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Il Cantante Di Blus

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 Nicola Cirillo

Il cantante di blus

cinico

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Prima edizione dicembre 2010

rc8© Copyright Nicola Cirillo

www.cinicoweb.it

[email protected]

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 A una nobile persona

 A Momo e Giogio,

insieme ai quali l’idea ha preso forma 

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I. Il telefono interno riportò Michele sulla terra. Si

era distratto, immerso nella lettura di una e-mail, e ave-va lasciato che squillasse otto volte.

Rispose senza voglia: «Manara».«Che fine hai fatto?». Era Giorgio, come al solito

in ansia quando aveva un orario da rispettare. «Hachiamato Frattini, dobbiamo andare, muoviti!».

«Ma devo proprio esserci?»«Sei impazzito? Hai sentito che ha detto stamatti-

na. Dovrai farla tu questa cosa. Io ci sono per l’ufficio

legale e Goppion per le risorse. I tedeschi vengono adaffidarci questo compito per tutto il gruppo».«Che palle. Sì, vengo, vengo. Non ti agitare, ci ve-

diamo in sala conferenze tra dieci minuti».Da quando la Teorema era stata assorbita dal

gruppo tedesco Treue, le cose andavano di male in peg-gio per i dipendenti. Con sorprendente ingenuità, i diri-

genti tedeschi pensavano che le loro soluzioni fosserouniversali, e si adattassero anche ai lavoratori italiani.

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 Non avevano capito che in Italia le cose funzionano, sì,ma… in modo diverso.

La novità recente era il Knowledge Management ,vale a dire la gestione dei processi di conoscenza. Perquelli che non amano le figure retoriche evocative, sitratta di realizzare: ‘io so una cosa e la pubblico, cosìchi vuole saperla la cerca e la conosce. Se non so unacosa, la cerco tra quelle pubblicate e la conosco’. Unasorta di fusione delle conoscenze frammentate. Per tutti

una novità assoluta. Tranne naturalmente per quelli che,nei secoli, hanno frequentato una biblioteca.

«In una società basata sull’informazione, la capaci-tà di organizzare e di gestire la conoscenza è un requisi-to decisivo per un’azienda di successo» aveva dettoquella mattina l’allampanato direttore generale Amilca-re Frattini a Michele e Giorgio. Michele era certo che

l’avesse imparato a memoria molto prima di capirne ilsignificato. A volte sembrava così distante da quello chediceva, da dare l’impressione di stare lui stesso ad ascol-tarsi, senza peraltro capirci granché, come un guitto alle prese con un copione complicato.

Il succo della faccenda per Michele era purtroppoquesto: qualcuno doveva occuparsi di questa cosa per-ché i tedeschi la pretendevano per rispettare i loro stan-dard. Frattini aveva scelto lui. Alle 15:00 in punto, insala conferenze erano in programma un briefing sulnuovo servizio, la presentazione del responsabile, la de-finizione degli obiettivi e la pianificazione delle risorse.Con i tedeschi. Punto.

Il peggio era che il servizio doveva essere realizza-to con l’ausilio di una struttura informatica, un K.M.S.Knowledge Management System  (gli informatici non

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 possono proprio fare a meno degli acronimi) creata ap- positamente, che consentisse di condividere le cono-

scenze tra le sedi del gruppo nei vari paesi, attraverso larete internet. E Michele temeva che qui potessero nasce-re molti dei problemi futuri.

La sala conferenze era desolante. Su novanta postia sedere erano presenti 15 persone, e bisognava ancheconsiderare che c’era qualche curioso venuto a vedere i

tedeschi chi avessero mandato. L’ultima volta era venu-ta Helga Shucko, una bionda da urlo, che fece il pienonee strappò applausi a scena aperta, anche se nessuno hamai capito cosa dicesse.

Frattini, da buon ospite, fece gli onori di casa e,quando quasi tutti furono seduti, c’era più gente sul pic-colo palco che nelle poltroncine.

«Potevamo andare in sala riunioni» disse seccato aMarco Goppion, il più servile dei suoi collaboratori, evi-tando con cura di farsi sentire dal capo della delegazio-ne tedesca. Goppion corse a chiamare il solutore dei problemi dell’edificio.

Giovanni Morrone era il custode tuttofare della

Teorema. Come faceva sempre in questi casi, corse afare un giro di cortesi inviti negli uffici, a nome del grancapo, e riempì la sala di colleghi, addetti alle pulizie,sfaccendati vari dell’azienda, felici di occupare una odue ore in una perdita di tempo, tanto per cambiare au-torizzata.

Il sorriso tornò sulle labbra di Frattini che, dopo le

 presentazioni, cominciò a introdurre l’argomento: «Inuna società basata sull’informazione, la capacità di or-ganizzare e di gestire la conoscenza…».

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Michele sorrise tra se, non potendo sogghignare in pubblico.

Due ore dopo, ma gli erano sembrate venti, uscìinsieme Giorgio dalla sala conferenze, con gli occhi ri-dotti a due fessure e un principio di uno dei suoi colos-sali mal di testa.

«Manara… Sartori…». Era ancora Frattini che, ac-compagnati i tedeschi all’ascensore, tornava verso i di-stributori del caffè. «Ottimo lavoro. Forse cinque perso-ne sono troppe per questo progetto, ma… vedremo. SeGoppion dice che si può…» disse ostentando una fretta,di certo fasulla, mentre si dirigeva verso il suo ufficio.

Per mettere nel gruppo tutti i suoi amici di sempre,Michele aveva dovuto ricattare e imbonire Marco Gop- pion, viscido responsabile delle risorse umane, legato adoppio filo con Frattini da chissà quali relazioni politi-che, e a lui sottomesso in modo nauseante.

In realtà era proprio quello il gruppo che Frattiniaveva in mente per quel progetto. Ma voleva che Miche-le lo ottenesse come una concessione, e che finisse peressere in debito con uno dei suoi. Quando Michele lo

capì, cominciò a vederlo con occhi diversi.

Qualcuno gli aveva detto, o forse lo aveva letto daqualche parte, che il caffè amaro, come tutti gli alimentidal gusto forte o spiacevole, stimolano le endorfine chediminuiscono la sensibilità al dolore e istigano sensa-zioni di euforia. Non che Michele ci credesse troppo,

ma continuava per abitudine a prendere il caffè amaro

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 per farsi passare il mal di testa. E la cosa continuava anon funzionare.

Davanti al distributore Giorgio si fermò ad aspetta-re Manuela, che dal fondo del corridoio veniva verso diloro con la massa di capelli ramati che ondeggiava adogni passo. La sua amica del cuore, parrucchiera dilet-tante, l’aveva convinta a tagliarli un po’ più corti, ma ilconsiglio era risultato un disastro. I capelli si erano gon-fiati, e lei era stata sul punto di ucciderla. Anche legan-

doli, le restava una fulva criniera che la faceva assomi-gliare a uno scovolo industriale per ragnatele. Ma nem-meno un aspirante suicida glielo avrebbe mai detto.

«Allora, ce l’avete fatta? Siamo di nuovo un grup- po?» disse ai due mentre li baciava fugacemente.

«Già» rispose Michele.«E abbiamo anche Beatrice e Luca con noi» gli fe-

ce eco Giorgio.«Grande! Ci siamo tutti allora. Stasera al Salaria a

festeggiare».

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II. Il Salaria era un piccolo bar ristorante su via Sala-

ria dove tutti i giovedì, ma spesso anche in altre occa-sioni, Michele e gli amici della Teorema si incontrava-no.

Il locale era di Mario, ottimo cuoco e, come amavadefinirsi, grande caffettiere. Veniva da Salerno, e cari-cava molto il suo accento campano per spacciare il suocaffè, ottimo per la verità, come un originale napoleta-no.

In una vetrina riscaldata facevano bella mostra lesue pietanze di punta. Crêpes imbottite di tagliolini allimone, lasagna, risotto ai porcini, spezzatino di maialecon peperoni, frittata di cipolle e ogni contorno di ver-dure crude e cotte che si possa immaginare.

Mario aveva gestito per oltre dieci anni lo snack- bar interno della Teorema, che Frattini due anni primaaveva fatto sostituire con più economiche macchinette

da caffè automatiche.Così aveva preso in gestione un bar chiuso da anni,il Salaria appunto, adottandone il nome per conservare

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l’antiquata insegna al neon e tenendo anche gran partedei pezzi d’arredo vintage lasciati dai vecchi gestori.

Tra questi spiccava un GoldSound Nav II, un bellissimo jukebox anni ’70 perfettamente funzionante, in cui i pezzi più recenti risalivano a oltre vent’anni prima.

 Nonostante avesse fatto fortuna, Mario era ancoraimbestialito con Frattini e non perdeva occasione perfulminarlo con qualcuna delle sue orribili battute di spi-rito.

Il senso dell’umorismo non era infatti il suo puntodi forza, e i clienti del Salaria  ne erano consapevoli.Spesso però era proprio l’assurdità delle sue uscite a ge-nerare una grande ilarità, assecondata non poco dalla birra che scorreva a fiumi.

Quella sera Michele era arrivato più tardi del soli-to, cogliendo nell’entrare solo l’ultima parte di una dellesue interminabili invettive dirette al presidente dellaTeorema, mutuata da una vecchia barzelletta su un pre-sidente che doveva abbassarsi i pantaloni. Il fatto chealla sua sghemba conclusione, Mario raccogliesse ap- plausi e schiamazzi vari, fece capire a Michele che ave-va saltato almeno due giri.

«Ciao!» urlò Manuela quando lo vide, facendo gi-rare tutti verso l’ingresso. Michele pensò che fosse unafortuna che il piccolo locale fosse in pratica riservato aloro il giovedì sera.

Seguì un coro di saluti e risposte, farcite dai larghisorrisi e dagli occhi lucidi, che un sostenuto tasso alco-lemico di solito accompagna.

Michele senza darlo a vedere cercò un posto lonta-no da Beatrice, che non aveva mai trovato troppo simpa-tica. Era l’unico problema del suo prossimo incarico. La

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struttura informatica che doveva ospitare il sistema diknowledge management, il KMS , avrebbe dovuto pre-

 pararla lei. E sarebbe stata dura lavorare con una perso-na così maniaca dell’efficienza, tanto influenzata dallenumerose esperienze di lavoro in Germania.

Beatrice, Bea per gli amici, brillante ingegnere in-formatico del gruppo, era una specie di commistione tragenio e attività. Parlava fluentemente inglese e tedesco,aveva realizzato da sola gran parte dei programmi che

giravano nella Teorema, e molti di questi erano stati ac-quisiti dalla Treue. Il suo atteggiamento riservato le da-va un’aria aristocratica, forse anche scostante che, perquanto fosse solo apparente, influiva sui rapporti con ilresto del gruppo. Le riserve si scioglievano ogni voltache con poche parole risolveva questioni lunghe e con-troverse. In questi momenti, tutti si chiedevano «ma

come fa?» o anche «non potevamo chiedere a lei, pri-ma?».

«Brindiamo al KMG, il Knowledge Management  Group» disse Luca alzando un boccale semivuoto che probabilmente era il terzo della serata.

Michele odiava gli acronimi. A suo parere servi-vano spesso a dare decoro a entità altrimenti misere.Quella sigla, che gli evocava sinistre memorie di servizisegreti, o un marchio di pentole in vendita porta a porta,in fondo era utile solo a coprire di dignità un lavoro cheserviva all’azienda quanto uno slittino da neve a ungiamaicano.

 Non disse nulla e alzò il bicchiere mentre Luca nelcoro dei prosit, rovesciò qualche goccia sulla gonna del-la compagna della serata, di cui tutti avevano già dimen-

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ticato il nome: sapevano che non sarebbe stata lì il gio-vedì successivo.

Luca era infatti molto dinamico nelle sue amiciziefemminili nonostante, o forse grazie, ai suoi cinquanta-due anni ben portati. Era certo d’aiuto ai suoi effimerimenage, lo status di musicista tornato single da qualcheanno. Era un ottimo sassofonista jazz, mai passato al professionismo a causa della sua monumentale pigrizia.Si mostrava attivo solo per ottenere i favori dei boccon-

cini, come le invidiose rivali si definivano a vicenda,spesso provenienti dall’ambiente dei locali notturni, do-ve di tanto in tanto si esibiva.

«Allora si comincia tra due settimane?» chieseManuela, rivolgendosi un po’ a tutti ma guardando Bea,che avrebbe dato il via una volta pronta l’infrastruttura.

«In realtà spero che si riesca a farcela in una setti-mana o poco più» rispose Bea insolitamente allegra.

Michele fece una smorfia. «Che cazzo,» pensò«questa è davvero efficienza tedesca!».

Luca si alzò andò al GoldSound per mettere su un po’ di musica. Prese una manciata di vecchie monete dacento lire che Mario teneva appositamente in un cesto

sul bancone del bar, e selezionò alcuni pezzi a caso.La serata stava scaldandosi e anche Mario si unì algruppo, che aveva ormai abbandonato l’argomento la-voro. «Silenzio!» ordinò d’improvviso «questo pezzodel mio compaesano va ascoltato senza disturbi!».

 E te sento quanno scinne 'e scale/ 'e corza senza

guarda'/ e te veco tutt'e juorne/ ca ridenno vaje a fati-ca'/ ma mo nun ride cchiù.

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«Quattro minuti e trentacinque secondi di pura poesia» sentenziò Mario «come ogni pezzo creato dal

maestro».Il KMG si disse d’accordo con Mario ma Luca

lanciò quella che prometteva di essere una bomba.«Grande sì, certo, ma negli ultimi vent’anni non ha

 praticamente fatto più musica o testi passabili» dissecon aria competente, suscitando, certo di proposito, l’iradivertita di Mario, che gli lanciò quanto aveva di lancia-

 bile a portata di mano, urlando «sacrilegiooo!!».Altri si unirono alla voce di Luca, finché Michele,

ormai scaldato dall’atmosfera e dalla birra, non attiròl’attenzione battendo una posata sul suo secondo bocca-le vuoto «Pino Daniele è morto verso la metà degli anniottanta! Un sosia fa del suo meglio per imitarlo da allo-ra…».

Giorgio e Manuela intervennero soddisfatti «èquello che abbiamo sempre pensato anche noi!» disseroquasi in coro, e Giorgio aggiunse «dopo  Musicante, nel1984, il vuoto».

«Ue guagliu’!! io vi caccio fuori! Nel mio localenon si dicono ‘ste eresie, va bene?». Mario stava quasi

 per diventare serio. Diceva sempre che la sua adole-scenza era stata decisa dalle canzoni di Pino Daniele. Ese era il suo eroe, non poteva sbagliare.

Si lanciò in una difesa disperata «e allora  ferry-

boat , Anna verrà? E quando? e tutte le altre colonne so-nore dei film di Troisi? e lazzari felici?

« Lazzari felici sta in  Musicante» corresse Giorgio

sempre oscenamente preciso.

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«È lo stesso!» replicò Mario con molta più fogache coerenza.

Qualcuno dei pochi clienti rimasti si unì timida-mente alle proteste di Mario, finché i 4 minuti e 35 se-condi scorsero e il GoldSound fece partire un altro di-sco.

 All'ombra dell'ultimo sole/ s'era assopito un pesca-

tore/ e aveva un solco lungo il viso/ come una specie di

sorriso.

 Il pescatore di Fabrizio de André, com’era preve-dibile, mise tutti a tacere.

«Forse quando si ascolta la produzione di un arti-sta in un certo periodo della vita, gli si dà un ruolo, unafunzione» disse Bea quando la musica si fermò «Quan-

do cresciamo siamo noi a cambiare, non l’artista. Nonriusciamo a rinunciare alla musica cui ci siamo affezio-nati, ma la nuova produzione non ci soddisfa più». Poisorrise e aggiunse «magari Mario non è ancora cresciu-to».

Parlava quasi sottovoce nel silenzio degli altri, tan-to che si sentiva il braccio meccanico del jukebox in sot-tofondo che trafficava per cambiare il disco.

Tutti si guardarono come per domandarsi «ma co-me ci riesce?».

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III. Due settimane dopo, in ritardo sulle previsioni per

la gioia di Michele, Bea convocò la riunione per lo star-tup del KMS.

«Startup» pensò Michele leggendo l’e-mail di Bea«ma devono proprio usare terminologia anglofona perindicare anche cose banali come l’avvio?». Rispose con«Sarò ready and active per il briefing. Il mio calendar hadato l’okappa».

 Nella sala Giorgio e Manuela parlottavano aspet-tando gli altri, quando Michele entrò con una cartella di plastica blu elettrico in mano. Nella tasca trasparente suldorso, una scritta campeggiava sul cartoncino che dove-va indicarne il contenuto: Il Cdb.

 Ne trasse una decina di fogli stampati e li tenne inmano mentre salutava. «Ciao, che state cospirando?L’omicidio del sergente Bea Palida? Io vi faccio da pa-lo!».

Manuela fece una smorfia e chiese «Perché sei co-sì stronzo?» come se si informasse sul tempo.

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«Sono nato così» rispose Michele passando i foglia Giorgio «date un’occhiata a questo».

Giorgio sedette e cominciò a leggere i fogli di Mi-chele, e Manuela, in piedi, sbirciava alle sue spalle.

Bea era stranamente in ritardo come pure Luca,che però ai ritardi aveva abituato tutti i suoi amici e col-leghi.

«Davvero bello» concluse Giorgio mentre Manue-la gli strappava i fogli dalle mani per finire di leggere.Era un gran complimento da un lettore esigente comeGiorgio.

«Dove l’hai trovato?» chiese alla fine Manuela.«L’ho scritto io» rispose Michele insolitamente

timido.Manuela e Giorgio si guardarono increduli, poi tut-

ti e tre scoppiarono a ridere. Il racconto che avevanoappena letto era uno spasso già così, ma pensavano aquando l’avrebbero fatto leggere agli amici del Salaria ea come avrebbe reagito Mario.

A spezzare il buon umore arrivò Bea. In aziendaindossava sempre tailleur molto sobri che nascondesserole sue generose forme, e si comportava come un ufficia-

le del Bundesheer.«Scusate il ritardo, ma alle risorse strumentali mi

hanno fatto perdere tempo per il…» si rese conto cheaveva interrotto qualcosa.

«Che succede?» chiese, proprio mentre faceva ilsuo ingresso Luca, con un ritardo ai minimi storici: soloquindici minuti.

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«Niente, siamo pronti, possiamo cominciare» disseMichele mentre prendeva i fogli e li infilava nella car-

tellina.«Già, siamo ready…» disse Bea con un sorriso che

non chiariva si divertisse o disapprovasse.Per quasi un’ora li informò sul KMS e sul suo fun-

zionamento, finché dovettero anche un tantino ricredersisulla sua effettiva utilità. Alla fine fu una chiamata diemergenza per Bea che pose fine al supplizio.

Luca stava per andarsene ma Manuela lo fermò«Aspetta devi leggere una cosa…».

«Non se è più di dieci righe…».«È di più, ma ne vale la pena» intervenne Giorgio.Michele gli passò le pagine stampate e rimase a

guardarlo. Se Luca avesse resistito per due pagine sa-

rebbe stato un successone. Di solito leggeva solol’ultima riga persino degli oroscopi. «Tanto è lì che c’èscritta la cosa importante» diceva.

Arrivò invece a finire il racconto, e quando seppeche Michele ne era l’autore gli fece i complimenti.

«Ma come t’è venuto di scriverci un racconto?» glichiese.

Michele si strinse nelle spalle.Luca rise e disse «hai dimenticato di firmarlo. Non

lo farete leggere a Mario?». L’espressione maliziosa de-gli amici rispose per loro.

Davanti alla macchina del caffè che aveva sostitui-to Mario senza ereditarne qualità e simpatia, Michele

tentava di convincere la gettoniera ad accettare le suemonete, dato che sulla schedina prepagata aveva esauri-to il credito. Mentre stava cominciando a odiare tutto il

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mondo della tecnologia, la macchina infernale fece un bip e Michele si accorse che qualcuno dalle sue spalle

aveva inserito una scheda carica.«Ciao, se vuoi ti offro io il coffee break » disse al-

legra Bea enfatizzando le parole in inglese con un per-fetto accento Oxford.

Michele grugnì un ringraziamento e attese che ilcaffè venisse erogato.

«Allora, intendi dirmi quello che facevate in salariunioni prima che arrivassi, o sono esclusa da certe ma-novre?». L’aveva detto di proposito per suscitare unareazione indignata, ma Michele la deluse.

«Sei esclusa, mi dispiace. Grazie per il coffee» ri-spose tornando nel suo ufficio.

Bea era entrata senza un rumore e Michele trasalìquando la sentì parlare. «Non è che voglio impormi oessere invadente, ma lavoriamo insieme e non mi piaceche si faccia comunella alle mie spalle. Volevo solo dir-telo».

Ora che lei stava uscendo dopo quella sparata,avrebbe voluto richiamarla per chiarire che la cosa non

riguardava affatto il lavoro. Ma avrebbe dovuto farleleggere il suo racconto e non riusciva a spiegarsi perchénon gli andava di farlo. Pensò fugacemente che temevail suo giudizio, o la sua derisione, ma…

«Bea…»Si girò sulla soglia, che aveva raggiunto lentamen-

te proprio per incoraggiare Michele a fermarla.

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«Sì?» non le riuscì di dirlo senza affettazione eavrebbe voluto mordersi la lingua. Michele finse di non

accorgersene.«Se hai da sprecare una decina di minuti siediti e

leggi questo» le disse passandole il racconto.Lei prese i fogli e cominciò a leggere.

Il  cantante di  blus I 

«Nun  ce  penza’  proprio!  Nun  ce  vaco!».  Sembrava  un  rifiuto 

indiscutibile ma Maurizio non demordeva. 

«Ci devi andare Pino, ho promesso che ci sarai. Sai che ti serve 

un  po’  di  rilancio  d’immagine,  e  poi  la  richiesta  non  è  facile  da 

rifiutare…». 

Pino stava

 perdendo

 la

 pazienza.

 «Io

 nun

 ce

 vaco

 a na

 specie

 ‘e

 festa ‘e piazza a me sputtana’ … Ho faticato per levarmi da dosso 

l’etichetta di cantante napoletano, e mo che sono un cantante di blues  me  ne  fotto  dell’immagine,  vabbe’?!  E  poi  te  l’ho  detto, porto Laura in vacanza sabato». 

«Non lo puoi fare. Tu hai delle responsabilità, la gente che lavora 

con  te  si  aspetta  delle  cose,  io  mi  aspetto  che  tu  ti  comporti secondo le regole e per il bene comune…». 

«Mauri’… Mauriii’:

 vafancul!».

 

E corse via, senza dimenticare di sbattere la porta. 

«Bene» si disse Maurizio, assurdamente a voce alta visto che era 

rimasto  solo  nel  suo  lussuoso  ufficio  di  produttore  musicale  «e 

mo’ come cazzo si fa?» e fece il numero di Gianni. 

Rispose  al  primo  squillo  come  se  fosse  stato  a  guardare  il telefono in attesa di quella chiamata, e probabilmente era proprio 

così. «Pronto?

 Maurizio?»

 la

 sua

 voce

 tradiva

 un’ansia

 difficile

 da

 nascondere. «Che ha detto?». 

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Maurizio era  in difficoltà.  «E  che doveva dire? mi ha mandato 

affanculo, ha detto che lui è un ‘cantante di blus’ e se ne fotte…». 

«E 

tu, 

glielo 

hai 

detto 

quello 

che 

ti 

ho 

suggerito?». 

«Ma che dovevo dire, non mi ha manco dato il tempo di parlare, se  n’è  andato  sbattendo  la  porta…  senti  dobbiamo  vederci  e 

parlare…». 

«Si, vengo subito… sta cosa s’adda risolvere». 

Maurizio dalla finestra ammirava i colori che il sole pomeridiano 

dipingeva  sulla  città,  ma  il  notevole  spettacolo  non  riusciva  a 

distrarlo  dal  problema  che  lo  attanagliava.  Da  due  anni  ormai 

seguiva questa

 gallina

 dalle

 uova

 d’oro,

 lo

 coccolava

 e lo

 

assecondava,  anche  in  quell’assurdo  progetto  di  creare  una  sua 

casa  discografica  a  60  chilometri  dalla  città,  ma  questa  volta 

avrebbe  dovuto  stare  a  sentirlo.  La  cortese  richiesta  degli organizzatori del PartenopeFestival non poteva essere disattesa 

da nessuno e men che mai da Gianni, ormai  troppo coinvolto  in 

affari con quella che Maurizio chiamava gentaglia. 

«Gentaglia,  si,  però  i  loro  soldi  non  ti  fanno  schifo»  rispose 

Gianni all’ennesimo

 biasimare

 di

 Maurizio.

 

Tutti  e  due  sapevano  che  quello  di  Maurizio  non  era  un  vero 

rimprovero, ma più un voler apparire estraneo a quelle logiche di cui  una  persona  perbene  non  poteva  far  parte.  Ipocrisie  che 

Gianni aveva  imparato ad abbandonare appena uscito di galera, quando scoprì con meraviglia di non essere visto come un reietto, un ex‐galeotto ma come una persona che meritasse rispetto. Da 

allora  i  contatti  con  la  gentaglia  insieme  al  lavoro  di  pubbliche 

relazioni con

 Maurizio

 avevano

 dato

 ottimi

 frutti.

 Ultimamente,

 

però, le speculazioni avventate di Maurizio, e i frequenti scivoloni al gioco di Gianni, avevano messo i due in crisi. Naturalmente, gli amici,  la gentaglia, era  corsa  in aiuto. Tassi da  strozzini, ma  sai com’è, tanto ne veniamo fuori con il nuovo disco di Pino. 

Ora  però  c’era  il  problema  del  PartenopeFestival  ’85  e  quelli volevano  un  nome  nazionale  per  la  gran  serata  di  sabato.  Nel piccolo borgo provinciale del casertano, nessuno avrebbe valutato 

che Pino strideva come un vestito bianco ad un funerale in quella 

situazione. 

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«Gli hai detto che potrebbe ridursi a uno o due pezzi, un saluto, insomma  una  comparsata?»  disse  Gianni  ormai  sull’orlo 

dell’esasperazione. 

«Gianni, ma ti credi che sono scemo? Gli ho detto tutto, si, ma 

non ne vuole sapere… ho passato l’ultima settimana allo studio di registrazione, a casa sua, e oggi nel mio ufficio e tutto quello che 

ho ottenuto è un vaffanculo!». 

Gianni decise che era il momento di chiarire per bene le cose «Tu 

lo hai capito che noi don Salvatore non  lo possiamo contrariare, si?». 

«Oh, ma

 allora

 che

 devo

 fare,

 puntargli

 una

 pistola?»

 disse

 

Maurizio esasperato. 

«Eh…». 

«Che significa eh…, sei  impazzito?» ma  il  tono di Maurizio non 

era convinto quanto apparivano le sue parole. 

«Guaglio’, qua ci stanno due possibilità: o ci va, oppure ci va? È 

chiaro?». 

«Ma che

 fai

 mi

 minacci

 a me?

 E

 io

 che

 ci

 posso

 fare?».

 

«Tu puoi passare al piano B». 

II 

Uscendo  all’aperto  Pino  scoprì  che  nell’ora  che  aveva  passato 

con  Maurizio  lo  strato  di  nubi  si  era  aperto,  e  ora  un  sole 

primaverile  esaltava  la  naturale  bellezza  del  golfo.  Sentì  che  la 

rabbia sbolliva,

 ma

 ancora

 non

 riusciva

 a credere

 che

 Maurizio

 volesse  costringerlo  a  partecipare  al  PartenopeFestival  ’85,  una 

rassegna  di  cantanti  napoletani  che  pretendeva  di  mettere 

insieme  le nuove  leve della musica napoletana con  la  tradizione 

più classica. E  lui? Che c’entrava  lui, che  rispettava  la  tradizione 

quanto odiava le nuove leve, e che non si sentiva parte di nessuna 

delle due categorie? Vaffanculo a Maurizio. Salì  in macchina e si fece portare allo  studio di  registrazione. Meglio pensare a  finire 

l’ultimo 

lavoro. 

O’ 

tiempo 

vola, 

si 

disse, 

ci 

voleva 

ancora 

cchiù 

de na bona  jurnata per finire. 

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Arrivò allo studio ancora agitato, e  i ragazzi che  lo aspettavano 

lo  notarono  subito. Qualcuno  che  lo  conosceva meno,  tentò  di farlo parlare, accorgendosi  troppo  tardi che  in quello  stato Pino 

doveva solo

 mettersi

 a suonare

 per

 potersi

 calmare.

 Tre

 ore

 dopo

 

non erano  riusciti a  risolvere  il problema del pezzo  trainante del nuovo album, che mancava del solito ritmo, e che non prendeva. Pino  non  era  concentrato,  disse  a  tutti  di  andarsene  e  chiamò 

Laura. 

III 

Gianni e Maurizio

 non

 potevano

 costringere

 Pino,

 e non

 avevano

 di che ricattarlo. Non potevano fargli sapere con chi facevano gli affari che consentivano di produrre la sua musica, perché avrebbe 

potuto andarsene o addirittura denunciarli. In realtà la possibilità 

che  Pino  potesse  abbandonarli  era  emersa  troppe  volte  nelle 

ultime settimane, specie in coincidenza con i tentativi di Maurizio 

di  convincerlo  a  partecipare  al  festival.  Questa  prospettiva  era 

disastrosa  per  i  due  soci,  che  ormai  contavano  sugli  incassi  dei 

prossimi 

lavori 

di 

Pino 

per 

rimettersi 

in 

piedi. 

Fu così che Gianni concepì  il piano B. Era tutto molto semplice, niente poteva andare storto. Come si pensa di ogni piano prima 

che, messo  in  atto,  cominci  a mostrare  le  centinaia di  cose  che 

non si erano previste. 

La  risonanza  di  quello  sputo  di  manifestazione  sarebbe  stata 

minima, qualche trafiletto sui quotidiani nazionali e in televisione 

forse  niente:  insomma  massimo  due  giorni  e  se  ne  sarebbe 

dimenticato il mondo

 intero

 anche

 se

 Pino

 avesse

 realmente

 

partecipato. Ora se Pino fosse stato in vacanza… o se… 

«Non può funzionare…» Maurizio era fuori di sé. Gianni insisteva 

su  quella  sua  assurda  idea.  «Non  capisci  che  non  puoi  fare  una 

cosa  simile?  Se  si  viene  a  sapere  io  sono  finito  come 

produttore…». 

Gianni  cercava  di  essere  paziente  «Guarda  che  se  si  viene  a 

sapere, la tua carriera sarà l’ultimo dei problemi». 

«Appunto» scattò Maurizio «lo vedi che mi dai ragione? Non si può fare, non so perché ancora ne parliamo». 

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«Ne  parliamo  perché  si  può  fare  e  si  deve  fare,  non  abbiamo 

altra scelta: se diciamo no alla gente che ce  lo ha chiesto, siamo 

finiti. Se lo facciamo, saremo finiti solo se lo scoprono». 

Due anni prima Gianni aveva messo su un ciclo di audizioni per musicisti. Salta fuori questo tizio che si mette a fare l’imitazione di Pino. Gli somiglia  in maniera  impressionante ed è anche bravino 

con  la  chitarra,  forse  più  che  bravino;  ma  se  vuoi  talento  non 

cercare tra gli imitatori, è un assioma del produttore. Un imitatore 

può avere della tecnica, ma l’emulazione denota una mancanza di fantasia inconciliabile con il talento. Responso: «Divertente e pure 

bravo,  ma  non  ci  interessa».  Per  mesi  il  folle  lo  tampinò  al telefono

 per

 farsi

 riascoltare

 o riparlarne

 nonostante

 Gianni

 lo

 

respingesse, anche  in malo modo. Alla  fine  si arrese, e Gianni  si dimenticò di lui. Finché non rifletté che la cosa poteva essere utile 

per risolvere questo problema. 

«Capisci che non possiamo tenerlo all’oscuro? dovremmo dirgli che non sta facendo un’imitazione, ma una truffa». 

«Lo  pagheremo  bene,  è  un  morto  di  fame.  Fidati  conosco  il 

tipo». Gianni

 era

 risoluto

 per

 quella

 che

 vedeva

 l’unica

 via

 d’uscita.

 

«E’ una  cazzata  colossale. Non possiamo  farlo…» ma ormai  la 

convinzione di Maurizio vacillava. 

«Facciamo  così:  parliamo  con  Gaetano  e  poi  vediamo  se  ti convince». 

Gaetano era il pazzoide imitatore. Gianni l’aveva contattato due 

giorni prima e lui si era detto entusiasticamente disponibile per un 

ingaggio non meglio specificato. Gianni aveva tentennato solo un 

attimo scorgendo,

 nella

 voce

 al

 telefono,

 altri

 segni

 di

 alienazione

 

mentale. Gli aveva  raccontato della sua solitudine di orfano e di reietto dalla società, la cui unica consolazione era Pino, chiamato 

ormai per nome come un amico, l’unico. Diceva poi di avere ormai creato un repertorio tutto suo, ricavato dallo stile di Pino. L’aveva 

tenuto  al  telefono  più  di  un’ora  farneticando  di  scarafaggi, cammelli  e  facce  gialle  protagonisti  dei  suoi  testi  deliranti.  Era 

stato pazientemente  a  sentirlo, ma  si era  ripromesso di non  far 

venir fuori

 la

 sua

 follia

 durante

 il colloquio

 con

 Maurizio,

 fissato

 

per il giorno successivo. 

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Intanto si disponeva ad affrontare un altro problema: i musicisti che dovevano accompagnare Pino non potevano essere  il  solito 

gruppo. D’altra parte anche gli altri del giro  si  sarebbero accorti dello

 scambio.

 Anche

 Maurizio

 aveva

 sollevato

 il problema,

 ma

 

con  scarsa  convinzione,  dato  che  ormai  si  era  arreso  e  si  era 

messo nelle sua mani. 

La soluzione gli arrivò improvvisa, e dopo sembrò così ovvia che 

si  chiese  come  mai  non  ci  avesse  pensato  anche  Maurizio: anplagghed  o  unplugged  o  come  cazzo  si  diceva  in  inglese. Insomma due o  tre pezzi di  chitarra  acustica  a  solo  con  la  voce 

inconfondibile di Pino. 

Tutto  sembrava  risolto,  non  restava  che  l’audizione  con 

Maurizio.  A  Gaetano  ancora  non  aveva  detto  niente  sul  reale 

andamento della serata e intendeva trovare il sistema di farlo con 

tatto,  sfruttando  l’adorazione  per  Pino  che  dall’atteggiamento, sia pur bizzarro, di Gaetano traspariva. 

IV 

«Proonto?». La

 voce

 assonnata

 di

 Laura

 arrivò

 a Pino

 come

 un

 

pugno nello stomaco ad acuire  il suo senso di colpa. Sapeva che 

odiava  essere  svegliata.  «Laura,  so’  Pino»  sussurrò  sperando  di non  sentirla  incazzata  come  accadeva  spesso di  recente.  «Pino, addo  staje?».  «Sto  allo  studio,  non  va  tanto  bene…».  «Umh…» 

Laura  sapeva  metterlo  in  imbarazzo  come  nessun  altra. «Comunque  in  vacanza  ci  andiamo  lo  stesso,  te  l’ho promesso» 

disse cercando un dissenso di cui avrebbe certo approfittato. «Va 

bene, 

chiamami 

domani 

che 

ci 

mettiamo 

d’accordo, 

buonanotte».  Click. Aveva  capito  che  gli  avrebbe  dato  la  solita 

sòla e,  furba, nemmeno  la  risposta aveva aspettato. «Vabbene» 

pensò Pino, «vuol dire che la vacanza me la faccio». Spense la luce 

e chiuse gli occhi. 

«Buonasera» 

disse 

Gaetano 

un 

po’ 

impacciato 

con 

la 

sua 

chitarra 

in mano, mentre si sedeva su uno sgabello troppo alto per la sua 

corporatura.  «Anche  nel  fisico  gli  somiglia  a  Pino»,  pensò 

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distrattamente Maurizio mentre rispondeva con un professionale 

«Buonasera»,  lasciando  a Gianni  il  compito di  chiudere  la porta 

insonorizzata della saletta prove. 

«C’aggia  fa’  ?»  disse  Gaetano,  mostrando  in  fondo  qualche 

differenza  di  linguaggio  e  accento  con  Pino,  che  non  era  un 

principe,  ma  nemmeno  questo  rozzo  scaricatore  di  porto. Maurizio  disse:  «Gianni  le  ha  detto  di  cosa  abbiamo  bisogno. Cominciamo pure col repertorio base». 

I  quaranta  minuti  che  seguirono  scioccarono  Maurizio:  era 

bravo, si, con la chitarra, ma la voce… era da brividi: sembrava di 

avere 

Pino 

davanti. 

Lo 

stesso 

accento, 

le 

stesse 

inflessioni, 

gli 

stessi gesti. 

Maurizio era senza parole e Gianni, anche lui colpito nonostante 

conoscesse  lo  squilibrato,  si  fece  baldanzoso  e  gioviale  mentre 

rientravano nello studio. «Ma si, diamoci tutti del tu, in fondo pare 

proprio  che  lavoreremo  insieme, no?» proruppe  rivolto un po’ a 

Gaetano  e  un  po’  a  Maurizio,  raccogliendo  cenni  d’assenso 

entusiasti dell’uno e distratti dell’altro. 

Gaetano cominciò

 a dire:

 «E

 io

 c’ho

 pure

 dell’altra

 roba,

 mia,

 ma

 

però buona, uguale a quella che fa…». 

«Sì,  sì…»  intervenne Gianni  tempestivo  «poi  vediamo, ma  per questa  serata…  ehm…  dobbiamo  rimanere  sul  repertorio 

standard  di  Pino,  capisci…  ehm…».  Non  sapeva  ancora  come 

l’avrebbe messa, anche se si era fatto un’idea, e aveva per questo 

schivato ogni contatto con Maurizio per tutto il pomeriggio. 

«Senti Gaetano,  io devo parlarti chiaro» disse, mentre Maurizio 

cominciava a muoversi

 nervosamente

 sulla

 poltrona

 di

 pelle

 «devi

 

sapere che Pino è nella nostra scuderia di cantanti, anzi è proprio 

il nostro uomo di punta». «Ma  io  ‘o  saccio»  interruppe Gaetano 

con  foga  «perciò  aggia  venuto  addù  vui…  io  ‘o  voglio 

accanoscere».  «Si,  forse  ci  sarà  modo  anche  di  fare  questo» 

continuò  Gianni,  cercando  di  tenere  a  bada  l’esuberanza  di Gaetano «ma adesso noi dobbiamo risolvere un problema a Pino. Tu sei bravo a fare i suoi pezzi e sembri lui quando canti. Bene, ci 

serve che

 tu

 una

 sera

 lo

 sostituisca

 per

 tre

 o

 quattro

 pezzi

 con

 

chitarra e voce…» Gianni si interruppe vedendo le facce che aveva 

davanti  cambiare  improvvisamente.  Maurizio  era  sconvolto  per 

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l’imbarazzo  di  star  facendo  un  passo  avventato,  ma  Gaetano 

sembrava in estasi. Pallido e stravolto, aveva gli occhi sognanti di qualcuno  che  avesse  raggiunto  un  nobile  scopo  nella  vita:  gli avevano

 chiesto

 di

 impersonare

 il suo

 idolo,

 cosa

 per

 cui

 si

 era

 

esercitato  per  anni,  che  aveva  anelato  da  sempre.  Non  capiva 

ancora  bene  perché,  ma  non  gli  importava  poi molto.  Sarebbe 

stato  Pino  per  una  sera,  quattro  pezzi   chitarra  e  voce,  e  tanto 

bastava. 

Intanto  Maurizio  realizzava  che  in  fondo  la  cosa  non  era  così impossibile;  «chitarra  e  voce»  ripeteva  mentalmente,  e  sempre 

più  si convinceva  che,  si, poteva darsi che  in  fondo ne uscissero 

bene. 

Gianni ormai non  si  fermava più.  «Sai Pino ha un problema  la 

settimana  prossima,  e  non  può  proprio  andare  al PartenopeFestival  ’85,  ma  qualc…»  Gaetano  saltò  dalla  sedia 

urlando  «Partenope  Festivàl?»  era  ormai  in  delirio  e  Gianni temette che Maurizio mollasse tutto, quindi lo calmò e quando fu 

sotto controllo gli spiegò quello che doveva fare. 

Poi gli

 disse:

 «Gaetà,

 tu

 ti

 rendi

 conto

 che

 stà

 cosa

 addà

 essere

 segretissima? Tu  ‘o saje che non si deve far sapere  in giro perché 

se no Pino fa na figura ‘e mmerda?». «Sì, sì, nun ‘o dico a nisciuno, che  so’  scemo?»  e  l’involontaria  ironia  della  domanda  fece 

sorridere  Gianni  e  Maurizio  malgrado  la  situazione.  «Noi  ti paghiamo bene, e poi facciamo in modo che Pino direttamente ti ringrazi…».  «Si,  siiiii» Gaetano  sembrava  un  ragazzino  e  questo 

preoccupò Maurizio sulla sua capacità di tenere il segreto. 

Ma ormai

 era

 fatta,

 e poi

 a chi

 poteva

 raccontarlo?

 Non

 aveva

 amici, ne parenti. L’unica cosa  che  faceva era  suonare  i pezzi di Pino. 

Poi realizzò cosa Gianni avesse detto: «ti facciamo ringraziare da 

Pino»; e come pensava di farlo? 

Si era detto che Pino non avrebbe dovuto saperne mai niente. 

Gaetano andò  via di  corsa per  le  scale dell’antico palazzo  su a 

Mergellina  dove Maurizio  aveva  casa  e  studio,  lasciando Gianni entusiasta e Maurizio inquieto. 

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«Non me  lo hai chiesto ancora» disse Gianni con un sorriso. La 

sua  voce  fece  trasalire Maurizio  che  rispose  con  un’espressione 

interrogativa. «Non mi hai chiesto ancora come facciamo a dirlo a 

Pino e a fargli

 ringraziare

 Gaetano

 per

 la

 collaborazione.

 Tu

 hai

 

paura!». 

«Ma che dici?» Maurizio si  irritava quando  la faccia  ‘malavitosa’ di  Gianni  veniva  fuori,  ma  forse  era  proprio  perché,  senza  mai confessarselo, ne aveva orrore. «Immagino che tu abbia pensato a 

tutto? O no?». 

Gianni prese  la giacca e si avviò alla porta. «O NO?»  ripeté più 

forte 

Maurizio, 

ormai 

in 

preda 

al 

panico. 

Gianni 

si 

girò 

prima 

di 

uscire e, senza una parola, disse tutto. 

Maurizio  rimase  a  pensare,  senza  alcuna  convinzione,  che 

poteva ancora dire che era stato tutto uno scherzo, che non se ne 

faceva niente, e che… ma la faccia di Gianni mentre usciva aveva 

una  sola  spiegazione. E Maurizio non  era  terrorizzato da  quello 

che  pensava  Gianni  voleva  fare,  ma  dal  fatto  che  si  sentiva 

d’accordo con lui che era l’unica via d’uscita. 

VI 

Pino  chiamò  Laura  troppo  presto  e  lei  si  incazzò  di  nuovo. «Perché  non  puoi  chiamarmi  dopo  l’alba?»  urlò  nella  cornetta. «Ma  sono  le  dieci!»  rispose  quasi  scusandosi.  «Uhm…».  «E 

vafancul pur tu» pensò Pino senza parlare. 

Lei  sapeva  che  stava  cercando  di  farle  cambiare  idea  e  che 

voleva 

restare 

lavorare 

per 

‘schiattiglio’ 

non 

gli 

dava 

la 

possibilità  di  sganciarsi.  Se  voleva  tradirla  ancora  col  lavoro 

doveva  farlo  come  al  solito,  ignobilmente,  non  presentandosi all’appuntamento. Lei non l’avrebbe chiamato per qualche giorno 

e poi si sarebbero cercati ancora. La solita routine. Si accordarono 

per partire  alle undici del giorno dopo,  sabato. Pino  si  fece  una 

doccia e andò allo studio. 

Era  solo,  gli  altri  non  erano  stati  nemmeno  chiamati.  Voleva 

risentire 

master 

preparati 

nelle 

ultime 

settimane, 

stava 

per 

staccare il telefono quando squillò. Nessuno oltre Laura, Maurizio 

e  i  suoi  musicisti  aveva  quel  numero,  così  rispose.  «Pronto…». 

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32

«Ué,  Pino,  so  Gianni,  staje  lloco?».  Faceva  sempre  domande 

intelligenti, Gianni. «Si, sto sentendo i master». «Allora mo’ vengo 

e ti do una mano». «Ma una mano a fa’ che? A mettere i nastri?» 

pensò Pino

 irritato

 da

 quell’intrusione.

 «Non

 ti

 preoccupare,

 me

 

ne sto per andare» disse invece, sapendo che comunque lo studio 

di  registrazione  era  pagato  anche  da  Gianni,  e  pareva  brutto 

mandare  pure  lui  affanculo.  «No,  senti,  aspettami  che  ti  devo 

parlare,  ci  metto  dieci  minuti  a  venire»  insistette  Gianni.  Pino 

credeva  che  Gianni  avrebbe  ritirato  fuori  la  storia  del PartenopeFestival e si incazzò «Gianni, senti, se è per quella cosa 

di domani  sera,  io…». «No, no, no. Non  ti preoccupare, avimma 

risolto tutto

 quanto

 con

 gli

 organizzatori,

 non

 c’è

 problema,

 ma

 ti

 

devo vedere un momento  solo dieci minuti». Pino,  sollevato dal non dover riprendere quel discorso rispose «Vabbè, t’aspetto». E 

si rimise le cuffie. 

VII 

Maurizio  non  aveva  chiuso  occhio.  Si  alzò  dal  letto  a 

mezzogiorno 

con 

un 

mal 

di 

testa 

terribile. 

Sapeva 

che 

poteva 

ancora  fermare  tutto.  Aveva  convinto  l’organizzazione  del PartenopeFestival  a  non  pubblicizzare  la  presenza  di  Pino  sui manifesti per fare  ‘na cosa a sorpresa. Quindi  in fondo c’era solo 

da  impapocchiare  una  palla  per  Gaetano  e  trovare  una  scusa 

dell’ultimo momento per don Salvatore, e alla  fine se ne poteva 

uscire  senza  fare danni. Mentre  si costruiva  ste belle  fantasie,  si accorse che ci  teneva di più a continuare a  fare  il dipendente di don Salvatore che a morire, o peggio che a restare a chiedere  la 

carità. Capì

 che

 era

 sempre

 stato

 un

 criminale,

 e che

 non

 faceva

 

differenza  se  si  stava  zitto  e  lasciava  che  tutto  andasse  come 

doveva  andare.  In  fondo  lui  non  aveva  fatto  niente.  E  niente 

voleva fare. Così non fece niente. 

VIII 

«Pronto,  Rafè?  So  Giuvann…  Me  servesse  na  man  a  fa  nu 

servizio… Si

 nu

 servizio

 comme

 chill

 ‘e

 l’anno

 passato…

 Si

 na

 cosa

 

c’adda  scomparì  pe  sempe…  è  pe  stasera…  si… mo  te  vengo  a 

piglà e  jammo… vabbuò… ciao». 

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33

La  luce verde  lampeggiava rapida. Nello studio spesso nessuno 

era  in grado di sentire  il citofono esterno, se non c’era qualcuno 

oltre  i vetri e  le pareti  insonorizzate, quindi c’era una  luce verde 

che segnalava

 che

 qualcuno

 stava

 bussando.

 Pino

 si

 alzò

 senza

 

voglia e andò ad aprire. «Ciao, Gianni» disse quando aprì la porta, notando sulla sua faccia quel mezzo sorriso per cui l’aveva sempre 

avuto  in  antipatia.  Solo  un  attimo  dopo notò  che  non  era  solo. «Pino  ti  presento  Raffaele,  un  collega…».  «Piacere».  «Piacere». Mentre  Pino  pensava:  «E  mo  chist  chi  cazz  è?»  vide  Gianni chiudere la porta e sentì che era finita. 

IX 

Laura  si  era  svegliata  alle  nove  con  grande  sacrificio  e  aveva 

passato la mattina a correre per casa a fare valige. Era sicura che 

Pino  non  sarebbe  venuto,  ma  non  voleva  che,  nel  caso  si sbagliasse,  lui potesse darle  la colpa del ritardo. Alle undici stava 

vicino al telefono aspettando che  lui chiamasse per dirle che non 

se ne faceva niente, ma sapeva che se l’avesse  ‘solata’ nemmeno 

l’avrebbe 

chiamata. 

A mezzogiorno era delusa. 

All’una era furiosa e stava disfando le valige. 

«E  adesso,  signori  e  signore,  la  sorpresa  che  vi  avevamo 

promesso».  Don  Salvatore  aveva  voluto  essere  lui  stesso  a 

presentarlo, nonostante

 la

 sua

 figura,

 tozza

 e malvestita,

 facesse

 pensare più a uno scaldabagno arrugginito che a un presentatore 

di  spettacoli  di  paese.  «Un  cantanto  che  non  servono 

presentazione, lo posso dire… il mio amico Pinoooo». 

Applausi. 

«Sono un cantante di blus…». 

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XI 

La  domenica  mattina  Gianni  era  arrivato  nello  studio  di 

Maurizio, con

 il suo

 solito

 mezzo

 sorriso

 e aveva

 salutato

 allegramente. «Che è sta faccia da mortorio? È andata, no?». 

«Non  voglio  sapere  niente!»  urlò  Maurizio  agghiacciato 

dall’umorismo fuori luogo di Gianni. 

«Già  il  signor  non  c’entro  io, ma  tu  lo  sai  quello  che  abbiamo 

fatto. Pino è partito, noi  continuiamo  ad  avere  i  suoi diritti,  ieri sera don Salvatore era raggiante e ci ha messo  i conti a posto, e 

tra poco arriva  il cretino, gli diamo  i  suoi  soldi e  lo mandiamo a 

casa. Che

 vuoi

 di

 più?».

 

Maurizio aveva la voce arrochita «Pino…». 

«Pino  è  partiiitooo,»  rispose  divertito  Gianni  «non  hai  sentito 

che se ne andava  in vacanza? Beh, ci starà per un bel po’, chi  lo 

trova più? e noi ce ne vediamo bene, ah, aha, ah…». 

XII 

Gaetano aveva passato  la notte a ripensare a quella folla che  lo 

acclamava e  lo chiamava Pino, che cantava  le canzoni  insieme a 

lui.  Era  una  sensazione  indescrivibile,  soprattutto  per  i  suoi limitati  mezzi  espressivi,  ma  lui  continuava  a  volare.  Si  alzò 

troppo presto e uscì per andare da Maurizio e Gianni con un’ora di anticipo. 

Arrivato  allo  studio  non  voleva  salire,  ma  era  impellente  il 

bisogno 

di 

approvazione 

dei 

suoi 

amici, 

così 

si 

avviò 

per 

le 

scale. 

La porta della sala di attesa era aperta. 

Si  avvicinò  timidamente  allo  studio,  con  la mano  raccolta  e  le 

nocche in fuori nell’atto di bussare quando sentì Gianni dire: «Che 

è sta faccia da mortorio? È andata, no?». 

Si  fermò,  temendo  di  interrompere  qualche  importante 

riunione,  ma  non  riuscì  a  trattenersi  dall’origliare.  Non  capiva 

bene, «Pino partito…». 

Poi d’improvviso…

 

Bussò alla porta. 

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«Avanti…» dissero insieme spaventati i due soci. 

«Buongiooornoooo» disse Gaetano, guardandoli con un sorriso 

che 

li 

fece 

gelare. 

Aveva 

un 

lampo 

di 

lucida 

follia 

negli 

occhi. 

«Perché mi guardate accussì? Mica vi faccio niente…». 

Maurizio e Gianni capirono che quello non era più  il cretino dei giorni precedenti, e ne ebbero terrore. 

«Gaetano  i  tuoi  soldi  sono  qua…»  disse  Gianni  sperando  con 

questo  di  riportare  tutto  alla  normalità.  «Nun  te  preoccupà  dei soldi» disse Gaetano «c’è tempo, dobbiamo ancora lavorare tanto 

insieme…». 

«Ma… che

 dici,

 l’accordo

 era

 solo

 per

 ieri

 sera…»

 disse

 Maurizio

 

poco convinto. 

«Ah, si? Sapite io aggia capito tutte cose, e vui mo nun putite fa 

cchiù niente. M’avità  fa  fa a me! Da oggi  in poi  io  faccio  le MIE 

canzoni! AH!». 

Gianni  e  Maurizio  si  guardarono  sbalorditi  e  pensarono 

all’unisono «Stu strunz c’ha futtut!». 

FINE 

«Era solo questo?» disse Bea alla fine.Michele capì perché era stato riluttante a farglielo

leggere. Bea sembrava avere la fantasia di un pesce ros-

so, e questo non contribuiva a rendergliela simpatica.«Sì» disse «E se ora sei soddisfatta, possiamo tor-nare al nostro lavoro».

Percependo il cambio di registro, Bea si alzò e sidiresse verso il corridoio. Quando si voltò vide che Mi-chele la ignorava sfacciatamente.

«Comunque sei davvero bravo» disse «è stata una

 piacevole lettura».

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Alzò gli occhi ma lei era già uscita, lasciandolo adomandarsi come aveva fatto a capire che era lui

l’autore di quel racconto privo di firma.

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IV. Mario sembrava allegro quel giovedì sera al Sala-

ria, quando Luca gli presentò Marcella. Forse dipende-va dalla dimensione folle del suo seno, coperto da untop che faceva del suo meglio, con risultati a dir poco

modesti. Musicista anche lei, professionista affermata,Marcella era uno dei pochi bocconcini  di Luca che ditanto in tanto ricompariva, tanto da far pensare che po-tesse davvero essere solo un’amica.

Però era la sua prima volta al Salaria e Mario nonsi fece sfuggire l’occasione di apprezzarne le doti. Natu-ralmente non risparmiò mediocri battute sulla opportu-

nità che lei suonasse strumenti a fiato, avvantaggiatacom’era dai polmoni e così via, fino a che a salvarli en-trò Michele che se li portò a un tavolo.

«Sei tu che hai scritto  Il cantante di blus?» esordìMarcella prima ancora di salutare.

«Oddio, non vorrai un autografo?» disse Michele

ridendo, un po’ a disagio per il fatto che Luca aveva giàdiffuso la cosa.

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«No, però mi è piaciuto molto. Condivido la valu-tazione artistica su Pino e quindi il movente della storia.

Qualche anno fa ho suonato con lui e quando ho lettodel personaggio di Gaetano, mi è parso quasi di ricono-scerlo. La lingua napoletana va corretta, però, e la storiaha dei punti deboli.».

«Ma dai, è solo uno scherzo, una cosa venuta digetto e finita lì. Non c’è nessuna velleità artistica. Nonla puoi valutare come se fosse letteratura».

«E io al contrario penso che ci sia del talento» in-tervenne Giorgio, che era appena entrato insieme a Ma-nuela e si era avvicinato alle spalle di Michele «Saiscrivere, ragazzo!» disse in una penosa imitazione diJohn Wayne.

«Inoltre io ci ho proprio creduto» aggiunse Manue-la «Vuoi vedere che è tutto vero? Probabilmente lo diràla Gabanelli nella prossima puntata di  Report , citandoticome fonte».

«Quindi lo sapranno altre due o tre persone,» in-tervene Giorgio «e il giorno dopo i giornali parlerannod’altro».

«Allora, l’hai già inviato a qualche editore?» chie-

se Luca come dandolo per scontato.«Ma che, scherzi? A parte il fatto che non credoabbia lo spessore letterario sufficiente, ma immaginaquante querele se solo lo leggesse qualcuno del suo en-tourage? Dai smettiamola e facciamo di questa cosa unuso divertente. Mario!» urlò verso il retro «Posa ilgrembiule e unisciti a noi per un altro giro».

Mario accorse alla chiamata dato che l’ultimocliente rimasto, un tipo tenebroso, se ne stava in disparte

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accartocciato verso il bidone di latta nell’angolo del lo-cale.

Quando tutti, ridendo scompostamente, guardaro-no Michele che si scherniva tentando di negare, Mariocapì. «Nooooo, traditore degli amici! Non potevi farmiquesto!» e prese a lanciare ogni sorta di oggetto contun-dente nella sua direzione.

Dopo un po’ le risate si calmarono, anche quelle diMario, che sapeva stare allo scherzo, e in un momento

di silenzio si sentì il click del jukebox che metteva su undisco di Rino Gaetano.

evasori legalizzati, auto blu, cieli blu, amore blu,

rock and blues NUNTEREGGAEPIU'.

Marcella andò a recuperare il manoscritto stiran-

doselo addosso e poi, come se fosse un’antica reliquia,lo depose nella borsa, suscitando ancora risate per lareazione indignata di Mario.

«Certo immaginate se avesse ragione Manuela»disse Luca, che per primo si era ripreso «magari quelloè davvero un sosia un po’ più grasso, e tutto il resto: checasino scoppierebbe sui giornali. Sarebbe un caso mon-diale!»

«No, dai, sai che fastidio, i giornalisti alla porta, ifan alle finestre. Gli avvocati a dissanguarmi. Non avrei più una vita privata, ooh…» disse Michele in una imita-zione caricata della star snob.

«E sarebbe il meno» aggiunse seria Bea «se fosse

tutto vero, e Gianni e i suoi amici venissero a trovarti, lacosa potrebbe farsi parecchio pericolosa».

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Ancora una volta li stupì. Nessuno capiva com’era possibile che pur parlando a bassa voce, riusciva sempre

a farsi ascoltare da tutti. Persino il jukebox sembravaabbassare il volume per darle ascolto.

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V. Il venerdì mattina, dopo la serata al Salaria, aveva

sempre una partenza difficile. Il mal di testa, che perMichele era un’abitudine ricorrente, quella mattinasembrava voler stabilire un record di intensità e durata.

Il caffè amaro e vari rimedi farmaceutici, non era-no riusciti ad altro che a fargli venire anche un ferocemal di stomaco.

Giorgio entrò nel suo ufficio nel momento in cuistava pensando di andarsene a casa.

«Frattini mi ha detto di darlo a te» gli disse mentre

gli passava un documento. Era un elenco del personaleche avrebbe dovuto iniziare la formazione sull’uso delKMS.

«E poi ti ho messo insieme questi. Te li ho anchemandati via e-mail.» Gli passò un elenco di indirizzi di posta elettronica.

«Che roba è?» riuscì a dire attraverso la coltre che

gli annebbiava gli occhi.

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«Sono indirizzi di editori e di riviste musicali che pubblicano racconti di autori emergenti»

«E cosa dovrei farci?»Invece di rispondere, Giorgio fece un gesto di in-

differenza, come a dire «io te li ho presi, fanne quelloche vuoi»

«Avanti, ragazzi, questa storia la state prendendotroppo sul serio. Non crederai che io mandi il cantante

di blus a qualcuno per pubblicarlo?»«Magari lo mando io a nome tuo»«Sì certo, vorrai fare il mio agente, immagino.

Senti io me ne vado a casa».«Ancora la testa?»«Già».«Non è il caso di andare da un medico?»

«Certo che lo è. Ci penserò».

Raggiunse come per miracolo l’ascensore e pre-mette il pulsante aspettandola ad occhi chiusi. Quandofinalmente arrivò emise un potente sospiro e li riaprì.Dentro l’ascensore c’era Bea che scendeva dal terzo

 piano al primo, dove c’era il centro di calcolo.«Felice di vedermi?».«Sì, e adesso che ti ho incontrata, ho avuto il mas-

simo dalla mia giornata e me ne vado a casa a passareun deprimente week-end»

«Se non vuoi che sia deprimente, puoi venire conme, domani alla intro di pilates»

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«Certo, il pilates mi ha sempre incuriosito! Guar-da, non vedo l’ora» rispose, certo che l’ironia trasparis-

se, mentre le porte del primo piano la lasciavano uscire.«Ti chiamo domattina allora» disse Bea andando-

sene.«Non lo so… vedremo» rispose Michele sottovoce

alle porte ormai chiuse. Era sempre stato il suo persona-le concetto di un rifiuto sgarbato.

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VI. Marcella stava arrivando allo studio di registrazio-

ne a piedi quando cominciò a piovere. Naturalmentenon aveva l’ombrello. Li aveva sempre odiati, ma ades-so ne avrebbe voluto uno per proteggere la nuova custo-

dia in cuoio del suo sax.Entrò nell’edificio di cattivo umore e nell’atrio in-

contrò Gabin, un africano che viveva in Italia datrent’anni, eccellente percussionista, che avrebbe suona-to con loro per sette dei dodici pezzi dell’album a cuistavano lavorando.

«Ciao Marcella» salutò Gabin di ottimo umorementre chiudeva il suo ombrello «sei tutta bagnata!»disse con un sorriso malizioso.

«Gabin! Sempre un acuto osservatore, eh?» sorriselei di rimando «nonché un asso dei doppi sensi!»

«Già, ho imparato dalla migliore… che hai? Sem- bri stanca»

«Ieri sera sono andata in un bar con degli amici eho fatto tardino» rispose Marcella mentre entravano nel-

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lo studio «a proposito ci siamo abbuffati di risate. Holetto un racconto che parla della morte di Pino Daniele e

della sua sostituzione con un sosia mezzo pazzo, negato per la musica…»«Già, doveva esistere una spiegazione per la ro-

 baccia che sta facendo adesso» rispose Gabin ridendo«non capisco come fa a venderla».

«Magari ha anche lui un don Cardamone, solo un po’ più grosso».

Gabin scoppiò a ridere e disse che non poteva im-maginare un essere umano più grosso.

Don Vittorio Cardamone era il loro produttore,manager e promoter. Di lui si diceva nell’ambiente cheera ricco di soldi quanto povero di virtù. Campano, pro-veniente dall’area del casertano, aveva i contatti giusti.Se ti produceva un disco potevi essere certo di un di-screto successo.

Ma era una persona in cui la statura e la culturaandavano di pari passo: era alto un metro e cinquanta.Inoltre pesava oltre centoquaranta chili. Diciamolo pure:non un bello spettacolo.

Vedovo, con il suo unico figlio che aveva studiato

e trovato lavoro negli Stati Uniti, era andato da alcunianni in pensione da capo di un mandamento mafioso delcasertano. Da allora si era dedicato del tutto a questolavoro, che prima faceva solo come copertura.

Gabin, ancora ridendo, si mise a camminare versolo studio dondolando, con le ginocchia flesse e le brac-cia curve in avanti, come per descrivere l’enorme pancia

di Cardamone a Marcella, che non lo aveva mai visto.

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Proprio in quel momento la porta dello studio siaprì e ne uscì Rocco, il chitarrista leader del gruppo, se-

guito da una persona che stava evidentemente accompa-gnando alla porta. Marcella non sapeva chi fosse, ma leappariva molto fuori posto, e le venne un dubbio.

«Marcella, finalmente!» disse Rocco, mentre Ga- bin smetteva improvvisamente di ridere «Ti presentodon Vittorio Cardamone, che ci produce e promuove ildisco».

Marcella salutò imbarazzata, e Gabin ricomponen-dosi, strinse la mano a don Vittorio, che già lo conosce-va.

Questi salutò i due ma, con atteggiamento eviden-temente irritato, chiese cosa mai fosse accaduto per farliridere tanto.

«Ci scusi, ma è colpa di Michele» rispose pronta-mente Marcella per deviare il discorso dalla pantomimadi Gabin.

«Michele?» don Vittorio non capiva. «E chi è Mi-chele?»

«No, guardi è solo una sciocchezza. Una cosa suc-cessa ieri. Niente di importante».

«No, no, ditemi signorì: io so’ curioso» risposedon Vittorio piccato «sapete, a me mi piacciono i fatte-relli divertenti…». Ma non dava l’idea di uno che si di-vertisse.

«Niente, come raccontavo a Gabin» disse, rivol-gendosi a Rocco per sentirsi meno imbarazzata «ieri se-ra ero al Salaria con degli amici, e uno di questi ha tirato

fuori un racconto che ha scritto su Pino Daniele, sullasua presunta morte e sostituzione da parte di un sosia».

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se lo ficcò rapidamente in tasca. Poi con calma raggiun-se la porta dello studio e uscì.

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VII. Lo squillo della sveglia lo colse nel pieno di un

sogno meraviglioso che, come sapeva, di lì a poco nonavrebbe più ricordato. Michele la spense e cercò di re-stare aggrappato a quella fantasia che già si dissolveva

lentamente.La sveglia suonava ancora, e Michele la lanciò

lontano dopo averla spenta inutilmente ancora una volta.Ci vollero parecchi secondi per realizzare che era il tele-fono a suonare.

Si mise a cercare il cellulare, ma la sera prima nonl’aveva messo sul comodino come era solito fare. Dove poteva essere finito? Riuscì miracolosamente ad alzarsie a raggiungere il piccolo tavolo da biliardo che tenevanella sua enorme stanza da letto, e che usava quasiesclusivamente come servo muto.

Trovò il maledetto apparecchio sotto il mucchio diabiti della sera prima. Ancora squillava e vibrava come

un animale pronto a morderlo. Dopo aver premuto di-verse volte il tasto sbagliato riuscì a rispondere mentresi accasciava sul letto «Sì…?».

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«Non dirmi che ti ho svegliato?» Non c’era niente di peggio che sentire dall’altra

 parte una voce attiva e squillante.«Nnho…»«Ma sono le undici e mezzo! Sei davvero pigro

come dicono!»«uhmpf…chii è?»«Sono Bea, dovevamo vederci stamattina. Non vo-

levi vedere la lezione introduttiva di pilates?»Michele ricordò vagamente che Bea una sera alSalaria aveva descritto entusiasticamente questa disci- plina. Era qualcosa come un metodo che spinge all'usodella mente per controllare i muscoli. Ma quandoavrebbe mai dato il suo consenso a essere svegliatoall’alba per una lezione introduttiva?

Mentre cercava le parole più feroci per mandareBea dove meritava, la sentì parlare dal cellulare, che nelfrattempo era scivolato sul cuscino «…va bene io saròallo studio Pilates Rex di via Gambetti» disse col tonoun po’ seccato di chi avesse sprecato del tempo «se vuoivenire la lezione è a mezzogiorno e mezza. Ciao» echiuse la comunicazione senza aspettare risposta.

L’ascensore! Ora si ricordava. Era là che Bea gliaveva fatto quell’invito e lui aveva ‘accettato’. Possibileche non avesse colto l’ironia? Non ci sarebbe andatonemmeno morto.

Si alzò e andò a farsi una doccia.Un quarto d’ora dopo tornò nella sua stanza da let-

to e, mentre si vestiva, si chiese dove fosse via Gambet-ti. Poi ricordò il ristobar che faceva un fantastico aperi-

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VIII. «Insomma che è questo Salaria?»«È una specie di snack bar di Roma, dove si beve e

si mangia».«E ‘stu Michele? L’hai trovato?»«Non ancora, don Vitto’. Datemi un poco di tem-

 po, me lo avete detto ieri sera… e era domenica».«Zicchinè, qua di tempo non ce ne stà. Tu ti devi

muovere. A me ‘ste informazioni mi servono propriosubito!»

«Don Vitto’, state in buone mani, lo sapete. Ho già

organizzato qualcosa. Vi chiamo io, stasera tardi o do-mani mattina».

Don Vittorio chiuse la telefonata senza nemmenosalutare. Ci aveva pensato tutto il fine settimana, ma poila domenica sera aveva chiamato ‘O Zicchinett. Lui gliaveva assicurato che entro il lunedì in tarda mattinata gliavrebbe detto qualcosa, ma questo non era abbastanza.

Doveva saperne di più. Da dove veniva questa storia?Chi l’aveva scritta? Con quali informazioni?

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Se si trattava solo di una coincidenza c’era il ri-schio di suscitare una sgradevole curiosità intorno

all’argomento. Conosceva ‘O Zicchinett da parecchi an-ni ed era uno che ci sapeva fare. L’aveva cresciuto nellasua famiglia, quasi come un figlio.

Il suo temperamento era spesso eccessivo, ma eraun uomo efficiente.

A lui aveva insegnato tante cose, ma la lezione cheriteneva la più importante, era che le informazioni sono

il bene più prezioso che si possa ottenere.E adesso lui doveva sapere.

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IX. «Venite da Silvia stasera?». Michele si era rivolto

a Manuela e Giorgio che prendevano il caffè davanti aidistributori della Teorema.

«Silvia? Chi è Silvia?» Manuela era delicatamentecuriosa della vita privata di Michele, che era capace diessere riservato al limite della misantropia.

Così a ogni nome di donna che Michele pronun-ciava, Manuela si faceva attenta e sorridendo si spinge-va a domande indiscrete, riuscendo sempre a fermarsimolto prima dell’invadenza.

«E dai, ve ne ho parlato. La mia amica cerami-sta…»«Quella che ha fatto i presepi in ceramica nel di-

cembre del 2003, e che ha avuto la menzione di meritoal premio Faenza nel 2005?» domandò Giorgio, inter-rompendolo.

Michele e Manuela si guardarono, poi guardarono

Giorgio e dissero contemporaneamente «Tu non seinormale!».

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In quel momento arrivò Bea e si unì alla risata cheseguì, come sempre alimentata anche dalle giustifica-

zioni che Giorgio accampava per la sua memoria di pre-cisione maniacale.«Che volete da me? Me lo avevi raccontato, e me

lo ricordo».«Ma va! Comunque, sì, è lei. Stasera ha una mo-

stra… insomma una cosa che organizza al Sunrise, unlocale di un suo amico a Torrevecchia. Mette un po’ di

opere in giro, invita persone e si fa pubblicità. Mi hachiesto se porto un po’ di gente. Allora?»

«Stasera abbiamo una festa di compleanno in fa-miglia» rispose Manuela per entrambi, visto che Gior-gio, probabilmente propenso a sfuggire la riunione casa-linga, stava lanciandosi grato verso quell’ancora di sal-vezza. «Non so se ce la facciamo a venire dopo» ag-giunse poi con un gesto definitivo.

«Ci vengo io, conosco il posto» disse Bea.Michele non si mostrò troppo felice della cosa. Da

quando erano usciti dallo studio di pilates, sembravaevitarla. Non che fosse stata una cosa noiosa, anzi la suacompagnia era stata piacevole. Fuori dallo studio, però,

si erano salutati e Michele aveva avuto una sgradevolesensazione di ‘incompletezza’. Avrebbe voluto invitarlaa pranzo, restare ancora un po’ con lei, ma contempora-neamente la trovava troppo pervasiva, quasi travolgente.Questo rapido alternarsi di giudizi lo spaventava un po’.

«Va bene, allora ci vediamo là verso le nove» dis-se mentre la riunione si scioglieva e tornavano al lavoro.

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«Dobbiamo attraversare tutta Roma per andare a

Torrevecchia». Bea era sulla soglia dell’ufficio di Mi-chele. Doveva averlo seguito, invece di andareall’ascensore per scendere al centro di calcolo.

«Sì, la strada è quella» le rispose Michele alzandogli occhi dal monitor.

«Allora potremmo farla insieme, andare con unasola macchina, non ti pare?»

«Ma. . ».«Vengo io a prenderti alle otto?»«Non…»«Mi spieghi che hai? Perché mi eviti? Hai paura di

me?» disse con un sorriso «Guarda che non ti mordo, ameno che proprio non ti piaccia».

Era raro che capitasse, ma Michele rimase senza parole. «Va bene per le otto» riuscì a dire alla fine, men-tre Bea stava già andando via.

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Quando vide la luce sotto la porta di Michele Ma-nara pensò che era un po’ tardi perché uno come lui

stesse ancora lavorando. Era una luce strana, però. Cal-da e non bianca come quella dei neon degli uffici, simuoveva come fosse una torcia accesa.

L’adrenalina cominciò a scorrere copiosa e il vec-chio istinto di segugio gli mise in allerta tutti i sensi.Estrasse a fatica l’arma, con un movimento quasi di-menticato, e si avvicinò alla porta senza far rumore. Sa-

 peva che avrebbe dovuto chiamare la polizia ma, con unrigurgito d’orgoglio, decise che avrebbe chiuso la car-riera arrestando un ladro: un congedo con tutti gli onorie magari anche un premio della direzione.

Dentro sentì dei rumori e qualcuno sussurrò qual-cosa sul fatto che bisognava muoversi perché il vecchioguardiano rincoglionito sarebbe passato di lì a venti mi-

nuti. Erano almeno in due. Tolse la sicura alla pistola.Mentre apriva la porta, si chiese se non stesse fa-

cendo una cazzata enorme. Tenendo puntata la sua Be-retta urlò: «Fermo e mettiti le mani sopra la testa, muo-viti!».

Il tizio che armeggiava coi cassetti dietro la scri-vania alzò lo sguardo sopra i suoi occhialini tondi. Poiguardò allarmato, nascosto dietro la porta aperta daMorrone, il suo compagno estrarre il tonfa, un regaloche lui stesso gli aveva fatto di ritorno da un viaggio inGiappone. Era affezionato a quella specie di sfollagente,dichiarato arma bianca, ma con cui spesso aveva fattograndi danni.

Morrone capì l’errore con un istante di ritardo e,mentre si girava, sentì il primo stud , assieme al «Nooo!»urlato dal tizio con gli occhialini tondi.

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Il secondo colpo gli fu sferrato mentre cadeva manon riuscì a capire dove l’aveva raggiunto. Ebbe appena

il tempo per meravigliarsi di non provare alcun dolore e poi tutto svanì.«Che cazz aje cumbinat? Ma si nu’ strunz!» sbottò

occhialini tondi. «Guarda cca’ che casino! E mo’ chi c’odice a ‘O Zicchinett»

«Ma tu che vuoi da me? nun hai visto ca’ teneva 'a pistola? C’aveva fa’?» rispose ancora scosso il compa-

gno.«Iammuncenne, Facimm ambress!» urlò occhialini

tondi, mentre si affrettava verso l’uscita con in manouna cartellina blu elettrico e il pen-drive da due gigabyteche il suo compagno aveva estratto di fretta dal compu-ter di Michele Manara.

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XI. «No, non è possibile!»«Perché no?»«Non può essere che tu non ti sia mai innamorato,

anche parlando… com’è che hai detto? Accademica-mente?» Bea era divertita dal lessico di Michele, ele-gante quanto inadatto all’argomento, ma era soprattuttoincuriosita dall’atteggiamento recalcitrante che assume-va quando un discorso derivava pericolosamente sul personale.

Michele, dal canto suo, non riusciva a capire come

avevano finito per approdare ad argomenti che lui di so-lito evitava in maniera meticolosa.Bea l’aveva raggiunto a casa sua quasi quattro ore

 prima, vergognosamente puntuale, con il suo lucido new

beetle, auto coerentemente tedesca. Michele era meravi-gliato che avesse scelto una macchina con uno stile cosìevidentemente anacronistico. Sembrava inadeguata a

una professionista della tecnologia.

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Gli era venuto il dubbio che le sue idee su Bea fos-sero viziate da una vena di pregiudizio. Era per lui evi-

dente che tutti gli ingegneri soffrissero di deformazione professionale cronica e di scarso contatto con la realtà.Erano arrivati in venti minuti, ed erano riusciti nel

miracolo di trovare parcheggio a poche decine di metridal Sunrise.

Il locale era pieno di gente. Alcuni sfoggiavano unsorriso inebetito. Michele non sapeva se erano presi da

una lieve forma della sindrome di Stendhal davanti alla bellezza delle opere di Silvia, o se erano solo felici alla prospettiva di bere gratis per tutta la sera. Ma propende-va per la seconda ipotesi.

Presi due bicchieri, avevano iniziato a girare per illocale ammirando le opere di Silvia, ciascuna sapiente-mente illuminata e recante cartellino con data di ‘nasci-ta’ e titolo.

Dopo più di mezz’ora, finalmente avevano vistoSilvia che lasciava un gruppo di persone per dirigersiverso di loro.

Michele le aveva offerto un abbraccio calorosoquanto il bacio che lei, teatrale come sempre, gli avreb-

 be poi stampato su una guancia.Poi le aveva presentato Bea che le aveva fatto icomplimenti sulle sculture, citando anche alcuni titoli esorprendendo Michele, che aveva pensato si annoiasse.

«Grazie per essere venuto» aveva detto Silvia «co-noscendoti non ci contavo proprio»

«Non me la sarei persa per niente al mondo».

«Certo, ma se non avessi avuto compagnia sarestirimasto in pantofole. Scommetto che sei dovuta andare

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a prenderlo fino a casa» aveva risposto guardando Bea,che sorrideva imbarazzata.

«È stata un’idea sua» sparò Michele con foga. Maaveva risposto troppo rapidamente e in tono difensivo, esi era irritato non poco per la sua impulsività.

«Sì, come no!» aveva riso Silvia «Scusate vi lascioun attimo. Godetevi la serata intanto».

Michele si era voltato con intenzioni omicide versoBea, che era rimasta in silenzio, scoprendola a trattenereuna risata.

«Potevi dire qualcosa…»«Se dicevo che ti ero venuta a prendere davvero,

finivo per peggiorare le cose. Ma a quello ci hai pensatotu…»

Michele l’aveva odiata per alcuni istanti prima di

accorgersi che lo avevano solo preso in giro. Alloraaveva deciso che non le avrebbe permesso di continuaree aveva riso insieme a lei.

Il sorriso si era spento quando la sua attenzione siera concentrata su un messaggio che aveva visto affissoin più punti, ma che non aveva ancora letto. Era un av-viso che ricordava ai visitatori che, essendo il lunedì

giorno di chiusura, non sarebbe stato possibile cenare per l’assenza di personale alle cucine.

«Porca miseria!»«Che c’è?» aveva chiesto Bea.«A pranzo non ho praticamente mangiato perché

contavo di cenare qui. Invece guarda…». Michele indi-cava l’avviso.

«L’ho già letto. E allora? Possiamo cenare daun’altra parte».

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Eccola di nuovo. L’ingegnere che legge sempre gliavvisi, che ha tutte le soluzioni. Quanto era irritante! E

 poi, chi l’aveva invitata a cena? Se si fosse potuto cena-re al Sunrise, certo l’avrebbero fatto insieme. Ma ades-so…

«Non lo so, vedremo…» aveva risposto Michelemal celando il suo malumore.

Meno di mezz’ora dopo avevano salutato Silvia esi erano avviati alla macchina.

Michele aveva intanto riflettuto che doveva purmangiare ed erano venuti con la macchina di Bea. Iltempo necessario per farsi portare a casa e uscire dinuovo, sarebbe stato sufficiente a farlo morire di fame.

 Non c’era scelta. Anche questa volta il suo rifiutosgarbato non era servito: dovevano andare a cena insie-me.

«Allora?» aveva attaccato Bea appena seduti inmacchina «Dove andiamo?»

Il fatto che lei desse per scontate le cose che luiaveva rimuginato, stava per irritarlo ancora. Ma deciseche avrebbe smesso di farsi stizzire da Bea. Non leavrebbe concesso quella soddisfazione.

«Non so» aveva detto quasi allegro, e gli era parsodi vedere una punta di delusione nell’espressione diver-tita di lei «Proponi tu, conosci un posto carino da queste parti?»

«Ti ci porto» decise lei.Il ristorante Alverido era poco più che una bettola,

in linea con i posti che Michele di solito frequentava.

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«Non è il posto che mi aspettavo» aveva detto Mi-chele mentre sceglievano un tavolo «immaginavo un

locale più…»«… pratico, da ingegnere» lo aveva interrotto Bea

«Un posto pulito, illuminato al neon, dove si potessemangiare in vassoi di plastica asettica, con quattroscomparti per quattro portate nutrienti e insapori.» Bealo aveva guardato con aria di sfida. Ma sorrideva.

«Non era quello che intendevo» aveva detto Mi-

chele, con tutta l’aria di pensare il contrario. Beal’aveva stupito indovinando i suoi pensieri, ma la serataera solo all’inizio. Anche se Michele non lo sapeva.

«Forse dovresti cominciare a pensare alla gentesenza farti influenzare dal mestiere che fa» aveva ripre-so Bea, decisa a non fargliela passare liscia.

«Ma che dici? Io non mi faccio influenzare perniente. Le persone sono persone, prima di tutto».

«Già. Ma gli ingegneri?»«Sono un po’ persone anche loro, no?»Avevano riso insieme mentre il ghiaccio lentamen-

te cominciava a sciogliersi.Dopo che ebbero ordinato, la conversazione si era

fatta piacevole. Michele era un ottimo ascoltatore e aBea non dispiaceva raccontarsi.

«Io non volevo fare l’ingegnere, è stato un caso.Anzi è stato un ragazzo»

«Un ragazzo?»«Sì, la mia vita è stata scandita dalle mie storie

d’amore. Da ragazzina ero corpulenta, anzi direi deci-samente grassa. A dodici anni ero in seconda media e

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 pesavo settanta chili. Gli amici mi prendevano in girocon la cattiveria che solo i bambini sanno avere.

«Mi innamorai di un ragazzino di terza, ma sapevoche non mi avrebbe mai guardata, grassa com’ero. Deci-si che sarei dimagrita e in tre mesi persi quindici chili.Mangiavo pochissimo e avrei rischiato una diagnosi dianoressia, se all’epoca l’attenzione ai disordini alimen-tari fosse stata quella di oggi.

«Alla fine riuscii a farmi notare, e tra una cosa e

l’altra uscimmo insieme. Ma poi decise che gli piacevaun’altra, e io finii per dimagrire di altri dieci chili per-ché non avevo più voglia di mangiare. Questa storia miha consentito di evitare una prospettiva di obesità dilungo termine. Ancora oggi mi riferisco a lui come almio dietologo.

«Poi ho imparato il tedesco grazie a un ragazzo diIngolstadt, una splendida cittadina della Baviera, in rivaal Danubio. Lo conobbi a una gita con il liceo e mi invi-tò a passare una vacanza da lui. Parlava un po’ di italia-no, ma io cominciai alacremente a studiare il tedesco.Due mesi dopo la vacanza rompemmo, ma il tedesco inquanto lingua mi aveva affascinato di più del tedesco inquanto uomo.

Michele aveva sorriso e fatto un cenno insieme diassenso e incoraggiamento. Si riduceva spesso a quelloil suo contributo ad un dialogo, ma di solito bastava aisuoi interlocutori per sentirsi a proprio agio. Inoltre, lavoce di Bea lo stava rilassando.

«Così passiamo all’ingegneria. Avevo una storia

tormentata con un ragazzo che aveva problemi di ognispecie. Credo fosse uno psicopatico. È passato tantotempo e ancora oggi non so come potesse avere su di

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me un controllo così forte. Screditava ogni mia iniziati-va definendomi una stupida, incapace di raggiungere un

qualunque obiettivo e facendo crollare la mia autostima.Molto tempo dopo, leggendo una enciclopedia della psi-coanalisi, trovai una descrizione sintomatica che gli siattagliava perfettamente, ma non ricordo più quale era ladiagnosi. Lo lasciai tra mille sofferenze e sensi di colpa,e dovendo scegliere il corso di laurea, mi chiesi qualefosse più difficile per me. Scelsi Ingegneria informatica.

E quindi mi trovo ad essere un ingegnere. Non me nesono affatto pentita per la verità».«E adesso?» contrariamente alle sua abitudini Mi-

chele si era spinto a una domanda personale. Si sarebbeinterrogato in seguito sui motivi di quella innocente cu-riosità.

«Adesso, dopo un’altra storia burrascosa, vivo una

felice singletudine»«Singletudine?»«Sì, è un neologismo di mia invenzione» si affrettò

a dire Bea, ricordando l’avversione di Michele per lestorpiature anglofone della lingua. «È una contrazionedi single e solitudine. Felice singletudine, perché non hoattualmente una relazione sentimentale, e perché sonofelice della libertà che solo la solitudine può dare».

«Ma è una cosa di una tristezza infinita!»«Ma no. La solitudine è una condizione ingiusta-

mente sottovalutata. Ci sono solitudini tristi, come quel-le degli anziani abbandonati nelle case di riposo, ma cisono anche solitudini felici e serene come quella di una

 persona, adulta e in buona salute fisica e mentale, chevuole e può fare a meno di un logorante e costrittivorapporto di coppia. Ed è felice lo stesso, anzi di più».

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«Già, è vero. Almeno lo è finché non diventaun’anziana abbandonata in una casa di riposo».

Bea sorrise pensierosa. «Sì, forse hai ragione. For-se si ci sente così bene solo dopo aver metabolizzato lafine di una storia, ma prima che passi il tempo sufficien-te a sentirsi di nuovo davvero soli».

L’aveva fatto di nuovo. Ancora una volta aveva ri-girato un argomento, stavolta tutto suo, e con poche pa-role, pur contraddicendosi, ne aveva colto il senso pie-

no. Michele era così colpito che quasi non l’aveva senti-ta parlare.

«Scusa…?»«Ho detto: Tu, invece?»«Oh, io. Io sono un mandrillo rapace che tenta di

aggredire sessualmente tutto quello che respira. Peraltro

con mediocri risultati, dovuti allo scadente equipaggia-mento e alla senilità precoce che colpisce il mio corpodalla cintola in giù»

«Perché fai sempre lo scemo?»«Se mi riesce così spesso, forse non lo faccio. Ma-

gari lo sono».«No, dai smettila. Io mi sono confessata comple-

tamente. Avrò il diritto a qualche domanda».«Non abbiamo mica preso accordi. Io so ascoltare

senza fare domande, ma mi oppongo, vostro onore, allasupposta reciprocità obbligatoria delle confidenze».

«Certo, ma tu qualche domanda l’hai fatta…» Beasapeva di averlo incastrato.

Quanto mai opportunamente, il cameriere era arri-vato con le loro ordinazioni. Michele si era appuntato

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mentalmente di ampliare largamente i suoi canoni circale mance per quella sera.

«Salvato dalla campanella» aveva detto Bea im- placabile.

Avevano mangiato un ricco ed eccellente antipa-sto, ma Michele finì per non gustarlo appieno, pensandoche la cena sarebbe stata troppo lunga perché il suo at-teggiamento riservato reggesse.

Altre volte si era reso conto che era faticoso man-tenere il riserbo sulla sua vita privata, guai a chiamarla privacy.

«Avevo dodici anni» aveva cominciato mentreBea, meno vorace di lui, stava ancora mangiando «e leiera bellissima, bionda, capelli arricciolati ma non crespi,occhi di un canonico azzurro mare. Ero in vacanza conla mia famiglia e con alcuni altri parenti. Lei la cono-scemmo in spiaggia. Una sera l’accompagnai a casa e la baciai sulla porta, terrorizzato dai rumori che proveni-vano dall’interno. Storia meravigliosa durata venti se-condi: era fidanzata con mio cugino da due settimane eio sarei partito il giorno dopo. Non l’ho più rivista».

«Grande. Hai tradito la fiducia di tuo cugino per

una ragazza che non hai più visto?»«Tradito, che parolone. Un bacetto innocente. Trale altre cose nemmeno lui l’ha più rivista, dopoquell’estate».

«Se ancora te lo ricordi, non doveva avere molto diinnocente»

«Ma era il primo bacio, non puoi dimenticarlo. Poi

ho temuto che glielo dicesse, il che avrebbe significatoun solenne pestaggio da parte del cugino incazzato».

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gamba sulla neve. Quaranta giorni di prognosi. Stap- pammo una bottiglia nel cortile della scuola.

«Lei si chiamava Desia che, come scoprii fatal-mente, era una variante femminile di Desiderio. Imma-gini le elucubrazioni che una giovane mente intrisa difilosofia può fare solo su un nome?

«Anni fa, molto tempo dopo, lessi un meravigliosolibro di Roberto Vecchioni, in cui mi colpì una genialequanto inverosimile etimologia di ‘desiderare’: da de 

che starebbe per giù da, e sidera che sono le stelle;chiedere che dalle stelle scenda qualcosa che si brama.

«Ma un giorno, visto che dalle stelle non arrivavanulla, la invitai a cena. Non so dove trovai il coraggio difarlo, e lei fu fantastica: riuscì a respingermi senza mon-tare un casino, e, soprattutto, senza mortificare il miogesto avventato umiliandomi come sarebbe stato natura-le. Fu davvero in gamba per una ragazza di neanchetrent’anni.

«Io, dato che ovviamente tutti sapevano tutto, di-ventai l’eroe della classe e, via via che si diffondeva lavoce, anche dell’intero istituto. Allora credevo davverodi amarla, ma in realtà erano stati solo quaranta giorni didesiderio.

«Una bella storia che, ovviamente, dovevi rovinarecon la tua conclusione cinica» interloquì lei mostrandoun finto broncio.

«In seguito la rividi in una delle mie librerie prefe-rite. Fu imbarazzante perché era la Lilliput. Era una li- breria del mio paese che aveva un cartello sulla porta

che recitava ‘benvenuti nella libreria più piccola delmondo’. Infatti era circa due metri per due e se ti ci in-

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contravi con qualcuno non potevi nasconderti in un altrocorridoio.

«Lei mi salutò allegramente e mi chiese cosa face-vo, gli studi, insomma le solite cose. Dovetti deluderlamolto raccontandole gli approcci ai più disparati corsi dilaurea, caratterizzati da spumeggianti inizi e repentinicrolli d’interesse. Io sostenevo che questi rovesci fosse-ro prodotti dalla mia istintiva avversione alla continuità,scambiata dai maldicenti per monumentale pigrizia. Lei

si schierò coi maldicenti, naturalmente.«Le raccontai anche della mia malattia e infine ci

salutammo con l’usuale promessa vana di rivederci pre-sto»

«Che malattia?» chiese Bea allarmata.«Io soffro di un male attualmente incurabile: il

morbo di Gutenberg»«Scemo»«Guarda che è davvero una malattia».«Sì, lo so. Anche se non sono ammalata, ho letto

anch’io Giancaspro. Se scrivi pure, devi essere grave».«No, il Cdb è la mia opera prima. In verità, molti

anni fa, tentai di scrivere un romanzo di spionaggio.

 Non ne feci niente quando mi resi conto che non avreb- be funzionato se la protagonista non avesse avuto unastoria d’amore con un altro personaggio. Non ero capa-ce di scriverla e abbandonai il progetto».

«A me sembri bravo»«Forse sono cresciuto, forse mi sei amica o forse

nel Cdb non c’è la storia d’amore, quindi…» 

«In fondo hai avuto le tue storie d’amore, tuttosommato».

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«Non si possono chiamare così. Nessuna di questecose è durata più di qualche settimana».

«La si può definire storia d’amore solo se dura uncerto tempo?» Bea stava alzando il tono.

«Sì, deve essere per sempre» aveva replicato Mi-chele. Ma il tono era ironico. «La verità» aveva aggiun-to poi «è che sono incapace di provare sentimenti alti.Sono sempre come scritti da leggere per me. Una cosaun po’ finta».

«Quindi non ti saresti mai innamorato?»«Insomma, non nel senso accademico del termi-

ne…»«No, non è possibile!»«Perché no?»«Non può essere che tu non ti sia mai innamorato,

anche parlando… com’è che hai detto? Accademica-mente?»

Ed era così che ci erano arrivati.Michele aveva parlato senza rendersene conto,

quasi tra se. Non riusciva a credere che Bea lo avessespinto ad aprirsi fino a quel punto. E nemmeno gli di-spiaceva troppo.

«Ehi? Che fai, vai in blocco? Hai proprio idea cheesista un senso accademico di innamorarsi?»

Michele non si era reso conto di essersi fermato aripensare alla serata passata, quasi a volersi accertareche tutto quello fosse accaduto davvero.

«Ehm, sì» rispose in tutta fretta, come colto in fal-

lo «voglio dire che esistono dei requisiti necessari perogni attività umana. È evidente che a me mancano quelli per l’amore. Nei suoi maggiori momenti di affetto Ma-

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nuela, che ben mi conosce, mi chiama heartless, senzacuore».

«Dici che ha ragione?»«Sì. Ho un gran rispetto per la sua opinione».«Secondo me sbaglia».«Non lo so… vedremo».Diede la sua risposta sgarbata  automaticamente,

senza cogliere l’altro possibile significato del suo ve-

dremo, che aveva provocato in Bea un sorriso di tipodiverso.

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XII. Amilcare Frattini era mattiniero, sebbene pensasse

che la cosa mal si addicesse al grande dirigented’azienda. Forse era troppa degnazione arrivare primadei dipendenti, ma non riusciva a restare in casa una

volta pronto per uscire e, quando era fuori, non sapevadove altro andare se non alla Teorema. Le solite male-lingue dicevano che il fatto che passasse tanto tempo inazienda dipendeva dalla moglie insopportabile, ma si sacome sono le persone maldicenti. Certo, si sa anche co-me sono mediamente le mogli dei grandi dirigenti diazienda.

Prima di lui arrivava solo il custode, Antonio…Morroni o qualcosa di simile, un barese appiccicoso cheFrattini faceva di tutto per evitare, per la sua tendenzaalle confidenze non richieste. La sua era infatti l’unicaaltra auto presente nel parcheggio.

Era già capitato che Morroni o Morrone o comesi-chiamava dimenticasse le luci accese, ma con l’arrivodei tedeschi si era posta grande attenzione agli sprechi, e

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Frattini cominciò a innervosirsi quando vide l’atrio inu-tilmente illuminato.

Il custode non era al suo posto, così salì al piano disopra pronto a chiamare l’agenzia di sicurezza per fareuna ramanzina al capoturno.

Quando passò davanti all’ufficio di Manara notò la porta mal chiusa e il disordine all’interno. Poi vide ilcorpo a terra.

Lo shock fu violento. La scena era impressionante per chi come Frattini non aveva mai visto un cadavere.

Restò fermo per alcuni lunghissimi secondi, finchérifletté sul fatto che non poteva essere certo di trovarsidi fronte a un cadavere. Morrone, sì era quello il nome,magari era solo svenuto.

Fece due cauti passi indietro e percorse il corridoio

cercando un ufficio aperto per chiamare il pronto inter-vento. Fu costretto ad arrivare fino al suo studio e im- piegò un po’ per fare il numero, con le dita esitanti checontinuavano a pigiare i tasti sbagliati. Solo molto piùtardi si chiese come mai non avesse usato il cellulare.

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XIII. «Site duje cretini!» esplose ‘O Zicchinett «Vi ho

mandato a fare un lavoro che pure un ragazzino lo sape-va fare meglio di voi. Nun v’aggia ‘mparat niente! Jate-venne, mo’ mo’!».

Occhialini tondi  era mortificato. Quel deficienteche si era portato dietro era suo cugino e questo rendevala sua posizione ancora più delicata. Ma ‘O Zicchinettgli aveva detto di portarsi l’esperto di compiutèr , e nonconosceva nessun altro che ne capisse qualcosa. Uscì adocchi bassi meditando circa la punizione più adeguata per suo cugino, ma soprattutto temendo quella che sa-

rebbe stata riservata a lui.‘O Zicchinett sapeva essere una vera carogna e

avrebbe fatto quello che andava fatto. Molti anni primalo avrebbero fatto fuori per un errore così, ma se pensa-va di uccidere ogni guaglione malaccorto, nel giro di unmese sarebbe rimasto solo. «Sti’ giuvani d’oggi so’muzzarelle…» pensò.

La vera essenza del gap generazionale va cercatain un fenomeno ricorrente: le vecchie guardie si riten-

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gono sempre più in gamba delle nuove leve, e viceversa.Certo, il fatto che il mondo stia andando in rovina sem-

 bra dar ragione ai primi. Ne aveva combinate tante, O’ Zicchinett, ma tran-

ne piccole condanne era sempre riuscito a cavarsela be-ne. Si era guadagnato quel soprannome quando avevadifeso il figlio di un piccolo boss di quartiere, in una ris-sa durante una mano di zicchinetto, un gioco d’azzardoda marciapiede in cui eccelleva. Il boss lo affiliò solo

 per questo e quando anni dopo il figlio fu ucciso, loscelse come luogotenente.

Quando anche il boss si fu ritirato, a lui rimase ilcontrollo di alcuni piccoli traffici che gli permettevanouna vita agiata.

Ciò nonostante, non rifiutava mai delicati incarichidi indagine come quello, perché, oltre a lauti guadagni,gli permettevano di affermare la sua posizione di esper-to del settore.

Solo che stavolta aveva toppato alla grande.E ora era lì che guardava il telefono senza vederlo

davvero, cercando un modo per spiegare quel casino. «Emo chi c’o dice a don Vittorio?».

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XIV. «Libera!» urlò il biondino col camice bianco aper-

to sul davanti, che sembrava essere il capo.Stumpf!Cinque secondi.«Ancora! Libera!»Stumpf!Michele si ritrovò a pensare ai telefilm ambientati

negli ospedali. Malgrado la situazione, o forse proprio per quella, sentì sopraggiungere un attacco di riso isteri-co, quando pensò che da un momento all’altro qualcuno

avrebbe detto ‘Lo stiamo perdendo! Lo stiamo perden-do!’.

Era arrivato venti minuti prima e già nel parcheg-gio si era accorto che doveva essere successo qualcosadi grave.

Oltre all’unità mobile di rianimazione parcheggiatascompostamente davanti all’ingresso, che da sola indi-cava una normale emergenza, c’erano infatti due pante-re dei carabinieri.

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Uno dei militari, ritto davanti all’ingresso, lo avevafermato e gli aveva detto che non poteva entrare perché

i medici erano ancora dentro.«Io lavoro qui. Che è successo?» aveva chiesto.«Ignoti hanno esperito un furto aggravato

nell’ufficio di un certo Manara, e il custode, che li hasorpresi in flagranza, è stato colpito con un corpo con-tundente che ha attinto al capo».

Michele era stato sul punto di ridere, perché nonaveva realizzato subito il significato di quelle parole,nascoste dietro un lessico da verbale che il carabinieresfoggiava soddisfatto.

Quindi aveva tentato di entrare e, alle protestedell’appuntato Govoni, così si chiamava come lesse dalvelcro sulla sua uniforme mimetica, aveva detto chi erae che voleva entrare a vedere.

«Poteva dirlo subito, dottor Manara» aveva rispo-sto ansioso Govoni «salga presto, il signor tenente e ildottor Frattini la stanno cercando da un’ora».

E così si era trovato davanti alla porta del suo uffi-cio a guardare i tre col camice bianco affaccendati ac-canto al corpo di Morrone.

Paradossalmente quel corpo disteso, con la camiciadella divisa aperta evidentemente di fretta, la carnagionecerea coperta da una scarsa villosità, le gambe ancorascomposte da quando dovevano averlo messo supino,sembrava essere diventato più piccolo, ristretto in unesiguo accenno dell’omaccione bonario che incontravaogni mattina.

Morrone era una persona priva di cattiveria, a cui piaceva magnificare un passato forse misero di poliziot-

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to, per giustificare un presente reso ancor più opacodall’età e dalla pinguedine.

 Nonostante il suo servilismo untuoso, il suo appa-rire sempre affaccendato a realizzare un imbrogliuccio,Morrone aveva la generosità tipica dell’uomo del sud e,se lo credeva giusto, era davvero disposto a dare molto più di quanto non ricevesse.

Per questo a Michele piaceva molto.«È lei il dottor Manara?» la voce era profonda,

emessa con l’intento di mettere a disagio l’interlocutore,ma con risultato di essere solo scarsamente udibile nellaconcitazione del momento.

«È lei il dottor Manara?». E forse nemmeno sta-volta Michele l’avrebbe sentito, preso com’era dallascena.

Ma appena un istante prima uno dei camici bian-chi, ancora il biondino forse, disse «è stabile!», evocan-do ancora memorie di serial televisivi.

Era seguito un silenzio rilassato, nel quale avevatrovato modo di infilarsi la domanda.

Quando Michele si voltò, per vedere chi aveva par-lato alle sue spalle, si ritrovò davanti un quarantenne

dinoccolato, in un abito che aveva visto tempi migliori,con due baffi alla Vincent Price, che non riuscivano adargli l’aria distinta per cui forse li aveva lasciati cre-scere.

«No» rispose «cioè sì, sono Manara ma non sonodottore» disse con un sorriso.

«Non faccia lo spiritoso, dottor Manara, qui la co-sa è seria. Venga con me» rispose, mentre gli indicaval’ufficio di Manuela che era accanto al suo, e che

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l’autorità aveva con tutta evidenza eletto a quartier ge-nerale.

«Si accomodi. Sono il tenente Ciotoli» disse men-tre prendeva un block notes.

«Piacere».«Allora lei è il dottor Michele Manara, che ha in

uso l’ufficio qui accanto?»«Insomma, sì. A parte il dottore… sa, io…»

«Bene, bene. Allora cosa mi sa dire di questa sto-ria?»«Cosa vuole che le dica, sono appena arrivato?

Anzi, io volevo sapere che è successo. Morrone…»«Lasci perdere, dottore! Qui la cosa è grave. Dob-

 biamo capire cosa i ladri volevano dal suo ufficio, peravere un’idea di come indirizzare le indagini.» Prese

una matita malconcia e disse «Allora, cosa hanno pre-so?»

«Senta» quasi urlò Michele, che si stava irritandooltre ogni limite «Io sono arrivato adesso, mi sono af-facciato il tempo di vedere cosa stava succedendo aMorrone, e non ho certo potuto vedere cosa manca. Ioso solo quello che mi ha detto quel suo collega davanti

alla porta. E per l’ultima volta: non sono dottore!»«E va bene, si calmi» disse con un sorriso forzato

il tenente «Il collega alla porta? Govoni… buono quel-lo! Parla come scrive, e fa malissimo entrambe le cose.Pensi che sua moglie è laureata. Strana la vita: la moglieintelligente e il marito carabiniere. Che le ha detto?».Michele non poté evitare di condividere il parere del te-nente su Govoni, ma questo non gli fece cambiare umo-re.

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«Posso andare a vedere l’ufficio?» chiese, con piùgarbo di quanto avesse voglia di usare, invece di rispon-

dere alla domanda.«Prima qualche altra domanda: dunque, lei ammet-

te di essere andato via da questo edificio ieri alle18.43?».

Per il vero carabiniere la gente non dice, riferisce,racconta o rivela. La gente ammette, quando proprionon confessa.

«C’è il marcatempo, ma sì, era più o menoquell’ora».

«Bene, e che ha fatto dopo?»«Va bene tenente, adesso basta. Io vado a vedere il

mio ufficio, e se vuole fermarmi dovrà arrestarmi»«Dottor Manara, la prego… i colleghi della scien-

tifica stanno ancora facendo i rilievi. Non potrebbe en-trare comunque, quindi perché non facciamo ancora duechiacchiere? Circa il dirmi dov’è stato ieri sera, non de-ve sentirsi offeso. Dovrò chiederlo a tutti i suoi colleghie a chiunque fosse coinvolto in questa faccenda, anchesuo malgrado. Ho un’indagine da fare. E prendo sul se-rio il mio lavoro».

Michele quasi si pentì di essersi arrabbiato. In fon-do il tenente stava davvero solo lavorando.

«Va bene sono andato a casa ho fatto una doccia e poi sono andato a una mostra di ceramiche a Torrevec-chia»

«Era in compagnia?»«Certo che lo ero: il locale era pieno!». Di nuovo

lo irritava questo interrogatorio, ma aveva previsto ladomanda. E non capiva perché il tenente insistesse sulle

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sue cose personali per un fatto accaduto nel suo ufficio.In realtà, pur se non riusciva a spiegarsi il perché, era

restio a dire di essere stato in compagnia di Bea.«Io intendevo… va bene, lasciamo andare per

adesso. Fino a che ora si è trattenuto?»«Fino all’una e mezzo, poi sono tornato a casa. È

soddisfatto?»«Si, dottor Manara. Andiamo a vedere se il dottor

Frattini si è ripreso e poi passiamo in rassegna le suecose».

«Ripreso?»«Sì, il medico gli ha dato un tranquillante. Sa è sta-

to lui a scoprire il fatto e a chiamare. A proposito, èsempre così mattiniero?»

«A lui l’ha chiesto?»

«Lei è un testimone ostrico, lo sa?»Michele, con grande sforzo, si trattenne dal ridere

allo strafalcione, ma la cosa servì a mitigare la sua irri-tazione, al punto che sorridendo disse «Sì, lo so. Sonofatto così».

«Sa come sono fatto io, invece?» disse il tenenterispondendo al sorriso con una risatina «Uso ostrico in-vece di ostico, dal latino hosticum, che vuol dire ostile,e che deriva da hostis, cioè nemico, così i miei testimonidiventano meno ‘ostrici’. Parlando senza divisa, che fa 

dottor Manara, me lo dice se Frattini è mattiniero, ono?»

Michele rimase un momento sbalordito. Poi scop- piò in una risata, che lo liberò un po’ anche dallo stressdegli avvenimenti della mattina. Alla fine disse «parlan-do senza divisa, lei lo sa che è proprio uno str…»

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«Si lo so, sono fatto così, Michele. Ma questa caz-zata del latino, te la spiego. Un mio superiore quando

ero allievo ufficiale, la sparò a un tizio sotto interrogato-rio, e funzionò. Io la imparai a memoria e quasi sempreriesce. Io mi chiamo Sandro». Gli tese la mano sorri-dendo.

«Va bene, e Sandro sia» disse Michele stringendo-la «Sì, Frattini è sempre il primo ad arrivare e l’ultimoad andarsene. C’è chi pensa che lo faccia perché, oltre

che casa sua, non ha un altro posto dove andare e a casaha una moglie terribile». Non poteva credere di averlodetto. Lui che rivelava a uno sconosciuto, per quantofosse un carabiniere che lo stava interrogando, un pette-golezzo sul suo capo. Questo Sandro non era solo unostronzo, ma era anche uno stronzo molto bravo.

«Andiamo a dare un’occhiata al tuo capo, è sul di-

vano nel suo ufficio».

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XV. «Pronto?»«Vieni qua!»Click!

Anche se la sua voce era filtrata dall’apparecchiotelefonico, la tensione era tangibile: il tono di don Vitto-rio non ammetteva repliche.

‘O Zicchinett si rese subito conto che la notizia delcasino che era successo lo aveva già misteriosamenteraggiunto, e che lui non l’aveva presa affatto bene.Adesso gli toccava andare da lui e cercare di rimediare.

«Di quello che gli devi fare a quei due stronzi ne parliamo dopo» esordì don Vittorio, senza nemmenosalutare, appena O’ Zicchinett entrò nella sala dei libri.

La stanza in cui don Vittorio riceveva gli ospiti eraimmensa. C’era una libreria antica che copriva per inte-ro le alte pareti, e conteneva una raccolta di volumi rari,il cui prezzo esorbitante era la sola cosa che don Vitto-

rio conoscesse di quelle perle dell’editoria.

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‘O Zicchinett teneva gli occhi bassi e aspettava chedon Vittorio sfogasse la sua rabbia senza interromperlo.

«Ma come cazzo ti è venuto in mente di mandaredue cretini a fare una cosa per me? Non te lo pensaviche potevano fare casino? Che hai da dire, sentiamo?»

«Don Vitto’, io non potevo immaginare; gli avevo pure detto le abitudini del guardiano, ma quello è passa-to prima…». Si trattenne dal difendere i due deficienti,su cui anche lui aveva espresso opinioni non certo lu-

singhiere.«Sai che sei? Un dilettante del cazzo! Avanti mo’

dimmi che abbiamo ottenuto».Un po’ più a suo agio, ‘O Zicchinett fece la sua

analisi di quello che aveva potuto sapere «Questo Mi-chele, Michele Manara, nella Teorema non abbiamo ca- pito bene che fa. È uno che organizza non so che attivi-tà. Dentro a una cartellina blu abbiamo trovato unastampa del racconto, uguale a quella che tenete voi, esul computer c’era l’originale. I ragazzi hanno fatto intempo a prenderlo e a scassare il computer. Poi è arriva-to il guardiano…»

«E hanno fatto un casino…»

«Sì. Nella cartellina comunque c’erano appunti e biografie scaricate da internèt».«Internèt?»«Sì, insomma col computer, ricerche…»«Porca puttana, questo ha fatto proprio ricerche».‘O Zicchiett stava per esplodere. Era curioso di ca-

 pire, ma anche deluso di non essere stato messo a partedi quello che doveva essere un problema serio per donVittorio.

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«Don Vitto’ voi mi dovete dire che cazzo sta suc-cedendo. Che ve ne importa a voi di che scrive stu’

scemo di Manara?»«Guaglio’ la storia è lunga e non tengo proprio vo-

glia…»«Eh, no, don Vitto’!» ‘O Zicchinett si chiese se

non stesse esagerando, mentre le parole gli scappavanodette senza alcun controllo «Non è giusto. Voi mi avetetrattato come un figlio, e io a voi come un padre. Perché

mi volete tenere fuori?»Don Vittorio lo guardò negli occhi e vi lesse una

sincera delusione. Si chiese se non lo stesse davverotrattando ingiustamente. In fondo l’aveva trovato sem- pre al suo fianco nei momenti più difficili della sua vita.

«Zicchiné tu sei un bravo ragazzo. Fammi averealtre informazioni, qualche fotografia, insomma già sai.Ma stavolta devi fare tutto tu e per bene, hai capito?»

«S컫Mo’ sono stanco, ma in questi giorni vieni qua,

mi porti ‘ste notizie, ci sediamo, ci beviamo una botti-glia di whiskey e ti racconto la storia. Mo’ vattenne,va’!»

‘O Zicchinett non fu soddisfatto di essere pratica-mente cacciato, ma la confidenza con cui don Vittoriogli aveva parlato e la promessa, che di certo avrebbemantenuto, di metterlo al corrente, furono sufficienti perché uscisse a testa alta da quella enorme casa.

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XVI. Frattini era ancora sul divano e, seppure mostrava

un colorito pallido, sembrava calmo e controllato.«Ah, Manara, è arrivato finalmente! L’abbiamo

cercata ovunque…»«Il mio cellulare era acceso…»«Sì, immagino. Ma abbiamo provato al numero di

casa» rispose Frattini, svelando il significato che aveva per lui l’avverbio ovunque.

«Dottor Frattini» intervenne il tenente Ciotoli «Selei volesse andare a casa, non si preoccupi. Ho già ver-

 balizzato la sua dichiarazione…».«Proprio uno stronzo, non c’è che dire!» pensò con

un sorriso Michele.«Non è il caso. È mio preciso dovere restare a di-

sposizione sua e dei dipendenti dell’azienda».«Bene, bene. Allora se lei potesse farmi avere la li-

sta dei dipendenti di cui abbiamo parlato, con gli indi-rizzi e i numeri di telefono, le sarei davvero grato».

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«Sì, credo che gli impiegati siano già arrivati, ma ilsuo sottoposto alla porta non fa passare nessuno. Appe-

na fa salire la mia segretaria le faccio stampare tutto».Al tenente non sfuggì il riferimento al sottoposto,

che gli diede modo di capire ancor meglio con chi aves-se a che fare.

«Ah, l’appuntato Govoni! Gli avevo detto che unavolta partita l’ambulanza poteva far salire tutti. Lo ri-chiamo immediatamente con la radio»

«No, non è il caso. Faccia pure quello che deve.Oggi non è un normale giorno di lavoro».

«Allora io e Michele, il signor Manara, andiamo avedere cosa hanno portato via dall’ufficio. La terrò ag-giornata».

«Grazie, tenente».

«Antonio, hai finito?» Ciotoli si era rivolto al col-lega della scientifica, per cui sembrava avere una certaantipatia.

«Sì, tutto a posto, signor tenente. Fotografie, im- pronte, tracce e segni. Abbiamo tutto» rispose mentremetteva a posto i suoi attrezzi in una valigetta di allumi-

nio.«Che ha detto il medico?» chiese Michele «Come

sta Morrone?»«L’hanno portato via in coma. La prognosi è riser-

vata e sembra fosse una cosa grave. È rimasto a terra perotto o nove ore, con un trauma cranico e una commo-zione cerebrale. Io adesso andrei. Le raccomando diusare l’FPS che le ho lasciato con tutti quelli che inter-roga».

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«Sì, mi ricordo. Vai, che qui dobbiamo ancora co-minciare»

«Cos’è un FPS?» chiese Michele appena li lasciòsoli.

«È questo» disse Ciotoli estraendo dalla tasca unapparecchio grande come un pacchetto di sigarette. Eraun aggeggio elettronico con un display lcd, una piccolatastiera e una piastrina metallica al centro «si chiamafingerprint scanner, FPS. Ci serve per prendere le im-

 pronte a tutti quelli che possono essere stati qui dentro,in modo da riconoscere eventuali impronte estranee. Na-turalmente vi chiederò una autorizzazione formale».

«Capisco» rispose distratto Michele che avevacominciato a guardarsi intorno nella confusione. Stavasperimentando il senso di oltraggio che provano le per-sone che subiscono un’invasione degli spazi personali.Era il suo ufficio, non la sua casa. Ma comunque sentivamontare la rabbia per quello che ignoti avevano esperito là dentro. Senza contare quello che avevano fatto a Mor-rone.

«… secondo te, invece?» Ciotoli stava parlando egli aveva rivolto una domanda ma lui non lo avevanemmeno sentito «Michele? Stai bene?».

«Sì, scusami. Stavo guardandomi intorno. Non rie-sco a capire se manca qualcosa. Dovrò fare un rapidoinventario, ma mi sembra che non abbiano preso nulla».

«Forse il custode li ha interrotti troppo presto»Michele in realtà sentiva che qualcosa era fuori

 posto, ma non riusciva a capire cosa.

Poi il suo sguardo si posò sul vecchio classificato-re che non usava da anni e che teneva solo come pezzo

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d’arredo. Era aperto ed era stato evidentemente frugato,ma non conteneva che vecchie carte inutili. Alla Teore-

ma  tutti i documenti erano elettronici ormai da anni.L’unica cartelletta nuova che doveva esserci era bluelettrico e aveva un’etichetta con la scritta ‘Il Cdb‘ nellatasca trasparente. Ma non c’era più.

Forse era finita sotto la scrivania. Forse l’avevano presa per il colore così evidente, o per la scritta incom- prensibile. La fretta con cui si diede quelle spiegazioni

non gli piacque. Senza capire bene il perché, decise di pensarci quando il tenente se ne fosse andato.

«Michele? Sei sicuro di star bene?»«Sì, scusa; sono solo un po’ scosso» ammise Mi-

chele, dicendo quasi tutta la verità.«Te la senti di fare un inventario, mentre io cerco i

tuoi colleghi e faccio un primo giro di colloqui?»«Certo, ce la faccio»«Va bene, allora ci vediamo qui tra un paio

d’ore?»«Sì, va bene»Il tenente chiuse la porta uscendo, ovviamente allo

scopo di lasciare a Michele la tranquillità per fare

l’inventario. Ma Michele ebbe comunque la strana im- pressione che quel gesto fosse come un cortese solleci-to: ‘non muoverti da qui! Quando torno ti voglio trova-re!’. Rimase infastidito da quella porta chiusa per tutto iltempo necessario a realizzare che, per quanto assurdo, iladri gli avevano rubato il racconto e nient’altro.

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XVII. Don Vittorio alzò la cornetta. Doveva chiamare

sempre un paio di giorni prima. Lui doveva organizzar-si, doveva programmare le cose per giustificare una vi-sita a casa sua.

Prima di sabato non l’avrebbe visto. Ma dovevametterlo al corrente.

«Pronto?»«Ciao, sono io»«Ue! Ciao. Che è stato?»«Ti devo vedere. Puoi venire?»

«Mo’ sto a Formia. Posso liberarmi per lunedì.»«No, devi venire più presto»«Problemi?»«Quando vieni ti spiego»«Va bene. Ci vediamo sabato mattina?»«Va bene, ciao»

«Ciao».

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XVIII. Michele cominciò a riordinare le vecchie carte nel

classificatore, ma quella più recente risaliva a oltre diecianni prima. Dopo qualche minuto le raccolse cosìcom’erano e le ficcò nel cassetto più grande, con unafoga che lo sorprese. Poi, con scatti nervosi, iniziò a ri-mettere a posto il resto dell’ufficio. Si faceva di nuovolargo l’indignazione per quella violazione, una reazioneallo shock che è spesso sproporzionata al danno subito.

In fondo poteva stamparne un’altra copia. Mal’interrogativo era Perché?. Perché commettere un rea-to, che l’eventuale morte di Morrone poteva far diventa-re un omicidio, per rubare un racconto che se mai aves-se avuto un valore letterario, di certo non aveva alcunvalore commerciale?

Era tutto più o meno in ordine quando rifletté dinuovo sulle sue possibilità di fare una nuova stampa.Guardò il suo computer. Capì qual era un altro dettaglio

che lo disturbava: il mouse era sul lato sinistro della ta-stiera. Lui usava il mouse con la mano destra e lo tenevaa destra della tastiera.

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Gli ignoti  avevano esperito  anche un uso illegaledel suo computer.

Mise a posto il mouse mentre lo accendeva.Biiip.‘Il computer non è stato spento correttamente. È

necessario effettuare una scansione del disco per even-tuali errori. Al termine della scansione il computer siriavvierà. ‘

Pensò che nella fretta dovevano aver spento ilcomputer per nascondere cosa stavano facendo, ma nonc’era stato tempo per la procedura di arresto. Sperò chela cosa non avesse provocato danni mentre attendeva lascansione.

Bip.‘Riavvio del sistema in corso’

Biiip.‘Il computer non è stato spento correttamente. È

necessario effettuare una scansione del disco per even-tuali errori. Al termine della scansione il computer siriavvierà. ‘

A questo punto Michele capì che i danni dovevanoesserci stati.

In quell’istante entrarono Bea e Manuela.«Michele?» dissero all’unisono «ma che è succes-

so?»«Una classica visita dei ladri» rispose, con una fin-

ta allegria che non ingannava nessuno.«Notizie di Morrone?» chiese Manuela.

«È stato portato via da qui in coma. Non ho saputoaltro».

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«E qui? Oltre a corrompere il tuo sistema operati-vo, che hanno preso?». Era Bea che guardava il compu-

ter con occhio professionale «adesso dovrai farmelo ri-kittare»«Richittare?» Michele stava già per riscaldarsi.«Sì, insomma bisogna rimetterci il kit del sistema

operativo, completo di tutti i tool necessari, secondo il protocollo che abbiamo coi tedeschi della Treue».

«Ma è bellissimo!» intervenne Manuela «Ri-kit-tare, un’importazione d’effetto».

Michele stava per dare di stomaco. E non si diedela pena di nasconderlo.

«Che cos’hai?» chiese Bea, ignara di essere stata,coi suoi creativi neologismi, causa della sua reazione.

«Potrò riavere i miei dati?» chiese invece di dare

inutili spiegazioni.«Hai fatto un backup sulla NAS di recente?»«E basta! Ma proprio non puoi fare a meno di tor-

turarmi con sigle e termini tecnici anglofoni, orribilmen-te italianizzati? Non posso crederci! Rikittare!! Ma tirendi conto?» quest’ultima domanda era rivolta a Ma-nuela, che se la rideva pazzamente, anche per

l’imbarazzo che Bea mostrava a quella sfuriata. «Tra poco mi dirà che avrei dovuto scannare  i miei files, e poi draggarli e dropparli sulla backup unit ».

Bea stava per sorridere, pensando che erano pro- prio quelle le parole che voleva dire. Poi decise che erameglio un altro approccio «Se non hai un backup, è me-glio non rimetterci il sistema. Se vuoi posso tentare direcuperare i tuoi file prima…»

«Te ne sarei grato» interruppe Michele.

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«Ok, ragazzi vi lascio, devo trasferirmi da un’altra parte, visto che il tenente mi ha fregato l’ufficio per gli

interrogatori. A proposito, io ho finito dieci minuti fa.Tu, Bea? Già fatto?»«No, quando mi hanno chiamato ero giù nel centro

e sono andati avanti. Mi chiameranno più tardi, credo».«Ok, a dopo».«Ciao» le dissero Bea e Michele contemporanea-

mente mentre usciva.«Senti» cominciò Michele, dopo qualche istante di

silenzio imbarazzato «Sandro, cioè il tenente Ciotoli, miha chiesto cosa ho fatto ieri sera».

«Sì? E tu che gli hai detto?»«Che gli dovevo dire? La verità! Che sono andato

alla mostra e che poi sono andato a casa».

«Non gli hai detto che ero con te?»«Non me l’ha chiesto».«Se te ne vergogni…»«Ma che dici? Era per non… insomma…»«Non…?»Bea sembrava arrabbiata, ma in realtà se la godeva

a vedere Michele, generalmente così padrone di sé, in-cartarsi cercando di non dire la cosa sbagliata.«Niente, lascia stare».«Sì, bravo. Lascia stare. E se te lo chiede? Glielo

dirai al tuo amico Sandro che eri in compagnia? Equando lo chiederà a me? Cosa gli devo dire?»

«Non lo so… vedremo. Insomma, che si può fare per i miei dati?» disse tentando si cambiare discorso.

«Ma davvero non hai un… archivio di riserva?»

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Michele sorrise, grato per quella traduzione «Sì,l’ho fatto la settimana scorsa, ma… insomma è una

sciocchezza… lasciamo stare».«Cosa?»«Era rimasto fuori solo quel racconto, il cantante

di blus. L’ho scritto dopo il salvataggio… mi piaceval’idea di conservarlo. Sono due file: il racconto e degliappunti»

«Oddio, non ne hai un’altra copia? No, certo! chescema, non staremmo parlandone se l’avessi, scusa.Senti vado a prendere la mia valigetta e vengo. Ho untool… uno strumento di recupero nuovo fatto perl’informatica forense. È un vero portento».

«Possiamo fare una analisi dell’history e del regi-

stro per capire quali sono state le operazioni effettuatedall’ultimo backup.» Bea era tornata con la sua valigettadei miracoli, e ora cercava di spiegare a Michele i passiche stava per compiere. «Poi recupereremo tutti i filecreati o modificati da allora».

Dopo aver trafficato alcuni minuti con i suoi stru-menti disse «Allora, qualcuno è entrato e ha fatto un la-

voro da dilettante: ha flattato… Senti prima di continua-re devo dirtelo. Non posso lavorare traducendo il miolinguaggio per farti piacere. Se s’è qualcosa che non ca- pisci te lo spiego, ma i termini tecnici sono questi, e sesono acronimi o anglofoni o storpiature, ti arrangi fin-ché non ti risolvo questo problema, chiaro?»

«Sì, sì, certo. Non sono integralista come sembro.

Continua».

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«Allora… ti hanno flattato il disco, distruggendo laFAT, cioè l’indirizzario dei file. Ma i file che cerchi ci

sono ancora e possiamo recuperarli. La cosa interessan-te, però, è che le attività recenti mostrano che qualcunoha spostato proprio questi due file in una unità removi- bile… a meno che non l’abbia fatto tu, ieri, prima di an-dar via…»

Michele sentì una scarica di adrenalina e mentìquasi spontaneamente «Sì, devo averli spostati sul mio

 pen drive. Ma forse poi li ho cancellati anche da l컫Ok, allora li recupero, te li invio sulla mail perso-

nale, e poi rikitto».Dopo l’invio dei file Bea lanciò il rikittaggio, o ri-

kittamento, o come mai si poteva chiamare quella ope-razione di ripristino, ma ancora non era convinta circa ilsenso che aveva quel gesto. «Non capisco perché di-struggere i tuoi dati… un lavoro frettoloso, inoltre. Cosavolevano ottenere?»

«Non può essere un caso? Non può essersi guasta-to da solo?»

«È molto difficile…»«Ma è possibile, no?»

Bea non voleva ammetterlo, ma era possibile. Cer-to doveva essere una coincidenza notevole.

La porta si aprì ed entrò il tenente Ciotoli.«Ciao, Sandro»«Ciao Michele, e lei deve essere l’ingegnere Pali-

da, giusto?»

«Sì, ma gli amici mi chiamano Bea, piacere tenen-te».

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«Dovrei interrogare anche lei, se non le dispiace,ma prima vorrei parlare con Michele».

«Non si preoccupi tenente, stavo andando via. Saròsu questo piano tutta la mattina» rispose Bea uscendo.

«Allora che cosa mi dici? Capito cosa hanno presoo volessero prendere i ladri?»

«No» rispose Michele sentendo che era una bugia palese. Lo stato di agitazione in cui gli eventi della mat-tina lo avevano trascinato non gli permetteva di pensarelucidamente. Ma l’istinto gli diceva che non doveva par-larne con Sandro prima di averci pensato bene su.

«Non capisco proprio» disse infatti «Non ho cosedi valore qui dentro, nemmeno informazioni industrialisensibili. E comunque non manca nulla».

«Anche io ho provato a capirci qualcosa. Nessuno

dei tuoi colleghi, tra quelli che ho interrogato, era qui oha visto qualcosa. Però il tuo ufficio non è il primo chesi incontra entrando. Sono venuti apposta qui dentro».

«Che posso dire? Sono sconcertato, ma non ho unaspiegazione».

«Una spiegazione si trova sempre. Che è successoal tuo computer?»

Sandro lo stava fissando da quando era entratomentre Michele, a disagio, fingeva di non notarlo. Ma siaspettava la domanda e non si fece cogliere imprepara-to.

«Oh, era da un po’ che mi dava problemi e vistoche Bea si trovava qui, l’ha ripristinato» disse sperandodi risultare credibile a quel tipo che pareva avere un in-tuito affilato come un rasoio.

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«Ah, bene» ribatté lui con fare enigmatico, alimen-tando le fantasie ansiogene di Michele.

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XIX.  Nel Salaria aleggiava un’atmosfera triste. Mario

stava sistemando la sua macchina del caffè, per cui Mi-chele non aveva potuto prendere il suo consueto quantoinefficace rimedio per il mal di testa.

 Lives that keep their secrets/ will unfold behind the

clouds/ There upon the rainbow/ is the answer to a nev-

er ending story

The never ending story di Limahl era un pezzo chea Michele inspiegabilmente aveva sempre messo malin-

conia.Aveva sentito una collega che era passata in ospe-

dale da Morrone, e sapeva che lo tenevano ancora incoma farmacologico per attendere la riduzionedell’ematoma subdurale. Non sapeva chiaramente cosasignificasse, ma proprio bene non suonava.

All’arrivo di Luca le cose migliorarono. Era incompagnia di Marcella, la qual cosa animò lo spirito diMario, che, nonostante fosse occupato con quel conge-

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gno intricato, cominciò a produrre esempi del suo pro-verbiale umorismo.

Luca e Marcella si sedettero al tavolo di Michele.«Novità da Morrone?» si informò Luca.«C’è andata Paola dell’amministrazione: nessun

cambiamento, al momento la prognosi resta riservata».Marcella, cui Luca aveva raccontato la storia, in-

tervenne «ma si è capito cosa volevano dall’azienda oda te?»

«Non ne abbiamo idea. Sandro, il tenente Ciotoli,dei carabinieri, ha detto che è tutto molto insolito e chenon tralascerà alcuna pista».

«Il che significa che non sa che pesci pigliare.»Luca sapeva essere lapidario.

«Parliamo d’altro, meglio non pensarci» suggerì

Marcella «sai che la tua storia ha avuto successo tra imiei amici?» Michele si fece improvvisamente attento«L’ho raccontata ai miei colleghi e tutti si sono trovatid’accordo mentre ridevano come i matti. Se avessero potuto leggerlo. A proposito, me lo hanno chiesto: Mela stampi un’altra copia?»

Michele cominciò a elaborare quello che Marcella

aveva detto mentre rispondeva «Sì, certo, volentieri».Raccontata? Un’altra copia? Poi ricordò che Mar-

cella, con una farsa esagerata, aveva recuperato la copiadel Cdb che il giovedì precedente era volata nel bidonedi latta. Forse l’aveva buttata via, o l’aveva persa. Malui doveva saperlo.

Cercò di non apparire troppo curioso «Io però do-vrei offendermi. L’altra sera hai raccolto la copia delracconto dal bidone come fosse un tesoro prezioso, e

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adesso l’hai buttata via così?». Cercò di non appariretrepidante nell’attesa della risposta.

«Buttata? Non l’avrei fatto mai! Me l’hanno ruba-ta!»

Luca scoppiò a ridere e Michele fece del suo me-glio per seguirlo «ma che dici? Rubata? Chi vuoi che tirubi un racconto?» dissero i due quasi assieme tra le ri-sate.

«No, giuro! Io ero in sala prove e avevo il raccontonella borsa. Quando abbiamo finito il racconto era spari-to».

«La borsa c’era ancora?» Michele non riusciva amascherare la tensione e temeva che Luca e Marcella potessero sentirla.

«Sì, la borsa e il suo contenuto erano intatti, a par-

te i tuoi fogli».«Ma scusa chi può averli presi?»«Non lo so. Nello studio siamo entrati e usciti in-

sieme e da fuori non si può arrivare al guardaroba. Nell’atrio, a parte don Vittorio, che poi è andato via,non è entrato nessun altro».

«Don Vittorio?» il tono di voce di Michele si era

alzato e anche Luca, che era andato al GoldSound permettere qualche disco, si girò verso il tavolo per vederecosa succedeva.

Marcella rispose incerta «don Vittorio Cardamone,il nostro produttore. Ma che hai?»

Giorgio e Manuela entrarono in quel momento e,con esemplare tempismo, tolsero Micheledall’imbarazzo di rispondere alla domanda.

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Intanto era partito, quasi a sottolineare il loro in-gresso, il primo dei pezzi messi a caso da Luca.

 I'll protect you from the hooded claw/ Keep the

vampires from your door

Era The Power of love dei Frankie Goes to Holly-wood.

Luca, che preferiva un altro genere di musica, fece

una smorfia, e tutti risero dimenticando la storia del rac-conto rubato.

Tutti tranne Michele.

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XX. «Ciao Vincenzo, sono Michele»«Ué, Michè! Ogni tanto ti fai sentire. Che fine hai

fatto?»«Niente, le solite cose. Sono sempre a Roma. Tu

come stai?»Vincenzo era un vecchio compagno delle superiori

di Michele che, dopo molti anni passati all’università, siera finalmente laureato in legge e aveva vinto un con-corso nell’Agenzia delle Entrate a Verona.

Ogni tanto si scambiavano favori reciproci, ma

nonostante si sentissero quasi solo per quello, la loroamicizia a distanza non ne soffriva.In questo caso, però, ci aveva riflettuto molto pri-

ma di coinvolgerlo in quella storia.Supponendo che fosse Cardamone il colpevole del

furto del racconto, e non aveva altre piste da seguire,aveva bisogno di sapere chi era e come poteva essere

toccato dal contenuto di un racconto che narrava la mor-te di Pino Daniele.

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Era un produttore musicale. Che avesse avuto ache fare con lui per lavoro?

Quelle domande richiedevano una risposta.«Io sto una bellezza. Dai dimmi, che ti serve?»«Perché devi sempre farmi sentire uno stronzo?»«Ma perché lo sei, amore mio»«Grazie, tesoro mio. Vorrei ricorrere alla tua ma-

gica anagrafe…»

L’anagrafe tributaria era l’archivio che contenevatutti i dati fiscali di ogni cittadino e di ogni azienda ita-liana. Era un prezioso aiuto per Michele, nelle transa-zioni poco chiare che ogni tanto capitavano nel suo la-voro, e spesso gli era servita anche per togliersi dellecuriosità.

Vincenzo aveva un accesso illimitato, ed era stato

sempre ben disposto ad aiutarlo, anche se la cosa nonera proprio regolare. Stavolta però manifestò delle preoccupazioni «sai del casino che è successo, Michè. Èun problema fare queste interrogazioni in questo perio-do».

«Ma quando mai! Mica ti chiedo di un politico, diun calciatore o di un personaggio televisivo?». Sembra-

va infatti che i controlli sulle interrogazioni indebitefossero più serrati se si chiedevano informazioni su per-sone in vista. «Questo è uno normale! Al massimo puòessere un mafiosetto…»

«Ma tu sei impazzito?»«Ma no! Sto scherzando. Dai fammi ‘sta magia,

che veramente mi serve per una cosa importante»«Dai, qual è il nome?»«Cardamone Vittorio»

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«Data di nascita?» Non aveva altri dati. Dalla ricerca che aveva fatto

aveva ottenuto scarne informazioni sulle origini napole-tane o casertane di Cardamone e sul fatto che risiedessea Roma.

«E che ne so?»«Aeee… Sai quanti ne trovo?»«Io non lo so, e nemmeno tu. Prova e poi mi fai

sapere, no?»«Miché, tu sei una tortura, lo sai? Chiamami fra

una mezz’ora»

«Ciao, sono la tortura»«Che palle! Allora, ce ne sono undici»«Vedi quelli che hanno più di 40 anni»Click… click, click…«Sei»«Campania e Lazio?»Click… click, click…«Due».«Questo fa il produttore musicale».«Beccato! L’altro è un dipendente privato»«Mi mandi la solita mail?»«Sì, e poi ti mando al solito posto».«Vai avanti tu che conosci la strada, per le volte

che ci sei dovuto andare. Mi hai salvato, bastardo».«Ciao».

«Ciao».

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XXI. Il Maresciallo Antonio Farina del reparto scientifi-

co non gli era mai stato simpatico. Quando gli avevarestituito L’FPS, con poco garbo aveva sottolineato chesperava fosse stato usato correttamente. Sandro non

aveva fatto una piega. Sapeva per esperienza che se vo-leva che i RIS collaborassero non doveva farseli nemici.

La sua pazienza diede un solo frutto, ma era im- portante. Sul computer di Manara era stata rinvenutaun’impronta parziale di pollice estranea al gruppo Teo-

rema.«Era vicina alla porta USB» disse il maresciallo

quando andò a ritirare il rapporto «Quel modello ha le porte in un punto poco accessibile. Deve averci infilatoqualcosa e poi per poterlo sfilare ha dovuto togliersi iguanti».

«Chi è?» chiese Sandro«Amedeo Giannini, un ladruncolo da due soldi fis-

sato con le arti marziali, che spaccia videogiochi pirata,computer e accessori rubati. Le ho allegato la scheda alrapporto».

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Insomma avevano trafficato con il computer diManara. Ma quando aveva visto la Palida metterci mano

Michele aveva glissato e sembrava imbarazzato.Questo Giannini rubava computer. Ma il computer

non l’avevano rubato.«A che servono queste porte USD?»«USB tenente, Universal Serial Bus. Sono porte di

comunicazione. Servono principalmente a trasferire datitra il computer e altri apparecchi come dischi portatili,stampanti o scanner» rispose con un contegno volto asottolineare l’ignoranza di Sandro, che rimase del tuttoindifferente.

«Qualcuno può aver rubato dei dati?»«Sembrerebbe la cosa più probabile».Ma non era probabile per niente. Secondo

l’ingegner Palida per arrivare ai dati aziendali era neces-sario inserire una password, e comunque nessuno potevaaccedervi dai terminali dopo le venti.

 Non rimanevano che i dati personali di Michele.«Allora che se ne fa un ladruncolo dei dati perso-

nali di un funzionario della Teorema?» si chiese Sandroquando tornò nel suo ufficio.

È chiaro che c’era andato su commissione. La cosanon riguardava la Teorema, ma Michele. E Michele erareticente, se non addirittura ‘ostrico’. Sentiva che erauno a posto, ma gli nascondeva qualcosa.

Doveva vedere Morrone, ma dall’ospedale ancoranon volevano farglielo interrogare.

«Posso parlarci?» aveva chiesto telefonando almedico la sera prima.«No, tenente. Ha avuto un brutto colpo».

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«Che cosa è successo, secondo lei?»«L’hanno colpito due volte alla testa con un ogget-

to pesante e arrotondato, un tubo, forse un manganello.Uno dei colpi ha provocato un ematoma subdurale dimedia entità. Sembra però che gli sia andata bene. Lacompressione dell’encefalo è modesta. Però ancora non possiamo sciogliere la prognosi. Per sapere qualcosa dicerto dobbiamo attendere la riespansione cerebrale, chenegli anziani può essere più lenta».

«Dottore, io devo parlare con lui» aveva dettoSandro, che poco aveva capito del linguaggio tecnico.

«Guardi tenente, io la capisco. Deve fare il suo do-vere. Ma è fuori questione che le permetta di parlarciadesso. È ancora sedato e riprenderà conoscenza solo traqualche giorno».

 Non c’era altro da fare, quindi, se non indagare suAmedeo Giannini. Alzò il telefono e convocò AndreaManzetti, uno dei suoi ragazzi più in gamba. Diventatomaresciallo a soli 26 anni, era un uomo in grado di de-streggiarsi in ogni situazione.

«Voglio sapere con chi lavora o ha lavorato questoGiannini» disse dandogli la scheda «scendi in archivio e

fatti dare le cartelle di tutti quelli che avrebbero potutomandarlo alla Teorema, dei complici abituali, dei com- plici dei complici, eccetera. Ci vediamo qui quando haitutto»

«Ehm…»«Che c’è?»«Tenente, non serve scendere in archivio. Possia-

mo fare la ricerca da qui e stampare le schede su quella»

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rispose impacciato il maresciallo indicando la stampan-te.

«Oh! Allora fallo, che aspetti?»Di solito non si rivolgeva così ai suoi uomini, ma

lo irritava e lo faceva sentire impotente l’avere un pes-simo rapporto con la tecnologia, che pure diventavasempre più indispensabile per il suo lavoro. Il corso se-guito di malavoglia l’anno precedente, non aveva datorisultati di sorta, ma evidentemente il maresciallo lo

aveva messo a frutto.Dopo pochi minuti infatti tirò fuori sei schede che

risultarono dalla ricerca incrociata di arresti, condanne eogni altra informazione comune tra Giannini e altri cen-siti nel casellario e nell’archivio.

 Non poteva sorvegliare sei persone senza un mi-nimo di sospetti. Qualcuno gliene avrebbe chiesto con-to.

Ma non aveva molte opzioni. L’indagine sembravaingolfata. Forse doveva cercare di far parlare Michele,che sembrava aver buone ragioni per tacergli qualcosa.Se non poteva sorvegliare sei persone, poteva farlo conuna. Ma sarebbe servito?

Mentre pensava si rese conto che Manzetti stavaosservando con imbarazzo il suo atteggiamento assente.«Che c’è?»«Niente» rispose il maresciallo.Sandro decise di sorvolare «Quanto tempo ti serve

 per attivare una sorveglianza continua su Michele Ma-nara? Voglio sapere dove va, che fa, quando lo fa. In-somma tutto quanto».

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«Se possiamo farlo con un uomo alla volta, il tem- po di organizzare i turni, diciamo… ventiquattro ore.

Però…»«Però?»«Tenente, lo so che lei… un turno lo faccio io, ma

in almeno un altro… insomma devo metterci Govoni.Gli altri sono impegnati».

«Porca miseria, ma quando lo trasferiscono quel-lo?»

«Tra due anni».«E va bene preparati, ma non far partire la cosa fi-

no a quando non te lo dico».Manzetti si attivò subito, lasciandolo assorto a sfo-

gliare le schede segnaletiche.Anche se lottava sempre con se stesso per non

fermarsi alle apparenze, Sandro dovette riconoscere checiascuna foto dava la sensazione di guardare uno spieta-to delinquente. In particolare quella in cima alla pila.

Forse, se lo avesse saputo, ‘O Zicchinett gli sareb- be stato grato del complimento.

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delle sue aziende sembrava coinvolta nelle produzionidi Pino Daniele. Aveva passato la mattinata a controlla-

re tutti i vari siti sul cantante, ufficiali e non, alla ricercadi un legame ma non aveva trovato niente.Allora aveva deciso di andare a vedere la casa,

magari anche suonare alla porta, fingendosi un rappre-sentante di enciclopedie o di pentole. Ovviamente erauna cazzata da B-movie americano, che, oltretutto, nonavrebbe mai avuto il coraggio di fare.

Una berlina coi vetri oscurati uscì dal cancello principale. Michele aveva parcheggiato a una certa di-stanza, ma anche da vicino non avrebbe potuto vedernegli occupanti.

Cominciò a chiedersi cosa ci facesse seduto inquella macchina a riprodurre un patetico incrocio traSam Spade e Jacques Clouseau. Decise di andarsene, poi di restare ancora un po’, poi ancora di andarsene, eandò avanti così per quasi un’ora.

Alla fine scese dall’auto e si avvicinò alla casa. At-traverso la cancellata, lungo il lato destro del perimetrodi cinta, si scorgeva il vialetto d’ingresso, immerso inuna fitta vegetazione. Curvava verso destra terminandodavanti alla costruzione e aveva nell’ultimo tratto, a cir-ca quindici metri dalla strada esterna, un parcheggio a pettine per gli ospiti.

Secondo le informazioni di Vincenzo, don Vittorioaveva dichiarato al fisco, nell’anno precedente, introiti per trecentomila euro. Probabilmente gliene servivanodi più solo per mantenere quella proprietà.

Mentre rifletteva su queste e altre piccole scioc-chezze, la berlina tornò.

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La vide entrare dal cancello principale, distantetrenta metri. Poi seguì il viale fino al parcheggio a petti-

ne. Ne uscirono due uomini.A quella distanza non riusciva a vederne bene uno.

Ma quando riconobbe il secondo, ebbe un sussulto e fu preso dall’irrazionale desiderio di scappare. Era PinoDaniele.

Represse quell’impulso di fuga e si costrinse acamminare lentamente verso la macchina, cominciando

a far frullare nella testa il significato di quello che avevavisto.

Forse non era nulla. In fondo don Vittorio era un produttore, lavorava con i professionisti, e Pino era un professionista. Non ci aveva lavorato prima, ma magaristava per farlo.

Salì in macchina.Forse erano solo amici. Forse aveva anche rubato e

letto il racconto, aveva chiamato Pino e ora si stavanofacendo due risate, o stavano meditando di denunciarlo.

Mise in moto e si avviò verso casa.Forse… Forse…Ma chi aveva fatto quel casino nel suo ufficio?

Quella non era gente con cui scherzare.Adesso era il caso di riferire tutto a Sandro e la-

sciare che ci pensassero i carabinieri. Ma non riusciva adecidersi a farlo. Ancora non riusciva a credere possibi-le che stesse accadendo a lui.

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XXIII. «Stammi a sentire. Tu te lo ricordi che tengo un fi-

glio in America, Antonio?»«Sì, come no!»Don Vittorio era stranamente emozionato. ‘O Zic-

chinett non lo aveva mai visto così. Era arrivato da dieciminuti, aveva portato altre notizie e le fotografie di Mi-chele Manara scattate il giorno prima. Ma don Vittoriole aveva sfogliate appena. Poi si era seduto nella poltro-na da lettura e dopo un lungo silenzio aveva cominciatoa raccontare.

«Quando mi figlio teneva otto anni, io gli ho rega-lato una chitarra. Lui era bravo e ha cominciato a suona-re proprio bene. Anni dopo si è messo con un gruppo, eha conosciuto un certo Giuseppe. Sono diventati amici ehanno mandato provini in giro. Tu lo sai che io faccioquesto mestiere da sempre, e già allora tenevo contatti buoni. Li ho avviati un poco, li ho fatti aiutare, insom-

ma. Stavano sempre nel garage di casa mia, a suonare ea fare casino.

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«Però Giuseppe era più bravo. Parecchio più bra-vo, veramente un talento raro. E allora hanno comincia-

to a chiederlo come solista, qualche discografico l’hanotato, e Giuseppe ha avuto successo. Mio figlio Anto-nio non ci rimaneva male. Lo sapeva che Giuseppe erameglio di lui. A me invece mi bruciava un poco. Ero piùgiovane e non vedere i ragazzi andare in alto insieme mifaceva incazzare. Poi Giuseppe ha cominciato a fare idischi e nessuno lo ha fermato più.

«Dopo qualche anno, Giuseppe ormai era famoso emio figlio Antonio era diventato solo un suo ammirato-re, come si dice… fan, no?

«Continuava a suonare a livello dilettantistico conamici e faceva spesso i pezzi di Giuseppe. Mi impres-sionava vedere come li faceva uguali. Guarda che eranouna cosa sola!

«Intanto Giuseppe, dopo tutto quello che avevofatto per lui, da me non si faceva quasi vedere più.

«Con Antonio si vedevano sempre alle prove, aiconcerti, insomma erano amici. Ma a me mi dava sem- pre l’impressione di uno che non teneva il tempo per lagente, troppo impegnato.

«Forse ero io che non ci capivo niente.«Il giorno che Antonio fece trenta anni, invitò purea Giuseppe, che non venne. A tarda sera lo chiamai, e per trovarlo ci misi due ore. Mi ero pure bevuto un sac-co di sciampagna, e insomma gli dissi che era un ingra-to, nu’ strunz e tutto quello che ti immagini.

«Lui venne a casa, disse che aveva avuto una riu-

nione alla casa discografica, ma secondo me non era ve-ro. Dopo che era stato un po’ con gli ospiti, e tutti sta-

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vano attorno a lui e si scordavano di Antonio che era ilfesteggiato, lo feci chiamare, che io non ero proprio sce-

so a vederlo.«Solo vederlo mi fece ancora di più incazzare e,

vecchio e buono, gli stavo mettendo le mani addosso.«Arrivò Antonio che, per non farmi venire una co-

sa, gli chiese di andarsene e lo accompagnò alla porta.Barcollavano tutti e due, che avevano bevuto peggio dime».

‘O Zicchinett aveva ascoltato paziente, senza anco-ra aver chiaro dove don Vittorio volesse andare a parare.Ma in quell’istante la domanda gli affiorò alla bocca e, prima che potesse evitarlo, disse «ma Giuseppe è…?»

«Zicchinè, statt zitt! Vuoi sentire come va a finireo no?».

‘O Zicchinett tacque di colpo senza dar rispostaalla domanda, né all’occhiata torva di don Vittorio, chein realtà era contento di parlare di quella storia conqualcuno dopo tanti anni.

«Insomma Giuseppe si mise in macchina e uscì dalviale. Faceva un casino con le marce e andava a zig zag.Forse lo dovevamo fermare.

«Invece se ne andò, ma non fece nemmeno due-cento metri. Nella curva dietro a casa mia si accappottòe successe un casino. Insomma la macchina si eraschiattata tutta quanta, e Giuseppe era andato».

‘O Zicchinett cominciò ad agitarsi sulla sedia. Ca- piva che stava per essere messo a parte di un segreto lacui portata era superiore a tutte le altre cose compromet-

tenti che sapeva di don Vittorio. Non parlò, ma a impe-

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dirglielo, probabilmente, fu più l’emozione che provava,che il timore di fare un altro intervento inopportuno.

«Insomma, chiamai qualche amico mio e siste-mammo la cosa. Scomparì tutto e nessuno doveva maisapere niente.

«Però c’era il problema di Giuseppe. Non so se mivenne in mente a me o a Antonio. Comunque pigliam-mo i documenti e tutto, e Antonio andò dai carabinieri adenunciare che si erano rubati la macchina. Firmò la de-

nuncia col nome di Giuseppe, e poi andò a casa sua. Suadi Giuseppe, Zicchine’.

«Da allora Antonio sta ‘in America’ a studiare, mainvece sta qua. E fa il cantante. Lo sai come si chiamaadesso, Zicchiné?»

‘O Zicchinett ormai aveva capito tutto, e aveva unmilione di domande su come erano riusciti a farlo «Macome avete fatto a fottere…»

«Qualche problema c’è stato, nel tempo. Ma, supe-rati i primi scogli, tutto si è messo a posto piano piano».

«’A faccia do’ cazz!» disse ‘O Zicchinett sconvol-to.

Ma era un uomo pratico e intelligente e, nonostan-

te lo shock di quella notizia, si soffermò subito a riflet-tere su come gli eventi di vent’anni prima si inquadras-sero nella realtà attuale.

«Secondo voi ‘sto Manara sa qualcosa?»«Se sapeva qualcosa, era cretino a scrivere un rac-

conto. Però i cretini sono assai, Zicchinè, e tu lo sai be-ne!»

‘O Zicchinett finse di non cogliere il riferimentoalla sua défaillance, e passò alle cose pratiche «don Vit-

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tò, avete ragione: qua la cosa è seria. Ci dobbiamo oc-cupare di questo Manara!»

«Non fare il deficiente. Per mo’ non ha fatto anco-ra niente. Non è che ‘sta notizia l’ha mandata ai giorna-li. Per quello che sappiamo noi, la cosa si ammoscia etutto finisce a tarallucci e vino».

«E se…?»«Se, un cazzo! Perché ti ho mandato a indagare di-

scretamente? Doveva essere una cosa pulita. Mo lo ca- pisci il guaio che hai fatto?»

«Don Vittò, fatemi fare a me, e ‘sto Manara non vidarà più fastidio».

«Tu devi fare quello che ti dico io! Chiaro?»«Ma…»«Oé? Che so’ ‘sti ma? già abbiamo fatto un casino,

non ne facciamo un altro. Adesso ti stai fermo e stiamoa guardare».

‘O Zicchinett tacque, anche se non condivideval’atteggiamento di don Vittorio. Secondo lui non si do-veva dare il tempo alla cosa di scoppiare.

Anche Don Vittorio rimase in silenzio a guardare isuoi preziosi volumi, riflettendo su come potevanouscirne stavolta.

Era sempre stato ottimista e fiducioso della sua ca- pacità di cavarsi dai più ingarbugliati impicci, ma sta-volta proprio non riusciva a vedere una soluzione.

Alcuni rumori dall’esterno lo risvegliarono dallesue elucubrazioni.

«Questo è Antonio. Aspetta qua tu!» abbaiò a ‘OZicchinett.

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Andò all’ingresso principale e aprì la porta di per-sona come aveva fatto con ‘O Zicchinett. Alla servitù

veniva concesso un permesso speciale ogni volta cheDon Vittorio doveva trattare una questione delicata oincontrarsi con Antonio.

«Ciao»«Ciao, pap໫Entra. Stai solo?»«Sì, Giovanni è andato nel garage»Giovanni era l’autista di Don Vittorio, ma non era

da considerarsi servitù. Era un fedele luogotenente edera al corrente del rapporto che lo legava al cantante.Ma avrebbe dato la vita piuttosto che parlarne. E forsesarebbe stato proprio quello il prezzo, se mai lo avessefatto.

«Allora che è successo?»«Vieni di là. Ci sta ‘O Zicchinett».«Ma…»«Gli ho raccontato tutto, non ti preoccupare. È per-

sona di fiducia. Mi ha portato notizie».Antonio entrò nella sala dei libri e ‘O Zicchinett si

alzò per stringergli la mano.«Ehm… buongiorno…»«Ciao Zicchinè, sono Antonio Cardamone. Mio

 padre mi ha tanto parlato di te» disse sorridendo «Seiuno bravo, dice. È vero?»

«No… cioè, sì… insomma… è proprio ‘na cosastrana… Scusate, io…» l’imbarazzo era palpabile ma

Don Vittorio vi mise fine rapidamente.

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«Prendi le fotografie, io intanto spiego a Antonio perché l’ho fatto venire».

Un’ora dopo esaminavano le fotografie di Micheleche entrava nella Teorema la mattina precedente, quellescattate mentre era a pranzo con i colleghi, all’uscita ealcune altre mentre rincasava.

Antonio si conteneva a stento. Era furioso perquella ‘piccola effrazione con un ferito’ come l’avevadefinita don Vittorio. Di certo aveva drasticamente mi-

nimizzato, come sempre faceva quando gli parlava diazioni che non avrebbe approvato.

Ma non voleva discuterne in presenza de ‘O Zic-chinett, per quanto coinvolto fosse. Sapeva che non sa-rebbe servito e che comunque don Vittorio si sarebbeirritato a essere contraddetto davanti ad estranei.

«Insomma non sappiamo questo che sa, e che vuo-le farsene di quello che sa» disse ‘O Zicchinett «non cista niente da fare, si deve…»

«Zicchiné!» tuonò Don Vittorio «io e te abbiamogià parlato. Non mi voglio ripetere. Vai a aspettarmi dilà»

«Che stava dicendo?» domandò Antonio al padre

quando ‘O Zicchinett fu uscito.«Niente, è una testa calda, ma nu’ buon guaglione.

Lascia stare, ci bado io. Intanto io volevo farti sapere lasituazione. Mo’ stiamo ad aspettare che fa ‘sto Michelevisto il casino che è successo nel suo ufficio. Forse lacosa si sgonfia da sola»

«Ma tu stai scherzando? Quello è un criminale e,

se lo lasci fare, fa una strage solo per compiacerti. Se

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non interveniva magari oggi non staremmo parlando di‘sta cosa. Gesù… Stavolta è finita»

«Non dire così, rimedio a tutto io. Non mi aspetta-vo che ‘O Zicchinett fallisse, ma c’è sempre un modo per venirne fuori. Se questo vuole soldi, non ci sono problemi».

«Senti, tu non devi fare più niente. Se viene fuoriqualcosa, l’affrontiamo senza che nessuno si faccia ma-le. Mi devi dare la tua parola, adesso».

Quella antica formula, troppo spesso abusata, eral’unica espressione di antichi rituali che ancora don Vit-torio conservava intatta nella sua sacralità. Gli fu diffici-le farlo, ma costretto dal piglio deciso di Antonio disse«E va bene, ti do la mia parola».

Da dietro la porta ‘O Zicchinett non potè fare ameno di ascoltare tutta la conversazione, sapendo che laservitù non c’era e nessuno avrebbe potuto sorprenderloa origliare.

Solo ora aveva capito la portata della cazzata cheaveva fatto, e si rendeva conto che doveva recuperare lastima di don Vittorio a tutti i costi. Avrebbe fatto qual-cosa.

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XXIV. «Indovina chi sono?»«Non è possibile! Michè, non ti fai sentire per me-

si e all’improvviso ti viene la diarrea? Due volte in tregiorni?»

«Sempre i soliti modi regali. Complimenti, Altez-za!»

«Vaffanculo. Che ti serve?»«Porca miseria… toccherà a te prima o poi… sì,

voglio un’altra notizia»«Aeeee… ma allora non hai capito? Qua è un bor-

dello!»«Vincenzo, non fare lo stronzo, non me la far pesa-

re. Ti dico che stavolta non è uno sfizio. È una questio-ne seria».

«Dimmi allora, dai»«Quel Cardamone che mi hai cercato. Devo sapere

tutto di lui e della sua famiglia, dei dipendenti, di tuttiquelli che gli girano intorno»

«Ma ci vuole un mese!»

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«E dai… comincia dalla famiglia, poi i dipendentidella casa, camerieri, governanti, giardinieri, eccetera.

Poi vediamo le aziende»«La famiglia? Ma non teneva solo un figlio

all’estero? Antonio, mi pare…»«Sì, Nato a Caserta il 7 dicembre 1954».«E allora con Antonio non ti posso aiutare. Non ce

l’abbiamo, se sì e trasferito definitivamente».«Ma sarà una residenza fasulla. Il padre fa qualche

imbroglio fiscale con lui, ma in realtà quello sta qua».«Non sono cose facili da provare. A noi di solito

ce lo fanno i cugini ‘sto lavoro». Vincenzo e i colleghichiamavano cugini i militari delle fiamme gialle, che sioccupavano di indagini fiscali.

«Insomma non mi puoi dire niente proprio?»

«Mo’ vedo un po’. Chiamami lunedì sera».«Lunedì? Non puoi fare niente adesso?»«Miché, sei uno scassapalle! Come faccio adesso?

È sabato! Mica posso andare ad aprire l’ufficio di sabato per te?»

«No?»

«No!»«Ma una volta non tenevi il collegamento da ca-sa?»

«Mamma mia, che rottura. Sì, ce l’ho. Chiamamitra un’ora».

«Vincenzo, quando ci vediamo ti do un bacetto»«Vaffanculo!»«Avevo detto un’ora» sbottò Vincenzo quando

Michele richiamò.

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«Sono passati 56 minuti. Non è un’oretta?»«Sei una calamità! Non ho ancora finito. Da casa il

collegamento è lento. Per il momento ho visto solo An-tonio Cardamone. C’è qualcosa che mi sfugge».

«Che vuoi dire?»«Per i cittadini italiani residenti all’estero, di solito

abbiamo registrazioni contabili che li mettono in rela-zione con i loro interessi in Italia. Qui non c’e nulla. Non è troppo insolito, potrebbe non averne, ma non fi-nisce qui. Non ho trovato nessuna registrazione riguar-dante contratti di locazione, acquisto di immobili in Ita-lia o all’estero, contratti per fornitura energia e servizi. Non ho trovato tracce di un rapporto di lavoro di qual-che tipo, né di trasferimenti monetari dall’Italia. Nientedi niente».

«Che ne pensi?» chiese Michele, senza prestare più attenzione alla risposta dell’amico, occupato a riflet-tere su quelle incongruenze.

Il racconto di Michele parlava di una scomparsa.Certo Pino Daniele non era scomparso, dato che l’avevavisto il giorno prima. Ma nel racconto esisteva un sosti-tuto. Poteva essere certo che quello che aveva visto…?

Michele si impose di ragionare. Si andava convin-cendo dell’impossibile. Aveva ammesso lui stesso che ilsuo racconto era inverosimile.

 Non era possibile mettere su una truffa del genere. Non per così tanto tempo. Gli amici, la famiglia, tutte lesituazioni di vita che circondano una persona non per-mettono che questa venga sostituita così, di punto in

 bianco, da uno sconosciuto.Certo, se non fosse uno sconosciuto…

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Ma, no. No. Era impossibile.«Ciascuna di queste mancanze» disse Vincenzo al-

la fine di una lunga pausa «potrebbe avere una spiega-zione. Non ha interessi in Italia, ha sempre vissuto in unalbergo, non fa acquisti se non in contanti, non lavora perché è ricco, o i soldi li fa illegalmente… Ma presetutte assieme sembrano dire che questo tipo non esiste».

«Stavo pensando la stessa cosa» rispose Michele«senti Vincenzo, ti ringrazio di tutto. Ora lascia stare e

magari ci riprovi lunedì con le altre cose. Dall’ufficio lalinea è più veloce»

«Michè, sei strano. Non hai più fretta? Ti ho datouna cattiva notizia? Lo sai che non ti faccio mai troppedomande, ma mi vuoi spiegare?»

«Mo’ non posso. Ci sentiamo lunedì e ti spiegotutto».

«Vabbuò, ho capito. Statti bene, ciao».«Ciao».

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XXV. «Senti, non cominciare a pensare a male, ma vorrei

il numero di Marcella».Michele era imbarazzato. Sapeva che Luca avreb-

 be frainteso, e il suo atteggiamento innaturale avrebbe peggiorato le cose.

«Lo sapevo che ti saresti commosso, prima o poi:con quelle tette!»

«Non fare il cretino. Davvero voglio solo chiederleuna cosa».

«Sì, certo. Vuoi solo chiederle una cosa. E magari,

dopo che gliel’hai chiesta, vorresti che te la desse, que-sta cosa».«Insomma me lo dai ‘sto numero?»«Ma sì, certo» rispose con un sorriso malizioso

mentre lo prendeva dalla rubrica del cellulare.Michele aveva riflettuto sulla prossima mossa. Ma

non avendo un manuale del perfetto investigatore comequello di Thomas Magnum, non sapeva cosa fare. Con-

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siderando che chiamare Sandro Ciotoli non era tra le sueopzioni.

L’unica cosa, si era detto, era di incontrare PinoDaniele e guardarlo negli occhi. Capire così, con i suoi poteri, magari con l’imposizione delle mani, se eral’originale, o se si trattava di un sosia che per anni avevaingannato le persone a lui più vicine. Un piano perfetto.

Tutte stronzate, ovviamente.Ciò nonostante, si disse che non c’era niente di

male a provare a vederlo, dopo un concerto o una serata,come un qualsiasi fan.

«Ciao Marcella, sono Michele Manara»«Ciao Michele. Che piacere!»«Scusa, ho chiesto a Luca il tuo numero perché

vorrei chiederti un favore»«Nessun problema. Dimmi»«Vorrei incontrare Pino Daniele»«Oh, oh…»«No, no, guarda, vorrei solo incontrarlo, magari al-

la fine di una sua serata, tipo fan che va al camerino per

l’autografo e per fare due chiacchiere. Se mi fai saperequando c’è una serata sua a Roma o magari mi accom- pagni… visto che lo conosci…»

«Non è proprio un mio amico, ho solo suonato conlui. Ma comunque, lascia che mi informi e ti faccio sa- pere. Dì la verità, vuoi portargli il racconto?»

«No! Ti assicuro. Non voglio che nemmeno venga

a sapere che l’ho scritto. Anzi volevo chiederti di non parlarne più in giro, soprattutto nel tuo giro».

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«Michele… è successo qualcosa?»«No… insomma magari poi te lo spiego. Tu fammi

questo piacere prima»«Ok. Ti faccio sapere»«Grazie e ciao»«Ciao».

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XXVI. Mentre saliva nell’ascensore della Teorema, Mi-

chele cercava di concentrarsi sul lavoro. Decise di arri-vare in ufficio senza il fardello delle informazioni cheaveva ricevuto e che, pur non essendo significative, con-

tinuavano a agitarlo. Non voleva che i colleghi si accorgessero del suo

turbamento, quindi andò di filato nel suo antro, salutan-do appena quelli che incontrava.

Si sedette provando un assurdo sollievo, che duròappena il tempo di accendere il computer. Manuela, chelo aveva sentito arrivare, apparve sulla soglia.

«Ciao» disse avvicinandosi.«Ciao».«Ti ricordi della riunione di stamattina?»«Che riunione?»«Ma sei proprio un… che c’è?» Manuela si era in-

terrotta perché, arrivata alla scrivania, aveva visto Mi-chele da vicino.

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«E che cazzo, resisto al massimo dieci secondi?»sbottò Michele, arrabbiato, ma nemmeno troppo, con se

stesso per non aver saputo dissimulare con Manuela ilsuo stato di agitazione.«Lo sai che non mi puoi nascondere niente» disse

lei sorridendo «che c’è?»«Niente, una cazzata… credo».«Vediamo se lo credo anch’io».Michele nicchiava, ma Manuela sembrava decisa a

non mollare. La resistenza di Michele crollò all’ingressodi Giorgio.

«Allora, si va?» domandò sulla soglia prima direndersi conto dell’atmosfera che aleggiava nella stanza.«Che succede?» domandò quando vide le espressioniserie dei due.

«Niente…» iniziò Michele«Niente un cazzo. Michele ha qualche casino. Dal-

la faccia, direi grosso».«Di che si tratta?»«Niente. Io credo sia una cazzata, ma dopo il furto

nel mio ufficio non sono più riuscito a trovare la stampadel racconto che vi ho fatto leggere»

«Il Cdb? Beh?» Giorgio non era un tipo pratico.Manuela taceva.

«Credo l’abbiano rubata, che siano venuti perquella e per i file che avevo sul computer, e chel’abbiano rubata anche a Marcella. Sospetto che sia sta-to Vittorio Cardamone e organizzare la cosa».

«E chi è Vittorio Cardamone?» dissero insiemeGiorgio e Manuela.

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Michele stava per rispondere quando entrò Bea.«Ehi? Ma la riunione non era nella sala briefing?»

Anche lei seguì il percorso di Manuela e Giorgio eil suo sorriso si spense mentre entrava e si avvicinava algruppo.

«Che succede?» domandò in tono canzonatorioMichele prima che potesse dirlo lei.

«Spiritoso. Allora?»

Michele si alzò, andò a chiudere la porta e comin-ciò a raccontare.«Ma sei sicuro di aver visto proprio Pino Danie-

le?» disse Giorgio incredulo, alla fine del resoconto.«Tu che ne dici? Ti pare un tipo che puoi confon-

dere?»«Magari eri suggestionato» azzardò Manuela.

«Ma che dici? Certo che era lui. L’ho visto, nonera molto distante. E poi la ricerca e gli altri dati con-vergono verso quest’unica spiegazione».

«Forse è tutta una coincidenza, non so. Uno scher-zo?». Giorgio tentava di aggrapparsi a qualcosa.

«Prova a raccontarlo a Morrone».

«Devi parlarne col tenente» disse Manuela.«Non posso farlo. Gli ho taciuto un sacco di cose.

 Non so nemmeno se è un reato».«La verità qual è?»La domanda era venuta da Bea, che fino a quel

momento era stata, come sua abitudine, solo ad ascolta-re e a pensare.

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Tutti si erano girati verso di lei con aria interroga-tiva ma lei guardava solo Michele. Era lui a dover ri-

spondere.«Che intendi? Questa è la verità. Quale altra?»«Io non lo so. Ma di certo non è del tutto credibile.

O lo scherzo lo stai facendo tu, o forse tu hai giocatocon qualcosa di pericoloso. Tu lo sapevi che in fondoalla tua teoria c’era qualche cosa di più del fumo, non èvero? E ci hai ricamato sopra per un innocente trastullo,

che adesso ti ha messo nella merda. Sbaglio?»«È una teoria interessante. Ma la tua analisi scien-

tifica stavolta ha fatto cilecca. Ci sono cose nella vitache non sono dettate da comandi e algoritmi. Succedonoe basta. Avrei dovuto essere un idiota a sapere qualcosae scriverci un raccontino da diffondere in giro».

«Infatti».Michele si trattenne a stento dal lanciarle qualcosa.

Ma lo fece perché aveva capito che lo scopo di lei erastato sondare tutte le possibilità, e anche provocarlo untantino.

«Insomma che vuoi fare adesso?». Era ancoraGiorgio ad incalzarlo.

«Niente, che devo fare? Solo…»Tutti e tre lo guardavano aspettando il seguito.«Ho chiamato Marcella e le ho chiesto di andare

insieme a un concerto di Pino Daniele. Ce n’è uno saba-to all’auditorium. Volevo farmi firmare un autografo».

«Tu sei uscito pazzo! E che pensi di fare, incon-trarlo e chiedergli se è un sosia?» Manuela aveva parla-to di getto ma le espressioni degli altri due dicevanoesattamente le stesse cose.

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«Ma no, è solo per vederlo… non lo so, non c’èniente di male, no? Porto l’autografo a Mario per il suo

compleanno».«Secondo me, devi dire tutto ai carabinieri» Ma-

nuela era sempre più convinta.«Sono d’accordo» dissero insieme Giorgio e Bea.«Io no. Sabato vado al concerto, poi decido. Nel

frattempo, io non vi ho detto niente».Ci mise ancora un po’ per convincerli a seguire la

sua linea. Ma alla fine ci riuscì.E così, in netto ritardo, si avviarono alla riunione.

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XXVII. Tu dimmi quando, quando/ dove sono i tuoi occhi

e la tua bocca/ forse in Africa che importa. / Tu dimmi

quando, quando/ dove sono le tue mani ed il tuo naso/

verso un giorno disperato / ma io ho sete/ ho sete anco-ra.

Il concerto si era aperto così, come d’improvviso,dopo quasi un’ora dal momento in cui erano entrati. EMichele dovette ammettere che, ad ascoltare questo pezzo, la sua teoria sulla morte di Pino Daniele vacilla-

va come un castello di carte tra gli spifferi. Forse Marionon aveva tutti i torti.Marcella aveva chiamato Michele mercoledì, di-

cendogli che Pino sarebbe stato a Roma proprio quelsabato in un concerto che aveva già fatto il tutto esauri-to. Ovviamente lei aveva ottenuto due biglietti, e sareb- be stata felice di accompagnarlo. Dato che Michele pen-

sava ancora che fosse una buona idea, l’aveva ringrazia-ta di cuore e avevano preso accordi.

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Così ora stava ad ascoltare e l’atmosfera di festa,la gente intorno sinceramente rapita, la voce e la musica

che venivano dal palco, creavano una mistura coinvol-gente che lo fece sentire un critico tronfio e pieno di bo-ria per le sue opinioni sull’operato di questo artista.

 Napule è mille culure/ Napule è mille paure/ Na-

 pule è ‘a voce de' creature/ che saglie chianu chianu e/

tu sai ca nun si sulo.

Man mano che la storia di Pino Daniele scorrevasul palco attraverso le sue canzoni, si convinceva chestava imbarcandosi in un’impresa più grande di lui, oche tutto era dettato dalla stessa fantasia distorta chel’aveva portato a scrivere Il cantante di blus.

L’atmosfera del concerto indoor, le suggestioni di

 pezzi come Nun me scuccià, Che male c’è, Amore senza fine, passando per  Anima,  Mareluna, poi ancora  I Say

 I'sto cca' , andavano via via cancellando il solco tra lavita e la morte di Pino Daniele, che avevano stabilitocadere nel 1984, rendendo ancor più ridicolo il proposi-to che Michele si era prefissato.

Comm'è triste, comm'è amaro/ Sta assetato aguardà' tutt'e ccose/ Tutt'è parole ca niente pònno fa'/ Si

m'accido l’agg'jettato chellu ppoco 'e libertà/ Ca sta'

terra, chesta gente 'nu juorno m'adda da'/ Terra mia

terra mia/ comm'è bello a la penzà'/ Terra mia terra

mia/ comm'è bello a la guardà

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Il turbinio di suggestioni ed emozioni, che pure eradurato due ore, finì come era iniziato, d’improvviso,

quasi bruscamente.Michele non si rese conto di essersi alzato, trasci-

nato da Marcella che insisteva a fare in fretta per evitareche i musicisti andassero via.

«Ma il bis non lo fa?» chiese Michele ancora fra-stornato.

«Ma dormivi o eri sveglio? È uscito due volte!»Arrivarono davanti all’ingresso camerini e passa-

rono dietro una fila di persone che tentava, per poter en-trare, di corrompere o imbonire i massicci componentidello staff. Loro erano inflessibili. Sapevano che allafine qualcuno sarebbe entrato, ma quell’atteggiamentoavrebbe scoraggiato i meno determinati, filtrandoli, perselezione naturale, da chi si sarebbe conquistato il dirit-to a vedere la star.

Marcella, invece di fermarsi dietro la fila, la evitòe corse verso una porta d’emergenza che si trovavadall’altro lato del palco. Michele non disse nulla. Usan-do i maniglioni antipanico uscirono in un corridoio am- pio, che sulla destra, a giudicare dalla luce che ne pro-

veniva, sembrava portare all’uscita.Marcella si avviò dall’altra parte, sempre di corsa,tenendo Michele per mano come un bambino.

Quando Michele lo vide venire loro incontro pensòche avrebbero fatto una figuraccia. Era un ragazzoenorme, forse più grasso che muscoloso, ma con una presenza comunque imponente e minacciosa. La scritta

STAFF a caratteri cubitali campeggiava bianca sullamaglietta scura che indossava.

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«Sei Marcella?» per poco non scoppiarono a ride-re. La sua voce acuta, quasi lacerante, non sembrava na-

turale tanto strideva con il suo aspetto.Marcella riuscì a mascherare la risata con il fiatone

 per la corsa e disse «sì, sono io».«Venite con me» rispose e, per fortuna si girò,

 permettendo loro di sfogare, anche se in maniera som-messa, parte dell’ilarità accumulata.

Dopo un lungo giro si trovarono in una ampia salasu cui si aprivano quelle che sembravano essere le portedei camerini.

Attorno a un tavolo di plastica, su cui erano messealla rinfusa parecchie bottiglie di bibite varie, stavanoraccolti alcuni membri del gruppo musicale con altre persone, probabilmente dell’organizzazione o dellostaff.

Marcella si avviò da quella parte. Due di quelli lascorsero e le andarono incontro.

«Marce’, che piacere!» disse uno dei due.«Ciao, James» rispose lei.Michele si tenne in disparte mentre i due presero a

 presentare Marcella agli altri. Si sentiva terribilmente

fuori posto.Dall’altra parte della sala, verso le porte dei came-

rini, c’era un altro gruppo di una ventina di persone chesi accalcavano intorno a un camerino. Michele si avviòincerto in quella direzione. Niente di male a salutare, sidisse. E magari a far fare l’autografo a Mario.

I sopravvissuti alla selezione naturale operataall’esterno, avevano ottenuto il loro momento di atten-zione e adesso stavano lentamente defluendo, con

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l’aiuto e la sollecitazione di due buttafuori. Pino erastanco e sudato, ma continuava a sorridere a tutti, strin-

gere mani e firmare.Michele arrivò dal lato opposto e cercò nelle ta-

sche qualcosa che potesse servire come carta perl’autografo. Trovò uno scontrino del supermercato, perfortuna abbastanza ampio. Lo stiracchiò mentre si avvi-cinava.

Pino stava accarezzando una bimba di circa tre an-

ni, che stava in braccio a una delle tre o quattro personerimaste, quando vide Michele arrivare.

I loro sguardi si incrociarono e Pino smise di sorri-dere. Michele alzò la mano in cui teneva lo scontrino,ma il gesto rimase a metà. Pino, giustificato dal fattoche ormai l’efficace azione dei due buttafuori avevasgombrato il campo, fece come il gesto di entrare nelcamerino alle sue spalle. A Michele non sfuggì però, la premura con cui sembrava voler scappare da lui, e ilsangue gli si gelò nelle vene.

Poi, come se si fosse convinto che era inevitabileincontrarlo, Pino si girò verso di lui con un’espressionerassegnata e appoggiò lentamente le spalle alla portarimasta chiusa.

Uno dei due buttafuori, che aveva una faccia damastino, si avvicinò a Michele, indicandogli l’uscita conun sorriso.

Vedendo che Michele restava immobile, il mastinostava per diventare più energico, ma poi vide come siguardavano lui e Pino e rimase perplesso.

Il primo a riscuotersi fu Pino che, ancora con una penna in mano probabilmente sottratta, come spesso ac-

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cadeva, a uno dei fan, si mosse verso Michele prenden-dogli lo scontrino e sorridendo.

«Come ti chiami?» chiese ripetendo meccanica-mente la consueta formula.

«Sono, M…ario» rispose Michele, ricordandoall’ultimo momento che si era ripromesso di portarel’autografo all’amico.

«Ecco qua» disse porgendogli il foglio firmato eguardandolo ancora come se si aspettasse una sua mos-sa.

«Pino…» Michele non sapeva come continuare.Il mastino, rassicurato dal fatto che tutto sembrava

essere tornato normale, indicò nuovamente l’uscita aMichele che non si mosse.

Pino disse «guaglio’ lascia stare. È un amico mio».

Aprì la porta del camerino e gli fece cenno di en-trare.

«Ho detto bene, Michele? Sei un amico mio?» dis-se Pino quando furono dentro, sottolineando come quel

 Michele  fosse diverso dal  Mario  cui aveva dedicatol’autografo.

Un brivido gli corse lungo la schiena. Come facevaa sapere il suo nome. Non c’era che una sola spiegazio-ne. Don Vittorio era il responsabile del furto del raccon-to e di quello alla Teorema, e l’aveva informato lui. Maaddirittura riconoscerlo! Dovevano avergli scattato dellefoto.

Pensò tutto questo in un lampo. Non sapendoquanto tempo aveva, decise per un’apertura spregiudica-ta che gli permettesse di verificare le sue illazioni.

«Si sono tuo amico, Antonio»

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La persona che aveva di fronte assunseun’espressione sorpresa, ma non troppo.

«Nessuno mi chiama più così da tanto tempo. Al-lora è vero che avevi fatto ricerche e che avevi scopertotutto?»

«No, non sapevo un accidente. L’ho scoperto soloadesso!»

Ora sì, Pino era sorpreso.Le mille domande che turbinavano nella testa di

Michele e di Pino esplosero e tutti e due presero a farlecontemporaneamente.

«Ma allora tu non…?»«Come è possibile che ab- biate…?»«Perché hai scritto…?»«Come mi hai…?»«matu…?»«Che fine ha fatto Pino Daniele?»

L’ultima domanda si stagliò chiara nella confusio-

ne, e fece fermare non solo le due voci, ma anche ognimovimento nel piccolo camerino.Michele ripensò a quante volte in quegli anni, pri-

ma che quell’avventura cominciasse, si era posto con gliamici quella stessa domanda: che fine ha fatto Pino Da-

niele?  Non avrebbe mai potuto immaginare di porla un

giorno a qualcuno che conoscesse la vera risposta.«Te lo posso raccontare. Ormai il gioco è finito. Ci

siamo andati vicini tante volte, ma questa è stata unacosa così improvvisa che ci ha colti impreparati».

La sofferenza che Michele vide affiorare non era ineffetti ciò che si aspettava. Non si aspettava niente ditutto quello, per la verità.

Ma quelli non erano gli occhi di un truffatore sco- perto che si rassegna all’inevitabile confronto, o che si

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guarda disperatamente intorno alla ricerca di una via difuga.

Era un dolore vero, di perdita irrimediabile. Il tur- bamento ispirò a Michele una pena che quasi gli fecedimenticare di trovarsi in una situazione critica.

«Siete stati voi a…»«Lo so a che ti riferisci. Il tuo ufficio e tutto il re-

sto. Io non l’avrei fatto mai, né mai l’avrei permesso. Sochi ha messo in moto questa cosa. Vedrò di rimediareappena capirò come fare, ma intanto sappi che nessunosarà più messo in pericolo per nessuna ragione. Ho provveduto a fermare ogni…»

Toc, Toc.«Avanti»Entrò un uomo di colore, che Michele non rico-

nobbe.«Pino è venuta Marcella…» dietro di lui entrò sor-

ridendo Marcella.«Ciao, Pino»«Uè, Marcè. Come stai?»«Io bene» poi spostando lo sguardo verso Michele,

che era rimasto in silenzio, disse «vedo che già vi sieteconosciuti»

Michele avrebbe voluto parlare ma temeva di tra-dire con la voce le emozioni che stava provando. Senti-va di avere nella pancia come due alligatori che combat-tevano per il predominio sul territorio.

«Sei amica sua?» intervenne Pino, che era meglio

allenato allo stress.«Sì, Siamo venuti insieme. Bel concerto».

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XXVIII. L’atrio dell’ospedale era caotico. La gente sem-

 brava affrettarsi disordinatamente, ricordando a Sandroil facit ammuin attribuito al codice di navigazione dellaregia marina borbonica.

Secondo quello che si rivelava poi un abile falsostorico, questo comando, dato in occasione di visite uf-ficiali di alte autorità, obbligava a tutti i marinai a corre-re in lungo e in largo per la nave, fingendosi molto in-daffarati.

A volte, quando era di buon umore, pensava cheavrebbe dovuto adottare un ordine simile anche con isuoi uomini. Sarebbe stato divertente.

Ma l’atmosfera che si respira in ospedale avevasempre fatto un cattivo effetto sul suo umore. Sua madrediceva che si sbagliava, che era un posto di cura, in cuila gente entrava malata ma molto spesso guariva. Leiaveva fatto l’infermiera in un posto come quello per ol-

tre trent’anni. Ma non aveva avuto ragione. Era in un posto come quello che era morta.

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Da allora in Sandro si era intensificato il fastidioad entrare nei santuari della salute, come li chiamava

lei. Sosteneva che dipendesse da tanti fattori, ma nonavrebbe confessato a nessuno che, quando guardava dispalle una qualsiasi infermiera corpulenta e di staturamedia, aveva una irrazionale mistura di terrore e spe-ranza che, quando si fosse girata, avrebbe visto il viso disua madre.

Sapeva pure che questi erano elementi di rilevanza

 psicoanalitica, ma non gli era mai sembrato il caso diapprofondire.

Cercava di evitare, con le scuse più fantasiose, le pur frequenti occasioni in cui il lavoro lo portava in unospedale. Ma quella volta voleva parlare con Morrone edoveva farlo lui.

«È cosciente?» la domanda l’aveva posta al medi-co. Non riusciva a rivolgere la parola all’infermiera chel’aveva accompagnato in sala visite. L’aveva incontratanel box di terapia intensiva, e, fatalmente, era di spalle.Quando si era girata, il suo viso ovale, molto diversodallo spigoloso viso della madre, gli diede un attimo direspiro ma non sciolse il disagio.

«È vigile, ma da qui a essere cosciente…»«Che intende?»«Vede dopo un trauma simile non si ha una perfet-

ta lucidità. La memoria ritorna lentamente, e spesso nondel tutto».

«Ah, bene! E io che pensavo di poter sapere qual-cosa di utile»

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«Gli ho detto che sarebbe venuto per interrogarlo.Le do qualche minuto per parlarci, ma poi deve lasciarlo

riposare»Morrone era sul letto e non sembrava molto pre-

sente. Ma quando Sandro si presentò, sorrise e abbozzòun saluto militare. Sandro, ricordando di aver letto sullasua scheda di un passato in polizia, sorrise benevolo. I poliziotti spesso usavano schernire i carabinieri con quelgesto.

«Come va?» gli chiese sedendosi.«Na’ schifezza tene’, come deve andare?» disse

con evidente sforzo «mi hanno dato ‘na botta esagerata,e in più aggia fatt’ ‘na figura ‘e merda».

«Hanno? Quanti erano?»«Penso due. Uno mi ha sorpreso da dietro la porta

con una mazza o ‘na cosa del genere».«Se la sente di vedere qualche fotografia?»«Si, ma mi dovreste prendere gli occhiali, là sul

comodino».Sandro gli passò gli occhiali e cominciò a mostrar-

gli le schede.«Non so. Mi ricordo poco di quello che è successo:

c’era uno alla scrivania, e aveva gli occhiali rotondi. Nessuno di questi ce li ha gli occhiali» continuò a sfo-gliare cercando di concentrarsi, mentre Sandro aspettava paziente «Forse potrebbe essere questo, o questo qua,ma quanto sono alti? Quello alla scrivania doveva esserealto parecchio. Piegato come stava, arrivava fino a sopralo schermo del computer».

Sandro consultò le schede. Dei due che Morronesembrava aver riconosciuto, uno era alto meno di un

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metro e sessanta, l’altro quasi uno e novanta. «Trova-to!?» pensò titubante.

Quando anni prima, dopo una rissa in un bar, gliavevano scattato quella foto, occhialini tondi  stavastrizzando le palpebre nel tentativo di combattere lamiopia, mentre ancora si chiedeva sotto quale tavolo potevano essere finite le sue preziose lenti.

«Tenente, ora deve lasciarlo». A parlare era stato ildottore, entrato alle spalle di Sandro. Lo aveva quasi

fatto sobbalzare, immerso com’era nei suoi pensieri.«Sì, certo, vado. La saluto signor Morrone, tanti

auguri».«Grazie, mi faccia sapere se li trova quei due, che

 poi ci voglio parlare da solo qualche minuto».«Senz’altro» rispose Sandro con un sorriso.

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XXIX. Era successo tutto molto in fretta e le ultime parole

di Pino, che ancora il mattino dopo risuonavano nelleorecchie di Michele, erano state enigmatiche. «CiaoMarcella, ciao Michele. Ci sentiamo presto, eh?».

Ovviamente tutti avevano pensato che Pino si rife-risse a Marcella. Ma sulla cartolina che adesso teneva inmano, Pino aveva scritto un numero di cellulare.

L’istinto gli diceva che si poteva fidare. In fondoera convinto che, chiunque fosse, quel cantante non eraun criminale.

 Non poteva esserlo se scriveva quelle cose, perquanto lui le criticasse rispetto alla sua produzione sto-rica. Ma non era solo quello. Nel suo unico incontro conPino aveva percepito in lui qualcosa di più. Non avrebbesaputo spiegarlo, nemmeno a se stesso. Quindi non ci provò.

Alla fine si decise a comporre quel numero.

«Pronto?»«Pino?»

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«Sì?»«Sono Michele».

Così si erano dati appuntamento per quel pomerig-gio davanti all’Altare della Patria.

Era il risultato di una trattativa. Michele non si fi-dava del tutto, nonostante l’istinto. Non sapeva che tipodi persone avesse di fronte. Pino era in contatto con glistessi che avevano mandato Morrone all’ospedale. Cosaavrebbero potuto fare a lui?

Declinò l’offerta di andare da Pino allo studio o acasa, e vinse la resistenza che lui mostrava alla propostadi un posto pubblico. Temeva di essere riconosciuto.Michele gli disse di mettere un cappello e degli occhiali,magari di radersi, ma che non avrebbe ceduto. Dovevaessere un posto aperto e pubblico.

L’Altare della Patria aveva sempre molti poliziottie carabinieri a presidiarlo. Michele si sarebbe sentito alsicuro.

«Sei venuto da solo?» chiese Michele appena lovide arrivare.

«E con chi dovevo venire?»«Non lo so».

«Non ho detto niente a mio padre. Lui non sa checi siamo incontrati. La mia famiglia è così, non mi so-miglia…»

Pino si fermò un momento a pensare.«Naturalmente è stato mio padre a parlarmi di

te…»

«Da dove cominciamo?» interruppe Michele comese quella fosse una questione di importanza secondaria.

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«Raccontami prima tu» disse Pino.

Quando Michele finì di raccontare come era venu-ta fuori l’idea del racconto, Pino rimase a bocca aperta.

«Hai ragione tu, in quello che hai scritto» dissedopo un po’ «ho una lunga storia da raccontarti ma ilsucco è proprio questo: io non sono come lui. Nessuno potrebbe esserlo».

E iniziò a raccontare.Alla fine si fece largo uno strano silenzio, durante

il quale toccò a Michele restare sbalordito. Rimasero perun po’ seduti sulla sgangherata panchina che avevanoscelto una volta chiaro che avrebbero soltanto parlato.Guardavano il passeggio, la gente disinteressata di loroche controllava i bambini mentre correvano lungo l’area

 pedonale.«Ma cosa è successo a Morrone?» chiese infineMichele, ancora scosso. «Chi è entrato alla Teorema?»

«Questa è una cosa un po’ delicata. Mio padre miha sempre protetto. Ma non ha mai usato violenza percoprire questa faccenda. Era un nostro accordodall’inizio. Saputo del racconto ti ha visto come una mi-

naccia. Allora, per capire cosa ti aveva ‘ispirato’, hachiesto a un suo collaboratore di indagare. Non dovevasuccedere niente, ma qualcosa è andato storto ed è suc-cesso quel casino della guardia. Non so chi sia andatonel tuo ufficio ma posso scoprirlo. Il problema è che cisono regole nell’ambiente della mia famiglia con cui sidevono fare i conti».

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Ancora una volta passò qualche minuto durante ilquale i due cercarono di assimilare le informazioni che

si erano scambiati e di trarre qualche conclusione.Dopo un po’ Pino si scosse «Allora? Che ne pen-

si?»«Non lo so» rispose Michele sincero.«Tu credi che io l’abbia fatto per i soldi? Per la

fama?»«Sì, forse. Per cosa altro, se no?»«Io lo amavo come me stesso. Per me era più di un

fratello. Quando ho visto che se ne era andato, ho sof-ferto molto più di quanto avrebbero sofferto tutte insie-me le centinaia di migliaia di ammiratori che comprava-no già i suoi dischi.

«Detto adesso ti suonerà strano, ma l’unica cosa

che volevo fare era riportarlo in vita, far continuare ilsogno spezzato. Non sarei stato alla sua altezza, lo sa- pevo, ma ce l’avrei messa tutta. E l’ho fatto, gli ho dedi-cato tutto, sacrificando completamente la mia vita.Quanti possono dire di aver dato tanto al loro idolo?

«Adesso non ho più scelta. Devi decidere tu checosa vuoi da questa storia. Puoi diventare più famoso di

me, forse anche molto ricco. Vendere questa storia…t’immagini?»

Michele era impressionato. Che fosse sincero?D’altra parte Pino, o meglio Antonio, non era venutocon l’intento di fargli del male, e avrebbe ben potuto.Inoltre lo aveva messo a scegliere su cosa fare della suastoria, della sua vita.

«Tu cosa vorresti?» gli disse.

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«Io continuerò a fare il mio  lavoro. Continuerò a provare con tutte le mie forze a raggiungere la sua gran-

dezza, finché qualcuno mi impedirà di farlo».Michele si alzò dalla panchina e lo guardò. Prese

la sua decisione.«Forse un giorno, magari presto, ci riuscirai davve-

ro».Pino capì che Michele gli stava restituendo la sua 

vita.«Vorrei che tu non ti sbagliassi. E vorrei poter fare

qualcosa per ricambiare».Michele ci pensò sopra a lungo.«Che hai da fare giovedì sera?» gli disse alla fine.

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XXX. Michele stava tentando un parcheggio acrobatico,

come gli piaceva definirli da quando viveva in una zonain cui posteggiare era quanto di più vicino al miracolo si potesse compiere. Cercava di infilarsi tra un enorme

furgone malandato e un bidone della spazzatura. Il sa-crificio della lunga manovra era stato ripagato dal fattoche aveva trovato posto proprio nell’isolato dove vive-va.

Quando scese guardò felice il risultato dei suoisforzi. La ruota posteriore era sul marciapiede e dovevasperare che quelli del furgone non avessero da scaricare,

altrimenti non potevano che farlo salendogli sul cofano,ma nel complesso era soddisfatto.

«Michele!»«Ciao…» Michele fece un mezzo prodigio per dis-

simulare la sorpresa e l’agitazione che la vista di Sandrogli trasmise.

«Come mai da queste parti?» riuscì a dirgli senzatroppe esitazioni.

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«Passavo di qua…»«Cazzate, non è vero?»

«Sì, è una bugia. Volevo parlarti di questa indagi-ne, se hai un minuto».

«Certo, vuoi salire da me? Io abito là». Michele gliindicò l’ingresso.

«Lo so, lo so» disse Sandro con fare allusivo.«Accomodati» disse Michele, una volta entrato in

casa. Lo condusse nella spaziosa cucina, dove due diva-ni campeggiavano davanti al televisore.

«Allora, eccoci qua…»«Sandro, sai che quando sei imbarazzato sei pieto-

so?»«Sì, me lo dicono a volte»«Avanti, spara… oh, scusa»Sandro rise e si mise più comodo.«Michele ho un problema. Ho parlato con Morro-

ne…»«Ah, come sta? Io non sono riuscito ancora ad an-

dare…»

«Sta meglio, ma non mi è stato di aiuto. Forse hariconosciuto uno dei suoi assalitori, ma non è del tuttolucido e quindi…»

«Qual è il tuo problema?»«Quella gente non è venuta nella Teorema  per la

società, ma per te. Hanno preso dei dati personali tuoi

dal computer e poi lo hanno messo fuori uso».Un brivido corse lungo la schiena di Michele. Co-me aveva fatto a capire così tanto in così poco tempo? E

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come avrebbe fatto ora lui a confessargli tutto? Dopoavergli nascosto la verità, era difficile cambiare rotta.

Decise che doveva tenere la linea stabilita.«I miei dati? E che ci fanno con i miei dati. Sul

mio computer non conservo dati personali che abbianoqualche valore» disse trovando il modo di apparire sin-cero grazie all’ultima parte della frase, in cui anche luicredeva. Riteneva davvero che quel racconto non avessevalore.

«Io non lo so. Speravo potessi dirmelo tu».Sandro lo fissò con un’espressione indecifrabile.

Continuava a martellargli la testa l’idea che Michele glinascondesse qualcosa. Doveva spingerlo a parlare, oalmeno a fare qualche cosa di indicativo. Nel secondocaso avrebbe provveduto a sorvegliarlo adeguatamente per scoprire cosa.

«Senti Sandro, io proprio non so che dirti. Se vuoiti mostro quello che ho nel mio computer. L’abbiamoripristinato e, a parte alcune e-mail personali e pochealtre cose, non c’è nulla. A chi potrebbero interessare?»

«Va bene, facciamo così: martedì o mercoledìvengo con il nostro esperto del RIS e faccio fare tutti i

rilievi sul tuo computer» disse mentre si alzava, e pensòche questo avrebbe potuto dare a Michele una piccolascossa «Ora ti lascio, devo andare».

Quando Sandro scese andò a sedersi in macchinama non mise in moto. Chiamò in ufficio e si fece passa-re Manzetti.

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«Partiamo da adesso. Il soggetto è a casa. Io aspet-to che arrivi il primo di voi. Se ci sono novità richia-

mo».

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XXXI. Erano le nove di sera del lunedì, a ventiquattro ore

dall’inizio della sorveglianza, quando il marescialloManzetti vide arrivare la macchina senza contrassegni.Scese e attese che il brigadiere Govoni trovasse modo di

sistemare l’auto in uno spazio troppo piccolo. Ce la fecein poche abili manovre, il che fece pensare a Manzettiche ciascun essere umano, per quanto poco dotato, do-veva possedere almeno un’attitudine.

«Ciao Nando».«Cambio guardia. La sorveglianza sta procedendo

secondo manuale?»«Sì.» Manzetti si trattenne a stento dallo schiaf-

feggiarlo «Sono con lui da stamattina. Siamo arrivatimezz’ora fa dal lavoro. Lui è di sopra. Terzo piano, se-conda finestra dall’angolo. Il tenente se n’è andato ora.Era passato per sapere se c’erano novità».

«Va bene, Lascia pure l’avamposto. Se non hai

consegne, ora subentro io».

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«Ciao» disse Manzetti, pensando invece «ma va’ acagare!».

«Ciao».Manzetti salì sull’auto mentre Govoni tornava alla

sua. Mise la freccia per uscire dal parcheggio, quandoun deficiente che arrivava cominciò a strombazzare e alampeggiare. Gli venne voglia di urlargliene quattro, maquando si girò per farlo fu colto da una sensazione didéjà vu. Gli abbaglianti ancora accesi del cretino aveva-

no illuminato, sul marciapiede, un uomo che andavaverso il portone di Manara.

Lo avevano addestrato a guardare facce e a ricono-scerle, e lui era molto bravo se si trattava di beccare un‘segnalato’ nella folla.

Quella faccia non gli era nuova, ma non riusciva aricordare dove… ma certo!

Scese dalla macchina e andò da Govoni.«Hai visto quello?»«Sì, il soggetto che è penetrato nel portone ora?»«Già. Aveva una chiave? O ha citofonato?»«Ha citofonato».«Dobbiamo chiamare il tenente».«Perché?»Senza preoccuparsi di rispondere prese il cellulare.«Tenente, sono Manzetti. Ha con se le schede che

le ho stampato?»«Sì».«Potrebbe tornare qui? Credo che uno di loro sia

appena andato a trovare Manara».Sandro arrivò pochi minuti dopo.

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Manzetti prese le schede mentre lo aggiornava, lesfogliò finché disse «Questo!», quando raggiunse la

scheda relativa a ‘O Zicchinett.«E ha citofonato? Quello stronzo lo conosce! Che

cazzo sta combinando? Da quanto è entrato?»«Dieci minuti».«Un quarto d’ora»Avevano risposto contemporaneamente, ma San-

dro nemmeno ci aveva fatto caso.«Andiamo su, magari bussiamo alla porta».Si mossero insieme e giunti al portone Manzetti,

rivelandosi un uomo pieno di risorse, disse: «Possoaprirlo in 3-4 minuti».

Sandro considerò un istante la cosa. Poi lesse inomi sui citofoni e ne schiacciò uno di un interno

dell’ultimo piano.«Chi è?»«Buonasera» disse con una voce educata e cordiale

«sono il figlio della signora Barbati, del primo piano.Potreste aprirmi il portone. Sono senza chiavi». Tratten-ne il fiato, sapendo che non sempre funzionava.

Zrrrr… tac…«Molte grazie, e mi scusi il disturbo»Arrivati all’ascensore lo videro bloccato. Manzetti

si fece avanti senza parlare e armeggiò sulla porta. In unattimo furono dentro e schiacciarono il tasto del quarto piano. Sandro non pensava che Michele si aspettasse lavisita, ma meglio non trascurare nulla. Scesero in silen-

zio il piano che li separava dall’appartamento di quelloche era ormai un sospetto. Le scale e il pianerottolo era-no deserti.

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Davanti alla porta di Manara, Sandro considerò lesue opzioni.

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XXXII. O’ Zicchinett aveva fermato l’auto troppo lontano.

Anche se da dove si trovava riusciva a vedere il portone,non gli sembrava la posizione ideale. Ma di altri posti,nemmeno a parlarne.

In più non poteva farsi notare. La sua BMW era parecchio vistosa, con quei cerchi enormi, le cromaturee tutto il resto, quindi meglio essere prudenti.

Manara ancora non si era fatto vedere ma lui era paziente. Avrebbe aspettato il tempo necessario. Con-trollò ancora di avere tutto: la pistola, i guanti, i passe- partout, i grimaldelli, il torcipollici e tuttol’armamentario che usava da ragazzo.

Quando rialzò gli occhi vide arrivare una macchi-na. Il modello e il colore erano giusti. La seguì mentreveniva parcheggiata a metà sulle strisce pedonali e fecetra sé un commento sdegnato sul parcheggio illecito.Venendo da lui era opportuno quanto quello di un maia-

le che si lamenti di chi entri nel porcile con le scarpeinfangate.

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Era Manara. Lo vide entrare nel portone. Sul cito-fono, aveva controllato, c’era scritto terzo piano. Ma da

dov’era non riusciva a vedere le finestre. Inoltre non sa-rebbe servito a molto.Aveva già deciso di aspettare ancora almeno una

mezz’ora. L’esperienza gli aveva insegnato che non sideve sorprendere la gente in casa appena rientra, quandoè ancora guardinga, e tiene alta quell’attenzione neces-saria alla sopravvivenza nel mondo esterno.

L’ambiente domestico, come un guscio protettivo,dopo un po’ fa rilassare le persone, e le rende più docilie indifese.

In quel momento lui sarebbe entrato in scena.Manara gli avrebbe detto tutto, la verità assoluta, e

 poi sarebbe morto. Il segreto di don Vittorio sarebbe sta-to al sicuro e lui sarebbe diventato un eroe per la fami-glia.

Ma adesso stava pensando. Non doveva pensare.Pensare è nemico della perfezione. L’aveva letto in unlibro anni prima. Era un giallo. Anche lui leggeva, micasolo don Vittorio, che nonostante quella enorme biblio-teca continuava a parlare come uno scaricatore. Quello

che pronunciava quella frase, trent’anni dopo faceva una brutta fine. Ma a lui ancora trent’anni sarebbero bastati.Ci avrebbe messo la firma.

Guardò l’orologio. Era ora.Scese dalla macchina e si avviò verso il portone.

Un cretino arrivava lampeggiando e suonando per nonfar uscire un povero cristo da un parcheggio. «Che inci-

viltà» disse quasi ad alta voce, allungando ancora, se possibile, la distanza tra predicare e razzolare.

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Al citofono bussò a un piano alto.«Chi è?»

«Buonasera, sono il tecnico dell’ascensore per unachiamata d’emergenza. Pare ci sia qualcuno bloccato.Per favore può aprirmi?»

Zrrrr… tac…Entrò di corsa, e fu fortunato. L’ascensore era al

 piano terra. Aprì la porta e bloccò la molla di ritorno. Sel’inquilino a cui aveva bussato era curioso, avrebbe do-vuto scendere a piedi per verificare. Inoltre quella seranessuno avrebbe usato l’ascensore, a meno di essere ca- pace di sistemare la molla.

Salì le scale con calma e al terzo piano si fermò aleggere i nomi. La porta di Manara aveva due serrature.Quella blindata a doppia mappa avrebbe richiesto del

tempo. Ma era certo che Manara non la tenesse chiusamentre era in casa. L’altra era una passeggiata.Dieci secondi dopo la porta era aperta e lui stava in

silenzio ad ascoltare un televisore acceso. Accostò la porta senza chiuderla per non far rumore.

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XXXIII. Il lunedì di Michele in Teorema era stato durissi-

mo. Poco prima delle nove di sera, arrivato sotto casa,mise la macchina sulle strisce pedonali. Di solito evita-va accuratamente di farlo. Non per il timore di dover

rimpinguare le entrate comunali, cosa che certo non era piacevole, ma per un senso civico che sempre più spessosentiva fragile nella frenesia della ‘vita moderna’, e acui si aggrappava per mantenere il rispetto di sé sopra diun livello minimo accettabile.

Quella sera, però, l’avrebbe lasciata al centro dellastrada se non avesse trovato quel buco. Era stanco, di

cattivo umore e il suo mal di testa aveva deciso di in-frangere ogni primato.

Forse avrebbe fatto lo stesso, anche se avesse sa- puto che in quel momento tre paia d’occhi erano attentia ogni sua mossa.

Entrò in casa e accese il televisore. I telegiornali

cavalcavano ogni tragedia di cui non fosse vietato parla-re, mostravano un carosello di facce di media-politici,

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che pontificavano su tutto e il contrario di tutto, riser-vandosi la facoltà di cambiare idea il giorno dopo.

Era indeciso. Per prendere un farmaco efficienteavrebbe dovuto prepararsi la cena e non ne aveva alcunavoglia. Ripiegò su qualche sandwich, raffazzonato conquello che nel suo frigo non aveva ancora superato lascadenza. Di solito si accorgeva che qualcosa nel suofrigo era andato a male, solo quando lo vedeva muoversie pulsare di attività biochimiche.

Gli sembrò di sentire un rumore all’ingresso, manon ci fece troppo caso. Finché non sentì una voce allesue spalle che di certo non veniva dal televisore.

«Buonasera!»Si girò di scatto, sorpreso ma non ancora spaventa-

to. Vide un uomo sorridente, e questo lo rassicurò un po’, tanto da consentirgli di parlare.

«Chi è lei? Com’è entrato? Cosa desidera?»«Desidero che mi racconti delle cose, Miché. E

non facciamo scherzi» rispose ‘O Zicchinett mostrandola pistola.

Adesso sì, aveva decisamente paura.«Senti» riuscì a dire «Se vuoi soldi, non ne ho

molti, ma ti do tutto».«Michè, non fare lo scemo. Tu lo sai che voglio»«No, non lo so. Dimmelo e io faccio il possibile»«Michè, tu mi darai il possibile e pure

l’impossibile, se te lo chiedo, è chiaro?»«Sì».

«Siediti!»

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Michele si sedette sulla sedia che gli veniva indi-cata e si rese conto che ‘O Zicchinett armeggiava per

legarlo da dietro. Sentì i lacci che stringevano le cavi-glie e i polsi ai montanti della sedia. Non sapeva dire se fosse un buon segno. Se lo

aveva legato, non voleva ucciderlo, almeno non subito.Ma del resto si era fatto vedere in faccia, quindi era as-sai probabile che avesse intenzione di farlo comunque.Forse prima voleva qualcosa. Sprecò un attimo a chie-

dersi come faceva a pensare così lucidamente pur es-sendo dal lato sbagliato della pistola, prima di decidereche, qualsiasi cosa volesse da lui quel tizio, dovevatemporeggiare.

«Senti, dimmi cosa vuoi, non faccio resistenza, èinutile che mi leghi».

«Adesso non fai storie, ma quando userò questo,forse le farai» disse esibendo il suo torcipollici «tu lo saiche è questo?» disse alzando il volume del televisore.

Michele non rispose. Non sapeva cosa fossequell’oggetto, ma di certo non prometteva niente di buono.

Con un gesto rapido, ‘O Zicchinett passò intorno al

viso di Michele un bavaglio e lo legò prima che lui po-tesse rendersi conto di quanto accadeva.«Ah!» fece ‘O Zicchinett sedendosi ad ammirare la

sua opera «Mo’ possiamo parlare un po’ in pace, eh?».Michele rimase in sienzio. «E va bene, non puoi parlare,ma mi puoi sempre fare sì o no con la testa. Non è ve-ro?».

Michele annuì.

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«Bravo! Adesso parliamo un po’ del nostro amicocantante, eh? Che ne pensi?».

Michele si rese conto che si trovava di fronte a unemissario di Don Vittorio. Ma Antonio non poteva aver-lo tradito così.

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XXXIV. Il pianerottolo era buio. Sandro aveva detto ai col-

leghi di non accendere la luce delle scale e, una voltatanto, Govoni non aveva fatto cazzate. Dalla porta pro-veniva l’audio di un televisore. Considerò per un istante

che era davvero troppo alto per uno che ha un’ospitema, prima che potesse lanciarsi in elucubrazionisull’argomento, si appoggiò alla porta e scoprì che eraaperta.

Fece segno a Manzetti e Govoni di non fare rumo-re e diede l’ordine di ingresso. Prima lui, poi Manzetti.Govoni fuori per controllo ed eventuali rinforzi. Tutto

questo nel muto codice di segni che la lunga esperienzae i manuali operativi avevano trasformato in linguaggio.

Spinse lentamente la porta e l’audio del televisoreinondò il pianerottolo. Si preoccupò che qualcuno deivicini potesse aprire la porta in quel momento per la-mentarsi. Sarebbe stato molto spiacevole. L’atrio dellacasa di Manara era illuminato solo dal riverbero dellaluce accesa in cucina.

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Per fortuna Sandro conosceva la casa, pur essen-doci stato solo una volta. Per una deformazione profes-

sionale, che lui chiamava allenamento, ogni volta chevisitava un nuovo ambiente ne studiava i dettagli, comese dovesse diventare un terreno di scontro. Spesso erastato un esercizio utile. Forse lo sarebbe stato anchequesta volta.

Si avvicinò alla porta aperta della cucina con Man-zetti a coprire la parte buia della casa. Sentì qualcuno

che parlava nella confusione creata dal televisore.«… Adesso parliamo un po’ del nostro amico can-

tante, eh? Che ne pensi?».Sandro non riusciva a vedere l’interno della cuci-

na, ma decise di aspettare che i due dicessero qualcosadi compromettente prima di rivelare la sua presenza.

Quando Manzetti tornò da una veloce esplorazionedel resto della casa, indicandogli che non c’era nessunaltro, lui si avvicinò allo stipite per ascoltare meglio.

«Mi devi solo rispondere a qualche domanda e tilascio stare. La tua amica ha letto il racconto. Qualcunaltro sa la storia?»

«Mmh».

«Miché, non fare il fesso. Se mi dici nessuno e poiscopro che non è vero… lo sai che ti faccio fare una brutta fine. Come a quella guardia».

Stavano minacciando Michele. Sandro era indeci-so. Il suo aggressore stava parlando, e forse avrebbe da-to indicazioni utili all’indagine se lo avesse lasciato par-lare. Un intervento a questo punto, invece, gli avrebbe

impedito di sapere. Solo dalla voce non riusciva a capirese l’aggressore era di spalle alla porta. Sarebbe stato tut-

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to più facile così. Ma ne dubitava. Se era un professioni-sta non si sarebbe fatto fregare così facilmente.

«Hai ancora copie del racconto?»«Mmh».Sandro cercava disperatamente di capire.«Guaglio’ tu non mi devi fare incazzare! Voglio

sapere tutto, è chiaro?»Sandro sentì un rumore attutito e capì che

l’aggressore stava colpendo Michele. Non poteva aspet-tare oltre. Si girò verso Manzetti e gli fece altri segni.Poi estrassero le pistole e Sandro entrò nella cuci-

na urlando «Fermo!». La luce dei neon era più forte diquanto Sandro si aspettasse e impiegò un istante ditroppo a inquadrarlo nel mirino.

 Nello stesso istante in cui Sandro varcò la soglia,

‘O Zicchinett’ che aveva ancora alzata la pistola con cuiaveva colpito Michele, fece fuoco due volte, per rifles-so.

La prima pallottola finì nelle piastrelle alle spalledi Sandro che, colto di sorpresa da una reazione così ra- pida e violenta, si era lanciato d’istinto sul fondo dellacucina. La seconda si infilò nel braccio sinistro, facen-

dolo ruotare in una piroetta quasi comica.‘O Zicchinett fece l’errore di seguire con lo sguar-

do l’intruso che si accasciava e non si avvide di Manzet-ti che, entrando, gli sparò tre colpi in rapida successio-ne. Una macchia rossa gli si allargò rapidamente sul to-race. Fu l’ultima cosa che riuscì a vedere prima di crol-lare a terra.

Manzetti sapeva che era morto, ma si precipitò lostesso a controllare e a raccogliere la pistola. Diede

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un’occhiata a Michele che, spavento a parte, sembravastare bene. Poi corse da Sandro per accertare la gravità

della ferita.In quel momento Govoni entrò con la pistola spia-

nata e una faccia grigio topo.«Posa il giocattolo e chiama un’ambulanza, muo-

viti!»«Sissignore… cioè, va bene… insomma…»«Ti dai una mossa?»Manzetti vide il foro d’entrata della pallottola nel

 bicipite, pochi centimetri più giù della spalla. Era statofortunato, anche se la pallottola non era uscita. Sarebbe bastato un soffio più all’interno per raggiungere il cuo-re.

«Niente di grave, Tenente. Ora le fermo

l’emorragia».Si sfilò la cintura e la passò intorno al braccio.

Strinse forte.Sandro urlò a denti stretti cercando di contenersi,

mentre si domandava «Ma ‘sto Mazzetti è pure infer-miere?».

 Nel frattempo Govoni, chiamata l’ambulanza, ave-va liberato Michele che si era avvicinato.

«Non sai che piacere vederti» gli disse con la voceancora insicura e il battito a mille.

Poi indicò la spalla «Fa male?»Sandro rispose a fatica «No, è solo un graffio…

ahh! Come cazzo fanno a dirlo nei film? fa un male ca-

ne!»

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Michele, nonostante tutto, riuscì a ridere mentresentiva una sirena avvicinarsi.

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XXXV. Due ore dopo la sparatoria, portato via ‘O Zicchi-

nett, si trasferirono tutti in caserma. Il magistrato di ser-vizio, un tipo minuto con la faccia da criceto, aveva det-to a Michele di aspettare.

Seduto nella sala interrogatori, cominciò a fareun’analisi di quello che era successo. Pino l’aveva tradi-to? Non lo credeva possibile. Ma che poteva fare? Rac-contare tutto e tradirlo lui? Oltre a mancare alla promes-sa fatta, non sapeva a cosa sarebbe andato incontro, nonera un avvocato. Forse aver nascosto quelle informazio-ni a Sandro era un reato. Avrebbe voluto chiamare Pino,

ma temeva che qualcuno potesse ascoltarlo.Prima di scendere di casa aveva ripiegato in tasca

una copia del racconto, stampata il giorno che Sandroera stato a casa sua. Voleva tenerla a portata di mano.Se avesse deciso di raccontare tutto, ne avrebbe avuto bisogno.

Alla fine decise che era andato troppo avanti perfermarsi adesso. Appena i carabinieri l’avessero lasciatoandare, avrebbe chiamato Pino e preso una decisione.

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Faceva sempre in tempo a tornare dentro e raccontaretutto.

Intanto, per il momento, lui restava semplicementevittima di un’aggressione in casa. Come mai i carabinie-ri fossero intervenuti, avrebbe dovuto spiegarlo Sandro,che era in ospedale.

D’altra parte Michele non lo sapeva. Aveva solo potuto immaginare che Sandro lo stesse sorvegliando.

Erano quasi le sei del mattino, dopo quelli che aMichele erano parsi cento colloqui con altrettanti milita-ri, quando finalmente dissero a Michele che poteva an-dare. Ovviamente doveva tenersi a disposizione.

Manzetti, che aveva ancora da sbrigare un bel po’di pratiche, gli disse preoccupato «È sicuro di volereandare a casa? Noi abbiamo tolto i sigilli, perché il ma-gistrato ha detto che era tutto chiaro, ma la sua cuci-na…»

«Sì, lo so, non si preoccupi. Però voglio prima passare in ospedale per vedere come sta Sandro».

«Mi ha chiamato adesso. Hanno estratto la pallot-tola in anestesia locale: nessun danno. Tornerà comenuovo».

«Volevo ancora ringraziarla».«Non si preoccupi di questo. Al limite, poi, un

modo ce l’avrebbe…».Gli occhi del militare si ridussero a due fessure.

Michele lo guardò con un senso di disagio.«Quale?» disse quasi sottovoce.

«Vada, vada a trovare il tenente, gli farà piace-re…»Fuori dalla caserma Michele prese il cellulare.

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«Pronto?» la voce era assonnata.«Pino?»

«Sì. Chi è?»«Sono Michele Manara»«Ma che…?» Pino stava per lanciargli ogni male-

dizione, ma Michele lo interruppe.«Tu non ne sai niente di quello che è successo sta-

notte a casa mia?»

«Che stai dicendo?»«Ieri sera qualche amico tuo o della famiglia, un

tale che mi dicono chiamassero ‘O Zicchinett, è venutoda me e di certo non mi voleva fare una visita di corte-sia»

«Cazzo… Tu come stai? Tutt’apposto? Guarda cheio non ne so niente, ma mo’ mi incazzo davvero. Senti

mi devi credere…»«Io sto bene. Ma i carabinieri hanno ucciso il tizio

nella mia cucina. Aveva sparato a uno di loro»«Gesù… E mo’ come si fa? Gesummaria… Senti

va bene, facciamola finita. Vengo io a Roma».«Non ho ancora detto niente ai carabinieri».

«Come…?»«Voglio sapere la verità: chi è sto Zicchinett e chi

lo ha mandato da me?»«So chi è. Penso che sia venuto per i fatti suoi, per

farsi bello con mio padre. Lo so che non mi credi, mamio padre mi ha dato la sua parola».

«Sì, la parola. Sai che…»«No, no! Aspetta. Non voglio difenderlo, ti ho det-

to come la penso. Ma per persone come mio padre dare

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XXXVI. Quando Michele entrò, Sandro stava trafficando

con un moderno lettore mp3, evidentemente in difficol-tà. Aveva un braccio bloccato e fasciato, il colorito pal-lido e un livido sulla parte sinistra del viso, dove aveva

sbattuto cadendo.«Complimenti, bella cera. Sembri uscito dallo sha-

ker di un barman impazzito».Sandro, col braccio buono, lanciò l’infernale stru-

mento che aveva in mano sul comodino «Sarai bello tu,dopo la notte che hai passato coi colleghi».

«Non ti commuove il fatto che sono venuto qui,invece di andarmene a dormire?»«No, non sono commosso. So perché sei qui».Sandro si era fatto improvvisamente serio, e Mi-

chele poté osservare l’animo di sbirro che era in luicomporsi nella smorfia del suo viso.

La cosa lo spaventò ma era deciso a tenere duro.

 Non fece commenti sulla divinazione di Sandro circa lasua visita, così fu lui a riprendere.

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«Sì che lo è. Michè… non mi fare incazzare».«Facciamo così: io provo a raccontare qualcosa e

tu mi fermi quando capisci che non dovresti sentire al-tro».

«Questo non è un accordo».«Sì che lo è. Sandro… non mi fare incazzare»Sandro tacque per non prendere impegni, ma Mi-

chele lo considerò un patto.

«Un giorno alcuni amici parlavano a vanvera di unartista che, a loro dire, non aveva più lo smalto di untempo. Cazzeggiando, si persero nella congettura chequesto artista fosse morto e fosse stato sostituito da unsosia. Uno di questi…»

«…il più cretino…» intervenne Sandro che intuì dichi si parlava.

«Sì, va bene, il più cretino…» rise Michele, ri- prendendo a raccontare «…decise, non avendo vera-mente un cazzo da fare, di scrivere un racconto in cui siconcretizzava quella fantasia. Un’opera discutibile, chesuscitò però un inatteso quanto sgradito interesse, so- prattutto in persone che non apprezzavano la sua vero-simiglianza».

«Fermati».«Adesso ho cominciato…»«E ti fermi… Io non posso continuare ad ascoltarti

e poi fare finta di non aver sentito».Michele ci pensò un attimo.«Non ti chiederò di farlo. Alla fine prenderai la tua

decisione. Ecco qua…» Michele gli mise in mano la co- pia del racconto che aveva ancora con sé.

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«È questo?» chiese Sandro titubante.«Sì». Michele si mise comodo sulla sedia, incro-

ciando le braccia, come chi si disponga ad aspettare, in-vitando implicitamente Sandro a leggere.

Dopo venti minuti Sandro disse «Non ci credo».«Nemmeno io ci credevo».«Adesso mi devi raccontare il resto. Tutto quanto»Ci mise un’altra ora e mezza a raccontare tutto

quello che era successo dopo, comprese le sue congettu-re. L’unica cosa che non riuscì a spiegare a Sandro ful’istintiva fiducia che aveva in Pino.

«So che cosa significa» disse Sandro «capita spes-so anche a me nel mio lavoro. Ma non sempre il consi-glio dell’istinto è giusto. Ho avuto la stessa sensazionequando ho conosciuto te. Però tu mi hai riempito di bal-

le e mi sono beccato una pallottola».«Sandro…»«Dai, non fare lo stronzo. Scherzavo».Passò qualche minuto, durante il quale Sandro

 pensava a cosa fare e Michele non sapeva cosa dire.Finirono con il parlare contemporaneamente.

«Che si fa…?»«Io credo che…»Risero, ma Michele riuscì a dire «Prima tu».«Credo che questa storia è un bel casino. Don Vit-

torio Cardamone. Porca puttana. Suo figlio».«Eh!»«Sarebbe bello far saltare tutto fuori…»

«Ma…?»«Ma non è facile provare quello che dici. Immagi-na un momento come collegare il tizio morto a casa tuo

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con Don Vittorio. Non c’è modo. Abbiamo in mano so-lo Giannini, che a questo Zicchinett manco lo conosce-

va, a quanto dice».«Chi è Giannini?»«Amedeo Giannini, il ladruncolo che spaccia in-

formatica rubata e che ha lasciato un’impronta sul tuocomputer. Ora so cosa cercavano» disse Sandro, scuo-tendo il rotolo che aveva fatto con le pagine del raccon-to.

«Pare che sia venuto con un altro di cui Morroneha fatto un riconoscimento vago, e che stiamo cercando per poterlo interrogare. Ma, anche se lo becchiamo, nonne verrà fuori niente. Non tradirebbero mai Don Vitto-rio».

«E il figlio scomparso, e la morte di Pino?»

«Guarda che a noi ci rovina la televisione. Tra fic-tion in cui la scientifica e i RIS fanno salti mortali triplicarpiati, e salotti di talk show dove si moltiplicano i pla-stici delle case del delitto, la gente pensa che noi pos-siamo fare quello che vogliamo. Salvo risolvere il caso,ovviamente.

«Ma qui il fatto è difficile. Su che basi chiederei

un mandato per avere il DNA di un cantante famoso? E per confrontarlo con quale campione? Uno spazzolinodi vent’anni fa? Potrei, forse, provare che è figlio di donVittorio, ma dato che mater semper certa est, paternumquam, non è nemmeno sicuro. E inoltre questo non proverebbe che non è Pino Daniele. Al massimo prove-rebbe che Pino Daniele è il figlio di don Vittorio».

«Ancora con il latino?» sorrise Michele.

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«Mi do un tono. Ma a parte tutto, mi renderei ridi-colo con quest’indagine. Per l’effrazione nel tuo ufficio

e la botta a Morrone, ho un colpevole, forse due se ilriconoscimento di Morrone si fa meno nebuloso. Possostabilire mezzi, occasione, ma non un movente. Anchese coi loro precedenti non mi serve.

«Circa l’aggressione casa tua ho tutte le prove chevoglio, e noi eravamo lì a sorvegliare te in relazioneall’effrazione, naturalmente. Ma ho anche un cadavere a

cui non posso chiedere perché ti voleva torturare e forseuccidere».

«Ti resto solo io» disse alla fine Michele.Sandro assunse un’aria seria «infatti. Un pazzo

farneticante di complotti e di sostituzioni di identità chenon si possono provare. Perfetta conclusione diun’indagine del cazzo».

Michele lo guardò colpito dall’ultima frase. Glivenne il dubbio che Sandro davvero non credesse aquello che gli aveva raccontato.

«Michè, vattene a dormire, che mi fai riposare pu-re a me. Anzi passami quell’arnese che mi sento un po’di musica buona invece di stare a sentire a te».

Michele meccanicamente gli passò l’apparecchio esi avviò lentamente alla porta. Nell’uscire sentì che illettore di Sandro, cui lui aveva sfilato le cuffie, era fi-nalmente partito.

Si voltò a guardarlo mentre lo stupore si trasfor-mava in comprensione. Sorrise vedendolo ascoltare adocchi chiusi la selezione, senza dubbio premeditata, e

fingere beatamente di ignorarlo.

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… simmo lazzari felici/ male 'e rine ma nun se di-

ce/ musicante senza permesso 'e ce guardà'/ e cu 'e

spalle sotto 'e casce/ nun se sente cchiù l'addore 'e ma-re…

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XXXVII. Era sul letto da meno di tre minuti. O almeno così

gli era parso quando lo squillo del telefono lo riportò afatica nel mondo reale.

Avrebbe voluto chiamare i suoi amici prima, maera troppo esausto per sostenere una discussione conloro, che a ragione gli avevano detto di starci attentocon quella gente.

Così Michele si era messo sul letto, vestitocom’era da oltre trenta ore, e si era addormentato.

Ma, consapevolmente, aveva lasciata aperta la sua porta tecnologica sul mondo. Ed era quella che ora stava

reclamando il suo ruolo di torturatrice del sonno cheimplicitamente gli aveva concesso.Prese il diabolico apparecchio dal comodino, dove

questa volta aveva ricordato di riporlo, e vide il nome diManuela lampeggiare sul display.

Vide anche l’ora sulla radiosveglia. Un calcolocomplesso gli permise di capire che i suoi tre minuti

erano durati quasi cinque ore.

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«Insomma non si può proprio dormire in santa pa-ce?»

«Quando imparerai a rispondere al telefono comesi deve? Che fine hai fatto? Che è successo? Comestai?»

«Una domanda alla volta. Mi sono appena resoconto che non mangio da troppo tempo, e se tu e Gior-gio volete qualche ragguaglio, dovete prima permetter-mi di nutrirmi. La mia cucina non è praticabile al mo-

mento. Che ne dici di vederci da Mario al Salaria tramezz’ora?»

«Ma dicci almeno come stai…»«Io sto bene, credo. In salute, almeno. E tutto do-

vrebbe essersi sistemato. A dopo».«Devi imparare anche a chiuderle le conversazioni.

Ciao».La mezz’ora fu spesa tutta sotto la doccia tiepida.E Michele avrebbe voluto passarci anche più tempo. Manon voleva che gli amici lo aspettassero troppo. Inoltreil buco nello stomaco stava trasformandosi in una vora-gine che al confronto il Grand Canyon sembrava unaminuscola crepa.

Uscendo si affacciò nella cucina. I segni delloscempio della notte prima esibivano una macabra im-mobilità. Persino una sedia, rovesciata probabilmentedalla scientifica per tracciare il contorno del cadavere,era rimasta con la spalliera appoggiata al frigorifero.L’unica cosa che aveva cambiato aspetto era il sangueormai rappreso, diventato, dal rosso che ricordava, un

marrone scurissimo che sembrava caramello bruciato.E poi c’era un odore…

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Era cattivo e dolciastro, così denso che sembravadi poterlo toccare. Una volta aveva letto che l’olfatto

 percepisce le molecole odoranti dissolte nell’aria. Mate-ria. La cosa l’aveva impressionato molto, perché primadi allora, aveva sempre immaginato che un cattivo odo-re non avesse una connessione fisica con ciò che lo ge-nera. Adesso più che mai capiva che quella connessionedoveva esistere.

Si chiese come avrebbe fatto a pulire, a sistemare

quel casino. Scene di quel tipo le aveva viste solo al ci-nema. E nei film non si parla mai di quello che succededopo il passaggio della scientifica. Di quelli che devonolavare via sangue e resti umani, otturare fori di proiettilinei muri, e riportare gli ambienti a ciò che erano primadi diventare scene del crimine.

Quelli che devono far sparire odori simili.

D’improvviso non aveva più molta fame. Si voltò piano verso la porta e uscì.

Quando arrivò al Salaria trovò una tavola imbandi-ta carica di quasi tutto il repertorio di Mario. Il servizionon era il punto di forza del bar. Di solito ci si servivada soli e si mangiava con argenteria, come Mario lachiamava, rigorosamente monouso.

Quella sera, invece, la tavola era davvero lussuosa per gli standard del locale.

«Michele…» dissero praticamente tutti in coro ap- pena entrò. L’attesa era palpabile.

Manuela e Giorgio si erano alzati per accoglierlo,quasi fosse un reduce di guerra. Vide anche Bea, evi-

dentemente avvertita dai due, che restò seduta a guar-

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darlo con uno sguardo di preoccupazione e rimproveroinsieme.

Mario, sentiti gli altri, venne fuori dal retro e urlòun saluto. Lui non aveva saputo cos’era successo, e tuttisi erano ben guardati dal diffondere una notizia cheavrebbe richiesto troppe spiegazioni.

«Buonasera, che si mangia?» esordì lui tentando,senza troppo successo, di apparire meno stanco e piùallegro di quanto non fosse.

«Ti ho preparato le crêpes coi tagliolini. E lo spez-zatino».

A Michele la fame tornò rapida com’era svanita ecominciò a rimpinzarsi. Non aveva avuto ancora il tem- po di prepararsi e di raffazzonare una versione accetta- bile dei fatti.

Mentre mangiava decise che avrebbe raccontatoquello a cui erano ufficialmente arrivati i carabinieri. I piccoli dettagli circa il coinvolgimento di Pino sarebbe-ro rimasti per il momento confidenziali.

Sapeva, tanto per le leggi di Murphy quanto peresperienza, che la probabilità che un’informazione ri-servata si diffonda, è proporzionale al quadrato del nu-

mero di persone che la conoscono.Come prevedeva non gli permisero di finire.

Quando decisero che si era nutrito abbastanza, iniziaro-no il fuoco di fila delle domande.

Resse bene sulle prime, giustificando una certa ri-trosia con la presenza di Mario e di altri clienti.

Ma circa un’ora dopo, risposto che ebbe a tutte ledomande e raccontati tutti i fatti che decise pubblici, i

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suoi amici si fermarono quasi contemporaneamente aguardarlo.

«Tu vuoi farci credere che è una coincidenza?»Bea. Lo feriva che fosse sempre lei a dubitare

schiettamente di lui, come se non gli importasse di con-servare la sua benevolenza. Anche se, questa volta, ave-va ragione.

«Sì, certo!» disse con più impeto che convinzione,rendendosi conto solo dopo qualche secondo della gaffe.

Con sarcasmo ostentato, infatti, Bea si rivolse aglialtri «Ecco, vedete? Vuol farcelo credere. Non che siavero, però».

Manuela non parlava, ma guardava Michele con le palpebre socchiuse. Giorgio aveva un’espressione cheesprimeva insieme rispetto per la riservatezza e delusio-

ne per l’esclusione.Mario, che li aveva visti troppo impegnati a discu-tere di chissà cosa per raggiungerli al tavolo, era andatonel retro e si era messo a cucinare per la sera.

Anche questa volta Michele aveva una decisioneda prendere.

«Fanculo Murphy» pensò. E iniziò a raccontare

tutta la storia.Giorgio fu l’unico a tentare di parlare alla fine del

racconto «Vuoi dire che il tenente Ciotoli…»«Ha capito e non vuole intervenire» lo prevenne

Michele «ma ha anche ragione sul fatto che sarebbeun’indagine del cazzo. Non ha niente in mano. Sarebbesolo un bel colpo giornalistico. Per questo nessuno devesaperne niente e nessuno deve sapere che voi sapete».

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«Quindi hai il numero di Pino Daniele, e vuoi invi-tarlo qui giovedì sera? Ma sei pazzo?». Manuela quasi

non ci credeva.«Veramente l’ho già invitato. Domani lo chiamo

 per ricordarglielo. Più tardi dobbiamo convincere Marioad anticipare la festa per il suo compleanno. Ma poi perché sarei pazzo? Che c’è di male? Un artista non de-ve mangiare? E poi magari ci fa tre o quattro pezzi, chi-

tarra e voce».

«Mario avrà un infarto. Altro che autografo» disseGiorgio sogghignando.

«Mario potrebbe avere più che un infarto, se gliamici di Pino, immaginando che ne hai parlato, pensanodi venire qui al suo posto, a prendere quattro piccionicon un Kalašnikov».

Michele sorrise all’uscita seria di Bea. Era unasoddisfazione vedere che anche lei, qualche rara volta, poteva sbagliarsi.

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XXXVIII. Mario aveva fatto qualche resistenza a spostare

dalla domenica di chiusura al giovedì la sua festa dicompleanno. Pur essendo un giorno moscio, il giovedìera pur sempre attivo. Il mancato guadagno è la bestia

nera di ogni commerciante.Lo convinse la promessa di una grande sorpresa,

ma forse di più il fatto che l’attivo infrasettimanale eraquasi esclusivamente imputabile ai suoi amici dellaTeorema.

Ancora non era persuaso quando il martedì seraaveva messo il cartello ‘Giovedì sera chiuso - festa pri-vata’ all’ingresso del locale.

Ma cominciò a farsi trascinare dall’entusiasmo giàdal mercoledì mattina, quando decise il menù e si miseal lavoro.

Il buffet che mise in mostra quando Giorgio e Ma-nuela entrarono nel locale, quel giovedì sera, era im-

 pressionante per assortimento e quantità, e presto Gior-gio, con qualche assaggio clandestino, ne avrebbe ap-

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 prezzato anche la qualità. Ma al momento aveva, comeManuela, entrambe le mani occupate.

«Ciao ragazzi, che state portando?» Mario si eraaffacciato sulla soglia della cucina sentendoli entrare esi stupì di vederli a trasportare grovigli di cavi, quelloche sembrava un amplificatore, e un paio di valigettecon altro materiale del genere.

«Non lo so, non ne capisco niente» disse Manuela«è roba di Michele».

«Non guardare me» rispose Giorgio alla muta do-manda di Mario.

Di solito nel Salaria l’unica fonte di musica era ilGoldSound per cui Mario cominciò a insospettirsi, manon ebbe il tempo per congetturare perché si ricordòd’improvviso che stava cucinando. «Cazzo, le zucchi-ne!» gridò, e corse in cucina a occuparsi dei suoi capo-lavori.

Fu Bea, arrivata poco dopo, a montare conl’impacciato aiuto di Giorgio, l’impianto audio che sa-rebbe servito al mini concerto.

Si era ormai in prima serata e gli altri invitati ini-ziarono ad arrivare. Erano i pochi parenti che Mario

aveva in zona e alcuni altri amici, cui si aggiunse qual-che altro collega della Teorema. In totale una trentina di persone, anche se Mario aveva preparato cibo sufficien-te per un piccolo esercito.

L’atmosfera si fece tesa quando entrò una personacon un braccio fasciato che quasi nessuno riconobbe.

«Buonasera, tenente» Bea fu l’unica che avesse

avuto la presenza di spirito di accoglierlo.

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«Solo Sandro, la prego. Anzi perché non ci diamodel tu?»

«Volentieri» disse Bea mentre, ascoltando la scusache Sandro adduceva a giustificare la sua presenza, loguidava verso i due agitati amici.

«Sandro è venuto alla festa. L’ha invitato Miche-le» disse estendendo loro il ben confezionato pretesto diSandro. «È fuori servizio» aggiunse poi, come ripen-sandoci.

Giorgio e Manuela non fecero in tempo a ribattere perché l’orario fatidico delle 21.00 era scattato e Mariouscì dalla cucina tra gli applausi.

«Buonasera a tutti, signore e signori; grazie di es-sere venuti»

Seguì un coro di sfottò di quanti, a ragione, pensa-

vano che Mario avesse preparato quell’uscita formaledavanti ad uno specchio, come un attore di quart’ordine.«Vabbuò, si nun faccio ‘o cretino, nun ve va buo-

no? Allora mo ve faccio vedè io!»E iniziò a barzelletare nel suo modo contorto, su-

scitando ilarità fuori tempo, prima del climax della bat-tuta, che per la verità veniva raggiunto di rado, precedu-

to più spesso da un ‘aspè, questa non mi ricordo comefinisce, però è forte!’.

L’avvio fu dato e gli invitati si lanciarono sul buf-fet, esternando quei comportamenti di composta civiltàche si è soliti vedere in queste occasioni.

«Meno male che Mario ha esagerato» disse Ma-nuela guardando un’irraggiungibile, ma per fortuna ab- bondante, parmigiana di melanzane.

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«Ma Michele? Che fine ha fatto?» era Mario che,sovrastando il rumore della gente e del GoldSound, si

avvicinò all’orecchio di Giorgio per porre la domanda.«Sta arrivando»«Con la mia sorpresina?». A volte Mario era dav-

vero un bambino.«Una sorpresona!» rispose Giorgio adeguandosi

all’atteggiamento e al linguaggio.L’accordo con Michele era che Pino sarebbe pas-

sato a prenderlo a casa. Gli aveva detto che nel locale cisarebbe stato un piccolo impianto audio amatoriale, pre-so in prestito da un amico, così Pino si era portato dietroanche la chitarra acustica che Michele stava trasportan-do.

Quando Michele entrò, in molti si girarono a guar-

dare la porta. Ma l’attenzione durò pochi secondi datoche gli ospiti, tutti ancora armati di piatti di plastica te-nuti in precario equilibrio, continuavano imperterritinell’opera di demolizione del lavoro di Mario.

 Naturalmente i soli che continuarono ad alternarelo sguardo tra la porta e Mario che accorreva ad acco-gliere Michele, furono Bea, Giorgio e Manuela.

Quando dietro Michele apparve Pino, Mario loguardò con curiosità, ovviamente senza riconoscerlo.Aveva detto a tutti che potevano portare loro amici e parenti, quindi non si meravigliò.

«Ciao Mario, questo è Giuseppe».«Ciao, Giuseppe».«Ciao Mario, tanti auguri» disse Pino sorridendo.Quella voce…

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Mario si illuminò un attimo, ma subito il suo entu-siasmo si spense. Mentre Bea e Manuela, seguite a ruota

da Giorgio arrivavano a far capannello davanti alla por-ta, per non perdersi il momento, Mario fece quella chefu poi ricordata, senza mai spiegargliene il motivo, co-me la sua miglior battuta di tutti i tempi: «È uno scher-zo, vero? Non puoi essere quello vero, sei un imitato-re!»

Dopo un istante di imbarazzo, tutti risero. Si spo-

starono verso quello che sarebbe diventato, per quellasera, il palco del concerto e iniziarono a organizzarsi,con Mario ancora incredulo e del tutto imbambolato.

Solo pochi dei presenti, evidentemente sazi del ci- bo o della zuffa, si interessavano al movimento che sisvolgeva dove Bea aveva montato l’impianto.

 E te sento quanno scinne 'e scale/ 'e corza senzaguarda'/ e te veco tutt'e juorne/ ca ridenno vaje a fati-

ca'/ ma mo nun ride cchiù.

Questa volta, e si sentiva, i quattro minuti e rottinon venivano dal GoldSound: non c’erano fruscii o di-storsioni.

Calò un improvviso silenzio, e persino i più ag-guerriti gladiatori da buffet, smisero non solo di acca- parrarsi generose porzioni di leccornie, ma anche dimangiarle.

Appena Pino finì di suonare il primo pezzo, partìun applauso entusiasta e tutti si avvicinarono.

«Buonasera. Siamo qui per festeggiare il com- pleanno del mio amico Mario, cui va l’applauso cheavete appena fatto, e per ringraziare gli altri amici che

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«Ho visto un sacco di gente telefonare ad amici e parenti per dire loro che c’era Pino Daniele qui al Sala-

ria. Mi sa che dovremmo chiamare i miei colleghi tra poco.» Sandro sembrava un po’ preoccupato.«Spero di no, ci rovinerebbero la serata» disse

Manuela. «Senza offesa» aggiunse poi fingendo imba-razzo e provocando altre risate.

Michele si alzò e decise di andare a fumare una si-garetta. Non lo faceva da anni, ma questa era una serata

speciale. Ne prese una a Sandro e uscì.Bea lo seguì fuori dopo pochi minuti.«Non riprenderai a fumare, spero»«No, è solo una cosa occasionale»La serata era fresca e Bea sentiva il salto termico

dal caldo locale.

«Che storia incredibile» disse rabbrividendo.«Sì. Dovrei scriverci un racconto. Forse ne verreb-

 be fuori anche un romanzo».«Certo. Qui non hai problemi, la storia d’amore

non c’è. Anche se potresti inventarla, giusto per vederese sei cresciuto e ne sei capace»

«Non lo so… vedremo» rispose Michele sorriden-do.

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 Non so se un semplice ringraziamento sarà suffi-ciente a compensare le seccature che ho causato loro.

La mia riconoscenza va anche a Virginia Zambra-no e Valter Gallone, esperti dei garbugli legali, grazie aiquali, forse, riuscirò a non finire in galera.

Se ci sono strafalcioni di carattere medico, sono daimputarsi solo alla mia ignoranza e non certo alla valen-te consulenza di Arturo Ferraro, ortopedico di famiglia.

 Non posso dimenticare, e non lo faccio, gli amiciche hanno letto questo lavoro prima della stampa e chemi hanno sommerso di commenti appassionati.

Siete tutti molto cari anche se mentite davvero ma-le.

n.c.

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Il cantante di blus

I. .............................................................................................................. 7 II. .......................................................................................................... 13 III. ......................................................................................................... 19 IV. ......................................................................................................... 37 V. .......................................................................................................... 43 VI. ......................................................................................................... 47 VII. ....................................................................................................... 53 VIII. ...................................................................................................... 57 IX. ......................................................................................................... 59 X. .......................................................................................................... 63 XI. ......................................................................................................... 67 XII. ....................................................................................................... 81 XIII. ...................................................................................................... 83 XIV. ...................................................................................................... 85 XV. ....................................................................................................... 93 XVI. ...................................................................................................... 97 XVII. .................................................................................................. 101 XVIII. ................................................................................................. 103 XIX. .................................................................................................... 111 XX. ..................................................................................................... 115 XXI. .................................................................................................... 119 

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XXII. ................................................................................................... 125 XXIII. ................................................................................................. 129 XXIV. .................................................................................................. 137 XXV. ................................................................................................... 141 XXVI. .................................................................................................. 145 XXVII. ................................................................................................ 151 XXVIII. ............................................................................................... 161 XXIX. .................................................................................................. 165 XXX. ................................................................................................... 171 XXXI. .................................................................................................. 175 XXXII. ................................................................................................ 179 XXXIII. ............................................................................................... 183 XXXIV. ............................................................................................... 187 XXXV. ................................................................................................ 193 XXXVI. ............................................................................................... 197 XXXVII. ............................................................................................. 205 XXXVIII. ............................................................................................ 211 Naturalmente… ................................................................................. 219 Questo libro non sarebbe nato se… ................................................. 219 

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Responsabile della  pubblicazione Nicola Cirillo 

Pubblicato e depositato dall’autore nel   febbraio del  2011 

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