaccano il castello di Rigomagno nel 1208, e una mi-scela semiliquida contenente zolfo doveva essere anche il fuoco«lavorato» o «temperato» che si usò nel 1304 per incendiare ilcentro di Firenze dal momento che esso fu portato sul posto inuna pentola e «quando ne cadea in terra lasciava uno colore azur-ro». Pece greca e zolfo sono i materiali di cui si approvvigiona ilprincipe d’Acaia nel 1328 per operare contro Carrù74.

Sottintende invece una maggiore sofisticazione e una ricercapiù approfondita la miscela messa a punto nel 1151 a Montreuil-Bellay, che si pretende suggerita dal testo di Vegezio: in essa en-trano oli di noce, di canapa e di lino cotti ad alta temperatura; glieffetti ottenuti si mostrano immediatamente decisivi per la resadel castello. Di pece, lino, olio e altre materie incendiarie si eranoserviti nel 1147 anche i Saraceni che difendevano Lisbona; com-posto «cum pice et naphta» sarebbe stato il fuoco lanciato nel1263 dai Lucchesi difensori di Castiglioncello, ma l’espressioneusata dal cronista risente di una reminiscenza biblica ed è quindiper lo meno sospetta. Nessuno ci spiega quale fosse la natura del-l’«ignis pennacius» efficacemente impiegato dai Pisani a Maiorcanel 1115, ma nel 1229 per preparare il loro «focus pennacis» i Se-nesi spendono a più riprese somme considerevoli «pro sulpho etpegola et pece et rascia», e poco più tardi per l’«oleum petro-

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leum», cioè nafta. Verisimilmente allo stesso scopo dovevano ser-vire colla, zolfo, rascia, vernice e pece che si trovavano immagaz-zinati nel 1235 nel castello senese di Chianciano, ingredienti, que-sti ultimi, che hanno almeno parziale riscontro con alcune delle ri-cette del Liber ad comburendum hostes75.

In nessuno dei casi sinora ricordati la miscela incendiaria vie-ne indicata con il nome di «fuoco greco», e quando – invero assairaramente – tale espressione ricorre, l’unica caratteristica messa inevidenza è la sua inestinguibilità. Liutprando di Cremona nel Xsecolo menziona in più occasioni il «grecus ignis» usato dai Bi-zantini, il quale «da nulla può essere spento se non dall’aceto». Es-so dovrebbe corrispondere al «fuoco liquido» così efficacementeusato a Durazzo, che Anna Comnena dice composto «da resina dipino mescolato a zolfo», ma certo tace di altre componenti desti-nate a rimanere segrete: il micidiale fuoco, lanciato mediante sifo-ni e tubi di canna, «cade come un fulmine carbonizzando le fac-ce dei nemici» e pochi di essi si salvano «fuggendo come sciami diapi scacciate dal fumo». Secondo il cronista normanno Malaterranel 1081 la flotta veneziana già conosceva e utilizzava l’«ignemquem Graecum appellant» impossibile a spegnersi con l’acqua.Durante la prima crociata i Turchi si servono regolarmente di unfuoco detto «greco» che il cronista Alberto di Aquisgrana ricordain più occasioni come composto di «grasso, olio, pece e zolfo» edel tutto inestinguibile con l’acqua76.

I Pisani ignoravano ancora il fuoco «greco» nel 1098 allorchéi Bizantini lo usarono contro di loro lasciandoli sgomenti; ne ven-nero probabilmente a conoscenza pochi anni dopo nel corso del-le operazioni condotte contro il litorale palestinese poiché nel1114 nell’impresa di Maiorca essi, secondo il Liber Maiolichinus,si servirono della fiamma «con l’arte degli avveduti Greci or nonè molto ritrovata», che corrisponde dunque all’ignis pennacius dicui parlano, nella stessa occasione, i Gesta triumphalia. Le crona-che dei conti di Angiò (scritte tra 1170 e 1180) vogliono che nel1151, sempre durante l’assedio di Montreuil-Bellay, il conte Gof-fredo abbia fatto uso anche di «fuoco greco» il quale «elevandosirapidamente in globi» provocò l’incendio di tutto il castello, epi-sodio nel quale alcuni vedono il primo impiego di questo ritrova-to in Occidente, evidentemente perché ignorano quanto avevanogià fatto i Pisani a Maiorca. Federico II nel 1243 a Viterbo, insie-

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me con molti altri materiali incendiari, ordinò di confezionare«fuoco greco in grande quantità», e se ne servì, ma senza succes-so, per incendiare lo steccato della città; i difensori da parte loro,proprio per «spegnere rapidamente il fuoco greco», avevano pre-parato nei luoghi opportuni ampie riserve di aceto.

L’autore che riferisce questi particolari sapeva distinguere be-ne il fuoco «greco» (qualunque fosse la sua vera natura) dagli al-tri ritrovati incendiari utilizzati contemporaneamente ad esso, matale capacità mancava quarant’anni dopo al volgarizzatore senesedel De regimine principum di Egidio Romano. L’«ignis fortis»,composto «ex oleo, sulphure et pice et resina» rimane se stesso,cioè «fuoco molto forte fatto di olio comune e di pece nera e disolfo e gromma»; ma là dove Egidio aveva parlato semplicemen-te di «sulphur, pix, oleum», il traduttore scrive invece «fuoco gre-chesco»; e i «vasa plena pice, sulphure, rasina, oleo» da impiega-re nella guerra navale divengono senz’altro «vugelli pieni di fuo-co greco», espressione che a quell’epoca, dunque, era ormai av-viata verso la banalizzazione.

Il fuoco «greco» lanciato di notte mediante petriere e balestredai Turchi a Damietta nel 1249 impressiona vivamente i crociatifrancesi: «Esso – dice Joinville – nel venire faceva un rumore chesembrava un fulmine del cielo e un dragone che volava per l’aria,e gettava un chiarore tale che si vedeva attraverso l’esercito comedi giorno». Re Luigi IX ogni volta tendeva le mani al cielo e im-plorava Dio di proteggere le sue genti, ma gli effetti erano più psi-cologici che reali poiché gli «spegnitori», a ciò preparati, riusci-vano abbastanza facilmente nel loro compito77. C’è quindi da do-mandarsi quale tipo di miscela incendiaria potesse produrre simi-li effetti.

Se, come oggi si ritiene, il fuoco greco propriamente detto vadistinto dagli altri preparati per la presenza o per l’assenza del sal-nitro, tale non sarebbe stato neppure il fuoco «pennace» dei Pi-sani e dei Senesi, il quale mancava infatti di questo componente,pur trattandosi di una miscela giudicata inestinguibile al pari delfuoco infernale, destinato, cioè, a dare la «pena eterna», dal qua-le appunto prendeva il nome di penace. In Occidente dovette co-munque essere sempre problematico procurarsi la nafta, che erauno dei componenti indispensabili, e ciò che rendeva assai diffi-cile la preparazione del fuoco «greco» in senso proprio; con tale

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epiteto venivano perciò di solito indicate miscele simili per quan-to in realtà diverse. I Senesi, in compenso, almeno dal 1230 sape-vano probabilmente lanciare il loro fuoco pennace mediante i co-siddetti «stomboli»: si trattava verisimilmente di razzi costituiti datubi di carta arrotolata e ripieni di «materie resinose, oli, bitumi eforse anche polvere pirica» che al momento dell’accensione pro-ducevano uno «stombolo», cioè uno scoppio. La pratica rimasecerto in uso nei tempi successivi poiché esattamente un secolo do-po, fra le spese fatte dal principe d’Acaia per preparare nel 1329l’assalto al castello di Morozzo, ritroviamo menzione di «rochetisfactis occasione traendi ignem de exercitu domini intus Moro-cium». Di razzi lanciafuoco si serviva ancora nel 1408 Giovannisenza paura78 benché ormai da tempo la polvere pirica, derivatadal primitivo fuoco greco, avesse trovato altra ben più rivoluzio-naria applicazione nelle armi dette appunto «da fuoco».

8.5. Miti in gestazione: olio bollente e gallerie di fuga. Di tutti iproiettili che gli assediati potevano utilizzare contro gli aggresso-ri montanti all’assalto delle mura, l’immaginazione dall’età ro-mantica ai nostri giorni mette al primo posto l’olio bollente dan-do così – si è scritto di recente – una vera e propria «caricaturadella difesa»: «Chi potrebbe credere che i difensori alimentasse-ro fuochi sull’alto delle mura per scaldare pesanti marmitte riem-pite di un liquido costosissimo, e per di più che gli stessi difenso-ri le afferrassero infuocate per versarle sugli assalitori?». La dife-sa, si osserva, doveva invece servirsi di proiettili solidi e di fuoco,oltre che di calce liquida o di più prosaici barili di escrementi.L’osservazione, a prima vista logica, è però basata più sul buonsenso contemporaneo che sui documenti: in un certo numero ditesti, specialmente di area greca, si menziona infatti in modo espli-cito l’uso di olio bollente in funzione difensiva. Secondo i Po-liorketika di Apollodoro di Damasco, scritti nel II secolo d.C., l’o-lio bollente deve essere trasportato sulle mura in recipienti di ra-me per essere gettato sugli assalitori mediante un apposito appa-recchio. L’olio, per quanto certamente costoso e disponibile soloin piccole quantità, è materia che si trova con una certa facilità nel-le zone mediterranee, e non era pertanto assurdo proporre di es-so un uso «militare». Apollodoro stesso prevede però di sosti-tuirlo con l’acqua, certo molto più facilmente reperibile, ma che

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pone problemi non troppo diversi dall’olio per il suo riscalda-mento e trasporto sul luogo d’impiego.

La proposta di Apollodoro non è comunque isolata; già nel 70d.C., durante la difesa di Gerusalemme contro i Romani, Giusep-pe l’Ebreo ordina l’uso di olio bollente; secondo Procopio di Ce-sarea, nel VI secolo gli abitanti della città di Topiro, in Tracia, sidifesero da un attacco degli Sclaveni «versando su di loro olio epece molto bollenti». Una silloge tattica greca, ripresa nel X se-colo, prevede di spegnere rapidamente con l’aceto «il piombo fu-so o la pece o l’olio bollente molto meglio dell’acqua»79. E se nonl’olio, certamente l’acqua bollente dovette essere usata in funzio-ne difensiva con una certa frequenza: a Tolosa nel 1213 essa cadesugli aggressori i quali «quando la sentono si allontanano e scrol-landosi dicono tra loro: La rogna è ben più dolce di queste acquebollenti che ci gettano». Una chanson de geste del XIII secolo de-scrive la difesa di un castello mediante carboni ardenti e acquacalda; e nel 1351 – racconta Matteo Villani – i Pistoiesi disposero«a pié delle mura intorno intorno, molti fornelli con caldaie perapparecchiare acqua bollita» da gettare sui Fiorentini che li asse-diavano. Il presidio vicentino di Montegalda, attaccato nel 1387dai Padovani, si difende gettando «acqua di cenere calda» che fe-ce «arretrare turpemente» gli aggressori.

Mariano Taccola nel 1449 consiglia di difendersi dai «nemicibattaglianti» mediante il lancio di polvere di calce che, penetran-do negli occhi, li costringerà a desistere subito dal combattimen-to; in mancanza di calce si può usare sabbia di fiume fine e bensecca o polvere raccolta sulle strade, insieme con batuffoli incen-diari fatti con stoppa imbevuta nell’olio. All’olio ardente, ben cot-to in caldaia, si ricorrerà – continua il Taccola – per lanciarlo con-tro arieti e «gatti» in procinto di aprire brecce nelle mura: il li-quido, filtrando sul dorso di coloro che stanno al riparo dellemacchine, li costringerà a retrocedere; mancando l’olio si puòusare vino cotto che, gettato con stoppa accesa, brucerà la mac-china. Il vino potrà a sua volta essere sostituito da un barilottocontenente una miscela di pece e di trementina che, acceso, diffi-cilmente potrà essere spento con l’acqua. In ogni caso – conclu-de l’Archimede senese – «incendiate così le macchine, gli sbrec-ciatori del muro saranno costretti a prendere la fuga». Filippo diClève, intorno al 1516, raccomanderà ancora di tenere pronti per

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respingere gli assalti del nemico calce viva e caldaie piene d’ac-qua, di olio bollente nonché di piombo fuso da gettare «a cuc-chiaiate». Ma ormai a tale arcaico armamentario si allineavano an-che «le pietre da fuoco che si chiamano granate» e altri ordigni«da fuoco»80.

Ultima risorsa dell’assediato che si vede ormai alle strette esenza speranza di resistere, ma che non intende arrendersi, è la fu-ga silenziosa nel cuore della notte. Nel 936 i difensori di Langressopraffatti – ricorda lapidariamente Richero – «nocte egressi au-fugerunt». Il 10 giugno 1098 alcuni cavalieri cristiani assediati daiTurchi in Antiochia, sconvolti dal combattimento del giorno pri-ma durato sino al sopravvenire del buio, «fuggirono segretamen-te nel corso della notte calandosi lungo il muro dalla parte del ma-re», ma in quella rischiosa impresa – nota con raccapriccio l’ano-nimo cronista – dei loro piedi e delle loro mani non rimasero chele ossa». Nel 1103 la guarnigione del castello di Montaigu, asse-diato da Luigi VI di Francia, prima che il cerchio si chiudesse,«nocte furtim exiliit»; e vent’anni dopo l’intera popolazione diComo, ormai senza speranze di sfuggire agli assedianti, venne eva-cuata in massa attraverso il lago: «i giovani di Como / ed insiemele donne ed i fanciulli / salgono sulle navi abbandonando / con inemici la città: Ogni cosa / portano seco. Non vi lascian nulla».Solo più tardi i vincitori si accorsero che la città era rimasta vuo-ta ma, per evitare sorprese, ne rimandarono l’occupazione al gior-no seguente.

Dopo il Natale del 1140 il giovane e audacissimo conte Ra-nolfo – annota Orderico Vitale – fuggì nella notte da Lincoln cheera stata attaccata a sorpresa dal re, e riuscì a rifugiarsi a Chester.I Senesi di Selvole nel 1231, vedendo le proprie mura irreparabil-mente minate dai Fiorentini, approfittano di una notte di pioggiae grandine riuscendo in gran parte a eclissarsi furtivamente. Nu-merosi episodi simili si verificarono in Lombardia e in Emilia du-rante le lotte contro Federico II: nel settembre del 1237 i difen-sori di Montichiari, presso Brescia, stabilirono di comune accor-do di dileguarsi «nella notte silenziosa»; da Faenza bloccata dal-l’imperatore nel 1240, molti riuscirono ad allontanarsi con il fa-vore delle tenebre; i cavalieri rinchiusi nel castello di Vixiranum,rimasti senz’acqua, lo lasciano di notte senza nemmeno avvertire«sergenti» e rustici assediati insieme con loro81.

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Tali fughe avvengono di solito calandosi dall’alto delle mura oaprendo brecce alla loro base; eccezionale fu invece il modo in cuiil presidio del castello di Pechpeyroux, non lontano da Tolosa,piantò inopinatamente in asso gli assedianti. Nel 1385 i Francesial comando di messer Gaultier de Pasac – racconta Froissart –pongono l’assedio alla fortezza che sorge, in posizione assai diffi-cile da prendere, sull’alto di uno spuntone roccioso. «Ci vorràmolto tempo – pensa Gaultier – ma il re di Francia è ricco abba-stanza per mantenere qui un assedio, qualunque cosa costi, ancheper un anno intero». Dopo tre giorni viene ordinato un primo as-salto mediante una torre a ruote a tre piani ciascuno dei quali con-tiene venti balestrieri; costoro cominciano a scaricare le loro armientro le mura ma senza avere alcuna risposta, e soltanto dopo unpo’ si accorgono di sprecare le munizioni poiché la fortezza è deltutto deserta. «Sappiate che nel castello non c’è nessuno», comu-nicano: «Come lo potete sapere?» domanda messer Gaultier. «Losappiamo perché con tutti i tiri che abbiamo fatto nessuno si è mo-strato». Ma il comandante rimane poco convinto. Coloro che era-no a ciò destinati portano le scale, le appoggiano cautamente almuro e salgono: la fortezza è effettivamente vuota benché le por-te siano chiuse dall’interno. Queste vengono aperte e il ponte ca-lato, ma lo sconcerto rimane grande e si teme di essere di fronte aqualche magia. Messer Gaultier ne parla al siniscalco di Tolosa:«Non possono essersene andati che passando sotto terra», azzar-da questi. E difatti presto si scopre che l’uscio della cantina dà inuna galleria lunga circa mezza lega che sbuca in un bosco fuoridelle mura: attraverso di essa gli uomini del presidio, dopo avercalcolato le difficoltà della loro situazione, si erano silenziosa-mente dileguati.

«I castelli di queste parti sono dunque tutti così?» domandamesser Gaultier. Il siniscalco non ha dubbi: se non tutti certo so-no parecchi e in specie quelli una volta posseduti da Rinaldo diMontalbano; quando lui e i suoi fratelli guerreggiavano controCarlo Magno – spiega – li fecero costruire così su consiglio del lo-ro cugino Mangin proprio per poter sfuggire agli assedi a oltran-za senza che il nemico se ne accorgesse. «Appena sarò di ritorno– conclude Gaultier – farò fare la stessa cosa nel mio castello diPasac, anche se non dovrò mai guerreggiare contro il re, o duca ovicino». Si può qui scorgere l’origine letteraria delle gallerie di fu-

II. Il riflesso ossidionale 171

ga che diventeranno in seguito uno dei miti strettamente legati aogni castello medievale, ma che erano evidentemente ancora igno-te al tempo in cui Froissart scriveva82.

9. L’ostinazione del cavaliere

Il mondo romano, com’è noto, fu militarmente caratterizzatoda un esercito di fanti bene addestrati, mentre il Medioevo vieneconsiderato l’età della cavalleria; in realtà non è possibile osserva-re una opposizione così netta poiché dal III secolo d.C. in poi l’or-ganico delle legioni contemplò contingenti di cavalleria via viasempre più importanti: per poter affrontare Sarmati e Unni con leloro stesse tecniche di combattimento vennero infatti create for-mazioni di arcieri montati e di cavalieri pesantemente corazzati(clibanarii o catafractarii) destinati a operare in coordinamentotattico fra loro. I clibanarii tuttavia agivano alla maniera di impo-nenti e ciechi automi senza stabilità né capacità operative proprietanto che, senza l’appoggio degli arcieri, rischiavano di essere inu-tili: la loro somiglianza con il futuro cavaliere medievale risultapertanto del tutto esteriore.

Nello stesso periodo la fanteria rimaneva importante ed è per-ciò difficile stabilire un preciso spartiacque fra l’epoca dominatadai fanti e una successiva che si vorrebbe appannaggio esclusivodel combattente a cavallo. Inoltre sin dagli ultimi secoli dell’im-pero, come si è visto, un numero sempre più alto di città e di cen-tri abitati minori veniva difeso da mura, e con esse dovettero farei conti i popoli che aspiravano a stanziarsi nell’Occidente romanoi quali, in misura maggiore o minore, combattevano tanto a piediquanto a cavallo: l’età medievale perciò vide non solo e non tantoil cavaliere stabilire lentamente una supremazia sul fante, ma lafortezza affermare la sua superiorità su entrambi.

Uno degli elementi – forse il principale – che conferisce effi-cacia difensiva a una fortificazione è dato dalla mancanza di stru-menti adeguati da parte di coloro che intendono attaccarla, e diessi erano appunto sprovvisti i futuri padroni dell’Occidente:«Nulla è tanto ignoto ai barbari quanto i macchinari e l’astuzia de-gli assedi», aveva osservato a suo tempo Tacito. Spesso i fatti stes-

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si rivelano che, se falliva il colpo di mano a sorpresa e non era pos-sibile ricorrere a complicità interne, gli invasori si limitavano astringere le città murate mediante un blocco statico con il propo-sito di stancare e di affamare gli assediati, come tentarono di fare,per esempio, quei Visigoti che, all’inizio del V secolo, Paolino diPella ci mostra, immobili dietro i loro carri, sotto le mura di Ba-zas, presso Bordeaux83.

Pochi anni dopo risultano significative, sotto tale aspetto, le vi-cende dell’invasione visigotica in Italia. Alarico supera le Alpi nelnovembre del 401 e assedia Aquileia: alcune città impaurite gliaprono senz’altro le porte; egli evita di assediare Milano e, dopoaver tentato inutilmente di prendere Asti, viene battuto in campoaperto a Pollenzo ed è costretto a ripassare le Alpi. Le mura mo-strano quindi una certa efficacia, e ciò induce Roma e Torino arafforzare le proprie; molti ricchi, nondimeno, per timore dell’as-sedio, preferiscono nascondere i loro tesori e rifugiarsi in Sicilia ein Sardegna. Alarico, ritornato in Italia nel 408, punta diretta-mente su Roma, la blocca e la riduce alla fame accettando di riti-rarsi solo dietro il pagamento di un forte riscatto. Il blocco si ri-pete altre due volte alla fine del 409 e nel 410 sinché, nell’agostodi quest’ultimo anno, i Visigoti riescono a penetrare in Roma: do-po tanti secoli la città subisce quindi l’incendio e il saccheggio, fat-to che desta profonda impressione in tutto il mondo romano, mai barbari riescono nel loro intento solo perché la porta Salaria vie-ne loro aperta dall’interno.

Rivelatrice dell’impotenza dei barbari di fronte alle cerchieurbane antiche è la pratica, a lungo proseguita, di distruggere lemura delle città conquistate. Così fecero i Vandali in Africa perimpedire – scrive Procopio – l’eventuale ribellione dei soggetti eper non offrire basi a un’eventuale riscossa imperiale; né si preoc-cuparono mai (in un secolo circa di stabile dominio) di ripristina-re le fortificazioni lasciando andare in rovina anche quelle di Car-tagine, le uniche che erano state risparmiate. I Goti in Italia, in unprimo momento, operarono in modo del tutto opposto: Teodori-co dopo la conquista non solo non distrusse le cerchie urbane, main trent’anni di regno si impegnò in ogni modo al loro rafforza-mento. Ancora nei primi anni della guerra greco-gotica gli Ostro-goti, risolvendosi alla difesa di Palermo, Napoli e Urbino, fidanopienamente nelle fortificazioni; quando percepiscono che la po-

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polazione romana è loro ostile (come avviene a Salona, Roma e Ri-mini), oppure rimangono a corto di viveri (Porto, Centocelle, Al-bano) escono dalle mura senza pensare affatto a distruggerle. Fuper primo Vitige che, dovendo abbandonare Pesaro e Fano, ne fe-ce abbattere le mura «perché i Romani non avessero a dar noia aiGoti rioccupandole». Le sue previsioni si avverarono così che,traendo spunto da quell’esperienza, Totila deciderà (secondoquanto Procopio gli fa dire) di distruggere le mura delle città ri-conquistate «perché l’esercito nemico non avesse una solida baseda cui partire per condurre la guerra con gherminelle».

Il proposito fu messo in atto a Benevento, a Napoli e a Roma;in alcuni casi però Totila fu costretto a ricostruire le cerchie cheegli stesso aveva fatto demolire. Per Roma, in specie, dovette farei conti, oltre che con le necessità conseguenti alla condotta dellaguerra, anche con problemi di prestigio «internazionale» essen-dosi visto rifiutare dal re dei Franchi la mano della figlia proprioperché, conquistata la città, l’aveva in parte demolita e non era sta-to capace di conservarla. Di fronte all’altalenante atteggiamentodei Goti, non vediamo invece mai i Bizantini distruggere le muradelle città conquistate per impedirne un uso militare agli avversa-ri, fatto di per sé assai significativo della loro superiorità nella guer-ra d’assedio, che trovò la più clamorosa dimostrazione, come si èvisto, nei falliti tentativi operati da Vitige contro Roma nel corsodell’anno 537. I Goti erano prevalentemente cavalieri, e al palesefastidio da essi espresso nei confronti delle cerchie murarie, dovu-to alla scarsa esperienza nelle tecniche d’assedio, verisimilmente siuniva l’insofferenza nei confronti dell’ostacolo che impediva lorodi far valere le proprie qualità di abili cavalcatori; con la distruzio-ne delle mura si illudevano quindi di costringere il nemico – comediceva Totila – a «scendere in campo a viso aperto»84.

Dopo i Goti, in Italia sembrerebbero aver agito in modo nondissimile anche i Longobardi: le ripetute distruzioni di mura daloro operate, prima che una rituale «degradazione» punitiva dicittà ribelli (che si inseriva peraltro nel solco della tradizione ro-mana), poterono appunto avere lo scopo di rendere inoffensivo ilnemico impedendogli in un immediato futuro di poter nuova-mente usufruire di quelle fortificazioni. Così si può senz’altro giu-stificare la distruzione della cerchia di Brescello nel 584, delle cittàcostiere della Liguria marittima nel 643, dell’Isola Comacina nel

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701, cui si può ancora collegare la demolizione delle mura di Na-poli nell’821. Da tali distruzioni, operate a ragion veduta dopo lavittoria, si dovranno nondimeno distinguere i semplici danneg-giamenti avvenuti nel corso delle operazioni, come si vide a Pa-dova nel 601 e a Cremona e Mantova nel 603.

Tanto i Franchi quanto i loro avversari ricorsero più volte allostesso espediente. Nel VII secolo Guaiferio di Aquitania, ribellea Pipino il Breve, fece demolire le mura di Poitiers, Limoges, Sain-tes, Périgueux, Angoulême e di molte altre città, che Pipinoavrebbe però fatto immediatamente ricostruire. Quest’ultima af-fermazione lascia in verità alquanto scettici poiché i Pipinidi, an-cora al tempo di Carlo Magno, mostrano a loro volta di trovarsialquanto a disagio davanti alle cerchie urbane tardo-antiche. Per-vennero infatti a impadronirsi di Pavia, Verona e Saragozza dopolunghi ed estenuanti assedi, e Barcellona e Tortosa, negli anni 800-801, cedettero a Ludovico il Pio solo per fame; si spiega così chenel 778, non appena conquistata Pamplona, le sue mura siano sta-te distrutte perché la città «non potesse ribellarsi». Fu verisimil-mente per analoghi motivi che Carlo Magno nel 788 impose al du-ca di Benevento Grimoaldo di abbattere le mura di Salerno, Con-za e Acerenza.

Sembra dunque che il più agguerrito esercito dell’Occidentecontinuasse a condurre i suoi assedi con i medesimi primitivi cri-teri usati dai barbari nei secoli precedenti manifestando nei con-fronti delle cerchie murarie un’analoga inferiorità, e si spiega co-sì, forse, il disinteresse per le tecniche d’assedio mostrato da au-tori dell’età carolingia come Rabano Mauro e Sedulio Scoto i qua-li, pur traendo lezione dalla lettura di Vegezio in altri campi, di-menticano del tutto i suoi consigli sulla difesa e sull’attacco dellefortificazioni. Ma alla pregiudiziale ripugnanza che gli eredi degliantichi barbari, ormai ascesi ai fastigi imperiali, continuavano aostentare per le tecniche poliorcetiche si venivano certo unendonuove motivazioni85.

Quanto avviene nell’ambito dell’impero carolingio si rivela, in-fatti, cruciale per stabilire i futuri rapporti non solo tra fanti e ca-valieri, ma anche fra questi ultimi e la fortezza. La storiografia re-cente ha cercato di collocare nell’età dei Pipinidi più di una «ri-voluzione» che riguarda l’impiego bellico del cavallo: si è pensa-to che al tempo di Carlo Martello o di Pipino il Breve (legandosi

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o no all’adozione della staffa) i Franchi avessero dato vita quasi exnihilo a una cavalleria pesante e a una leggera, subito divenutestrumento fondamentale della loro irresistibile espansione. Perquanto tale tesi presenti più di una debolezza, rimane nondimenocerto che fra VIII e IX secolo i Franchi diedero ai cavalieri «piùimportanza di quanto ne avessero nell’età merovingia» e, insiemecon la cavalleria – intesa come arma combattente – si venne allorarafforzando il suo prestigio militare, ben presto avviato a diventa-re un mito. Ma tale innovazione non poté avvenire senza che il ca-valiere si scontrasse, in modo più evidente di quanto già avvenivain passato, con la scomoda e ineludibile realtà della fortezza.

Se ne scorge un segno evidente nella celebrazione che il poetaErmoldo il Nero fa del giovane Ludovico il Pio intento, negli an-ni 800-801, all’assedio di Barcellona: mentre gli arieti si accani-scono inutilmente contro le solide fortificazioni della città, ecco ilprincipe infiggere la sua lancia nel marmo delle mura: un orgo-glioso gesto di sfida che è, nello stesso tempo, una confessione diimpotenza contro una fortezza decisa ad arrendersi soltanto perfame. La formazione della mentalità cavalleresca aveva fatto ulte-riori progressi nell’ultimo quarto del IX secolo quando il monacosangallese Notchero il Balbo rievocava, in onore dell’imperatoreCarlo il Grosso, le prodezze ormai leggendarie dei suoi antenati.Con grande efficacia retorica egli descrive Carlo Magno a cavallodavanti alle mura di Pavia, corazzato da capo a piedi, circondatoda un immenso esercito di cavalieri parimenti vestiti di ferro, cheriempiono lo spazio circostante sino all’orizzonte: una visione tal-mente impressionante da paralizzare i difensori della città e daprovocarne senz’altro la resa.

Il disagio che il cavaliere continua a provare di fronte alla for-tezza viene qui semplicemente dissimulato e sottaciuto. Non siprende nemmeno in considerazione la necessità di ricorrere aun regolare assedio, concentrando invece tutta l’attenzione sullamaestà e sulla terribilità del cavaliere corazzato: esse sono tali chebastano da sole a procurare la vittoria così che la celebrazione delguerriero a cavallo e l’affermazione della sua superiorità non po-trebbero trovare espressione più completa. Fra le suggestioni cheagivano sulla fantasia di Notchero vi è certo un brano delle Storiedi Ammiano Marcellino nel quale si descrive l’assedio posto nel359 ad Amida dall’esercito persiano di Sapore: in questo modo

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l’immagine letteraria del catafratto tardo-antico viene a dare manforte alla costruzione del mito del cavaliere destinato a dominarei campi di battaglia nell’età postcarolingia. Notchero scrive peral-tro in un momento in cui negli eserciti i combattenti a piedi sem-brano del tutto scomparsi e più che mai la figura stessa del solda-to viene a identificarsi con il cavaliere.

Per quanto appaia a prima vista irrazionale, si può credere chein tale epoca gli assedi siano stati davvero condotti da soli uomi-ni a cavallo; celebri miniature mostrano infatti, con una certa fre-quenza, cavalieri armati di lancia che minacciano direttamente idifensori delle mura. Si tratta certo di una schematizzazione sim-bolica, ma non è da escludere che essa rifletta una parte dellarealtà: sono cavalieri pesanti coloro che, all’inizio dell’VIII seco-lo, attaccano Liegi e pervengono a uccidere il santo vescovo Lam-berto, descritti dalla Vita Landiberti come rivestiti di corazza e dielmo, armati di scudo, lancia e spada, ma anche dotati di faretrepiene di frecce. La scena dell’arazzo di Bayeux nella quale si ve-dono cavalieri caricare direttamente una fortificazione potrebbe,dunque, essere qualcosa di più che una semplice «licenza artisti-ca». Si è del resto osservato che Richero, richiamando avveni-menti della fine del IX secolo, cita non meno di otto casi in cuieserciti di cavalieri assediano fortezze senza alcun ausilio di fanti:il combattente a cavallo che, in quanto cacciatore, è addestrato an-che a tirare con l’arco, sa certo usare quest’arma tanto per difen-dere quanto per attaccare una fortificazione così che molti assedipossono essere effettivamente avvenuti senza il concorso dellafanteria. Il confronto tra fortezza e cavaliere, in altri termini, di-venta più diretto86.

Si possono quindi meglio intendere anche episodi a prima vi-sta fantasiosi come la presa della città leonina da parte di Arnolfodi Carinzia, avvenuta nel febbraio 896 e raccontata da Liutpran-do di Cremona, gli uomini protetti da scudi e da graticci, muovo-no a caterve verso le mura dopo aver preparato «moltissimi stru-menti di guerra»; si intendeva così, evidentemente, iniziare un as-salto in piena regola, se non che ecco un leprotto, spaventato, fug-gire verso la città: alcuni cavalieri lo inseguono e i Romani, ve-dendoli avanzare verso di loro, subito si danno alla fuga abban-donando la difesa. Fu allora sufficiente ai cavalieri ammontic-chiare le some e le selle: «Grazie al mucchio salgono sulle mura»,

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presto altri con una trave sfondano la porta e la città è presa. Quel-lo che per Notchero era semplice finzione letteraria si sarebbe quidunque fatto nella realtà: lo spettacolo dell’irruenza e della spet-tacolare terribilità dei cavalieri lanciati alla carica è tale da provo-care la ritirata dei difensori così che, senza sforzo, il cavaliere di-viene padrone della fortezza.

Ciò non significa che ogni disagio sia caduto, come mostra unaltro episodio narrato dallo stesso Liutprando. Siamo ormai nelterzo decennio del X secolo quando il duca di Svevia Burcardo,inviato in Italia da Rodolfo di Borgogna per prepararne la ricon-quista, esce sotto le mura di Milano in una rabbiosa minaccia checonviene integralmente ascoltare: «Non sarò più Burcardo – eglidice – se non costringerò tutti gli Italici a usare uno sperone soloe non li farò cavalcare su cavalle deformi; non stimo nulla la con-sistenza e l’altezza di questo muro con il quale essi credono di es-sere forti, e ne precipiterò giù gli avversari con il getto della mialancia». Le sue parole esprimono, in sostanza, lo stesso senso diimpotenza già mostrato da Ludovico il Pio davanti alle mura diBarcellona; Burcardo nasconde però la sua insofferenza dietro lapresunzione di superiorità ormai consolidata nella mentalità delguerriero a cavallo: chi osa resistergli con mezzi che lo mettono indifficoltà è soltanto degno di disprezzo, e tali sono tutti gli Italiciche egli si propone di ridurre allo stato servile, indicato appuntodal cavalcare giumente e dall’uso di un solo sperone. Una certa ca-valcatura e un certo equipaggiamento, simboleggiando l’unicomodo onorato di combattere, hanno ormai assunto un preciso si-gnificato sociale87.

Passano i secoli ma, si direbbe, la sfida tra il cavaliere e la for-tezza continua. L’antica mentalità del cavaliere carolingio che af-frontava le mura in modo diretto, sembra perdurare intatta tra iFrancesi stabiliti nel regno crociato di Oltremare. Filippo da No-vara ci ha tramandato quanto raccontava ai suoi tempi Giovannidi Ibelin, signore di Beirut, riferendosi a un episodio del 1168. Ilre di Gerusalemme Amalrico, durante una campagna in Egitto,ordinò a suo zio Ugo di Ibelin «che assalisse e facesse assalire lacittà di Bilbays che avevano assediato; ed egli rispose che sarebbeandato all’assalto; e non appena arrivò sul fossato spronò e vi saltòdentro, egli e il suo cavallo. E il cavallo si ruppe il collo e mio ziola gamba». Né basta, poiché «messer Filippo di Nablus, il buon

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cavaliere che era suo zio, saltò nel fosso dietro a suo nipote e fu ri-dotto in tale stato che per poco non morì».

Un tale sconsiderato modo di agire non doveva essere isolatose re Amalrico si risolse a promulgare un’apposita legge «per laquale mai un cavaliere avrebbe dovuto prestare servizio in caso diassedio a città o castello o in luogo dove il cavallo non lo potesseportare, se non si trovava assediato o a dover difendere la propriavita». Un «vero» cavaliere non si risolveva quindi facilmente adabbandonare la sua cavalcatura nemmeno nel corso degli assedi,ed era normale che, una volta praticata una breccia nelle mura, oaperta per tradimento una porta, ci si precipitasse a cavallo den-tro la città.

Secondo una tradizione pavese, raccolta nell’XI secolo dallaCronaca di Novalesa, nel 774 i Franchi riuscirono a conquistarePavia solo perché una figlia di re Desiderio, innamoratasi di Car-lo Magno, gli consegnò le chiavi: «E quando Carlo in quella stes-sa notte – scrive il cronista – dopo essersi avvicinato alla porta del-la città, riuscì ad entrarvi, gli andò incontro la fanciulla che ab-biamo detto, ebbra di gioia per la promessa ottenuta, ma fu subi-to calpestata dagli zoccoli dei cavalli e uccisa perché era notte. Al-lora Algiso, il figlio del re, svegliato dallo scalpitio dei cavalli cheirrompevano dalla porta, estratta la spada, abbatteva tutti i Fran-chi che entravano. Ma subito il padre gli proibì di farlo, perchéquello che succedeva era la volontà di Dio». Fuori di leggenda, ilLiber Maiolichinus ci mostra in più occasioni i cavalieri pisani inazione in prossimità delle mura di Maiorca: ecco il console Ro-berto che «si lancia solo contro più nemici, / li scompiglia e, in-calzandoli ad un tempo, / mentre volgono in fuga, li ricaccia en-tro le porte delle mura. Cade il suo cavallo nel fossato (oh! casoiniquo)», ma riesce a rialzarsi e a resistere a lungo prima di esseredefinitivamente sopraffatto.

Non appena una breccia viene aperta nelle mura subito i ca-valieri pisani, senza badare troppo alle difficoltà e all’opportunità,incalzano il nemico tra le case della città: «Tien dietro ai cavalieri/ dei pedoni lo stuolo, ma l’entrare / è assai duro. Difficile ai ca-valli / l’ingresso e arduo troppo il ritornare, / se vogliono ritirar-si», e infatti l’assalto fallisce. Ciò nonostante il giorno dopo eccoi Pisani di nuovo all’attacco: «Ma per i cavalieri troppo stretta èl’apertura al ciglio della breccia. / I fanti fanno invito d’inoltrarsi

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/ ai cavalieri, che, rivolte indietro le briglie, si dirigono alle ten-de». Si tratta di tentativi falliti, è vero, ma l’azione dei cavalieri at-traverso le brecce in una simile circostanza è presentata come deltutto ovvia e normale. E quando, pochi anni dopo, Como subiscela stessa sorte di Maiorca, i Milanesi «rovesciato il muro, / ilprofondo fossato ora pareggiano. / Spianan la via cercando di fo-rare / le pietre, affinché possano per gli aperti / accessi entrare icavalieri». Ancora nel 1253 a Kyrinia, nell’isola di Cipro, Filippoda Novara ci mostra i cavalieri ostinatamente legati alla loro ca-valcatura: di fronte a una torre d’assalto incendiata dai difensori«i cavalieri fuori salirono a cavallo e spronarono fino al fossato; làscesero ed entrarono nel castello di legno che bruciava ed estin-sero l’incendio a forza».

Anche in difensiva, del resto, quando il cavaliere era chiuso en-tro una fortificazione assediata, trovava modo di operare secondole sue attitudini in groppa alla cavalcatura: nel 1111 nel castello diPuiset bloccato da re Luigi VI, gruppi di uomini a cavallo eranoincaricati della difesa percorrendo al galoppo la parte interna delgrande recinto, da un punto minacciato a un altro, pronti a re-spingere gli aggressori che vi fossero penetrati. Una tecnica di-fensiva simile risulta applicata anche nell’Italia settentrionale allametà del XIII secolo: Ansedisio Guidotti, podestà di Padova perconto di Ezzelino da Romano, nella necessità di organizzare la di-fesa della vasta cerchia cittadina con un numero di effettivi insuf-ficiente a guarnirla in tutta la sua estensione, ordina nel 1256 chei cavalieri disponibili «corrano all’interno degli spalti in modo daimpedire l’ingresso ai nemici sopravvenienti, colpendoli a mortesul posto». L’accorgimento poteva consentire a un ridotto nume-ro di persone di provvedere alla difesa di recinti che erano spes-so, in proporzione, di notevole ampiezza88.

A lungo dunque il cavaliere cercò di dominare la fortezza sen-za venir meno alla sua peculiarità di combattente a cavallo, anchecontro il buon senso e ogni opportunità tattica. Assai più duttilee pragmatico si presenta, al contrario, nei suoi rapporti con la for-tezza, il cavaliere in versione normanna. In verità già oltre milleanni prima Frontino aveva presentato nei suoi Strategemata un re-pertorio di espedienti che permettevano all’assediante in diffi-coltà di farsi aprire fraudolentemente le porte di un luogo fortifi-cato, né essi erano senza riscontro nelle vicende militari in segui-

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to effettivamente occorse: Ammiano Marcellino racconta infattiche nel 378, durante la rivolta di Magnenzio contro l’imperatoreCostanzo, certi partigiani di quest’ultimo (avessero letto o noFrontino) riuscirono a superare le «Chiuse» delle Alpi Giuliespacciandosi per fedeli di Costanzo.

Guglielmo di Puglia ci mostra, sul finire dell’XI secolo, un Ro-berto il Guiscardo molto ben disposto a raccogliere tale eredità.Egli ai suoi esordi perseguita i Calabresi razziando qua e là senzaessere in grado di prendere «né città né castello», ma l’impotenzacontro i luoghi fortificati, anziché suggerire atteggiamenti sprez-zanti, spinge la sua mente a elaborare inganni ingegnosi: eccolofingersi morto e chiedere di essere sepolto in un monastero den-tro le mura; il desiderio viene accolto, se non che, nel pieno dellacerimonia funebre, Roberto si alza dalla bara, estrae le armi che viaveva nascosto e dà ai suoi il segnale dell’attacco vittorioso: «Fu ilprimo castello in cui tu mettesti guarnigione, o Roberto», conclu-de il poeta ammirato. Il gioco si ripete in altra forma a Durazzo inmodo che il duca, «non avendo potuto vincerla con le armi, laconquistò con l’inganno».

Il ricorso allo stesso classico espediente, più volte ripropostonel corso dei secoli, segnala di fatto la perdurante difficoltà che ilcavaliere continuava a provare nei confronti della fortezza. Nel1312 il guelfo Filippone di Langosco sconfigge presso Borgover-celli le truppe di Matteo Visconti che erano appena uscite da Ver-celli ghibellina, e lo stesso giorno, inalberando l’insegna del bi-scione catturata in battaglia, si presenta sotto le mura della città esi fa aprire la porta fingendo di essere Marco Visconti. Lo stessofa Estous, protagonista della Prise de Pampelune, poema francoveneto del XIV secolo, impadronendosi senza colpo ferire del ca-stello di Toletele, azione in verità poco cavalleresca, ma certo nonritenuta biasimevole dal momento che viene attribuita all’eroe po-sitivo di una chanson de gestes.

Anche negli ultimi secoli del Medioevo l’inganno è spesso l’u-nico modo per introdursi rapidamente e con poche forze in luo-ghi fortificati altrimenti imprendibili senza un assedio che richie-derebbe uno sproporzionato impiego di tempo, di uomini e dimezzi. E all’inganno non disdegna affatto di ricorrere anche uncavaliere di alto prestigio come Bertrand du Guesclin. Nel 1351eccolo nascosto in un bosco in attesa di un’occasione favorevole

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per impadronirsi del castello di Fougeray occupato dagli Inglesi.L’occasione si manifesta quando la guarnigione ordina legna daardere: du Guesclin può così introdursi nel castello con trentacompagni che si fingono legnaioli: la guardia viene uccisa, gli uo-mini di servizio sopraffatti con l’aiuto di rinforzi giunti al mo-mento buono, e il castello è preso. Ma il duello tra fortezza e ca-valiere continuerà sinché le innovazioni dell’età moderna toglie-ranno a entrambi gran parte della loro importanza89.

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