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Il Mito di Venere “Solea creder lo mondo in suo pericolo che la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo; per che non pur a lei facevano onore di sacrificio e di votivo grido le genti antiche nell’antico errore; ma Dione onoravano e Cupido, questa per madre sua, questo per figlio; e dicean ch’el sedette in grembo a Dido; e da costei ond’io principio piglio/pigliavano il vocabol della stella ch’el sol vagheggia or da coppa, or da ciglio.” Così inizia il canto ottavo del Paradiso di Dante (vv.1 – 12), preludio alla rappresentazione del cielo di Venere. Venere divinità romana identificata con Afrodite, dea greca dell’amore e della fertilità, dalla quale le derivano le note caratteristiche; è madre di Cupido; le Tre Grazie sono sue ancelle. Tra i suoi numerosi attributi vanno ricordati: la coppia di colombe o i cigni (le une o le altre possono tirare il suo carro); la conchiglia, i delfini (due elementi che ricordano la sua nascita dal mare); la cintola magica, la torcia accesa (entrambi strumenti atti a destare l’amore); il cuore fiammeggiante. La rosa (macchiata del suo sangue) e il mirto (sempreverde come l’amore) sono sacri alla dea. Spesso si dava la denominazione di Venere, nei vari ritrovamenti archeologici, al semplice nudo femminile privo di implicazioni mitologiche o simboliche, vista in pose convenzionali in cui compare eretta, giacente o accucciata. Alcuni tipi eretti hanno origini che risalgono a tradizioni religiose antiche, come la Venus Pudica, ripresa dal Botticelli nella Nascita di Venere (Firenze Uffizi), che ha un braccio lievemente flesso e la mano sul pube, mentre l’altra è piegato in modo che la mano copra parzialmente i seni. Del periodo dell’arte romana (I secolo d.C.), in mostra, abbiamo la bella scultura in marmo di Afrodite di Doidalsas accucciata nell’atto di lavarsi.

Il Mito di Venere

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Il Mito di Venere

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Page 1: Il Mito di Venere

Il Mito di Venere

“Solea creder lo mondo in suo pericoloche la bella Ciprigna il folle amore raggiasse, volta nel terzo epiciclo;per che non pur a lei facevano onoredi sacrificio e di votivo gridole genti antiche nell’antico errore;ma Dione onoravano e Cupido,questa per madre sua, questo per figlio;e dicean ch’el sedette in grembo a Dido;e da costei ond’io principio piglio/pigliavano il vocabol della stellach’el sol vagheggia or da coppa, or da ciglio.”

Così inizia il canto ottavo del Paradiso di Dante (vv.1 – 12), preludio alla rappresentazione del cielo di Venere. Venere divinità romana identificata con Afrodite, dea greca dell’amore e della fertilità, dalla quale le derivano le note caratteristiche; è madre di Cupido; le Tre Grazie sono sue ancelle. Tra i suoi numerosi attributi vanno ricordati: la coppia di colombe o i cigni (le une o le altre possono tirare il suo carro); la conchiglia, i delfini (due elementi che ricordano la sua nascita dal mare); la cintola magica, la torcia accesa (entrambi strumenti atti a destare l’amore); il cuore fiammeggiante. La rosa (macchiata del suo sangue) e il mirto (sempreverde come l’amore) sono sacri alla dea. Spesso si dava la denominazione di Venere, nei vari ritrovamenti archeologici, al semplice nudo femminile privo di implicazioni mitologiche o simboliche, vista in pose convenzionali in cui compare eretta, giacente o accucciata. Alcuni tipi eretti hanno origini che risalgono a tradizioni religiose antiche, come la Venus Pudica, ripresa dal Botticelli nella Nascita di Venere (Firenze Uffizi), che ha un braccio lievemente flesso e la mano sul pube, mentre l’altra è piegato in modo che la mano copra parzialmente i seni. Del periodo dell’arte romana (I secolo d.C.), in mostra, abbiamo la bella scultura in marmo di Afrodite di Doidalsas accucciata nell’atto di lavarsi. L’opera che faceva parte delle collezioni medicee e che di originale conserva il torso con parte delle gambe, risultano, invece, restaurate la testa e gran parte del resto del corpo, compresa la conchiglia in prossimità del piede destro. Il soggetto proposto dalla statua non mancò di influenzare artisti rinascimentali, manieristi e barocchi per grazia e sensualità di posa. Un altro soggetto che interessò gli umanisti del Quattrocento fiorentino è “amor sacro e amor profano”, in cui Venere diventa espressione dei due generi d’amore. Pensiamo alla splendida tela di Tiziano della Galleria Borghese in cui due donne si distinguono per il fatto che la prima è riccamente vestita, mentre la seconda è ignuda, sedute su una fonte entro cui si specchia un fanciullo. Gli studiosi hanno voluto vedere in questa iconografia un “quadro di matrimonio”. Lo conferma il fatto che la donna vestita presenta tutti gli attributi che caratterizzano la sposa

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nell’iconografia tradizionale. Quella nuda rappresenta, invece, Venere cioè il mezzo (l’amore) attraverso il quale lo sposo è giunto a persuadere l’amata. Infine il putto al centro è Amore stesso. Nella posa di Venere in piedi, come modello significativo in mostra, vi è quella, proveniente dagli Uffizi, di Lorenzo di Credi (1459-1537). Qui la figura si concretizza in una vera modella, flessuosa nella posa accentuata dal panno lieve che pudicamente la donna-dea si accosta, fasciando il corpo ancheggiante ed assumendo un andamento di disinvolta naturalezza. Invece la tipica posa di Venere giacente nacque con Giorgine e divenne modello universale imitato dagli artisti contemporanei e di epoche successive. Nella “Venere con amorino, un cane e una pernice” di Tiziano (Uffizi) la dea sta adagiata nuda su un letto, reso confortevole da un morbido drappo di velluto cremisi, bordato di ricami. Il suo grande corpo mostra calma composta, quasi indolente, ed è modellato dalla luce. Ai piedi di Venere un cagnolino pezzato - simbolo della fedeltà in amore, abbaia a una pernice, allusione alla lussuria e alla fecondità, che sta appollaiata, rigonfia di sé, sulla balaustra attigua. Altro tema suggestivo per molti artisti è “La toeletta di Venere”. Questo soggetto si è affermato, soprattutto, in ambito veneziano tra il tardo Quattrocento il primo Cinquecento. Tra le varie interpretazioni, affascina quella di Jan Lys (1597-1631), il quale rielabora il soggetto in scena di genere, con vivacità ed esuberante cromatismo barocco. La scena si regge sul movimento dell’aria, sulla leggerezza dei tendaggi, sul raffronto d’immagine evocato dal volto riflesso nello specchio e sulla animazione partecipe di tutti gli astanti, indaffarati attorno alla dea. Il mito di Venere e Adone che affascinò non soltanto gli artisti ma anche i poeti, narra che Adone nacque dall’unione incestuosa del re Cinica di Cipro con la figlia Mirra, La sua bellezza era proverbiale. Venere concepì per lui una struggente passione non ricambiata, suscitatale da un graffio procuratole involontariamente da Cupido con una delle sue frecce (Metamorfosi, X, 524-559). Un giorno, mentre Adone era a caccia, fu ferito mortalmente da un cinghiale. Udendo i lamenti del giovane morente, Venere, che passava in cielo sul suo carro, accorse in suo aiuto; ma era troppo tardi. Nella tavola “Venere e Adone” (Uffizi) di artista fiorentino del XVII secolo, la dea è appena scesa dal carro, reso prezioso dalla figurazione di un mascherone in rilievo, sul quale posano e volano le colombe a lei sacre, che l’hanno condotta fino lì. Al dolore di Venere si aggiunge quello di Cupido ed entrambi sembrano chiudere in un abbraccio corale il giovane caduto, che riverso a terra, mostra, nella definizione plastica del suo corpo, la bellezza fisica vinta.Opera amatissima e contesa, censurata e poi dimenticata, per tornare ad essere individuata come inarrivabile capolavoro del genio canoviano, la Paolina Borghese ebbe una storia singolare e contraddittoria. Apprezzata solo da pochi amici del principe Camillo Borghese che esponeva alla luce delle torce la statua dell'avvenente moglie, immortalata da Antonio Canova come una dea vincitrice, l'opera , diversamente da altre sculture dell'artista, fortunatamente non si mosse mai da Roma e dal 1838 fu collocata nella dimora dei Borghese, prima nella sala di Elena e Paride, poi nella I Sala del pianterreno ove è ancora esposta.

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GIUDIZIO DI PARIDE

Si racconta che Zeus allestì un banchetto per la celebrazione del matrimonio di Peleo e Teti (genitori di Achille). In ogni modo, Eris, la dea della discordia, non venne invitata. Irritata per questo oltraggio, Eris arrivò presso il banchetto, dove gettò una mela d'oro (Il pomo della Discordia), con sopra l'iscrizione καλλίστῃ ("alla più bella").

Le tre dee che la pretesero, scatenando litigi furibondi, furono Era, Atena e Afrodite. Esse parlarono con Zeus per convincerlo a scegliere la più bella tra loro, ma il padre degli dèi, forse consapevole di essere in qualche modo imparziale, non sapendo a chi consegnarla, stabilì che a decidere chi fosse la più bella non potesse essere che l'uomo più bello e cioè Paride, mortale frigio, principe di Troia, il quale era anche prediletto dal dio Ares.

Ermes fu incaricato di portare le tre dee dal giovane troiano, incaricato quel giorno di portare al pascolo le pecore, ed ognuna di loro gli promise una ricompensa in cambio della mela: Atena, grazie al dono della sapienza, lo avrebbe reso capace di modificare eventi e materia a suo piacimento, finanche a superare le leggi della natura; Era lo avrebbe reso così ricco che i suoi forzieri non sarebbero bastati a contenere le sue gemme e il suo oro, così potente che a un suo gesto interi popoli si sarebbero sottomessi e così glorioso che il suo nome avrebbe riecheggiato fino alle stelle; Afrodite avrebbe appagato i suoi desideri amorosi concedendogli in sposa la donna più bella del mondo (Euripide, Andromaca, Elena), Elena. Paride favorì di gran lunga quest'ultima scatenando l'ira delle altre due. La dea dell'amore aiutò Paride a rapire Elena, moglie di Menelao, re di Sparta. Questo successivamente portò alla guerra di Troia ragione per cui il pomo d'oro fu chiamato anche pomo della discordia.