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Il Paese degli struzzi

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Il Paese degli struzzi di Giovanni Sartori

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IL PAESE DEGLI STRUZZIclima, ambiente, sovrappopolazione

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GIOVANNISARTORI

IL PAESE DEGLI STRUZZICLIMA, AMBIENTE,SOVRAPPOPOLAZIONE

Edizioni Ambiente

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Giovanni SartoriIL PAESE DEGLI STRUZZIclima, ambiente, sovrappopolazionerealizzazione editorialeEdizioni Ambiente srlwww.edizioniambiente.it

coordinamento redazionalePaola Fraschini

progetto grafico: GrafCo3 Milano impaginazione: Roberto Gurdo

© 2011, Edizioni Ambiente via Natale Battaglia 10, 20127 Milanotel. 02.45487277, fax 02.45487333

ISBN 978-88-96238-98-1

Finito di stampare nel mese di marzo 2011presso Grafiche del Liri – Isola del Liri (FR)

Stampato in Italia – Printed in ItalyQuesto libro è stampato su carta riciclata 100%

i siti di edizioni ambientewww.edizioniambiente.itwww.nextville.itwww.reteambiente.itwww.verdenero.it

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sommario

prefazione 7

santa finimola. il mio sogno di ferragosto 11politica demografica e libertà di dissentire 15la vergogna degli incendi 19siamo incoscienti e siamo in troppi 25l’altra faccia della crescita. 31 la malattia è la sovrappopolazionela tecnologia ci può salvare? 35il texano tossico che affonda kyoto 39riflessioni sulla fame e sui popoli di seattle 43la fao ci inganna 47una corsa insensata e perdente 51la crescita demografica non si ferma da sola 55l’acqua manca come si sapeva 59il riscaldamento della terra sconvolge il clima 63tutti a johannesburg tranne il buonsenso 67smettiamola di vendere panzane 71il problema è la bomba demografica 75i cattivi alibi dello sviluppismo 83la testa sotto la sabbia 89homo stupidus stupidus 93il nemico non è il contadino ricco 97inquinamento da ignoranza 101crichton, kyoto e i lietopensanti 105il mercato non ci salverà 109l’energia dimenticata 113più energia e più coerenza 117l’intelligenza cresce o decresce? 121effetto serra e conteggi fao 125i globalisti sonnambuli 129uno sviluppo non sostenibile 133incendi: rimedi estremi per mali estremi 139

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crisi energetica. l’impreparazione al potere 143democrazia al verde 147il mercato non salverà la terra 153la coperta è corta 159ambientalismo senza politica 163malthus e il club di roma 167verdi fasulli, governo sordo 171evviva noi crepi il mondo 175così non possiamo durare 179il pozzo senza fondo 183la salute dell’ambiente. 187 i confronti sbagliati con il passatosalute dell’ambiente: dibattito 191la conferenza di copenaghen sul clima 195himalaya bene il resto male 199economia cartacea e i limiti allo sviluppo 203la crescita demografica non fa bene all’economia 207la politica dello struzzo è la peggiore 211

appendicenon crescete. non moltiplicatevi

l’influenza della chiesa 217vita, vita umana e anima 223la vita umana secondo ragione 231c’è vita e vita 235quando arriva l’anima 241l’embrione e la persona 249la persona che non c’è 253vita artificiale e libertà di scelta 261la chiesa e il diritto di morire 265

fonti 269

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Qual è il rapporto tra democrazia e sviluppo eco-nomico? Nel secondo dopoguerra ha trionfato la dottrina economicistica che sostiene che per tra-sformare i regimi autocratici in democrazie occor-re una crescita di benessere, e che il benessere por-ta automaticamente con sé la democrazia. Insom-ma, la democrazia dipende dai soldi e nasce con i soldi. È proprio così? Direi di no. Cominciamo con il rapporto tra democrazia e mer-cato. È ormai assodato che una democrazia senza sistema di mercato è poco vitale. Ma non è vero il contrario. Un’economia di mercato può esistere e fiorire senza democrazia, o precedendo la democra-zia: vedi Singapore, Taiwan, Corea del Sud, Cina. Altro quesito: se la democrazia produca benessere. Sì, ma anche no. L’America Latina è stata impo-verita anche dalla democrazia, perché la democra-zia induce o può indurre a consumare più di quello che si produce o si guadagna. E le “democrazie in

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deficit” sono state e continuano a essere frequenti. Guardiamo allora all’aspetto nuovo del problema, al rapporto tra democrazia e sviluppo. Finora si è ar-gomentato, per un verso, che il benessere promuo-ve la democrazia e, dall’altro, che il denaro la cor-rompe e la compra. Ma finora il rapporto tra Stato e mercato vedeva uno Stato che variamente regola-va e interferiva nel mercato. Ma recentemente, con la globalizzazione, si è creato lo “sviluppismo”, una dinamica, un vortice che nessuno (neanche gli Sta-ti) riesce a disciplinare né a frenare, uno sviluppar-si a ogni costo, il più presto possibile, alla maggio-re velocità possibile. È bene che sia così? Sarebbe un bene se vivessimo in un pianeta sotto-popolato e, diciamo, dieci volte più grande del no-stro con risorse praticamente integre. Il guaio è che il nostro è un pianetino disperatamente sovrappo-polato, nel quale la crescita non può essere illimi-tata, e che da qualche decennio è entrato nel vor-tice di uno “sviluppo non sostenibile”, tale perché consuma più risorse di quante ne produca, e che at-tinge a risorse in via di esaurimento. Ma di questo sviluppo non sostenibile il grosso degli economisti non si vuole nemmeno accorgere. Il loro mantra è che a tutti i problemi dello sviluppo infinito e della crescita a gogò provvederà il mercato, quando sarà tempo di provvedere. Ma no, proprio no. Dicevo dello sviluppo non so-stenibile, e che questo problema non è affrontato e tanto meno risolto dai meccanismi di mercato.

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Intanto, mercato e sistema economico non coinci-dono. Il mercato non contabilizza tantissime cose, per esempio i “beni collettivi”, quei beni che nes-suno paga e che sono pagati, di regola, dalle tasse. Gli esempi classici sono la polizia, la sicurezza, le strade. Se chiedo l’intervento della polizia, non è che poi ricevo il conto da pagare. Né pago per l’il-luminazione stradale. Ma ci sono casi più complica-ti. Prendiamo gli alberi, una foresta. Sono beni col-lettivi? Nella misura in cui forniscono il servizio di pulire l’aria, di fornire legno e di proteggere la fer-tilità del suolo, direi di sì. Ma non per il mercato. Chi abbatte alberi mette in conto soltanto il costo del loro abbattimento. Il costo della distruzione di una foresta va in cavalleria. Lo stesso vale per l’ac-qua. Quella di superficie che è canalizzata viene di solito fatta pagare, ma l’acqua freatica, l’acqua di falda, no; chi la estrae paga soltanto il costo dell’e-strazione. Va bene finché il consumo dell’acqua di falda viene pareggiato dalla sua sostituzione natu-rale. Ma altrimenti il consumo in eccesso produce un danno collettivo che non viene pagato né con-tabilizzato. Poi ci sono le cosiddette externalities, gli “effetti esterni”. Chi inquina l’acqua o avvelena l’aria con “gas serra” produce danni che il danneg-giante non paga e che il mercato non registra. Ep-pure si tratta di danni colossali, con costi di ripri-stino e di riparazione – che sicuramente si rende-ranno necessari – altrettanto colossali. Il succo del discorso è che gli economisti si sono

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chiusi nel recinto del mercato, e che non avver-tono che la crescita e la prosperità economica so-no ormai crescite in deficit, pagate, in proporzioni sempre crescenti, da un collasso ecologico su sca-la planetaria. Un ulteriore limite del mercato è che è lento, che è miope. Non anticipa i tempi, ma al contrario prevede e calcola solo a brevissimo rag-gio. Quando si dice markets do not clear, si sottin-tende che i mercati non sbrogliano i problemi in tempo, che affrontano i nuovi problemi quando è troppo tardi. Tra pochi decenni il petrolio diven-terà insufficiente. Che cosa dice l’economista? Di-ce: va bene, quando il petrolio diventerà scarso, il prezzo salirà e renderà competitivi prodotti sosti-tutivi, per esempio metanolo e biodiesel ricavati da piante zuccherine. Tante grazie! Dal momento in cui il petrolio arriverà, mettiamo, a 150-200 dol-lari al barile a quando lo potremo sostituire con i biocombustibili passeranno 4-5 anni. Dovremo far crescere le piante, costruire le fabbriche, organiz-zare una rete di distribuzione, adattare le automo-bili. Che cosa faremo nel frattempo? Nell’affidarsi ai “miracoli” del mercato gli economisti ignorano anche che i biocombustibili non basteranno, anche perché le coltivazioni, diciamo, “petrolifere” si svi-luppano a danno dell’agricoltura che produce gra-no e che ci sfama. Non c’è abbastanza territorio per produrre contemporaneamente piante per la ben-zina e prodotti alimentari. Siamo saturi, eppure gli economisti non se ne accorgono.

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Un altro esempio. Non mi sono ancora imbattu-to in un economista che affronti davvero il proble-ma della scarsità già grave e sicuramente crescente dell’acqua. Secondo le regole di mercato, per rime-diare occorre che l’acqua venga a costare quanto la desalinizzazione del mare. Ma l’agricoltura non po-trà mai affrontare questo enorme costo di estrazione e anche di distribuzione. Senza contare che ci man-ca l’energia (altro problema!) per mettere in moto questo processo. E così la vita stessa di un miliardo e anche più di persone si troverà, in tempi abba-stanza brevi, in pericolo. È uno scenario terrificante. Il punto è che il mercato arriva tardi e male per fron-teggiare i drammatici cambiamenti in corso, men-tre dall’altro lato li accelera e li aggrava, innescan-do sempre più uno “sviluppismo cieco” destinato all’implosione. La Terra è già popolata da sei mi-liardi e mezzo di persone, e il loro numero è anco-ra in crescita. Per gli economisti e per i demogra-fi la sovrappopolazione è un problema extraecono-mico, che non li riguarda. Addirittura molti di loro sostengono che bisogna essere prolifici perché oc-corre una forza lavoro crescente, altrimenti l’econo-mia ristagna o diventa difficile pagare le pensioni. Ma questo è un vortice senza fine. Lo sarà ancora di più quando saremo 9-10 miliardi. Nel frattem-po una crescita demografica fuori controllo ci sta inesorabilmente portando al disastro climatico e al collasso idrico. Senza che quasi nessuno (inclusi gli economisti) se ne avveda.

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Il paradosso è che il sistema economico di mercato ha per circa duecento anni promosso la liberaldemo-crazia, mentre ora la minaccia con un’accelerazio-ne fuori controllo, la cui implosione può travolgere anche la democrazia che aveva allevato. Un catacli-sma climatico e ambientale può affossare, assieme a tutto il resto, anche la città libera. Perché lo svilup-po non sostenibile è anche uno sviluppo inaccetta-bile, che impone un ritorno a quel passato di care-stie e di povertà che ci eravamo lasciati alle spalle.

26 marzo 2008

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D’un tratto abbiamo scoperto che nel mondo c’è molta gente che muore di fame. Eppure si sapeva da tempo. Sei anni fa contestavo i dati Fao (Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite) la cui previsione era che nel 2030 il numero delle persone che soffrono la fame sarebbe stato dimez-zato e scrivevo così: “La semplice verità è che la fa-me sta vincendo perché ci rifiutiamo di ammettere che la soluzione non è di aumentare il cibo ma di diminuire le nascite, e cioè le bocche da sfamare. La Fao, la Chiesa e altri ancora si ostinano a crede-re che 6-8 miliardi di persone consentano uno svi-luppo ancora sostenibile. No. Più mangianti si tra-ducono oggi in più affamati. I 30 mila bambini che muoiono di fame ogni giorno li ha sulla coscien-za chi li fa nascere” (Corriere del 9 giugno 2002). Da allora provo ogni tanto a ricordare che alla ori-gine di tutti i nostri mali, ivi incluso il disastro eco-logico, sta l’esplosione demografica. Agli inizi del

la coperta è corta

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secolo scorso eravamo 1.500 milioni; oggi siamo 6.500 milioni (tuttora in crescita di 60 milioni l’an-no). Ma è un predicare al vento. Sul punto si è cre-ato un blocco mentale. L’argomento è tabù, è reli-giosamente scorrettissimo e proprio non se ne de-ve parlare. E così continuiamo a essere impegnati in una rincorsa inevitabilmente perdente, insensa-ta e anche suicida. Tornando agli affamati, sei an-ni fa erano stimati in 800 milioni; oggi si può pre-vedere che arriveranno a 2 miliardi e passa.Sono stime che sottintendono una vera e propria “strage “ in corso, che non ha fatto notizia finché avveniva in ordine sparso. È quando una carestia arriva nelle città che diventa visibile e minacciosa. Ed è nelle città del mondo in via di sviluppo (co-me si diceva) che oggi manca il grano, manca il ri-so, manca il mais. Perché? Di colpo si scopre che la colpa è dei biocarburanti che sottraggono terre-no agricolo alle coltivazioni alimentari. In verità il Brasile va quasi tutto a biocarburanti e in trent’an-ni nessun premio Nobel (in economia sono tantis-simi) ha avvertito il pericolo. Ma ora che l’America si è messa a incentivare l’etanolo, ecco il colpevole: la politica energetica di Washington e la specula-zione che si concentra a Chicago. Sulla speculazio-ne (che c’è) mi limito a osservare che presuppone che un bene diventi raro. Sull’acqua di mare non ci sarà mai speculazione.Quindi la speculazione non è all’origine del pro-blema. Il problema è che le risorse petrolifere sono

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in diminuzione e soprattutto sempre più a rischio. Se l’America restasse a secco sarebbe una catastro-fe (anche per tutto l’Occidente) rispetto alla quale la crisi del 1929 sarebbe una inezia. La situazione è, allora, che per 6-7 miliardi di persone la coper-ta è corta. Per rimediare, tutti cercano di tirarla a sé. E così per turare una falla ne apriamo un’altra. Quando la coperta è sempre più corta, l’unica so-luzione è di ridurre il numero di chi ne deve essere coperto e protetto. In attesa ogni egoismo è sacro, e cioè il diritto di sopravvivere è eguale per tutti. Pertanto trovo insensato e irresponsabile dichiara-re che alienare i terreni dalla produzione agricola “è un crimine contro l’umanità” (così le Nazioni Unite per bocca di Jean Ziegler, riecheggiato con mia sorpresa anche da Tremonti). Per un proble-ma terribilmente serio, occorre essere seri.

6 maggio 2008

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L’ultima stima di qualche anno fa che ho sott’oc-chio contabilizza il Pil, il Prodotto interno lordo, del mondo in 54 trilioni di dollari, mentre gli atti-vi finanziari globali risultano quattro volte tanto, di addirittura 240 trilioni di dollari. Oggi, con i deri-vati e altre furbate del genere, questa sproporzione è ancora cresciuta di chissà quanto. E questa spropor-zione non solo è di per sé malsana ma modifica la nozione stessa di sistema economico, di economia. Semplificando al massimo, da un lato abbiamo una economia produttiva che produce beni, che crea “cose”, e i servizi richiesti da questo produrre, e dall’altro lato abbiamo una economia finanziaria essenzialmente cartacea fondata su vorticose com-pravendite di pezzi di carta. Questa economia car-tacea non è da condannare perché tale, e nessuno nega che debba esistere. Il problema è la spropor-zione; una sproporzione che trasforma l’economia finanziaria in un gigantesco parassita speculativo

economia cartacea e i limiti allo sviluppo

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la cui mira è soltanto di “fare soldi”, di arricchirsi presto e molto, a volte nello spazio di un secondo. Gli economisti “classici” facevano capo alla econo-mia produttiva; oggi i giovani sono passati in mas-sa all’economia finanziaria. È lì, hanno capito, che si fanno i soldi, ed è in quel contesto che l’econo-mia come disciplina che dovrebbe prevedere, e per-ciò stesso prevenire e bloccare gli errori, si trasforma in una miriade dispersa di economisti “complici” che partecipano anch’essi alla pacchia. È chiaro che in futuro tutta la materia dell’economia finanziaria dovrà essere rigorosamente regolata e controllata. Ma anche l’economia produttiva si deve riorienta-re e deve cominciare a includere nei propri conti le cosiddette esternalità. Per esempio, chi inquina l’aria, l’acqua, il suolo, de-ve pagare. Vale a dire, tutto il sistema di incentivi va modificato. La dissennata esplosione demogra-fica degli ultimi decenni mette a nudo che la Terra è troppo piccola per una popolazione che è trop-po grande. Ma anche su questa sproporzione gli economisti non hanno battuto ciglio. Anzi, per lo-ro stiamo andando di bene in meglio, perché tanti più bambini tanti più consumatori e tanti più sol-di. Il loro “far finta di non ricevere”, di non vede-re, è così clamoroso da indurre Mario Pirani a chie-dersi (su Repubblica) se gli economisti abitino sulla Terra o sulla Luna. Io direi su una Luna che è due volte più grande della Terra.Ma qui cedo la parola a Serge Latouche, professo-

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re alla Università di Parigi, economista eretico ma anche lungimirante. Latouche ha calcolato che lo spazio “bioproduttivo” (utile, utilizzabile) del pia-neta Terra è di 12 miliardi di ettari. Divisa per la popolazione mondiale attuale questa superficie as-segna 1,8 ettari a persona. Invece lo spazio biopro-duttivo attualmente consumato pro capite è già, in media, di 2,2 ettari. E questa media nasconde di-sparità enormi. Se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti; e se tutti vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei. La morale di questa storia è che già da troppo tempo siamo infognati in uno sviluppo non-sostenibile, e che dobbiamo per-ciò fare marcia indietro. Latouche la chiama “de-crescita serena”. Serena o no, il punto è che la cre-scita continua, infinita, non è obbligatoria. Oramai è soltanto suicida.

25 giugno 2010

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