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1 Lettera Orvietana Sommario Quadrimestrale d’informazione culturale dell’Istituto Storico Artistico Orvietano Anno VI N. 13-14 giugno 2005 L a restituzione di una delle più importanti espressioni dell’arte arnol- fiana, il monumento funebre del cardinal De Braye, recentemente restaurato e ricomposto nella chiesa orvietana di San Domenico, rappre- senta certamente un fatto di grande interesse per la vita culturale della città; ma segna anche un momento determinante del programma di celebrazioni dedicate, quest’anno, ad Arnolfo di Cambio, protagonista dello scenario artistico medioevale e precursore della rinascita umanistica del Trecento europeo. Lo studio condotto in occasione del complesso intervento di restauro e di rimontaggio, che ha interessato gli elementi plastici che compongono l’articolata struttura architettonica del sepolcro, offre molti dati decisivi per la comprensione dell’originario progetto arnolfiano - nei secoli alte- rato da parziali rimozioni, smembramenti e dispersioni -. E fornisce, inoltre, inediti strumenti interpretativi per una rilettura critica dell’opera e per illuminare di luce nuova alcuni aspetti particolari del complesso mondo culturale di Arnolfo di Cambio e, in generale, della variegata spi- ritualità medioevale. E’ quanto emerge, nelle pagine interne di questo numero, dal contributo di Raffaele Davanzo, architetto della Soprintendenza dell’Umbria e direttore dei lavori di restauro del monumento De Braye. Le confessioni di monsignor Scanavino 3 L’Ordine equestre del Santo Sepolcro 5 Alla riscoperta di Annibale Angelini 13 Aurelio Bruni tra iperrealismo e classicismo 15 Ficulle e le sue chiese 17 L’aeroporto militare di Orvieto 18 I Musei ecclesiastici italiani 19 La Mostra “Aristide Sartorio” a Palazzo Coelli 22 L a città sta attraversando un momento particolarmente favorevole per quel che riguarda il rinnovamento culturale. Si avvertono difatti un fermento ed una chiara volontà di ripresa, di dinamismo e di operosità espressa a tutti i livelli. Una condizione, dunque, potenzialmente positiva: potenzialmente… d’altronde anche i recenti cambiamenti ai vertici delle istituzioni locali, sia politico-amministrativi, che religiosi e culturali, destano com- prensibili aspettative, in particolare in quegli ambiti che attendono da tempo segnali stimo- lanti di innovazione finalizzati all’individuazione di spazi virtuosi d’impegno attivo. La comunità è in grado di offrire dall’interno risorse importanti, fondamentali per il proprio sviluppo, come elementi preziosi di un centro nuovo e vitale. La ripresa, il rinnovamento sono certamente possibili ed è auspicabile che rappresentino veramente l’obiettivo di chi può, e deve, decidere ed attivare tali risorse, altrimenti inutili, peggio umiliate, inabilitate, perdute. Possibili ed auspicabili, ancora, meno personalismo ed una maggiore e più visibile passione disinteressata per la propria appartenenza territoriale, nella luminosa scelta della condivisione. fmdc Per uno Studium Urbevetanum Nella chiesa di San Domenico ad Orvieto restaurato il monumento De Braye Hoc opus fecit Arnolfus Nuova lettura critica dopo il recente rimontaggio

IMP. lettera orvietana n - ISAO · nale del corridoio bizantino (tombe longobarde presso Migliano e vestigia bizantine a S. Venanzo), correvano importanti direttrici di collegamento

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Page 1: IMP. lettera orvietana n - ISAO · nale del corridoio bizantino (tombe longobarde presso Migliano e vestigia bizantine a S. Venanzo), correvano importanti direttrici di collegamento

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Lettera Orvietana

Sommario

Quadrimestrale d’informazione culturale

dell’Istituto Storico Artistico Orvietano

Anno VI N. 13-14 giugno 2005

La restituzione di una delle più importanti espressioni dell’arte arnol-fiana, il monumento funebre del cardinal De Braye, recentemente

restaurato e ricomposto nella chiesa orvietana di San Domenico, rappre-senta certamente un fatto di grande interesse per la vita culturale dellacittà; ma segna anche un momento determinante del programma dicelebrazioni dedicate, quest’anno, ad Arnolfo di Cambio, protagonistadello scenario artistico medioevale e precursore della rinascita umanisticadel Trecento europeo.Lo studio condotto in occasione del complesso intervento di restauro edi rimontaggio, che ha interessato gli elementi plastici che compongonol’articolata struttura architettonica del sepolcro, offre molti dati decisiviper la comprensione dell’originario progetto arnolfiano - nei secoli alte-rato da parziali rimozioni, smembramenti e dispersioni -. E fornisce,inoltre, inediti strumenti interpretativi per una rilettura critica dell’operae per illuminare di luce nuova alcuni aspetti particolari del complessomondo culturale di Arnolfo di Cambio e, in generale, della variegata spi-ritualità medioevale.E’ quanto emerge, nelle pagine interne di questo numero, dal contributodi Raffaele Davanzo, architetto della Soprintendenza dell’Umbria edirettore dei lavori di restauro del monumento De Braye.

Le confessioni di monsignor Scanavino 3

L’Ordine equestre del Santo Sepolcro 5

Alla riscoperta di Annibale Angelini 13

Aurelio Bruni tra iperrealismoe classicismo 15

Ficulle e le sue chiese 17

L’aeroporto militare di Orvieto 18

I Musei ecclesiastici italiani 19

La Mostra “Aristide Sartorio”a Palazzo Coelli 22

La città sta attraversando un momento particolarmente favorevole per quel che riguardail rinnovamento culturale. Si avvertono difatti un fermento ed una chiara volontà di

ripresa, di dinamismo e di operosità espressa a tutti i livelli. Una condizione, dunque,potenzialmente positiva: potenzialmente… d’altronde anche i recenti cambiamenti ai verticidelle istituzioni locali, sia politico-amministrativi, che religiosi e culturali, destano com-prensibili aspettative, in particolare in quegli ambiti che attendono da tempo segnali stimo-lanti di innovazione finalizzati all’individuazione di spazi virtuosi d’impegno attivo. Lacomunità è in grado di offrire dall’interno risorse importanti, fondamentali per il propriosviluppo, come elementi preziosi di un centro nuovo e vitale. La ripresa, il rinnovamentosono certamente possibili ed è auspicabile che rappresentino veramente l’obiettivo di chipuò, e deve, decidere ed attivare tali risorse, altrimenti inutili, peggio umiliate, inabilitate,perdute. Possibili ed auspicabili, ancora, meno personalismo ed una maggiore e più visibilepassione disinteressata per la propria appartenenza territoriale, nella luminosa scelta dellacondivisione.

fmdc

Per uno Studium Urbevetanum

Nella chiesa di San Domenico ad Orvietorestaurato il monumento De Braye

Hoc opus fecit ArnolfusNuova lettura critica dopo il recente rimontaggio

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Supplemento al BISAO L - LVII 1994/2001

Piazza Febei, 2 - 05018 Orvieto

Tel. e Fax 0763.391025

Direttore responsabile:

Francesco M. Della Ciana

Redazione:

Alessandra Cannistrà

Federica Sabatini

Sabrina Tomba

Samuela Valentini

Hanno collaborato:

Antonio Appella

Anna Maria Barbanera

Barbara Berardi

Alessandra Cannistrà

Raffaele Davanzo

Rosangela De Acutis

Francesco M. Della Ciana

Roberta Galli

Silvio Manglaviti

Franco Moretti

Claudia Pettinelli

Claudia Piccini

Manuela Pierini

Federica Sabatini

Ilaria Sgrigna

Samuela Valentini

Autorizzazione del Tribunale

di Orvieto N.13 del 24 agosto 1953

Fotocomposizione e stampa:

Tipografia Ceccarelli s.n.c.

Grotte di Castro (VT)

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Frosinone, Fersennone, Frassinone,Fressenone, Fersinone sono i nomi

che ricorrono su cabrei, catasti e anti-che mappe ad indicare un torrente chescorre alle pendici settentrionali delMonte Peglia per poi confluire, pressoMarsciano, nel Nestore, affluente didestra del Tevere. Questo, all’apparenza, insignificantetoponimo è stato l’oggetto di un ciclodi convegni svoltosi in quattro incon-tri finesettimanali dal 16 al 24 otto-bre, tra il castello di Migliano e SanVito in Monte.Si tratta di due luoghi, uno nelComune di Marsciano, in Provincia diPerugia, l’altro in quello di SanVenanzo, sotto Terni, separati appuntodal solco profondo di un torrente.Ma, come emergerà dalle relazioni deiconvenuti e come sottolineato daFrancesca Valentini, neosindaco di SanVenanzo, si tratta di un fiume cheunisce e non che divide.La serie di convegni a carattere inter-disciplinare, promossa dai Comuni diMarsciano e di San Venanzo e patroci-nata dalle Province di Perugia e Ternie dalle Comunità Montane “Montidel Trasimeno” e “Monte Peglia eSelva di Meana”, ha spaziato dalla sto-ria all’archeologia, dal turismo allerisorse naturali, dall’ecologia all’escur-sionismo.In particolare, per l’archeologia sonointervenuti il professor MaurizioMatteini Chiari e la dottoressaManuela Bernardi, dell’Universitàdegli Studi di Perugia, che hannoesposto il risultato dello scavo delcastello di Migliano, il dottor ClaudioBizzarri, che ha effettuato una panora-mica sulla realtà archeologica del terri-torio ed il professor Renato Covino,dell’Università degli Studi di Perugia,che ha fatto il punto sulle emergenzedi archeologia industriale presenti nel-l’area: carbonaie, calcinaie, molini.Per il restauro conservativo, gli archi-tetti Roberto Subicini e SpartacoCapannelli, quest’ultimo per laSoprintendenza Archeologicadell’Umbria, hanno illustrato rispetti-vamente i risultati del restauro dellemura del castello di Migliano ed avan-zato alcune ipotesi per la valorizzazio-ne e la protezione degli scavi effettuatinel sito.Sono dunque state illustrate alcunepubblicazioni e ricerche storiche relati-ve al territorio della valle delFersinone. La professoressa MariaGrazia Nico Ottaviani, dell’Universitàdegli Studi di Perugia, ha riportatoparte di un ampio studio relativoall’“Albero et historia della famiglia de’Conti di Marsciano”, seguito da unapprofondimento di Clara Mengannasulle famiglie signorili di Migliano.L’articolista ha fatto il punto sui risul-tati di uno studio relativo ad un’emer-genza storico-architettonica nei pressidi San Vito in Monte, a suo tempo,commissionato dalla ComunitàMontana “Monte Peglia e Selva diMeana”, “la Torraccia: un modello nel-l’analisi delle fonti archivistiche per lostudio del territorio di San Vito”; ilcapitano Silvio Manglaviti ha conclu-so i lavori della prima giornata focaliz-zando l’evoluzione storica dell’areaattraverso la lettura delle rappresenta-zioni cartografiche antiche del territo-rio del Fersinone.Il secondo giorno di convegno è stato

Natura e storia nella valle del Fersinone Il toponimo al centro di una serie di convegni interdisciplinari tra Marsciano e San Vito in Monte

dedicato al turismo ed in particolare aipossibili interventi ed alle possibilitàdi sviluppo della valle; problemi easpettative nel contesto della tutela edella valorizzazione del paesaggio,delle certificazioni di qualità ambien-tali, dell’economia turistica. La proble-matica è stata analizzata alla luce diuna più ampia visione legata alla valo-rizzazione del patrimonio umbro inseno ai progetti regionali (dottor LuigiRapace, amministratore unico dell’AptUmbria) ed alla scoperta del paesaggioattraverso itinerari culturali e prodottitipici. Per quanto concerne l’offertaturistica dell’area del Fersinone (adessoquasi esclusivamente di tipo agrituri-stico), alla descrizione del SistemaTuristico della media Valle del Tevere,che punta su concetti di valorizzazionee promozione integrata del territorio,ha fatto seguito il dottor CarloCarpinelli, membro del Comitato diconcertazione STL della Provincia diTerni, che ha illustrato “Le vocazionidell’orvietano nell’ambito del sistematuristico provinciale”. La valle delFersinone come “luogo” della memo-ria, un museo ambientale naturale èstato l’oggetto dell’intervento dei dot-tori Angelo Barili e Sergio Gentili, delC.A.M.S. (Centro di Ateneo per iMusei Scientifici) – Università degliStudi di Perugia.La terza giornata si è incentrata sugliaspetti più francamente naturalistici.Sono stati analizzati alcuni aspetti rela-tivi alle risorse idriche sulla base dellageologia, degli aspetti caratteristici edelle relative emergenze naturali dell’a-rea. In particolare è stato fatto il puntosulla qualità delle acque superficiali esotterranee del Fersinone, sulle poten-zialità ittiche e sull’origine delle acquemineralizzate della valle con riferimen-to anche alle eventuali caratteristicheterapeutiche ed alimentari. Sempre intema di risorse idriche sono stateaffrontate tematiche relative allo sfrut-tamento energetico della risorsa acquanel rispetto dell’ambiente, agli aspettigeoturistici del territorio, tenuto contodegli elementi geomorfologici e paleo-geografici.Dopo i tre incontri tenuti al castello diMigliano, presso San Vito in Monteha avuto luogo l’ultimo dei quattroconvegni interdisciplinari incentratosulla pratica sportiva e l’attività escur-sionistica. Sono state evidenziate lepossibilità escursionistiche della valledel Fersinone quale strumento per laconoscenza del territorio attraverso isentieri e le vocazioni più tradizionalidi gestione territoriale a fini faunistici,legate alle pratiche ittico-venatorie.D’interesse l’intervento sul “ruzzolo-ne”, attività sportiva tipica ed un

tempo assai di moda nell’Orvietano enei comprensori contermini. La storia delle terre solcate dal torrenteFersinone – in particolare, di quelletra Migliano e San Vito, oggetto delconvegno di studi – è la storia anchedi Orvieto e del suo Contado. Sussistono infatti intime correlazionitra l’evoluzione dei dominî territorialiorvietani Duecento-Trecenteschi equest’angolo di mondo così apparen-temente amèno e lontano dalla Rupe.Dai Franchi agli Arlotti-Albonetti, daiBulgarelli ai conti di Marsciano, daiDegli Atti ai Misciattelli, dai Monaldiai Corneli, la valle del Fersinone hasempre rappresentato un settore divitale importanza per le grandi fami-glie delle due principali “potenze”locali dell’epoca, Perugia ed Orvieto.Ma tant’è, fatto salvo il versante mar-scianese, più studiato e ricco di infor-mazioni, le notizie ricavabili dallefonti archivistiche e storico-geografico-letterarie sono estremamente difficol-tose da reperire a causa del considere-vole frazionamento (con relative dislo-cazioni cronologiche) dovuto in massi-ma parte ai numerosi cambiamenti diproprietà avvenuti sui possedimentiinsistenti nell’area.Si diceva a proposito di un settore divitale importanza. Infatti proprio sul-l’allineamento San Vito inMonte–Migliano, due tra i centri sto-ricamente più rilevanti del settore(come testimoniano anche i recentirinvenimenti di matrice etrusca pocolontano da S. Vito) e limes settentrio-nale del corridoio bizantino (tombelongobarde presso Migliano e vestigiabizantine a S. Venanzo), correvanoimportanti direttrici di collegamentotra le “capitali”, Orvieto e Perugia, e,allo stesso tempo, di interconnessionetra gli assi Cassia–Traiana–Amerina–Flaminia, prima e francigeno-romeo,poi, che seguivano crinali e vallate, perponti, guadi e “barche”, tra Orcia oChiani–Paglia e alto–medio Tevere.Niente male davvero.Per di più, fin da tempi remoti, lerisorse idriche – dal punto di vistaenergetico, per i numerosi molini (le“rote”) e da quello alimentare per l’ab-bondanza ittica – e quelle silvo-coltu-rali e pastorali ne han fatto territorioambito proprio per le caratteristiche diautosufficienza di cui poteva disporre.Infatti, in zona, non a caso è tutto unfiorire di castelli e torri, pievi e con-venti, tutti doviziosamente organizzatinei rispettivi annessi dedicati allosfruttamento delle risorse locali appe-na accennate.Al nostro tempo, certo, quei loca perla gran parte diruti son ridotti a ruine,ammassi di pietre o poco più. Alcuniaddirittura enigmaticamente paionscomparsi nel nulla, come il bel borgodi Casaglia, rappresentato da EgnatioDanti (perugino, padre domenicano,docente allo Studium di Bologna ecosmografo del duca Cosimo I, aFirenze, e di papa Gregorio XIII, aRoma) nella Galleria delle CarteGeografiche, (Musei Vaticani) ed indiverse mappe dei territori orvietano edi Perugia.Restano, purtuttavia, emergenzedegne di esser visitate, così come –analizzando ad esempio la cartografiastorica dal Quattrocento al secoloscorso – esse stesse hanno avuto digni-tà di rappresentazione corografica etopografica, oltreché – ovviamente – alivelli di cabreo e mappature catastali;il castello di Migliano, restaurato direcente e con scavi in corso; il castellodi San Vito, di cui restano solo partidi mura turrite; la Torraccia; i presso-ché integri castelli di Montegiove eGreppolischieto, solo per citarne alcuni.La ricerca archivistica, in particolare,ha messo in luce il fitto intreccio di

relazioni intercorrenti tra i diversi pro-prietari sia a livello orizzontale o tra-sversale, quindi nella contemporanei-tà, sia a livello verticale o cronologico,ovvero durante il corso dei secoli.Su tutto, in ogni caso, emerge qualeelemento dominante il fatto che, sianoessi il vescovo di Orvieto o quelloperugino o l’Ospedale di S. Mariadella Stella piuttosto che i conti diMarsciano, questa parte di mondo èsoggetta ad un continuum di cambi emutazioni, che si palesano material-mente (lo mostrano chiaramente lecarte antiche, ma anche gli stessidocumenti) nell’oscillazione del confi-ne tra il Contado di Perugia ed ilContado di Orvieto proprio a cavallodel torrente Fersinone e proprio traMigliano e San Vito.Durante la prima giornata di conve-gno, pur nella diversità degli oggettid’indagine e dei contenuti esposti,questo carattere è apparso in tutta lasua chiarezza.In particolare, si è potuto constatarecome le tesi di R. Galli si sovrappo-nessero linearmente, quasi combacian-do, con quanto illustrato dalla profes-sor Nico Ottaviani soprattutto inmerito alla necessità dei proprietari ditenere possedimenti accatastati (quindisoggetti a verifiche e tassazioni) oranell’uno ora nell’altro Contado, dovu-ta alla possibilità così acquisita diprender parte alla vita ed alle cosepolitiche sia di Perugia, sia di Orvieto.Anche per questo, la storia di questoparticolare luogo “non luogo”, borderline, diviene dunque storia di comuni-cazione, di interazione, di commistio-ne; storia di unione, perciò, non didivisione (sociale e politica) o di sepa-razione geomorfologia (il fiume e leirte pendici di fitta boscaglia impene-trabile): raccolgo così quanto asseritodal sindaco di San Venanzo e eviden-ziato dalla relazione di Silvio Manglaviti.Per quanto riguarda l’ambito di ricercadi R. Galli, concernente le analisi dellefonti d’archivio, lo studio relativo a “laTorraccia”, nato a suo tempo da unacommissione della ComunitàMontana “Monte Peglia e Selva diMeana” e proseguito per “passione”(motivata peraltro dalla curiosità disapere, visto il groviglio di informazio-ni che nel frattempo si era potutoreperire), si presta molto bene amodello facilmente esportabile versoqualsiasi emergenza storico-culturale-architettonica si avesse intenzione dianalizzare; si pensa ai numerosi antichicasali, ai molini, alle pievi e quant’al-tro esistenti o meno nello specificosettore geografico.Infine, si può concludere con il com-mento di monsignor MarcelloPettinelli, presente ai lavori dellaprima giornata con il dottor LucioRiccetti, su questo, come lo ha defini-to «Convegno di studi in cima a uncolle per la scoperta di un castello e diuna valle […]». Scrive monsignor Pettinelli: «Dallamedia valle del Tevere si staccano lecolline e vanno all’arrembagio delmassiccio del Peglia, ora gradatamentecon larghi spazi di respiro, ora adden-sandosi in fretta, una groppa sull’altra,lasciando sul fondo strette gole comeferite, dove s’insinua sempre un ruscel-lo o un fosso che assicura acqua pertutte le stagioni. Quando la salita siplaca ci sono olivi, quando invece èimpervia, i boschi coprono tuttoimpietosamente. E come ti affacci dal-l’alto, vertigine e verde ubriacano. Incima c’è sempre uno spiazzo con iruderi d’un castello e magari una torreo due a fare ancora guardia. E’ sempreUmbria, ma dall’aspetto insolito.All’estremo ovest del territorio diMarsciano, laddove passava l’anticastrada orvietana, ce ne sono addirittu-

ra tre, che si danno voce a vicenda inperfetto allineamento, quasi avampostiisolati d’una avanzata verso una terradi forte richiamo. Da secoli si guarda-no e si intendono e perpetuano quellastoria di famiglie potenti, che vi covadentro. Il più vicino al confine è ilcastello di Migliano. Ebbene in questigiorni di metà ottobre, in una austerasala del vecchio maniero, ha presostanza un singolare convegno di stu-dio, […] che tratta un po’ di tutto, diquesto singolare luogo, della storia earcheologia, del turismo locale, dellerisorse idriche del Fersinone, - pareche anche il famoso arcivescovo diPerugia e poi papa Leone XIII,Gioacchino Pecci, ne abbia tratto gio-vamento […]».Come ha tenuto a sottolineare nelsaluto finale il sindaco di Marsciano,la serie di convegni è servita per fareun punto di situazione, start line di unauspicabile work in progress. Perchéstudi e ricerche non restino letteramorta e perché i progetti e le speranzenon rimangano parole nel vento,occorre che tutti i soggetti interessatipossano seriamente intraprendere unostudio approfondito per valorizzare epoter fruire al meglio quella stupendarisorsa, messaci a disposizione gratui-tamente dalla Natura e dalla Storia,che è la valle del Fersinone.

Roberta Galli

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Orvieto richiedono un nuovo dialogotra tutte le forze politiche, religiose eculturali, in ossequio alla storia delpassato e a testimonianza di unmondo giovanile che deve riprendersiil timone della nave, perché nondiventi museo.Quanto è importante la presenza deigiovani per la costruzione del futuro cul-turale cittadino?Nella riunione annuale degliArtigiani, lo scorso anno ho notatocon piacere che venivano premiatialcuni giovani che si erano inseriti conprofitto nelle attività tradizionali dellediverse categorie di artigianato. Hopensato che quella doveva essere lastrada da percorrere in tutte le attivitàsignificative della città. Non possiamopiù permetterci che i giovani fugganosemplicemente per ragioni di abitazio-ne e di lavoro. Dobbiamo favorire ilmassimo dell’interesse dei giovani perla cultura e lo sviluppo della Rupe;non dobbiamo costringerli a emigrare,ma a trovare casa qui dove ci si possaanche trovare a discutere insieme suiproblemi del loro e nostro futuro.Come valuta il ruolo delle comunicazio-ni sociali in ambito religioso?Diversi documenti recenti, sia ponti-fici che della conferenza episcopaleitaliana, hanno ribadito la necessitàdell’inserimento della Chiesa nelmondo dei mass-media per restare alpasso con i tempi nell’opera urgentedell’evangelizzazione. Ignoranza, diffi-denza, incomprensione e tanti equi-voci non permettono alla fede cristia-na di essere conosciuta come il fer-mento della vita e del suo sviluppo.Vanno perciò usati tutti i mezzi perfar conoscere la verità della fede e ilsuo preciso intento e specifico appor-to nella costruzione e nello sviluppodi una città.

F.M. Della Ciana

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

I n un periodo in cui occorre sempredi più compiere tutti gli sforzi pos-

sibili per difendere e valorizzare l’im-menso patrimonio storico-artisticoitaliano, abbiamo chiesto a monsignorGiancarlo Santi, già direttoredell’Ufficio nazionale della CEI per iBeni Culturali Ecclesiastici, alcuneriflessioni sulle direttive che la Chiesaintende promuovere in un settorevitale per la crescita civile della societàmoderna.L’Italia è il Paese in cui si trova un’al-ta concentrazione di beni culturali,ma anche quello che meno investe inquesto settore con conseguenti, gravidanni al patrimonio. Come trovare lerisorse necessarie?In realtà le risorse esistono, anche senon in quantità sufficiente per affron-tare tutti i problemi connessi alla tute-la ed alla valorizzazione. Di conse-guenza occorre stabilire delle priorità,in accordo con tutti i soggetti chehanno responsabilità in materia. Laparola chiave è “collaborazione”,prima ancora della ricerca pazientedelle risorse per la stesura di pianifinanziari compositi. Il complesso deibeni culturali può essere visto comeun organismo vivente particolarmentedelicato, su cui intervenire con com-

petenze specifiche, senza lasciarsiprendere dall’ansia di fare tutto e subi-to: di certo la conservazione non puòprescindere dalla conoscenza, pertantol’inventario è, o dovrebbe essere, lapriorità. Nelle 226 Diocesi italiane laschedatura di tutti i beni culturaliecclesiastici dovrebbe terminare il 31dicembre 2005, ma ancora in metà diesse si registra un grave ritardo. Inrealtà, come contrariamente si pensa,il vero problema non risiede nelledimensioni, seppur ingenti, del patri-monio, o nella carenza di personale edi risorse, ma nelle motivazioni. Semancano queste, non si è disposti adinvestire nella tutela, con la conse-guente, inevitabile perdita del patri-monio nel giro di pochi decenni, aseguito del deperimento della materiae dei numerosi furti che alimentano ilsempre più fiorente mercato antiqua-rio.Il fenomeno del turismo di massa,espressione della civiltà del tempo libe-ro, è caratterizzato dalla ricerca dinuove conoscenze e dal desiderio del-l’accrescimento culturale. Quali sonole prospettive a medio e lungo raggio?È evidente che il turismo di massacontinuerà a crescere, raggiungendoanche i luoghi più remoti del Paese,

Il valore dell’arte nella fede: una rinascita possibilenella continua ricerca dell’insolito edell’originale. Di fronte a questo feno-meno massiccio e recente, la Chiesaha dei tempi di adattamento che sonoinevitabilmente più lunghi. Di conse-guenza, per evitare che il ritardo cre-sca, occorre che i vari enti si coalizzi-no, per lavorare insieme, gradualmen-te. Bisogna rendersi conto che nessu-no sarà mai sufficiente nel proprio set-tore. Pertanto, per evitare la dispersio-ne di energie, sarebbe utile uno spiritodi comunione, al di là degli inutilicampanilismi. In particolare il territo-rio di Orvieto, così ricco di storia e dibeni culturali, potrebbe diventareun’oasi privilegiata dove sperimentarequesto nuovo modo di operare.Il Consiglio episcopale permanentedella CEI, nel 1995, ha istituitol’Ufficio nazionale per i beni culturaliecclesiastici, con il compito di appro-fondire i problemi connessi alla lorovalorizzazione e conservazione. Comeprocede la riflessione teologica sui beniculturali, tesa a sviluppare il sensodella loro funzione, sia per la migliorefruizione, sia per la percezione dell’ef-ficacia di cui tali beni sono pregnanti?Nell’ultimo decennio sono statinumerosi i segni di un risveglio diinteresse per tali tematiche sia nei sin-

goli, sia nelle istituzioni. Di conse-guenza si può maturare un ottimismoverso un futuro che promette di esserepiù ricco rispetto al passato. Nel frat-tempo si stanno moltiplicando le ini-ziative formative sia in ambito accade-mico, che in settori più specifici,come biblioteche o archivi. In partico-lare, la Facoltà teologica di Firenzeemerge per un impegno costante equalificato, che può far da traino peraltre realtà italiane, compreso il terri-torio umbro, così ricco di fede e diarte.I beni culturali ecclesiastici sono staticreati e hanno vissuto strettamenteconnessi alla liturgia. La loro pienavalorizzazione è pertanto costituitadall’uso che se ne fa, per quanto possi-bile continuo, per il culto. Nati spessocome strumenti di catechesi, è oppor-tuno che siano utilizzati per iniziativedi tipo formativo? È evidente che la liturgia costituisce illuogo genetico del patrimonio dellaChiesa, di fatto tuttavia occorre impe-gnarsi ancora molto nello studio, nellaricerca e nella formazione. Il rischio èquello di continuare a dare moltaimportanza ai testi scritti e poco spa-zio invece ai simboli delle celebrazionie meno ancora al contesto, inteso

come ambiente architettonico.Occorre evitare interventi meramenteempirici o soltanto dilettantistici,riconducendo invece ogni interventoad un progetto unitario. Purtroppospesso manca la sufficiente convinzio-ne che occorrano competenze alte.Come coniugare fede ed arte, vocazio-ne catechetica e fruizione culturale,all’interno di moderne ed efficaci tec-niche di gestione dell’accessibilità deibeni culturali, in linea con la moder-na legislazione, senza tradire l’origina-le identità religiosa degli stessi luoghi?In generale è auspicabile una ripresaapprofondita delle tematiche filosofi-che e teologiche, prendendo sul seriola realtà dell’arte nell’ambito dellafede. Senza una riflessione forte suitemi centrali basilari, qualsiasi azione,tradotta in campo pratico, rischia dimancare di efficacia e chiarezza opera-tiva. A breve uscirà un catechismo peradulti, promosso dalla Diocesi diFirenze, tutto incentrato sul valoredell’arte all’interno della fede. Ci siaugura che questo sia uno dei segni diuna rinascita che coinvolga tutto ilpopolo cristiano a cui appartiene ilpatrimonio della Chiesa.

Federica Sabatini

Ad un anno dal suo insediamentonella sede episcopale di Orvieto-

Todi, abbiamo avvicinato monsignorGiovanni Scanavino, che ha espresso,con la cordialità e l’acutezza di analisiche lo contraddistinguono, le sueimpressioni riguardo alle problemati-che socio-culturali della città e del ter-ritorio. Le considerazioni del Vescovorisultano particolarmente profonde edefficaci, tanto più perchè affrontanotematiche e questioni che da sempregravano sulla realtà orvietana: forte ilmonito e, al tempo stesso, l’incorag-giamento a riconoscerle e ad affron-tarle con rinnovata determinazione. Come Pastore della Diocesi di Orvieto-Todi ormai da diversi mesi, quali sonole sue riflessioni riguardo alla città?La bella addormentata. Che si svegliapiuttosto per litigare, perdendo lemisure della sua storia attuale. Anchein antico litigavano le varie famiglie,ma poi nasceva il Duomo. Si rischiadi muovere l’aria senza costruire. Nonsi può vivere di solo passato, chiaman-dolo tradizione, se al glorioso patri-monio di storia e di arte non aggiun-giamo la nostra creatività, il nostrospirito critico, arricchito appuntodalle tante opere del passato. Ho l’im-pressione che Orvieto abbia perso unpo’ della sua vitalità. Sicuramente alivello di cristiani, che poi si riflette alivello di cittadini. I giovani, che quasinon ci sono, vengono solo per la pas-seggiata domenicale vespertina. Gliadulti litigano volentieri e commenta-no a capannelli per le vie del centro.Gli anziani vivono del passato e nonhanno più la forza di costruire ilnuovo. Occorre una nuova ispirazionee un bel colpo di timone, perché que-sta piccola nave torni a veleggiare sullerotte della vera cultura e di un nuovoumanesimo. Mi verrebbe da dire conil grido dell’Apostolo Paolo: “Svegliatio tu che dormi, destati dai morti e

Cristo ti illuminerà!” (Cfr. Ef 5,14).E le sue impressioni sulla vita culturaledella Rupe?Ci sono cose preziose sotto la cenere,ma quasi tutte con un forte interesse alpassato storico e artistico. Non si puòcerto costruire il presente senza tenerconto delle proprie radici. E’ lodevolis-simo l’intento di tener vivo il passato, ilmondo etrusco e medievale. Ma occor-re anche una traduzione, una attualiz-zazione, perché il meglio del passato –le virtù, la creatività – sia messo al ser-vizio della novità del presente. Mancaun dibattito attuale, e soprattutto man-cano i giovani, che vivono lontanodalla Rupe e non mi sembrano stimo-lati a costruire la nuova vita culturaledell’Orvieto attuale.Per una città come Orvieto è di partico-lare rilievo il rapporto che intercorre trafede e cultura, in particolar modo perquanto riguarda realizzazioni di variogenere che tendono allo sviluppo e almiglioramento di una comunità. Comevede la questione?Che la fede abbia ispirato lo sviluppodi Orvieto nel passato è evidente,anche se poi non sempre questa fedeha ispirato lo sviluppo pacifico dellacittà. Nel nostro tempo il rapporto trafede e cultura è molto più debole,perché le due componenti si sononotevolmente allontanate. Sarebbeinteressante un riavvicinamento e unnuovo dialogo, perché la fede si ènotevolmente purificata, anche seindebolita, ed è molto più consapevo-le delle sue possibilità di fermentare lastessa cultura per la costruzione di unnuovo umanesimo. Bisognerebbe chei cristiani diventassero più coraggiosinel proporre il carattere sociale dellapropria fede e che gli uomini di cultu-ra si aprissero con lo stesso coraggio almondo della fede per un nuovo dialo-go costruttivo. Lo sviluppo e ilmiglioramento della comunità di

A colloquio con il Vescovo

La forza di costruire il nuovoDall’incontro con monsignor Scanavino un richiamo per il rinnovamento culturale della città

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

IL SANTUARIO DELLAMADONNA DI MONGIOVINOLasciato alle spalle l’Orvietano e proce-dendo verso nord, sulle pendici tra-montane del Montarale, boscose dicerri e roverelle, si supera Piegaro perinnestarsi, in fondo alla vallata, alla sta-tale 220 che da Città della Pieve con-duce a Perugia, seguendo il corso delNestore. All’altezza di Tavernelle sipiega a manca, sul fianco della valle cheguarda a mezzogiorno, per inerpicarsialla volta del Santuario. Questi, distantepochi chilometri da Panicale e dalTrasimeno, insieme alla Madonna deiGrondici – dirimpetto, di là della valla-ta –, par che vegli sulla centrale elettri-ca, le cui altissime ciminiere incombo-no, inquietano l’occhio e invadono l’a-meno paesaggio circostante. Di qua,invece, una bella villa di campagna, lescuderie, il villaggio ed ecco tra unpozzo ed un ristoro apparire le formerinascimentali ricavate dalla pietra sere-na, la cupola, il campanile a cipolla, in- imprevedibile - stile alpino (?).Tradizione vuole che la costruzionedel Santuario si fosse imposta perricordare un miracolo accaduto inquel luogo, dove sembra fosse un’edi-cola mariana, tra la fine delQuattrocento e l’inizio del secolo suc-cessivo.Una leggenda racconta di una pasto-rella, Andreana, che davanti all’edicolaebbe in visione la Vergine, la quale leraccomandò di ripulire l’intorno dairoveti e di farne luogo di venerazione.A riprova di quanto le fosse accadutoe per vincere l’incredulità dei residen-ti, Andreana riempì una brocca d’ac-qua e la traportò rovesciata senza per-derne una sola goccia. Altri prodigi siverificarono in seguito, ma tantobastò per elevare Mongiovino a fre-quente meta di pellegrinaggi.Leone X, nel 1513, con l’editto juspatronatum concesse ai castellani delluogo di amministrarsi rendite ed ele-mosine; l’anno successivo sorgeva laprima cappella con l’immagine dellaMadonna, embrione dell’odiernastruttura.La fama del Santuario fu grande per ilparticolare momento storico pienaRiforma luterana che bandisce imma-gini sacre e reliquie e per il fatto diinsistere sull’asse delle principali diret-trici tra Roma e l’Europa (viaFrancigena); Mongiovino conobbe unrapido e notevole sviluppo.Non a caso vi lavorarono importantiartisti dell’epoca.Si tratta di una chiesa a pianta centra-le, a croce greca con quattro cappelli-ne angolari, al tempo stesso compattaed armonica, coronata da una grandecupola, qui di forma allungata, svet-tante su di un tamburo ottagonale1. Ilmassimo esempio del genere lo siritrova in S. Maria della Consolazionea Todi.In effetti, anche qui come nel tempiotuderte, si parla di Bramante2 comeprogettista. Di vero c’è che i docu-menti citano Rocco di Tommaso daVicenza (allievo di Bramante), archi-

tetto attivo in Umbria nel periodo,che, tra il 1524 ed il ’28, costruì lachiesa ed innalzò la cupola.Lo strano campanile a cipolla (stranoda un punto di vista della localizzazio-ne geografica), tipico delle chiese alpi-ne, è opera del 1775 di FrancescoTiroli, comasco, architetto e topografoeccellente che, tra l’altro, aveva realiz-zato anche un importante catasto (trai primi geometrico-particellari) deidominî orvietani nel Patrimonio.La facciata, lineare e semplice, dallearenacee nuances ocra, sfoggia delicatelesene ed un piccolo rosone. Spiccano,quale elemento decorativo d’interesse,due portali di fine fattura su facciateopposte (accorta soluzione per il flus-so dei pellegrini), opera di Rocco daVicenza, Bernardino da Siena eLorenzo da Carrara. Quello meridio-nale, il principale (l’entrata), è più finee curato nei particolari; lievementestrombato, architravato, sormontatoda una lunetta contenente un affrescoa malapena leggibile della SacraFamiglia, è incluso in un’edicola sor-retta da colonne e lesene con motivo aracemi vegetali e mascheroni. All’interno la cupola, su quattro pila-stri angolari, subito ci proietta incielo.Un inatteso ciclo di affreschi ci avvol-ge.L’opera decorativa iniziò nel 1552 eterminò poco prima del 1590; lacupola fu dipinta nel 1709.Giovanni Wraghe, Nicolò Circignanidetto il Pomarancio, Giovan BattistaLombardelli, Hendrick Van deBroeck, Antonio Castelletti materializ-zarono su pale e pareti il messaggiovisivo della Controriforma, il disegnopost-conciliare della nuova Chiesariformata di Roma. Da notare, inoltre, che in questoluogo il Pomarancio ha dipinto un’al-tra tomba vuota (colma di fiori), quel-la della Vergine a sugello dell’impo-nente Risurrezione che vince la morteed esalta il Santo Sepolcro vuoto delCristo Gesù.

L’ORDINE EQUESTRE DELSANTO SEPOLCRO DIGERUSALEMMEChi non ha potuto notare durante lecelebrazioni e nella processione delCorpus Domini ad Orvieto quegliuomini in mantello bianco con sulpetto una Croce dalla foggia incon-sueta?In effetti ci si sente osservati, nonfosse altro qual oggetto di curiosità edi alquanto improbabili attribuzioni:“… guarda, i cavalieri di Malta …”,“… guarda i Templari …”.In realtà non si è troppo lontani dalvero.Intorno al Mille il fenomeno caratte-rizzante è quello del feudalesimo e l’e-picentro di questo la Francia. Permantenere indivisi i possessi, vigeva ilcosidetto maggiorascato, per il qualela proprietà passava per intero alla pri-mogenitura lasciando a mani vuote icadetti che, quando non si acconten-tavano di vivacchiare sotto la potestàdel fratello maggiore, potevano optareper la carriera ecclesiastica o per l’av-ventura; accettando una quota dell’e-redità, potevano acquistarsi armatura

Mongiovino: il Santuario dei Cavalieri del Santo Sepolcro

e cavallo per cercare altrove fortuna egloria, magari ponendosi al servizio diqualche altro feudatario.Paggio, scudiero erano tutti gradini dasalire con fatica per arrivare ad essereinvestiti cavalieri: la strada era quelladel servizio e dell’umiltà, consapevolie finalizzati. Ma una volta cavalieri si

entrava nel livello dell’eguaglianza fra-terna che accomunava un re ad unsuddito qualsiasi: tutti i cavalieri sonouguali pur nelle loro differenti condi-zioni e provenienze sociali.Questi antichi cavalieri, purtuttavia,eran poco più che avventurieri, rozzi,scaltri ed avidi. La Chiesa, compren-dendo quale incredibile potenzialitàpotessero invece rappresentare, diedeloro motivazioni e spessore etico emorale, sfruttandone certamente aproprio vantaggio le indubbie qualitàdi forti e determinati combattenti.Nacquero così le regole dellaCavalleria e la categoria entrò inevita-bilmente nella leggenda. Regole rigideed inaggirabili; le regole dei monaci,degli anacoreti. Durante le Crociate laloro fama raggiunse l’apice ed ancoraoggi si associano a quel turpe e san-guinoso periodo che ha finito perobnubilare indubbie qualità sotto unmanto di feroci atrocità, commessenel nome dello stesso Dio da ambo leparti.Agli albori del Millennio, dunque, laCristianità si mobilitò per difendere leterre in cui Gesù visse ed operò, sullastrada aperta da Goffredo di Buglioneche nel 1099 aveva preso la CittàSanta fondandovi il Regno Latino diGerusalemme.Immemorabile esisteva già nella cittàl’Ordine dei Canonici del SantoSepolcro – alle dipendenze delPatriarcato di Gerusalemme –. A que-sti si aggiunse un manipolo di cavalie-ri, obbedienti al priore del Capitolo,con il compito di custodire e difende-re il luogo santo della Risurrezione.Innocenzo III, con la Bolla “Ut lap-sum humani generis”, ne esaltò lo spi-rito bellico, determinando tra i posterila convinzione che quella del SantoSepolcro potesse essere la più anticadelle milizie di stampo religioso.Il gruppuscolo, composto da religiosie non, divenne un vero e proprioOrdine nel 1114, quando Arnolfo diRoeux, patriarca gerosolimitano,

ottenne di dar loro dignità di organi-smo costituito nella Regola di S.Agostino, ponendosi come massimaautorità dell’Ordine.Da allora, ratificato l’Ordine con bolledi Callisto II (1122) e Celestino II(1144), fu un fiorire di Priorati intutto il continente europeo, sempre

però sotto l’egida del Patriarcato diGerusalemme. Questi cavalieri com-batterono nelle crociate e nelle guerreper i Regni latini d’Oriente sotto laCroce potenziata, simbolo diGoffredo di Buglione, la Croce diGerusalemme scelta, con il mantellobianco, quale insegna dei Cavalieri. AGerusalemme, dove custodivano ilLegno della Santa Croce, tenevano unospizio, dove curavano malati e biso-gnosi, alla stregua dei cavalieri di S.Giovanni (Malta3) e dei Lazzariti. Undocumento del 1155 cita la Miliziagerosolimitana che combatteva inTerra Santa sotto la protezione del S.Legno della Croce.La tempesta islamica tutto travolse edi canonici, che già dal 1187 eran staticostretti a riparare a S. Maria di Tiroprima a S. Giovanni d’Acri poi,dovettero abbandonare la Palestina nel1291, caduta l’antica Tolemaide sottoil Saladino, per ritirarsinell’Arcipriorato perugino di S. Luca,“Caput totius Ordinis et universorumlocorum Sacrosanti Sepulcri DominiciHierosolymitani”, peraltro operativogià dal 1187. I Cavalieri anziani con-tinuarono ad investirne di nuovi avva-lendosi dell’officio dei religiosi presen-ti, antesignani questi ultimi deiCappellani dell’Ordine. Per due secoligli arcipriori di Perugia, che avevanodignità vescovile, sostituirono ilpatriarca di Gerusalemme in veste dicapi non nominati dell’Ordine. Pianpiano a Perugia passarono anche leindulgenze, che tendeva ad agire aguisa di Casa Madre anche se ciò nonsarebbe stato possibile. Infatti chiese,prepositure, priorati e monasteridell’Ordine erano autonomi e dipen-denti direttamente dal papa permezzo del vescovo diocesano, come dadisposizioni di Urbano IV (proprioquello che risiedeva in Orvieto all’e-poca del Miracolo di Bolsena) edEugenio IV, confermate successiva-mente da Pio II, nel 1459.Onorio III, nel 1221, confermando i

possessi dell’Ordine, aveva concessol’immunità e la libertà sui beni4, eso-nerando i religiosi dalla giurisdizionedei vescovi.Nel 1254, Luigi IX, il santo re diFrancia, chiamò i Cavalieri al servizionella Cappella palatina.Nel 1333, i Francescani dell’Ordinedei Frati Minori (ancor oggi moltisono Cavalieri, come il compianto fra’Indovino) tornarono in possesso deldiritto di dimora (poi perpetua) pres-so il Santo Sepolcro sul Monte Sion aGerusalemme.5 Sede della Custodia,fino al 1523, un piccolo conventodonato dal re di Napoli. Tremila furo-no i martiri francescani durante laCustodia, nonostante i Guardiani, cherappresentavano l’Autorità di Pietrooltre al Patriarca, armassero e creasseroCavalieri del S. Sepolcro, all’inizioarbitrariamente (per necessità) poisancito il diritto dei Custodi d’investi-tura, secondo il vetusto cerimonialedella Cavalleria Cristiana (in partegiunto fino a noi)6, con la bolla“Nuper carissimi” di Clemente VI, del1342. La Croce di Gerusalemme deiCavalieri divenne l’emblema dellaCustodia Francescana che autorizzavai comandanti delle navi ad innalzarlaquale vessillo. Con la bolla “Cum solerti meditatio-ne”, Innocenzo VIII, nel 1489, fusel’Ordine del Santo Sepolcro e quellodi S. Lazzaro con i CavalieriGerosolimitani di S. Giovanni (oCavalieri di Rodi alias di Malta).Tuttavia, dopo l’incorporamento, ilGran Maestro dei Giovanniti aggiun-geva al titolo di Gran Maestrodell’Ordine di Malta (cosa normale epertinente vista la fusione) … etMilitaris Ordinis S.Sepulcri. Peraltro iltitolo “Militare”, contestato ignomi-niosamente al Santo Sepolcro, Maltalo vedrà concesso solo con bolla diPio IV, del 1 giugno 1560,“Circumspecta Romani Pontificis provi-dentia”.Nel resto del continente la fusionenon ebbe luogo, tantoché AlessandroVI, nel 1496, si proclamò CapoSupremo dell’Ordine, attribuendosi ildiritto di conferire la dignità cavallere-sca e l’anno successivo annullò la bollapiiana. Leone X (1514) scriveva ad un “MilesSepulcri Dominici Hierosolymitani” eClemente VII (quello del Pozzo di S.Patrizio), nel 1527, ribadì le decisionidi Alessandro VI.Nel 1549, fu depositato presso ilTesoro del Santo Sepolcro un docu-mento di rilievo e ricchissimo di noti-zie e testimonianze sull’Ordine: lacarta “le Conclu”, di Lislebonne diNormandia.In quei secoli l’appartenenza al SantoSepolcro non comportava particolariobblighi (ovvero come quando ilSanto Sepolcro era difeso dai cristia-ni); la nomina di Cavaliere era confe-rita quasi esclusivamente a titolo ono-rifico dal Custode di Terra Santa, inmancanza del Patriarca latino diGerusalemme, ai pellegrini che vi sirecavano anche dopo la riconquistamusulmana. Clemente XI (1708) e Benedetto XIV(1746) consolidarono la tradizione,ma fu grazie al riordino/ripristinodegli Ordini Cavallereschi Pontifici,operato da Pio IX nel 1847, chel’Ordo Equestris Sancti Sepulcri ebbe dinuovo la propria dignità e personalitàgiuridica.Pio IX fu anche artefice del concorda-to con il sultano che riportò ilPatriarca a Gerusalemme (bolla“Nulla Celebrior”, del 23 luglio 1847).Egli riformò i vecchi statuti, creandotre classi cavalleresche, Cavaliere,Commendatore e Gran Croce, perdistinguere differenti meriti nei con-

Lo scorso ottobre, presso il Santuario della Madonna di Mongiovino, ha avuto luogo un incontrosul tema “Riflessione sulla situazione in Terra Santa”. All’incontro, promosso dalla SezioneUmbria dei Cavalieri dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme e coordinato dalpreside della Sezione, Guido Panico, ha preso parte il sindaco di Orvieto, Stefano Mocio.Da qualche anno il Santuario, dopo un periodo di abbandono, a cui ha fatto seguito un impe-gnativo restauro, è stato eletto quale sede spirituale dei Cavalieri umbri, cui sono affiliati i con-fratelli orvietani. In particolare, l’olio della lampada votiva è stato offerto per quest’anno propriodalla rappresentanza dei Cavalieri di Orvieto.

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le” che vive la vita quotidiana comechiunque altro. Ma un Cavaliere,come tale, ha degli obblighi, dei dove-ri particolari da assolvere in virtù delgiuramento prestato, che si ritrovanotutti nello Statuto dell’Ordine.Lo Statuto attuale indica le finalitàdell’Ordine, che sono:rafforzare nei suoi membri la praticadella vita cristiana, in assoluta fedeltàal sommo Pontefice e secondo gliinsegnamenti della Chiesa, osservandola Carità come principio base di cuil’Ordine è mezzo fondamentale pergli aiuti alla Terra Santa;sostenere ed aiutare le opere e le istitu-zioni cultuali, caritative, culturali esociali della Chiesa cattolica in TerraSanta, particolarmente quelle del e nelPatriarcato latino di Gerusalemme,con cui l’Ordine mantiene legami tra-dizionali;zelare la conservazione e la propaga-zione della fede in quelle terre, inte-ressandovi i cattolici sparsi in tutto ilmondo, uniti nella carità dal simbolodell’Ordine, nonché tutti i fratelli cri-stiani;sostenere i diritti della Chiesa cattolicain Terra Santa.In pratica, i Cavalieri oggi, attraversol’Ordine, contribuiscono al manteni-mento di 42 scuole parrocchiali delPatriarcato latino di Gerusalemme:circa 16.000 alunni di ambo i sessi,cristiani (Latini, Cattolici di ritoorientale, Ortodossi e Protestanti) emusulmani; mantengono inoltre ilSeminario Patriarcale (con molte deci-ne di seminaristi), il clero diocesano,numerosi ospedali e dispensari inTerra Santa, oltre ad altre istituzionicaritative di carattere assistenziale.La peculiarità dell’accettazione a mili-tare nelle file dell’Ordine si traducedunque in un personale atto di apo-stolato missionario: l’Ordine non èun’associazione, un circolo, un club,un movimento, una setta, una lobbyo, peggio ancora, una loggia. L’Ordine

rappresenta esso stesso un atto giura-to; giuramento, oggi prestato incomunità, che impegna la “famiglia”dei Cavalieri (con le loro famiglie pro-prie) in sacrifici e sforzi attivi e con-creti nel segno della Carità.Paolo VI e Giovanni Paolo II hannosottolineato e stigmatizzato l’opera deiCavalieri incitandoli alla prosecuzionedella loro moderna battaglia per i luo-ghi santi che videro l’operosa evange-lizzazione di Gesù, “adempiendo confedeltà la missione affidatagli in talsenso dai Sommi Pontefici nel corsodella sua storia” – precisa CarolWoitila – ; e proprio adesso più chemai, nel mondo globalizzato dove glo-balizzati sono anche il terrore e la vio-lenza ed in Terra Santa in particolarmodo dove sangue e paura scorronoda millenni, i Cavalieri, gli eredi dei“… guerrier che, in puro argento,spiegan la trionfal purpurea Croce”,nella “Gerusalemme Liberata” delTasso (Canto IX.92), – anche dallaRupe di Orvieto – sono presenti inprima linea e contrastano con le armidella Carità quel che odio e pauravorrebbero invece consolidare. I Cavalieri agiscono discretamente e leloro opere non hanno bisogno dellevetrine di cui necessitano tanti sodali-zi. Essi operano sopra i pregiudizi, ipreconcetti, le ipocrisie, le delazioni,le disconferme, l’indifferenza e, avolte, l’astio di chi non conosce e nonvuol sapere.E nulla importa se, sfilando in occa-sione di cerimonie religiose (perchésiamo un Ordine “religioso” previstonel Cerimoniale della Santa Sede contanto di precedenze) con indosso ilmantello bianco dalla Croce potenzia-ta sul petto, sovente si venga scambiatiper quelli (forse più noti?) di Malta oper Templari (di certo più famosi perl’aura di mistero che li circonda): enon sorprenda il fatto che spesso aconfondersi siano proprio chierici eprelati.

fronti del Patriarcato (Breve “MultaSapienter”, del 24 gennaio 1868) eregolamentando decorazioni ed uni-formi; queste ultime, in memoria del-l’antica funzione dell’Ordine qualeguardia armata del Santo Sepolcro,furono stabilite di foggia militare.Leone XIII, nel 1888, in ricordo delleCanonichesse del Santo Sepolcro atti-ve nel Medio Evo, istituì le Dame. Lesorores seguivano la Regola agostinianae, oltre alla vita contemplativa, cura-vano le donne inferme.Pio X, nel 1907, decretò l’aggiuntaall’insegna dei Cavalieri (la Crocepotenziata di Goffredo) di un trofeo(elmo e corazza) in virtù dell’anticaveste militare dell’Ordine. Il papa sta-bilì la fondazione di una sezione“nazione” di Cavalieri presso ogniStato, retta da un Delegato delPatriarca.Con la bolla “Decessores nostri”, il 6gennaio 1928, Pio XI nominò ilPatriarca latino di GerusalemmeRettore ed Amministratoredell’Ordine, non più per delega ponti-ficia ma in virtù della carica ricoperta;un decreto del 1931 stabilì chel’Ordine del Santo Sepolcro, sempresotto la benigna protezione dellaSanta Sede, si denominasse “OrdineEquestre del Santo Sepolcro diGerusalemme”, tuttora vigente e cheper ogni nomina dell’Ordine dev’esserdata comunicazione, conditio sine quanon, alla Cancelleria dei BreviApostolici che, previo nulla osta,possa prenderne atto ed apporre ilproprio visum e sigillo sul Diploma.Ciò “nell’intento di favorire, a mag-gior lustro di quanti ne sono investiti,il riconoscimento ufficiale delle deco-razioni dell’Ordine stesso da parte deiGoverni che hanno relazioni diploma-tiche con la Santa Sede”. Infatti, perquel che concerne l’Italia, la legge 3marzo 1951 n. 178 (disciplina confe-rimento ed uso delle onorificenze), laconcessione agli insigniti dell’Ordinedel Santo Sepolcro dell’autorizzazioneall’uso delle onorificenze e decorazioniproprie non rappresenta un atto dis-crezionale dell’autorità preposta, sitratta invece di un atto dovuto (cosache non avviene per tutte le onorifi-cenze di Stati esteri).Nel breve “Quam Romani Pontifices”,del 14 settembre 1949, Pio XII assicu-ra all’Ordine la protezione giuridicadella Santa Sede e ne trasferisce ilGoverno da Gerusalemme a Roma,affidandone la cura ad un cardinale; alPatriarca latino di Gerusalemme siconferì titolo e prerogative di GranPriore. Un nuovo statuto fu approvatoda Paolo VI, nel 1967 e quello attua-le, tuttora in vigore, fu emanato il 19luglio 1977.Al momento l’Ordine è retto daS.E.R. cardinale Gran Maestro Furno,coadiuvato dal Governatore Generalee dal Gran Magistero. 37 sono le rap-presentanze in tutto il mondo, detteLuogotenenze o DelegazioniMagistrali e divise in Sezioni (iCavalieri orvietani sono affiliati allaSezione Umbria, con sede in Perugia,nella Luogotenenza dell’Italia centra-le).Ma cosa fa un gruppuscolo sparuto diCavalieri sulla Rupe e da questa versoil mondo?I Cavalieri di oggi sono “gente norma-

testimoniato dai resti archeologiciritrovati in Catalogna e terre limitro-fe. Una seconda ondata, questa voltapiù complessa, si registrò nel VIsecolo a.C., e vide l’ingresso nel ter-ritorio di popoli chiamati Cempsi(che Strabone ci dice essere prove-nienti dalla Germania) e Saefi.Entrambi i gruppi, che formerannol’insieme dei popoli denominatiGallaeci, occuperanno il nord-ovestdella regione. L’ondata più significa-tiva si registrò tuttavia tra il VI e il IIsecolo a.C., con il gruppo dei“Belgae”, che acquisirono il potereassoluto su tutta la penisola. La mag-gior parte degli studiosi modernicompleta questo quadro includendoanche la discesa di popolazioni ger-maniche come gli Eburoni o iPemani, intorno al 600 a.C. I Celti importarono in Galizia ilCastro, costruzione circolare di pietrautilizzata come abitazione e comesistema di difesa. Il modello, prove-niente dai popoli celti del litoralebritannico, veniva ripetuto piùvolte in una stessa concentrazioneurbana, in modo da formare tantecostruzioni circolari affiancate. Talestruttura rimase anche durante ladominazione romana. L’invasione dei Romani cominciò afar sentire la sua forza intorno al IIsecolo a.C., quando il comandanteDecimo Giunio Bruto, nel 132 a.C.,conquistò la regione, meritandosi

l’appellativo di “Gallaicus”. Egli divi-se la zona in tre conventus: BracaraAugusta, Lucus Augusta e AsturicaAugusta. I primi due formavano laGallaecia, e tra le popolazioni piùimportanti conquistate troviamo iGallaeci, che danno il nome all’inte-ra area, e i Neri, che popolavano ilCapo Finisterre.In Galizia, verso il 23 a.C., il conso-le Lucio Sesto eresse tre altari detti“aras sextianas” in onore diOttaviano Augusto; uno di essi sitrovava, molto probabilmente, nellazona del Capo Finisterre, come ulti-ma pietra miliare posta a delimitare iterritori conquistati. Grazie ai Romani, tutta la Galizia fumunita di una complessa rete viaria,talmente ingegnosa da essere conser-vata anche in epoca medioevale.Nel 19 a.C. la regione entrò a farparte della Hispania Citerior e daquel momento subì un processo diprogressiva municipalizzazione chediede vita a nuovi centri urbani, icui toponimi romani sono ancoraconservati.A partire dal II-III secolo la Chiesaromana cominciò a diffondersi siste-maticamente nella Penisola iberica,convocando numerosi Concili al finedi ordinare l’operato cristiano e dilimitare le invasioni barbariche che,dopo la caduta dell’Impero romano,interessavano soprattutto le regionicostiere. La questione interessò tutto

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Un Cavaliere è un Cavaliere qualsivo-glia sia denominato l’Ordine di appar-tenenza.Un Cavaliere serve. Serve con umiltàe discrezione. Non può, non deve enon vuole apparire.Egli conosce la Regola. E la Regola èla Carità. Tutto il resto non conta.Non conta soprattutto l’onta di chisfrutta il nostro nobilissimo consessoper finalità ed interessi che non rispec-chino quelli per il quale Ordine eCavalieri son preposti.Nessun falso cavaliere può macchiarel’Ordine così come nessun falso cri-stiano può offuscare Gesù.Ma il cavaliere in difetto, ovvero coluiche ha tradito la Regola e le normesusseguenti, se non riconosce l’erroreperde di fatto ogni prerogativa chedall’Ordine gli derivi.Il Dio che serviamo è un Dio “scomo-do” della Carità e del Perdono ed è lostesso Gesù a ricordarci di esser venu-to per dividere e mettere fratello con-tro fratello, figlio contro genitore.O si sta con Lui o contro.Gesù non ha bisogno di guardie (nona caso sgrida Pietro che ferisce dispada un soldato la notte in cui fu tra-dito), ma il Padre ha bisogno di solda-ti della Carità per portare un messag-gio all’uomo che ostenta pericolosecertezze e sicurezza (a volte perniciosee forse a celare meschine esigenze edinutili necessità) e che dichiara di nonaver bisogno di Dio o, solo, del nostro“scomodo” Dio? I Cavalieri esistono ancora oggi perquesto. Ogni Cavaliere risponde “si,eccomi; ci sono” alla chiamata di col-laborazione per la diffusione e l’attua-zione del messaggio cristiano.Insegne, decorazioni, mantelli, spade,speroni ed antichi cerimoniali hanno,pur nella loro importanza ermeneuti-ca e semiotica, lo stesso valore relativodelle varietà biologiche: esistono infi-nite varietà di fiori, ma un fiore è unfiore al di là di forme e colori.

Nella società cosidetta occidentale cuiapparteniamo, secolarizzata ed ipertec-nologica, scientifica e superrazionale,pare del tutto anacronistico – se nonaddirittura, a detta di taluni pensatoried intellettuali, fuori luogo e persinooffensivo – parlare di cavalieri, dichiese e vocazioni. Cavalieri edOrdine esistono e agiscono da tempiremoti; vengono da lontano e prescin-dono, dissociandosene, da qualsiasidiscriminazione: sono un “oltre” fuordegli schemi.Essi stanno a dimostrare che non sideve essere fuori del mondo, ma nelmondo e lottare per esso.Questi sono i Cavalieri.Questi, in particolare siamo noi edurante la Sacra Processione delCorpus et Sanguis Domini qualcunopotrà finalmente identificarci perquello che rappresentiamo: i Cavalieridel Santo Sepolcro di Gerusalemme,gli eredi del cuore dell’antica Milizia aguardia dell’avello che vide il Cristovincere “sorella morte” nella Gloriainafferrabile della Risurrezione.

Silvio Manglaviti

1 Solo un memento ‘provocatorio’ per ilTempio gerosolimitano a pianta ottagonale,tipico dell’architettura “templare”.

2 Bramante muore nel 1514 e le fonti storicheci dicono che l’anno prima passò daMongiovino per seguire lo scavo delle fonda-menta.

3 Sono presenti in Orvieto con unaCommenda, presso S. Giovannino dei Cavalierie numerose proprietà fondiarie.

4 Beni confermati anche da Brevi di Nicolò VI(1288) e Giovanni XXII (1294).

5 I Reali angioini di Napoli procurarono loro i30.000 ducati d’oro per il sultanoMammalucco.

6 La cerimonia avveniva nella Chiesa del S.Sepolcro di notte, al canto del Veni Creator edel Te Deum.

il territorio: ne sono testimonianza inumerosi Concili svoltesi a Elvira(l’attuale Zaragoza) nel II secolo, poia Toledo (400), Tarragona (516), dinuovo a Toledo (531), a Braga (561e 572), solo per citare i primi. Ladivisione amministrativa dellaPenisola iberica si basò, nei secoliIII-VI, sul controllo assoluto dellaChiesa, che affidò l’amministrazionedei maggiori centri urbani alle sediepiscopali, lasciando ai Comes lagestione degli affari politici. Questiultimi inoltre avevano il compito dioccuparsi di piccoli centri ruralichiamati villae rusticae2, satellitidelle città maggiori. Tuttavia questarigida organizzazione non potéimpedire l’invasione della Gallaeciada parte degli Svevi, nel V secolo.Essi dominarono questo territoriofino al 585, quando il re visigotoLeovigildo vinse l’ultimo re svevo eincorporò la Gallaecia al suo podero-so Regno (la zona della regioneAsturia). L’ordine stabilito dalla Chiesa diRoma e dai Concili svolti sul territo-rio ispanico non attecchì con succes-so in questa isolata regione dove ilpriscillanesimo, instaurato daiRomani, e l’arianesimo, dovuto aglisvevi, erano ben radicati. In Galiziarimase fino al VI secolo un paganesi-mo diffuso che in seguito avrà riper-cussioni sulla concezione stessa del-l’arte.

La nostra indagine percorre geo-graficamente la Spagna del nord

dai Pirenei catalani fino alla Galizia,dedicando particolare attenzione aquesta ultima area. La regione, chia-mata in castigliano Galicia e in galle-go Galiza, occupa l’estremità nord-occidentale della penisola iberica e sipresenta come territorio angolare diraccordo tra il Portogallo a sud, ilregno delle Asturie a nord-est, e laCastiglia-Leon a est.Storicamente il territorio gallego èsempre stato piuttosto isolato e pocopartecipe delle vicende politichedella penisola iberica, cui ha presoparte, almeno fino all’XI secolo,come regno subordinato alla coronaasturiano-leonese. Numerose sono le popolazioni chehanno invaso la Galizia durante isecoli: tra i primi colonizzatori siregistrano i Celti che, intorno al VI-V sec a.C., si stanziarono nella regio-ne, arrivando a costruire castellidifensivi lungo le coste, mentre nelI- II sec a.C. abbiamo notizia del-l’invasione romana e della conse-guente divisione della zona inRegiones.La presenza celtica, che collegò ilnord-ovest della regione conl’Irlanda, ebbe inizio, secondo BoschGimpera1, nel IX secolo a.C., quan-do la Penisola fu invasa da un grup-po appartenente alla “cultura delCampo delle Urne”, secondo quanto

Alle origini di Santiago de CompostelaCenni storici sulla Galizia e su Finisterre

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Pochi conoscono la terra lucana e lerive del fiume Sinni, lungo le quali

si consumò una delle più affascinantiesperienze umane del Medioevo: quel-la di Giovanni da Caramola. Della suavita abbiamo due narrazioni: la piùantica, assai breve, è opera di un ano-nimo monaco, contemporaneo delBeato, riportato dall’Ughelli nel VIIvolume della sua “Italia Sacra”. Loscritto è contenuto in un codicemembranaceo manoscritto conservatopresso l’Archivio Parrocchiale “S.Giovanni Battista” di Chiaromonte(PZ) e proveniente dall’Abbazia cister-cense di S. Maria del Sagittario appar-tenente alla stessa Contea diChiaromonte1. Su un riquadro carta-ceo in copertina, rigida lignea rivestitadi pelle, si legge “Vita B. Joannis aCaramula cum illius Officio in fineMissalis Cisterciensis 32 foliorum inPergameno scripta circa annum 1339in quo mortuus est” (fig. 1). Esso, dimisure mm. 260 x 210 e composto dipiù unità tra cui un calendario liturgi-co (cc. 1r – 6v) e un Messale, contie-ne anche l’Officium del Beato (cc. 26r– 31r). Il testo è in scrittura minusco-la gotica, tipica degli scriptoria cister-censi, con un modulo medio (la cuiriduzione è funzionale alle parti dellacelebrazione), tratteggio pesante econtrastato; lettere e parole bendistanziate; aste dallo slancio contenu-to. L’incipit è scritto in lettere rubrica-te “Incipit officiu(m) b(ea)ti Joh(ann)isde caramula confessor…”. La biografia più recente, ricca di parti-colari, fu scritta nel XVII sec. daGregorio de Lauro, abate delMonastero del Sagittario dove morì ilBeato Giovanni, e dal titolo “Vita B.Joannis a Caramola Tolosani conversiSagittariensis Monasterii congregationisB. Mariae Virginia utriusque Calabriaeet Lucaniae, Sacri CisterciensisOrdinis…” e dove si ricorda “exOfficio quod quotannis in die festoipsius Sagittariensi in Ecclesia celebra-tur”.Poco si dice di lui prima del suo arri-vo in Basilicata, nato a Tolosa giunsenella Contea di Chiaromonte intornoal 1300, forse un pellegrino giunto inoccasione del primo giubileo, o diret-to verso santuari come quelli dellaTerra Santa o quello micaelico delGargano. Scelse, dunque, la Contea di

Nella seconda metà del VI secoloperò, da Braga, si mobilitò il vescovoSan Martino da Dumio, che, secon-do quando riportato da Gregorio diTours nella Historia Francorum, ebbeil merito di far convertire, al suoarrivo in Galizia, il figlio del re deglisvevi, Carriaco3. Al vescovo si devela prima organizzazione dell’ammini-strazione ecclesiastica galiziana:facendo di Braga il centro piùimportante, assegnò a Lugo leDiocesi di Orense, Iria, Tuy eBritonia che si conservano ancoraoggi. San Martino promosse inoltreuna riforma monastica di ispirazioneorientale alla quale aderì, un secolodopo, San Fruttuoso con la suaRegola Monachorum. Le poche traccedelle costruzioni della ormai conclu-sa epoca visigota sono i resti dellapianta della chiesa di Santa Combade Bande e le rimanenti decorazionidella chiesa di San Fruttuoso diMontelios.Nei secoli VIII e IX, la Galizia èsotto il controllo dei re delle Asturie,regno creato appositamente daisovrani spagnoli, emigrati da Toledoper liberarsi dell’ingerenza araba. Inparticolare, sotto il dominio diAlfonso II, nel 791, fu eretta laprima chiesa sopra alla tomba dell’a-postolo Santiago4. I re asturianilasciarono la Galizia sempre al mar-gine, come territorio dipendentedalla corona: se ne serviranno nel IXsecolo per attirare l’attenzione, graziealla presenza del sepolcro di SanGiacomo, della Francia carolingia. Nel X secolo, tutta la Spagna è attra-versata dalle incursioni diAl–Manzur, il reggente arabo chearrivò in Galizia per conquistare edistruggere la città di Iria Flavia(Padrón) e la prima chiesa, quellacostruita nel 791 in memoria dell’a-postolo Santiago5. Nonostante le invasioni dei mori,che comunque furono presto argina-te, il centro del potere amministrati-vo e politico del X secolo rimanevala Diocesi di Iria Flavia-Compostela,in quanto unione dei due poli cri-stiani della Galizia: il luogo del ritro-vamento del sepolcro dell’apostolo eil sito che custodiva le sue spoglie.La Galizia altomedievale del X-XIsecolo è dominata dalla corona astu-riana ed è divisa in condados, ossia:“unità amministrative di base, defi-nite come aree di esercizio effettivodelle competenze militari, tributarie,giudiziarie e governative, assegnate aun conde o comite in virtù di unadelegazione personalmente scelta dalre.”6 Nella zona costiera diFinisterre, tra i secoli X e XI, la divi-sione territoriale prevedeva quattrocondados: Carnota, Nemancos,Soneira, Bergantiños. Il primo com-prendeva i territori tra l’OceanoAtlantico, la Ria (estuario di unfiume) di Muros e Noia e il fiumeXallas; la seconda comprendeva l’e-stremo nord-occidentale dellaGalizia, tra la Ria di Laxe e il Capodi Finisterre. In questo stesso perio-do le zone che non possedevano ilseggio episcopale venivano sottomes-se alle Diocesi più importanti (qualiCompostela, Orense, Lugo): il terri-torio costiero di Finisterre era dipen-dente dalla Diocesi di Iria-Compostela. Questa antica divisioneterritoriale prendeva il nome di tier-ra de Nemancos, una circoscrizioneche, nel Medioevo, si estendevaapprossimativamente dal fiumeXallas fino a Camelle (oggiCamañas).7 Non solo la zona diNemancos, ma tutta la Galizia ebbeun ruolo molto importante nel Xsecolo, quando i musulmani, al

seguito di Al-Manzur, invasero laPenisola iberica e costrinsero varivescovi cristiani a fuggire dalle loroDiocesi. Essi trovarono rifugio nellasede iriense dove il vescovo diSantiago li accolse “con benevolenzae carità cristiana”8 cedendo loro,temporaneamente, alcuni possedi-menti ecclesiastici. La corona asturiana, istituendo deiforti centri religiosi nella regione,tentò di controllare le invasioniarabe della costa; contemporanea-mente organizzò, da qui e dal terri-torio asturiano, la Reconquista cri-stiana, in seguito alla quale, nel Xsec., tutti i territori al di sopra delfiume Duero furono consegnati nellemani del sovrano. La Reconquista farà un ulteriorepasso in avanti con la caduta diToledo del 1085 per mano del sovra-no asturiano Alfonso VI, che in que-sto modo spostò il confine tra i terri-tori cristiani e quelli arabi dal fiumeDuero al fiume Tajo. Tuttavia l’organizzazione difensivadel territorio, definita dai sovraniasturiani, non poté impedire unanuova invasione proveniente dalmare: nel 1008 infatti, i Normanniattaccarono molteplici centri costie-ri, concludendo la loro azione nel1014, con la distruzione completadella città di Tui. Nel 1030 sbarcaro-no sulle coste galleghe anche iDanesi, capeggiati dal barbaro Ulf,per attaccare il fiorente centro citta-dino di Orense. Le invasioni si arre-starono verso la metà dell’XI secolo,quando la Galizia, in mano aFernando I (1037- 1065), fu riorga-nizzata con un nuovo ordine nel-l’amministrazione delle sedi episco-pali e dei centri cittadini. Si apriràcosì la strada alla rinascita galizianadei secoli XII-XIII che vedrà nellacittà di Santiago de Compostela ilsuo centro d’irradiazione.

Ilaria Sgrigna

1 BOSCH GIMPERA, P., El poblamiento antiguoy la formación de los pueblos en España, citatoin nota da: ALBERRO, M., “Los pueblos celtasdel noroeste de la Península Ibérica”, AnuarioBrigantino, 1999, pp. 54- 55. 2 “La stessa “Villa Fortunatus”, a Fraga(Huesca), del secolo IV; La Focosa (Badajoz),secolo Vo VI; Torre de Palma(Monforte),(Alto Alentejo, secoli IV e VI;Ninfeo di Estoi (Faro), convertito in tempiocristiano forse alla fine del secolo IV; possibileluogo di culto la Villa di Torre Llauder(Mataró); mausoleo a Puebla Nueva (Toledo),fine del IV secolo”. Da: SOTOMAYOR, M.,“Penetración de la Iglesia en los medios rura-les de la España tardorromana y visigoda”Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiasticadelle campagne nell’Alto Medioevo: espansione eresistenze. Settimane di studio del centro ita-liano di studi sull’Alto Medioevo, XXVIII,10-16 Aprile 1980, Spoleto, 1982. p. 670.3 Fonte: COBREROS, J., El romanico enEspaña, Guias Periplo, Madrid, 1993, p. 661.4 La prima chiesa era molto semplice: piantabasilicale di una sola navata tripartita e absiderettangolare, che avrebbe inglobato la criptacon le reliquie del Santo. Il modello è presodirettamente dalla tradizione asturiana prero-manica e ricorda gli edifici civili e religiosi diOviedo.5 Nulla però ci rimane in Galizia della domi-nazione araba: solo alcuni elementi architetto-nici come la finestra a ferro di cavallo di SanMichele a Celanova.6 BALIÑAS PÉREZ, C., “ A estructuración polí-tica do territorio da Galicia altomedieval.”,Actas do I simposio sobre a historia da Costa daMorte., Cee, 2000, p. 33(traduzione mia).7 LÓPEZ ALSINA, F, La ciudad de Santiago deCompostela en la alta edad media,Ayuntamiento de Santiago de Compostela,Santiago de Compostela, 1988.8 FERRÍN GONZALEZ, J., R., Arqitectura romá-nica en la Costa da Morte,op. cit.. p. 24.

Chiaromonte per vivere la sua “vitaonestissima”, luoghi impervi e selvaggifecero da scenario alla sua vita eremiti-ca, e il biografo anonimo ricorda “conquanto duro rigore si mortificasse, conquanta povertà di alimenti sacrificassele membra del suo corpo già misero,quante durezze sopportasse per amoredel Redentore”, e ancora che “fosse sem-pre in silenzio” tanto da meritare l’ap-pellativo del “senza lingua”. “Ed eratanto assiduo nella contemplazione chesembrava, con Maria, che sedesse sempreai piedi di Gesù; e sebbene fosse ancoranel suo corpo mortale, si elevava total-mente al di là del peso del corpo”. Visseinizialmente presso l’eremo detto di S.Saba, “un’altissima rupe, sito inaccessi-bile per natura e impervio”, come unvero e proprio “scoglio” circondato daun torrente, nel periodo invernale checonfluiva nel fiume Sinni, nel territo-rio del comune di Fardella (PZ)2. Quieliminava l’ozio confezionando piccolirecipienti e faceva piccole ceste convirgulti, vimini e giunchi raccoltilungo il fiume: il lavoro diventavacontinuazione dell’atto creativo divinoe allo stesso tempo occasione perallontanare tentazioni. Passò poi avivere presso l’eremo di ScalaMagnano, detto in dialetto localeremìte (eremita; romitorio) e poi sulmonte Caramola.Afflitto dalla malattia si vide costrettoa lasciare la vita anacoretica per quellacenobitica e si ritirò, come converso,presso i cistercensi del vicino monaste-ro di S. Maria del Sagittario dove“aveva un piccolissimo letto quadrato econcavo che superava di poco la misuradi quattro piedi dove poteva adagiarsisolo rannicchiato dando l’immagine nondel riposo ma della sofferenza”. La suavita era dettata dalla carità verso i piùbisognosi, scrive il De Lauro “ogniqualvolta vedeva un povero, un malato,un forestiero un carcerato se non avevaniente per aiutarli …pregava e piange-va per loro…”. Dal punto di vista iconografico, unicaimmagine è quella scolpita sul coroligneo proveniente dal Sagittario edora conservato nella chiesa di S.Giacomo a Lauria (PZ). Si tratta diun’immagine realistica e sobria: ilbeato appare barbato, come è tipicodei conversi, incappucciato, a piedinudi, con un bastone e con in manoun rosario, d’altronde, come scrive ilDe Lauro, “ebbe grandissima devozioneper la Santissima Madre di

Dio…aggiungendo l’uso frequente dellacorona della Vergine”3 seguendo l’e-sempio di S. Bernardo (fig. 2).Il giorno della sua morte, il 26 agostodel 1338, ricorda l’anonimo, il mona-stero fu scosso da un vento impetuosoche non spense però le fiaccole pressoil suo capezzale. Copiosi furono imiracoli in vita e in morte, narratidall’Anonimo: Margherita, contessa diChiaromonte, da sterile divennemadre; Roberto detto Maccarone, delvillaggio di Senise, con un bracciopiagato ed ulceroso fu risanato dopoaver visto il bastone del Beato e lesporte che egli intrecciava; Tomasella,figlia di mastro Giovanni Udone diSenise, fu risanata da una fistola cheaffliggeva il suo braccio dopo averlafasciata con della stoffa del santoabito; anche il sacerdote GiovanniCapano, rimasto senza voce la riebbedopo aver dormito sul sepolcro delsanto uomo; il piccolo Gentile diNoepoli, afflitto da un tremore albraccio fu sanato così come unadonna della stessa cittadina; infine ilbarone di Armento si vide guarire latibia al contatto con le erbe che il san-t’uomo soleva spargere sul suo giaci-glio.Il suo corpo è conservato solennemen-te nella chiesa madre di Chiaromonte,esposto alla venerazione dei fedeli (fig.3). Riecheggiano forti le paroledell’Anonimo “Credete fermamente,voi tutti che verrete nei tempi futuri ciòche qui è riferito, infatti io qui ho ripor-tato solo ciò che era notorio … ho vistoe ho osservato essere vera ogni singolacosa”.

Antonio Appella

BRANCO L., Il Beato Giovanni da Caramola nella nar-razione di un anonimo trecentesco e dell’abate GregorioDe Lauro, Lagonegro 2003CAPPELLI B., Il monachesimo basiliano ai confini cala-bro-lucani, Napoli 1963. PERCOCO G., I luoghi della contea di Chiaromonte dovevisse il Beato Giovanni da Caramola (sec. XIV),Chiaromonte 2003.UGHELLI F., Italia Sacra, VII, Venezia 1721.

1 All’operosità del Parroco di Chiaromonte d.Vincenzo Lofrano si deve il restauro del suddettoMessale nel 1998 presso la Badia benedettina di Cavadei Tirreni e la ripresa della devozione al beato. 2 Si trattava di una grotta con elementi in muraturache prese il nome da S. Saba che con Macario suo fra-tello ed il loro padre Cristoforo, dalla Sicilia giunseronei primi del X sec. in questa terra che faceva partedell’eparchia del Latinianon, nella media valle delSinni.3 Quindi il beato recitava la preghiera che noi chia-miamo Rosario diffuso dai domenicani.

Agiografia lucana

La “vita onestissima” del BeatoGiovanni da Caramola

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In questi ultimi decenni di studi edapprofondimenti su urbanistica e

architettura nell’Ottocento, un nuovo,particolare interesse ha investito anchele “città dei morti”, che puntualmenterispecchiano i processi sociali, cultura-li ed economici che caratterizzanoquesto periodo storico. E riguarda siale necropoli neoclassiche, costruite inrecepimento del decreto napoleonicodel 1804, che imponeva di realizzaresepolture fuori dell’abitato deiComuni, in uno spazio specifico erecintato; sia, ed ancor più, i progettio gli ampliamenti post-unitari, inquanto si rivelano come l’espressionepiù esplicita ed eloquente -ancorchéenfatica, spesso retorica e volutamentepedagogica- dei sentimenti e delle“buone virtù” dei ceti borghesi prota-gonisti della nuova giovane nazione, edella loro concezione della vita, piùche della morte. Questo interesse è, inoltre, ben moti-vato dalla consistenza spesso straordi-naria delle presenze artistiche e delletestimonianze storiche che tali luoghicontengono. In questo senso, è certa-mente significativa la nascita, che risa-le al 2001, di una specifica associazio-ne internazionale –la ASCE,Association of Significant Cemeteriesin Europe- che ha per scopo la risco-perta, lo studio, la tutela, la divulga-zione e la valorizzazione dei cimiterimonumentali e del loro patrimonioartistico e storico, oltre naturalmentea quello del restauro, con interventi

coordinati e promossi a livello sopra-nazionale, di beni culturali di grandeimportanza. E’ ormai attesa la pubbli-cazione di un catalogo, già pubbliciz-zato dall’Associazione, dedicato adillustrarne i più considerevoli. Nell’ottica dunque di questo nuovoed interessante orientamento, anche ilCimitero orvietano possiede senzadubbio caratteristiche tali da qualifi-carlo come monumento di ecceziona-le rilevanza storico-artistica. A partiredal fatto che, nella sua parte più anti-ca, esso include –anzi ne è dominato-la bellissima chiesa cinquecentesca diSan Lorenzo in vineis, che replica,nella sua imponente centralità manie-rista imperniata sulla grande cupola,alla cuspidata verticalità del prospettodel Duomo medioevale, ad essa diret-tamente prospiciente. Edificata, sulsito del primitivo complesso monasti-co medioevale, su progetto diRaffaello da Montelupo, parzialmentericostruita –quando nel 1595 avevasubito il crollo della cupola originariapreziosamente rivestita di tegole smal-tate- e completata da Ippolito Scalza,la chiesa si trova oggi abbandonata adun ignoto destino nonostante l’avviodi interventi di restauro iniziati alcunidecenni fa ed evidentemente mai con-clusi. Posta, come accennato, nellazona più elevata ed antica delCimitero, essa confina con l’adiacente,ma esterno, recinto delle sepoltureebraiche che circonda la bella cappel-la-sinagoga di gusto orientaleggiante.

Nella parte inferiore, invece, si trova lacappella cimiteriale ottocentesca, conun elegante prospetto di gusto neo-classico; molte sono poi le cappelleprivate costruite nella seconda metàdello stesso secolo in stile purista, neo-gotico o neo-rinascimentale, che con-servano interessanti decorazioni dovu-te spesso all’intervento di artisti difama, come il senese Arturo Viligiardi(1869-1936), menzionato infatti inun articolo del “Comune” del 1908che incitava ad emulare le nobili com-mittenze per abbellire il Cimiterocomunale con vere opere d’arte.Proprio in questo singolare reportaged’epoca manca però menzione diun’opera di rilevante valore storico-artistico che dal 1880 era presentepresso una delle illustri sepolture gen-tilizie orvietane, opera che invece, perla sua originalità e per l’eccezionalitàdella sua presenza, merita senza dub-bio di essere segnalata, come un ele-mento qualificante dell’identità e delvalore di questo patrimonio ancorapressochè ignorato.Si tratta del dipinto che ritrae i coniu-gi Mazzocchi nella parte centrale delmonumento sepolcrale loro dedicato enel quale gli stemmi marmorei deidue personaggi –Leandro, ultimodiscendente dell’antica casata gentili-zia orvietana e Maria Mignanelli, diugualmente nobile famiglia senese-coronano la stele, mentre in bassoun’iscrizione riporta l’età dei defunti,rispettivamente 71 e 64. Il ritratto, un“tondo” policromo di circa 50 centi-metri di diametro in cui le due figuresono strettamente giustapposte, si pre-senta in buonissimo stato di conserva-zione, benché esposto totalmente agliagenti atmosferici e climatici, senzaalcuna protezione o schermatura. Benleggibile, nella parte inferiore sinistra,è anche l’iscrizione che documentaautore e data di realizzazione, “FilippoSeverati dipinse in ismalto nel 1880”–cui segue anche una sigla con nume-ro di serie-, consentendoci così dimettere in luce un episodio artisticodi particolare interesse, nel panoramaitaliano dell’Ottocento, che, grazie aipiù recenti studi, riserva anche adOrvieto non poche significative rivela-zioni. Filippo Severati (Roma 1819-1892) sirivela infatti una personalità artisticadel tutto particolare, al di là della suaformazione accademica -avvenuta inmaniera del tutto tipica e tradizionalenel solco del grande maestro purista,Tommaso Minardi (1787-1871), edella sua scuola-: egli fu infatti unentusiasta sperimentatore di uno spe-

ciale procedimento di pittura a smal-to, che perfezionò al punto di avernegrande fama nell’ambiente romano.D’altra parte, le sue eccellenti doti didisegnatore gli avevano già procurato,da giovane artista, incarichi comecopista da parte della CommissioneCalcografica Camerale, permettendo-gli di praticare un diretto contatto conl’opera di Raffaello che costituirà, nelsuo successivo sviluppo stilistico, laprincipale fonte di ispirazione, oltre aldato reale. Parallelamente a questa attività,Severati portava dunque avanti unasua personale sperimentazione volta asfruttare le straordinarie qualità epotenzialità di una nuova tecnica dipittura a smalto, già nota fin daglianni ’40 dell’Ottocento: egli noninventò, ma fu il primo a perfezionaree ad utilizzare per dipinti da esterno ilprocesso di “ceramizzazione” deldipinto su lava, brevettandolo nel1857, come documentato pressol’Archivio di Stato di Roma.La tecnica, applicabile peraltro anchealla porcellana, si avvaleva della note-volissima solidità del supporto lapideo-generalmente lastre di basaltina diorigine vulcanica, come quelle spessoprovenienti dal Viterbese- che, prepa-rato, trattato e portato a cottura conspecifici ed accurati procedimenti,garantiva una eccezionale durata, con-sentendo nello stesso tempo di mante-nere tutti gli specifici ed originalicaratteri stilistici e formali dell’operad’arte.E’ quanto è possibile verificare neglioltre duecentocinquanta ritratti -tut-tora conservati e, recentemente,oggetto di riscoperta e di studio- pro-dotti dal Severati, a partire dal 1863,per varie sepolture del cimitero roma-no del Verano dove, proprio in queglistessi anni, il suo maestro Minardi nedecorava la chiesa. Questa copiosa produzione compren-de anche l’autoritratto che l’artistacollocò presso la tomba di famiglia, incui egli stesso si raffigura con la tavo-lozza in mano accanto ai genitori e incui registra, nell’iscrizione alla base deldipinto: “Primo ritratto eseguito inRoma in smalto sopra lava. Tal generedi pittura é utile per la durata si puòunire alla scultura”. Mentre la soddi-sfazione per il successo della tecnicada lui perfezionata e per le potenziali-tà che in essa vedeva sono documen-tate dal testo inserito nel ritratto fune-rario di Maria Mucci, dove scrive nel1885: “Spero di vedere principiata lariproduzione dei classici dipinti e la sto-ria Patria, con questa pittura inalterabi-

le. Cosi si eternano le glorie mondialidell’Italia. Fra le più utili e maravigliosescoperte del nostro secolo, si può noverareanche questa pittura”.Ma un’ulteriore conferma delle tantequalità di questa “nuova” tecnicaviene, allo stesso modo, dall’ineditaopera orvietana del Severati, che nedimostra anche l’ottima resistenza agliagenti esterni e, dunque, ai fenomenidi deterioramento da essi determinati.Il ritratto dei Mazzocchi conserva tut-tora l’originaria, e straordinaria, niti-dezza delle immagini, la freschezza deicolori, l’intensità dei valori grafici; sol-tanto in qualche zona perimetrale sinotano lievi alterazioni cromatiche edeffetti di sbiancamento, forse dovutipiuttosto alla tecnica pittorica, se nonalla qualità dei pigmenti. Ma, soprattutto, ciò che colpisce diquest’effige è come, nella compostafrontalità delle figure, nell’equilibriodelle loro espressioni, in cui la volontàdi realismo è bilanciata dall’esigenzadi dignitoso decoro, nella esplicitasimbologia del vestiario e degli oggettipreziosi, essa sia, ben oltre l’immagi-ne, adito sul mondo ottocentesco. Unmondo -ormai completamente distan-te- in cui i ruoli sociali rappresentanoi cardini del vivere quotidiano, dove leconsuetudini, le “buone virtù”, lamorale convenzionale sono i veri refe-renti culturali e, come tali, entranonell’arte, le chiedono voce. E l’arteassume così il tono di una narrazionefatta di episodi esemplari, di aneddoti,di memorie e moniti, che illustra inimmagini reali, concrete, quotidiane.Sono queste le immagini di FilippoSeverati, grande narratore del suotempo, con le quali egli seppe illumi-nare di vita la “città dei morti” e tut-tora, grazie alla passione per la tecnicache fu quella della sua epoca, ci parladel suo mondo.

Alessandra Cannistrà

Un patrimonio da riscoprire: il Cimitero comunale di Orvieto

“Tra le più utili e meravigliose scoperte del nostro secolo”I dipinti a smalto di Filippo Severati

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Si è svolto a Narni, presso laRocca Albornoz, nelle giornate

di sabato 14 e domenica 15 mag-gio, il Convegno dedicato alla cittàe ai suoi Statuti medioevali, coordi-nato dal “Centro per il collegamen-to degli studi medioevali e umani-stici dell’Umbria”, curato dalComitato scientifico, composto daLaura Andreani, Letizia ErminiPani ed Enrico Menestò ed orga-nizzato da Roberto Pileri, FabioRonci, Andreina Santicchia eRoberto Stopponi.L’iniziativa ha riscosso un particola-re interesse considerate le temati-che trattate.

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Il monumento De BrayeDefleat hunc mathesis lex et decre-

ta poesis Nec non sinderesis heumihi que themesis.

Sono i versi centrali dell’epigrafe delmonumento De Braye, che celebranola memoria del defunto cardinaleauspicando che le discipline del saperecompiangano un uomo di così estesacultura. Ma prima del diritto civile, diquello canonico, della poesia, dell’eticae della filosofia è citata la mathesis, ossiail complesso delle arti del quadrivium:mathesis è matematica come scienzaesatta, comprendente aritmetica, geo-metria, musica ed astronomia. Sono lediscipline della misura, che preparanoalla conoscenza di Dio e avvicinanol’intelletto umano al verbo divino.Calzante e suggestivo, per il nostrocaso, il paragone di Boezio nel De insti-tutione arithmetica quando sostiene chelo studio dell’aritmetica è propedeuticoa quello della filosofia, e lo paragonaalla pietra senza forma dalla quale l’abi-lità dello scultore trae la sua statua: èl’arte sulla quale si fondano tutte lealtre, perché prepara la ragione a com-prendere i fenomeni naturali e intende-re l’arte del creatore. Hoc opus fecitArnolfus, conclude l’epigrafe: a legare idue personaggi, il defunto e lo sculto-re-architetto, saranno le scienze esatte,con le quali Arnolfo di Cambio orga-nizzerà, modulerà e controllerà dalpunto di vista formale ed intellettualela sua creazione artistica, mentre lacaricherà di significati religiosi e filoso-fici, quasi con la stessa sequenza dellediscipline, e quindi dei temi, che l’epi-grafe riportava.

Nei trent’anni che vanno dal 1262 al1292 Orvieto vive una vicenda ecce-zionale ed irripetibile: insieme a Romae Viterbo, con molta frequenza è sedepapale, riferimento politico ed insie-me culturale. L’elemento francese erapreponderante nella corte pontificia: aparte i papi di origine francese, eranofrancesi molti cardinali, dei quali unabuona percentuale proveniva dagliordini mendicanti, e tra i componentidel loro seguito vi erano numerosistudiosi di materie teologiche, filosofi-che e scientifiche. Li univa un’unicaformazione intellettuale derivantedalla frequentazione dagli studia pari-gini, dove i mendicanti stavano orga-nizzando il centro della loro attivitàpastorale e di pensiero (1). Le specia-lizzazioni più interessanti degli studio-si della corte papale, per quello cheriguarda l’architettura e le arti figurati-ve, furono quelle in ottica, con la pre-senza di scienziati come Campano daNovara e Witelo (2). Alcune soluzioniin chiese orvietane come S.Domenico, S. Maria dei Servi e ilDuomo stesso non sono comprensibi-li senza riconoscere l’apporto che que-sta nuova scienza stava dando alle artifigurative. L’ottica era la disciplina chestudiava il rapporto fra realtà fisica ele apparenze visive, i meccanismi con iquali il soggetto vede e interpreta laforma e le dimensioni degli oggetti, ecome si verificano le illusioni ottiche.Per quanto riguarda l’architettura, fuapprofondito il problema della perce-zione delle rette parallele, e si studia-rono accorgimenti per fingere, con lacostruzione di strutture convergenti odivergenti come la variazione didistanza degli intercolumni e dellequote di imposta degli archi dellepilastrate delle chiese, un allungamen-to o una dilatazione delle misure realidegli edifici, in modo da ottenerespazi più regolari di quanto sarebbero

apparsi. Si riscoprivano le calibratevariazioni degli architetti dei tempigreci: nel Duomo di Orvieto fu indi-viduato da Renato Bonelli l’andamen-to concavo delle pareti laterali percontrastare l’effetto di strapiombo sul-l’osservatore. Ma accanto ai sistemibasati sulle correzioni ottiche, la ricer-ca portò alla determinazione dei mec-canismi per creare speciali effetti pro-spettici, mirando ad attribuire alleopere, secondo un principio che fu diErone di Alessandria, le misure secondol’apparenza, puntando non all’armoniadi parti secondo la verità, ma all’armo-nia dell’occhio.La presenza in Orvieto di colti prelati,tra cui il cardinale Guglielmo deBraye, con una cultura internazionaleanche nel campo delle scienze, siriverberò sul concetto di architettura:per quella degli ordini mendicanti cisi orientò, come prescrivevano leConstitutiones, verso soluzioni poverema assolutamente non riduttive dellepossibilità di espressione formale, gra-zie all’introduzione di geniali soluzio-ni di innovativi motivi spaziali cheoccupano un posto importante nellastoria dell’architettura italiana del‘200. L’architettura medievale è unfiume innarrestabile di novità, creazio-ni, contaminazioni, libera dallepastoie degli ordini architettonici:organizza processi di progettazioneche interpretiamo come moderni per-ché si fondano sulla ricerca. Le chiesemendicanti di Orvieto non sono spo-glie chiese-fienile: realizzano soluzioniautonome, recependo dal gotico soloil linearismo generico dei contorni, esviluppano una concezione unitaria,quasi drammatica dello spazio inter-no. E’ lo spazio dell’umiltà, di forteimmediatezza come le predicazioniche vi si tenevano, uno spazio di reli-giosità semplice e diretta che si pone-va l’obbiettivo di ideare un edificiocomunitario che rispecchiasse vera-mente, con gesti artistici organici, l’al-ternatività storica dei mendicanti (3).Un’alternatività che ritroviamo sianella chiesa di S. Domenico che nelmonumento di Arnolfo di Cambio.I Domenicani si insediarono inOrvieto nei primi del ‘200. La datatradizionale della chiesa (1264) proba-bilmente si riferisce solo alla consacra-zione dell’altare, ma il completamentodella chiesa va spostato oltre la metàdegli anni ’80, anche in accordo connumerose tangenze scultoree dei capi-telli del S. Domenico con quelli delDuomo (4). All’esterno gli angoli deltransetto, della tribuna e delle paretidivisorie delle cappelle furono trattaticome pilastri a sezione rettangolarecon filari di basalto e travertino, moti-vo che appare per la prima volta aOrvieto e che sarà ripreso come ele-mento unificante nel Duomo, monu-mento a cui è collegato anche per unasostanziale identità dimensionale dellaplanimetria. L’edificio originario, oggiperduto salvo il transetto, era un gran-dioso ambiente a sala: il corpo di fab-brica longitudinale consisteva in trenavate, delle quali la principale artico-lata in sette campate coperte a tetto; lelaterali, separate dalla prima da pila-stri, erano larghe appena m. 2,02 ederano alte quanto la centrale.Probabilmente in questa tipologia,difficilmente assimilabile a quella diuna hallenkirche tedesca, le navatelaterali erano un involucro di passag-gio per contraffortare, sul muro longi-tudinale esterno, gli arconi che sullanavata collegavano i pilastri e su cui siimpostavano gli arcarecci del tetto, e

quindi rispondevano ad esigenze stati-che. Una sezione simile la troviamoverso il 1260 nella chiesa francescanadei Cordeliers a Tolosa: ricordiamo chea Tolosa i Domenicani avevano avutola loro sede iniziale e che negli anni’80, tra i molti cardinali francesi pre-senti a Orvieto, e appartenenti agliOrdini mendicanti vi era il domenica-no Hugues Seguin Aycelin, diNarbonne, dello stesso ambito cultu-rale e geografico di Tolosa. Dal puntodi vista spaziale il risultato corrispon-deva ad una dilatazione della navataprincipale, dando la sensazione di unospazio centrale estroflesso lateralmentee l’idea di un subordine sintattico conintenzioni prospettiche. Anticipiamoche la stessa cosa avviene nel monu-mento de Braye: lì i piani si sovrap-pongono a creare finzioni allusive diuna profondità diversa dalla reale. E’ molto importante ricostruire l’in-terno originario di S. Domenico, per-ché il monumento de Braye si spiegaanche con quella primitiva collocazio-ne dalla quale Arnolfo trasse motivispaziali ed artistici. Come quasi tuttele chiese mendicanti, e come ilDuomo di Orvieto, nell’ultima cam-pata della navata ed in quella centraledel transetto era posizionato il coro,che fu spostato nell’abside solo dopoil concilio tridentino, e che ancoraconserva, pur nella inquadratura aparaste rinascimentali, gli stalli gotici.Conosciamo, da descrizioni antece-denti alle rimozioni cinquecentesche, icori della chiese domenicane di S.Eustorgio a Milano e di S. MariaNovella a Firenze, dove la parete delcoro verso la navata era dettatramezzo, aperto in una porta e duefinestre attraverso le quali era possibileseguire le funzioni: sopra il tramezzoera ricavato il pulpito. Con la sistema-zione del coro era spesso in direttaconnessione un espediente ottico, chea S. Maria Novella si realizza con unallungarsi e poi un restringersi degliintercolumni della navata, e a S.Domenico di Orvieto con la divarica-zione delle linee longitudinali dellacampata centrale del transetto e dellacappella maggiore, in modo da farsembrare meno invasivo il posiziona-mento del coro grazie alla sensazionedi una più estesa dimensione trasver-sale: la soluzione, identica, è attuatanel Duomo. La chiesa, almeno per laparte absidale, non era assolutamentespoglia: durante recenti lavori direstauro sono venute alla luce nellacappella maggiore resti di parastedipinte con la bicromia delle muratu-re, immaginate in scorcio pseudo-pro-spettico ed intervallate da zone a fintimarmi (5). Quindi l’aspetto dellachiesa, così articolato e impreziosito,doveva suggerire la presenza di unordine religioso di grande potenza eimportanza; le pareti tuttavia non silimitavano a presentare inserti dipintima, in una sintesi nuova di architettu-ra e scultura, i monumenti sepolcralidei più valenti esponenti dell’ordine,che trasformarono la chiesa una sortadi Pantheon domenicano. Erano isepolcri di Ugo di San Caro, diAnnibaldo Annibaldi della Molara, diOddo di Chateauroux e di GuglielmoDe Braye, morto nel 1282.Quest’ultimo è l’unico sepolcro super-stite, seppur più volte smembrato,ricomposto, traferito e modificato inoccasione di varie ristrutturazionidella chiesa. Il sepolcro de Braye rappresenta unatipologia matura del monumentofunebre, nel solco che si era sviluppato

in Francia tra il XII e il XIII secolo(6). Inizialmente queste opere eranosistemate all’esterno delle chiese (comele arche degli Scaligeri a S. MariaAntica a Verona, e quelle sulla facciatae sul fianco di S. Maria Novella), ederano coperte con un arco, che verràmantenuto come elemento distintivodi un’immagine ormai acquisita edirrinunciabile anche quando il sepol-cro entrerà nella chiesa: arco superioree sarcofago che funge da basamento,con colonne e pilastrini, saranno sem-pre i capisaldi compositivi.Nell’ultimo quarto del ‘200 nellatomba di Adriano V a S. Francesco diViterbo compare la statua del pontefi-ce giacente, leggermente inclinata permigliorare la visibilità, con un baldac-chino composto da un frontone inter-ciso da un arco trilobo (gâble), condecorazione di riquadri in porfido eserpentino e formelle a mosaico diimpostazione cosmatesca. Nel monu-mento de Braye, Arnolfo tenne pre-sente questa tipologia, e la contaminòcon quella del ciborio a baldacchino:il risultato è un’opera dalla strutturaestremamente complessa e articolata(7). E’ una microarchitettura di pro-porzioni e segni classici, solenni, con-cepita entro un originale baldacchinoa muro ed articolata in quattro livelli.I tre inferiori comprendono un basa-mento a lastre con decorazionecosmatesca a mosaico, il sarcofagoentro una galleria di colonnine e para-ste binate in profondità, e la cameradel giacente, che contiene la statuasupina del cardinale ed è definitaverso l’esterno da un tendaggio chedue accoliti stanno mestamente chiu-dendo, e verso l’alto da un tetto apadiglione. Nella parte superiore, laVergine in trono è sollevata sopra l’e-pigrafe celebrativa; a fianco, con l’ico-nografia della Praesentatio, o

Commendatio animae, i santi Marco,che presenta l’anima del cardinale, eDomenico incrociano in alto i lorosguardi con quelli della Madonna.L’opera, specialmente oggi dopo ilrestauro e la ricomposizione critica, èil palese manifesto delle posizioni cul-turali di Arnolfo di Cambio, unasumma del suo messaggio artistico,volto a creare una sintesi fra antico egotico in uno stil novo. Formatosi nella bottega dei Pisano,Arnolfo aveva manifestato fin dagliesordi professionali, come le collabo-razioni nel pulpito del Duomo diSiena e nell’Arca di S. Domenico aBologna, una attenzione alla chiarezzadei volumi e ad una realistica indivi-duazione dei tratti caratteristici, reali-stici, dei volti, che ritroviamo nellaprima opera tutta sua, la Fontanaperugina in pede platee del 1277 (8).Ci restano cinque sculture presso laGalleria Nazionale dell’Umbria, duescribi e tre assetati (una vecchia, unagiovane ed un paralitico), nei quali èchiara la sua poetica di rappresenta-zione: un gesto, una linea riassumeun’intera figura, che si distende inner-vata da una linea decisa e sintetica.Ma nello stesso tempo la volumetriarimanda a quella di Nicola Pisano ealla trascrizione dei modelli antichi. Icinque rilievi sono i capisaldi del goti-co italiano, lo stil novo (9), che non èuna ripresa di temi gotici francesi, mauna vera e propria rivoluzione artisticaper l’attenzione al vero, alla gestualitàrealistica e drammatica, pur nellavolontà di fare della fonte una formaurbana, ma diversa da quella perfettadella vicina, ma più grande, fontanadei Pisano. Pur non conoscendo esat-tamente la fonte perugina di Arnolfonella sua forma originaria (fu smonta-ta già entro il 1308), possiamo intra-vedere le novità rispetto al prototipo

Il monumento De Braye prima dello smontaggio.Il primo livello presenta 4 lastre, il secondo 6 archetti.

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di Nicola per l’uso di calibrature otti-che finalizzate ad una visione unitariada punti di vista urbanisticamenteprefissati, e per la concezione di unospazio unitario, prospettico ante litte-ram.Questi temi ritornano nel monumen-to orvietano: sono entrambe operearchitettoniche dal ritmo equilibrato,monumentali, impostate sulla ricercadi una spazialità unitaria, comandatedal fascino della scultura classica dellaquale assimilano la volumetria com-patta. Temi più strettamente architet-tonici, che tornano anche ad Orvieto,probabilmente in contemporanea,Arnolfo li sviluppa nel ciborio di S.Paolo fuori le Mura (1284), in parti-colare nelle quattro statue angolarientro nicchie archiacute, ruotate di45° rispetto agli assi del baldacchino.Questo è un segno distintivo dellaidea spaziale arnolfiana: non risolverela visione dai soli punti di vista cen-trali o simmetrici, ma favorire il ruo-tare dell’opera, il suo staccarsi dagliassi compositivi longitudinali dell’edi-ficio che li ospita. Questa concezionediagonale dello spazio ritorna nellacappella del Presepe in S. MariaMaggiore (1290) dove la statuaria eraarticolata sia dentro che fuori una nic-chia rettangolare che si apriva all’in-gresso della basilica: la statua di S.Giuseppe usciva dalla nicchia in dia-gonale verso lo spettatore, e dallaparte opposta le faceva pendant un reMago inginocchiato accanto allo stipi-te della nicchia, con la schiena e lepiante dei piedi rivolte verso l’osserva-tore (10). Nel ciborio di S. Cecilia inTrastevere (1293) Arnolfo porta avantile scelte di S. Paolo, ruotando anche ibaldacchini gotici angolari sopra lestatue, e due anni dopo, nello scom-parso sacello vaticano di BonifacioVIII, demolito nel 1605 e conosciutoper i disegni di Domenico Tasselli,trasforma il coronamento in una deci-sa composizione gotica, con cupolaottagonale a piramide, conclusa da unlanternino e circondata alla base dagâbles e pinnacoli che formavano unafinta galleria. Questi brevi richiami alle altre operedi Arnolfo sono necessari per megliocomprendere alcune particolarità delmonumento de Braye che il restauroha evidenziato e, in qualche caso,riscoperto. Nell’ambito di questi temilegati alla spazialità ed alla profonditàprospettica diagonale, si è verificatauna scoperta davvero sensazionale dalpunto di vista architettonico.Seguendo e riproponendo corretta-mente gli incastri della parasta d’ango-lo del livello della galleria, e portandoanche sul fronte laterale il suo rappor-to di sfalsamento con la colonninad’angolo, si è ricostruita una soluzionebasata certamente sugli studi di ottica:uno sfalsamento delle paraste dei fian-chi rispetto alle corrispondenti colon-nine, in modo da creare una sorta diinfilata prospettica, per chi la osservadi fronte o in diagonale, e che fa per-cepire il monumento quasi come unoggetto a tutto tondo. La qualità arti-stica si arricchisce di una approfondi-mento della scienza ottica del tempo,tenendo conto dei punti di vista daiquali l’opera sarebbe di fatto stataosservata. Intanto, possiamo affermareche la collocazione originale delmonumento era nella navata lateraledestra: e di questo possiamo essernecerti, se consideriamo che solo inquella posizione il volto del giacentesarebbe stato rivolto, come di regola,verso l’ingresso della chiesa e lo sguar-do della Madonna si sarebbe collegatoall’altare, allo sguardo del Figlio. Laposizione più probabile era nellaseconda o meglio, nella terza campatadella stretta navatella. Infatti in quella

posizione, a chi entrava in chiesa, ilmonumento si svelava già in tutta lasua forza tridimensionale: attraversol’apertura laterale, e dell’arco centraledel baldacchino visto di tre-quarti,erano chiara le presenze del giacente edella Madonna, e con alcuni piccolicongegni prospettici (andamentoasimmetrico della tenda, sollevamentodel piede dell’accolito di destra similea quello del Mago di S. MariaMaggiore) si poteva cogliere la pro-fondità del costruito. Procedendo poilungo l’asse della chiesa nella navata,le asimmetrie prospettiche dellecolonnine dei fianchi approfondivanosempre di più il rapporto, ormai qua-dridimensionale, con lo spettatore.Per comprendere le novità compositi-ve derivate dal recente restauro delmonumento è necessario illustrare lametodologia in base alla quale si èsvolto l’intervento. Due gli obbiettividi questo: assicurare la conservazionedel monumento, e comprendernegenesi e storia. Il cantiere di restauro,come probabilmente quello di arnol-fiano, è stato organizzato comemomento di sovrapposizione dialetti-ca di diverse professionalità che hannoconcorso alla comprensione, tassellodopo tassello, di quella che era la logi-ca arnolfianaLo stato di conservazione del monu-mento, cioè la realtà con la quale ci siè dovuti confrontare, era oggettiva-mente problematico. L’ultimo rimon-taggio, o assemblaggio dei pezzi delmonumento avvenuto dopo lo smon-taggio prudenziale del 1944, avevapreso in considerazione le parti facil-mente amovibili che erano state rico-verate nel Museo dell’Opera per temadi incursioni aeree. Le parti furonopoi rimontate nel 1951, con l’uso dimateriali del tutto inidonei per unacorreta conservazione del monumen-to, quali cemento, gesso, grappe diferro, mentre per altre zone non fuprevisto né realizzato alcun tipo dicollegamento. Si presentava quindi la necessità diapprofondire il problema del collega-mento strutturale tra i vari elementicostitutivi, per verificare quanti, quali,e dove fossero gli inserti di tecnologieo materiali la cui presenza dovevaessere considerata inidonea alla con-servazione dell’opera d’arte. La primaoperazione è stata quella dello smon-taggio: ma in realtà le operazioni quiappresso descritte non vanno conside-rate come un elenco di attività che sisono svolte separatamente in stretta

successione cronologica, ma comemomenti, di riflessione e non solo dilavoro, la cui stretta interdipendenza èandata anche al di là delle scansionitemporali. Lo smontaggio è stato ese-guito con le stesse modalità e le stesseattenzioni di uno scavo archeologico:ogni operazione è stata documentataanche appuntando particolari che inquel momento avrebbero potuto esse-re ininfluenti, nella consapevolezzache invece avrebbero potuto in segui-to acquisire molti significati, se con-frontati o avvicinati ad altre informa-zioni. Per ogni pezzo è stata compilatauna scheda di rilievo, e la novità èstata che ogni scheda, con la sua seriedi dati geometrici, la decrizione deimateriali e delle modalità di lavorazio-ne, ed i collegamenti logici e struttu-rali con altri pezzi, è stata riportata susupporto informatico. Sono state per-tanto studiate tutte le 1200 facce dei200 blocchi lapidei del monumento,per catalogare tutti i modi e gli stru-menti usati nella lavorazione delmarmo: si è individuata una lavora-zione coerente con il momento creati-vo arnolfiano, distinta e separata darilavorazioni successive, opera dei varirestauri, e da quelle precedenti, dariferire ai recuperi realizzati daArnolfo sul mercato dei marmi anti-chi a causa della difficoltà di reperi-mento diretto in cava.Il tutto è stato finalizzato allo studiodelle logiche compositive e di collega-mento dei pezzi, cioè della grammati-ca e della sintassi delle tecniche litoto-miche. La dimensione operativa del restauroha preso piede, progressivamente,anche durante le fasi dello smontaggioe della documentazione. Tutte le fasihanno avuto come obiettivo una presadi coscienza del monumento e quindidel suo valore di opera d’arte attraver-so lo studio dei materiali costitutivi. Ilrilievo non è diventato un mero stru-mento di rappresentazione, utile soloper le fasi di contabilizzazione deilavori, ma si è autodefinito come unsistema di comprensione, in quanto,grazie al supporto informatico, ognipezzo è correlato con i suoi vicini econ i pezzi erratici conservatiall’Opera del Duomo, in modo daacquisire una serie di indicazioni utilinon solo per il rimontaggio fisico,quanto per la comprensione della sto-ria del monumento e dei suoi settesecoli di vita. La metodologia diapproccio si è rivelata quindi un per-corso simultaneo tra rilievo e restauro,

approfondito grazie anche ai risultatidelle ricerche archivistiche. I problemirimasti aperti dal punto di vista stori-co sono molto complessi: il monu-mento fu sicuramente smontato nel1680, quando la chiesa fu oggetto diun radicale restauro che coinvolse ilmonumento in quanto furono elimi-nate le prime tre campate della nava-ta, dove era posizionato originaria-mente. Fu ricostruito nella posizioneodierna in data imprecisata, ma nonin un’unica fase, in quanto la partesuperiore non compare in una descri-zione del 1750, quando si celebrò labeatificazione di Vanna da Carnaiola,

mentre viene disegnata, 70 anni dopo,dal Ramboux (11). La forte aporiarappresentata dalla sospetta non origi-nalità della composizione dei gruppistatuari superiori ha rallentato la con-clusione del restauro, necessitandouna ulteriore riflessione critica. E nonpoco aveva influito la rilettura di unasevera pagina di Renato Bonelli nellaquale si negava alla parte superiore ilvalore di opera d’arte, giudicando piùcorretta dal punto di vista del restaurouna riproposizione dei singoli elemen-ti statuari in termini museali, nellastessa chiesa ma staccati dal monu-mento (12). Alla fine ha prevalso lalinea di assicurare l’unità dell’opera,riconoscendo come valida, perchécomunque storicizzata, la sistemazionedel livello superiore, pur con piccoliaggiustamenti motivati dalla illogicità,come vedremo, di alcune soluzioni. In fondo la ricomposizione di tuttal’opera è stata in un’operazione dilogica, vuoi per l’acquisita coscienzadei criteri di composizione arnolfiana,vuoi perché i singoli pezzi si unisconosenza incastri complicati. Ingegnosa lapraticità sintetica di Arnolfo diCambio: non lavorando i pezzi in situ,eseguiva segmenti artistici facilmentericomponibili, in modo da garantirneuna collocazione agevole. Il giuntoarnolfiano è sempre una battuta sem-plice, il che ha permesso di rintraccia-re le giunzioni da ricondurre a fasisuccessive, che sono l’unghiatura a45°, la maschiettatura e la battutacomposta. Ogni pezzo originale arnol-fiano è sempre una sorta di L, checontiene lo spigolo del pezzo successi-vo, in modo da limitare al minimo leambiguità e gli errori di montaggio: lostesso meccanismo è stato studiato neicibori di S. Paolo e di S. Cecilia.Il recente lavoro di restauro ha portato

La modulatio ad triangolum della progettazione arnolfiana. Su una base di 12 piedi romani (ognilastra inferiore è larga esattamente 2 piedi), si imposta uno schema equilatero che determina lealtezze. In questo disegno la parte superiore è stata fatta corrispondere al culmine della cassa delgiacente, come probabilmente era nella sistemazione originale: in questo modo la modulazionedella parte superiore entra a far parte dello schema di progettazione e di controllo.

Il monumento dopo il rimontaggio. I 2 livelli inferiori passano a 5 e a 7 campate; nel fianco, continuando la logica di rapporto colonna-parasta del-l’angolo, il motivo si sfalsa creando una illusione di profondità prospettica.

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al risultato fondamentale della ricom-posizione del sepolcro con il numerodi partiture e campate originali. Equesto in quanto, analizzando il mate-riale erratico conservato presso ilMuseo dell’Opera del Duomo e che ilConsiglio ha concesso per la ricompo-sizione, ed altri pezzi ritrovati nellachiesa medesima e impiegati o comelapidi sul recto, o direttamente nelmonumento (secondo cuscino del gia-cente), si è compresa esattamente laprofondità dell’opera rispetto allaparete, così come la partitura originaledel fronte. Così 17 elementi erraticihanno ritrovato la loro collocazionenel monumento, e 70 elementi man-canti sono stati integrati con pezzi rea-lizzati in pietra d’Aquila.Nel particolare, il basamento è statoripristinato con cinque formelle (alposto delle quattro dell’ultima siste-mazione pervenutaci), e la galleria delsarcofago con sette campate, in luogodi sei. In architettura un numero paridi elementi, nel nostro caso di campa-te, vuol dire comporre con un pienoin asse, situazione di solito evitata.S. Girolamo, riprendendo tra l’altroun concetto virgiliano dell’ottava eglo-ca, affermava che numero Deus imparigaudet: ogni numero dispari è più per-fetto di uno pari, in quanto possiede,oltre ad un inizio ed una fine, un cen-tro che rappresenta quel legame dimediazione che riporta alla concordiapartium (13). Nel nostro monumen-to, la comprensione dell’esatto nume-ro di partiture è legato alla perfettacorrispondenza delle colonnine binateall’intradosso della cornice superiore(precedentemente, la ricomposizionesecentesca aveva fatto corrispondere acaso i due elementi), al tema dellosfalsamento prospettico della gallerialaterale e del riposizionamento dellecolonne tortili conservate nel Museoche reggevano la copertura a baldac-chino con le relative paraste a muro.Per le colonne tortili alle estremità delprimo livello, a cui è stata aggiunta labase come tutto lo stilobate della gal-leria, si era in presenza di un elementoinequivocabile, le incisioni preparato-rie sulla pietra sottostante che delimi-tavano la base, quasi come battituredei fili per la realizzazione di un affre-sco. La chambre du gisant è stata leg-germente allargata in profondità, cosaresa possibile dal giusto riposiziona-mento delle lastre laterali, in modoche la statua del cardinale ha potutoassumere un’inclinazione meno accen-tuata di quella della sistemazione pre-cedente; e, caso emblematico di comequella sistemazione seguisse più chealtro le regole della casualità, si sonoinvertite le lastre laterali dei panneggidella tenda: quella già collocata adestra, infatti, era nata a sinistra eviceversa.Per quanto riguarda la parte superiore,sono state apportate piccole modifichedovute a un leggero avanzamento edabbassamento della statua dellaVergine in modo da far corrispondereil capo, nella visione dal basso, in alli-neamento con il nimbo circolare suldossale di marmo. Tutto il corpo dellaVergine risulta ora proteso in avanti,visibile anche in posizione diagonalecome a suggerire la profondità dellospazio e la direzione dell’altare. La sta-tua della Vergine si è rivelata essere unesemplare tardoantico di fattura orien-tale, siriano, cipriota o cirenaico, cheArnolfo riutilizzò risemantizzandolada Cibele in Maria: e questa è statauna delle scoperte più inaspettate delrestauro (14). La mano destra dellaMadonna è correttamente posta con ilpalmo rivolto all’anima del cardinalepresentato da S. Marco, in gesto diintercessione, mentre prima, voltata, sipoggiava su una sfera del bracciolo: la

posizione odiena è quella originale,perché la mano, arnolfiana, si allineaal braccio della statua antica seguendola direzione di un primo scasso realiz-zato per la sistemazione di un perno,un tenone. La nicchie in cui erano rac-chiuse le due statue dei santi si sonorivelate riferibili ai lavori del periodo1750-1820: isolavano le figure, morti-ficavano le statue nel loro modellato enella loro espressività, impedendoquella sorta di sacra conversazione conla Vergine, quella comunicazioneattraverso gli sguardi che implicava uncontatto visivo diretto entro il trian-golo formato dalle figure in reciproca

relazione spirituale.Innovazioni tecnologiche hanno inte-grato il lavoro di pulitura, consolida-mento, stuccatura, equilibratura cro-matica e protezione finale dei materia-li lapidei. Sono state inseriti alcunisistemi in acciaio inox, delle gabbiestrutturali che raggiungono l’obbietti-vo di non eseguire perforazioni ocomunque lavorazioni di giunzionesugli elementi lapidei originari. Unprimo sistema è dentro la zona delsarcofago, e con distanziatori sostieneil loggiato e la cornice del secondolivello, lasciando libero lo spazio dellacassa; la statua del cardinale giacente,che presentava lesioni dovute allo spo-stamento della fine del ‘600, in quan-to era stata scavata internamente peralleggerirla e consentirne una miglioretrasportabilità, è ugualmente sorrettada un telaio di acciaio che permette dicalibrare la sua inclinazione. Infine,un meccanismo dello stesso tipo sor-regge le falde della camera del giacen-te, e due piccoli congegni metallicibloccano al muro le statue di S.Domenico e di S. Marco. E sonoanche sistemi che assicurano la rever-sibilità della sistemazione attuale.Del monumento si è perduta irrime-diabilmente la parte superiore del bal-

dacchino, del quale in realtà nulla sap-piamo. Possiamo istituire un utileparallelo con i cibori arnolfiani di S.Paolo e di S. Cecilia a Roma, e con latomba del papa Adriano V nella chie-sa di S. Francesco di Viterbo. Laprima soluzione comprende la succes-sione arco trilobato - architrave - fron-tone; nella seconda ci sarebbe un soloelemento, il gâble che Arnolfo cono-sceva fin dal periodo della sua collabo-razione con Nicola Pisano che loaveva inserito all’esterno del Battisterodi Pisa. La prima soluzione avrebbeavuta la quota di colmo maggioredella seconda; ma l’imposta dell’arco

sarebbe potuta partire più in basso, inquanto solo sul disegno in proiezioneortogonale gli elementi del baldacchi-no avrebbero potuto coprire quellidella zona interna, cioè la statua dellaVergine, mentre da una normale visio-ne dal basso il problema non si sareb-be posto. Il profilo superiore messo inopera con il restauro da poco termina-to è un soprasquadro appena accenna-to che emerge dal fondo del muro, efa riferimento alla soluzione viterbese,suggerendo un gâble. E’ stato sceltoper la semplicità di rappresentazionesul muro di un’ombra del prospettoanteriore, e vuole solo offrire la sugge-stione di una possibilità di chiusura,qui non spaziale ma superficiale. Ilsuo solo scopo è quello di dare unaconclusione ad un meccanismo chealtrimenti risulterebbe troppo aperto esfrangiato verso l’alto, cosa che assolu-tamente non accadeva nella situazioneoriginale.Il restauro ha potuto verificare la luci-da intellettualità della composizioneprogettuale, architettonica e scultorea.Ogni lastra del primo livello è largadue piedi esatti, e il fronte inferiore èlargo dodici piedi: il tutto si disponeper blocchi rettangolari e con un trac-ciato regolatore ad triangulum di veri-

fica della composizione e dei suoieffetti, sul quale si innestano i gestidelle statue dei reggicortina e deisanti. E questa razionalità, questofrutto della stessa mathesis del cardina-le, è il punto centrale della formazionedi Arnolfo: “si tende oggi a parlare diArnolfo quasi solo come scultore. E difatto egli fu scultore così come fu pittore.Ma in primo luogo fu architetto e soloin quanto architetto fu scultore e pittore”(15).Ma il risultato più eclatante della fla-granza del monumento è oggi la suatridimensionalità, mentre prima del-l’intervento appariva solo come unasorta di altorilievo disarticolato: è unascatola prospettica da cui emergono ipersonaggi che agiscono come in unadramma. La modulazione a parallele-pipedo della parte bassa significa lamorte, la modulazione a triangolo delsistema iconico delle statue dellaPraesentatio animae suggerisce l’eleva-zione verso la vita eterna, verso la sal-vezza che solo la Madonna, qui rap-presentata come Sophia, può assicura-re. La modulazione ad triangulum deltutto, con la partizione in dodici piedie quindi in dodici triangoli, si ricolle-ga alla Donna della Quarta visiodell’Apocalisse, con la corona aureastellarum duodecim, la corona delledodici virtù di Maria di cui avevanoscritto Alberto Magno, S. Tommaso ei quattro grandi domenicani, tra cui ilDe Braye, sepolti in S. Domenico. Edinfatti la corona della statua riseman-tizzata in Madonna presenta dodicisferette, cui fanno eco i dodici boccoliche escono dalla corona stessa, tuttiparticolari aggiunti da Arnolfo.Il significato religioso e morale dell’o-pera si ottimizza nella dialettica arnol-fiana fra opus antiquum e opus franci-genum (cioè lo stile gotico): la linea,grazie ai generosi fondi mosaicati, siestrae con evidenza, ed è una linea chemodula gesti e allude alle verità rivela-te quasi come una dimostrazionetomistica. E’ un’opera nuova, un’ope-ra dello stil novo, del gotico italiano,che possiamo avvicinare a quei basso-rilievi degli esempi di umiltà cheDante descrive nel X canto delPurgatorio (31-33):Esser di marmo candido e adornoD’intagli, sì che non pur Policreto,Ma la natura lì avrebbe scorno.

Raffaele Davanzo

(1) A. Paravicini Bagliani, La mobilità dellacuria Romana nel secolo XIII. Riflessi locali, inSocietà e Istituzioni dell’Italia comunale: l’esempiodi Perugia (secoli XII-XIV), I, Perugia 1988, pp.155-278. Mariano d’Alatri, Panorama degli stu-dia degli ordini mendicanti (Italia), in Le scuoledegli Ordini Mendicanti (secoli XIII-XIV), Attidel XVII Convegno del Centro di Studi sullaSpiritualità Medievale, Todi 1976, Todi 1978,pp. 49-72.(2) A. Paravicini Bagliani, Witelo et la scienceoptique à la cour pontificale de Viterbe (1277), inMélanges de l’Ecole française de Rome. MoyenAge-Temps Modernes, LXXXVII, 1975, pp. 425-453. F. Cecchini, Artisti, committenti e “perspec-tiva” in Italia alla fine del Duecento, in LaProspettiva, fondamenti teorici ed esperienze figu-rative dall’antichità al mondo moderno, Atti delCongresso Internazionale, Roma 11-14 settem-bre 1995, a cura di R. Sinigalli, Fiesole 1998,pp. 56-74.(3) A. M. Romanini, L’architettura degli ordinimendicanti: nuove prospettive di interpretazione,in Storia della Città, IV, 1978, n. 9, pp. 5-15.R. Bonelli, Una definizione per l’“ArchitetturaMendicante”, in Lo Spazio dell’Umiltà, Atti delConvegno di Studi sull’edilizia dell’Ordine deiMinori, Fara Sabina 3-6 novembre 1982, FaraSabina 1984, pp. 345-350. C. Bozzoni,L’edilizia degli ordini mendicanti in Europa e nelbacino del Mediterraneo, ivi, pp. 275-326.(4) R. Bonelli, La chiesa di S. Domenico inOrvieto, in Palladio, V-VI, 1943, pp. 139-151.A. Curuni, Architettura degli Ordini Mendicantiin Umbria. Problemi di rilievo. Orvieto, S.Domenico, in Francesco di Assisi. Chiese eConventi, Milano 1982, pp. 118-121. L.

Riccetti, Primi insediamenti degli OrdiniMendicanti a Orvieto. Note per una introduzionealla documentazione esistente, in M. RossiCaponeri, L. Riccetti, Chiese e Conventi degliordini mendicanti in Umbria nei sec. XIII e XIV(Archivi dell’Umbria. Inventari e ricerche),Perugia 1987, pp. XI-XXXI. D. M. Gillerman,S. Domenico in Orvieto: the date of construction,in Saggi in Onore di Renato Bonelli, Quadernidell’Istituto di Storia dell’Architettura, nn. 15-20,1990-92, a cura di C. Bozzoni, G. Carbonara,G. Villetti, I, pp.181-186.(5) R. A. Sundt, “Mediocres domos et humileshabeant fratres nostri”. Dominican Legislation onArchitectural Decoration in the 13th Century, inJournal of the Society of Architectural Historians,XLVI, 1987, pp. 394-407. (6) J. Gardner, Arnolfo di Cambio and RomanTomb Design, in Burlington Magazine, CXV,1973, pp. 420-439. A. Cadei, Scultura e monu-mento sepolcrale del tardo medioevo a Roma e inItalia, in Arte Medievale, s. II, II, 1988, n. 2,pp. 243-260. T. Iazeolla, Il Monumento fune-bre di Adriano V in San Francesco alla Rocca aViterbo, in Skulptur und Grabmal desSpätmittelalters in Rom und Italien, Atti delCongresso Scultura e monumento sepolcraledel Tardo Medioevo a Roma e in Italia, Roma4-6 luglio 1985, a cura di J. Garms, A. M.Romanini, Roma-Wien 1990, pp. 143-158. A.M. D’Achille, Il Monumento funebre diClemente IV in San Francesco a Viterbo, ivi, pp.120-142.(7) F. Paniconi, Monumento al CardinaleGuglielmo de Braye nella chiesa di S. Domenicoin Orvieto. Rilievo e studio di ricostruzione,Roma 1906. L. Fiocca, Monumento alCardinale Guglielmo de Braye nella chiesa di S.Domenico in Orvieto, in Rassegna d’Arte, XI,1911, pp. 116-120. A. M. Romanini, Nuoveipotesi su Arnolfo di Cambio, in Arte Medioevale,I (1983), pp. 157-202. A. M. Romanini,Arnolfo e gli “Arnolfo” apocrifi, in Roma Anno1300, Atti della Settimana di Studi di Storiadell’Arte Medioevale dell’Università di Roma,Roma 1980, Roma 1983, pp. 27-51. A. M.Romanini, Ipotesi ricostruttive per i monumentisepolcrali di Arnolfo di Cambio. Nuovi dati suimonumenti De Braye e Annibaldi e sul sacello diBonifacio VIII, in Skulptur und Grabmal desSpätmittelalters in Rom und Italien, Atti delCongresso Scultura e monumento sepolcraledel Tardo Medioevo a Roma e in Italia, Roma4-6 luglio 1985, a cura di J. Garms, A. M.Romanini, Roma-Wien 1990, pp. 107-128. V.Pace, Arnolfo a Orvieto: una nota sul sepolcro deBraye e sulla ricezione dell’antico nella scultura delDuecento, in Saggi in Onore di Renato Bonelli,Quaderni dell’Istituto di Storia dell’Architettura,nn. 15-20, 1990-92, a cura di C. Bozzoni, G.Carbonara, G. Villetti, I, pp. 187-194.(8) G. Cuccini, Arnolfo di Cambio e la fontanadi Perugia “pedis plateee”, Perugia 1989. V.Garibaldi, B. Brillarelli, Note sulla fontana “inpede fori”, in Arte Medievale, s. II, IV, 1990, n.2, pp. 195-197.(9) A. M. Romanini, Il “dolce stil novo” diArnolfo di Cambio, in Palladio, I-IV, 1965, pp.37-68. A. M. Romanini, Arnolfo di Cambio e lo“stil novo” del gotico italiano, Milano 1969.(10) F. Pomarici, Il Presepe di Arnolfo diCambio: nuova proposta di lettura, in ArteMedievale, s. II, II, 1988, n. 2, pp. 155-175.(11) I. Hueck, Le copie di Johann AntonRamboux da alcuni affreschi in Toscana e inUmbria, in Prospettiva, 1980, n. 23, pp. 2-10. (12) R. Bonelli, Un quesito di restauro: il monu-mento de Bray, in Bollettino I.S.A.O., I, 1945, n.2, pp.9-13.(13) H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattrosensi della scrittura, Roma 1972.(14) P. Réfice, Per una lettura del Monumento deBraye, in Arte Medievale, s. II, II, 1988, n. 2,pp. 141-152. A. M. Romanini, Une statueromaine dans la Vierge De Braye, in Revue del’Art, CV, 1994, pp. 9-18. P. Réfice, Pulchra utluna. La Madonna De Braye in San Domenico aOrvieto, Roma 1996.(15) A. M. Romanini, La sconfitta della morte.Arnolfo e l’antico in una nuova lettura del monu-mento de Braye, in Bonifacio VIII e il suo tempo,Anno 1300, il primo giubileo, a cura di M.Righetti Tosti-Croce, Milano 2000, pp. 24-50.A. M. Romanini, Arnolfo architectus, in Studi inonore di Giulio Carlo Argan, Firenze 1994, pp.71-82. A. M. Romanini, Arnolfo pittore. Pitturae spazio virtuale nel cantiere gotico, in ArteMedievale, s. II, XI, 1997, nn. 1-2, pp. 3-33.

Il restauro è stato completato dallaSoprintendenza per i Beni Architettonici, ilPaesaggio, il Patrimonio Storico, Artistico eEtnoantropologico dell’Umbria, nel mese diagosto del 2004, sotto la dirigenza della soprin-tendente dottoressa Vittoria Garibaldi. Direttoridei Lavori: Giusi Testa, Luciano Marchetti,Raffaele Davanzo, con la collaborazione diMarcello Caricchi, Andrea Taddei e MassimoAchilli. Ditte appaltatrici: Pelucca Samuele,C.B.C., Consorzio Artesistemi.

La ricostruzione del Paniconi (1906)

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

CARDETOVINI DI ORVIETO

Il vino bianco di Orvieto ha origini antichissime: veniva infatti giàprodotto dagli Etruschi che avevano scavato cantine nel massiccio tufa-ceo tipico di quella zona e qui lasciavano a fermentare il loro vino perparecchi mesi, ottenendo un aroma dal residuo zuccherino che lo ren-deva particolare. Ne veniva praticato il commercio sia via terra cheattraverso i fiumi Paglia e Tevere. Da Etruschi e Romani fu esportatosin nelle Gallie. Più tardi venne prodotto nei terreni pontifici e fu pro-tetto dalla Chiesa che se lo garantiva per le messe (Paolo III Farnese neera particolarmente ghiotto).

L’ “Orvieto” fu lodato da poeti, artisti e uomini insigni, tra cui ilPinturicchio, il quale, chiamato a dipingere in Orvieto, pretese percontratto che gli fornissero “tanto vino quanto fosse riuscito a berne”.I maestri che lavoravano nella cava di Monte Piso per strarre e sbozza-re la pietra da impiegare nella costruzione del Duomo di Orvieto,acquistavano periodicamente delle quantità di vino negli anni tra il1347 ed il 1349. Ancora memorabili restano i “rumori” sollevati adOrvieto ed in altre città dalle maestranze per avere il vino gratis. Gliorari di lavoro prevedevano delle soste a metà mattina ed a metà pome-riggio per le bevute di “mistu”, forse acqua e vino.

La stessa Opera del Duomo lo elargiva nelle grandi occasioni, comeil compimento dei lavori importanti o per richiesta del capo maestro,come documentano i contratti di lavoro dell’epoca. Per esempio, inquello stipulato da Luca Signorelli nel 1500 per la realizzazione degliaffreschi, si richiede espressamente che l’Opera consegni all’autore ognianno 12 “some” di vino (circa 1000 litri).

È un vino apprezzato dai grandi conoscitori, come Philip Dallas,autore di un bel libro sui vini d’Italia (“Orvieto’s wine is, like Frascati,Chianti, ecc., one of Italy’s best known wines abroad ... it is the ideal

wine to share while initiating a young lady in to bacchic delights”) oAlexis Lichine, grande esperto francese di vini (“vin blanc délicieuxd’Italie. C’est un de ceux dont la qualité est la plus constante”).

L’ “Orvieto” è ottenuto dalla vinificazione di diverse varietà di uvedi origini antichissime e selezionate nel corso dei secoli: il Procanico, ilVerdello, la Malvasia, il Grechetto, e il Drupeggio. AncheChardonnay e Sauvignon inseriti con l’ultima modifica del disciplina-re.

Oggi predomina la versione secco, ma continua la tradizione dellaproduzione di Orvieto Abboccato, Amabile e Dolce. Esiste una versio-ne derivata da uve sovramature attaccate da Muffa Nobile, BotrytisCinerea, che conferisce al vino caratteri unici di concentrazione ed ele-ganza.

Nelle mattinate d’autunno, generalmente, si forma una fitta nebbiache favorisce lo sviluppo su grappoli di questa muffa particolare che sinutre dell’acqua contenuta nella polpa degli acini e che dilata i poridella buccia senza romperla, provocando così l’evaporazione quando igrappoli si riscaldano ai raggi del sole. I mosti che si ottengono sonoquindi molto zuccherini, ricchi di glicerina, che conferisce al vino unaparticolare untuosità, con concentrazione di tutti i componenti aro-matici.

La raccolta di queste uve avviene con molto ritardo ed è eseguita inpiù tempi successivi, al fine di ottenere il completo verificarsi del feno-meno. Circa la metà del raccolto va a scomparire sotto forma di acquaevaporata, ma la qualità vuole i suoi sacrifici.

Questo straordinario processo si verifica solamente in rare zone incui le condizioni climatiche lo consentano: nel Sauternes in Francia,nel Tokai in Ungheria, nella Valle del Reno in Germania enell’Orvietano in Italia. In proposito esiste una vasta letteratura.

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In occasione della manifestazione“Tarquinia a porte aperte: un

museo nella città”, organizzata dalComune - Assessorato alla Cultura,con il patrocinio della Provincia diViterbo e della Regione del Lazio, siè tenuto un incontro sull’attività delpittore Annibale Angelini (Perugia1810-1884) in Umbria e Lazio, inparticolare in diversi palazzi diOrvieto e Tarquinia. Durante l’Ottocento molti artistiprovenienti da varie parti dello StatoPontificio, quasi tutti usciti dalleAccademie di Belle Arti di Perugia edall’Accademia di S. Luca di Roma,vennero più volte in queste due cittàper dipingere e restaurare i vari edifi-ci appartenenti alle ricche famigliedella nascente borghesia imprendi-toriale. Da Perugia, dove si era formatosotto la guida del pittore TommasoMinardi e di Giovanni Monotti,Annibale Angelini partì in cerca diimportanti commissioni. Dopo averlavorato nella sua città per il conteperugino Marcantonio OddiBaglioni, amico di molti nobiliromani, come Filippo DoriaPamphilj e Alessandro Torlonia oltrenaturalmente al Minardi, all’età disoli ventotto anni dipingeva il palaz-zo Negroni di Orvieto (sede delTribunale), decorazioni rese note daAlberto Satolli nel 1995. Questa di Orvieto fu una tappasignificativa, perché Angelini era allavigilia della sua fruttuosa carrieraromana, che lo portò a dipingere erestaurare presso lussuose residenzedi Roma e provincia fino alla vigiliadella sua sconparsa. Dopo il 26 febbraio 1839, partìinfatti per Roma insieme con la gio-vane moglie, la marchesa peruginaEsterina Antinori e con loro portaro-no il quadro ad olio con il Duomodi Orvieto, (conservato presso idepositi della Galleriadell’Accademia di S. Luca di Roma).Il quadro viene citato in una letterascritta dal conte Oddi Baglioni aTommaso Minardi, con la quale gliraccomanda il giovane pittore che èin partenza per Roma in cerca dinuovi lavori: “Mio Caro Minardi l’EsterinaAntinori con suo marito Angelini,vengono in Roma, e vi porteranno lapresente: Io voglio che Le facciate delBene, ma Bene vero, e sostanziale.L’Angelini ha un quadro, ed è la copiadel Duomo di Orvieto…Esso bramadi lavorare, e farsi conoscere in casaTorlonia e c’è molto desiderioancora…”. Annibale Angelini è ancora presentead Orvieto il 28 maggio 1841, epocain cui il vescovo di Orvieto, cardi-nale Antonio Francesco Orioli(1778-1852) – vescovo per nominadi papa Gregorio XVI dal 1833, car-dinale dal 1838 - , scriverà per il pit-tore Angelini una lettera di buonacondotta civile e morale. La continua protezione del Minardie del principe Doria fece sì che l’arti-sta ricevette numerosi incarichi daparte di molti altri nobili romanicome i Doria Pamphilj, i Patrizi, gliAldobrandini, i Corsini, i Torlonia,i Borghese oltre naturalmente aipontefici Gregorio XVI, Pio IX eLeone XIII . Tra i committenti di Angelini c’eraanche re Carlo Alberto di Savoia, ilquale, durante l’esposizione presso la

Sala del Popolo a Roma, vide il qua-dro con il Duomo di Orvieto(dipinto nel 1838) e decise di com-missionarne una copia all’artista,oggi dispersa. Certamente CarloAlberto ammirò molto il modo didipingere dell’artista così da nomi-narlo pittore ufficiale di Casa Savoia.Angelini ottenne anche un’altraimportante nomina, quella di profes-sore di Prospettiva Geometria edOttica presso la Scuola romana di S.Luca, dove insegnò dal 1850 al1874. Per ottenere l’incarico, presen-tò alla Commissione una lettera contutti i lavori svolti fino a questa data,lettera conservata presso l’Archiviodell’Accademia. Insieme con la lette-ra presentò anche il suo Trattato diProspettiva, corredato da numerosetavole, dove sono riprodotti moltidei suoi numerosi interventi di deco-razione e restauro e alcune delle suescenografie. Il Trattato venne pubbli-cato nel 1861, adottato comemanuale in tutte le Accademie dalMinistero della Pubblica Istruzione. Dopo aver lavorato a lungo presso ledimore principesche romane e nelresto della provincia pontificia,all’indomani del 18 agosto 1858, ilpittore Annibale Angelini giunseper la prima volta a Tarquinia perdipingere “ex novo” alcune sale delpalazzo Bruschi Falgari.La famiglia Bruschi era una delle piùrappresentative dell’antica Corneto,l’attuale Tarquinia. Presente in que-sta città fin dal XVII sec., con unpatrimonio terriero nell’Alto Laziocontinuamente incrementato, rice-vette, nel 1788, l’eredità della fami-glia Falgari, aggiungendo al proprioanche questo cognome; nel 1835assunse anche quello dei Quaglia,grazie al matrimonio tra MariaGiustina, sorella del cardinaleAngelo Quaglia, con un componen-te della famiglia. I Bruschi FalgariQuaglia divennero conti nel 1863,epoca in cui Pio IX decise di conce-dere questo titolo.Così i conti Bruschi Falgari entraro-no a far parte dell’ambiente papalinoe sull’esempio dei ricchi mecenatiromani iniziarono a ristrutturare eabbellire tutte le loro proprietà, sia a

Tarquinia che a Civitavecchia.Quando poi la famiglia si estinse allafine del secolo scorso, il Palazzo diresidenza passò, nel 1983, alComune di Tarquinia. Certamente il cardinale AngeloQuaglia, fratello della contessaMaria Giustina Bruschi Falgari,conosceva molto bene l’Angelini,che nel 1858 lavorava per Pio IXnella Sala dell’ImmacolataConcezione in Vaticano, nella qualeeseguiva la decorazione degli ornatisulla volta e tutte le parti architetto-niche degli affreschi che celebranoappunto l’Immacolata, eseguiti dalpittore Francesco Podesti tra il 1857e il 1861.Dopo gli anni Cinquantadell’Ottocento, molti esponenti dellanascente borghesia imprenditorialedell’Alto Lazio e dell’Umbria chia-marono l’Angelini per abbellire leproprie residenze secondo il gustotipico delle grandi realizzazioniromane del Cinquecento; modello diriferimento è Raffaello delle Stanze edelle Logge al Vaticano e la villaFarnesina di Agostino Chigi; traquelli che affidano all’Angelini dellecommissioni , vi sono: il conte FabioPandolfi e il conte Claudio Faina aOrvieto; i Bruschi Falgari Quaglia aTarquinia e i Graziani Monaldi diPerugia; oltre naturalmente a tuttigli illustri borghesi che ad Orvieto,associati in un Consorzio, chiamaro-no Angelini e la sua scuola per farsidipingere il nuovo Teatro comunalenel periodo compreso tra il 1863 e il1866.L’antica abitazione della famigliaFalgari sorge nel centro storico dellacittà di Tarquinia e venne fattaristrutturare per volere della vedovaBruschi Falgari, Maria GiustinaQuaglia, dall’architetto cameraleVirginio Vespignani (Roma 1808-1882), fratello dell’arcivescovo diOrvieto monsignor Giuseppe MariaVespignani. La fama dell’architettoera molto diffusa in tutto l’ambientepontificio, infatti il Vespignani si eragià occupato di molti lavori a luicommissionati da Pio IX. Nel 1855,terminava il Teatro dell’Unione diViterbo e stava lavorando ad Orvieto

dove in questi stessi anni l’architettoromano si stava occupando dellacostruzione del nuovo teatro, inizia-to nel 1853 e portato a termine nel1862, per il quale si servì nel cantie-re della collaborazione dell’orvietanoGiacomo Paniconi, suo allievoall’Accademia di S. Luca. GiacomoPaniconi, nel 1855, lavora accanto alVespignani anche nel PalazzoBruschi Falgari di Tarquinia. Nel marzo 1855, Vespignanicostruisce una nuova sala nell’anticaabitazione della famiglia Falgari eprocede alla ristrutturazione dellafacciata verso la sede vescovile;costruisce inoltre, un nuovo porticonel cortile e vengono riedificateanche le volte di alcune sale dell’abi-tazione. Tutti i disegni dell’apparatoarchitettonico vennero eseguiti dal-l’architetto romano, il quale venneretribuito dalla contessa con lasomma di 594 scudi. Al termine deilavori architettonici, restava da chia-mare un decoratore per dipingere lanuova sala, la galleria e le volte dellealtre stanze appena ristrutturate.L’incarico venne così affidato adAngelini, suo collega all’Accademiadi S. Luca.Da un lettera di Maria GiustinaBruschi Falgari, scritta da Siena il 18agosto 1858 al pittore Luigi Fontana(Monte S. Pietrangeli /AP 1827-Roma 1908), allievo di Minardi eresponsabile di tutti i lavori di casaBruschi Falgari, sappiamo che l’arti-sta perugino stava per giungere insie-me al Vespignani a Tarquinia. Lacontessa incaricava il Fontana diprovvedere all’”alloggio” perAngelini e per i suoi giovani aiuti edinoltre lo incaricava di dargli unprimo acconto di scudi 200 per ivari lavori da eseguire nella sua abi-tazione di Tarquinia. Alla fine diagosto Angelini iniziava così le deco-razioni delle nuove sale del palazzo,mentre il Vespignani proseguiva ilavori architettonici.I due, però, eseguirono alcune opere

di loro iniziativa senza tenere contodegli accordi presi con la contessa ecosì, il 31 agosto 1858, MariaGiustina Quaglia, indignata di que-sto loro comportamento, scriveva

ancora a Luigi Fontana: “Sento quanto mi dite del PittoreAngelini e del Conte Vespignani, masu ciò non rispondo niente giacchéquesti Signori una cosa dicono e l’altrafanno per cui è meglio non occuparse-ne e riguardo ad Angelini vi è ilContratto e non mi allontano da quel-lo. Vi raccomando tutta la premuraperchè venghino al più presto ultimatele vernici, onde al nostro ritorno incaso ne abbiamo a soffrire tanto inco-modo...”. La contessa affermava che il suodesiderio era di veder terminati tuttii lavori prima dell’inverno 1858, maprobabilmente le cose si prolungaro-no dato che risulta dai documentiche il palazzo venne terminato neldicembre del 1859 e per tutti i variinterventi venne retribuito dalla con-tessa con la somma di 1387 scudi.Angelini per dipingere il palazzo siserve della collaborazione delPasquini e del giovane AugustoChiapparelli, romano che operaaccanto al professore perugino anchein altri palazzi. I disegni per le nuove decorazionipreparati dall’Angelini venneroapprovati dall’architetto romano,come accadrà qualche anno più tardiper la decorazione del teatro orvieta-no.La prima ad essere dipinta è la voltadella galleria che venne iniziata nelmese di agosto 1858. Qui sono rappresentati dei motivineorinascimentali, paesaggi e corbeil-les di fiori su uno sfondo di cielo cheimita un pergolato, motivo questoparticolarmente diffuso nelle decora-zioni settecentesche delle sale giardi-no delle ricche dimore romane. Ilpergolato continua anche sulle pare-ti, dove tra fasce decorate a grotte-sche sono rappresentati dei trompe-l’oeil che riproducono il territorio diTarquinia, mentre il resto delle pare-ti è decorato con riquadri a fintomarmo, grottesche, fiori e con figuremaschili e femminili tipiche del lin-guaggio neocinquecentesco romano,che ritroviamo in molte opere delpittore. La grande sala adiacente alla galleria,costruita anche questa dall’architetto

Annibale Angelini: le decorazioni ottocenteschenei palazzi di Orvieto e Tarquinia

Orvieto, Museo Claudio Faina. Decorazione a tempera particolare del fregio con i possedimenti della Famiglia Faina - Ex Sala Rossa Annibale Angelini e Scuola (1865 c.)

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Vespignani e decorata sulla volta,ripartita in forme geometriche, conmotivi ornamentali di gusto neori-nascimentale dipinti a grisaille e oroe alternati da quadrati contenenticoppie di allegri puttini con vestisvolazzanti, strumenti musicali efiori. In basso sono delle lunette dipintecon corbeilleis di fiori, desunti anchequesti dal pergolato settecentescodelle sale giardino delle dimoreromane e altre lunette dipinte configure allegoriche in oro. Il tutto ècontornato da cornici a finto marmoe vari motivi ornamentali, tipici delgusto neobarocco.Sule pareti invece, dipinte anche

queste a grisaille, sono presenti delledecorazioni a grottesche in fintostucco, anche queste tipiche del lin-guaggio neocinquecentesco romano.La volta della cosiddetta “Cameralarga” è suddivisa in forme geometri-che e presenta una decorazione digusto neopompeiano, con fasceornamentali, paesaggi e grottesche econ effetti di luce ed ombra, cometeorizzato dall’Angelini nel suoTrattato di Prospettiva (pubblicatonel 1861). Le altre sale si trovano sul lato dellafacciata principale, costruita anchequesta dal Vespignani.Nella cosiddetta “Cameretta” trovia-mo sulla volta una decorazione neor-

nascimentale con fiori, grottesche epaesaggi in prospettiva. La voltadella cosiddetta “Anticamera” invece,è suddivisa in forme geometrichedipinte a grisaille e oro, nella qualesono presenti motivi decorativi digusto neobarocco come cariatidi,putti, cammei e vari elementi orna-mentali e anche qui Angelini hamesso a punto le sue conoscenze diluce ed ombra creando degli effettiparticolari. L’ultima sala è detta“Camera di cantone” dipinta sullavolta ancora con gli stessi elementi,oltre a paesaggi in prospettiva cheriproducono il territorio circostanteo, forse, i possedimenti della fami-glia Bruschi Falgari, secondo quel

L’amore per l’arte della ceramica èstata trasmessa a Michele e Paolo

Golia, dal nonno Umberto Tiberi(1908-1991), che sin da giovanissi-mo maturò una vera e propria pas-sione per il tornio, tanto da entrare alavorare alla fabbrica dei Vascellariper Pericle Perali, diventando unabilissimo riproduttore di vasi.Michele e Paolo proseguono il lavo-ro iniziato dal nonno, percorrendo,però, strade diverse ma parallele, nel-l’arte della ceramica.A tutti gli effetti possono definirsiartisti-artigiani, conservando quelsapore di antico e di saggio nelleloro botteghe, che distano pochimetri l’una dall’altra ma con caratte-ristiche proprie. Dopo un primo ini-zio insieme, dal 1991 al 1995, deci-dono di dividersi, dando forza,ognuno a suo modo, al loro lavoro,alla loro arte.Michele inizia un percorso interpre-tativo della scultura in terracotta,che lo conduce alla realizzazione di

forme scultoree dalla linea essenziale,mantenendo tecniche di lavorazionee cottura archeologiche. Decidendo di non adottare un dise-gno preparatorio, ritiene ogni scultu-ra prototipo della seconda, lascia chesia la forma a condursi nello spazio,con una sua volontà.Le sue opere possono essere interpre-tate da ognuno di noi, anzi, possonodivenire interpreti di noi, del nostrostato d’animo, del nostro statussociale; siamo liberi di riconoscerciin loro, di avvicinarle in gruppi, didividerle o di isolarle. Le sue scultu-re rappresentano la società, le debo-lezze degli uomini, le mille sfaccetta-ture dell’essere umano, svincolate daqualsiasi reticolo di corrente artisti-ca, frutto della sola sensibilità delloro creatore.Alla sapienza antica, Michele affian-ca la sperimentazione moderna, rea-lizzando sculture, ibridi di tecnicheartistiche di varia natura: dal buc-chero alla terracotta rossa, dal raku

La creta, le mani: un’arte in sintesiTecniche tradizionali e moderne sperimentazioni

alla fusione in bronzo, in un conti-nuo evolversi, mutare, creare, cam-biare.Entrando nella sua bottega siamocircondati da oggetti che ci parlano,che ci osservano e che ci è difficile, anostra volta, non osservare, nonammirare. La voglia e l’amore per ilsuo lavoro gli permettono di sfidarele difficoltà oggettive che incontra divolta in volta, spingendolo a guarda-re anche oltre le mura orvietane,partecipando ed esponendo a mostrein vari Paesi europei, lavorando oltreOceano per mettersi in gioco e per-ché la fiamma della sua creativitànon si spenga.Di una personalità più intima, timi-da e schiva, ma di un’altrettanta bra-vura e capacità nel ricreare formevascolari etrusche e greche, è dotatosuo fratello Paolo. Incanta vederlolavorare al tornio, dare forma ad unamateria povera ed umile come lacreta, vestendola di eleganza e bellez-za senza tempo.

L’idea che ha dell’arte è lineare edefinita, come le forme dei suoi vasi:pochi concetti che definiscono per-fettamente il suo modo d’intenderel’arte e di farla. Ama i vasi etruschi egreci, perché espressione di un’esteti-ca funzionale, di perfezione, dipadronanza dei materiali, di tecnicaed equilibrio, ma soprattutto di sim-metria, un aspetto fondamentalenella lavoro al tornio.Per lui è “motivo di orgoglio ripro-porre, minuziosamente, quello che,secondo la critica di ogni tempo, èidealmente perfetto; il tutto nelpieno rispetto di quelle che sono leradici della nostra cultura e delnostro sapere”.Non può certo definirsi, la sua, unariproduzione fine a sé stessa, ma uncontinuo creare, per trasmettere ilpassato al presente ed al futuro. Laqualità dei suoi prodotti è nello spes-sore sottile, sinonimo di un’elevatacapacità tecnico-artistica, a cui anchei greci e gli etruschi davano grande

importanza.Il colore nero dei vasi in bucchero cipermette di gustare con gli occhi epercepire con le mani l’eleganzadella linearità delle forme che occu-pano uno spazio senza più tempo:belle, attuali, moderne come anti-che, sono pezzi unici che arredano ecompletano, abbinandosi a qualsiasitipo di esigenza e di gusto.Per Paolo: “Tutto ciò che è benfatto, è arte”, sicuramente il loro èun artigianato artistico degno diattenzione e di nota, ed ancor resopiù affascinante dal fatto che a rea-lizzare queste creazioni sono dei gio-vani ragazzi che hanno fatto delleproprie mani, uno strumento dilavoro e a cui, spero, molti giovani siavvicineranno, perché è tutto unmondo da scoprire e che può appar-tenere a tutti.

Claudia Piccini

Tarquinia, Palazzo Bruschi Falgari. Decorazione a tempera della parete destra della Galleria. Annibale Angelini (1858).

gusto diffuso nei palazzi dei ricchimecenati romani che in questo seco-lo amano far dipingere dai pittori leloro proprietà, su modello dei fregiseicenteschi romani.Troviamo una raffigurazione similenella ex Sala Rossa del palazzo Faina,oggi sede del Museo, dove ClaudioFaina volle far dipingeredall’Angelini e dalla sua equipe alcu-ne delle sue proprietà sparse tra ilterritorio orvietano e quello perugi-no (1865c.).L’attività di Angelini a Tarquiniaprosegue ancora: il 21 luglio 1862,infatti, la contessa Bruschi Falgarichiama di nuovo il pittore perrestaurare alcune sale del palazzo

Quaglia situato di fronte alla chiesadi S. Pancrazio, fatto ristrutturaredal capo mastro Pietro Vanni e dal-l’architetto Giovan BattistaBenedetti. Pochi mesi dopo Angelini, nel set-tembre 1862 , prende i primi con-tatti con il presidente del Consorzioteatrale di Orvieto, il conteTommaso Piccolomini, e sappiamoche tra i vari artisti impegnati incittà e tenuti fermi in attesa di ini-ziare le decorazioni del nuovo teatrovi era proprio un pittore diTarquinia. Un anno dopo, quandoil pittore perderà la moglie Esterina,lo troviamo ancora a dipingere erestaurare nel palazzo della famigliaQuaglia, ma purtroppo di questiinterventi non rimane più niente. L’ultimo suo lavoro a Tarquinia èdocumentato nel gennaio 1868,epoca in cui invia al cardinaleAngelo Quaglia il conto per lo stem-ma della famiglia. Il 26 gennaio1868, un giovane aiuto di Angelini,Ludovico Demauro, riceve cinquescudi dal cardinale Quaglia per ilavori nel suo palazzo. E’ certa lapresenza di Ludovico Demauroanche ad Orvieto, nel palazzo delconte Claudio Faina. In questopalazzo (vedi www.bta.it, C.Pettinelli, La decorazione murale diAnnibale Angelini nel palazzo Fainadi Orvieto, luglio 1999) è emersa lafirma di Demauro su una delle fasceornamentali, in una parete dell’exSala Rossa: essa permette di afferma-re che, sia a Tarquinia che adOrvieto, il pittore si avvalse dellacollaborazione di Demauro e forse èlui il famoso “pittore di Corneto”citato nella lettera al Piccolomini del1863, e quindi attivo anche al teatrodi Orvieto. Certamente sia a Tarquinia che adOrvieto, Angelini e la sua scuola dif-fusero il gusto decorativo neocinque-centesco e neobarocco molto di modain tutte le ricche abitazioni di Roma eprovincia fino alla fine degli anniOttanta dell’Ottocento. Questo gustocontinuerà a diffondersi non solonegli interni di Tarquinia e Orvieto,ma in tutta l’Umbria meridionale eAlto Lazio per molti anni ancora, gra-zie ai pittori dell’Accademia di S. Lucadi Roma e dell’Accademia di BelleArti di Perugia.

Claudia Pettinelli

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Nel mese di aprile, la città haospitato un’interessante mostra

pittorica alla chiesa di S. Rocco, inPiazza del Popolo, Aurelio Bruni haesposto alcune sue significative pro-duzioni. L’artista, di origini viterbesi,vanta una lunga carriera in campopittorico e musicale. Le sue opere,risentono influssi barocchi, conrichiami ai Fiamminghi, per conce-dersi vicinanze palesi alle esperienzeromantiche europee, con eccezionalirisultati nella ritrattistica.Di recente il pittore umbro sta con-ducendo una personale ricerca arti-stica orientata verso l’iperrealismo,che lo colloca decisamente in oppo-sizione alle più attuali pendenzeespressive del nostro tempo. Ilrichiamo del passato mescolato conl’odierno genera interessanti edapprezzate realizzazioni.

Quando e come nasce il suo interesseper la pittura?Difficile rispondere con precisione.Non mi sovviene una circostanzaconcreta che mi abbia fatto scoprireun interesse specifico per la pittura.Ricordo da sempre il “vizio” di dise-gnare; ciò che vedevo e ciò cheimmaginavo: le articolazioni di unamano, il tronco di un albero, unfrutto, oppure un drago, una monta-gna cava abitata da bizzarre creatu-re…A ben pensarci credo che la pitturafaccia parte della mia natura; piutto-sto non riesco a immaginarmi nonpittore e mi mancherebbe il contattoquotidiano con gli attrezzi, i mate-riali, l’odore gradevole dell’olio dilino, la rituale pulizia dei pennelli, ilcampo di battaglia di una tavolozza(la mia è una lastra di marmo) su cuidisporre in bell’ordine piccole quan-tità di colore secondo la loro gerar-chia, proprio come diligenti e corag-giosi soldati prima dello scontro.Come il sacerdote deve celebrarealmeno una messa al giorno o fare iconti quotidiani col suo breviario,così io devo sporcarmi un po’ dicolore; vorrei farlo di più, ma le con-

tingenze della vita mi concedonosolo determinati spazi. E quelli nonli spreco.In compenso, la mente può lavorarecon più continuità per fortuna; puòosservare interpretare immaginarescegliere soluzioni, elementi questi,preziosissimi poi nel trasmutare ilpensiero in pittura.Chi si affaccia da una finestra, vedeil panorama che si offre ai suoiocchi: se lo guarda, può capirlo egoderne, ma deve essere disposto afarlo. La finestra del pittore è la suatela bianca, e il panorama che guar-da lo vede soltanto lui. Se vuole ren-derlo visibile ad altri, deve raccontar-lo: con i suoi mezzi, i suoi contenu-ti, il suo stile, la sua sensibilità, conla sua unicità. Per questo la pittura èinfinitamente varia, proprio perchéogni volta è un racconto diverso.Altro discorso è che poi questa siaanche condivisa. E qui purtroppoentrano in ballo complicati meccani-smi culturali, sociali sensoriali, perfi-no etici che sovente finiscono perinibire deviare confondere o, piùsemplicemente, rendere distante ilfruitore dall’opera d’arte (il che èancora più grave).Ritornando alla domanda iniziale,posso dire che se non individuo uninizio di interesse per la pittura, nerilevo una crescita costante, suppor-tata e alimentata dall’osservazionequasi maniacale dei grandi artisti delpassato, primo fra tutti Rembrandt.

Come interpreta il processo evolutivodella sua produzione artistica e cultu-rale?Tempo fa andai a Vienna a vedere iBrueghel. Restai molto tempo inquella sala, fino alla chiusura. Queidipinti sono così belli, che la con-templazione dell’uno richiama quelladegli altri; e più che da tante fine-stre, sembra ci si affacci da unaimmensa balconata che apre a 360gradi: cambia l’azione, si attenuanoo prevalgono certe luci, si privilegia-no alcuni particolari ma la sostanzarimane quella, meravigliosa e subli-

me. I diversi quadri, anche se dipintia distanza di anni, sono facilmentericonducibili alla stessa formidabilemano. Ma in fondo era inevitabile.La bottega ti forgiava secondo unaforma mentis codificata e rassicuran-te. Ci si aspettava da te, pittore,quello che puntualmente davi,magari con un grado più o menoalto di eccellenza e genialità.Con l’arte moderna tutto cambia.Spariscono le botteghe, ci si isola allaricerca affannosa del nuovo a tutti icosti, ci si rannicchia in “ismi” chedurano poco e sono in antitesi; lamano che disegnava un tempo siimpigrisce e rasenta l’atrofia, l’occhionon guarda più ciò che vede madeforma, contorce, taglia, distrugge;l’accademia del “bello” viene croci-fissa e i suoi adepti perseguitati. Cosìavanti, fino al caos di oggi…Pietro Annigoni, importante pittorerealista del Novecento e costante-mente sotto il mirino dei critici, eraconvinto che “…le opere dell’avan-guardia d’oggi sono il frutto avvelenatodi un degrado spirituale con tutte leconseguenze di una tragica perditad’amore per la vita”. Non mi sentotroppo distante da questo pensiero.

Quali riconosce come suoi principaliriferimenti estetici?Sono figlio di questo tempo, e se levie dell’arte contemporanea non lepercorro volentieri, un mio sentierodovrò pur batterlo per andare avanti.Ma con una convinzione: che l’arti-sta debba sempre essere l’interpretedel “bello”, e l’affinamento della tec-nica e della padronanza dei mezzi alsuo servizio. Umilmente.Artigianalmente. Cercando prima diridare dignità all’occhio, che possariappropriarsi del fine per cui è statoprogettato, cioè osservare; solo gliocchi e un determinato atteggiamen-to mentale creano in embrione un’o-pera, sta al pittore poi concretizzarladandole forma colore e anima. Ilrisultato deve essere tangibile e con-creto, senza dar troppo spazio allaparola che rischia di sovrapporsi a

quanto “detto” con la pittura che persua natura è immagine, non chiac-chiere. Oltretutto la parola può con-dizionare o addirittura fuorviare.Oggi purtroppo succede spesso, e,per quanto mi riguarda, preferiscoche il mio lavoro possa essere piùguardato che discusso.Tornando alla domanda, il mio pro-cesso evolutivo è debitore a diversimaestri del passato, e a parte l’inizia-le interesse per il surrealismo diMagritte (guarda caso un realista,nella forma) il mio innamoramentoè rivolto alla pittura di Caravaggio eRembrandt ossia, per dirla conGiovanni Arpino, l’Ulisse e l’Eneadell’avventura pittorica seicentesca;ma non posso non riconoscere for-mativa in me, tutta la pittura fiam-minga tra quattrocento e cinquecen-to sulla cui tecnica prodigiosa, intes-suta su sapienti trasparenze, mi sonoforgiato. Naturalmente l’elenco siestende anche ad artisti di epochepiù recenti, e per essere estremamen-te sintetici, includerei senz’altroFriedrich e Turner.Circa la mia pittura, la si potrebbesbrigativamente definire realista. Edin pratica lo è.Mio interesse e costante ricerca è iltentativo di rendere il più fedelmen-te possibile la superficie esteriore deisoggetti, la loro “pelle” perché essipossano però far immaginare la loro

struttura interna e quindi la loroanima; un acino d’uva deve apparireper quello che è in apparenza, con lasua scorza vellutata e magari contracce di verderame, ma deve anchesuggerire il suo contenuto fatto diseme e succoso nettare. Un vasod’argento deve essere guardato per lasua forma, per i soggetti dei suoisbalzi, ma è interessante capire ancheciò che può contenere o che imma-gini esterne si riflettono sulla sualuminosa apparenza. Poi c’è lacostruzione, l’invenzione; ossia lamessinscena degli oggetti-soggetti,che, una volta “collocati”, comincia-no a convivere in situazioni ancheparadossali, allegoriche, simboliche osurreali, magari collegati da lacci,nastri, assicelle di legno, cercando dioffrire all’osservatore, in piena liber-tà, la possibilità di percorrere il suoitinerario mentale, oltrepassando iconfini delle forme, entrarci dentro,girarci attorno, svelare un messaggionascosto e poi magari proseguire nelpaesaggio di fondo, come un instan-cabile viaggiatore senza tempo.Ambizioso, forse. Sì: ma non io,quanto piuttosto quello che vogliodalla mia pittura. E necessariamenteintransigente. Capisco la mia posi-zione anacronistica e pericolosamen-te demodé, ma è quello che sento difare.

F.M. Della Ciana

L’iperrealismo di Aurelio Bruni

Paesaggio con viandante - Olio su tavola 70 x 50

Aurelio Bruni nasce a Blera (VT) il 15 ottobre 1955.Vive e lavora in Umbria. Si diploma in Scenografia all’Istituto d’Arte diSpoleto e dall’età di 19 anni inizia a dipingere sistematicamente ad olio,praticamente da autodidatta in quanto questa tecnica non veniva eserci-tata a scuola. Parallelamente svolge attività di musicista, dopo il diplomadi Trombone conseguito presso il Conservatorio di Musica “F.Morlacchi” di Perugia. Prevale in lui la passione per la pittura e con unacerta continuità organizza e partecipa a mostre collettive e personali chea tutt’oggi sono numerose e sempre più proiettate oltre i confini nazio-nali. La pittura di Bruni muove da radici surrealiste ma col tempo siorienta verso un intimismo lirico e simbolico, supportato da una politez-za del segno e una ricercata preziosità e valenza del particolare. Glioggetti animati ed inanimati acquisiscono pari dignità e la resa quasiiperreale e manierista della loro “materia” esterna è solo il velario dietrocui scorgere, ad una lettura più profonda, l’essenza della loro anima.

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Nel mese di settembre 2004,presso una sede del tutto origi-

nale, la cattedrale di S. MariaAssunta, “La Canonica”, consacratanel 1119 dall’arcivescovo di Pisa inprossimità del sito archeologico diMariana, comune di Lucciana a circa15 km a Sud di Bastia, in Corsica, siè svolto un congresso dedicato albilancio delle ricerche archeologichecompiute tra il 1998 e il 2003, effet-tuate nell’area pertinente al comples-so paleocristiano del sito. A tale pro-getto hanno partecipato numerosistudiosi provenienti da tutta Europa,facenti parte di Università e Centridi Ricerca. Gli argomenti trattatidurante le giornate di studio e diaggiornamento hanno riguardato losviluppo topografico di tutta la zonae le diverse classi di manufatti chehanno permesso di aver un quadrocompleto e complesso, ancora in fasedi analisi, con l’inquadramento dellaCorsica inserita nel contesto delMediterraneo. Nelle prossime cam-pagne di scavo l’obiettivo sarà infattiquello di osservare la Corsica e leisole del Mediterraneo in un approc-

cio archeologico diacronico deglispazi e delle società insulari nell’anti-chità.E’ necessario premettere che le cam-pagne di scavo effettuate a Mariana,nell’ambito del Projet Collectif giàmenzionato, si pongono nella dina-mica di una ricerca territoriale e cro-nologica molto ampia la quale rag-gruppa circa venti centri di ricercauniversitari francesi ed italiani. Loscavo stesso ha inoltre uno scopodidattico, rivolto in particolare aglistudenti specializzandi del PontificioIstituto di Archeologia Cristiana diRoma, nonché a studentidell’Università della Corsica e dinumerose altre Università francesi editaliane ed europee in generale.Nelle ultime due campagne di scavo,svoltesi nei mesi di settembre – otto-bre, a Mariana, per la prima voltanell’Isola, in ambito archeologico edin via del tutto sperimentale, sonostati accolti dei detenuti, inquadratidall’équipe di ricerca che si occupadel “Projet Collectif de RechercheMariana et la Basse Vallée du Golo”,diretto dal prof. Philippe Pergola,

directeur de Recherche nel C.N.R.S.francese e docente di Topografia del-l’orbs antiquus al Pontificio Istitutodi Archeologia cristiana di Roma. Lacittà romana di Mariana, fondata daMario nel I sec. a. C., è probabil-mente in età imperiale il maggiorcentro urbano dell’Isola, assieme adAleria. Il Comune di Lucciana, pro-prietario del sito archeologico gesti-sce in prima persona la logisticadello scavo ed ha voluto sperimenta-re, in base alle leggi dello Stato fran-cese, la possibilità di recupero e rias-sorbimento di detenuti in lavori cul-turalmente utili. Il lavoro program-mato per i detenuti è di tipo manua-le, con intervento sul campo. I dete-nuti impiegati in tali lavori scontanopene minime e sono impegnati nel-l’ultimo periodo di detenzione. Essisvolgono la loro opera oltre che sulloscavo anche in lavori socialmenteutili, come assistenza ad anziani incase di riposo, o giardinaggio neiparchi comunali.Dal momento che, chi scrive, ha vis-suto tale esperienza direttamente sulsito ed in prima persona con tutte le

gioie e le difficoltà della quotidiani-tà, sente la necessità di render notoche, per quanto riguarda l’inseri-mento dei carcerati, le problemati-che che di volta in volta si sonodovute affrontare spesso risultavanopiù onerose rispetto a quanto sipotesse pensare. Da parte deiresponsabili di scavo è stata necessa-ria una vigilanza che in nessunmodo urtasse la sensibilità dei carce-rati e che nello stesso tempo li aiu-tasse a riabilitarsi. Tutto il team hadimostrato una buona volontà diaccoglienza e un desiderio di inseri-mento dei detenuti. Essi per quantotrascorressero gran parte della lorogiornata fuori dal carcere, dovevanomantenere una condotta piuttostorigida, malgrado gli archeologi nonfossero tenuti in alcun modo adessere i “guardiani” del loro compor-tamento. Ad esempio durante lapausa-pranzo non potevano assume-re alcolici, non potevano ricevere néincontrare parenti, amici o cono-scenti né tantomeno far uso di tele-foni cellulari o effettuare telefonate enaturalmente dovevano sempre tene-

re un comportamento che non fossesoggetto a richiami di alcun tipo.Essi dovevano prestare servizio nonsolo per i compiti che riguardasserostrettamente il cantiere, ma anchemansioni inerenti il lavoro nel depo-sito in cui è raccolto tutto il materia-le archeologico che di volta in voltaè recuperato durante lo scavo. Tuttele attività nelle quali essi eranoimpegnati riguardavano lo scavo.Certamente l’esperienza si considerapositiva poiché ha permesso di con-frontare gli operatori archeologicicon una realtà del tutto differenteche consentisse il reinserimento nelmondo del lavoro.Durante le prossime campagne discavo si continueranno ad “ospitare”nuovamente dei detenuti poiché,tale iniziativa costituisce un buonrisparmio del contribuente sullamanodopera retribuita e un ottimomodo per agevolare rapporti socialiall’interno di due universi profonda-mente lontani e differenti.

Rosangela De Acutis

Mariana e la bassa Valle del Golo. Bilancio delle ricercheL’Archeologia al servizio della reintegrazione socio-lavorativa di detenuti del carcere di Borgo (Corsica)

Testimonianze e memorie dell’Alto Orvietano

Genii loci ficullesiNell’incontro presieduto da Mario Morcellini rievocate

le figure di Giuseppe Tedeschini-Romani e di Evaristo Moretti

Una storia collettiva si sta proget-tando a Ficulle, una storia che

sarà scritta a più mani, un impulsoche si è precisato dopo la morte didon Rinaldo Magistrato, parroco diFiculle dal 1966 al 2002, grandesostenitore nel “mettere ordine” nellanostra memoria. Il professor Mario Morcellini, presi-de della Facoltà di Scienze dellaComunicazione dell’Università diRoma “La Sapienza”, è il promotore eil coordinatore di questo progetto sulquale trovano posto l’economia e lacultura del territorio, la nascita delComune, e quindi la storia civile esociale; il sorgere delle numerosechiese, e dunque la religiosità, le con-fraternite, le tradizioni, il dialetto; ificullesi illustri come MonacoGraziano, fondatore del diritto cano-nico nel Medioevo. Il 30 dicembre 2004, si è tenuta unaconferenza nella Sala Polivalente delComune una conferenza su alcunefigure emblematiche del tempo passa-to che hanno scritto, parlato diFiculle. Alla conferenza sono interve-nuti: l’avvocato Lanfranco Bianconi,il professor Giuseppe Della Fina, laprofessoressa Immacolata Graziani, ilprofessor Eligio Pandolfi, il sindacoBernardino Ciuchi. Ha coordinato laconferenza il professor MarioMorcellini. Il professor Della Fina haaperto gli interventi previsti dallaconferenza, soffermandosi su Evaristo

Marsili, nato a Fabro nel 1873 emorto a Roma nel 1961, insignepedagogista e autore di manuali sco-lastici per la scuola italiana degli inizidel ‘900, particolarmente legato affet-tivamente ad Orvieto e a Ficulle. Eproprio a Ficulle avrebbe pensato,come ha ricordato Della Fina, per lastesura di una storia del paese, unastoria che però non è stata più ritro-vata, ma che giace ancora nellamemoria di che ha avuto la fortunadi conoscerlo e di parlare con lui diOrvieto ed del suo contado.L’avvocato Bianconi, discendente del-l’illustre ficullese Giuseppe TedeschiniRomani, ha ricordato la vita delcanonico e i suoi scritti, il professorPandolfi si è soffermato in particolaresul capolavoro del Tedeschini “IMonumenti, le Glorie ed i Tempi diMezzo di Ficulle”, illustrandone alcu-ni temi ed argomenti. GiuseppeTedeschini Romani, nasce a Ficulle il24 maggio 1816 da famiglia bene-stante, frutto di una unione tra unaRomani, ficullese da sempre, e unTedeschini, discendente di una fami-glia della zona di Parrano che abitavada tempo a Ficulle. Impiegato nelramo delle cancellerie civili e crimina-li del Governo Pontificio, ma nonsappiamo dove, né quando, né perquanto tempo, svolse questa sua atti-vità.Il 19 maggio 1839 convola a nozzecon la signorina Rosa Manetti diCapodimonte. Dimorò alla Badia diSubiaco dove svolse le funzioni diagente generale degli Affari Abbaziali,segretario e consultore degli AffariEcclesiastici dal 1867 al 1873. Il 13settembre del 1885, quando aveva 69anni, gli muore la moglie e l’indoma-

ni dei funerali, parenti e amici, nonpotettero che costatare la sua scom-parsa da Ficulle, con destinazioneignota a tutti. Dopo tre mesi ilTedeschini torna a Ficulle e il 6dicembre 1885 fu ordinato sacerdotecanonico nella cappella delle SacreReliquie. Del canonico abbiamo diverse pub-blicazioni, la piú nota e importante èquella che ha per titolo “IMonumenti, le Glorie ed i Tempi diMezzo di Ficulle”. Attualmente è l’u-nica storia scritta sul paese. Un’altrapubblicazione è uno studio storico suuna probabile visita di San Francescosul territorio ficullese; una terza pub-blicazione è intitolata “Ficulle e i SuoiCelesti Patroni, ossia l’insigne tesorodella Santa Cappella delle SacreReliquie in Ficulle…” Altre numeroseopere inedite sono presenti nell’archi-vio della Parrocchia. Attraverso questiscritti si possono ricostruire pezzi distoria di famiglie, abitudini, perso-naggi, modi di vivere di Ficulle. L’avvocato Bianconi ha concluso l’in-tervento sottolineando che il“Canonico” ha utilizzato le sue doticon tutte le sue forze spinto da tregrandi amori: per la Chiesa, per lasua terra e per le sue genti, o, comediceva lui, “per la Santa Chiesa, perl’amata Ficulle e per i suoi dilettificullese.” L’altro ficullese che ha contribuito

con i suoi studi a mantenere viva lamemoria storica del paese è il profes-sor Evaristo Moretti, presentato nelcorso della conferenza dalla nipote,professoressa Immacolata Graziani, laquale si è basata molto sul filo dellamemoria personale e di quella diquanti lo hanno conosciuto, in quan-

to del Moretti rimangono pochissimetestimonianze scritte. Nato a Ficullenel 1880 da piccoli proprietari terrie-ri, fu avviato agli studi classici dallozio sacerdote e al termine degli studiliceali si iscrisse alla facoltà di lettereantiche di Roma. Dopo aver parteci-pato alla prima guerra mondiale,insegnò negli anni venti e trenta neilicei classici parificati a Spello, adAscoli Piceno, Narni, Spoleto eBevagna. Si ritirò, quindi, a Ficullenella casa paterna dove, con unasorella vedova, trascorse la sua vec-chiaia fino alla morte, avvenuta nel1967.E’ dalla fine della seconda guerramondiale che comincia la sua presen-za attiva nella comunità ficullese.Ricoprì per qualche anno la carica dipresidente della Cassa Rurale e a luifu dato spesso l’incarico di redigere idiscorsi per le cerimonie ufficiali civilie religiose. Nel ‘46 attiva a Ficulleuna scuola media privata, per consen-tire soprattutto ai ragazzi più biso-gnosi di non abbandonare gli studidopo le scuole elementari. A partiredai primi anni ’50 fu autorizzato dalProvveditorato agli studi di Terni adistituire a Ficulle una scuola privata diavviamento professionale di tipo agra-rio. La sua attività a livello pubbliconella comunità ficullese, viene attesta-ta dalle epigrafi da lui composte perle lapidi in memoria di Mons.Pipparelli, del 1944, posta accantoalla porta principale della Collegiata,quella per l’ottavo centenario delDecretum Gratiani, posta sulla faccia-ta del Palazzo comunale e quella peril monumento ai caduti. Queste testi-monianze rivelano l’uso di un lin-guaggio fortemente letterario con

frasi sonore, artifici verbali, voli e pre-cipizi pindarici… insomma tutte lerisorse della retorica. Tuttavia nonsono immagini verbosamente fosfore-scenti, ma l’espressione appassionatadel desiderio di evocare e di daresuono, con romantico sortilegio, allevoci dei padri per restituire a lezionedi vita il pensiero e le azioni degli avie volgere ad ammaestramento i ricor-di.Numerosi, inoltre, sono gli articoli

da lui redatti, già a partire dagli anniventi, per giornali nazionali quali “IlCorriere d’Italia”, “Rinnovamento” elocali quali “L’Osservatore dellaDomenica”. Infine vale la pena illu-strare la sua opera di “storico locale”:molte sono le opere edite ed ineditequali gli studi topografici su Narni,Otricoli, Terni, Amelia, Carsulae,Todi, quelli sulla vita di BonifacioVIII o su Cola di Rienzo, opuscoli suSan Franceso e sempre sul santo un’o-pera pubblicata a Bevagna.Il primo lavoro che indirettamente siricollega alla storia del territorio diFiculle è “La Via Cassia e la via NovaTraiana a Vulsiniis ad finesClusinorum”, edito ad Orvieto nel1925, in cui sono confluite granparte delle sue ricerche per il lavorodi tesi ma che è anche frutto di unaseria ricerca archeologica. L’analisistorico - geografica dei due importan-ti sistemi viari dell’antichità romana epoi medievale fornisce elementi

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

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CHIESA DELLA MADONNA DELLA MAESTÀLe più antiche e certe notizie della chiesa risalgono ai Resoconti delle Visite Pastorali degli inizi del 1600.La chiesa, in quel periodo, è già centro di grande devozione e, nel documento del 1616, viene nominata,per la prima volta, con l’appellativo di Maestà ( “sub titolo Majestatis” ). Il titolo è indubbiamente legatoalla raffigurazione della Madonna col Bambino su un trono di nubi, tra Angeli e Santi, affrescata sullaparete di fondo.L’attuale aspetto è il risultato di vari e successivi interventi: la piccola cappella d’origine, ingrandita nel1848, subì una radicale trasformazione nel 1890 con l’edificazione di una chiesa gemella.Nel 1926, abbattuto il muro di divisione, venne unificata la copertura delle due costruzioni, mentre, nel1980, si rese necessario, per motivi di restauro e conservazione, il distacco dell’affresco.La corona che cinge la testa della Madonna - quella visibile è una copia dell’originale aureo - è stata dona-ta dalla popolazione del paese, in segno di ringraziamento, per la scampata distruzione, dopo la secondaguerra mondiale.Nell’antisacrestia è collocata una tela raffigurante la Madonna Addolorata, posta in adorazione nel 1799.Molto forte e particolare è la devozione che i Ficullesi nutrono verso la Madonna della Maestà, festeggiata

ogni anno il 21 novembre, quando folle di devoti, anche dai paesi vicini, accorrono alle celebrazioni liturgiche, che si svolgono ininterrottamente per tutta lagiornata.

CHIESA DI SAN CRISTOFORONei Resoconti delle Visite Pastorali, la chiesa viene ricordata, per la prima volta, intorno alla metà del 1700.Il quadro d’altare raffigura la Madonna di Loreto, sulla cui dalmatica sono effigiati vari paesini e castelli del territorio con uno stemma gentilizio, forse della fami-glia perugina degli Antinori , che vantava sulla chiesa lo “jus patronato”.Presso lo stemma, a sinistra, è raffigurato, in ginocchio, un cardinale.Al 1855 risale la tela di S.Cristoforo, Santo eponimo della chiesa che ha la curiosa caratteristica di essere vestito con i colori della bandiera italiana.

CHIESA DI SANTA VITTORIALa Chiesa, la più grande delle due esistenti all’interno del nucleo originale del Castello, faceva parte della vecchia cinta muraria del paese.All’interno, sulla parete sinistra, restano tracce di affreschi che, forse, ricoprivano tutte le pareti. Un frammento più esteso sembra parte di una Natività.La chiesa, da sempre, risulta dedicata a Santa Vittoria; l’immagine della Santa, probabile residuo di un affresco più grande, è collocata all’interno della sagoma diun altare barocco, sulla parete di fondo. Dopo la seconda guerra mondiale, in seguito al danneggiamento di una trave, la chiesa fu ridimensionata con l’abbattimento di una capriata e l’arretramentodella facciata.Attualmente è chiusa alle celebrazioni liturgiche e destinata a sede di incontri.

CHIESA DELLA MADONNA DELLE GRAZIEQuesta chiesa e l’attiguo convento, edificati con materiale proveniente dal Convento di S.Francesco al Monte ( incendiato nel 1351 ), sorsero in questo luogo,trail 1580 e il 1587, presso una cappella che custodiva un’immagine raffigurante la Madonna del Giglio. L’affresco, di delicata fattura tardo-gotica, è stato successivamente distaccato e collocato sull’altare maggiore: la Vergine ha in grembo il Bambino e in una manoun fiore, probabilmente il giglio, da cui deriva il nome.La chiesa presenta una navata unica, con due cappelle sul lato destro. Nella prima si può ammirare una Crocifissione con S.Francesco e S.Felice da Cantalice, sutela, risalente al XVII secolo. Nella seconda, una grande tela raffigurante la Sacra Famiglia, riproduzione del quadro omonimo del Murillo, conservato al Museodel Prado.In un piccolo vano, ricavato tra le due cappelle, è collocata una statua lignea di Scuola Napoletana, raffigurante Gesù Bambino.Nel coro sono conservate diverse tele con Santi francescani, probabilmente opere di un frate pittore vissuto nel ‘700 e una tela raffigurante la MadonnaAusiliatrice, dipinta da Alfredo Silvestri che fu uno dei fondatori e il primo presidente della Casa della Divina Provvidenza per il Riposo della Vecchiaia sorta nel1924. Tale istituzione è tuttora ospitata presso l’ex convento adiacente alla chiesa.Sulla parete sinistra si trova una tela raffigurante S.Antonio da Padova col Bambino Gesù benedicente: è ciò che resta di un quadro più grande che, intorno al1940, fu distrutta da un incendio.

CHIESA DI SANTA MARIA VECCHIAAntica Pieve, già esistente nel 1290, come lascia supporre il catasto di Orvieto. Dopo la costruzione diS.Maria Nuova, dal 1616 tutte le celebrazioni parrocchiali vennero trasferite nella chiesa all’interno delpaese e l’antica Pieve, progressivamente, decadde; fu riservata, infatti, soltanto a luogo di sepoltura e a spo-radiche celebrazioni liturgiche. Quando, in seguito ad una epidemia, intorno al 1820, il cimitero fu trasfe-rito, la chiesa fu pressoché abbandonata e il vescovo Vespignani la chiuse al culto, sconsacrandone l’altare(metà dell’800). Durante la seconda guerra mondiale fu trasformata, per breve tempo, in magazzino daiTedeschi.Di stile tardo-romanico con archi gotici, all’interno conserva un altare romano, dedicato da TiberioClaudio, figlio di Tiberio (prima metà del I secolo d.C. ), al dio Mitra, un tempo adibito a fonte battesi-male o ad acquasantiera [foto 1]; di esso si ignora l’esatta provenienza nell’ambito del territorio di Ficulle,anche se, secondo alcuni, sarebbe stato rinvenuto nei sotterranei della chiesa.Oggi la chiesa si presenta come frutto dei restauri degli anni ‘50 del ‘900, quando, nel recupero, furonotolti gli intonaci ed imbiancate le pareti laterali. Restano, tuttavia, alcuni affreschi: sulla parete destra, unmartirio di S. Sebastiano del XIV secolo [foto 2], una raffigurazione del Rosario del XVII secolo e unSanto Pontefice risalente al 1476. Si conserva anche una pregevole tela del ‘600, raffigurante la Beata Vergine del Carmelo [foto 3].Sulla parete sinistra si possono ammirare la raffigurazione della Madonna del Rosario con S. Domenico e S. Pietro Martire [foto 4], che aprono il manto sotto ilquale si rifugiano i devoti, di fattura quattrocentesca, e due Santi Monaci [foto 5], non identificati, al lato della nicchia, dove era conservata la pregevole statualignea della Madonna Assunta (secolo XV), trafugata nel 1982 [foto 6].

CHIESA DI SANTA MARIA NUOVAEdificata nel 1606, come sussidiaria della Pieve di S. Maria Vecchia, divenne Collegiata intorno alla metà del ‘700. Unalapide, custodita nella sacrestia, testimonia che fu costruita “ in Comodum Populi”, cioè per comodità della popolazioneresidente all’interno delle mura,e consacrata nel 1610.Di stile tardo-rinascimentale manierista, è attribuita all’illustre scultore e architetto orvietano Ippolito Scalza (1532-1617).La sua costruzione è caratterizzata da uno stile solenne e semplice. Nella pianta, perfettamente centrale, se si eccettuano letre cappelle di fondo, e nell’ uso delle decorazioni architettoniche risalta la fedeltà ai moduli classici rinascimentali.Sovrastrutture contrastanti sono il pulpito, in stucco colorato, addossato ad un pilastro,e la pesante cantoria in legno,imbiancata a calce sulla parete d’ingresso. Dell’organo del tardo ‘500, proveniente dalla Chiesa di S. Agostino di Orvieto, siconserva ancora la tribuna. Nella navata di sinistra, dopo il fonte battesimale, in finto marmo policromo di buona fattura,l’altare di S.Giuseppe [foto 1], con la statua del Santo in cartone romano. In fondo alla navata, la cappella del S.S.Sacramento, decorata da F. Scalza, con l’altare allestito dalla Confraternita omonima, a cui si deve anche la collocazionedella tela dell’Ultima Cena [foto 2], attribuita dal Calderini al manierismo romano.A metà della navata destra si trovano l’ altare del Rosario [foto 3], costruito dalla Confraternita omonima, sopra al qualesono visibili, su tela, i Misteri del Rosario che circondano la statua della Madonna. In fondo alla navata, la cappella, fino al1860 dedicata a S. Carlo Borromeo, ora Cappella delle Reliquie. Nella navata centrale, dietro l’altare maggiore, è visibile undiscreto coro ligneo del 1700 [foto 4]. Sul fondo, una grande tela raffigurante la Madonna e i Santi, venerati fino alla metàdel ‘600 come patroni del paese. Accanto, due tele ovali raffiguranti, a sinistra, S. Teresa di Gesù e, a destra, un martire sol-dato, S. Espedito o S. Giorgio. Le altre due tele ovali rappresentano S. Luigi Gonzaga, a sinistra, e, a destra, S. Margherita

da Cortona. Sotto l’altare, dal 1793, è custodito il corpo di una martire, proveniente dalle Catacombe di S. Lorenzo al Verano, a cui fu dato il nome di S.Vittoria, vista la venerazione locale per questa Santa, patrona del paese.

Le Chiese di Ficulledeterminanti per chiarire la realtà sto-rica, politica economica e anchesocio-culturale del territorio circo-stante Ficulle. Quest’opera negli anniè stata più volte citata come fontedocumentaria da storici che si sonointeressati all’antica viabilità romananell’Italia centrale quali Martinorinell’opera “Le vie maestre d’Italia”(1930), Sterpos (1964),“Comunicazioni stradali attraverso itempi” e dello stesso autore “Le gran-di vie di pellegrinaggio del Medioevo.Le strade per Roma” (1986), pari-menti il testo viene richiamato anchenella pubblicazione di AndreaLazzarini “Gratianus de Urbeveteri”.Il primo lavoro direttamente legato aFiculle risale al 1947, quando ilMoretti compose un “saggio di criticastorico - araldica” dal titolo “Originedello Stemma Civico del Comune diFiculle e delle sue contrade”. Essocontiene interessanti considerazionisull’origine storica del paese, per lamaggior parte documentate da fontiscritte, sul processo linguistico che hatrasformato foneticamente l’anticotoponimo Ficulneae in Ficulle, men-tre risultano un po’ discutibili le suededuzioni sull’origine etimologica deltoponimo Ficulle, che per lui è legataappunto alla pianta di fico presentenello stemma. Altre interessanti pub-blicazioni sono seguite come un opu-scoletto sul Castello della Sala, sull’i-stituzione della Confraternita delSS.Rosario, sulla costruzione dellacollegiata di Santa Maria Nuova,sull’Abbadia di S.Nicolò al MonteOrvietano, costruita da S.Romualdonel 1007, ed è stata dimora del fon-datore del diritto canonico, quelmonaco Graziano che, nato a Ficullenel XII secolo, scrisse il famoso“Decretum Gratiani” ed è citato nelParadiso dantesco. La professoressa ImmacolataGraziani, ricostruendo la fisionomiadi questo appassionato amante dellasua terra natale, ha concluso il suointervento con queste parole: “…hotratto la convinzione che il progettoche è attivo in questa comunità diriproporre attraverso la memoria col-lettiva la microstoria di questo territo-rio è in continuità con lo spirito cheha animato lo studio del professorMoretti, cioè quello di aggiungerevita alla vita che ad ognuno di noi èconsentito vivere. Averlo rincontratoe fatto in qualche modo rivivere inquesto incontro di stasera, ritengoche possa essere di auspicio al lavoroche abbiamo intrapreso. L’auspicio èche anche noi possiamo essere sorrettidalla volontà di comunicare neltempo quelle cose, quei fenomeni chenon sono ormai più visibili -per l’a-zione edace del tempo- ma chenascondono un universo di relazioniche sono il fondamento stesso dallacomunicazione e della vita.”Il professor Mario Morcellini ha con-cluso la conferenza ricordando l’im-portanza di questo momento per lacomunità di Ficulle e per il suo futu-ro, invitando a collaborare e a sup-portare questo progetto sulla storiadel paese, perché “Un paese ci vuole”,un paese è un elemento di affiliazio-ne; lo è sul piano dello stato civile edell’anagrafe, ovviamente, ma lo èsoprattutto in una dimensione piùintima, non facilmente descrivibile. Ecitando “La luna e i falò” di Pavese:“Un paese ci vuole,non fosse che il per il gusto di andar-sene via. Un paese vuol dire non esse-re soli, sapere che nella gente, nellepiante, nella terra c’è qualcosa di tuo,che anche quando non ci sei resta adaspettarti”.

Anna Maria Barbanera

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Una meritoria attività di ricostru-zione storica ha consentito la

realizzazione di un prodotto multi-mediale di particolare valore cultura-le. In un CD di raffinata struttura-zione, l’ingegner Sandro Bassetti hacondensato il percorso architettoni-co, militare e soprattutto umano del-l’aeroporto di Orvieto, fulgido esem-pio di professionalità costruttiva delsecolo scorso. Da questa interessanteconcretizzazione, meritevole di parti-colari attenzioni, emergono fatti,personaggi e curiosità davvero sor-prendenti.Come nasce quest’opera multimedia-le?Stavo scrivendo un libro, “Annales

Castrj Viscardij”, la storia di CastelViscardo, il mio Comune di residen-za, dal 500 a.C. ad oggi, libro ulti-mato e consegnato mesi fa al sindacoMassimo Tiracorrendo, quando miimbattei nei resti dell’aeroportodimenticato, oggi nel territorio diquel Comune. Mi tornarono allamente vicende ascoltate in Friuli dalmio datore di lavoro del tempo,Lisio Plozner, che volò con i SorciVerdi di stanza per qualche temponell’aeroporto di Orvieto. Peraltro inGermania mi parlarono con moltafoga dell’aeroporto di Orvieto, ma aquel tempo non riuscii a focalizzarlonella mia mente. Poi, per questecasualità estemporanee, si materializ-

zò in me l’idea di approfondire l’ar-gomento fino a sintetizzarlo in untesto per una pubblicazione chesembra avvenire prossimamente acura della Fondazione Cassa diRisparmio di Orvieto. Inoltre, lessiattentamente l’interessante scrittodel capitano Di Nicola, poi ebbi lafortuna d’incontrare Mauro Sborra,un’inesauribile biblioteca vivente conun’immensa fototeca che mi aiutòmolto e mi stimolò ad accelerare lamia ricerca e, infine, l’ingegnerPierluigi Nervi, omonimo nipote delprogettista e costruttore dell’aeropor-to, che gentilmente mi fornì ulterio-ri “dritte”.Quali informazioni contiene?E’ un excursus sintetico, ma efficace,dal 1936 al 1945 dei fatti, dei luo-ghi, delle infrastrutture, dei piloti edegli aerei che hanno interagito conl’aeroporto militare di Orvieto. Ogni evento è elencato per anno,mese, giorno, giorno della settimana:quando la fonte delle informazioni èstraniera sono state riportate sia latraduzione in lingua italiana che iltesto originale in inglese, slang, por-toghese e tedesco al fine di permette-re una corretta ed imparziale letturadelle informazioni, evitando la possi-bile deriva dalla verità storica dovutaalla traduzione od ai commentiinvolontari dell’Autore.Il testo inizia dando una rapida e snel-la informazione dai primordi dell’avia-zione nella campagna italo-etiopica del1887-1888, fino all’istituzionedell’Arma Azzurra il 23 marzo 1923ed alla sua partecipazione al secondoconflitto mondiale. Continua con l’e-lenco degli Aviatori dell’Orvietanodecorati per azioni di guerra.Dopo questa premessa si entra nelvivo del documento che è suddivisoin sette sezioni. La prima riguarda la fase storicadegli eventi dal 1936 al 1945, distin-ta in base all’attore ovvero all’occu-pante l’aeroporto o a chi ha effettua-to l’azione descritta: scuola nell’aero-porto, caccia, bombardamenti,incursioni. Intorno all’aeroporto,infatti, gravitano molte insegne:quella della Regia Aeronautica,dell’Aeronautica NazionaleRepubblicana, dell’Italian Co-Belligerent Air Force, dellaLuftwaffe, della United States AirForce, della Royal e della RoyalCanadian Air Forces, della BrazilianAir Force e della South African AirForce.La seconda riguarda le Unità e gliaerei che hanno volato nei cieli del-l’aeroporto: sono riprodotti in dise-gno ed in fotografia tutti gli aereicoinvolti di tutte le Nazioni interes-sate, i distintivi delle Unità di appar-tenenza ed una breve descrizioneorganizzativa dell’Unità e dell’aero-porto di provenienza. La terza riguarda i specificamente ibombardamenti effettuati sul territo-rio con un’interessante ed ineditadocumentazione fotografica relativaai bombardamenti nei cieli orvietani(Orvieto, ponte di Allerona, pontedi Guardea) ed in alcuni vicini(Vetralla, Montalto di Castro,Marsciano, Orte). A queste immagi-ni se ne aggiungono altre relative allaFlak, la contraerea germanica, ed agliaerei colpiti.La quarta è dedicata ai migliori pilo-ti di varie nazionalità che hannooperato nel o contro l’aeroporto etre piloti estranei all’aeroporto ma

non al territorio: il generaleCimicchi, nativo di Castel Viscardo,il generale Ranieri PiccolominiAdami Clementini, di antica fami-glia orvietana, il tenente VitoRinaldi, uno dei figli della scuola divolo dell’aeroporto che dimostra conle sue azioni la validità di detta scuo-la. Nei cieli orvietani volarono alcu-ni tra i migliori piloti del secondoconflitto mondiale: il germanicoFranz “Altvater” Götz, gli statuniten-si Charles L. Hoffman e Robert C.Curtis che partecipò ad un cruentocombattimento aereo sopra l’aero-porto di Orvieto, il canadese JamesFeddie “Stocky” Edwards, il sudafri-cano Petrus Hendrik “Dutch” Hugo,il brasiliano Nero Moura, eroenazionale e padre dell’aviazione dacaccia brasiliana. Indistintamentetutti questi piloti sono deceduti nelproprio letto in età avanzata.La quinta descrive le caratteristichetecniche degli aerei interferenti conl’aeroporto per chi desidera appro-fondire i dati tecnici dei velivoli. La sesta raccoglie alcuni documentiaudio e video d’epoca: la dichiarazio-ne di guerra, il discorso di Pio XII,le dimissioni di Mussolini, i filmatidella firma del Patto d’Acciaio edegli aerei B-26 che decollarono daDecimomannu in Sardegna per unbombardamento su Orvieto. La settima riguarda l’aeroporto: l’i-naugurazione, le caratteristiche, ilprogetto, le piante, le foto aeree eterrestri, la connessa caserma Avieridi Orvieto.Molte “nuove” riguardo alle vicendestoriche del secondo conflitto mon-diale.L’apertura degli archivi militari a ses-sant’anni dagli eventi bellici, ha per-messo la fruizione di molti docu-menti scritti e fotografici non possi-bile prima.Fra le altre, di particolare importan-za è la sequenza fotografica statuni-tense che mostra ogni fase di unamissione di bombardamento delcosiddetto “Ponte di Allerona” dallapartenza dall’aeroporto di Alesani inCorsica, al volo di avvicinamento,allo sgancio delle bombe, al ponteferroviario colpito, alla reazione del-

l’antiaerea germanica, al rientro degliaerei colpiti.Gli Alleati, infatti, specie dopo losbarco di Anzio, cercarono continua-mente di colpire le linee ferroviarie,allora le vie di comunicazioni piùveloci e capaci di trasportare grandivolumi di uomini e materiali. Nellazona di Orvieto questi obiettivi stra-tegici erano due: il ponte di Alleronae quello di Guardea, chiamati rispet-tivamente Orvieto RRB N e OrvietoRRB S (Rail Road Bridge North eSouth), non disdegnando, comun-que, la stazione ferroviaria diOrvieto scalo, l’aeroporto ed i con-vogli su ruote.Da queste sezioni si evincono leazioni militari svolte ed interconnes-se, dai bombardamenti, alla reazionedi fuoco, ai duelli aerei.Il documento si compone di oltre60.000 parole, 630 immagini, 61registrazioni vocali e musicali e 2 fil-mati video d’epoca.Per quali ragioni il supporto infor-matico?Ho scelto un supporto informaticoper vari motivi. Il primo, pratico, èche sono completamente autosuffi-ciente ed indipendente per poterlocomporre. Il secondo è l’elevatonumero d’immagini che si prestabene ad una lettura “informatica”. Ilterzo è che unire al testo ed alleimmagini voci, musiche e filmatioriginali dell’epoca immerge il letto-re nell’atmosfera del tempo. Il quar-to è un tentativo di avvicinare i gio-vani alla storia con mezzi a loro piùvicini e più vivi in una sorta di inte-rattività, quasi come un videogiocodove si entra continuamente innuovi scenari. Il quinto è il minorcosto di produzione del documento.Quanto sopra non esclude, ovvia-mente, la possibilità di pubblicare ildocumento su carta, componendo ilclassico libro. Certamente si perdonola parte audio ed i filmati, ma siacquista la leggibilità da parte di chinon usa il computer.Non è da escludere la pubblicazionecombinata del libro con il CD alle-gato, che risolve tutti gli aspetti elen-cati, ma questa sarà una sceltadell’Editore.

L’aeroporto dimenticatoSandro Bassetti ricostruisce le vicende dell’aerostazione militare di Orvieto distrutta nel 1945

Sandro Bassetti nasce a Terni nel 1947. Si diploma in Elettronica industria-le nel 1967, poi va alla Scuola militare e diviene Tenente del 1°Reggimento Bersaglieri, ieri quelli di Porta Pia ed oggi quelli dell’Iraq perintenderci, quindi inizia il suo lavoro da civile e contemporaneamente silaurea in Ingegneria chimica nel 1979: attualmente è un imprenditoreindustriale. Ha iniziato la sua attività e percorsa la sua carriera managerialenella “Snam Progetti”, nella “Kaiser Aluminum”, nell’”Amiata”, nella“Danieli”, nella “Duracell Superpila”, nella “BPT” e nella “IEM”. Ha sog-giornato per studio e per lavoro nei cinque continenti. Avendo costruito ed avviato un’unità produttiva nelle vicinanze conosce ilcastello di Monte Rubiaglio che elesse a sua residenza nel 1984. Il suolavoro, però, continuò a portarlo in giro per il Mondo e più che residenza,il castello divenne il suo rifugio dove si dedicò, e dove si dedica tuttora neltempo libero, a ricerche e studi sull’Orvietano, prima come hobby, poicome costante impegno. Pubblica il primo libro, Un fiume, un ponte, un castello, con le EdizioniCentro Studi Comunicazioni Sociali, Roma, nel 1994 per rievocare vicen-de che, nel bene e nel male, animarono la vita di un territorio storicamenteimportante. Al primo seguirono nel 1999 Lisio Plozner e BartholomeoLiviano d’Alviano, Edizioni Ellerani San Vito al Tagliamento (PN), nel2000 Cinto Caomaggiore - Annali, Edizioni del Gallo, Spoleto (PG), nel2001 Annales Castri Sextij: duemila anni di storia e tremila di protostoria,Biblioteca Comunale di Sesto al Reghena (PN). Il periodico Heimat pub-blicò nel 2000 un riassunto del mio libro inedito La Storia di Allerona,riproposto nel sito Internet della Cassa di Risparmio d’Orvieto. Il mensileEco di Lucca pubblicò in cinque puntate, nel 2002, il capitolo LegionariRomani in Cina del suo libro in fase di ultimazione La Colonia italiana inCina e poi, nel 2004, in altre sei un altro capitolo L’intervento italiano nellarivoluzione russa. Tele Galileo di Terni nel 2001 mise in onda, in tre tra-smissioni, un sunto del suo scritto inedito Colonnelli e Capitani ternani deiquali si è avuto notizia e sono stati in fazione. Ha collaborato con Jader Jacobelli, dal 1998 al 2004, ai libri Il Castello diMonte Rubiaglio, L’uomo in nero del Castello di Monte Rubiaglio, Il Paglia,La rete dei Monaldeschi dell’Orvietano, tutti editi dal Centro StudiComunicazioni Sociali di Roma. È presidente dell’Associazione Culturale IlConfine di Venezia, membro anziano del Comitato di rievocazione antichieventi storici di Terni e dintorni: gestisce, infine, alcuni siti Internet dicontenuto storico su Allerona, Baschi, Monte Rubiaglio, Stroncone, Terni,Cinto Caomaggiore, Sesto al Reghena, Azzano Decimo, il generaleGiuseppe Cimicchi ed il conte Giovanni Battista Negroni. Collabora sal-tuariamente con molti quotidiani, sempre su temi storici: La Nazione, IlMessaggero, Il Corriere dell’Umbria, il Giornale dell’Umbria, UmbriaReporter, Il Centro Italia, Il Messaggero Veneto, La Nuova Venezia, IlGazzettino di Pordenone. Varie volte è intervenuto su trasmissioni diRadio e Tele Galileo di Terni ed a presentazioni e meeting medievalistici.

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I musei ecclesiastici: una realtà rilevantenel panorama religioso e culturale del Paese

Nell’anno giubilare 2000 un’im-portante associazione, l’AMEI

(Associazione Musei EcclesiasticiItaliani), formatasi nel 1996 proprioad Orvieto, trova la sua concretizza-zione. Per capire meglio cosa sia e dicosa si occupa abbiamo intervistato ilvice presidente vicario, Carlo Tatta. A quale livello di importanza si pos-sono collocare i musei ecclesiasticinel nostro Paese?Non si può non riconoscere che nelnostro paese c’è una nuova, prorom-pente e diffusa sensibilità per l’arte,vi è una sorprendente domanda dicultura, senza precedenti; basti guar-dare al consistente interesse per lemostre d’arte che si allestiscono unpo’ ovunque con un notevole flussodi visitatori.In questo fremito di propensione esollecitazione per i beni culturali siinserisce la realtà dei musei ecclesia-stici, del tutto significativa, per la ric-chezza espositiva che sono in gradodi offrire, nel panorama culturale ereligioso del Paese.Quali sono gli elementi che hannoportato la Chiesa a preservare questogrande patrimonio culturale e arti-stico giunto fino a noi?Ben sappiamo della ricchezza di beniculturali ecclesiastici di cui disponia-mo; un patrimonio d’ arte sacra dif-fuso su tutto il territorio nazionale eche è potuto arrivare fino a noi per-ché la Chiesa nei secoli è stata capacedi pietà e memoria! Non lo si puòdimenticare.Lo spirito e la pratica della conserva-zione nascono dalla pietà e dallamemoria, e questa è cultura.Quanti sono i musei ecclesiastici sulterritorio italiano?In Italia sta crescendo l’interesse per imusei ecclesiastici, cioè quelli di pro-prietà della Chiesa e, in particolare,per i musei diocesani, cioè quelli chedocumentano la storia della comuni-tà diocesana con tutta la ricchezza delsuo patrimonio artistico, preziositesori non più nascosti, ma da cerca-re, da conoscere, da ammirare. Oltreai pochi Musei di origine più remota,v’è oggi una sorprendente fioriturache è esplosa proprio in questi ultimitrenta anni: infatti il numero deimusei diocesani è davvero rilevante,se solo si pensi che ne erano cono-sciuti appena 37 in un’indagine del1971!V’è stata poi una successiva rilevazio-ne effettuata nel 2001 a curadell’Ufficio Nazionale dei beni cultu-rali ecclesiastici della CEI, d’intesacon l’AMEI (Associazione Nazionaledei Musei Ecclesiastici), ed oggi nella“Guida” di tutti i Musei religiosi, incorso di pubblicazione, i Musei dio-cesani sono ben 228, mentre tutti imusei religiosi sono 993, dei quali876 di proprietà ecclesiastica.Il Giubileo del 2000 ha contribuitoalla loro diffusione?Sicuramente il grande evento storico-religioso ha portato a maturazioneuna sensibilità latente e senz’altropresente nel nostro panorama religio-so e culturale; si è determinato unfervore di iniziative rivolte a riscopri-re e valorizzare il patrimonio d’artesacra delle chiese locali, sulla base diuna riflessione già avviata da temposulla potenzialità del patrimonio arti-

stico nella nuova evangelizzazione,ricollocando così il rapporto tra arte ecatechesi in un contesto non teoricoma del tutto creativo e che trova lasua spinta propulsiva nel Progettoculturale della Chiesa italiana.Qual è stato l’incremento dei museinegli ultimi periodi?Ben 86 sono stati i musei nuovi o dirinnovato allestimento.Un numero davvero significativo.nell’anno 2000: n. 30nell’anno 2001: n. 9nell’anno 2002: n. 18nell’anno 2003: n. 17nell’anno 2004: n. 14Da una ricognizione che sta per esse-re completata si può rilevare che iMusei diocesani sono ben 242 deiquali:aperti 130;aperti a richiesta 17;in allestimento 32;in progettazione 53;in restauro 9;chiusi 1.Dati più precisi ed esaurienti, con uncorredo di utili informazioni, sarannopresentati nella pubblicazione chestiamo curando ed è in corso di ela-borazione: “I musei religiosi inItalia”.Possiamo proprio affermare che ilmuseo ecclesiastico è una delle mani-festazioni più visibili e diffuse sututto il territorio nazionale, di unconsapevole interesse per i tesori dell’arte sacra.Come è nata e che cos’è l’AMEI?Nel 1996, in nove, fra sacerdoti elaici proprio ad Orvieto, nella sededell’Opera del Duomo, si realizzòquesta iniziativa associativa allo scopodi valorizzare gli specifici contenutidi fede e di religiosità popolare, pro-ponendoli quali strumenti di anima-zione culturale della comunità cristia-na e della società. Una sensibilità chesi è alimentata nella Chiesa universa-le, non solo in Italia, dal momento

che la Pontificia Commissione per iBeni Culturali della Chiesa, ha pub-blicato la lettera circolare dal titolo“La funzione pastorale dei museiecclesiastici”, indirizzata a tutti ivescovi del mondo, dalla Città delVaticano, in data 15 agosto 2001.Invero, le ragioni che hanno determi-nato la realizzazione e la gestione deimusei ecclesiastici, con un impegnodavvero oneroso, frutto di generosità,di passione e spirito di fede, da partedi sacerdoti e laici, possono ricono-scersi anche nella preoccupazionesempre più avvertita di custodire insicurezza beni artistici di particolarevalore esposti in chiese non protette. Il personale per la gestione deimusei ecclesiastici ha una particolareformazione culturale e religiosa?I musei ecclesiastici puntano decisa-mente sulla generosità e l’impegno ditanti volontari, in diverse situazionianche sulla collaborazione attiva dicooperative. Naturalmente si trattasempre di personale che ha una rico-nosciuta preparazione culturale, conapprofondimenti della storia dell’artee della storia della chiesa ed unaapprezzata formazione religiosa e teo-logica, proprio per la consapevolezzadi concorrere alla valorizzazione delpatrimonio d’arte sacra, nella funzio-ne pastorale della Chiesa.Inoltre l’AMEI è fortemente interes-sata ai delicati problemi di gestione,tanto che vi ha dedicato il suo terzoConvegno nazionale sviluppato sultema: “Imprenditoria culturale egestione dei musei ecclesiastici”, conl’intervento di docenti universitari dieconomia aziendale.Proprio sulle problematiche gestiona-li, nel 2004, si è promosso un corsodi formazione per responsabilimuseali, d’intesa con la Facoltà diEconomia dell’Università Cattolicadel Sacro Cuore. Questo perchégestire bene i musei ecclesiasticidiviene una precondizione fonda-

mentale per consentire a tali realtà dioperare con criteri i efficacia, di effi-cienza e quindi di professionalità, perraggiungere la propria finalità cultu-rale e pastorale a vantaggio di tutta lacomunità.Esiste un legame che unisce i museiecclesiastici con il territorio in cuiessi nascono?Esiste un forte legame, infatti non sipuò trascurare l’interesse e la disponi-bilità delle istituzioni pubbliche terri-toriali ed anche di privati a contribui-re alla realizzazione di nuovi musei odi nuovi allestimenti, nei quali siriconosce un forte interesse ecclesialeunito a quello civile. Questo perchéil museo ecclesiastico è luogo ove èpossibile cogliere il significato dellastoria, della cultura, della religiositàdi una comunità attraverso l’arte. Ilmuseo ecclesiastico è intimamentecollegato al vissuto ecclesiale, docu-menta il percorso fatto lungo i secolidalla Chiesa nel culto, nella catechesie nella carità e quindi dà il segnodella presenza della Chiesa, della suaincidenza nella vita civile e sociale.Quindi il visitatore che entra all’in-terno di questi musei riesce ad estra-polare dagli oggetti sacri espostiframmenti della propri storia. Questi musei nella loro fisionomiaecclesiale aiutano la comunità a rico-noscersi nella sua storia ed in quelleespressioni artistiche che, nate indiversi momenti storici, sono manife-stazioni di fede, di forti tradizionireligiose e pure di grandi impulsicivili e sociali.Un ricco patrimonio che si è costitui-to nei secoli anche per la spontaneagenerosità dei più umili e poveri fra ifedeli, come pure per il contributo dipersone economicamente e cultural-mente più dotate e per la sensibilitàdi artisti che hanno saputo interpre-tare la religiosità del popolo. Le opere di grande valore artistico eculturale esposte nel museo ecclesiasti-

co, pur appartenendo al passato, sonoparte integrante della spiritualità edella espressione religiosa del fedele dioggi, di ogni tempo; sono una testi-monianza di fede che, pur nel variaredelle manifestazioni, rimane immuta-bile e condivisibile nei secoli.Che cosa contiene un museo eccle-siastico?A voler riconoscere al museo ecclesia-stico la specificità del ruolo che glicompete, si può affermare che leopere che esso custodisce, se purehanno in comune con quelle di qual-siasi altro museo, la dimensione este-tica, la valenza storica, il caratteredella cultura che le ha prodotte, sonoanimate in più dal contenuto di fedeche le ha ispirate e che, anche semusealizzate, non viene mai meno.Una fede che si scopre nella ricchezzae vetustà delle sue radici e che èancora viva e feconda di bene.Questo contenuto di fede è e restaprimario, perenne e inestinguibile,vivo e vitalizzante. Le opere d’artesacra, seppure appartengono al passa-to, sono tuttora parte integrante dellaspiritualità e della espressività religio-sa del fedele, di ogni tempo; sono latestimonianza di una fede, che purnel mutare delle manifestazioni rima-ne immutabile e condivisibile neisecoli per quei capisaldi del messag-gio cristiano che rivelano.E’ per questo che le opere d’arte sacranon chiedono solo di essere “salva-guardate”, conservate, custodite, madi essere conosciute in profondità, diessere apprezzate per la loro intrinse-ca bellezza certo, ma anche per la sto-ria che raccontano, per la fede cheesprimono, per la pietà devozionaleche riflettono.Il museo ecclesiastico è il luogo ove lacomunità locale disvela ed ove coltivala propria memoria storica. E’ luogodi comunicazione spirituale ed anchesociale, che attinge alla grande ereditàdel passato.I musei ecclesiastici si possono con-siderare dei semplici contenitori incui conservare oggetti d’arte sacra, osono portatori di un messaggio chevogliono diffondere tra la gente?La finalità della conservazione nonbasta, è decisamente riduttiva; essen-ziale e rilevante è la comunicazioneed è qui che si rivela la dinamicità delmuseo ecclesiastico, proprio nel sapervalorizzare: la funzione, il contesto, lavita misteriosa di opere d’arte genera-te nell’ambito della Grazia divina eche fanno parte dell’esperienza spiri-tuale della comunità, una spiritualitàsempre viva e attuale.Allora è evidente che tali luoghi nonsono solo un deposito di opere, masollecitano a testimoniare il percorsoculturale e spirituale di una comuni-tà, legata a un dato territorio in cui lastoria civile e religiosa, l’esperienza difede, il vissuto di tante generazioni sisono potuti esprimere in un patrimo-nio culturale capace di offrire edesporre ancora oggi e sempre, unmessaggio religioso che è compito eimpegno di noi cristiani render sem-pre vivo e palpitante di attualità. Ilmuseo ecclesiastico è un luogo nelquale è possibile cogliere il significatodella storia, della cultura e della reli-giosità di una comunità.

f.m.d.c.

Carlo Tatta nasce ad Itri (LT), nel 1937. Laureato inGiurisprudenza, si abilita all’insegnamento di Materiegiuridiche ed economiche. Come funzionario dellaDirezione Programmazione Organizzazione eCoordinamento del Ministero dei Trasporti, collaboraall’elaborazione del “Quadro di riferimento per il PianoGenerale dei Trasporti, alla redazione del “Libro bian-co” che riguarda “I trasporti in Italia”, all’organizzazio-ne e direzione della Prima Conferenza Nazionale deiTrasporti. E’ rappresentante del Ministero nei ComitatiRegionali di Coordinamento per le Regioni Piemonte eFriuli Venezia Giuli; redige studi monografici sullasituazione dei trasporti per le Regioni Piemonte, Valled’Aosta, Sardegna, Basilicata, Molise ed Umbria.Collabora inoltre con le riviste “Nmavigazione Interna”,“Sardegna economica” ed in via continuativa con“Ferrovia e trasporti”. Dirigente delle Ferrovie delloStato Spa, svolge impegnativi e qualificati ruoli dirigen-ziali in diversi settori operativi: personale, sindacale,istruzione e formazione del personale anche dirigenzia-le; in questo ultimo settore realizza i Centri diFormazione di Messina, Foligno, Venezia e Torino. Lotroviamo pure membro di “Gruppi di studio” in seno alCemt (Conferenza Europea dei Ministri dei Trasporti) ed all’Uic (Unione Internazionale des Chemiun de Fer).

Presidente dell’Ipsia di Orvieto dal 1967 al 1978, ne promuove lo sviluppo con innovativi indirizzi di studio sup-portati dalla nuova dotazione di impianti tecnologici d’avanguardia. Dal 1960 al 1965 consigliere comunale alComune di Orvieto e dal 1970 al 1995 capogruppo, si batte fortemente per la valorizzazione sociale ed economicadella città. Consigliere dell’Opera del Duomo, per lungo periodo presidente diocesano della Gioventù di AzioneCattolica e presidente della Giunta diocesana dell’Azione Cattolica di Orvieto. E’ vice presidente vicario dell’Amei(Associazione dei Musei Ecclesiastici Italiani) e vice presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Orvieto.

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

L’Umbria, grazie alla sua volontàd’innovazione, dispone di un

eccellente sistema museale.Il ricco patrimonio storico-artistico ècaratterizzato sia dalla presenza disignificative collezioni, sia dalla pre-senza di un nutrito numero di museicosì detti “minori”, più o meno noti,dislocati in molti piccoli centri delterritorio. La Società “SistemaMuseo” ha creduto in questo, diven-tando un vero e proprio sistema dicultura in cui un grande numero digestioni ed attività capillarmentepresenti nei territori di riferimento sicompongono fino a formare uninsieme omogeneo di proposte cul-turali, di itinerari di visita, di forma-zione professionale specializzata, disupporti informativi ed editoriali. Leproposte meritano di essere toccate,vissute, assaporate da vicino.Mettetevi in viaggio e partite allascoperta di piccoli borghi, museiinsoliti, grandi capolavori... Ed èuscendo dagli usuali itinerari turisti-ci che potreste imbattervi in unamicro realtà di piccoli tesori.Potreste scorgere il profilo fiero eslanciato del campanile della chiesa

di S. Niccolò di Baschi, del XVIsec., dichiarata monumento naziona-le, opera dello Scalza, ritrovarvi inun vero proprio mondo antico per-fettamente conservato. Proseguirepoi per il borgo medievale denomi-nato “I Buchi”, e perdervi in unlabirinto di vicoli e di case minutearrivando alla Porta per poter ammi-rare la vallata sottostante e il lentofluire del Tevere. Risalendo è d’ob-bligo una visita al Palazzo delMunicipio. Un tempo dimora dellaSignoria dei Baschi, sorge sull’areadell’antica fortezza, al cui interno èstato allestito l’Antiquarium comu-nale. Si tratta di un piccolo museocon scopo prettamente didattico, chegrazie a pannelli illustrativi, distri-buiti lungo il percorso espositivo,evidenzia le emergenze archeologichein tutto il territorio del Comune,con particolare riguardo all’insedia-mento produttivo di Scoppietodella prima età imperiale romana.Qui veniva prodotto vasellame fineda mensa, più conosciuto con ilnome di “terra sigillata”, servizi dipiatti, tazzine, ciotole, di un partico-lare colore rosso corallino,lucerne,che rappresentavano i comu-ni strumenti per l’illuminazione, elaterizi. Lo scavo iniziato nel 1995,su regolare concessione delMinistero per i Beni Culturali eAmbientali è adesso visitabile, graziealla collaborazione di tutte le forzeinteressate. Una serie di percorsinaturalistici consente l’approccio siaalla realtà ambientale, sia alle testi-monianze della presenza dell’uomo,

fondendosi in un’ar-moniosa sintesi. Aquesto punto vi esor-tiamo a continuarequesto pseudo cammi-no, per la provinciale direzione:Montecchio. Sorto alle pendici delMonte Croce di Serra, in un conte-sto ambientale pressoché intatto,divenne, intorno XI sec. la “tana deiChiaravalle”, famiglia ghibellina chesi stanziò in questa zona proprio per-ché adeguatamente protetta e arric-chita da ampi boschi. Furono pro-prio i Chiaravalle a costruire ilprimo nucleo del castello, ampliato-si nel tempo con aggiunta di muramerlate che ancora oggi è possibileosservare in alcuni tratti. Il borgoconserva l’urbanistica tipica deicastelli: piazzette, costruzioni di sto-ria centenaria e l’imponente Porta,un tempo unico ingresso al fortilizio,sormontata da una torre. Un percor-so stradale breve e suggestivo collegaMontecchio all’abitato di Tenaglie.Qui si erge maestoso PalazzoAncajani, costruito intorno all’anno1700, dal nobile spoletino Filippo.L’antico edificio rurale, ospita una“mostra della civiltà contadina” per-manente, grazie alla passione degliattuali proprietari che hanno curatola raccolta e il restauro di oggetti varicostruiti in epoche remote. A pochimetri ecco un’altra gemma:l’Antiquarium di Tenaglie, collocatoall’interno del Palazzo dellaComunanza Agraria, dove è ospitataparte del materiale di corredo di duetombe rinvenute nella necropoli del

L’altro viaggio...alla scoperta di piccoli borghi, musei insoliti...

MUSEO GIORNO DI APERTURA ORARIO DI APERTURA INDIRIZZO

ALVIANO

Museo storico multimediale OTT - MARZO 15,30 – 18,00 Piazza Bartolomeo d’Alviano,10“Bartolomeo d’Alviano e i Capitani di Ventura” Sab.dom.festivi 05020 - Alviano (TR)

0744. 905028Museo della Civiltà Contadina APR-LUGL-SETT 10,30 – 12,30 [email protected]“La terra e lo strumento” Sab.dom.festivi 16,00 – 19,00

AGOSTODal martedì al venerdì 16,30 – 19,30

Sab.dom.festivi 10,30 – 12,3016,00 – 19,00

BASCHI

Antiquarium OTT - APR 10,00 – 13,00 Piazza del Comune,1Comunale Dom.festivi 15,00 – 18,00 05023 - Baschi (TR)

[email protected] - SETT* 10,00 – 13,00Sab.dom.festivi 16,30 – 19,30

*su prenotazione visitaallo scavo di Scoppieto

MONTECCHIO

Antiquarium OTT - MARZO* 10,30 – 13,00 Via del Barracano,1Comunale Dom.festivi 15,00 – 18,00

APR - SETT* 10,30 – 13,00 05020 - Fraz.TenaglieDom.festivi 16,00 – 19,00 Montecchio (TR)

0744. 951698*su prenotazione visita [email protected] Necropoli del Vallone di San Lorenzo

Museo della Civiltà Contadina GEN – LUGLIO Via San Rocco,7Palazzo Ancajani L’ultima domenica del mese 05020 - Fraz.Tenaglie

Montecchio (TR)SETT – NOV 0744.951559

L’ultima domenica del mese

Vallone di San Lorenzo nel Comunedi Montecchio. La necropoliumbro-etrusca databile VI–VI sec.a.C. è di vastissime dimensioni. Icorredi funerari erano costituiti dafibule, anelli, lance, spade, vasellamee buccheri. L’area della necropoli èstata recentemente oggetto di un’o-pera di valorizzazione che ha per-messo di creare sentieri, dove i visita-tori possono ammirare flora e faunatipiche delle foreste dell’Italia penin-sulare, servizi e documentazione sulluogo. Ma se la vostra curiosità nonfosse ancora soddisfatta, ecco lanostra meta finale: Alviano. Centrofortificato, sorge sul crinale di uncolle, dominato dalla mole quadran-golare ed elegante del Castello edimmerso in una paesaggio caratteriz-zato dai “calanchi”, un’importanterealtà geologica, con significativiresti dell’antico mare tiberino, ele-menti fondamentali per l’interpreta-zione della storia agricola di questecontrade. Le particolari “Case diCreta” sono un patrimonio da con-servare, costruite anticamente dallapopolazione del luogo con la pagliae l’argilla rappresentano una dellerisorse antropiche del luogo. Intornoall’anno 996, il conte Goffredo eres-se la prima fortezza, iniziando ladinastia degli Alviano. La cittadinaraggiunse il suo massimo sviluppotra il ‘400 e il ‘500, per opera del-

l’ingegno di Bartolomeo d’Alviano,condottiero e capitano di ventura.Grazie al suo intelletto, l’antico for-tilizio venne ampliato, tale da ren-derlo una dimora signorile.All’interno un bel cortile rinasci-mentale con doppio loggiato, alladestra la cappella con una serie diaffreschi che, come una sorta dimemoria visiva, raccontano il pas-saggio di S. Francesco nella Teverina.Ancora oggi il Castello rappresenta ilfulcro della vita cittadina: oltre adessere sede municipale e modernocentro di congressi, ospita nei pianisottostanti due importanti musei. IlMuseo Storico Multimediale riper-corre la vita e le imprese militari diBartolomeo d’Alviano e dei Capitanidi Ventura, mentre il Museo dellaCiviltà Contadina espone una rac-colta di strumenti legati agli usi edalle tradizioni rurali locali. Al pianoterreno, ricordiamo il Centro diinformazione e documentazione sulParco Fluviale del Tevere, ed un par-ticolare riferimento va al Lago diAlviano, una delle risorse più impor-tanti del Parco, che, nato da unosbarramento artificiale del fiumeTevere negli anni ’60, è diventatoun’oasi naturalistica di assoluto rilie-vo scientifico. Ecco un’occasione perrimettere in discussione le propriecognizioni sul tempo e sullo spazio,per scoprire in questa terra un mododi guardare, riconquistando il piace-re di vedere e magari, dinanzi aldilemma della prossima uscita, frasinuose strade inerpicate fra dolcicolline, ...chissà che non preferiatequesta!

Manuela Pierini

BibliografiaBeni Archeologici nel Parco del Tevere,Città di Castello 2000

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I M A G O U R B I S

g.c. foto Cardarello

Visita del Santo Padre ad Orvieto 1990: Palazzo del Duomo

g.c. foto Cardarello

Visita del Santo Padre ad Orvieto 1990: ingresso del Duomo

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

P A G I N E L E T T E

R. Mecarolo, Chi me l’esse ditto, Grotte di Castro (VT), (Tipografia Ceccarelli), 2004.

M. Valeri, Carmina Nova, Roma (Edizioni Ghaleb), 2005.

Ricordi della Teverinaun’epoca ancora vicina. E’ lo spacca-to di borghi operosi, dove i rapportiumani erano ancora improntati allapiù semplice naturalezza, alla facile ediretta comunicazione quotidiana, alracconto, alla coloritura del parlatocon motti e proverbi.I ricordi di San Michele in Teverinae di Civitella d’Agliano riemergonoda bozzetti agresti, scorrono piace-volmente in episodi e vicende, resti-tuiscono personaggi di fragrantebonarietà e mestieri ormai dimenti-cati: un passato che si fa beffe di unpresente di cui vede l’inconcludenzae gli astrusi modernismi.Un contributo prezioso, questo bellibro dell’autrice viterbese, che risul-ta particolarmente utile a chi inten-da riscoprire –o non abbia maiconosciuto- l’autenticità di rapportisociali in un ambiente caratterizzatoda profonda umanità, concretezza esolidarietà.

Il micromondo che emerge da que-sto testo schietto e genuino di

Rosa Mecarolo soltanto ad un’analisisuperficiale potrebbe apparire pove-ro, isolato dal mondo, fuori daltempo. Eppure è il nostro Paese, e di

Volume “Carmina Nova”

Mostra a Palazzo Coelli. Un Sartorio ritrovato

ÈPalazzo Coelli, sede della Fondazione CRO, adospitare la Mostra “Aristide Sartorio”, che

rimarrà aperta sino al 18 luglio prossimo. Dopo la rassegna del 2002, dedicata alle Impressionidi guerra, e quella precedente del 1989, a Figura edecorazione, ospitate a Montecitorio, questa mostraorvietana offre un panorama ben articolato dell’ope-ra dell’artista romano, nel corso del cinquantenniocompreso tra la fine dell’Ottocento e il primoNovecento.Sono in mostra oltre sessanta opere, provenienti daistituzioni pubbliche e collezioni private, che copro-no l’intero arco temporale del suo impegno artisticoe documentano l’alta dignità aristocratica della suaarte.Hanno curato il catalogo della mostra Pier AndreaDe Rosas e Paolo Emilio Trastulli di StudioOttocento. L’evento, sotto l’Alto Patronato del presidente dellaRepubblica, è il primo di un programma culturalefortemente voluto dall’architetto TorquatoTerracina, presidente della Fondazione CRO, infunzione di una politica di sviluppo e di valorizza-zione complessiva del patrimonio culturale dellacittà e del suo territorio.

fmdc

“Cilento 2004” premia La Rupe incantata

ÈFrancesco M. Della Ciana, con il romanzo “La rupe incantata”, casa editrice “Edimond”, il vincitore del IIPremio Letterario Internazionale “Cilento” 2004.

La cerimonia di consegna si è svolta presso la Sala Consiliare del Palazzo Comunale di Agropoli e ha visto lapartecipazione di autorevoli rappresentanti degli ambienti culturali italiani e di importanti figure internazionali. Nella motivazione, la Giuria riconosce l’opera come “Spaccato di vita in uno scenario di provincia narrato inprosa forbita e scorrevole. Le vicende sono illustrate con ricchezza di particolari, talora con ironia realistica, chemettono sotto accusa il modo di vivere aleatorio, dispendioso e poco stabile dei personaggi.”

Incontro Fabro Scalo

L’8 maggio scorso, presso ilPalazzo dei Sette, è stato presen-

tato il volume “Carmina Nova” diMara Valeri, edito da DavideGhaleb. L’autrice è un’insegnante di originiorvietane, stabilitasi a Vetralla, che siè da sempre interessata di poesia epittura, mostrando particolari dotiartistiche, espresse nel tempo con

garbo e raffinatezza. Si tratta di unpercorso intimistico e sentimentalemeritevole di particolari attenzioni,da cui emergono personali concezio-ni dell’esistenza, approcci meditativi,delineazioni riflessive di indubbiofulgore e consistenza. Un dispiega-mento di forze per questa valida rea-lizzazione di Mara Valeri: le note cri-tiche del prof. Gabriele La Porta,

preside della Facoltà di Filosofiadell’Università degli Studi di Luganoe Direttore dei programmi notturnidella Rai, l’intervento musicale diMassimo Lattanzi, la partecipazionedell’attrice viterbese Laura Antonini,si sono attivati il Museo della città edel territorio, Vetralla città d’arte,amici e conoscenti che da tempoapprezzano il suo impegno culturale.

Si è tenuto a Fabro Scalo l’incon-tro “Le radici cristiane del nostro

territorio”, organizzato dalleParrocchie di Ficulle, Fabro, FabroScalo, Montegabbione, Parrano.All’interessante iniziativa hannopreso parte il vescovo della Diocesi

di Orvieto-Todi, monsignorGiovanni Scanavino, il prof. MarioMorcellini, preside della Facoltà diScienze delle Comunicazionidell’Università degli Studi di Roma“La Sapienza”, il prof. Francesco M.Della Ciana, vice presidente

dell’Isao, che hanno discusso di par-ticolari problematiche del nostrotempo. Una produttiva riunione, chemanifesta l’attivismo dell’AltoOrvietano per quanto concerne lemanifestazioni di carattere religioso eculturale.

Il Museo “Claudio Faina” è unadelle principali strutture espositive

orvietane, in grado di offrire dinami-camente ai turisti e agli studiosi unoriginale percorso di meraviglie del-l’antichità, prodotto di un collezio-nismo ottocentesco appasionato edappassionante. Le riflessioni di Giuseppe M. DellaFina, direttore di questa importanteistituzione, costituiscono anche unbilancio dell’attività svolta nell’ulti-mo anno.

“Per quanto riguarda l’aspetto strut-turale, abbiamo incrementato l’atti-vità scientifica: tre sale affrescate delpiano nobile sono state recuperateper l’esposizione, mentre sono statiquasi ultimati i lavori per la realizza-zione di un deposito e di laboratoriall’altezza degli standard del Museo. Sul piano scientifico si è svolta consuccesso la dodicesima edizione deiConvegni Internazionali di Studisulla Storia e l’Archeologiadell’Etruria, dedicata ai rapporti traOrvieto e l’Etruria meridionaleinterna, con uno sguardo ancheverso le aree falisca e sabina; è stata,

poi, allestita la Mostra “Citazioniarcheologiche. Luciano Bonapartearcheologo”.

Luciano Bonaparte, principe diCanino e fratello del più celebreNapoleone, a partire dal 1828, iniziòa riportare alla luce le necropoli del-l’importante polis etrusca di Vulci. Ilsuccesso dei suoi scavi fu straordina-rio e altrettanto considerevole ful’eco di quelle scoperte, che, pur-troppo, furono in gran parte dispersetanto che quasi tutti i grandi museiarcheologici del mondo accolgonoantichità appartenute originariamen-te a Luciano. La mostra si è propostadi ricostruire quell’“avventura”archeologica, presentando al pubbli-co alcuni documenti inediti comedue taccuini scritti di pugno dalPrincipe, e una ricca serie di litogra-fie da lui fatte realizzare.L’interesse per questa nuova esposi-zione è stato effettivamente notevole.Il Consiglio di Amministrazionedella Fondazione Faina ha infattideciso di prorogarla sino al 10 aprile2005”.

Museo Faina:bilancio culturale 2004

Il Museo “Claudio Faina”Il Museo “Claudio Faina” è uno dei maggiori musei archeologici italianied è costituito dalle raccolte riunite dai conti Mauro ed Eugenio Fainatra gli anni Sessanta e Ottanta dell’Ottocento. Si segnala, in particolare,per il suo ricco monetiere e per la collezione di vasi attici a figure nere erosse, all’interno della quale spiccano tre anfore attribuite ad Exekias, ilmaggiore ceramografo attico del terzo venticinquennio del VI secolo a.C.(550-525 a.C.).Il Museo ha sede nel Palazzo Faina, in Piazza del Duomo ad Orvieto.

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S E G N A L A N O i L E T T O R I

I N C I T T À

Sull’Ottocento orvietano

Il vostro Istituto si è da sempre interessato di analizzare il passato cittadino. Dalla nascita, sipotrebbe dire, della città fino al nostro tempo. Quante belle conferenze, poi dibattiti, pubblica-

zioni … L’epoca degli Etruschi, i Romani, il Medioevo con il Gotico del Duomo, il Rinascimento… tante occasioni per conoscere o approfondire le nostre origini. Sarebbe utile scoprire anche qualcosa sul periodo risorgimentale, che sembra raramente trattato.Eppure non dovrebbero mancare testimonianze dell’Ottocento orvietano con vicende e personag-gi locali. I risultati di ricerche a tal riguardo contribuirebbero notevolmente al dibattito culturale epolitico.

A. S.

La toponomastica cittadina dopo il Fumi

La città ha cambiato molti nomi di vie e piazze nel corso del tempo. Altri si sono aggiunti nelleultime espansioni urbanistiche del centro storico e delle periferie.

Il Fumi si occupò a suo tempo di informare i suoi concittadini dell’origine delle intitolazionidelle strade all’epoca esistenti. Occorrerebbe, quindi, uno studio che aggiornasse la lettura dellatoponomastica orvietana attuale, in modo che anche i giovani e i tanti turisti interessati conosca-no personaggi, episodi e memorie ai quali si riferiscono le tabelle -più o meno belle!- delle vieorvietane. Potrebbe essere anche l’occasione giusta, per noi orvietani, di imparare a chiamare col loro titolo ipercorsi che quotidianamente frequentiamo, ma che spesso solo di fronte alle cartine turistiche cirivelano, o rammentano, il loro nome.

B. O.

Concerto di Pasqua

Il 23 marzo scorso, nella cattedrale orvietana, ha avuto luogo (promosso edorganizzato dall’Opera del Duomo) l’ormai tradizionale Concerto di Pasqua.

Quest’anno i solisti ed il coro dell’Accademia Nazionale di S.Cecilia, direttida Michele Campanella, anche primo pianista, hanno eseguito la Petite MesseSolennelle di Rossini per Soli, Coro, pianoforti e armonium: maestro del coro,Roberto Gabbiani, secondo pianista Monica Leoni, armonium Daniele Rossi.Il concerto è inserito nell’ambito del progetto “Omaggio all’Umbria”, Festivalmusicale giunto alla IV edizione, con la consulenza artistica di Uto Ughi.Fondamentale per la realizzazione dell’iniziativa, il sostegno della FondazioneCassa di Risparmio di Orvieto in collaborazione con l’ente Opera el’Amministrazione comunale della città.

La storia delle Scuole superiori orvietane

Tra le tante indagini condotte per conoscere le realtà passate della città, manca forse quellariferita alle Scuole che dovrebbe interessare non poco i ricercatori locali.

A parte un contributo interessante dato dai Quaderni dell’Istituto dell’Arte di Orvieto, di qualcheanno fa, ad opera dell’arch. Satolli, non dovrebbe esserci null’altro che riguardi la specifica que-stione. Perché non vi occupate direttamente di questi argomenti, scandagliando magari le cartedel Liceo classico e dell’Istituto professionale tra le istituzioni scolastiche più vecchie della Rupe? Potrebbero saltar fuori sorprese notevoli...

E. M.

Interessarsi alle vicende dei Comunidel Comprensorio

Leggendo e apprezzando il Vs giornale, si incontrano argomenti interessanti. Il più delle volteperò, le vostre indagini scientifiche riguardano l’arte, l’archeologia, la storia della città di

Orvieto, mentre mancano riferimenti particolari ai paesi del comprensorio. Sono tanti i comuniche gravitano intorno alla città del Duomo e tutti legati al passato della città.Qualche maggiore attenzione a questi centri, ricchi di vicende storiche, tradizioni e cultura,potrebbe allargare gli orizzonti delle conoscenze storiche di questi luoghi. Dato che l’Istituto siavvale della collaborazione di molti giovani e valenti studiosi, quale occasione migliore per l’iniziodi un percorso di ricerca riguardante le comunità locali!

C. C.

Palazzi storici del centro storicoa cura del Lions Club di Orvieto

Le bellezze delle nostre città sono molte anche se i più noti sono il Duomoe il Pozzo di San Patrizio. Come una signora decaduta mostra i gioielli

che manifestano la sua antica potenza, Orvieto può vantare una serie di palaz-zi nobiliari, opera di illustri architetti, come Simone Mosca ed Ippolito Scalzache le grandi famiglie orvietane costruirono per abbellire la nostra città.Bene ha fatto il Lions Club di Orvieto a catalogarli ed illustrarli con unabreve storia citando la famiglia a cui il palazzo appartiene, l’autore e il secoloin cui è stato costruito. Una targa apposta su ogni palazzo fa sì che sia gliorvietani che i turisti possano conoscere a chi appartenesse il manufatto.L’opera è stata curata nei testi da Renzo Marziantonio, le fotografie e l’impa-ginazione da Gianni Fragomeni e il coordinatore è stato Lucio Bufalini, ed èstata effettuata sotto la presidenza di Giancarlo Cortese (2003 – 2004) eFrancesco Venturi (2004 – 2005).

F.M.

Le “Meraviglie” di Mirò ad OrvietoSi è chiusa il 12 giugno la Mostra “Mirò. Le meraviglie”, che “Sistema Museo” ha organizzato in cooperazione con“Arthemisia” e con il patrocinio del Comune di Orvieto.

MIRO’: OPERE GRAFICHE

Kahlil Gibran ha scritto: ”Se desideri vede-re le valli, sali sulla cima della montagna.Se vuoi vedere la cima della montagna, sol-levati sopra la nuvola, ma se cerchi di capi-re la nuvola chiudi gli occhi e pensa.” Leforme mobili ed elementari di Miròhanno la stessa leggerezza delle “nuvole”,possiedono la loro identica capacità evoca-tiva, di suggerimento. Quello che si vededipende da chi le guarda… Dobbiamosentirle dentro di noi, accogliere il lorotono fiabesco e lieve, assimilarne la poesia.Mirò vuole giocare con i segni ed i colori

(proprio come fanno i bambini), purammettendo chiaramente che le sueimmagini allegre sono il frutto di un tem-peramento tragico, da cui forse inconscia-mente ha sempre voluto sfuggire.Nel testo JE TREAVAILLE COMMEUN JARDINIER scrive: “Lavoro come ungiardiniere…Ogni cosa ha bisogno ditempo. Il mio vocabolario di forme, adesempio; non è venuto tutto in una volta…Lavoro sempre a un gran numero di cose

contemporaneamente e anche in campi differenti: pittura, acquaforte, litografia, scultura, ceramica… Non ci si deve preoccu-pare se un quadro durerà, ma se ha piantato semi che daranno vita ad altre cose.”L’artista, con la metafora del giardino, illustra il carattere peculiare del suo universo figurativo, ribadisce che l’arte devespargere dei semi sulla terra, essere feconda. In ultima analisi, far parte di un processo vitale che non si arresta mai.La Mostra” Mirò. Le Meraviglie.” ha voluto sottolineare l’enorme contributo che Mirò ha saputo dare allo sviluppodella concezione estetica della grafica del nostro tempo. L’eclettico artista ha sperimentato varie tecniche, dalle più tra-dizionali -come il bulino, la puntasecca, l’acquaforte e la litografia- a quelle meno usuali -come l’impiego di mascherinedi celluloide utilizzate in positivo e in negativo, il linoleum e la cartalègraphie (una tecnica simile alla xilografia, ma cheal posto del legno usa come matrice un cartone, in modo che la pressione deve essere particolarmente eseguita senzache il cartone venga distrutto)-. La sua naturale predisposizione verso il linguaggio grafico appare nell’uso di grafismi neri riscontrabili nelle sue pitture,ma è alla fine degli anni ’20 che inizia ad illustrare libri. Da allora in poi collaborerà con importanti personaggi delmondo letterario e dedicherà nella sua carriera artistica un posto predominante al campo grafico godendo, tra l’altro, diottima fama tra gli editori di Barcellona e Parigi.La tecnica della litografia, in particolare, gli permetterà più agevolmente d’esprimersi attraverso forti segni neri convivaci macchie colorate dal forte impatto visivo.

Barbara Berardi

La Mostra di Aurelio Bruniad Orvieto

Si è conclusa con successo la mostra personale di Aurelio Bruni, allestitapresso la Chiesa di San Rocco in Piazza del Popolo, nel centro storico della

città. L’artista, nato nel Viterbese 49 anni fa, vive e lavora nell’alto Orvietanoe si caratterizza per un’originale gusto pittorico che utilizzando le tecnichedell’iperrealismo, riproduce sentimenti e tendenze di un classicismo ancoratoai grandi autori del passato, dai ritrattisti quattrocenteschi ai romantici inglesi,senza trascurare folgorazioni barocche e sintesi di più attuali interpretazioni.

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Lettera OrvietanaN. 13-14 giugno 2005

Piazza Febei, 205018 ORVIETO (TR)Tel. e Fax 0763.391025

ISTITUTO STORICO ARTISTICO ORVIETANO

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Che cos’è l’Opera del Duomo?L’Opera del Duomo è una fab-briceria, organismo di origineantichissima, che ha il compitoprimario di provvedere, senzaingerenza nei servizi di culto econ proventi derivanti dall’am-ministrazione del proprio patri-monio, alla manutenzione e alrestauro del Duomo. Le fabbri-cerie sono previste nell’ambitodella legislazione concordatariatra lo Stato italiano e la SantaSede, regolamentate per legge erette da un proprio statuto. InItalia ce ne sono 24 dotate dipersonalità giuridica, ma settesono le maggiori e tra queste c’èquella di Orvieto.Al pari delle altre fabbricerie,l’Opera del Duomo di Orvietoè gestita da un consiglio diamministrazione composto dasette membri, laici ed ecclesia-stici, nominati per un triennio,due dal vescovo diocesano ecinque dal Ministrodell’Interno, sentito il vescovostesso. L’elezione del presidenteavviene nell’ambito dello stessoConsiglio, tramite votazionesegreta.L’Opera del Duomo di Orvieto

è nata nel 1290, quando si pose la prima pietra della cattedrale. A quel tempo l’Opera,da opus, quindi fabbrica, lavoro, di fatto si identificava con il cantiere ed era un orga-nismo piuttosto semplice, amministrato da un rettore ecclesiastico eletto a vita, deno-minato operarius, che si occupava della direzione tecnica della fabbrica e svolgevaanche funzioni amministrative. Dopo un percorso storico complesso si concretizzògradualmente il passaggio da una semplice organizzazione di cantiere ad un organismodotato di personalità giuridica.

Quali problemi dovete affrontare?Le problematiche di gestione di una simile istituzione sono piuttosto complesse.Innanzitutto i beni che l’Opera deve conservare e di cui deve fare manutenzione sonobeni allo stesso tempo di culto e culturali: il Duomo è una chiesa e un monumentonazionale ed è facilmente intuibile quali difficoltà questa duplice funzione comporta.Da un lato le esigenze del culto sotto la giurisdizione del vescovo, del Capitolo dellaCattedrale, del parroco del Duomo; dall’altro gli aspetti culturali di competenza dellaSovrintendenza.Poi ci sono la conservazione e i restauri delle opere d’arte di proprietà dell’Opera chesaranno oggetto del costituendo museo, la manutenzione del prezioso archivio e dellabiblioteca, la gestione delle proprietà immobiliari e quella in particolare dell’aziendaagricola di proprietà dell’Opera.Poi c’è la gestione del personale: ci sono i dipendenti dell’amministrazione, i custodi, ilpersonale addetto alla biglietteria.Da ultimo i servizi in appalto: gli impianti, la pulizia, la manutenzione, le forniture.È una “fabbrica” un po’ complessa: è allo stesso tempo una fabbriceria in continuaattività ma ha naturale di fondazione; è un’istituzione che non ha scopo di lucro madeve essere gestita con criteri rispondenti a logiche di impresa; è un’organizzazione pri-vata ma la gestione è sotto il controllo della Prefettura.

Le qualità di un presidente?Più che le qualità di un presidente credo che in un contesto di questo tipo sia necessa-rio valutare le qualità di un intero consiglio. Un presidente se non ha buoni consiglierinon riesce a gestire un’organizzazione così complessa. E poi questa è una istituzioneche non può identificarsi solo con il proprio presidente, che è un primus inter pares,per cui deve avere funzioni di coordinamento e di rappresentanza. Per il resto è la col-legialità del consiglio la forza dell’istituzione.

Il Consiglio?Il Consiglio che ho l’onore di presiedere è perfettamente adeguato alle necessità dell’i-stituzione. Ci sono tutte le competenze di cui si ha bisogno e ciascun consigliere èadeguatamente portatore delle necessarie esperienze personali e professionali. Per que-sto ho attribuito a ciascuno una delega.Il meccanismo funziona molto bene. È un Consiglio operativo, dove naturalmentenon manca il confronto dialettico.

Riguardo all’apertura del museo?È uno degli obiettivi primari. Non nascondo che rappresenta anche una delle maggioripreoccupazioni, per una serie di motivi.Innanzitutto ereditiamo un progetto già impostato, da cui non possiamo uscire se nonsacrificando enormi risorse, e questo non ce lo possiamo permettere. Per cui dobbiamoproseguire su un percorso già tracciato, peraltro non in tutto condivisibile.Poi c’è da dire che la fase di completamento necessita di tempi non brevi: ci sono leinfrastrutture, gli impianti, gli allestimenti ed i restauri ancora da fare.Da ultimo ci sono i costi: stiamo ancora pagando le spese di competenza degli eserciziprecedenti per prestazioni professionali già fornite.In ogni caso l’iniziativa è al centro dell’attenzione del consiglio: in breve tempo saremoin grado di informare la collettività in dettaglio sul progetto, sul preventivo di spesa esui tempi di attuazione.

Quali sono i programmi per il futuro a breve e media scadenza?A parte il museo, abbiamo una serie di programmi che sono polarizzati a dare maggio-re spessore alla nostra istituzione. Del resto la particolarità di un organismo comel’Opera del Duomo è già di per sé un valore: sono poche le città in Italia che hannouna fabbriceria.Parallelamente siamo intenzionati a creare un maggiore contatto con la collettività,anche perché l’Opera è patrimonio della collettività e non può rimanere una turrisaeburnea, un luogo per pochi eletti.Passata questa prima fase di organizzazione, necessaria per consiglieri neofiti quali noitutti siamo, vorremmo che l’Opera fosse promotrice di iniziative dirette a valorizzare ilDuomo e il miracolo eucaristico.

I rapporti con le istituzioni cittadine?Sono rapporti ottimi e di massima collaborazione. C’è una reciproca attenzione e unavolontà comune di creare sinergie, pur nel rispetto vicendevole delle proprie compe-tenze ed autonomie.È un clima favorevole di cui bisogna approfittare per fare qualcosa di buono per lanostra città e portare risultati concreti nell’ambito dei tre anni del mandato.

IL CONSIGLIO DIRETTIVODELL’OPERA DEL DUOMO DI ORVIETO

avv. Francesco Venturipresidente - gestione Azienda agricola

prof. Giuseppe M. Della FinaMuseo, attività e manifestazioni culturali

prof. Massimo De CaroArchivio, Biblioteca

ing. Stefano Stramaccionipatrimonio immobiliare

rag. Cesare Peralipersonale e bilancio

prof. don Ruggero Ioriorapporti con la Diocesi

dott. Daniele Di Loretorapporti istituzionali, relazioni esterne e rapporti con la stampa

Nuovo Consiglio dell’Opera del DuomoA pochi mesi dall’insediamento, ecco l’intervista al presidente, l’avvocato Francesco Venturi

In un clima piuttosto burrascoso, si è insediato il nuovo Consigliodell’Opera del Duomo di Orvieto, “evento” atteso e salutato concomprensibile favore dalla città. Il giovane presidente, avvocatoFrancesco Venturi, conosciuto tra l’altro per garbo e dinamismo,delinea propositi e considerazioni. Dal colloquio con l’appenanominato amministratore emerge un quadro incoraggiante, soprat-tutto per quanto attiene ai rapporti di collaborazione con i diversiriferimenti istituzionali e culturali cittadini per una costruttiva pro-gettualità futura.

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L’improvvisa scomparsa dell’on. AngeloLa Bella ha destato comprensibile com-

mozione in chi l’ha conosciuto, apprezzan-done le rari doti umane, il piglio di indaga-tore attento e studioso dei trascorsi storicidella Tuscia. Sino all’ultimo aveva dato provadi indefesso attivismo, lavorando alle suericerche, interloquendo e confrontandosicon i suoi collaboratori, “giovane” di 86anni, combattivo e rigoroso per quantoriguardava i problemi sociali del suo territo-rio. Nato a Roma nel 1918, aveva partecipato alsecondo conflitto mondiale sui fronti france-se e greco-albanese, avvicinandosi poi allaResistenza romana dopo l’armistizio del ‘43.Lo ritroviamo impiegato statale a Viterbo,già trentenne; impegnato nelle fila del Pci,strenuo difensore dei diritti sociali nelle lotte

contadine, si adoperò tenacemente per il raggiungimento del benessere dei più deboli, tanto da esser arrestato, con-dannato e perdendo per di più il posto di lavoro. Del 1951, l’elezione a sindaco di Civitella d’Agliano -operoso cen-tro dell’ A1to Viterbese-, carica che ricoprì per ben sette volte, sino al ‘90. Deputato per tre legislature, fu nominatopresidente della Usl di Montefiascone ed in seguito presidente del Partito della Rifondazione Comunista di Viterbo,riscuotendo ammirazione rispettosa anche dagli avversari politici per la sua capacità di dialogo e fermezza decisiona-le. Fervida la sua attività storico-letteraria insieme all’amata consorte, Rosa Mecarolo, compagna di un’esistenza, allaquale lo legavano sentimenti ed interessi culturali. Tra le numerose pubblicazioni, ricordiamo “Tiburzi senza leggen-da” e “La venere papale” del 1995, “Portella della Ginestra -La strage che ha cambiato la storia d’Itaslia” del 2003,poi “Che Guevara: l’uomo, il mito, l’eroe”, “I castrati di Dio”; infine “Tanti nomi, tante storie”, in collaborazionecon il Calendario del Popolo di Milano.

Un grande uomo, Jader Jacobelli, difede, di giornalismo, di cultura.

Sensibile e cortese, profondo ed autentico.Così lo ricorda Sandro Bassetti, suo “vicinodi casa” al rifugio particolare del castelloMonaldeschi di Monterubiaglio, che ne evi-denzia doti umane e professionali. Sabato19 marzo 2005 è morto a Roma all’età di87 anni, dopo una lunga malattia, il dottorJader Jacobelli, uno dei protagonisti storicidella televisione italiana, e per suo desiderioviene tumulato nella cappella da lui fattaerigere nel cimitero di Monte Rubiaglio.Jader nasce a Bologna nel 1918 da padremonterubiagliese, studia filosofia con UgoSpirito, poi si trasferisce a Roma dove tra-scorre tutta la sua vita a meno dei periodidi relax che trascorre al Castello di MonteRubiaglio del quale è comproprietario.Ufficiale del Regio Esercito, è la prima voce

dell’Italia libera dall’8 settembre 1943 da Radio Brada in Sardegna, entra in RAI nel 1945 dove dal 1946 cura quo-tidianamente il resoconto serale dei lavori dell’Assemblea Costituente e poi la rubrica radiofonica “Oggi aMontecitorio”, che poi si trasforma in “Oggi al Parlamento a cura di Jader Jacobelli”. Quando viene chiamato in TV, per succedere a Gianni Granzotto e Giorgio Vecchietti, si dimostra titubante erisponde di non avere alcun gusto per l’esibirsi, ma - come raccontava lui stesso - è incoraggiato a suo modo daEttore Bernabei, che gli dice “Non si preoccupi, ormai alla TV parlano cani e porci!”. Volto storico di tribune politiche televisive dal 1964 al 1986, quando diviene Consulente della Commissione parla-mentare. è il responsabile della trasmissione che porta il dibattito politico nelle case degli italiani. La sua conduzioneequilibrata delle Tribune, il suo stile e garbo (“Il servizio pubblico deve entrare nelle case degli italiani con educazio-ne, togliendosi le scarpe”, è un suo modo di dire), gli permette di portare avanti l’incarico per 22 anni, battendosisempre per la correttezza dell’informazione e l’imparzialità. Crea la definizione di “mediatore di secondo grado”, chespiega dicendo: “significa non veicolare le nostre personali interpretazioni dei fatti o la sola interpretazione di unaparte, ma veicolare tutte le più significative interpretazioni che dei fatti danno partiti, gruppi, sindacati”. Riesce cosìa superare anche situazioni politicamente delicate, come la volta ormai storica che Marco Pannella si presenta allaTribuna imbavagliato nel maggio 1978, restando così muto per tutti i dieci minuti del programma, per protestacontro la Commissione Parlamentare di Vigilanza sulla Rai. Dal 1996 guida l’Unità di garanzia elettorale della RAI quale garante per far rispettare le regole della “par condicio”e coordina la Consulta sulla qualità fino agli ultimi suoi giorni. Ama ripetere un’antica esortazione: “Vivi ogni tuogiorno come se fosse l’ultimo, lavora come se fossi eterno”. Giornalista radiotelevisivo dall’informazione sempre gar-bata, corretta e imparziale, presiede al Centro Culturale Saint-Vincent in Val d’Aosta ed al Centro StudiComunicazioni Sociali in Monte Rubiaglio, entrambi stimolanti centri di attività culturali.Autore di molti libri tra i quali si ricordano: Pico della Mirandola (1986); Il fascismo e gli storici oggi (1988);Croce-Gentile: dal sodalizio al dramma (1989); Machiavelli e/o Guicciardini: alle radici del realismo politico(1998); Quei due Pico della Mirandola: Giovanni e Gianfrancesco (1993). Interessante la produzione di tascabili: Larealtà del virtuale; New age?; Politica e Internet; Dall’analogico al digitale; Scienza e informazione; La svolta dellaTV; 2000. Dove va l’economia italiana?; Cento no alla TV. Tra questi non mancano, ovviamente, scritti sul Castellodi Monte Rubiaglio, sui Monaldeschi e sul territorio: Il Castello di Monte Rubiaglio; L’uomo in nero del Castello diMonte Rubiaglio; Il Paglia; La rete dei Monaldeschi dell’Orvietano.Chi ha avuto l’onore ed il piacere di parlare con lui, non può che ringraziare di averlo conosciuto e di aver imparatoqualcosa di positivo, quando addirittura non gli debba il credito di avergli fatto da Mentore, spronandolo a seguirenuovi orizzonti, come nel caso di chi scrive. Grazie Jader, rimarrai nei nostri cuori e nelle nostre menti per sempre.

Un ricordo di Jader Jacobelli

La scomparsa di Angelo La Bella

Il Parco dei Mostrie le Streghe del Lago

Doppio impegno editoriale per Sara Carmen Porretti, che ha realizzato dueinteressanti pubblicazioni riguardanti l’una il Parco storico di Bomarzo,

l’altra i processi di stregoneria avvenuti nel tardo Cinquecento a Bolsena e inaltri luoghi della Tuscia.Il Sacro Bosco di Bomarzo offre un nuovo inquadramento geologico, naturali-stico e botanico dell’antico parco sorto per iniziativa, volontà e invenzione diVicino Orsini alla metà del XVI secolo; non mancano un’analisi della situa-zione attuale e nuove proposte di tutele e valorizzazione. Riguardo al secondo volume, l’autrice affronta tre processi di stregoneriaattraverso i quali emerge un mondo povero dove la superstizione e il fatalismosegnavano profondamente l’esistenza di intere comunità.

Il SaporettoUn almanacco enogastronomico del territorio OrvietanoI quaderni de “Il Palazzo del Gusto”

Mangiare e bere, contrariamente alla concezione popolare, è un arte econsiste non solo nel riempire la pancia. Forse una volta in un non

lontano passato quando la fame era più forte, poteva anche essere così, ma ilprogresso ha cambiato anche il modo di mangiare e di bere. Non parleremo di nutrizionismo e di calorie che servono ad alimentare la“nostra macchina”, e non è questo che vuole l’”Associazione Gust’Arte” checon il Palazzo del Gusto vuole far conoscere le grandi tradizioni culinarie dellanostra terra perché non si perdano con la scomparsa delle generazioni passate. I Quaderni servono a ciò ed il primo è ricco di suggerimenti di alimenti chemolti di noi hanno perduto e che non mangiano per paura di ingrassare o deitrigliceridi. Tra i testi che figurano sul Quaderno, quelli di Piergiorgio Olivetie di Alberto Satolli consigliere Isao e storico della città. Non poteva mancareil vino, gloria delle nostre terre fin dai tempi antichi: quindi vengono citati iproduttori che hanno fatto e fanno conoscere la nostra città con un prodottoche allieta le nostre mense.

F.M.

La Madonna delle Graziedi Montegabbione

La ricerca storica “Il Santuario della Madonna delle Grazie inMontegabbione”, di Milena Pasquini Ciurnelli, ripercorre dopo una

attenta lettura delle visite pastorali (documentate a partire dal 1573) la storiadi questo piccolo santuario edificato a circa 250 metri di distanza dal castrum,appena fuori dalle mura del paese. La leggenda fa risalire la nascita della chie-sa ad un miracolo avvenuto verso la fine del XV secolo, che convinse il pieva-no e gli abitanti del paese a recarsi sul luogo, lodando e pregando la Signoradel Cielo, Maria, e invocandola col titolo di Madonna delle Grazie. Un lavorosenza dubbio apprezzabile per il rigore con cui è stata condotta la ricerca, perlo più svoltasi presso l’Archivio Vescovile di Orvieto, da cui emerge unaminuziosa e precisa ricostruzione di un luogo tanto caro ai montegabbionesi.

A. M. B.

Le poesie di Laura De Rosaa Maria

La raccolta di quindici poesie, “Poesie a Maria”, scritte in occasione del 50°anniversario della fondazione del Santuario di S. Maria delle Grazie di

Fabro, di Laura De Rosa Mochi all’interno della quale si possono ammiraresette acquarelli di Margherita Zosi a tema mariano, è senz’altro un libricinopieno di amore, testimonianza di una profonda devozione.La fede di Laura, infatti, è un incanto verbale in forma e lunghezza diverse,un messaggio di armonia e di speranza in una dimensione di mondiale attua-lità…eco del Magnificat.

A. M. B.

Bianca Tavassi La Greca Valentini, Orazio Spada e la Chiesa della SS. Annunziata aCastel Viscardo, Acquapendente (VT) (Tipografia Ambrosini), 2004.

Francesco M. Della Ciana, La rupe incantata, Città di Castello (Edimond), 2003.

S.C. Porretti, Il Sacro Bosco di Bomarzo, Tipografia S. Leonardo, Viterbo, 2002.“ Processi di stregoneria nella Tuscia del tardo ‘500. Il lin-

guaggio di una drammaturgia popolare, Quatrini, Viterbo, 2004.