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Il Viaggio Di Ulisse Tra Mito e simbolo

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Il Viaggio Di Ulisse Tra Mito e simbolo

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Il viaggio di Ulisse tra mito e simbolo

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L’Odissea digitale – i personaggi omerici – Graphic Interface: Roberto Carraro

codexart.net SPECIAL_IMAGE-http://www.codexart.net/images/09-a-schede-big-odissea-personaggi.jpg-REPLACE_ME L’Odissea digitale – i personaggi omerici – Graphic Interface: Roberto Carraro Nell’Odissea digitale su CD ROM i personaggi omerici vengono presentati con una scheda multimediale. La rappresentazione visiva viene tratta dalla pittura greca, in particolare dai vasi, che vengono digitalizzati e ricomposti nell’interfaccia grafica. L’opera viene pubblicata da Editel, a cura di Gualtiero e Roberto Carraro

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The Odyssey by Homer

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Letteratura Di Viaggio in “Enciclopedia Italiana - VII Appendice” – Treccani

treccani.it Il viaggio si offre alla letteratura come un tema di immensa potenzialità e produttività per la sua idoneità a combinare narrazione e descrizione, spazialità e diacronia, e anche per la sua disponibilità a infinite sfumature di metaforicità e allegoria e per la sua apertura a suggestioni referenziali le quali spaziano dal destino dei popoli all'avventura dell'individuo. Collocandosi all'incrocio fra reale e fantastico, fra verità e meraviglia, costituisce un patto testuale di 'accettabilità' del diverso e dell'inconsueto, entro cui trovano luogo delle modalità di scrittura che vanno dalla testimonianza autobiografica all'epica, dalla rappresentazione realistica e scientifica alla conversione romanzesca e alla trasfigurazione lirica. Da ciò scaturisce un'ampiezza di spettro che rende difficile identificare uno specifico univoco della letteratura di viaggio.

Può soccorrere, a tal fine, la ricorrente rappresentazione en abyme della scena del racconto di viaggio che si trova nei più importanti testi odeporici, e che aiuta a rintracciare costanti nonché a scandire mutazioni storiche. La costante principale consiste nella costituzione come voce narrante del viaggiatore stesso; una scelta che in prima istanza sembra dettata da un'esigenza di credibilità del racconto: solamente il viaggiatore può essere in grado di narrare un'esperienza che si colloca 'a distanza' dal destinatario; lo scontro con l'ignoto, con il diverso, è attestabile solo da chi, in prima persona, lo ha vissuto. Questo dato è significativo perché non riguarda soltanto le scritture di tipo informativo, che si possono iscrivere nella categoria generale delle 'relazioni di viaggio', ma ricorre (ed è fatto assai meno ovvio) anche nei testi, dichiaratamente o di fatto, finzionali: che proprio in quanto tali non dovrebbero avere alcun bisogno, in linea di principio, di giustificare la plausibilità del narrato.

La più antica scrittura tematizzata sul viaggio, l'Epopea di Gilgamesh, presenta l'eroe eponimo glorificato come 'uomo che conobbe i Paesi del mondo', che svelerà le 'cose segrete' che ha appreso dall'uomo-Dio "che chiamano il Lontano": i suoi viaggi sono raccontati epicamente in terza persona, ma il cantore ci informa che è stato l'eroe, al suo ritorno, a incidere su una pietra l'intera storia.

Ancora più esplicita è la delega del narratore al viaggiatore nel testo fondativo delle narrazioni di viaggio: l'Odissea omerica. Come è noto, per il racconto affascinante delle "prodigiose avventure" di Odisseo, Omero cede proprio a lui la parola per quattro interi libri (da ix al xii), quasi una sorta di callida cessione di responsabilità del narratore per rendere 'accettabili' contenuti così lontani dal reale conosciuto. La legittimazione del racconto sta nella sua poeticità, nella morfé epéon: la narrazione di viaggio, di un'esperienza altra, distante, sconosciuta all'ascoltatore e non verificabile, consente di mettere a fuoco la natura peculiare della 'finzione' artistica, distinta dalla eventuale 'falsità' del referente. Proprio da questa sottolineatura nacque una netta distinzione, nell'antichità, fra scritture di viaggio proiettate verso il racconto mitico o fantastico e 'relazioni' indirizzate a fornire conoscenza obiettiva di realtà sconosciute. Su questo versante la testimonianza del viaggiatore-scrittore diede luogo a testi descrittivi (i Peripli, le Periegesi), una sorta di diari di bordo i quali fondavano la geografia e abbozzavano anche un'informazione etnografica e antropologica. La stessa storiografia cercò legittimità presentandosi come basata su testimonianze raccolte direttamente attraverso percorsi nei luoghi delle vicende narrate.

Sul versante mitopoietico e fantastico l'eredità dell'Odissea venne raccolta dai due capolavori dell'epica alessandrina e di quella romana, le Argonautiche di Apollonio Rodio (dove l'eroe Giasone, in contrasto con il poliméchanos Odisseo, si caratterizza di fronte alle difficoltà del viaggio per la sua amechanía, indecisione e subordinazione al fato) e l'Eneide virgiliana, anche qui con significativi cambiamenti, perché al ritorno di Odisseo si contrappone - per così dire - un viaggio di 'andata', un itinerario ascendente e formativo il cui approdo è la fondazione di una nuova civiltà, la conquista di nuovi valori: preparando così gli sviluppi allegorici e trascendenti del tema nell'era cristiana.

Il viaggio, tuttavia, si dispose più compiutamente e pervasivamente come impulso e sostegno

alla 'finzione' letteraria nel genere cui, con significativa improprietà per il mondo greco-romano, si è dato il nome di romanzo. Il viaggio ha innervato la narrazione non solo collocando in lontananze fantastiche la materia del narrato, ma sorreggendo, con la dinamicità costitutivamente insita al tema, l'intreccio: la peripezia di viaggio divenne nucleo fondante di una tradizione narrativa che ebbe lunghissimo seguito.

Il cristianesimo ha assunto il campo semantico del viaggio a significazione di un'esistenza umana concepita come transizione, come 'passaggio' terrestre verso Dio. "Io sono la via, la verità, la vita" dice Cristo nel Vangelo secondo Giovanni (14, 6). Il cristiano è viator anche in senso proprio: una nuova tipologia di viaggio, il pellegrinaggio, ha prodotto un'immensa fioritura di Itinerari latini che descrivono in forma di diario e/o di guida il percorso verso i luoghi santi (Gerusalemme, Roma, Santiago de Compostela): ma l'enfasi si è spostata dalla descrizione dei luoghi al significato mistico del percorso, avviando una tendenza all'uso allegorico del viaggio che trovò l'acme nella Divina Commedia. Il viaggio pervade e struttura in profondo il capolavoro dantesco a diversi livelli: come metafora dell'esperienza esistenziale del narratore (il "cammin di nostra vita", "di tua vita il viaggio"); come disegno fondante dell'invenzione narrativa, l'"altro vïaggio" escatologico, allegoria della progressiva acquisizione di conoscenza che conduce a Dio; come bagaglio linguistico e repertorio di immagini per la descrizione di un oltretomba che è, specie nelle prime due cantiche, perpetuo movimento di anime, demoni, angeli, figure magiche; come metafora infine della stessa scrittura del poema, raffigurata, per es., con originale riattivazione di un topos nautico antico, come navigazione di un legno che "cantando varca" (Par.ii, 3); ma anche, ancora una volta attraverso le parole del viaggiatore, come racconto: il viaggio dell'Ulisse dantesco oltre le colonne d'Ercole potrà ben essere "folle volo" (Inf. xxvi, 125), perché l'ardore "a divenir del mondo esperto" (v. 98) che lo muove è privo della grazia divina, ma questo non gli impedisce di divenire paradigma affascinante di un riuso moderno del tema che ne fa un segno di eroismo intellettuale, di laica passione conoscitiva e di sfida all'ignoto.

Non stupisce così che nella narrativa romanzesca il Medioevo abbia recuperato dai modelli 'pagani' antichi il tema del viaggio, sia come connotazione eroica del personaggio, sia come sostegno dell'impianto narrativo. La funzione fondante del viaggio per il consolidamento strutturale del genere romanzesco appare ben chiara nei capolavori di Chrétien de Troyes in cui il viaggio e le successive 'avventure' affrontate dal protagonista costituiscono una precisa concatenazione di eventi e sorreggono uno sviluppo narrativo che 'rappresenta' direttamente una ricerca, una quête, non più imposta dagli dei, ma volontariamente scelta dall'eroe come percorso formativo.

A partire dal 12° sec., all'uso finzionale oppure allegorico del tema si accompagnò una ripresa dello stimolo a narrare esperienze reali di viaggio, sempre più frequenti e impegnative sulla spinta di esigenze di mercatura, di religione oppure di diplomazia. La più celebre di queste narrazioni, Il Milionedi Marco Polo, sembra invertire il rapporto fra viaggiatore e scrittore: qui è il viaggiatore a delegare allo scrittore di professione (ossia Rustichello da Pisa) il racconto. Nel particolare sistema di presentazione del testo che contraddistingue Il Milione, lo sdoppiamento tra la funzione testimoniale del viaggiatore Marco e la funzione espositiva-espressiva dello scrittore Rustichello finisce in realtà per produrre una compatta unità: il 'libro', soggetto autonomo e unico della narrazione. Per altra via, viene confermato il principio della necessaria unificazione fra viaggiatore e narratore del viaggio; con un risultato paradossale, caratteristico delle relazioni medievali: è la funzione creativa della scrittura, non solamente quella formale, a intrecciarsi strettamente e quasi a confondersi nel confronto con le meraviglie sconosciute dei Paesi lontani, con l'esperienza del reale. Come è noto, il viaggio di Marco Polo offre ragguagli sulle usanze della corte del Gran Kahn, e 'mette anche in ordine' tutta l'informazione utile al viaggiatore di mercatura, ma pure, senza alcuna soluzione di continuità oppure di scarto di registro, raccoglie e verifica le tracce di una tradizione letteraria fantastico-romanzesca, e raggiunge, o quanto meno colloca nella mappa dei suoi itinerari, i luoghi della geografia sacra, dalla

valle dell'Eden al biblico regno di Gog e Magog. Per questa via, si comprende come un'invenzione fantastica come I viaggi di Mandeville abbia ottenuto credito di relazione di un vero viaggio e pure enorme successo per almeno due secoli. E non parrà assurdo se, come garantisce F. Colombo, la stessa impresa paterna della 'discoverta' americana, l'avvenimento che segna l'inizio dell'era moderna, aveva tratto, senza distinzioni, stimolo importante, se non determinante, dalla lettura di "Marco Polo viniziano e Gioan di Mandavilla".

A prima vista il Giornale di bordo di C. Colombo sembrerebbe porsi, sia per l'ingenuità delle descrizioni sia per le frequenti concessioni al gusto del "meraviglioso", in continuità con le relazioni medievali. Furono però le nuove finalità perseguite - non più scambiare merci e ambascerie, ma "discuoprire e conquistare", come recita il mandato della regina Isabella - a mutare di segno al racconto dei viaggi in terre lontane. A questa svolta contribuì il mutamento sostanziale nei processi di ricezione dei testi letterari intervenuto con l'invenzione della stampa: il corpus imponente delle relazioni di viaggio cinquecentesche, tramandato da straordinarie imprese editoriali come quella di G.B. Ramusio, il quale a metà 16° sec. curò la raccolta, la traduzione, il commento e la stampa di una settantina di Navigazioni e viaggi, rispose all'esigenza di garantire a un pubblico vastissimo la verità delle straordinarie diversità narrate, spogliate di ogni risonanza leggendaria e descritte senza reticenze (con l'implicita funzione di incentivare e legittimare ogni processo di omologazione, violenta o "evangelica", di quelle diversità).

Per converso, i grandi viaggi rinascimentali stabilirono quella che E.J. Leed (1991) ha chiamato "una rifrazione culturale dinamica", deviando verso la civiltà europea e la sua identità moderna lo sguardo attivato dalle alterità e dalle lontananze visitate. Nacque così, o rinacque (un suggestivo precedente antico è la Storia vera di Luciano), il viaggio immaginario, il percorso in Paesi fantastici che nella loro patente artificialità adombrano, per contrasto o per enfasi paradossale, aspetti del qui e dell'ora europei: una linea che dal Quarto libro del Gargantua rabelaisiano attraversa i viaggi lunari di Cyrano de Bergerac per giungere alla narrativa 'filosofica' dell'Illuminismo, dai Viaggi di Gulliver di J. Swift al Micromega di Voltaire.

Ma è soprattutto sul terreno del romanzesco, in prosa e in versi, che il secolo delle grandi navigazioni e scoperte geografiche scoprì la funzione non meramente 'tematica' del viaggio, e ne fece anzi una struttura privilegiata dell'invenzione letteraria. Come osservarono già i commentatori contemporanei, L. Ariosto nell'Orlando Furioso non solo mette i personaggi vertiginosamente in moto per selve, per mari e fin sulla Luna, ma è esso stesso un poema "errante": come "chi va lontan dalla sua patria", il poeta vede cose sorprendenti, diverse dal vero quotidiano, e tuttavia il suo canto "non parrà menzogna"; sulla metafora del viaggio si fonda un meccanismo di piena legittimazione del "fingere" letterario.

Fra tardo Cinquecento e Settecento, il campo della 'relazione' di viaggio si bipartì abbastanza nettamente in diretto rapporto al tipo di esperienze reali che vi si rifletteva. Da un lato c'erano i viaggi verso mete già conosciute, il cui fine era fondamentalmente un incremento di esperienza del viaggiatore: si generalizzò, per es., il fenomeno del Grand Tour, percorso europeo destinato a formare i rampolli dell'aristocrazia inglese (ma anche francese e tedesca). Dall'altro proseguirono, sino agli inizi dell'Ottocento, i viaggi di scoperta transoceanici, i giri del mondo alla ricerca di vie nuove e terre sconosciute, che produssero scritture di carattere soprattutto descrittivo, prive di ambizioni letterarie. E tuttavia fu proprio attraverso i rozzi diari di bordo dei Walter, dei Bougainville, dei Cook, dei La Pérouse, che si resero visibili, assumendo progressiva autonomia dalle scritture descrittive e relazionali del viaggiatore di mestiere, le implicazioni etiche, filosofiche, politiche del confronto con le estreme "diversità" del mondo. La finzione di un Supplément au voyage de Bougainville di D. Diderot segnalò materialmente il fenomeno del passaggio dal genere ecfrastico del voyage a una letteratura narrativa e filosofica che sfruttava la situazione del viaggiatore, la sua "dislocazione" in Paesi lontani, per esaltare, contro dogmatismi religiosi e razionalistici, il principio della relatività.

In questa direzione del resto l'ingegnoso stratagemma delle Lettres persanes di Montesquieu aveva già avviato un filone riflessivo e critico della finzione odeporica: collocando il viaggio nel Paese del destinatario del testo, sono 'straniate', e quindi rese visibili e messe in discussione, le usanze e le credenze di quest'ultimo. Ma il tema dell'allontanamento avventuroso e straniante sostiene anche la conversione realistica del romanzo, cioè il passaggio dal romance al novel. Il moderno romanzo borghese nasce in una delle isole australi visitate e descritte dai circumnavigatori del mondo, Juan Fernandez, scelta da D. Defoe per farvi naufragare il suo Robinson Crusoe ed epicizzare il percorso della middle class: l'accanito "desiderio di navigare", come pure la decisione della partenza, contro gli ideali di mediocre stabilità del padre di Robinson, rendono eroiche le virtù di intraprendenza e laboriosità che garantiscono all'individuo il successo.

La svolta moderna, che mosse dagli anni della Rivoluzione francese e si rafforzò nell'età romantica, consistette in una sorta di curioso divorzio fra l'esperienza reale del viaggio e le scritture che hanno un carattere propriamente letterario. L'osservazione delle caratteristiche dell'altrove visitato venne progressivamente rimossa dalle attenzioni della letteratura, e delegata allo sguardo scientifico (da L. Spallanzani ad A. von Humboldt a Ch. Darwin) o storico-artistico (da J. Burckhardt a J. Ruskin). Mentre l'evoluzione dell'impegno propriamente letterario, creativo e/o critico, venne segnata da una paradossale negazione dei dati che caratterizzano il referente: la mobilità e la spazialità. J.-J. Rousseau scrisse nelle sue Rêveries du promeneur solitaire (pubblicate postume nel 1782) che il movimento non deve venire dal di fuori, ma deve formarsi nella nostra interiorità. Al viaggio "in caccia di cognizioni e incrementi" L. Sterne sostituì il Sentimental journey (1768), "viaggio del cuore in traccia della natura e di quei sentimenti che da lei sola germogliano", "viaggio riposatissimo" per cui non sarebbe nemmeno necessario spostarsi dalla propria contrada. Qualche anno dopo J. De Maistre pubblicò un Voyage autour de ma chambre (1794), sostituendo alle coordinate geografiche quelle dell'immaginazione e della memoria.

L'interiorizzazione del tema promossa da Rousseau e Sterne stimolò altresì una forte valenza autobiografica in queste scritture. Ma il tragitto narrato non era più un'esperienza formativa, un acquisto di cognizioni che promuovesse la maturità: era piuttosto il rispecchiamento di una vocazione, l'esternazione di un'autenticità individuale già data, ma inespressa, soffocata dalla 'consuetudine giornaliera' del 'ristretto ambito familiare': sono parole dell'Italienische Reise (1817) di J.W. Goethe. Questa idea del viaggio come ritrovamento del proprio io più profondo ha attraversato il Romanticismo, sia sul versante finzionale (si pensi per es. all'Ofterdingen di Novalis, all'Ortis foscoliano e al Childe Harold's pilgrimage di G.G. Byron) sia nei testi memoriali e autobiografici (Chateaubriand, H. Heine, Stendhal). A segnare ancor meglio la perdita di referenzialità diretta del tema sta la larga presenza del viaggio nella letteratura del "fantastico", dalle sue origini "gotiche" alla sua piena espansione romantica. Dal viaggiatore osservatore illuminato e anche curioso si passò al "viaggiatore entusiasta" cui E.T.A. Hoffmann attribuì la narrazione di "storie meravigliose"; però si tratta di inquietanti meraviglie: le mete dei viaggi settecenteschi, reali o finzionali, assunsero improvvisamente nel nuovo secolo segno negativo e sinistro (si pensi all'orientalismo allucinato del Vathek di W. Beckford, all'Italia tenebrosa di tanti romanzi gotici, agli abissi marini e ai ghiacci polari di alcuni dei Racconti straordinari di E.A. Poe); più spesso, questi viaggi fantastici perdono ogni destinazione e si trasformano in erranze maledette, per mare (S.T. Coleridge, The rime of the ancient mariner, poema scritto nel 1797 e pubbl. in Lyrical ballads nel 1798), o per terre e attraverso il tempo (Ch.R. Maturin, Melmoth the wanderer, 1820), oppure in vagabondaggi infiniti.

Appunto questa tensione estrema dell'immaginario odeporico, il distacco da ogni istanza di significazione del reale, segnala una crisi latente del mito del viaggio come scoperta dell'ignoto, e di conseguenza delle scritture di viaggio come rivelazione affascinante del nuovo e del diverso. L'età moderna aveva ormai esaurito le possibilità di discoverta aperte dall'impresa di Colombo: le desolate strofe della canzone leopardiana Ad Angelo Mai anticipano la perdita d'aura del viaggio nella

modernità, esplicitata qualche decennio dopo da Ch. Baudelaire. Ancora una volta, la svolta fu rappresentata direttamente all'interno della scrittura. Le voyage, testo di chiusura di Les fleurs du mal (1857), mette in scena il dialogo fra gli "straordinari viaggiatori" e le "menti infantili" degli ascoltatori, e registra la vanità della speranza di "meraviglia" del racconto di viaggio, scrigno della "ricca memoria" da cui si attendono splendidi gioielli fatti d'astri e di eteri, e che si dichiara di contro "perpetuo notiziario della noia", resoconto del male di una "umanità ciarliera" uguale a sé stessa nella sua follia dovunque e in qualsiasi tempo.

Ma se il viaggio perse la capacità di "significare" il diverso, la realtà altra da noi, l'attenzione si spostò sulla difficile rappresentazione di questo inabissamento dell'io e nell'io che è l'unica "avventura" possibile dell'uomo moderno. Il Novecento si aprì con una sorta di "antiodissea", come qualcuno ha voluto definire Heart of darkness (1902) di J. Conrad: inaugurazione esemplare di una linea di testi che mettono en abyme il racconto di viaggio, illustrando la frustrazione del sogno infantile di esplorazione e di scoperta ma anche rinvenendo in questa testimonianza una funzione centrale della letteratura moderna. Se l'impresa consiste nel raggiungere la nostra immagine, oasi d'orrore nel deserto di noia che attraversiamo, protagonista di questa impresa è il linguaggio, la voce capace di "affrontare le tenebre", di affacciarsi oltre l'orlo dell'abisso per "dire" l'orrore.

Il secondo dopoguerra portò allo scoperto la consapevolezza della irreversibile mutazione socioantropologica subita dal viaggio nella modernità. Da un lato, i nuovi e veloci mezzi di trasporto riuscirono a eliminare difficoltà materiali, ridussero al contempo la fatica e i disagi dello spostamento, mutarono la percezione delle distanze; dall'altro, i luoghi di destinazione tesero ad assimilarsi, la fotografia e il cinema resero fruibili le immagini del lontano; e persero centralità quando non scomparvero elementi una volta fondanti del viaggio come l'aspettativa dell'ignoto e la scoperta del diverso: da impresa individuale il viaggio si trasformò in fenomeno di massa, si professionalizzò come settore del mercato creando strutture di addetti specializzati, diventò turismo.

È stato un grande antropologo a trasmettere meglio di tutti la presa di coscienza di questa epocale mutazione. C. Lévi-Strauss ha fissato nella formula La fin des voyages che intitola la prima parte di Tristes Tropiques (1955; trad. it. 1960) le conseguenze della "cristallizzazione monoculturale" del globo: quelli che erano un tempo "scrigni magici pieni di promesse fantastiche" ora possono soltanto rendere manifeste "le forme più infelici della nostra esistenza storica". Di fronte a questo amaro sapere (come lperaltro l'aveva chiamato Baudelaire) tratto dal viaggio moderno, l'antropologo è passato dall'iniziale stupore per la proliferazione e il "successo incomprensibile" dei racconti di viaggio alla considerazione della funzione sostitutiva e illusoria di queste narrazioni, "passione, follia, inganno", nostalgia delle diversità perdute che garantivano la vitalità della specie umana.

L'ultima generazione di scrittori di viaggio (P. Theroux, P. Matthiessen, B. Chatwin) verifica la desolata diagnosi di Lévi-Strauss. La nostalgia per il fascino dell'ignoto indirizza i percorsi verso le mete meno battute, le estreme periferie del globo, o si esprime direttamente come una sorta di archeologia del viaggio, come estremo tentativo di registrare, ripetendoli, percorsi leggendari, di salvare la memoria di creature, popolazioni, usanze in procinto di scomparire.

Ma anche il vagabondaggio di Chatwin si chiude con lo smarrito interrogativo del viaggiatore dei nostri tempi: What am I doing here? (1989) è il titolo della sua ultima raccolta. La risposta a questa domanda non proviene dalla letteratura, ma come letteratura. Nella suggestiva riscrittura fantastica del Milione da parte di I. Calvino (Le città invisibili) "tutte le città dell'Impero e dei reami circonvicini" sono ormai catalogate e descritte nell'atlante del Gran Kahn. E tuttavia quella mappa, la "breve carta" dell'Angelo Mai leopardiano che racchiude l'immaginario perduto dopo la scoperta di Colombo, ha la straordinaria qualità della letteratura: "rivela la forma delle città che ancora non hanno una forma né un nome". E "il catalogo delle forme è sterminato: finché ogni forma non avrà trovato la sua città, nuove città continueranno a nascere".bibliografia

A reference guide to the literature of travel: including voyages, geographical descriptions,

adventures, shipwrecks and expeditioms, ed. E.G. Cox, 3 voll., Seattle 1935-1949. L. Olschki, Storia letteraria delle scoperte geografiche, Firenze 1937. P. Babcock Gove, The imaginary voyage in prose fiction, New York 1941. M. Butor, Le voyage et l'écriture, in Romantisme, 1972, 4, pp. 4-19. G.R. Cardona, I viaggi e le scoperte, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, 5° vol.,

Le questioni, Torino 1986, pp. 687-713.L'occhio del viaggiatore. Scrittori francesi degli anni Trenta, a cura di S. Teroni, Firenze 1986. Y. Hersant, Italies. Antologie des voyageurs français aux xviiie et xixe siécles, Paris 1988. S. Kern, Il tempo e lo spazio, La percezione del mondo fra Otto e Novecento, Bologna 1988.L'Asino d'oro, 1990, 1, 1, nr. monografico: "Fine dei viaggi": spazio e tempo nella narrazione

moderna. E.J. Leed, The mind of the traveler: from Gilgamesh to global tourism, New York 1991 (trad.

it. Bologna 1992).P. Boitani, L'ombra di Ulisse, Bologna 1992. P. Scarpi, La fuga e il ritorno. Storia e mitologia dei viaggi, Venezia 1992. A. Brilli, Quando viaggiare era un'arte. Il romanzo del Grand tour, Bologna 1995. P. Fasano, Letteratura e viaggio, Roma-Bari 1999, 20064. M. Augé, L'impossible voyage. Le tourisme et ses images, Paris 2000.The literature of travel and exploration: an encyclopedia, ed. J. Speake, 3 voll., New York

2003. treccani.it

Nostoi - Wikipedia

it.wikipedia.org Nostoi (Νόστοι, Ritorni) è la denominazione attribuita a poemi greci che compongono un ciclo epico[1] incentrato sul tema letterario del ritorno dei Greci in patria dopo la distruzione di Troia. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/0/0a/GiorcesBardo54.jpg/300px-GiorcesBardo54.jpg-REPLACE_ME Il νόστος più importante pervenutoci integralmente può essere considerato l'Odissea di Omero[2].

Un'altra opera, analoga per materia, era i Nostoi, attribuita da alcuni autori allo stesso Omero, da altri a Eumelo di Corinto o ad Agia di Trezene, l'autore più accreditato[1].

La parte della storia raccontata dai Nostoi cronologicamente viene dopo quella narrata nell' Iliou persis (La caduta di Ilio), ed è seguita dall'Odissea.

Il poema si componeva di cinque libri scritti in esametri dattilici. La parola nostos significa ritorno a casa.

Dai nostoi trasse ispirazione Licofrone per la sua Alessandra.La data in cui i Nostoi sono stati composti e quella in cui sono stati fissati per la prima volta in

forma scritta sono molto incerte. Molto probabilmente la stesura del testo è stata completata nel VII o VI secolo a.C.

I Nostoi raccontano il ritorno a casa degli eroi greci dopo la fine della Guerra di Troia. Nelle edizioni critiche moderne sopravvivono soltanto cinque versi e mezzo di quello che era il testo originale del poema, quindi per conoscerne la trama siamo costretti a ricorrere quasi esclusivamente al riassunto del Ciclo Epico che si trova nella "Chrestomatheia" attribuita ad un oscuro Proclo (che forse potrebbe essere identificato con il grammatico del II secoloEutichio Proclo). Pochissime altre fonti forniscono infatti qualche indicazione sulla trama del poema.

Il poema si apre con i Greci che si stanno preparando a fare vela verso la loro patria, mentre la dea Atena è adirata a causa dell'empio comportamento da loro tenuto durante il saccheggio di Troia. Agamennone si attarda, cercando di riappacificarsi con lei; Diomede e Nestore partono invece senza indugio e riescono a raggiungere la propria casa senza rischi; Menelao parte a sua volta ma incontra una tempesta e perde molte delle sue navi, finendo contro la sua volontà in Egitto dove è costretto a restare per diversi anni. Un'altra parte dell'esercito greco, tra cui il profeta Calcante, preferisce allontanarsi via terra e raggiunge Colofone, dove Calcante stesso muore e viene quindi sepolto.

Quando Agamennone è pronto a prendere il mare, gli appare il fantasma di Achille che gli rivela il suo destino. Agamennone compie un sacrificio propiziatorio e decide di partire ugualmente; Neottolemo, invece, riceve la visita di sua nonna, la NereideTeti, che gli suggerisce di attendere ancora e compiere degli altri sacrifici in onore degli dei. Dietro richiesta di Atena, Zeus scatena una tempesta su Agamennone e sul suo seguito, nel corso della quale perde la vita Aiace Oileo che fa naufragio nei pressi della parte meridionale dell'isola Eubea. Neottolemo segue il consiglio di Teti e decide di rientrare via terra; giunto in Tracia, a Maroneia incontra Odisseo che era invece arrivato fin lì per mare. Neottolemo riesce a fare ritorno a casa, nonostante lungo la via perda la vita Fenice, e una volta arrivato viene riconosciuto da suo nonno Peleo.

Agamennone riesce a raggiungere la sua casa, ma cade assassinato da sua moglie Clitemnestra e dal suo amante, cugino di Agamennone, Egisto. Tempo dopo suo figlio Oreste vendicherà la sua morte uccidendo entrambi gli amanti assassini. Alla fine anche Menelao riesce a fare ritorno dall'Egitto. Quest'ultima parte, nota come "Oresteia", viene ripresa nel III e IV libro dell'Odissea nei racconti di Nestore e Menelao; costituirà poi la base per la trilogia tragica di Eschilo, l'Orestea.

Alla fine dei Nostoi l'unico eroe greco ancora in vita a non aver ancora fatto ritorno a casa è Odisseo: la sua avventura verrà raccontata nell'Odissea.

J. P. Barron (e altri). Letteratura greca. Milano, Mondadori, 2007.

Luciano Canfora. Storia della letteratura greca. Roma-Bari, GLF-Laterza, 2001. ISBN 88-420-6428-9.

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Ulisse - Wikipedia

it.wikipedia.org SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/b/b4/Head_Odysseus_MAR_Sperlonga.jpg/210px-Head_Odysseus_MAR_Sperlonga.jpg-REPLACE_ME Testa di Ulisse, Gruppo di Polifemo a Sperlonga Ulisse (dal latino Ulyssēs, ma anche Ulixēs) o Odisseo (pronunciato /odis'sεo/ o alla latina /o'dis:eo/;[1] dal grecoὈδυσσεύς/odys'seʊ̯es/, latinizzato in Odysseus, ma anche alla base del più comune Ulisse) è un personaggio della mitologia greca. Originario di Itaca, è uno degli eroiachei descritti e narrati da Omero nell'Iliade e nell'Odissea, celeberrima opera letteraria, quest'ultima, che dal suo protagonista prende il nome.

Il vero nome di questo eroe era Odisseo, nome dal significato formidabile che gli fu assegnato dal nonnoAutolico, motivandolo come "odiato dai nemici" che suo nonno si è procurato, che sono tanti, e da coloro che si farà lui per il primato della sua mente, futura cagione di molte invidie". (Odissèus significa "Colui che è odiato" ma fra i possibili significati dobbiamo citare "collerico" o addirittura "il piccolo", quest'ultima definizione si adatterebbe alla sua statura, non altissima). Ulisse, epiteto datogli dai Romani e reso celebre da Livio Andronico (che significa "Ferito ad un'anca" epiteto formato da due parole, in riferimento a una ferita riportata alla coscia in una battuta di caccia al cinghiale) nelle foreste di Castalia, è la "personificazione" dell'astuzia, del coraggio, della curiosità e dell'abilità manuale. Figlio di Anticlea moglie di Laerte dal quale ereditò il regno e di Sisifo, da parte materna Ulisse è pronipote di Ermes. Sposo di Penelope e padre di Telemaco e secondo molte tradizioni di Telegono, avuto con la maga Circe.

Esistono diverse versioni di tale racconto:Secondo Apollodoro, Ulisse crea il progetto del Cavallo di Troia, ma è Epeo, famoso artista, a

costruirlo prendendo il legno dal sacro monte Ida.[2]Secondo Igino, Epeo, figlio di Panopeo, con l'aiuto di Atena riuscì a realizzare l'intera opera

senza l'aiuto di Ulisse.[3]Secondo Tzetze, Prilide guidato da Atena propose l'idea del cavallo di legno ed Epeo fu ben

lieto di costruire tale opera. Ulisse ne prese tutto il merito.[4]Secondo Pausania, il cavallo di legno era semplicemente una macchina bellica con la quale i

greci attaccarono le mura e le distrussero.[5]Secondo Virgilio, i Troiani ritennero che il cavallo fosse un dono di Atena, dato che Odisseo e

Diomede avevano derubato il tempio della dea.[6] Ulisse avrebbe perciò consacrato il cavallo ad Atena per evitare la sua collera.[7]Per approfondire, vedi Odissea. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/c/c0/Odysseus_and_Calypso.jpg/340px-Odysseus_and_Calypso.jpg-REPLACE_ME Re di Itaca, figlio di Laerte (anche se una tradizione lo vuole figlio di Sisifo) e di Anticlea, sposo di Penelope, padre di Telemaco, Ulisse vorrebbe ritornare agli affetti familiari e alla nativa Itaca dopo dieci anni passati a Troia a causa della guerra (suo è l'espediente del cavallo di legno che permette di sbloccare la situazione), ma l'odio di un dio avverso, Poseidone, glielo impedisce. Costretto da continui incidenti e incredibili peripezie, dopo altri dieci anni, grazie anche all'aiuto della deaAtena, riuscirà a portare a compimento il proprio ritorno a casa.

Le tappe del ritorno (in greco nostos) sono dodici, numero degli insiemi perfetti. Si alternano tappe in cui l'insidia è manifesta (mostruosità, aggressione, morte) a tappe in cui l'insidia è solo latente: un'ospitalità che nasconde un pericolo, un divieto da non infrangere. Ulisse continua a non riuscire a tornare a Itaca perché il dio Poseidone, adirato con lui, gli scatena contro venti furiosi e continui naufragi e pericolosi approdi in altre terre.

Dopo la partenza da Troia, Ulisse fa tappa a Ismaro, nella terra dei Ciconi (in greco, Kìkones), e

li attacca per fare bottino. Qui risparmia Marone, sacerdote di Apollo, che gli dona del vino forte e dolcissimo che gli tornerà utile nella grotta di Polifemo.

Seconda tappa nella terra dei Lotofagi, cioè mangiatori di loto. Essi sono ospitali ma insidiosi: offrono infatti ai compagni di Ulisse il loto, un frutto che fa dimenticare il ritorno, costringendo l'eroe a legarli e a trascinarli a forza sulle navi. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/63/Lastman_Odysseus_and_Nausica%c3%a4.jpg/220px-Lastman_Odysseus_and_Nausica%c3%a4.jpg-REPLACE_ME Ulisse, insieme ai suoi compagni, approda su un'isola abitata dalle ninfe. Ulisse vuole andare a chiedere ospitalità in un'isola vicina e porta con sé una nave e alcuni suoi compagni. Giungono nella grotta di Polifemo, che nel frattempo è uscito a pascolare le pecore, e la trovano con i graticci pieni di formaggi enormi e il latte appena munto. I compagni pregano Ulisse di prendere i formaggi, rimettersi in mare e scappare, ma l'eroe vuole ricevere i doni dell'ospitalità. Polifemo ritorna: è orrendo, un gigante con un solo occhio in mezzo alla fronte. Quando li vede sta preparando la sua cena, e allora prende due compagni di Odisseo e li divora. Poi si mette a dormire, così Ulisse medita come scappare da quella disavventura.

Inizialmente pensa di estrarre la spada e così ucciderlo, ma poi riflette che in quel modo sarebbero morti anche loro, perché nessuno poteva smuovere il grande macigno che il ciclope aveva posto davanti alla porta. Poi vede un ramo d'ulivo, gigantesco, ancora verde, che a lui pareva l'albero di una nave da venti remi, e che Polifemo aveva conservato per farne un bastone. Ordina ai compagni di tagliarne un pezzo e intanto lui lo appuntisce. La sera dopo l'eroe offre al ciclope il vino che gli aveva donato Marone. Polifemo si ubriaca e chiede a Ulisse il suo nome. L'eroe acheo risponde che il suo nome è "Nessuno". Il ciclope si addormenta e Ulisse e i compagni colgono l'occasione: prendono il ramo e accecano l'unico occhio del ciclope. Gli altri due fratelli di Polifemo accorrono ma ritornano indietro quando il ciclope dice: "Nessuno, amici, mi uccide con l'inganno e non con la forza". La mattina dopo Polifemo fa uscire a pascolare le sue pecore, ma per evitare che qualcuno fugga, stende le mani in modo da tastare il vello delle pecore. Allora l'eroe e i suoi compagni si legano sotto dei montoni, riuscendo così a sfuggire.

Giunge quindi nell'isola di Eolo, dio dei venti, da cui viene ospitalmente accolto per un mese, ricevendo in dono l'otre dei venti, accompagnato da un divieto da non infrangere: nessuno dovrà aprire l'otre. Saranno i compagni però che, invidiosi del dono dell'ospite, ormai in prossimità di Itaca, approfittando del sonno di Odisseo, apriranno l'otre scatenando i venti che risospingeranno la nave al largo.

Quinta tappa presso i Lestrigoni, giganti mostruosi quasi quanto i Ciclopi. Anche qui Odisseo perde alcuni compagni e i giganti bersagliano la sua flotta abbattendo undici navi. Solo quella dell'eroe si salva.

Giunge poi nell'isola di Circe, una maga seducente che trasforma i compagni di Odisseo in porci. Grazie all'aiuto di Ermes, che gli dà una misteriosa erba quale antidoto alla maledizione della maga, l'eroe riesce ad evitare l'insidia e costringe Circe a restituire ai compagni sembianze umane. Dopo essersi fermato un anno da Circe, Odisseo - su indicazione della stessa maga - si accinge a una nuova prova, la catabasi nel regno dei morti. Lì riesce a entrare in contatto con le figure dei compagni perduti durante la guerra di Troia, con la madre e con l'indovino Tiresia, che gli presagirà un ritorno luttuoso e difficile, invitandolo a guardarsi dal toccare le vacche del Soleiperionide. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/5/5e/Odysseus_from_Schwab_book_1.jpg/330px-Odysseus_from_Schwab_book_1.jpg-REPLACE_ME

Rimessosi in rotta Ulisse se la vede con le pericolose sirene, Ulisse allora tappa le orecchie ai compagni e si fa legare all'albero della Nave per ascoltarle. Superato lo scoglio delle sirene Ulisse sta dirigendosi verso lo Stretto di Messina.

Ulisse tenta di superare i mostri Scilla e Cariddi. Scilla si mangia sei compagni di Ulisse. A

impresa compiuta, Odisseo non riesce a frenare la voglia dei compagni di banchettare con le invitanti mucche di Elio (altre versioni dicono di Era o Apollo). Per questo Odisseo racconta di essere stato per nove giorni in balia di terribili tempeste scatenate da Zeus, con la nave e i compagni uccisi da Cariddi.

Scampato alla tempesta riuscì a salvarsi grazie all'arrivo sull'isola di Ogigia dove incontra Calipso. Dopo sette anni di "prigionia" lontano da casa, Ermes viene ad avvisare la ninfa di lasciare Ulisse, il quale costruita una barca parte per Itaca, ma ad un passo dalla terra natia, Poseidone lo ferma.

Odisseo naufraga, con l'aiuto di Ino, nella terra dei Feaci a cui racconta lo stratagemma del cavallo di Troia. L'eroe è dunque riaccompagnato dai Feaci a casa con abbondanti doni

Dopo essersi rivelato al figlio e al fedele Eumeo si reca alla reggia dove si fa accogliere come un mendicante. Qui, schernito ripetutamente dai tracotanti Proci, partecipa alla gara di arco organizzata da Penelope, che aveva promesso di consegnarsi in sposa a colui che sarebbe riuscito a scoccare una freccia dal pesante arco del marito facendola passare per le fessure di dodici scuri allineate. Nessuno dei pretendenti riesce anche solo a tendere l'arco, e così Odisseo chiede di poter fare un tentativo. Sotto gli occhi torvi dei Proci, dopo aver scaldato l'arma sulla fiamma, Odisseo riesce perfettamente nell'impresa di tendere l'arco e scoccare. A questo punto, spalleggiato da Atena, non gli rimane che scatenare la vendetta che aveva attentamente preparato con Eumeo, Filenzio e il figlio. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/96/Odysseus_Tiresias_Cdm_Paris_422.jpg/220px-Odysseus_Tiresias_Cdm_Paris_422.jpg-REPLACE_ME Nel libro undicesimo dell'Odissea, l'indovino Tiresia predice il futuro del re itacese: infatti gli profetizza una morte "Ex thalos", che vuol dire "dal mare" o "lontano dal mare". Una volta uccisi i Proci, ripartirà verso terre lontane, ai confini del regno di Poseidone, ossia oltre le Colonne d'Ercole. Giungerà ad una terra dove non si conoscono il mare e le navi e dove non si condiscono i cibi col sale. Quando un viandante scambierà il remo di Ulisse per un ventilabro, potrà fermarsi, piantare il remo e offrire sacrifici a Poseidone. Tornerà quindi ad Itaca, offrirà sacrifici a tutti gli dèi e una lieta morte verrà dal mare durante una serena vecchiaia, circondato da popoli pacificati. Le ulteriori peregrinazioni di Ulisse e la sua morte sono state trattate in canti epici che non sono pervenuti. Per questo, diversi scrittori hanno ipotizzato la possibile morte di Ulisse. Letteratura e miti ci narrano quattro diverse versioni sulla morte di Ulisse:

Nell'Epitome dello Pseudo-Apollodoro, tornato ad Itaca, l'eroe scopre che Telemaco ha lasciato la sua casa. Dopo che un oracolo gli ha predetto infatti che Ulisse sarebbe morto per mano del figlio, Telemaco ha scelto l'esilio volontario nella vicina Cefalonia. Ulisse, senza esserne a conoscenza, ha dato un figlio a Circe, presso la quale aveva soggiornato nel suo lungo viaggio di ritorno da Troia. Telegono, questo il suo nome, era alla ricerca del padre e, sulle sue orme, giunge ad Itaca. Lo sbarco di stranieri provoca un immediato allarme, così Ulisse e le sue guardie scendono alla riva. Ne nasce una battaglia, in cui Ulisse muore proprio per mano di Telegono.

Nella Divina Commedia di Dante Alighieri, Inferno - Canto ventiseiesimo, il poeta immagina l'ultimo viaggio di Ulisse (riferendosi alla versione in latino di Ovidio), l'ultima sfida oltre le Colonne d'Ercole. L'impresa si conclude con il naufragio provocato da un'enorme vortice e la morte dell'eroe greco con tutti i suoi compagni.

In "l'ultimo viaggio" (nei Poemi Conviviali) di Pascoli, Ulisse, passati dieci anni dal suo ritorno, riprende il mare e percorre a ritroso il viaggio dell'Odissea. Ma i suoi ricordi non corrispondono più alla realtà. Presso l'isola delle sirene naufraga e il suo corpo è trasportato dal mare sull'isola di Calipso.

C'è un ultimo poeta il cui nome è sconosciuto, vissuto dopo la scoperta dell'America,che narra che circa 15 anni dopo il ritorno in patria Ulisse, Penelope e Telemaco partono alla ricerca di nuove terre e arrivano oltre le Colonne d'Ercole navigano per circa cinque anni e poi approdano in un posto dove vivono degli aborigeni cannibali che mangiano Ulisse, Penelope e Telemaco dopo averli ubriacati[senza fonte].

Nell'arte greca, le prime raffigurazioni di Odisseo sono di pittori vascolari del periodo

orientalizzante, inizio del VII secolo, dunque immediatamente successive la composizione dell'Odissea stessa. Nelle loro opere la più rappresentata è la scena dell'accecamento di Polifemo da parte di Odisseo e dei suoi compagni, episodio che più di altri evidenzia l'astuzia e l'intelligenza dell'eroe, per cui si vede come sin dall'inizio l'arte figurativa interpreti correttamente la figura di Odisseo, secondo la lettura che ne verrà data nei secoli successivi. In quanto a frequenza di attestazione, poi, per secondo viene l'incontro con Scilla, il peggior pericolo forse tra quelli effettivamente corsi da Odisseo durante le sue peregrinazioni e per terzo, infine, quello con le Sirene, simbolo per eccellenza del potere della seduzione della conoscenza.

Dopo l'età protogreca le raffigurazioni del mito di Odisseo, comparse, come s'è detto, improvvisamente e massicciamente nella pittura vascolare e in quella minore nella prima metà del VII secolo, si interrompono quasi del tutto. Per l'età classica ci è pervenuto un solo esempio, un cratere italico del tardo V secolo, che però si riferisce non al testo omerico ma a Il Ciclope, il dramma satiresco di Euripide. Il tema diventerà nuovamente fiorente solo in età ellenistica, per poi diventare una tra le fonti di maggiore ispirazione per l'arte romana.

Ulisse è, per antonomasia, l'uomo affascinato dall'ignoto. James Joyce prende a modello la sua figura e la sua storia per il suo romanzo, l'Ulysses. Ugo Foscolo vide nel proprio destino di esule somiglianze con quello dell'eroe omerico. Guido Gozzano, in piena polemica antidannunziana, lo presenta ironicamente come un moderno "viveur" (L'Ipotesi).

Nell'Iliade Ulisse non ha un ruolo molto importante, anche se il poeta non manca di sottolineare il suo valore bellico. Nel quinto libro, dopo aver assistito alla morte di Tlepolemo per mano di Sarpedonte, egli decide di non inseguire l'assassino del suo compagno, ma di attaccare gli altri guerrieri lici, uccidendo Cerano, Alastore, Cromio, Alcandro, Alio, Noemone e Pritani. In seguito Ulisse lo si vede per lo più a fianco di Diomede, ed è con lui che compie le imprese più note: nel decimo libro, i due assaltano il campo dei Traci, con Diomede che sgozza i nemici addormentati e Ulisse che gli copre le spalle: nell'undicesimo, Ulisse colpisce a morte il giovane Molione, valletto e auriga del re asiatico Timbreo, ucciso poco prima da Diomede. I due, travestiti da mendicanti, rubano il palladio che proteggeva Troia. Egli è anche, insieme ad Agamennone, Diomede, Aiace Telamonio, Aiace Oileo, Idomeneo, Merione, Euripilo e Toante, tra coloro che si offrono di affrontare Ettore in duello. In seguito durante i giochi funebri in onore di Patroclo, Odisseo partecipa alla gara di lotta affrontando Aiace Telamonio. Ulisse riesce a tenere testa ad Aiace grazie alla sua astuzia, ma Achille ferma la gara assegnando la vittoria ad entrambi. Inoltre partecipa anche alla gara di corsa insieme ad Aiace Oileo e Antiloco; ottiene la vittoria grazie all'aiuto di Atena. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/9/97/Gruppo_di_polifemo%2c_sperlonga_0.jpg/220px-Gruppo_di_polifemo%2c_sperlonga_0.jpg-REPLACE_ME L'Odissea è uno dei nostoi (o ritorni) che raccontano le avventure degli eroi omerici dopo la guerra, ma tra tutti questi poemi (in principio trasmessi oralmente) è certamente il più famoso. La fama del poema è certamente legata al suo personaggio principale che rappresenta, anche secondo la nozione comune, l'uomo moderno. Una caratteristica di Ulisse è certamente la tradizionale καλοκαγαθία (=benignità) eroica, l'essere di bell'aspetto ed eticamente virtuoso, cui aggiunge uno straordinario senso pratico e una grande curiosità che, unita al suo incredibile genio, lo rendono capace di risolvere ogni ostacolo con successo.

Si deve inoltre ricordare che Ulisse nel suo viaggio all'interno dell'Ade incontra anche la madre, morta di dolore dopo la partenza del figlio per la guerra. Odisseo vede poi amici e personaggi illustri (come Achille, il giudice Minosse, Orione): vede anche i dannati, come Tantalo e Sisifo. Tuttavia le anime che Ulisse incontra nell'Ade sono prive di vera e propria forza interiore, sono prive di ricordi, sono ombre presentate sotto forma di sogni. Esse infatti hanno bisogno di sangue (ed è per questo che Circe dona a Ulisse e ai suoi compagni un agnello e una pecora nera da sacrificare) per ricordare le loro vite passate, e le rimpiangono amaramente. Anche per questo l'Odissea può essere considerata un

"proseguimento dell'Iliade": alla morte di personaggi illustri come Achille, Ettore o Patroclo, i nemici o gli eroi stessi annunciano il rimpianto, molto diverso dalla nostra concezione di morte attuale, l'andare in un mondo migliore, onore concesso solo a pochi fortunati parenti, amici o umani amati dagli dei.

I morti rimpiangono la luce del sole perché è la cosa che ricorda più ai defunti la vita, l'amore, la vendetta, gli istinti primordiali dell'uomo. La madre e la moglie di Ulisse sono intese come persone "buone" e molto legate alla famiglia per fedeltà e forza d'animo, così come nell'Iliade lo sono la madre e la moglie di Ettore, Ecuba e Andromaca, che mal sopportano la morte di Ettore ma continuano la loro vita, amaramente.

Nella tragedia di SofocleAiace, che prende il nome dal protagonista, Ulisse è colui che con Agamennone e Menelao ha suscitato l'ira, e con essa la follia di Aiace. La tragedia ha infatti inizio con Aiace che ha trucidato di notte un intero gregge di pecore, credendole soldati Greci a causa di un inganno di Atena, perché voleva vendicarsi della decisione da parte dei due Atridi di assegnare a Ulisse, piuttosto che a lui, le armi del defunto Achille.

Tuttavia in questa tragedia Ulisse ha un ruolo quasi marginale, ma alla fine è lui ad intervenire nella lite fra Teucro (figlio di Telamone e fratellastro di Aiace) che voleva seppellire il corpo del fratellastro suicida, e i due capi Atridi che volevano invece negare al cadavere la sepoltura per punirlo del tentato eccidio. Ulisse infatti entra in scena e con poche parole riesce a convincere Agamennone a lasciare che Aiace venga sepolto in virtù dei suoi meriti e del suo passato apporto all'esercito greco. Teucro tuttavia non gli permetterà di partecipare alla sepoltura, come egli avrebbe invece voluto, per non fare cosa sgradita al defunto.

Va ricordato inoltre che nell'Odissea (Libro XI), quando Ulisse andrà nel regno dell'Ade e incontrerà fra gli altri personaggi Aiace, costui si rifiuterà orgogliosamente di rivolgergli la parola e riappacificarsi con lui.

Nel poema virgiliano Ulisse compare in carne e ossa nel libro II: calatosi dal cavallo di legno con molti altri Achei, entra in Troia, dove ferisce Pelia, un amico di Enea. Nel libro VI si scoprirà anche che durante la presa della città egli ha fatto irruzione insieme a Menelao nella casa di Deifobo, come narrato dalla stessa vittima (incontrata da Enea nell'Ade); che però non rivela il nome del suo assassino.

Nel XXVI canto dell'Inferno di Dante è condannato al pari di Diomede alla tribolazione eterna, nella bolgia dei consiglieri di frode, a causa degli inganni perpetrati (il Cavallo di Troia, l'inganno che fa ad Achille per partire a Troia e il furto del Palladio). Viene anche narrata la sua morte: Ulisse venne rovinato dalla sua smania di conoscenza, dopo aver oltrepassato le colonne d'Ercole (Canto XXVI), naufragando miseramente poco prima di poter sbarcare sull'isola nella quale si trova la montagna del Purgatorio. Per Dante, il folle viaggio rappresenta la volontà di superare i limiti della conoscenza umana; la follia di Ulisse non consiste nella ribellione personale contro un ordine prestabilito, bensì nel tentativo di superare i limiti della finitezza dell'essere umano. Ulisse è perciò sicuramente considerato da Dante un magnanimo. Ma il peccato di Ulisse, oltre essere quello di aver provocato con le sue menzogne dolore e sofferenza, nasce anche dall'aver portato all'eccesso le sue virtù, confidando in esse senza il sostegno della Grazia divina, e volendo farsi simile a Dio stesso. La follia consiste nella dimenticanza di essere una semplice creatura, esaltando la propria intelligenza al punto di trasformare ciò che è positivo (il desiderio di seguire virtute e conoscenza) in un'irragionevole negazione dell'esistenza di ogni limite.

Il cinema e la televisione non potevano non interessarsi di una figura affascinante e complessa come quella di Ulisse. La prima trasposizione cinematografica delle gesta dell'eroe greco risale al 1911 per opera di Giuseppe de Liguoro. Nel 1955 arriva sul grande schermo l'interpretazione di Kirk Douglas, con Silvana Mangano nel ruolo di Penelope, sotto la regia di Mario Camerini (Ulisse), ma si tratta di una realizzazione con una scarsissima aderenza al testo omerico.

Diverso è il caso dello sceneggiato televisivoRAI del 1968, L'Odissea, regia di Franco Rossi,

con Bekim Fehmiu e Irene Papas. A parte qualche eccezione, questa trasposizione televisiva del poema riassume per intero e in modo fedele la storia narrata da Omero.

Un altro esempio di contrasto con l'epopea omerica è invece il film per la TV del 1997 di Andrej Končalovskij, ancora dal titolo L'Odissea, interpretato - fra gli altri - da Armand Assante, nella parte del protagonista, Greta Scacchi, Isabella Rossellini, e di nuovo Irene Papas, e che aggiunge elementi di altri poemi epici.

Canale 5, nel 1991, ha realizzato una versione musical in chiave comica di L'Odissea, con la regia di Beppe Recchia.

Un altro Ulisse in chiave di parodia è stato infine quello rappresentato nel 1964 dal Quartetto Cetra in Biblioteca di Studio Uno.

Nel luglio 2012 su Rai2 è partito un cartone animato intitolato Ulisse. Il mio nome è Nessuno che, pur parlando delle peripezie dell'eroe greco, introduce avvenimenti o personaggi inesistenti nel romanzo di Omero. Curiosamente nello stesso anno lo scrittore Valerio Massimo Manfredi pubblicava un romanzo con un titolo molto simile: Il mio nome è Nessuno.

Dopo un'appassionata ricerca che perdurava da 16 anni, un'équipe dell'università greca di Ioannina, guidata dal prof. Athanasios Papadopulos, ha trovato quelle che ritiene essere le tracce del palazzo dell'eroe omerico. A conferma del valore storico del racconto di Omero, il luogo del ritrovamento è Exogi nel nord dell'isola di Itaca. Gli indizi sull'identità del palazzo sono molteplici, tra i quali in particolare rilevano la forma del palazzo, simile ad altri palazzi regi micenei, alcuni manufatti ritrovati e una fontana databile intorno al XIII secolo a.C. Gli esperti italiani che hanno commentato la notizia sono cauti ma concordano sull'importanza della certezza di un palazzo regio nell'isola. Più incline a dar credito alla convinzione del collega greco è lo storico Luciano Canfora, che sottolinea l'attendibilità storica dei poemi omerici in genere.[9] it.wikipedia.org

Divina Commedia/Inferno/Canto XXVI - Wikisource

it.wikisource.org Canto XXVI, nel quale si tratta de l’ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a’ fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d’Ulisse e Diomedes pone loro pene.  Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande!3

Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali. 6

Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai, di qua da picciol tempo, di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna. 9

E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee! ché più mi graverà, com’ più m’attempo. 12

Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto iborni a scender pria, rimontò ’l duca mio e trasse mee; 15

e proseguendo la solinga via, tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia. 18

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ’ngegno affreno ch’i’ non soglio, 21

perché non corra che virtù nol guidi; sì che, se stella bona o miglior cosa m’ ha dato ’l ben, ch’io stessi nol m’invidi. 24

Quante ’l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ’l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa, 27

come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara: 30

di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ’ve ’l fondo parea. 33

E qual colui che si vengiò con li orsi vide ’l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi, 36

che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire: 39

tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra ’l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. 42

Io stava sovra ’l ponte a veder surto, sì che s’io non avessi un ronchion preso, caduto sarei giù sanz’esser urto. 45

E ’l duca, che mi vide tanto atteso, disse: "Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso". 48

"Maestro mio", rispuos’io, "per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti: 51

chi è ’n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?". 54

Rispuose a me: "Là dentro si martira Ulisse e Dïomede, e così insieme a la vendetta vanno come a l’ira; 57

e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme. 60

Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deïdamìa ancor si duol d’Achille, e del Palladio pena vi si porta". 63

"S’ei posson dentro da quelle faville parlar", diss’io, "maestro, assai ten priego e ripriego, che ’l priego vaglia mille, 66

che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!". 69

Ed elli a me: "La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto; ma fa che la tua lingua si sostegna. 72

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto". 75

Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi: 78

"O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco 81

quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi". 84

Lo maggior corno de la fiamma antica cominciò a crollarsi mormorando, pur come quella cui vento affatica; 87

indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori e disse: "Quando 90

mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enëa la nomasse, 93

né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopè far lieta, 96

vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore; 99

ma misi me per l’alto mare aperto sol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto. 102

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi, e l’altre che quel mare intorno bagna. 105

Io e’ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi 108

acciò che l’uom più oltre non si metta; da la man destra mi lasciai Sibilia, da l’altra già m’avea lasciata Setta. 111

"O frati," dissi, "che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente, a questa tanto picciola vigilia 114

d’i nostri sensi ch’è del rimanente non vogliate negar l’esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente. 117

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". 120

Li miei compagni fec’io sì aguti, con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti; 123

e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino. 126

Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte, e ’l nostro tanto basso, che non surgëa fuor del marin suolo. 129

Cinque volte racceso e tante casso lo lume era di sotto da la luna, poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo, 132

quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avëa alcuna. 135

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto; ché de la nova terra un turbo nacque e percosse del legno il primo canto. 138

Tre volte il fé girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’altrui piacque, 141

infin che ’l mar fu sovra noi richiuso". it.wikisource.org

Inferno - Canto ventiseiesimo - Wikipedia

it.wikipedia.org SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/6/61/Gustave_Dore_Inferno25.jpg/250px-Gustave_Dore_Inferno25.jpg-REPLACE_ME Il canto ventiseiesimo dell'Inferno di Dante Alighieri si svolge nell'ottava bolgia dell'ottavo cerchio, dove sono puniti i consiglieri di frode; siamo nel mattino del 9 aprile 1300 (Sabato Santo), o secondo altri commentatori del 26 marzo 1300.« Canto XXVI, nel quale si tratta de l’ottava bolgia contro a quelli che mettono aguati e danno frodolenti consigli; e in prima sgrida contro a’ fiorentini e tacitamente predice del futuro e in persona d’Ulisse e Diomedes pone loro pene. »(Anonimo commentatore dantesco del XIV secolo)Nel Canto XXVI si tratta degli orditori di frode ossia condottieri e politici che non agirono con le armi e con il coraggio personale ma con l'acutezza spregiudicata dell'ingegno. Qui, Dante fa una riflessione sull'ingegno e sul suo utilizzo: l'ingegno è un dono di Dio, ma per il desiderio di conoscenza può portare alla perdizione, se non è guidato dalla virtù cristiana.« Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande

che per mare e per terra batti l'ali, e per lo 'nferno tuo nome si spande! »(vv. 1-3) SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/c/c0/Targa_Bargello.JPG/250px-Targa_Bargello.JPG-REPLACE_ME Il canto si apre con una invettiva nei confronti di Firenze che tematicamente si lega al canto precedente, dove Dante aveva incontrato cinque ladri appunto fiorentini: con ironia nota quanto Firenze sia conosciuta su tutta la terra (metaforicamente "batte l'ali", citando un'iscrizione sul Palazzo del Bargello del 1255). Francesco Buti a proposito commentava infatti: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Anche nell'Inferno quindi il nome di Firenze si spande, essendosi Dante dovuto vergognare per aver trovato ben cinque concittadini tra i «ladroni», che certo non arrecano «onore» alla sua città.

Ma se quello che si sogna al primissimo mattino, secondo una leggenda medievale, diventa vero, allora Dante predice che presto essa subirà la punizione che persino la vicinissima Prato, nonché altre città, desiderano per lei. Il perché sia indicata proprio Prato non è stato ancora chiarito e le ipotesi più convincenti sono quelle legate agli anatemi scagliati dal cardinale Niccolò da Prato, che tentò vanamente di riappacificare le fazioni fiorentine nel 1304. Manfredi Porena, pur non proponendo un'alternativa a questa spiegazione, trova difficoltà ad accettarla in quanto il cardinale da Prato fu poco dopo uno dei principali manipolatori dell'elezione di papa Clemente V, di cui si sa cosa pensasse Dante (Inferno XIX, 82-87), e par difficile che Dante potesse invocarne l'autorità, sia pure in tutt'altra materia[1].

Il poeta rincara poi la dose dicendo che se anche questa punizione fosse già arrivata, non sarebbe stata troppo sollecita ("E se già fosse, non saria per tempo.", v. 10) e, visto che la riconosce necessaria, si augura che arrivi presto ("Così foss'ei, da che pur esser dee!", v. 11) perché la sventura di Firenze gli graverà di più via via che la sua età avanza ("ché più mi graverà, com' più m'attempo.", v. 12). Non tutti i commentatori concordano sul perché Dante si augura che la punizione arrivi presto. Alcuni sostengono che la sventura di Firenze, benché ineluttabile, riempie Dante di dolore, che più gli sarà grave quanto più invecchierà. Il vecchio infatti sopporta meno i dolori, diventa sempre più disposto al perdono e l'amore per il luogo natio cresce in lui con l'età. Secondo altri Dante vuole dire invece che più la sventura tarderà, tanto più egli soffrirà per non aver goduto a lungo della punizione. Questa interpretazione contrasta però col "da che pur esser dee", che riconosce sì la necessità della punizione, ma lo fa a malincuore. È curioso che i commentatori moderni protendano tutti per la prima ipotesi e quegli antichi per la seconda, a dimostrare come in fondo la lettura di questo passo è anche

mutuata dalla nostra sensibilità e maniera di pensare.La bolgia dei consiglieri fraudolenti - vv. 13-48[modifica | modifica sorgente]

SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/a/af/Inf._26_Alessandro_Vellutello_%281534%29.jpg/250px-Inf._26_Alessandro_Vellutello_%281534%29.jpg-REPLACE_ME « Noi ci partimmo, e su per le scalee

che n'avea fatto iborni a scender pria, rimontò 'l duca mio e trasse mee; »(vv. 13-15) I due poeti ripartono dall'argine interno della settima bolgia percorrendo a ritroso la strada seguita in Inferno XXIV, 79-81: Virgilio risale la scala che li aveva «fatto iborni», reso eburnei, cioè fatti impallidire per l'orrore suscitato dalle serpi che stipavano la bolgia, quindi tira su Dante. Non tutti sono concordi sulla lezione sopra riportata del verso 14: alcuni preferiscono leggere "che n'avean fatte i borni a scender pria", interpretando "i borni" come le pietre (francese borne: pietra) che avevano utilizzato come scala per scendere e che ora servono come appiglio per risalire; altri leggono invece "che il buior n'avea fatto scender pria", ricordando che Dante aveva chiesto a Virgilio di scendere perché non poteva vedere il fondo della bolgia a causa del buio. A meno di un improbabile ritrovamento del manoscritto originale, non sapremo mai che cosa ha scritto realmente Dante; comunque sia, la sostanza del racconto, cioè che i due poeti sono ritornati al punto da cui erano partiti per vedere cosa c'era nella settima bolgia, non cambia.« e proseguendo la solinga via,

tra le schegge e tra ' rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia. »(vv. 16-18) Proseguono quindi per la strada solitaria ("solinga via"), per l'assenza di demoni e dannati, tra le pietre aguzze ("schegge") e tondeggianti ("rocchi") del ponticello successivo ("scoglio"), che deve essere più ripido dell'altro se non bastano i piedi per avanzare, ma bisogna aiutarsi con le mani. Quando arriva sul colmo del ponticello, Dante prova un dolore tanto grande per quello che vede, da essere ancor vivo al momento in cui scrive, e grande a tal punto da indurlo a tenere a freno l'ingegno perché non superi i limiti della virtù; non vuole infatti che l'influenza degli astri ("stella bona") o la grazia divina ("miglior cosa"), che gli hanno concesso l'esperienza iniziatica, gliela tolgano per causa di una sua azione o un suo pensiero troppo ardito. Questa notazione, ora un po' arcana, diventerà evidente se considerata alla luce di ciò che verrà dopo nel canto, cioè la storia di Ulisse il cui ingegno, non tenuto a freno dalla virtù, gli procurò la morte per aver superato i limiti imposti da Dio. Egli usa una similitudine per descrivere quello che vede:« Quante 'l villan ch'al poggio si riposa,

nel tempo che colui che 'l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede a la zanzara, vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov'e' vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea l'ottava bolgia, sì com'io m'accorsi tosto che fui là 've 'l fondo parea. »(vv. 25-33)« Quante lucciole vede il contadino che si riposa sul poggio,

d'estate, quando il sole resta visibile più a lungo,

di sera, quando la mosca si posa e cede il posto alla zanzara,

giù nella valle, forse proprio nei campi dove lavora:

di tante fiamme risplendeva tutta l'ottava bolgia, così come mi accorsi appena giunsi dove ne appariva il fondo. »(parafrasi) Segue quindi un'altra similitudine per rappresentare il fatto che ciascuna fiamma si muove racchiudendo in sé un peccatore, paragone dotto che si accorda al linguaggio ricercato e aulico di tutto il canto. Dante si ispira, con qualche licenza poetica, al rapimento in cielo del profeta Elia riportato dalla Bibbia nel 2º Libro dei Re, che racconta che mentre Elia ed Eliseo camminavano conversando, Elia fu improvvisamente rapito in cielo da un carro di fuoco trainato da cavalli di fuoco, che presto scomparve alla vista del suo compagno (cfr. 2Re 2, 11-12). Poco più avanti nello stesso testo (cfr. 2Re 2, 23-24) viene narrato che dei ragazzi incominciarono a beffare Eliseo, dandogli del calvo, finché egli si voltò e li maledisse nel nome del Signore, e dal bosco uscirono due orse che sbranarono quarantadue ragazzi. Ecco i versi di Dante:« E qual colui che si vengiò con li orsi

vide 'l carro d'Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire, ch'el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la gola del fosso, ché nessuna mostra 'l furto, e ogne fiamma un peccatore invola. »(vv. 34-42)« E come colui che si vendicò con gli orsi (Eliseo)

vide partire il carro di Elia, quando i cavalli si levarono dritti verso il cielo,

che con gli occhi poteva seguire solo la fiamma, senza vedere altro, salire su come una nuvoletta:

così si muove ciascuna fiamma nell'incavo della bolgia, perché nessuna mostra il contenuto ("'l furto"), e ognuna cela un peccatore (letteralmente "invola", cioè ruba, connesso con "furto"). »(parafrasi) Dante sta guardando ritto in piedi ("surto") sul ponte, in modo così precario che se non fosse aggrappato ad un masso sporgente ("ronchion"), cadrebbe giù senza bisogno di essere urtato. Vistolo così attento ("atteso") Virgilio (che questa volta non gli legge nel pensiero che egli lo ha già capito) gli spiega che dentro ai fuochi ci sono gli spiriti dei dannati, ciascuno dei quali si fascia di quello da cui è acceso, cioè la fiamma ("catun si fascia di quel ch'elli è inceso").

Non è chiaro quali dannati siano puniti in questa bolgia. Essi sono abitualmente indicati come consiglieri fraudolenti e il loro contrappasso consiste nell'essere avvolti da lingue di fuoco, per analogia con le loro stesse lingue che furono fonte di frode, e nascosti dentro alle fiamme allo stesso modo in cui da vivi celarono la verità per l'inganno (come dice l'Apostolo Giacomo, la lingua fraudolenta è come fuoco). Tuttavia l'unico dei dannati che si inquadra in questa categoria è Guido da Montefeltro, presentato nel Canto XXVII, che si pente invano di un consiglio fraudolento fornito, su sua richiesta, a Papa Bonifacio VIII. Ulisse e Diomede, presentati nel seguito di questo canto, non sono puniti per i consigli dati, ma per le opere che hanno compiuto, e per loro la definizione di consiglieri fraudolenti mal si adatta perché risulta troppo specifica. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/36/Blake_Dante_Hell_XXVI_Ulisses.jpg/250px-Blake_Dante_Hell_XXVI_Ulisses.jpg-REPLACE_ME

Dante allora ringrazia e risponde che aveva già capito ("già m'era avviso che così fosse") e, attratto in particolare da una fiamma doppia che gli ricorda Eteocle e suo fratello Polinice, ne chiede la spiegazione a Virgilio (altra citazione dotta sui due fratelli che arrivarono a uccidersi a vicenda per la discordia; in Stazio e in Lucano si racconta che anche le fiamme della pira su cui bruciavano i loro corpi si divisero in due, come se continuassero ad odiarsi anche dopo la morte).

Virgilio gli rivela che lì sono puniti Ulisse e Diomede, insieme nella vendetta divina così come, peccando insieme, incorsero nell'ira di Dio in vita, ed elenca i tre peccati per cui i due han ben da gemere nella fiamma, vale a dire:

L'inganno del Cavallo di Troia, che provocando la caduta della città fece sì che da Troia uscisse poi Enea, nobile progenitore ("gentil seme") dei Romani.

La scoperta di Achille, fatto travestire da donna dalla madre Teti e mandato alla corte di Licomede affinché non partecipasse alla Guerra di Troia. Ulisse e Diomede, travestiti da mercanti, usarono l'astuzia di mostrargli spade in mezzo a sete e drappi, scoprendolo tra le altre donne e costringendolo a partire per la guerra, abbandonando la sua amante Deidamia che morì di dolore, e ancor morta si duole dell'amante infedele.

Il furto del Palladio che proteggeva Troia.Dante si mostra estremamente desideroso di parlare con i due, probabilmente perché in tutto il

Medioevo c'era gran mistero su quale fosse stata la fine di Ulisse (Dante non conosceva l'Odissea perché non sapeva leggere il greco, anche se ne aveva letti alcuni sunti mutuati da autori latini) ed arriva a pregare Virgilio ben cinque volte in due terzine:« "S'ei posson dentro da quelle faville

parlar", diss'io, "maestro, assai ten priego e ripriego, che 'l priego vaglia mille,

che non mi facci de l'attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver' lei mi piego!". »(vv. 64-69) Virgilio gli promette di rivolgere loro delle domande purché egli taccia: parlerà lui perché essi sono greci e forse schivi "del tuo detto" (delle parole di Dante). Sul perché sia necessario che parli Virgilio si sono fatte diverse ipotesi: la più semplice è che i due parlano greco e Dante non conosce questa lingua, a differenza di Virgilio, ma questa ragione non sussiste perché se avessero parlato in greco Dante non avrebbe capito e non potrebbe riferire il contenuto del discorso, inoltre nel prossimo canto Guido da Montefeltro dirà di aver udito parlare Virgilio in dialetto lombardo; l'altra ipotesi è che siccome era comune opinione medievale che i greci fossero un popolo superbo, essi si sarebbero rifiutati di parlare con una persona che non avesse ancora eccellenti meriti, infatti l'invocazione successiva di Virgilio verterà proprio sulle sue opere, motivo di vanto, espresse nel più alto linguaggio possibile. In questo episodio comunque Dante riproduce la sua situazione rispetto ai greci e alla loro letteratura in particolare: non essendo la loro lingua conosciuta in Italia (con pochissime eccezioni forse in Calabria) essi "parlavano" solo tramite gli autori latini che avevano tradotto o sintetizzato o citato le loro opere.

Virgilio quindi aspetta che la duplice fiamma arrivi vicino al ponte e gli si rivolge con solennità e altisonanza, ponendo la questione principale, che ha letto nel pensiero di Dante, di sapere la fine di Ulisse, un mistero sul quale gli autori antichi tacevano:« "O voi che siete due dentro ad un foco,

s'io meritai di voi mentre ch'io vissi, s'io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l'un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi". »

(vv. 79-84) Da notare l'aulica anafora della prima terzina e la captatio benevolentiae.Dante infatti non conosceva l'Odissea e ne trascurava anche i sunti medievali, sebbene piuttosto

diffusi alla sua epoca. Della fine di Ulisse, sulla quale tacciono Virgilio, Orazio, Seneca e Cicerone, si erano fatte numerose congetture dai tempi Servio, più vive che mai nel Medioevo, alle quali Dante aggiunse una sua versione basata su vari indizi, ma tutto sommato piuttosto originale.Racconto dell'ultimo viaggio di Ulisse - vv. 85-142[modifica | modifica sorgente]

SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/5/5a/Inf._26%2c_Anonimo_fiorentino%2c_Il_naufragio_della_nave_di_Ulisse%2c_1390-1400_ca..jpg-REPLACE_ME La maggiore delle due fiamme inizia allora a muoversi come mossa dal vento e dal movimento della cima della lingua di fuoco iniziano a uscire le parole.

Ulisse non si presenta e inizia subito a parlare degli ultimi anni della sua vita, dall'addio alla maga Circe: in questo Dante riprende pari pari la lezione di Ovidio quando nelle Metamorfosi XIV 436 ss. Macareo, uno dei compagni di Ulisse, racconta a Enea come abbandonò il suo capitano che si rimetteva per l'ennesima volta in mare.

Dopo un anno a Gaeta (prima che Enea le desse quel nome) «né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né 'l debito amore / lo qual dovea Penelopé far lieta» poterono fermare Ulisse dalla sua sete di conoscenza, dall'ardore di conoscere i vizi umani e le virtù. Partì così per mare aperto invece di tornare a casa, con una barca e quella «compagnia picciola» di sempre. Navigò lungo i lidi europei (fino alla Spagna) e africani (fino al Marocco) del Mediterraneo occidentale, comprese le isole quali la Sardegna e le altre. Lui e i suoi compagni erano già anziani quando arrivarono a quella «foce stretta» dove Ercole segnò il confine da non superare, lo Stretto di Gibilterra. Ulisse passò Siviglia a destra e Ceuta a sinistra arrivando davanti allo stretto; per convincere i suoi all'impresa mai arrischiata pronunciò la famosa «orazion picciola»:« "O frati," dissi, "che per cento milia

perigli siete giunti a l'occidente, a questa tanto picciola vigilia

d'i nostri sensi ch'è del rimanente non vogliate negar l'esperïenza, di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". »(vv. 112-120) "Fratelli miei, che attraverso centomila pericoli siete arrivati a questa "piccola" ultima soglia (le famose colonne d'Ercole) presso l'Occidente; non negate ai nostri sensi quello che rimane da vedere, dietro al sole (dietro all'orizzonte), nel mondo disabitato; considerate la vostra origine: non siete nati per vivere come bruti (come animali), ma per praticare la virtù e apprendere la conoscenza."

Le celebri terzine sono un vertice di retorica: si apre con una captatio benevolentiae (il vocativo, il ricordo delle esperienze in comune) e cresce di intensità gradualmente, prima usando il "voi", poi "noi" (infatti prima di questa orazione Ulisse usava il pronome "io" e in seguito userà solo il "noi"), incitando all'impresa fino a culminare in chiusura toccando uno dei sentimenti più profondi dell'animo umano quale l'orgoglio per la superiorità sugli altri esseri viventi.

I compagni allora divennero così desiderosi di partire che a malapena li avrebbe potuti trattenere oltre: girarono la poppa a est e fecero dei remi «ali» per il «folle volo», sempre avanzando a sinistra, verso sud-ovest. Dopo cinque mesi già le stelle erano cambiate in cielo (perché erano giunti nell'altro emisfero) oppure erano trascorsi cinque noviluni e altrettanti pleniluni, quando apparve una

montagna velata dalla lontananza («bruna») e altissima (il monte del Purgatorio). Essi si rallegrarono ma presto dovettero cedere al pianto perché da quella terra si mosse un turbine che percosse la barca alla prua; tre volte essi girarono intorno con tutta l'acqua vicina, alla quarta la poppa si alzò in alto, la prua in basso, come piacque a qualcuno (a Dio), e poi il mare fu sopra di essi richiuso (notare l'allusione al seppellimento, alla tomba), con un verbo che metaforicamentechiude anche il canto.

Dante ci fa capire tramite le parole di Ulisse l'importanza della conoscenza che non ha né età né limiti: infatti gli affetti più grandi non sono riusciti a vincere nell'animo di Ulisse il desiderio di conoscenza. La celebre terzina "Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" è la sintesi della personalità di Dante il quale considerava la conoscenza il presupposto base per la valutazione di una persona. L'ansia di ricerca spinta all'estremo limite, che nella tradizione antica costituiva la peculiarità positiva dell'eroe omerico, in Dante diventa il peccato che condanna l'eroe per il fatto di aver disdegnato i limiti imposti alla natura umana. Per l'Ulisse classico Dante prese spunto da Publio Virgilio Marone, da Ovidio (Metamorfosi, XIV, 241 sgg.), da Seneca, da Cicerone (Sul sommo bene e sul sommo male, V, XVIII, v. 49) e soprattutto da Orazio (Epistulae, I, 2, 17-26).

Due aspetti caratterizzano l'Ulisse dantesco. Il primo è l'astuzia che gli ha meritato la collocazione nella bolgia dei fraudolenti; l'altro è il coraggio messo al servizio della conoscenza: l'errore sta nel percorrere questa strada senza la guida divina, il che comporta una gioia di breve durata ("Noi ci allegrammo e tosto tornò in pianto", v. 136). L'Ulisse di Dante non è l'eroe omerico del ritorno alla patria e alla famiglia: il suo racconto comincia dal momento in cui vince le arti seduttrici della maga Circe fino al folle volo passate le colonne d'Ercole. Non ignora gli affetti famigliari, ma questi non lo sviano dal suo bisogno di conoscenza. In Dante Ulisse chiama i compagni "fratelli" e li incita ad interrogarsi sul senso della vita, a non privarsi nell'ultima parte dell'esistenza della possibilità di continuare a conoscere, mentre l'Ulisse di Omero si preoccupava dei compagni e aveva nei loro confronti un rapporto più protettivo: voleva preservarli dai pericoli e perciò spiegò loro come difendersi dal canto ammaliatore delle sirene. SPECIAL_IMAGE-//upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/3/33/Inf._26_Giovanni_di_Paolo_%28c.1403%e2%80%931483%29.jpg/300px-Inf._26_Giovanni_di_Paolo_%28c.1403%e2%80%931483%29.jpg-REPLACE_ME Dante, sebbene conoscesse Omero (nominato più volte nella Divina Commedia e da lui posto nel Limbo, come si legge nel canto IV), non poteva aver letto l'Odissea, in greco, ma era al corrente della storia di Ulisse da varie fonti latine (in primis le Metamorfosi di Ovidio e l'Odusia di Livio Andronico) e da vari romanzi medievali: in questa tradizione, e in autori come Cicerone, Seneca e Orazio, Ulisse era indicato quale esempio di uomo dominato dall'ardore della conoscenza. A partire da questi spunti e dalla narrazione di Ovidio, Dante inventa quasi completamente la storia dell'ultimo viaggio di Ulisse, motivato dall'amore per la conoscenza, amore che Dante condivideva e sicuramente non disapprovava, come si evince fin dalla prima frase del Convivio: «Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere». Da ciò deriva la grande partecipazione emotiva di Dante nei confronti del dannato, espressa più volte nel canto e specialmente ai vv. 19-20: «Allor mi dolsi, ed ora mi ridoglio / quando drizzo la mente a ciò ch'io vidi», commozione tuttavia temprata da un appello alla virtù: «e più lo ingegno affreno ch'io non soglio, / perché nol corra che virtù nol guidi». Un parallelismo a questo punto si può istituire tra Dante e Ulisse: entrambi viaggiano spinti dall'ardore di conoscenza, entrambi si sono perduti (v. 3 del canto I: «ché la diritta via era smarrita»; vv. 83-84 di questo canto: «ma l'un di voi dica / dove per lui perduto a morir gissi»). Ma se Dante ritrova la via e accede a una conoscenza superiore, guidato dalla volontà divina, Ulisse non conosce questa grazia e rimane confinato entro la sfera puramente terrena, sensibile, del sapere: v. 115, «de' nostri sensi», e soprattutto vv. 97-99, «l'ardore / ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto / e delli vizi umani e del valore»: non vi è in lui nessuna tensione etica, morale, che rivolga la conoscenza verso un fine giusto (anzi, essa rimane sempre fine a sé stessa), e il suo desiderio diventa

perciò negativo, tanto più che egli coinvolge in questo male i suoi compagni. Ed è così che egli supera le Colonne d'Ercole poste «a ciò che l'uom più oltre non si metta», infrange il divieto divino e viene da Dio sconfitto, «com'altrui piacque».

Notevole in questo canto è lo stile, che si innalza per raffigurare un personaggio magnanimo come quello di Ulisse (particolarmente ricca è l'apostrofe di Virgilio, ma anche tutta la narrazione successiva, che sfiora il tono epico nella narrazione del viaggio e si fa «orazione» nelle famosissime parole rivolte da Ulisse ai compagni). Da non trascurare anche i molti segnali che Dante dissemina nel suo testo, come la similitudine con il profeta Elia, che sale al cielo in un carro di fuoco (mentre Ulisse sprofonda), all'espressione biblica del v. 136 «tosto tornò in pianto» (più l'allitterazione), ai molti riferimenti negativi come la mano «mancina» (v. 126), la «luna» (v. 131), simboli negativi per la cultura classica.

Il critico Natalino Sapegno scrisse nel suo commento a questo canto dell'Inferno: "Il viaggio di Ulisse oltre le Colonne d'Ercole è un "folle volo", perché egli tenta, pur senza saperlo, un'impresa a compier la quale si richiedeva l'aiuto, a lui vietato, della Grazia [...]. Non è certo un caso che la commemorazione di questa sconfitta dell'umana ragione abbandonata alle sue sole forze sia collocata qui, a breve distanza, e quasi a guisa di esemplificazione, dall'affermazione della necessità di affrenare l'ingegno e contenerlo nei limiti di una norma religiosa (cfr. vv. 21-22)".[2]

Nella cultura filosofica di stampo aristotelico la mente umana è rappresentata come una nave. La poppa è la memoria, la prua è la fantasia, o immaginazione. Il Purgatorio si aprirà (I, 1-3) su questa immagine: "Per correr migliori acque alza le vele / ormai la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele ". Sulla soglia dell'ingresso del Paradiso (II, 1-3) si ritrova la medesima immagine.[3]. La studiosa Maria Corti vede nell'Ulisse dantesco un'allegoria dell'aristotelismo radicale. Ulisse è il prototipo dell'"eroe della conoscenza errante", che "viola spazi inaccessibili". Si tratterebbe di una figura degli intellettuali - alcuni conosciuti da Dante, come Guido Cavalcanti - che avevano aderito all'aristotelismo radicale, ritenendo che la conoscenza perfetta si potesse raggiungere con le sole forze della ragione, senza intervento della Grazia divina e durante la vita mortale, terrena.[4]

Il canto XXVI è stato citato in Se questo è un uomo, libro di Primo Levi sulle tematiche del genocidiotedesco a danno degli ebrei nonché di altre etnie considerate inferiori e impure.

Vittorio Sermonti, Inferno, Rizzoli 2001.Umberto Bosco e Giovanni Reggio, La Divina Commedia - Inferno, Le Monnier 1988.Andrea Gustarelli e Pietro Beltrami, L'Inferno, Carlo Signorelli Editore, Milano 1994.Francesco Spera (a cura di), La divina foresta. Studi danteschi, D'Auria, Napoli 2006.Manfredi Porena (commentata da), La Divina Commedia di Dante Alighieri - Inferno,

Zanichelli ristampa V 1968.Altri commenti della Divina Commedia sono quelli di: Anna Maria Chiavacci Leonardi

(Zanichelli, Bologna 1999), Emilio Pasquini e Antonio Quaglio (Garzanti, Milano 1982-20042), Natalino Sapegno (La Nuova Italia, Firenze 2002).Portale Letteratura: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di letteratura it.wikipedia.org

Poesia Itaca di Costantino Kavafis

poesieracconti.it Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile in avventure e in esperienze. I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere di incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, nè nell’irato Nettuno incapperai se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro. Devi augurarti che la strada sia lunga. Che i mattini d’estate siano tanti quando nei porti - finalmente e con che gioia - toccherai terra tu per la prima volta: negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambre tutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, va in molte città egizie impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca - raggiungerla sia il pensiero costante. Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio metta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per strada senza aspettarti ricchezze da Itaca. Itaca ti ha dato il bel viaggio, senza di lei mai ti saresti messo sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

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