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CENTRO ALTI STUDI
PER LA DIFESA
CENTRO MILITARE
DI STUDI STRATEGICI
Gruppo di lavoro 68^ sessione di Studio dell’Istituto Alti Studi per la Difesa
Influenza geopolitica della Libia nel bacino mediterraneo
(Codice AM-SMD-09)
2
Il Centro Militare di Studi Strategici (Ce.Mi.S.S.), costituito nel 1987 e situato presso
Palazzo Salviati a Roma, è diretto da un Generale di Divisione (Direttore), o Ufficiale di
grado equivalente, ed è strutturato su due Dipartimenti (Monitoraggio Strategico -
Ricerche) ed un Ufficio Relazioni Esterne. Le attività sono regolate dal Decreto del
Ministro della Difesa del 21 dicembre 2012.
Il Ce.Mi.S.S. svolge attività di studio e ricerca a carattere strategico-politico-militare, per le
esigenze del Ministero della Difesa, contribuendo allo sviluppo della cultura e della
conoscenza, a favore della collettività nazionale.
Le attività condotte dal Ce.Mi.S.S. sono dirette allo studio di fenomeni di natura politica,
economica, sociale, culturale, militare e dell'effetto dell'introduzione di nuove tecnologie,
ovvero dei fenomeni che determinano apprezzabili cambiamenti dello scenario di
sicurezza. Il livello di analisi è prioritariamente quello strategico.
Per lo svolgimento delle attività di studio e ricerca, il Ce.Mi.S.S. impegna:
a) di personale militare e civile del Ministero della Difesa, in possesso di idonea
esperienza e qualifica professionale, all'uopo assegnato al Centro, anche mediante
distacchi temporanei, sulla base di quanto disposto annualmente dal Capo di Stato
Maggiore dalla Difesa, d'intesa con il Segretario Generale della difesa/Direttore
Nazionale degli Armamenti per l'impiego del personale civile;
b) collaboratori non appartenenti all'amministrazione pubblica, (selezionati in conformità
alle vigenti disposizioni fra gli esperti di comprovata specializzazione).
Per lo sviluppo della cultura e della conoscenza di temi di interesse della Difesa, il
Ce.Mi.S.S. instaura collaborazioni con le Università, gli istituti o Centri di Ricerca, italiani o
esteri e rende pubblici gli studi di maggiore interesse.
Il Ministro della Difesa, sentiti il Capo di Stato Maggiore dalla Difesa, d'intesa con il
Segretario Generale della difesa/Direttore Nazionale degli Armamenti, per gli argomenti di
rispettivo interesse, emana le direttive in merito alle attività di ricerca strategica, stabilendo
le lenee guida per l'attività di analisi e di collaborazione con le istituzioni omologhe e
definendo i temi di studio da assegnare al Ce.Mi.S.S..
I ricercatori sono lasciati completamente liberi di esprimere il proprio pensiero sugli
argomenti trattati, il contenuto degli studi pubblicati riflette esclusivamente il pensiero dei
singoli autori, e non quello del Ministero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari
e/o civili alle quali i Ricercatori stessi appartengono.
CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA
ISTITUTO ALTI STUDI PER LA DIFESA
68ª SESSIONE DI STUDIO
Anno Accademico 2016 - 2017
3ª Sezione
Influenza geopolitica della Libia nel bacino mediterraneo
AM-SMD-09
LAVORO DI GRUPPO
Gen. B. Marco FERRETTI - GUARDIA DI FINANZA
Col. Giuseppe RADDINO - ESERCITO
Col. Mauro PULCINI - ESERCITO
C.V. Cesare FANTON - MARINA
Col. Sergio CAVUOTI - AERONAUTICA
Col. Flavio GUERCIO - AERONAUTICA
Col. Ahmad Fahim FARHAT - AFGHANISTAN
Col. Zhibin ZHANG - CINA
Col. Atallah Salem Abdallah ALSHRAIDEH - GIORDANIA
Ing. Marco BONA - AIAD LEONARDO FINMECCANICA
Dott. Marco PITARO - AIAD TELESPAZIO
Direttore Coadiutore: Gen. D. Claudio RANIERI – ESERCITO
4
INDICE
ABSTRACT 5
1. LA LIBIA: UN INSIEME COMPLESSO DI DIVERSITA’ 8
1.1 - La Libia antica 8
1.2 - L’avvento degli Arabi e l’introduzione dell’Islam 11
1.3 - La dominazione dei Turchi ottomani e il colonialismo europeo 12
1.4 - L’indipendenza nazionale e la scoperta del petrolio 16
1.5 - L’avvento e la politica di Muammar Gheddafi 18
1.6 - I moti del 2010 e la situazione attuale 24
2. FORZE IN CAMPO: ATTORI INTERNI ED ESTERNI 32
2.1- Attori interni 33
2.1.1 - Contesto generale: fronte laico, fronte islamico e fronte jihadista 33
2.1.2 - Le tribù 36
2.1.3 - Le città-Stato 42
2.1.4 - Le milizie armate 44
2.1.5 - Il quadro d’insieme: i rapporti tra il centro e la periferia del potere 61
2.2 - Attori esterni 64
2.2.1 - Gli interessi in gioco 64
2.2.2 - Interessi regionali 67
2.2.3 - Il ruolo degli attori internazionali 68
2.2.4 - Il ruolo dell’Italia 71
3. IL FUTURO DELLA LIBIA 75
3.1- Analisi 75
3.2 - Siria 75
3.3 - Libia 77
3.4 - Scenari 84
3.4.1 - Primo scenario: GOVERNO CENTRALE UNITARIO 85
3.4.2 - Secondo Scenario: STATO FEDERALE 88
3.4.3 - Terzo Scenario: PERMANENZA DELLO STATUS QUO 88
3.4.4 - Il ruolo degli attori internazionali 90
4. CONCLUSIONI 95
Bibliografia 98
5
ABSTRACT
La Libia è una terra dalle antiche radici, caratterizzata da grandi diversità e abitata da
popolazioni semi-nomadi organizzate, in prevalenza, su tribù e clan. La posizione
geografica, le caratteristiche morfologiche e climatiche del territorio e la ridotta varietà di
risorse economiche hanno influenzato sia la distribuzione demografica delle popolazioni
sia il loro sviluppo sociale. Sono molto rilevanti le differenze tra le aree costiere e le zone
interne del Paese, così come le dinamiche sociali che hanno fatto crescere gli
insediamenti urbani in alcune aree e favorito il nomadismo in altre. Allo stesso modo è
possibile rilevare l’andamento nel tempo del rapporto conflittuale tra la cultura tribale e di
clan con il tentativo di creare un elemento d’interesse aggregante e un potere
centralizzato. In particolare, le specificità e lo spirito d’indipendenza delle popolazioni
indigene in prevalenza “Berberi” (il termine stesso avrebbe come significato “uomini liberi”)
hanno sempre reso molto complessa qualsiasi attività volta all’unificazione delle
numerosissime tribù (oggi non meno di 140 di cui almeno 25 di particolare rilevanza).
Nella storia della Libia è difficile individuare momenti in cui traspaia un reale spirito unitario
o almeno una comune volontà aggregativa e, i rari casi in cui le tribù berbere hanno
operato coerentemente e in sinergia, sono direttamente connessi con la presenza di un
comune nemico (reale o percepito come tale) ovvero per la concretizzazione di specifici
interessi, localizzati nel tempo e nello spazio.
Il Paese è sempre stato di grande interesse strategico per chiunque aspirasse al
controllo delle principali vie commerciali e di comunicazione marittima del mediterraneo
meridionale. La combinazione delle caratteristiche orografiche, climatiche e geopolitiche
appena schematizzate aiuta a comprendere come mai la storia della Libia sia
caratterizzata da uno sviluppo socio-economico così disomogeneo e connotato da
molteplici successive dominazioni, che dai Romani agli stati arabi nel medioevo, fino al
predominio dei Paesi europei (e in particolare italiana) nel periodo coloniale, si sono
protratte, quasi ininterrottamente, fino alla metà del XX Secolo.
Il periodo dal 1969 in poi è stato caratterizzato da avvenimenti che hanno modificato
in modo radicale la situazione geo-politica del Paese, eventi correlati prevalentemente con
il ritrovamento del petrolio e con l’avvento del Colonnello Muammar Gheddafi.
In particolare è proprio il regime di Gheddafi a fare il primo reale tentativo di unificare le
varie popolazioni della Libia, creando uno Stato libico e spingendo verso un’identità
6
comune i popoli di un territorio i cui confini sono, di fatto, disegnati sulla carta geografica
più che individuati dalla cultura, dall’orografia o dalla storia.
I moti del 2010, che hanno interessato l’intera fascia costiera nord-africana e il
successivo intervento della comunità internazionale e di vari Paesi e attori stranieri, hanno
stravolto i fragili equilibri interni della Libia, proiettandola nuovamente in una situazione
complessa e disomogenea, creando un contesto di notevole incertezza che, ancora oggi,
sfortunatamente ne caratterizza lo scenario e rappresenta la base in cui possono
facilmente prosperare instabilità, traffici illeciti di beni e persone e violenza.
La presenza e la crescita di cellule fondamentaliste nel territorio, ha indotto la
comunità internazionale a intervenire per mediare un accordo che consenta la formazione
di un governo unico. L’azione internazionale ottenne un primo risultato alla fine del 2015
quando, nell’ambito degli accordi promossi dall’ONU, venne costituito Governo di Unità
Nazionale e designato il premier libico Fayez al Sarraj e sette ministri. Sfortunatamente il
neocostituito esecutivo, insediato temporaneamente in una base navale, e appoggiato
dalla comunità internazionale, non ha ricevuto la fiducia di nessuno dei due parlamenti
esistenti in Libia, né quello di Tobruch, né quello di Tripoli.
La Libia di oggi appare, ancora una volta, come il risultato dell’interazione tra una
“frammentazione caotica” di poteri locali e i forti interessi economico-sociali di Paesi terzi.
Per rappresentare in modo emblematico il sistema internazionale prima e dopo la
guerra fredda, prendendo spunto dal mondo dell’arte, si possono considerare due opere
contemporanee: la “Composition II en rouge, bleu et jaune” di Montrian del 1930 e la
“Sostanza Luminosa” di Pollock del 1946. La prima opera, dai colori definiti, con figure
chiare e linee di separazione ben demarcate, dà l’idea di ordine e chiarezza e quindi
meglio rappresenta il sistema internazionale prima del crollo del muro di Berlino; era tutto
ben discriminato, secondo linee di natura ideologica; erano identificati chiaramente i
blocchi di alleanze, uno dell’Unione Sovietica e l’altro Americano, e ogni Paese era
riconducibile ad una delle due alleanze o ad una posizione di neutralità. Difronte ad una
crisi internazionale, erano chiare le parti in gioco e quindi era tutto più semplice per
comprendere e prevedere i comportamenti degli attori coinvolti.
La seconda opera, quella di Pollock, è caratterizzata da colori che si mescolano tra di
loro senza alcuna definizione di figure e chiare linee di demarcazione e questo fa pensare
al disordine, al caos.
7
Oggi il sistema internazionale presenta innumerevoli sfumature e imperversa un
totale disordine, almeno in apparenza. Nessun blocco è chiaramente identificato. Quindi
per studiare e comprendere le crisi locali, non si può fare quello che si faceva qualche
anno fa, usando un approccio semplificato di contrapposizione tra due visioni chiare
riconducibili ai due blocchi presenti fino agli anni 90, quando, per esempio, nessuno aveva
mai ipotizzato un legame stretto tra la religione e le relazioni internazionali. Quando si
parlava di Islam infatti ci si riferiva ad una religione come un’altra. Oggi invece le relazioni
internazionali sono principalmente relazioni tra civiltà e religioni.
Come accennato, il grande cambiamento, avvenuto con la fine della guerra fredda e
fino a qualche anno prima in modo imprevedibile, è stato definito correttamente da Putin
come un cataclisma geopolitico perché ha completamente rivoluzionato il sistema
internazionale.
Quindi la crisi della Libia avviene in un contesto internazionale caotico e questo
significa che, al contrario di quello che avveniva in passato, si può guardare alla Libia in
due ottiche diverse ma complementari; un’ottica è quella del sistema nel quale la Libia si
muove e la seconda ottica è quella delle specificità libiche.
Prevedere scenari per la Libia è molto difficile, come del resto è altrettanto difficile
prevedere quelli della Siria, altro Paese che sta vivendo un momento di crisi
drammaticamente confuso e caotico.
Per effettuare una analisi sistemica, l’approccio che verrà adottato si poggia non solo
su una analisi interna di quanto accaduto in Libia e di com’è oggi la situazione, ma
verranno richiamati e parzialmente analizzati anche i Paesi presenti nell’area per mettere
in luce differenze e similitudini rispetto alla situazione libica con l’obiettivo di comprendere
e qualificare meglio eventuali scenari che possono prefigurarsi nell’area.
8
1. LA LIBIA: UN INSIEME COMPLESSO DI DIVERSITA’
Per provare a schematizzare e semplificare la lunga storia della Libia, ovvero del
territorio libico, è possibile suddividere i periodi in ragione degli eventi più significativi che
hanno caratterizzato la crescita, l’evoluzione e lo sviluppo socio-politico del Paese.
Secondo questa logica, ai fini del presente elaborato, è possibile individuare almeno le
seguenti fasi:
dalla preistoria all’era di Giustiniano;
l’avvento degli Arabi e l’introduzione dell’Islam;
la dominazione dei Turchi ottomani e il colonialismo europeo;
l’indipendenza nazionale e la scoperta del petrolio;
l’avvento di Muammar Gheddafi;
i moti del 2010 e la situazione attuale.
1.1 - La Libia antica
Nell’antichità i popoli antenati dei moderni Berberi abitavano la Libia. Le loro
principali attività erano la pastorizia, la caccia e l’agricoltura. Gli insediamenti erano
concentrati nell’area costiera dell’attuale Libia e Tunisia, in quanto la zona nell’entroterra
era caratterizzata dalla presenza del deserto e da un clima poco ospitale. Le gesta e la
cultura di queste popolazioni sono arrivate fino a noi grazie ai molti segni e ritrovamenti
archeologici (principalmente graffiti e incisioni rupestri) che sono stati individuati all’interno
di caverne e in molteplici ripari sotto le rocce in varie località libiche.
Il territorio della Libia è stato, sin dai tempi antichi, suddiviso in due grandi regioni, la
cosiddetta Tripolitania a nord ovest e la Cirenaica a nord est. Tale macroscopica
ripartizione è stata rispettata, con l’aggiunta del Fezan a sud, fino ad oggi. Nell’antichità il
Paese non potendo disporre di molte risorse naturali di rilievo, risultava di relativa
importanza e notevolmente arretrato rispetto al confinante Egitto. Il principale pregio
risultava correlato con la strategica posizione nel mediterraneo e con la configurazione
della linea costiera, particolarmente adatta per la costruzione di porti e approdi. Questo
rendeva la Libia appetibile a chiunque avesse interessi nel controllo dell’area sud del
mediterraneo.
Il commercio avveniva via mare e parzialmente via terra, grazie alle carovane che
utilizzando le poche oasi collegavano le città costiere con i centri egiziani di maggior
9
rilievo. Tale attività rappresentava l’unico vero elemento di sviluppo economico.
Già durante l’Antico Regno (2700-2200 a.C. circa) e ancora di più nel Medio Regno
(2040-1780 a.C.) la Libia era sotto il dominio dei faraoni egiziani. Tale dominio non creò
alcuna fusione tra le popolazioni libiche e gli egiziani, almeno fino a quando il faraone
Merenptah, intorno al XII secolo a.C., decise di deportare in Egitto molti prigionieri di
guerra libici. Questa decisione mutò lo scenario sociale della regione forzando una
parziale integrazione tra i due popoli, ma i principali interessi egiziani erano rivolti verso
altre aree geografiche e la Libia non venne mai completamente conquistata.
Una situazione simile avvenne anche a partire dall’XI sec. a.C. quando i Fenici si
interessarono alle coste Nord Africane. Alcune importati colonie furono stabilite anche in
Libia, ma i Fenici si limitarono a controllare e gestire le zone costiere, mentre
nell’entroterra le tribù nomadi (in particolare i Garamanti) crearono un loro Stato
indipendente.
Tra VIII-VI sec. a.C. l’interesse greco per le aree del Mediterraneo centrale (in
particolare per l’Italia Meridionale) spinse anche gli ellenici verso l’Africa Settentrionale.
I Greci si stabilirono principalmente nell’attuale Cirenaica dove fondarono cinque colonie:
Cirene (che diede il nome all’intera regione), Berenice (che sarà poi Bengasi), Arsinoe,
Apollonia e Barce. L’influenza della Grecia sulla Cirenaica continuò per vari secoli
passando attraverso la dominazione di Alessandro Magno (intorno al 330 a.C.) fino al
regno ellenistico dei Tolomei, creatosi dopo la caduta dell’impero del grande Alessandro.
La situazione in Libia rimase pressoché immutata fino all’arrivo dei Romani che, in
contrasto con la potenza navale cartaginese, decisero nel II Secolo a.C. di allargare il loro
dominio su parte del Nord Africa. Dopo la completa distruzione di Cartagine (146 a.C.)
Roma estese la sua influenza prima sulla Tripolitania, che divenne la provincia d’Africa e
in seguito anche sulla Cirenaica che divenne anch’essa provincia romana nel 74 a.C..
Anche se il loro dominio si limitava alla fascia costiera, i Romani riuscirono a sfruttare
bene le esigue risorse agricole e a diffondere capillarmente la loro lingua e cultura. Questo
approccio risultò particolarmente efficace e favorì l’espansionismo romano nell’intero Nord
Africa in quando, sconfitto il regno di Numidia (112-105 a.C., attuale Algeria e Marocco) e
l’Egitto (30 a.C.), le caratteristiche culturali e organizzative dell’intera area erano
pressoché identiche e quindi più semplici il controllo e i commerci.
10
Figura 1: Le province romane
La suddivisione in due dell’Impero Romano nel 395 d.C. ebbe dirette ripercussioni
anche sull’unità del Nord Africa. In particolare la Cirenaica e l’Egitto furono annessi
all’impero romano di Oriente, mentre il resto delle provincie del continente africano furono
inserite nei territori dell’impero romano di Occidente. Le successive invasioni barbariche
che nel IV-V sec. d.C. caratterizzarono l’Europa romana, ebbero un devastante impatto
anche sul territorio Libico.
Il primo evento di particolare rilevanza fu la discesa dei Vandali nel 492 d.C. i quali,
inizialmente chiamati in Nord Africa dal comandante romano Bonifacio (che intendeva
allearsi con loro per contrastare il rivale romano Felice), finirono per conquistare quasi
tutta la costa nord occidentale arrivando fino al confine con la Cirenaica. La loro politica
aggressiva e predatoria ebbe un impatto devastante sul territorio e sugli abitanti della
Tripolitania creando una profonda distinzione socio-culturale con la confinante Cirenaica
(ancora parte dell’impero bizantino). I Vandali, che non concessero alcun beneficio o diritto
ai proprietari terrieri romani che furono depredati, massacrati, o costretti alla fuga,
iniziarono anche una violenta persecuzione contro i cristiani ortodossi e contro le gerarchie
della Chiesa Nordafricana. Questo loro atteggiamento rese praticamente impossibile una
qualsiasi integrazione sociale e culturale con le popolazioni locali esasperando, nel
contempo, anche i rapporti con i romani e con la Chiesa che furono complessivamente
altalenanti e ambigui. Tutto ciò rese il dominio dei vandali poco resistente alle continue
azioni delle tribù berbere che combattevano per riappropriarsi della Tripolitania, e agevolò
l’opera di Giustiniano (imperatore di Costantinopoli) che nel periodo 533-534 d.C. riuscì a
impossessarsi dei loro territori. Dopo la riconquista, la Tripolitania tornò a essere romana e
l’Imperatore tentò di rimarginare la frattura creata nel Nord Africa dal lungo periodo di
sottomissione cancellando ogni segno della presenza dei Vandali, ma il compito si rivelò
quanto mai complesso e non fu, di fatto, mai concretizzato.
11
La Tripolitania rimase una provincia periferica dell’Impero Bizantino, troppo debole per
offrire adeguata resistenza all’invasione araba che avverrà circa un secolo più tardi.
1.2 - L’avvento degli Arabi e l’introduzione dell’Islam
L’espansione islamica, che caratterizzò nel VII secolo i territori bizantini nel Vicino
Oriente, arrivò fino alle regioni mediterranee dell’Africa. Dopo aver conquistato l’Egitto
(641) le forze del califfo Othman conquistarono anche la Tripolitania (647). La conquista
araba dell’Africa Nordorientale rappresentò un momento storico di particolare rilevanza,
non soltanto per il radicale cambiamento culturale e religioso, ma anche per la decisa
volontà araba a colonizzare la regione e non solo a conquistarla. Gli Arabi si proposero
subito non come conquistatori, ma come colonizzatori imponendola loro cultura e le loro
tradizioni, cancellando con rapidità tutto ciò che rimaneva del periodo greco-latino.
L’introduzione dell’Islam, benché non sempre operata in modo coercitivo (gli “infedeli” non
erano obbligati alla conversione) rappresentò un punto di svolta nella strutturazione del
tessuto sociale, culturale, oltre che religioso della regione. La Libia fu pienamente
interessata da questo processo socio-culturale e divenne rapidamente un Paese arabo.
Gli Arabi organizzarono le terre conquistate nel Nord Africa in un governatorato
militare molto efficiente e strutturato; migliorarono l’agricoltura delle zone costiere
introducendo nuove tecniche e metodologie per la coltivazione del frumento e per la
diffusione dei vigneti. Alla provincia fu assegnato nome “Ifrīqiya”, probabilmente
declinando e storpiando l’antico nome di “provincia romana d’Africa”. Il processo
d’islamizzazione coinvolse anche molte tribù e popolazioni berbere che spontaneamente
accettarono la nuova religione. I nuovi conquistatori puntarono, infatti, più su una politica
“incentivante” che repressiva, non obbligando le popolazioni sottomesse a convertirsi e
garantendo anche una limitata libertà ai culti già presenti.
Figura 2: Le conquiste dell’impero Ottomano (fonte: Enciclopedia Treccani)
12
Le popolazioni libiche beneficiarono indubbiamente della nuova situazione costruita
dagli Arabi e conobbero, dopo periodi di devastazione e decadenza, una fase di relativo
sviluppo, ma non crearono comunque un concreto “senso di appartenenza” o sufficienti
stimoli aggreganti verso una coesione nazionale; la regione rimase politicamente unita
solo grazie al dominio arabo che, peraltro, non durò molto a lungo.
Il quadro politico del Nord Africa fu nei secoli successivi (dal X al XII) nuovamente
caratterizzato da instabilità e frammentazioni. Alla breve riconquista da parte dei cristiani,
(1145), seguì il dominio autoctono della dinastia berbera degli Almohadi del XII secolo, e
la situazione non si stabilizzò mai fino alla conquista dei Turchi Ottomani avvenuta agli
inizi del XVI secolo.
1.3 - La dominazione dei Turchi ottomani e il colonialismo europeo
Dopo il lungo declino della dominazione berbera, caratterizzato da uno scarso
controllo centrale e dalle continue scorrerie di pirati e avventurieri che operavano quasi
indisturbati, conquistando città e zone costiere la Spagna a Occidente, gli Ottomani a
Oriente si interessano al litorale del mediterraneo meridionale.
La Spagna, che per prima nel 1510 occupò Tripoli con l’intento di rafforzare la
dominazione sull’Occidente mediterraneo, fu ben presto costretta a rivedere le proprie
strategie geopolitiche nell’area in ragione del contrasto con la Francia di Francesco I
(alleata anche con gli Ottomani) e del prevalente concomitante interesse verso l’Europa
centrale. Gli spagnoli non stabilirono mai (come invece fecero in Sicilia) una colonia stabile
e già nel 1528 cedettero il porto di Tripoli al controllo dei Cavalieri di San Giovanni in
Gerusalemme (poi divenuti Cavalieri di Malta).
Gli Ottomani occuparono Tripoli nel 1551 sia per rispondere alla richiesta della locale
popolazione libica di religione musulmana e liberare la città dal dominio dei Cavalieri di
Malta, sia soprattutto perché rientrava nella loro strategia di espansione mirata a una
progressiva integrazione dell’intero Nord Africa. Inizialmente, gli Ottomani utilizzarono e
supportarono l’azione di feroci corsari per assoggettare i principali porti e centri
commerciali dell’intera costa del Maghreb. Dopo questa prima fase, i turchi tentarono di
gestire quest’area attraverso la nomina di un governatore deputato a negoziare con le
comunità esistenti e con i mercanti locali compromessi migliori per l’impero. Sotto il
dominio degli Ottomani, il Maghreb, annesso all’impero turco, fu diviso in tre province,
Algeri, Tunisi e Tripoli.
13
Tripoli divenne una capitale regionale nella quale era molto diffusa e utilizzata la pirateria;
una città nella quale allo scambio di grano e di oggetti esotici (come ad esempio le piume
di struzzo) si affiancava un fiorente traffico di schiavi.
Un significativo cambiamento nello scenario politico avvenne solo grazie all’opera di
Ahmed Karamanli, Ufficiale della cavalleria che nel 1711 riuscì a impadronirsi del potere a
Tripoli e a farsi riconoscere dal Sultano di Costantinopoli quale Pashà. Karamanli, che fu il
capostipite di una vera e propria dinastia, si dimostrò abile nella diplomazia e riuscì a
gestire intelligentemente sia i traffici commerciali sia i corsari. La sua dinastia amministrò
la provincia di Tripoli con larghissima autonomia rispetto all’impero ottomano e riuscì a
estendere la propria influenza anche sulla Cirenaica creando, di fatto, una sorta di regno
indipendente che perdurò fino al 1835 quando fu riconquistato dagli Ottomani, aiutati per
l’occasione anche dagli Inglesi.
Il governo ottomano, che aveva concesso ampia libertà alla dinastia dei Karamanli,
vedendo aumentare le rivolte, decise di intervenire militarmente per riprendere il diretto
controllo sulla Tripolitania e sulla Cirenaica, i cui proventi erano ritenuti essenziali per
compensare le notevoli difficoltà economiche di Costantinopoli. Oltre a ciò l’impero
riteneva necessario arginare le spinte espansionistiche della Francia che nel 1830 aveva
conquistato Algeri e le cui mire in Nord Africa erano sgradite anche all’Inghilterra (con cui i
turchi si allearono).
Ma la seconda dominazione ottomana non era destinata a durare. Gli ottomani,
infatti, riuscirono a esercitare un reale controllo solo lungo le zone costiere, mentre le
popolazioni libiche del Fezzan e del gebel Nefousah (Tripolitania nord occidentale), che
mal volentieri accettavano il pagamento dei tributi, organizzarono continue rivolte. In
questo concitato contesto, la diffusione dell’Islam continuava e si strutturava grazie
all’opera di Muhammad ibn Ali al-Sanusi che fondò la confraternita della Senussyya nel
1843. Tale movimento svolgerà un ruolo fondamentale nella storia libica degli anni
successivi. Il Paese era economicamente allo stremo e l’unica reale risorsa derivava dal
traffico di schiavi che però rappresentava un elemento di forte contrasto tra l’impero
ottomano e tutte le diplomazie europee, tra cui in particolare l’Inghilterra che, come detto,
avevano contribuito nella riconquista della Libia. Lentamente l’impero Ottomano dovette
cambiare il proprio approccio nei confronti dello schiavismo che nel 1857 fu abolito in tutto
l’Impero. Anche se il traffico di schiavi in Libia proseguì perlomeno fino all’arrivo degli
italiani che agli inizi del XX secolo decisero di inserirsi nel quadro delle potenze coloniali
14
interessate al Nord Africa, la decisione turca era un chiaro segnale della “ridotta
autonomia” dell’impero.
Il 29 settembre 1911, dopo aver dichiarato guerra alla Turchia e aver intimato lo
sgombero della Libia, l’Italia avviò la propria prima impresa coloniale inviando in Nord
Africa un consistente corpo di spedizione che riuscì a occupare Tripoli nell’ottobre del
medesimo anno. Il conflitto si protrasse per circa un anno e il 18 ottobre 1912 la pace
siglata con l’impero ottomano sanciva, a livello internazionale, la sovranità italiana sulla
Libia.
In realtà il conflitto con i turchi non era stato eccessivamente complesso mentre le
maggiori difficoltà erano rappresentate dalla guerriglia araba e dalle azioni religiose e
oltranziste che si opponevano all’invasione italiana. L’Italia riuscì a controllare saldamente
solo le città costiere, ma non a sottomettere le tribù nomadi del sud, né a soffocare le
spinte indipendentiste e le ribellioni locali. Per le truppe Italiane di occupazione, la pace
siglata nel 1912 diviene, paradossalmente, l’inizio di un lungo e logorante conflitto con i
ribelli dell’interno, al punto tale che nei primi anni venti Mussolini sarà costretto a iniziare
una nuova azione per “riconquistare” la Libia. Le ripetute rivolte, che caratterizzarono il
preludio al primo conflitto mondiale, erano sostenute sia dagli Ottomani e dall’Impero
tedesco, sia dall’azione della confraternita islamica della Senussyya che, capeggiata da
Sidi Muhammad Idris al-Mahdi al-Senusi, costrinse gli italiani ad una durissima e
sanguinosa guerriglia. Nel tentativo di calmierare la situazione ed evitare ulteriori
sommosse, furono fatte notevoli concessioni alle forze ribelli in Libia al termine del conflitto
mondiale. Per la stessa ragione Italiani e Britannici riconobbero formalmente Idris al-
Senusi quale “Emiro della Cirenaica e della Tripolitania”.
La situazione cambiò notevolmente quando nel 1921 il Senatore Giuseppe Volpi fu
nominato quale Governatore della Tripolitania. Una nuova campagna militare, volta a
reprimere duramente le rivolte interne e portare tutto i Paese sotto il controllo italiano, fu
promossa e autorizzata. La “riconquista della Libia” durò un intero decennio e si protrasse,
con alterne vicende, fino al 1931, data in cui poteva finalmente ripartire l’opera di
colonizzazione italiana. Idris al-Mahdi al-Senusi, “Emiro della Cirenaica e della Tripolitania”
si ritirò in esilio in Egitto da dove gestì le attività di resistenza e contrasto alla
colonizzazione italiana. In realtà già alla fine degli anni 30 Tripolitania, Cirenaica e il
territorio del Fezzan erano, di fatto, sotto l’autorità del governatore della Tripolitania, Pietro
Badoglio, ma fu nel 1934, con il Regio decreto n. 2012 del 3 dicembre, che fu formalmente
15
istituito il “Governatorato Generale” (affidato a Italo Balbo) e riorganizzata e suddivisa la
Libia nelle province di Tripoli, Bengasi, Derna e Misurata.
Nel 1939 agli abitanti indigeni furono assicurati numerosi diritti e furono dichiarati
“cittadini italiani libici” e avviata una nuova politica di collaborazione con i musulmani libici.
L’Italia, che intendeva colonizzare il territorio Nord Africano e utilizzarlo per alleviare il
problema della “emigrazione contadina”, concentrò il proprio sforzo politico nel tentativo
controllare la Libia, integrare la popolazione locale e migliorare il territorio e l’agricoltura.
Figura 3: La Libia come parte della “grande Italia”
Alla fine degli anni 30, furono portati nel Paese un numero considerevole di coloni
italiani e costruiti, nell’area della Cirenaica, molti villaggi sia per ospitare i nuovi coloni, sia
per agevolare le locali popolazioni berbere e gli arabi. La politica italiana, amichevole e
aperta verso i libici, mirava a integrare e assimilare i mussulmani offrendo loro migliori
condizioni di vita. Furono costruiti e introdotti nel Nord Africa i primi ospedali che, insieme
alla moschea, alla scuola e al centro sociale (per le attività sportive e ricreative)
costituivano la struttura urbana minimale di qualsiasi villaggio offerto alle popolazioni
locali. Oltre ad un considerevole incremento del cattolicesimo (creazione di molte chiese e
missioni) furono costruite molte importanti infrastrutture tra cui strade, ferrovie, ospedali,
edifici e porti. Per rendere coltivabile il terreno semidesertico, furono avviate imponenti
opere di canalizzazione e introdotti sistemi d’irrigazione (specie nell’area della Cirenaica).
Gli Italiani curarono anche il turismo, la diffusione della cultura e dell’arte (molte le attività
archeologiche e gli spettacoli teatrali e musicali) e crearono anche importanti fiere e
competizioni sportive internazionali alcune delle quali esistono ancora oggi (come ad
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esempio la Fiera internazionale di Tripoli, oppure il Gran Premio di Tripoli interrotto nel
1940). Il quantitativo di coloni italiani crebbe dagli iniziali 30.000 unità alle circa 120.000
che popolavano la Libia alle soglie del secondo conflitto mondiale. La proiezione
demografica fatta da Balbo prevedeva per gli anni sessanta il mezzo milione di coloni
italiani. La strategia di Mussolini prefigurava un “Impero Italiano” (in verde nella Figura 3)
nel quale la Libia doveva rappresentare una parte integrante della c.d. “grande Italia” (area
arancione della Figura 3), in ragione di questo disegno, il Paese nordafricano doveva
essere molto di più di una semplice provincia. Il progetto Italiano non fu mai concretizzato
e il processo di colonizzazione terminò, di fatto, con l’ingresso in guerra dell’Italia nel 1940.
Pochi anni dopo (1942) la Libia fu occupata dagli Inglesi nell’ambito dell’avanzata degli
Alleati in Nord Africa. L’epoca fascista coincise con uno dei rari momenti di prosperità e
relativa stabilità per il Paese. Anche se molte opere furono realizzate anche grazie a
coercitive repressioni, la modernizzazione in senso “occidentale” della Libia fu
indiscutibilmente opera degli italiani che attuarono un deciso miglioramento delle
infrastrutture del Paese. Di rilievo la creazione della rete viaria e stradale e in particolare la
realizzazione della cosiddetta “litoranea libica” che univa la Tunisia all’Egitto e che nel
1940 fu ribattezzata via Balbia.
1.4 - L’indipendenza nazionale e la scoperta del petrolio
Idris al Senusi, che aveva operato per supportare le forze della Gran Bretagna nella
loro riconquista del Nord Africa, tornò a Bengasi e costituì un “governo” per amministrare i
territori riconquistati (Cirenaica e Tripolitania), mentre il Fezzan rimaneva sotto il controllo
francese.
Nel contempo, il trattato di pace del 1947 tolse all’Italia qualsiasi diritto alle conquiste
coloniali e la Libia fu affidata all’ONU. A nulla valse il tentativo effettuato dall’Italia per
ottenere almeno l’amministrazione della Tripolitania (piano Benin-Sforza del 1949) che
non riuscì a prevalere rispetto alle spinte indipendentiste del popolo libico.
Idris al-Mahdi al-Senusi guidò di persona la delegazione che, supportata dal Regno
Unito, vide riconosciuta dalle Nazioni Unite l’indipendenza della Libia (delibera
dell’assemblea generale dell’ONU emessa il 21 novembre 1949 che riconosceva
l’indipendenza a partire dal 1 gennaio 1952). Lo stesso Idris, che proclamò l’indipendenza
il 24 dicembre 1951, supportato dai rappresentanti delle tre regioni (Cirenaica, Tripolitania
e Fezzan), salì al trono con il nome di Idris I di Libia.
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Il processo d’indipendenza si completò solo nell’agosto 1952 quando, in seguito alla
dipartita dei francesi dal Fezzan, le tre entità autonome della Libia furono riunite sotto un
unico governo federale e furono individuate due capitali: Tripoli e Bengasi; ma la reale
indipendenza era solo un miraggio. L’impossibilità del neo costituito Stato a supportarsi
economicamente poneva, di fatto, la monarchia costituzionale guidata da Idris I, sotto il
controllo degli anglo-americani che mantenevano anche una consistente presenza militare
sul territorio e con i quali furono firmati importanti accordi.
L’ingresso nella Lega Araba (1953) e quello nell’ONU (1955) sono solo l’esempio di
come il regno libico palesò la propria volontà di acquisire rilevanza sul piano
internazionale. Nello stesso spirito furono sottoscritti vari trattati tra cui quello con l’Italia
del 1956 con il quale venivano stabilite le relazioni politico-economiche tra i due Paesi. In
particolare era concordato il passaggio alla Libia di tutte le infrastrutture create dagli
Italiani; questo produsse un progressivo abbandono dell’ex-colonia da parte di molti
italiani.
Ma la politica filo-occidentale tenuta da Idris non era particolarmente gradita né alle
popolazioni libiche, né tantomeno ai vari movimenti fondamentalisti islamici che, iniziarono
ad alimentare diffuse contestazioni.
La scoperta in Libia di importanti giacimenti petroliferi ed il conseguente rinnovato
interesse delle potenze occidentali esasperò rapidamente questo malcontento. In realtà la
presenza del greggio era già stata rilevata dagli Italiani che avevano non solo eseguito i
rilievi, ma avviato già alla fine degli anni 30 i primi piani di scavo. Furono quindi le
compagnie inglesi e americane che, proprio utilizzando gli studi e le attività avviate
dall’Italia, iniziarono, alla fine degli anni 50, l’estrazione nella Cirenaica. Grazie alle
capacità tecnologiche e imprenditoriali, la società ESSO riuscì a sfruttare rapidamente i
ricchi giacimenti libici generando, di fatto, una nuova situazione socio-politica nel Paese
Nord Africano. Quando nel 1963 iniziarono le prime esportazioni di petrolio, la Libia era già
tornata a essere un Paese dai molti contrasti. La costituzione fu modificata e la struttura
federale del governo sostituita con una nuova configurazione amministrativa che
prevedeva dieci governatorati noti come Muhafazah, amministrati da un governatore
nominato dal Re; il nome del Paese fu conseguentemente modificato in “Regno di Libia”.
La consapevolezza della disponibilità di una fonte di sostentamento economico e una
corrispondente disomogeneità nella distribuzione, in termini di benessere sulla
popolazione locale, incrementarono il diffuso malcontento tra la popolazione che non
percepiva reali miglioramenti rispetto all’epoca coloniale.
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La considerazione che il 50% dei guadagni derivanti dall’estrazione del greggio erano
riservati al Regno di Libia diminuiva drasticamente la dipendenza dagli aiuti economici
delle potenze Occidentali conseguentemente rendeva sempre più inopportuna e fastidiosa
la permanenza dei militari anglo-americani sul territorio.
La monarchia decadde il 1 settembre 1969, per il colpo di Stato militare perpetrato
dal colonnello Muammar Gheddafi. Il re Idris, che si trovava in Turchia per delle cure
mediche, fu destituito e costretto ad abdicare.
Dopo il rovesciamento della monarchia, il Paese fu ribattezzato Repubblica araba di
Libia.
1.5 - L’avvento e la politica di Muammar Gheddafi
Muammar al-Gheddafi governò la Libia per quarantadue anni influenzando in
maniera rilevante non soltanto lo sviluppo socio-economico del Paese, ma lo scenario
geopolitico dell’intera area Nordafricana.
Il primo settembre 1969, un gruppo di giovani soldati dell’Armata Libica salì al
governo con un colpo di Stato, dopo il quale fu formato il Consiglio del Comando
Rivoluzionario, presidiato da Muammar al-Gheddafi. Il colonnello scelse un percorso
ideologico incentrato sul rafforzamento della sovranità, e perseguì una politica che,
fondata sul forte sentimento anti-imperialista della popolazione, fosse in grado di costruire
una reale unità d’intenti e un comune interesse nelle molte tribù.
Il colonnello riuscì a creare legami con i suoi elettori anche grazie a un’abile retorica
che enfatizzava la stabilità della sua politica a lungo termine. Inizialmente le tribù furono
uno dei principali focus del rais. Nell’idea del colonnello (che sarà poi esplicitata e
pubblicata qualche anno più tardi nel al-Kitāb al-ahdar, ovvero il famoso Libro Verde) la
tribù rappresentava “una famiglia allargata (…) una scuola sociale i cui membri vengono
educati ad assorbire gli alti ideali che danno vita a un modello di comportamento per la vita
(…). È un ombrello naturale per la sicurezza sociale”. Nel pensiero del colonnello la tribù,
che aveva il compito primario di proteggere i propri membri, doveva evolvere per
accogliere e generare un ideale nuovo e universale, in cui le rigide barriere regionali
fossero abbattute, e la sicurezza sociale collettiva fosse il modello di riferimento.
È opinione diffusa che il nuovo regime di Gheddafi traesse ispirazione dalla struttura
governativa e dall’ideologia dal modello egiziano di Gamal Abdel Nasser. Durante il suo
primo discorso del 28 novembre 1969, il colonnello esplicitò e annunciò il suo progetto
19
politico evidenziando come la Libia non fosse adatta a essere una democrazia
rappresentativa. Questo atteggiamento fece immediatamente indispettire molti che,
scontenti delle prospettive iniziarono delle attività di protesta. In meno di due settimane i
nuovi ministri della Difesa e degli Interni furono arrestati per aver tentato un colpo di Stato
contro Gheddafi, il quale era poco gradito per i suoi programmi nasseriani e pan-arabici.
Sedato questo primo tentativo di rivolta, Gheddafi e il Consiglio del Comando
Rivoluzionario iniziarono a esercitare un diretto e scrupoloso controllo sullo Stato. L’azione
politica mirata all’accentramento autoritario del potere del colonnello era solo agli inizi e, a
partire dal 1970, il nuovo regime promosse la nascita e la diffusione di movimenti arabo-
nazionalisti e socialisti che aumentarono rapidamente la credibilità politica oltre che
l’effettivo potere del governo.
Le poche migliaia di “colonizzatori” italiani e le minoranze ebree presenti nella
popolazione libica furono espulse e le loro proprietà confiscate. Le basi aeree americane e
britanniche, che erano state concesse da Re Idris in conseguenza degli accordi siglati nel
dopoguerra, furono evacuate. Il cugino del vecchio re, molti altri ufficiali, e tutti i potenziali
oppositori politici furono accusati di complottare un colpo di Stato contro il nuovo regime e
conseguentemente arrestati.
Nel 1971, Gheddafi e il Consiglio del Comando Rivoluzionario istituirono l’Unione
degli Stati Arabi Socialisti quale unico partito politico legale; i sindacati furono incorporati
nell’unione, e gli scioperi furono banditi. La politica degli anni seguenti fu caratterizzata da
una doppia linea strategica. Sul piano interno, Gheddafi aumentò ulteriormente il controllo
esercitato da parte del regime assicurandosi la diretta gestione della risorsa più preziosa
del Paese nazionalizzando la produzione di petrolio; sul piano internazionale il colonnello
avviò una serie di azioni mirate a incrementare e promuovere la rilevanza della Libia a
livello internazionale, iniziando proprio dalla posizione della Libia quale importante
membro dell’OPEC.
Il colonnello attuò una serie di riforme sociali per migliorare le condizioni di vita della
popolazione. Capitalizzando gli ingenti guadagni derivanti dall’esportazione del greggio, fu
possibile migliorare le infrastrutture del Paese ed estendere a tutti i cittadini l’istruzione e le
cure sanitarie. Se da un lato quindi venivano fatte delle migliorie e delle concessioni per
accrescere il consenso popolare, dall’altro il regime rafforzava il proprio potere assoluto
confermando il divieto di formare dei partiti, censurando la stampa, abolendo alcune
istituzioni parlamentari (e limitando ulteriormente le competenze di altre) e adottando
l’Islam come religione di Stato.
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L’aumento delle entrate derivanti dal mercato del greggio produsse però anche delle
tensioni interne al Consiglio del Comando Rivoluzionario, poiché si generarono dissensi in
merito alle attività cui destinare tali risorse. Il contrasto riguardava la volontà di alcuni
membri del Consiglio a utilizzare le nuove risorse per programmi di sviluppo della Libia in
contrapposizione all’intenzione di altri rappresentanti che prediligevano invece
l’alimentazione e il finanziamento dei movimenti nazionalisti arabi, sia interni sia esterni
alla nazione. I contrasti interni al Consiglio coincisero con le crescenti proteste, sfociate in
vere e proprie rivolte, esplose in varie parti della Libia tra la fine del 1974 e l’inizio del
1975.
Gheddafi adottò una soluzione drastica nell’agosto del 1975 quando, a causa dei
continui problemi connessi con la gestione delle risorse finanziarie, decise lo scioglimento
del Consiglio e sostituì l’organo esecutivo esistente con una nuova struttura governativa.
Il colonnello iniziò a pubblicare la sua idea politica in una serie di scritti che furono,
agli inizi del 1976, organizzati e pubblicati sotto il nome di Libro Verde. Nel pensiero
politico del rais doveva essere sviluppata una sorta di meccanismo politico per preservare
la sovranità individuale e, al contempo, generare uno “stato mentale collettivo” che
aiutasse a mobilizzare la società ad agire nell’interesse di tutti.
Nel marzo del 1977, la Libia fu dichiarata una Jamharriyah, una parola difficile da
tradurre ma ancora di più da comprendere. Originariamente la parola era usata per
indicare le “masse”, e fu utilizzata da Gheddafi per enfatizzare come fossero le masse
popolari della Libia a detenere il potere nella nazione. Il nuovo meccanismo governativo
prevedeva una struttura a “due rami” gestiti entrambi direttamente dal popolo; un settore
dedicato a sviluppare le attività legislative (tramite Congressi) e l’altro settore incaricato a
svolgere l’esecuzione e il controllo (tramite Comitati). Le funzioni legislative erano affidate
a persone che si incontravano nei “Congressi” distribuiti in varie località della nazione.
Le funzioni esecutive e l’autorità erano invece competenza dei “Comitati popolari”, i cui
membri erano scelti a scadenza annuale dai Congressi. Nel 1979 il colonnello assunse il
ruolo di “leader della rivoluzione” e in tutta la nazione furono creati “Comitati rivoluzionari”
per presidiare gli ideali e l’importanza della rivoluzione; i membri di questi comitati furono
nominati e diretti da Gheddafi e dai suoi collaboratori più stretti. Da evidenziare come i
meccanismi “popolari” di governo non avevano alcuna competenza né autorità in merito a
materie fondamentali quali ad esempio il budget nazionale, il settore petrolifero, forze
armate e di polizia, i servizi segreti e la politica estera; inoltre l’agenda, le attività e le
21
risorse necessarie al funzionamento stesso dei “Congressi e dei Comitati” erano stabilite
da funzionari controllati direttamente da Gheddafi. In sostanza quindi la “democrazia
diretta” e “l’autorità popolare” proposta dal Colonnello Gheddafi erano “reali” ma servirono
solo a far permeare ancora di più il potere di Gheddafi in una nazione caratterizzata da
una cultura e una gestione locale e tribale. In altre parole, il centro assoluto del potere e la
totale gestione delle risorse erano nelle mani del colonnello Gheddafi che utilizzava i suoi
diretti sottoposti come demoltiplicatore della sua volontà e autorità all’interno della
popolazione.
Per concretizzare quindi il suo progetto, il rais tentò inizialmente di limitare qualsiasi
interferenza e opposizione da parte dei leader delle tribù; con l’intento di annientare
qualsiasi possibile minaccia, i comitati rivoluzionari furono incaricati di combattere ogni
forma di regionalismo o tribalismo. A tale scopo, il colonnello rimpiazzò un gran numero di
leader tradizionali tribali con amministratori giovani e più fedeli al suo regime e per
agevolare il superamento dei “limiti tribali” Gheddafi istituì nuovi confini per le regioni
amministrative che andavano oltre le linee tradizionali di divisione tra le tribù.
Ma Gheddafi comprese ben presto che i suoi tentativi di annichilire i poteri tribali non
erano destinati al successo. Alla fine degli anni Settanta all’interno delle istituzioni politiche
era evidente l’influenza del tribalismo nelle spartizioni di cariche politiche o nella gestione
delle entrate petrolifere. Preso atto della situazione il rais si preoccupò di collocare membri
della sua tribù nelle posizioni più sensibili con l’intento di assicurare la sua incolumità e la
sicurezza del governo, e cercò di preservare un sostanziale “equilibrio di potere” tra le più
importanti tribù all’interno del governo e delle varie istituzioni statali. Ma l’assegnazione di
cariche di rilievo nelle istituzioni ai membri di poche tribù prescelte creò di fatto una
discriminazione che si manifestò in tensioni tribali e vere e proprie lotte di potere specie
all’interno dell’esercito. Gheddafi, preso atto del mancato successo delle nuove istituzioni,
decise un cambio di strategia e iniziò a rafforzare le alleanze con i leader delle tribù. Ma la
nuova strategia del rais fu sempre mirata a capitalizzare le naturali divisioni esistenti tra i
clan a proprio vantaggio; egli riuscì a disfarsi dei nemici, appoggiando, secondo necessità,
una tribù a discapito di quella vicina. Le tribù fedeli al colonnello beneficiavano di privilegi
materiali, mentre le tribù contrarie erano castigate. Questa politica clientelare sviluppo una
cultura di patronati riprodotta anche nelle dinamiche interne delle tribù; ai clan e alle tribù a
lui leali, il colonnello assegnava il comando delle unità di combattimento più efficienti e
meglio armate.
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Molti libici si ritrovarono a dipendere dalle connessioni tribali per esercitare i propri diritti,
ottenere protezione, persino assicurarsi una posizione all’interno delle istituzioni statali.
Questo permise al colonnello di avere una posizione di potere nei confronti dei leader
tribali, un controllo quasi assoluto delle dinamiche politiche e di portare avanti la sua
politica senza significativi intralci attuando severe politiche di repressione all’insorgere di
qualsiasi opposizione.
Il periodo dal 1978 al 1988, ricordato come il “decennio rivoluzionario”, fu
caratterizzato dalla completa eliminazione dei residuali diritti di proprietà privata (marzo del
1978) e la definitiva epurazione dei dissidenti libici ancora presenti sul territorio
Nordafricano, ovvero di quelli residenti all’estero, persone che furono tutte eliminate per
diretto ordine del colonnello nei successivi anni. La “nazionalizzazione” di tutte le attività
finanziare ed economiche arrivò a interessare anche i fondi di risparmio privati (che furono
eliminati), così come la facoltà dei liberi professionisti di svolgere le attività private.
Nel 1982 Gheddafi completò il suo disegno politico interno annunciando la sostituzione
delle forze armate nazionali con un esercito “popolare”.
In politica estera Gheddafi si dimostrò particolarmente attivo tra la fine degli anni 70 e
l’inizio degli anni 80. Il rafforzamento delle rapporti con l’URSS, l’appoggio ai movimenti di
liberazione nazionale, il sostegno a gruppi terroristici, il suo palese atteggiamento anti-
israeliano e anti-americano, la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Egitto (1979) e il
probabile coinvolgimento negli attentati perpetrati Sicilia, Scozia e Francia inasprirono
l’atteggiamento europeo e in particolare americano nei confronti della Libia. Il forte
contrasto con gli USA vide il suo culmine nel tentativo militare di eleminare il colonnello del
15 aprile 1986, data in cui fu effettuato un bombardamento aereo che provocò la morte
della figlia adottiva di Gheddafi, ma non del colonnello Gheddafi (probabilmente avvisato
del pericolo). Questo evento e la successiva rappresaglia concretizzata dal regime, oltre
che sul piano mediatico, anche con il lancio di due missili verso le coste italiane,
provocarono il definitivo esodo dei pochi italiani ancora rimasti sul territorio libico.
Il crescente isolamento internazionale e il conseguente calo delle esportazioni petrolifere
iniziò a pesare sull’economia della Libia e, alla fine del decennio, il rais attuò alcune
minimali misure di liberalizzazione volte a favorire una parziale riapertura all’iniziativa
privata. Ma la situazione era oramai compromessa e il “decennio rivoluzionario” costrinse
molte migliaia di tecnici e di commercianti ad abbandonare la Libia mentre nel Paese
aumentavano violente proteste per opera di universitari, comunità religiose e componenti
dell’esercito.
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Velocemente la situazione di diffuso consenso che aveva caratterizzato l’ascesa del
colonnello mutò, e gran parte della popolazione libica iniziò a disinteressarsi alle attività
perpetrate dal governo di Gheddafi; tra le fila dei sostenitori del regime si potevano
annoverare solo i membri della famiglia del colonnello e un gruppo di veterani coinvolti nel
colpo di Stato del 1969.
L’embargo deliberato dal Consiglio di sicurezza dell’ONU nel 1992 fu la reazione
internazionale al coinvolgimento della Libia negli atti di terrorismo che avevano
caratterizzato il periodo a cavallo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90.
Le sanzioni, che riguardando anche il commercio di armi e petrolio, incidevano
pesantemente sulla già fragile economia libica, aggravarono ulteriormente la crisi
economica alimentando la crescita dei gruppi fondamentalisti islamici. Il regime decise di
adottare, nella politica interna ed in particolare nei confronti dell’islam, un atteggiamento
bivalente. A politiche repressive nei confronti dei fondamentalisti, alternava provvedimenti
ispirati ad implementare la sharia e finalizzati a una islamizzazione della società. Il rais,
che condannava pubblicamente l’uso della religione come mezzo politico, iniziò quindi a
contrastare l’attivismo islamista che considerava una dei principali pericoli al suo potere.
Questo rappresentò uno dei principali motivi di contrasto con l’élite religiosa che
pretendeva di acquisire un più pervasivo ruolo nella vita sociale del popolo libico.
I timori del colonnello Gheddafi non erano infondati, infatti, a partire dal 1995, vari
movimenti islamici cresciuti nel Paese iniziarono azioni eversive specie nell’area di
Bengasi.
In particolare si ricorda l’attacco all’Ambasciata d’Egitto attuato nel 1996 dal Gruppo
dei Militanti Islamici. La situazione degenerò rapidamente e nel 1997, il “Movimento dei
Patrioti Libici” che aveva il preciso obiettivo di rovesciare il regime e di stabilire il “Libero
Stato della Libia” era divenuto uno dei movimenti più attivi nel panorama politico del
Paese.
Tali movimenti traevano forza in particolare dalla cultura sociale della società libica
che già prima della rivoluzione del 1969, si era strutturata più su legami tribali, accordi
commerciali e clan famigliari che su ideali nazionalistici.
Nell’ultimo periodo del suo regime, il governo effettuò un ulteriore estremo tentativo
di riconquistare il sostegno popolare attraverso una serie di agevolazioni e misure dirette a
migliorare le condizioni di vita. Attingendo agli introiti delle risorse petrolifere iniziò a ridurre
i prezzi dei beni alimentari primari, quali ad esempio quelli del pane e della farina, ad
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abbassare il costo dell’elettricità offrendo ai cittadini agevolazioni in termini di
rateizzazione e dilazioni sul pagamento delle bollette. Furono elargiti sussidi ai neo-
laureati e revocati ordini di sgombero per le case abitate abusivamente. Tale politica,
definita dell’appeasement, avrà un impatto enorme nelle dinamiche e nelle logiche delle
popolazioni tribali e influenzerà in maniera profonda la cultura e i rapporti tra governo,
autorità locali e popolazioni.
Il progetto politico e sociale di Gheddafi era oramai definitivamente tramontato;
l’apatia politica del popolo libico era, sin dall’inizio della rivoluzione, motivo di frustrazione
per il colonnello che per almeno tre decenni aveva cercato invano un modo per suscitare
l’interesse e la partecipazione del popolo per portare avanti la sua visione arabo-
nazionalista. Nonostante il cambio di strategia attuato dal rais nel corso degli anni 80, la
situazione sociale della Libia era oramai irreversibilmente compromessa. Il tentativo di
alternare attività repressive operate nei confronti dei “nemici interni” culminate ad esempio
nell’approvazione del “codice di onore” promulgato dal parlamento nel marzo 1997 (che
consentiva punizioni collettive contro clan e tribù che supportavano o svolgevano attività
contro il regime), con politiche di supporto e concessione di privilegi e sussidi per
calmierare le situazioni di maggiore protesta (attuate inizialmente solo nei confronti dei
capi tribù, ma poi estese anche alla popolazione) si rivelò una strategia inefficace.
In maniera quasi paradossale è possibile verificare come il popolo libico abbia
riacquisito improvvisamente un diretto e comune interesse nei confronti della politica
proprio nel momento in cui ha maturato la decisione e volontà di cacciare Gheddafi dal
governo del Paese.
1.6 - I moti del 2010 e la situazione attuale
Dopo una serie di rivolte locali minori, la Libia è stata inaspettatamente investita dalla
“primavera araba” e cioè dall’ondata di agitazioni popolari nell’area nordafricana, iniziata
alla fine del primo decennio del XXI Secolo. In particolare le rivolte che hanno
caratterizzato la Libia, si sono sviluppate prima nelle regioni periferiche per poi estendersi
verso il centro del potere.
Il primo evento nel Paese controllato dal colonnello Gheddafi ebbe inizio a Bengasi il
15 febbraio 2011 a seguito di una manifestazione di protesta contro la detenzione di un
attivista per il riconoscimento dei diritti umani. La protesta sfociò rapidamente in una
sommossa popolare su vasta scala che, a partire dal 17 febbraio (ribattezzato “il giorno
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della rabbia”) creò un effetto domino che coinvolse le altre città libiche e produsse un
rapido incremento della violenza in tutto il Paese. Milizie anti-governative occuparono le
città di Bengasi, Tobruch e Misurata e costrinsero il rais, pochi giorni dopo, a ordinare una
dura repressione. Per i successivi cinque mesi, mentre le forze di Gheddafi riuscirono a
mantenere il controllo dei principali centri del potere del regime (Tripoli, Sabarta e Sirte), il
27 febbraio i ribelli stabilirono a Bengasi il Consiglio Nazionale di Transazione (CNT).
Il CNT, che rappresentava l’espressione politica delle forze ribelli, nasceva quale nuovo
centro di aggregazione attorno a cui riorganizzare la futura vita nazionale; il 23 marzo
2011, Mahmud Gibril, politico moderato appartenente alla tribù dei warfalla (la più
numerosa in Libia) sarà votato quale Primo Ministro ad interim del governo transitorio.
Il 17 marzo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò la Risoluzione 1973 che
autorizzava l’attivazione di una “no fly zone” nello spazio aereo della Libia e consentiva
l’attivazione di “tutte le misure necessarie” a protezione della popolazione civile. Pochi
giorni dopo Francia e Gran Bretagna avviarono le attività seguite, dopo qualche settimana
dalla NATO. Il 31 marzo 2011 partiva infatti l’Operazione “Unified Protector” che sarebbe
durata per i successivi otto mesi.
Il massiccio impiego di assetti aerei, sia per acquisire e mantenere la superiorità
informativa sia per effettuare ingaggi di precisione, consentì alla NATO di limitare al
massimo le vittime civili e i danni collaterali, riducendo nel contempo i rischi per il
personale dei Paesi della coalizione. Il supporto alle forze ribelli si era limitato alla
copertura aerea e alla fornitura di armamenti e rifornimenti logistici. Molti leader ribelli
locali erano preoccupati della loro legittimazione, della loro posizione di predominanza che
un eventuale dispiegamento di truppe straniere avrebbe messo a repentaglio. In linea con
questa strategia, la Risoluzione n. 1973 dell’ONU escludeva specificamente qualsiasi
possibilità di utilizzare una “forza di occupazione”.
Questa scelta strategica però, oltre a complicare e allungare le modalità e le
tempistiche necessarie per connotare gli obiettivi e distinguere le molte fazioni e gruppi sul
operanti sul terreno, aveva irrimediabilmente ridotto la competenza, il controllo e
l’influenza che la NATO e i suoi partner avrebbero potuto esercitare nella fase successiva
al conflitto.
Le rivolte culminarono il 20 ottobre 2011 con la presa di Sirte e la morte di Muammar
Gheddafi. Il 21 ottobre i media annunciarono la sua morte e il giorno successivo, la Russia
(che non si era opposta, ma solo astenuta, dalla risoluzione adottata dall’ONU) chiese
interrompere con immediatezza sia la “no fly zone” sia le sanzioni fissate contro la Libia.
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Dal canto suo la NATO propose alle NU di adottare una nuova risoluzione per la Libia e il
31 ottobre sancì la fine dell’operazione “Unified Protector”.
La prospettiva per la Libia e i chiari intendimenti espressi dai leaders del costituito
Consiglio Nazionale di Transizione (in inglese NTC National Transitional Council) che non
accettarono la presenza di nessuna eventuale “forza di pace”, indussero, la comunità
internazionale a predisporre solo una ridotta presenza che potesse essere di supporto per
la ricostruzione del Paese. Queste considerazioni, combinate con l’apparente e
inaspettata tranquillità che caratterizzava Tripoli alla fine del conflitto, convinsero il
Consiglio di Sicurezza a deliberare, il 16 settembre 2011, la Missione delle Nazioni Unite
in Libia (UNSMIL). Il progetto aveva la finalità di “assistere e supportare” gli sforzi libici per
stabilire la sicurezza, intraprendere un dialogo politico, estendere l’autorità dello Stato,
promuovere e proteggere i diritti umani, riavviare l’economia, e coordinare lo sforzo
internazionale, escludendo quindi sia la presenza militare, sia qualsiasi ipotesi di
ingerenza nell’evoluzione politica del Paese. Anche l’Unione Europea (UE) istituì solo una
missione politica, mentre Francia, Gran Bretagna, Italia e altri Paesi si proposero con
attività tutte rivolte a riorganizzare e ricostruire la struttura amministrativa dello Stato.
La convinzione generale era che gli emergenti leader del Paese sarebbero stati in
grado di riavviare l’economia e riattivare la vita politico-sociale del Paese assicurando la
sicurezza e la crescita del benessere. Le risorse economiche sarebbero state tratte dagli
introiti provenienti dalla vendita del greggio, e l’unica reale necessità era connessa con
l’aiuto nella riorganizzazione della struttura e delle funzionalità dell’amministrazione statale
e dei suoi ministeri.
Come primo passo per transitare il Paese dal precedente regime autoritario a una
forma più democratica, furono indette le elezioni (7 luglio 2012) per scegliere i
rappresentanti del Congresso Nazionale Generale (CNG) che avevano il compito, entro
diciotto mesi (quindi entro il gennaio 2014) di formare il nuovo esecutivo e redigere la
nuova costituzione.
L’affluenza alle urne fu del 62%, e dei 200 seggi disponibili nel GNC, solo 80 furono
assegnati a liste di partito. I restanti 120 seggi furono riservati a candidati indipendenti, e
questa decisione fu mirata a evitare il predominio di una precisa maggioranza nel
Parlamento e promuovere l’inclusione politica. Infatti, a causa della loro diversificata
appartenenza e delle continue mutevoli alleanze, era pressoché impossibile prevedere gli
interessi e le scelte che gli indipendenti avrebbero operato nell’ambito del GNC.
27
I membri eletti del GNC scelsero un Presidente che, di fatto, doveva svolgere le
funzioni del Capo dello Stato assumendo il controllo sulle spese statali e adottando tutte le
misure necessarie per stabilire la sicurezza e lo Stato di diritto e nominando il governo.
Pochi giorni dopo (8 agosto 2012) il Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) rilasciò
i propri poteri al CNG che iniziò a operare eleggendo, il 14 ottobre 2012, l’avvocato Ali
Zeidan quale Primo Ministro.
Uno dei primi problemi era rappresentato dalla sicurezza che la presenza dei molti
gruppi armati e rivoluzionari comprometteva. Le forze che avevano rovesciato Gheddafi
erano molto frammentate e l’idea di un unico “esercito ribelle” era distante dalla realtà.
Quando cessarono le ostilità, le principali “brigate ribelli” occuparono l’intero territorio
nazionale e questi gruppi che non erano di certo in contrasto tra loro, non potevano
neanche essere considerati come una realtà unica. Ancora più complesso era definire
quale fosse la catena di comando e chi fosse realmente in grado di dirigere le loro azioni.
Il disarmo, ovvero il tentativo di controllare queste fazioni armate, pur essendo una
assoluta priorità, si rivelò ben presto una “missione impossibile” per il neo costituito
Governo Libico e a poco valse il supporto che l’UNSMIL poteva fornire. Anche il tentativo
di utilizzare una Commissione Interministeriale per i Combattenti (WAC Warriors Affairs
Commission) fallì miseramente di fronte all’ampiezza del problema e alla ridotta capacità
tecnica, gestionale e finanziaria messa a disposizione dal governo di Tripoli. I neo costituiti
Ministero dell’Interno e della Difesa tentarono entrambi, in maniera inorganica e
disallineata, un censimento delle fazioni armate, ma i risultati furono pessimi. La strategia
perseguita dal Ministero della Sicurezza che, per assicurare l’ordine e la sicurezza, decise
di riconoscere e integrare le Forze Libiche di Difesa (in inglese LSF Libyan Shield Force)
all’interno del “Supreme Security Committee” (SSC) del Ministero dell’Interno, si rivelò solo
parzialmente efficace. Tale decisione, maturata non in ragione delle garanzie che le LFS
potevano fornire (non era affatto garantita la fedeltà al Ministro della Difesa o alla struttura
militare dell’Esercito), era considerata l’unica reale opportunità per capitalizzare la
situazione (altrimenti non governabile), stabilizzare parzialmente la caotica situazione della
sicurezza (specie nell'area di Tripoli) e riguadagnare un minimo consenso fornendo
l’impressione di un effettivo miglioramento nel controllo territoriale. Ma l’aver assunto dei
miliziani quali tutori della sicurezza e dell’ordine pubblico non ridusse le attività che questi
perpetravano per il loro diretto interesse. La commistione del nuovo governo con tali
gruppi, legittimava, in qualche modo, le loro azioni e la loro autorità, senza produrre
effettivi miglioramenti nella coesione e nell’unificazione delle forze nazionali.
28
Tutto ciò faceva aumentare la diffidenza popolare che vedeva il SCC associato alle forze
politiche islamiste e non come un tutore imparziale dell’ordine. La combinazione tra la
debolezza dell’autorità centrale nell’assicurare l’ordine e la sicurezza, il processo di
smobilitazione e reintegrazione delle milizie in fase di stallo e un’estesa diffusione di
gruppi armati indipendenti rappresentò la miscela perfetta per il riaccendersi dei conflitti
interni che, ben presto, ricominciarono a proliferare in tutta la Libia.
Da rilevare come, la gestione di queste nuove crisi rappresentò un’opportunità per le
LSF che videro aumentato il loro potere. È questo il caso delle milizie alleate con le Forze
Libiche di Difesa (LSF) di Bengasi che erano intervenute per sedare la rivolta a Sebha e
che avevano ottenuto, dal governo di Tripoli, prestigio, esperienza, risorse e risarcimenti
per la loro azione. Il risultato di queste situazioni quasi tramutò le LSF in “mercenari” a
disposizione del governo che potevano, alla bisogna, fornire prestazioni differenti e con
diversi livelli di efficacia. Se da un lato le milizie LSF avevano dimostrato di essere al
servizio del Governo nell’affrontare i conflitti nel Sud del Paese, dall’altro erano stati
“legittimati” da una notevole autonomia che gli consentiva di operare saccheggi (anche di
edifici governativi) e a molte altre attività criminali (quali ad esempio il contrabbando).
Dalla fine del 2012, nonostante gli accorgimenti operati per assicurare la massima
distribuzione dei seggi, i partiti islamisti, riuscirono a prevalere sulla maggioranza centrista
e liberale, assumendo il controllo dell’assemblea del CNG, e nel giugno 2013 fecero
eleggere Nuri Busahmein quale presidente (carica che, come detto, svolgeva le funzioni di
Capo dello Stato ad interim). Quando nel dicembre 2013 il GNC decise di estendere il
proprio mandato fino al dicembre del 2014 (quindi ben oltre i 18 mesi stabiliti inizialmente),
la preoccupazione e il malcontento nel Paese cominciarono a crescere. Interprete di tale
sentimento, il 14 febbraio 2014, il generale Khalifa Haftar (che aveva anche servito sotto
Gheddafi), minacciò un colpo di Stato nel caso in cui non fosse stato sciolto il GNC,
formato un governo ad interim e indette nuove elezioni. L’11 marzo 2014 il Primo Ministro
Ali Zeidan fu sfiduciato dal GNC e sostituito con Abdullah al-Thani (al tempo Ministro della
Difesa).
Il 16 maggio 2014, il generale Haftar entrò in azione e lanciò l’operazione “Dignità”
volta a liberare il Paese dalla violenza delle milizie islamiste (tra cui Ansar al-Sharia).
L’attività non era stata autorizzata dal governo e quando il primo ministro al-Thani la definì
illegale bollandola quale un “tentato colpo di Stato”, le milizie di Zintan alleate con Haftar
attaccarono la sede del parlamento a Tripoli per ottenerne l’immediato scioglimento.
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Il CGN fu quindi obbligato a indire le elezioni per costituire un nuovo parlamento (la
camera dei rappresentanti composta di 200 membri) e stabilire che il nuovo organismo si
sarebbe dovuto insediare a Bengasi e non più a Tripoli. Le votazioni del 26 giugno 2014
furono molto differenti da quelle del 2012, non soltanto per il clima politico molto teso, ma
anche per la situazione di “guerra civile” nel Paese. Infatti furono ammessi solo candidati
indipendenti (non potevano essere presentate liste elettorali di partito), e alcuni seggi
elettorali rimasero chiusi a causa dei violenti scontri diffusi in larga parte della Libia.
Il risultato complessivo vide solo il 18% degli elettori esprimere la loro preferenza e
assegnati solo 188 seggi sui 200 previsti.
Mentre i cittadini si predisponevano per il voto, le milizie islamiste di Tripoli insieme
con quelle di Misurata, decisero di lanciare l’operazione “Alba Libica” contro le forze
alleate con il generale Haftar (in particolare le milizie di Zintan). Preoccupate della
situazione e dall’esito delle elezioni, le forze islamiste, e in particolare la “Camera
Operativa dei Rivoluzionari Libici”, intendevano acquisire il controllo dei principali punti
della città, tra cui l’aeroporto di Tripoli, sottraendolo così all’autorità di Haftar.
I risultati elettorali, comunicati il 21 luglio 2014, videro una netta affermazione dei
candidati liberali e la sconfitta di quelli islamisti; come detto però solo 188 seggi saranno
assegnati. La situazione di guerra civile era oramai così estesa che la maggioranza dei
neo-eletti presero la decisione di riunire la Camera dei Rappresentanti a Tobruch, citta
controllata dalle truppe di Haftar e considerata meno rischiosa rispetto a Bengasi (dove
invece si era deciso di instaurare il nuovo organismo ma in cui imperversavano i
combattimenti tra islamisti e truppe fedeli ad Haftar). I deputati islamisti e quelli di
misurata, non condivisero tale scelta e decisero di boicottare il nuovo parlamento e non
presentandosi all’insediamento che avvenne il 4 agosto 2014. Complessivamente saranno
153 i rappresentanti della Camera a iniziare le attività, rispetto ai 188 eletti.
Nonostante il supporto fornito da parte degli Emirati Arabi Uniti alle milizie di Zintan,
l’operazione Alba Libica ebbe successo e il 23 agosto 2014 l’aeroporto di Tripoli cadde
sotto il controllo delle milizie islamiste. Questo successo rinvigorì l’azione degli islamisti
che, immediatamente dopo stabilirono a Tripoli un Nuovo Congresso Nazionale Generale
che si autodichiarò subito “parlamento legittimo”, eleggendo Nuri Busahmein presidente,
Omar al-Hasi (appartenente ai “fratelli mussulmani”) Primo Ministro del governo
(denominato appunto “di salvezza nazionale”) e scelse Tripoli come capitale politica.
A questa nuova entità parteciparono, oltre ai deputati neoeletti che avevano preferito non
insediarsi a Tobruch, anche molti membri del precedente CNG.
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Nascono così due parlamenti distinti, ciascuno con un proprio esecutivo e ciascuno
con un differente schieramento che lo supporta.
Il Paese è lacerato e conteso con Tripoli e Misurata sotto il controllo del nuovo GNC
di Tripoli e delle forze di Alba Libica, e la comunità internazionale che riconosce invece
quale legittimo il governo di Abdullah al-Thani e il suo parlamento a Tobruch.
Nel Golfo di Sirte e a Tobruch, i federalisti della Cirenaica misero in atto un blocco
del petrolio per ottenere una maggiore autonomia. Nell’area compresa dal golfo di Sirte
fino alla zona nord-est del Paese, opera Ansar al Sharia (gruppo islamista estremista) che
ha occupato Sirte, Agedabia, Derna, e Bengasi.
Agli inizi di settembre del 2014, il governo sostenuto dalla neoeletta Camera dei
rappresentanti (insediata a Tobruch) e presieduto da al-Thani (riconfermato primo ministro
durante le elezioni del giugno 2014) decise di abbandonare Tripoli e di trasferirsi a Beda
(nell’est della Libia). Lo stesso esecutivo, che non aveva mai formalmente avallato l’azione
militare di Haftar, cambierà progressivamente idea fino ad ammettere, come legittima,
l’operazione Dignità e riconoscerà nel marzo 2015, ad Haftar, il ruolo di capo del
ricostituendo esercito libico.
A complicare ulteriormente il caotico scenario libico, tra il 2011 e il 2016 diversi
gruppi terroristici sono comparsi in Libia. Ad esempio a Derna, nella zona orientale libica,
una formazione islamista radicale, dopo il giuramento di fedeltà al “califfo” Abu Bakr al
Baghdadi” e quindi essere stata affiliata allo Stato Islamico (IS1), proclamò il territorio sotto
il suo controllo nella città come parte del “califfato”.
Nonostante le premesse, all’indomani della deposizione di Gheddafi, la Libia è stata
travolta da un’ondata di interessi interni ed esterni la cui combinazione aveva, di fatto,
impedito il raggiungimento di un accordo nazionale tra le parti che consentisse al Paese di
conseguire l’unità nazionale e quindi di riaccreditare la Libia di fronte alla comunità
internazionale. L’assenza in Libia di un esercito strutturato aveva creato le condizioni
favorevoli per consentire alle varie milizie armate che avevano combattuto contro il regime
di continuare a operare, per tutelare i propri interessi, in qualità di “guardiani della
rivoluzione” alimentando un conflitto a bassa intensità che sta caratterizzato il dopoguerra.
1 L’autoproclamato Stato Islamico (in inglese IS- Islamic State) il cui gruppo fondante prima della autoproclamazione si faceva chiamare Daesh che tradotto in italiano diviene ISIS (Islamic State of Iraq and Syria) Stato Islamico dell'Iraq e della Siria) ovvero ISIL (Islamic State of Iraq and the Levant) Stato Islamico dell'Iraq e del Levante.
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2. FORZE IN CAMPO: ATTORI INTERNI ED ESTERNI
“Dal balcone della mia stanza da letto che affaccia su un palmeto e su una strada
angusta e polverosa, sento le voci di ragazzi tra i quindici e i diciassette anni. Tra queste
spicca quella di mio figlio, studente dell’ultimo anno delle superiori. Le loro voci s’alzano e
si intrecciano con fervido entusiasmo. Mi metto ad origliare attentamente e mi accorgo che
discutono della Libia del dopo-Gheddafi. Noto che ripetono parole come: democrazia,
giustizia, uguaglianza, tolleranza, ingiustizia, dittatura, rivoluzione, ribelli, partiti, ideologia,
società civile…Sette mesi prima o poco più, nessuno di loro avrebbe parlato di simili
questioni - tanto meno ci avrebbe pensato. Niente paura per la sorte di questi futuri
uomini”.
In questo passaggio, tratto dalla raccolta ‘An al-‘uzla wa ashya’ ukhrà (Sulla
solitudine ed altro) di Ashur al-Tuwaybi, uno dei massimi poeti libici contemporanei,
l’autore descrive la percezione dei cambiamenti in atto da parte di giovani libici, che, nei
giorni successivi alla caduta del regime, discutono del Paese “liberato” con rinnovati
sentimenti di speranza.
A distanza di pochi anni da quei concitati momenti, emerge - con chiara quanto cruda
evidenza - l’inconsapevolezza di fondo che animava il dibattito tra quei “futuri uomini”, nel
fuorviante convincimento potessero essere attori protagonisti del loro domani e delle sorti
del Paese.
Gli eventi occorsi, da allora sino ai nostri giorni, testimoniano, infatti, di una realtà più
articolata e indefinita, ove il destino della Libia, lungi dall’appartenere al proprio popolo e
alle legittime aspettative delle nuove generazioni, appare sempre più inscindibilmente
legato a una serie di complesse variabili geo-politiche che, come tali, travalicano i confini
nazionali, coinvolgendo vari attori esterni, regionali e internazionali, in ragione dei sottesi
interessi strategici, economici e ideologici in gioco.
Ne consegue che una compiuta “lettura” e comprensione dell’attuale scenario libico
non possano prescindere dalla identificazione e analisi di tutte le citate componenti interne
ed esterne, nel convincimento che ciascuna delle stesse abbia un’incidenza causale
diretta sulle precarie e fluide dinamiche conflittuali interne al Paese nonché sulle relative
prospettive evolutive di breve-medio periodo.
Di seguito, dunque, procederemo dapprima ad un approfondimento sugli attori
interni, sulla matrice delle relative rivendicazioni e sulla rilevanza di ciascuno nel territorio.
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Passeremo poi ad analizzare le posizioni e gli interessi degli attori esterni coinvolti,
sia sul piano regionale che a livello internazionale, soffermandoci infine sul ruolo specifico
assunto dall’Italia.
2.1 - Attori interni
2.1.1 - Contesto generale: fronte laico, fronte islamico e fronte jihadista
La caduta del regime conseguente ai moti di rivolta del 2011, ha comportato - quale
fisiologica reazione endogena - il riemergere di attori ed entità con un forte imprinting
localistico, riproponendo una condizione interna di estrema frammentazione politica e
sociale, peraltro ulteriormente alimentata da una cultura fortemente orientata
all’autolegittimazione. Tutte le forze in campo, infatti, tendono a presentarsi come le
uniche forze legittime nel Paese, facendo leva su diverse retoriche: quelle di natura
politica, legate ai risultati delle elezioni; quelle di stampo rivoluzionario, tipiche delle milizie;
quelle etniche, proprie delle minoranze e delle comunità locali; quelle religiose,
prevalentemente basate sull’individuazione dell’Islam quale elemento legittimante nella
società e nella politica (alle quali, peraltro, si contrappone un’ulteriore legittimazione, di
matrice anti-terroristica).
Per orientarsi nell’ambito di tale composita e mutevole realtà interna - caratterizzata
da un considerevole numero di entità e formazioni, più o meno istituzionalizzate, e dalle
correlate dinamiche di conflittualità - occorre procedere, in fase di analisi, ad alcune
semplificazioni.
In tale contesto, le variegate forze in campo possono essere ricondotte
sostanzialmente all’appartenenza a tre diversi fronti: quello “laico”2, quello “islamista”3 e
quello “jihadista”4.
La fondamentale contrapposizione tra fronte laico e fronte islamista e la discendente
sostanziale natura “polarizzata” delle conflittualità interne al Paese sono da ricondurre ai
2 In tal caso, l’aggettivo laico travalica significati ed accezioni comuni per identificare ogni attore dello scenario libico che non adotta la religione musulmana quale fattore esclusivo della propria visione politica e della propria ideologia legittimante. Fanno pertanto parte del fronte laico anche forze che si definiscono islamiste moderate e che considerano l’Islam una fonte autorevole di leggi. Si tratta quindi di un fronte composto da soggetti che, di fatto, sono uniti nella medesima coalizione per combattere le forze islamiste e jihadiste pur mantenendo, tra di loro, profonde diversità.
3 L’aggettivo islamista è invece qui usato per le forze che promuovono l’Islam come modello politico e che ispirano la propria azione ai modelli teorizzati dai testi religiosi musulmani. Anche in questo caso il termine è molto ampio e permette di includervi soggetti e ideologie profondamente diversi. Nel fronte islamista possono essere ricondotti tutti gli attori libici che appoggiano l’operazione “Alba” (Fajr Lybia).
4 L’aggettivo jihadista è, invece, usato per gli attori islamisti estremisti che interpretano il precetto islamico del “jihad” (letteralmente “sforzo sulla via di Dio”) come giustificazione per l’utilizzo della violenza contro coloro che a vario titolo sono considerati infedeli e che mirano all’instaurazione di un regime governato dalla sharia. In tal senso, come avremo modo di vedere in seguito, una delle formazioni più attive all’interno della Libia è rappresentata da Ansar Al-Sharia.
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risultati delle elezioni tenute nel giugno del 2014 per rinnovare il Congresso nazionale
generale, il parlamento di transizione in carica dal luglio 2012. Nell’occasione, a prevalere
furono i candidati vicini alle forze laiche, ottenendo 50 seggi sui 200. Solo una trentina di
seggi andarono ai candidati dei movimenti islamisti. Il nuovo parlamento si diede il nome di
Majlis al-Nuwaab (Camera dei rappresentanti).
Il risultato delle elezioni non fu riconosciuto dal vecchio Congresso nazionale
generale, controllato dagli islamisti e i parlamentari del nuovo Majlis furono cacciati da
Tripoli nel luglio 2014 dalle milizie islamiste di Misurata. Nel novembre dello stesso anno la
Corte suprema libica, in una Tripoli controllata dagli islamisti, annullò le elezioni di giugno
e il Congresso nazionale generale annunciò di assumere le funzioni di nuovo parlamento.
Da quel momento in poi la Libia ha cominciato ad avere due parlamenti e due fronti
contrapposti: quello laico, facente capo all’ House of Representatives (HoR), insediata a
Tobruk e quello islamista di Tripoli, rappresentato dapprima dal General National
Congress (GNC), e poi, dall’aprile del 20165, dal Governo di Accordo Nazionale,
presieduto dal Primo Ministro Fayez al-Sarraj.
Il fronte laico, che continua a disconoscere e negare la fiducia al Governo di Accordo
Nazionale nonostante lo stesso sia riconosciuto dalla Comunità internazionale, è
controllato da una sorta di coalizione tra il partito dell’Alleanza delle forze nazionali e
varie fazioni autonomiste della Cirenaica. L’Alleanza raccoglie circa sessanta movimenti di
ispirazione moderata, ideologicamente variegati, favorevoli ad un sistema politico
democratico e liberale, che garantisca le libertà politiche ed economiche. Detta composita
coalizione è sostenuta in Cirenaica dalle milizie del generale Khalifa Haftar6 e in
Tripolitania dalle milizie di Zintan, costituite da un’alleanza di 23 gruppi armati e
considerate il secondo più forte gruppo armato del Paese, dopo i miliziani islamisti di
Misurata. Nel sud della Libia, invece, il riferimento dell’alleanza delle forze laiche è
rappresentato dalla tribù semi nomadi dei Tebu, che ha condotto una sanguinosa guerra
contro un’altra tribù seminomade, quella dei Tuareg, per il controllo del deserto di Murzuq,
a sud e a ovest dell’oasi di Ubari, una vasta zona che si estende fino ai confini con Algeria,
Niger e Ciad, dove sono presenti i pozzi petroliferi di Sharara (i secondi per importanza in
Libia) e all’interno dei quali passano numerose e redditizie vie di contrabbando.
5 A seguito dell'accordo di pace (detto LPA, Libyan Political Agreement) per la formazione di un governo di unità nazionale negoziato sotto l'egida dell'ONU e firmato a Skhirat (Marocco) il 17 dicembre 2015.da numerosi membri dei due parlamenti libici.
6 Nel maggio 2014 il Generale Haftar si è posto a capo dell’operazione militare Dignità, condotta unitamente alle milizie di Zintan contro le formazioni jihadiste e islamiste e le relative istituzioni insediate nel Paese.
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Dunque un fronte molto diversificato, quello laico sopra descritto, che trova i suoi
punti di forza nell’appoggio politico e militare degli Emirati arabi uniti, oggi uno degli alleati
più fidati degli Stati Uniti in Medio Oriente, e dell’Egitto, il più potente degli stati confinanti
con la Libia, grazie al quale dispone di appoggio aereo alle proprie operazioni militari.
Come visto, figura chiave all’interno dello schieramento è rappresentata dal generale
Haftat, che garantisce a parlamento e governo rifugio, protezione e capacità di azione
militare coordinata, sia in Cirenaica, sia in Tripolitania.
L’altro fronte, quello islamista, è costituito da una composita coalizione di forze
eterogenee ma tutte accomunate da tre condivisi fattori ideologici.
Il primo è l’islamismo come modello politico cui ispirarsi, in particolare quello della
Fratellanza musulmana7. Il riferimento all’islam politico non è in contraddizione con il
secondo fattore aggregante del fronte, ovvero l’aspirazione democratica. Essa si è
manifestata proprio nel supporto al GNC, ritenuto dalle forze islamiste l’unica istituzione
libica investita del “vero” mandato popolare, quindi l’unica ritenuta davvero democratica8. Il
terzo fattore è il radicalismo rivoluzionario, volto a rovesciare i vecchi equilibri di potere -
politici, sociali e tribali - instaurati nella Libia di Gheddafi. Nessun attore del fronte islamista
intende accettare, nelle istituzioni post rivoluzionarie, la presenza di esponenti politici o
militari che abbiano a suo tempo ricoperto ruoli di rilievo sotto Gheddafi.
Costituisce naturale corollario e testimonianza di tali elementi fondanti l’azione unita
e coesa con la quale le componenti “islamiste” sul campo hanno inteso reagire
all’operazione “Dignità” lanciata, nel maggio 2014, dalle forze armate nazionaliste del
generale Haftar, rispondendo con la contro operazione “Alba Libica”9.
Tra le forze che sostengono il fronte islamico assumono peculiare rilevanza alcune
formazioni militari quali: le milizie di Misurata, composte da oltre 200 gruppi; la Libyan
Shield (o Scudo libico), milizia affiliata a quelle di Misurata e articolata in quattro brigate
presenti a Misurata, Bengasi, Khoms e Tripoli; la Libya Revolutionaries Operations Room
7 Movimento politico-religioso fondato da Ḥasan al-Bannā’ nel 1928 a Ismailia, diffusosi prima in Egitto e poi nel resto del mondo arabo-islamico e divenuto un punto di riferimento per numerose organizzazioni integraliste. Sul piano religioso propugna il ritorno al Corano secondo i principi del modernismo islamico. Sul piano sociale chiama i musulmani alla solidarietà e all’impegno attivo, da un lato per superare il sottosviluppo economico, dall’altro per individuare le possibili forme di una lotta di classe. Sul piano politico teorizza lo Stato islamico, interpretando l’Islam come un sistema totalizzante senza distinzione tra la sfera religiosa e quella civile. La Fratellanza musulmana domina, sul piano ideologico, il fronte islamista ed è considerata il movimento più organizzato nel Paese. E’ presente con migliaia di sostenitori nelle più importanti città. I suoi leader sono per la maggior parte accademici o uomini d’affari, che finanziano varie associazioni civili e fondazioni benefiche.
8 Rappresentare la propria legittimità attraverso istituzioni democratiche è il tratto che permette di distinguere i gruppi islamisti dai gruppi jihadisti-salafiti, più o meno vicini all’ISIS o ad Al Qaeda, che invece rigettano la rappresentatività democratica a favore dell’instaurazione di un regime teocratico basato sulla Sharia.
9 Avviata nel luglio 2014 da alcune milizie islamiste di Tripoli (in particolare la Camera Operativa dei Rivoluzionari Libici) e dalle milizie di Misurata per sottrarre il controllo dell'aeroporto internazionale di Tripoli alle milizie di Zintan (alleate con il generale Haftar), che lo controllavano dalla fine del 2011.
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(LROR), milizia fortemente legata alla Fratellanza musulmana e, ancorché numericamente
ridotta (poche centinaia di uomini), dotata di efficaci armi pesanti. Affianco a tali forze,
l’attuale Governo di Accordo Nazionale trova appoggio e sostegno anche nelle Petroleum
Facilities Guards (Guardie delle Strutture Petrolifere, PFG) che, guidate dall'ex
rivoluzionario Ibrahim Jadhran, controllano le strutture petrolifere installate nella parte
orientale del territorio libico. Parleremo più diffusamente delle citate formazioni nel
prosieguo di trattazione.
Come accennato, accanto ai due fronti che polarizzano la conflittualità interna al
Paese, nello scacchiere libico è presente un terzo fronte, quello jihadista, costituito dai
gruppi salafiti10 stabiliti soprattutto nelle città di Derna e Bengasi e suddivisi tra i salafiti-
nazionalisti, concentrati su obiettivi strettamente legati al contesto libico, e salafiti-jihadisti,
impegnati invece sugli obiettivi globali del salafismo.
L’analisi sin qui condotta consente, dunque, di delineare uno scenario estremamente
complesso e frammentato, all’interno del quale si contrappongono schieramenti
eterogenei, come visto riconducibili a tre distinti fronti. In tale contesto, assumono un ruolo
di assoluta centralità non tanto gli opposti schieramenti governativi e i correlati apparati
istituzionali, quanto una serie di attori interni, anche di carattere non convenzionale,
fortemente radicati sul territorio e in grado di incidere concretamente sulle dinamiche
conflittuali attuali e sulle future prospettive del Paese. Sono identificabili in tal senso alcuni
“elementi chiave” quanto mai rappresentativi della peculiare realtà libica: le tribù, le città-
Stato, le milizie armate, l’esercito nazionale libico e le forze di sicurezza convenzionali.
E’ dunque necessario, per interpretare compiutamente tale composita realtà,
analizzare più da vicino ciascuna delle citate “forze in campo”, identificandone i caratteri
salienti.
2.1.2 - Le tribù
L’ascendenza tribale rappresenta senza dubbio uno degli elementi fondanti della
realtà libica, quale retaggio e lascito della storia, talmente legato alla cultura e alle
tradizioni millenarie del Paese da aver superato indenne le vicissitudini e le trasformazioni
10 Il salafismo è una forma di fondamentalismo islamico sunnita, che rigetta la democrazia, è anti occidentale e aspira all’applicazione letterale della legge islamica (la Sharia) nella società.
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più radicali, conferendo oggi come ieri un forte carattere di frammentazione e conflittualità
al contesto sociale libico. Se durante la debole monarchia idrissina il re non poté che
concedere grande spazio ai poteri provinciali e locali, rafforzando il ruolo delle varie tribù
del territorio, durante il quarantennio gheddafiano queste, seppure indebolite, riuscirono,
attraverso il power sharing tribale messo in atto dal rais, a conservare, in mancanza di
istituzioni centrali, la loro influenza sulla popolazione, affermandosi come garanti della
coesione sociale. La dissoluzione della Jamahiriya11 ha rinvigorito il potere dei vari clan,
tanto da farli assurgere, in taluni casi, a veri e propri aghi della bilancia delle conflittualità
interne al Paese.
Per dare un’idea delle complessità del fenomeno e delle discendenti implicazioni sul
piano degli equilibri sociali, politici ed economici interni, basti sottolineare che, secondo
alcuni analisti, le formazioni sociali ed etiche che esercitano il proprio potere a livello locale
(più o meno esteso) sono almeno 140, anche se il numero di quelle più influenti non
supera la trentina. Si tratta, evidentemente, di una semplificazione, che tiene conto delle
realtà più significative, con effettivo margine di incidenza sulle dinamiche interne al Paese.
In realtà, altre fonti accreditano al contesto sociale libico una conformazione ben più
polverizzata, arrivando a contare qualche migliaio di tribù (anche quelle di modestissima
entità) sparse all’interno del territorio.
Tale circostanza rivela quanto - al di là dell’accennato “peso specifico”, tutt’altro che
marginale, assunto dagli attori esterni - sia di per se estremamente complicato muovere
leve interne al Paese volte a promuovere un reale processo di stabilizzazione sociale,
tanto più ove perseguito attraverso la costituzione di un governo unico che sia espressione
delle varie realtà ed istanze locali. Ciò, proprio nella considerazione che le divisioni e i
contrasti interni alla Libia non sono di matrice politica e geografica, ma di natura
eminentemente culturale e sociale, tanto che una persone nata in Libia è prima di tutto un
appartenente alla sua tribù e solo dopo un cittadino libico. Basti pensare, in tal senso, che
attualmente solo il 15% dei libici non appartiene ad alcuna tribù.
La centralità della questione è altresì confermata da alcuni studi condotti da
Mansouria Mokhefi (2011) dell’Istituto francese per le relazioni internazionali, in base ai
quali le affiliazioni tribali hanno assunto un ruolo crescente a livello nazionale soprattutto a
11 Neologismo arabo genericamente tradotto con "Stato delle masse", a indicare una repubblica popolare, governata, appunto, dalle masse. A coniare il termine, alcuni anni dopo aver preso il potere in Libia, fu Muammar Gheddafi, creando una sorta di sintesi tra le parole jamahir (masse) e jumhuriyya (repubblica). Proprio per volere del raìs la Libia dal 1977 venne chiamata "Grande Jamahiriya Araba Libica Popolare Socialista".
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partire dagli anni Settanta12, incidendo fortemente sulle dinamiche sociali e sulle correlate
conflittualità interne al Paese, anche attraverso il ricorso a strumenti di potere e
persuasione quali le concessioni di privilegi economici e di protezione, l’assegnazione di
incarichi istituzionali di rilievo e altri tipi di “facilitazioni”.
Si è in tal modo dato vita a un complesso sistema di relazioni e alleanze locali
(basate anche su legami maritali) che ha contribuito e contribuisce tutt’oggi ad alimentare
una “cultura di patronati”.
Peraltro, il fenomeno delle affiliazioni tribali, così come sopra identificato, si innesta a
sua volta all’interno di un composito quadro etnico-geografico.
Quasi tutte le tribù, ancorché caratterizzate ciascuna da una forte connotazione
identitaria, sono riconducibili, alle etnie araba e arabo-berbera. Infatti, dei circa 6.300.000
abitanti della Libia, circa 4.500.000, sono arabi, suddivisi in miriadi di confraternite
islamiche (prevalentemente di fede sunnita) e concentrati soprattutto nelle città della costa
come Tripoli, Misurata, Bengasi, Sabrata e Zawia. I berberi, invece, sono circa 500.000,
anch’essi divisi in clan, spesso in forte contrasto tra di loro. Coesistono altresì, all’interno
del territorio libico, altre minoritarie realtà che - pur mantenendo una propria peculiare
identità culturale e sociale - partecipano alle dinamiche di conflittualità interne al Paese: si
tratta delle etnie Tuareg e Toubou.
Nell’immagine che segue (Figura 5) è illustrata la distribuzione sul territorio libico di
tali etnie.
12 Secondo Mokhefi M, (Al Jazeera Centre for Studies) in “Gaddafi’s regime in relation to the Libyan tribes” (2011), tale crescente influenza delle dinamiche tribali all’interno della Libia è stata fortemente favorita proprio dalla politica interna attuata da Muammar Gheddafi. Il raìs infatti, una volta resosi conto dell’impossibilità di contenere il fenomeno, ha colto l’opportunità di servirsene per consolidare la propria posizione. Nella terza parte di al-Kitāb al-ahdar, ovvero il famoso Libro Verde del Colonnello, si trova la definizione che Gheddafi diede alla tribù: “una famiglia allargata (…) una scuola sociale i cui membri vengono educati ad assorbire gli alti ideali che danno vita a un modello di comportamento per la vita (…). È un ombrello naturale per la sicurezza sociale”.
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Figura 5: Distribuzione etnie (Fonte: GulfNews.com)
I Tuareg sono un popolo nomade di origine berbera che vive a cavallo fra il Sahara e
la regione del Sahel. Hanno cultura e storia profondamente diverse rispetto alle tribù che
vivono sulla costa. Le comunità Tuareg sono insediate nella parte sudoccidentale del
Paese, specialmente intorno alle oasi di Ghadamis e Ghat. Da sottolineare come le
vicende legate a tale etnia coinvolgano molto da vicino gli interessi economici dell’Italia.
Essendo i Tuareg insediati in aree limitrofe al deposito di gas naturale di Waha che
rifornisce il nostro Paese nonché al campo petrolifero Elephant alla cui proprietà partecipa
anche l’Eni. Di qui la necessità, fortemente sentita dall’Italia, che la posizione e le istanze
dei Tuareg all’interno del complesso scacchiere libico non possano essere trascurate
nell’ambito del processo di stabilizzazione del Paese.
40
I Toubou, invece, vivono in piccole comunità (che contano, rispetto alle altre etnie,
un numero limitatissimo di appartenenti, non superiore oggi alle 2.600 unità),
prevalentemente dedite alla pastorizia, dislocate nelle inospitali zone desertiche lungo i
monti Tibesti, nella parte sud-orientale del Paese vicino al confine con il Chad e all’oasi Al
Kufrah. Anche tali comunità giocano un loro ruolo nell’ambito dei due schieramenti in
campo e dei relativi equilibri di potere. Un esempio è rappresentato dai fatti occorsi nel
novembre del 2015 quando le milizie Tuareg sostenute dal governo di Tripoli e dalle
milizie di Misurata hanno sottratto ai Tebu il controllo del grande campo petrolifero di
Sharara, nel sud-ovest della Libia. Immediata è stata la reazione del fronte opposto da
parte delle milizie di Zintan, alleate coi Tebu, con la chiusura, per rappresaglia,
dell'oleodotto che trasporta il petrolio di Sharara ai terminal del nord, causando
l'interruzione della produzione di 300.000 barili di petrolio al giorno.
Date tali premesse, esaminiamo più da vicino il fenomeno tribale, limitando peraltro
l’indagine ad alcuni gruppi prevalenti, secondo le rispettive aree di influenza all’interno
delle tre grandi regioni in cui è ripartito il territorio libico, così come illustrate in Figura 6:
Figura 6: Gruppi prevalenti (Fonte: New York Review of Books)
41
la Tripolitania, che occupa la fascia settentrionale (nord ovest) del territorio libico lungo
il mediterraneo, dal confine con la Tunisia fino alla fine del Golfo della Sirte e che
comprende la città di Tripoli, sede prima del General National Congress (GNC) e poi
del Governo di Accordo Nazionale;
la Cirenaica, che occupa tutta la fascia orientale, lungo il confine con l'Egitto, dal mar
Mediterraneo al confine con il Sudan e il Ciad e che comprende la citta di Tobruk, sede
dell’House of Representatives (HoR);
il Fezzan, che occupa la parte sahariana a sud della Tripolitania, dal confine con
l'Algeria fino alla Cirenaica, lungo il confine con Niger e Ciad.
In Tripolitania è innanzitutto insediata la tribù di origine di Gheddafi, la Gadhafi, Poco
numerosa è per lo più composta da pastori, non aveva mai assunto, prima
dell’instaurazione del regime, un ruolo cruciale nella storia del Paese, né esercitato alcuna
influenza prevalente. Tuttavia, durante i 41 anni di regno incontrastato del raìs, la tribù ha
inevitabilmente acquisito una posizione di sempre maggior rilievo (del resto furono i suoi
appartenenti a organizzare il colpo di Stato del 1969 ai danni dell’allora re Idris, originario
della Cirenaica). La Gadhafi si divide in 6 formazioni più piccole e poco numerose ed è
stata storicamente alleata alla più importante e numerosa tribù della regione e del Paese:
Warfallah, che conta circa un milione di appartenenti (un sesto dell’intera popolazione
libica) per la maggior parte concentrati nelle città di Tripoli e Bengasi.
Nonostante la vecchia alleanza tribale, nei giorni della rivolta che hanno portato alla
caduta del regime, Warfallah si è apertamente schierata contro il dittatore. A Tripoli e nei
territori limitrofi sono insediate anche le tribù Bani-Walid e Tarhuna (quest’ultima forte di
350 mila appartenenti). Altra tribù della regione è la Zentan, concentrata prevalentemente
sul confine con la Tunisia e nota per essere stata, durante il regime di Gheddafi, quella
che più ha contribuito ad alimentare l’esercito del colonnello fino ai moti del 2011.
In Cirenaica, invece, è la tribù Zuwaya ad esercitare la maggiore influenza, non tanto
per la sua consistenza numerica, quanto per il controllo di aree strategiche da un punto di
vista economico, all’interno delle quali sono dislocati pozzi e depositi di petrolio. Questa
tribù è stata una delle protagoniste del crollo del regime del colonnello insieme a quella di
Misurata (che dà il nome all’omonima città), altra importante realtà tribale dell’est della
Libia, oggi presente soprattutto a Bengasi e Derna. Nella regione è altresì insediata ed
esercita la propria influenza la tribù al-Awaqir, riconosciuta all’interno del Paese come
42
fondamentale baluardo di indipendenza, avendo combattuto in prima linea contro il
colonialismo ottomano e italiano. Di qui, l’autorevolezza e rilevanza delle posizioni assunte
dalla tribù stessa nella gestione della crisi libica. Sempre in Cirenaica, poi, è presente la
tribù Obeidat, che ha assunto un’importanza via via crescente in quanto insediata a
Tobruk, sede dell’House of Representatives (HoR). Da questa tribù provengono due
importanti personaggi, che hanno profondamente inciso nella recente storia del Paese
contribuendo alla caduta del regime di Gheddafi: il generale Suleiman Mahmud (che era
responsabile della regione militare di Tobruk) e il generale Abdel Fattah Younis, Ministro
degli Interni.
Nel Fezzan, infine, è presente una delle tribù più importanti e influenti del Paese, la
Magariha che domina l’immenso deserto della regione, anche se molti appartenenti alla
stessa si sono trasferiti a Tripoli e nelle altre città della costa. Al pari dell’altra grande tribù
libica Warfallah anche Magariha ha storicamente stretto forti alleanze con la tribù di origine
del raìs, Gadhafi, salvo nella fase finale della caduta del regime. Come visto, pressoché
tutte le etnie sopra descritte sono di etnia araba. Nel territorio libico insistono, peraltro,
anche diversi clan di etnia berbera, tra i quali assumono un ruolo principale le tibù Ait
Willoul e Ind Mensor a occidente, Jalu e Awjla a oriente. Moltissimi Berberi in Libia
fanno parte poi della setta religiosa Kharigita, una frangia dell’Islam definita eretica da
sciiti e sunniti. Solo alcune tribù sono invece di fede cristiana, convertite nell’ultimo secolo
da missionari cattolici.
2.1.3 - Le città-Stato
Altro attore nevralgico all’interno del mosaico libico è costituito dalle città. In assenza
di una chiara leadership centrale, alcune di esse, le più importanti anche da un punto di
vista strategico, hanno assunto la connotazione di vere e proprie “città-Stato”, dotate di
autonomia amministrativa e militare e caratterizzate da una ben definita identità politica
espressa attraverso chiare prese di posizione all’interno della crisi.
Si tratta dunque di realtà capaci di configurarsi in governi a sé stanti, legittimati a
sostituire lo Stato nel diffondere sussidi pubblici, amministrare giustizia, fornire opportunità
lavorative e controllare i gruppi armati. In tal senso, i due esempi preminenti sono
rappresentati proprio dalle città sede degli opposti schieramenti politici, che sintetizzano la
“polarizzazione” del conflitto interna al Paese: Tripoli e Tobruk. Come accennato, Tripoli è
stata dal 2012 sede del General National Congress (governo rivoluzionario, anti-
gheddafiano e filo islamista) e dal 2016 ospita il Governo di Accordo Nazionale presieduto
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dal Primo Ministro Fayez al-Sarraj riconosciuto dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU e dalla
Comunità internazionale. Tobruk, invece, è sede dell’ House of Representatives,
istituzione di ispirazione laico-nazionalista che continua a disconoscere e negare la fiducia
al Governo di Accordo Nazionale.
Nell’ambito di tale contrapposizione, vengono altresì ad assumere un ruolo di
assoluto rilievo altre due città. Su di un fronte Zintan, che con le sue milizie e affiliazioni
appoggia in Tripolitania il Governo di Tobruk (sostenuto, invece, in Cirenaica dalle varie
forze riorganizzate all’interno della “operation Dignity” dal generale Haftar). Sull’altro
fronte, Misurata, terza città del Paese, aperta agli scambi commerciali (in particolare quelli
marittimi) e di scarse propensioni islamico-radicali, che appoggia il Governo di Accordo
Nazionale di Fayez al Serraj ed esprime, attraverso un numero considerevole di milizie
interne, un ruolo fondamentale non solo sul piano strategico ma anche operativo. In tal
senso decisivo è stato l’intervento della città contro le forze dello Stato Islamico insediate
nel Paese, che ha portato dopo durissimi e reiterati combattimenti, alla liberazione della
vicina Sirte ad opera delle milizie del Generale Mohamed al Ghasri.
Misurata si pone oggi quale esempio emblematico del successo dei governi locali
libici nel raggiungimento di una propria indipendenza, in particolare nei campi della
sicurezza e dell’amministrazione degli affari locali13.
In tale contesto, entrano in gioco - in una ambigua posizione di terzietà rispetto ai
citati schieramenti - anche le città di Bengasi, Derna e Agedabia con i propri Consigli
consultivi (coalizioni di milizie islamiste che hanno combattuto contro l’esercito libico in
Cirenaica negli ultimi anni). Bengasi è altresì, come vedremo, roccaforte di Ansar al-Sharia
Libia, formazione di ispirazione islamista tra le più cospicue e influenti nell’est del Paese.
13 Un esempio importante della capacità della città e delle sue istituzioni locali di agire autonomamente dal potere centrale è costituito dal famoso incidente di Gargour del novembre 2013, quando le truppe di Misurata uccisero più di quarantaquattro civili. In quell’occasione, alcuni miliziani della città di Misurata spararono dalle loro case contro protestanti civili che stavano marciando nella zona di Gargour per chiedere che le milizie si ritirassero dalla capitale. In esito a tali tragici eventi scoppiò una forte protesta popolare e si diffuse un sentimento di rivalsa nei confronti dei responsabili del massacro. Il consiglio locale di Misurata intervenne allora decidendo di richiamare tutti i ministri e tutti i membri del CNG originari di Misurata. Inoltre, le autorità locali ordinarono alle unità provenienti da Misurata appartenenti agli “Shields” di ritirare. Con questi ordini il consiglio locale di Misurata scavalcò, di fatto, il primo ministro, il presidente del CNG, e il capo dell’esercito, dimostrando piena autonomia decisionale e capacità di esercitare azione di comando e controllo anche sulle unità e sugli uomini che avrebbero dovuto essere fedeli esclusivamente al governo centrale.
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2.1.4 - Le milizie armate
Accanto alla fondamentale componente tribale (con le correlate divisioni di tipo
locale, sociale, religioso e ideologico) e in stretto legame di contiguità con le citate città-
Stato, è identificabile, come detto, un altro fondamentale attore interno, quello costituito
dalle milizie armate.
Si è già fatto cenno nei paragrafi precedenti al ruolo cruciale delle milizie all’interno
dello scacchiere libico, con specifico riguardo al sostegno offerto dalle stesse ai
contrapposti fronti laico e islamico, in particolare attraverso la conduzione dell’Operazione
“Dignità” (nella quale, come visto, hanno assunto un ruolo fondamentale le milizie del
Generale Haftar coadiuvate dalle milizie di Zintan) e nella contro Operazione “Alba Libica”
(ove sono state protagoniste le milizie di Misurata e quelle di Tripoli). In realtà le forze “sul
campo” sono molto più numerose ed eterogenee, a formare un quadro di situazione
piuttosto composito e fluido.
Giova sottolineare, in via preliminare, che l’importanza graduale assunta all’interno
del Paese da tali formazioni è la naturale risultante degli accadimenti occorsi all’indomani
della caduta di Gheddafi. La disgregazione delle forze militari del regime ha infatti avuto
come diretto corollario l’occupazione del territorio libico e delle città liberate da parte delle
milizie ribelli. Queste, nel tempo, lungi dal depore le armi o confluire in un unico esercito
nazionale, così come a suo tempo auspicato dal Consiglio nazionale di transizione (CNT),
si sono costituite come micro‐gruppi di potere con un limitato controllo territoriale.
Nel corso di questi ultimi anni, le fazioni armate hanno svolto, e tuttora svolgono, un ruolo
di mantenimento dell’ordine nelle aree da loro controllate, finendo così per acquisire una
sorta di preminenza sulla stessa classe politica, attraverso una chiave di legittimità come
visto alimentata da una retorica di tipo rivoluzionario. Le formazioni attive all’interno del
Paese si riconoscono, infatti, quali “garanti della rivoluzione” reputando la stessa non
ancora terminata. In tal modo, mentre i gruppi armati hanno accresciuto la propria
rilevanza, il CNT è andato perdendo nel tempo sostegno e fiducia, ciò imponendogli di
rivolgersi alle milizie stesse per ottenere il supporto popolare.
Alla base di questo processo di graduale riconoscimento e affermazione delle milizie
vi sono, peraltro, anche elementi sociali. Molti giovani, grazie alla partecipazione alla lotta
contro il regime, hanno infatti assunto un nuovo ruolo nella società: da semplici cittadini (in
gran parte disoccupati) a tuwwar (rivoluzionari).
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Altro fondamentale fattore di legittimazione è rappresentato dalla forte capacità delle
milizie di supportare e sostenere le istanze locali creando un forte e diretto legame
identitario con la popolazione. Ciò, se da una parte ha consolidato il potere dei gruppi
armati, dall’altro, parallelamente, ha ulteriormente contribuito all’indebolimento e alla
delegittimazione delle istituzioni centrali. Proprio per tentare di invertire questa progressiva
tendenza e recuperare la necessaria “aderenza” sul territorio, il Consiglio Nazionale di
Transizione (CNT) prima ed il Congresso Generale Nazionale (CGN) poi hanno tentato di
ricondurre le milizie locali all’interno della Organizzazione degli “Shields” posti alle
dipendenze del Ministero della Difesa e, in taluni limitati casi, di includerle direttamente
nelle forze organiche ministeriali (Difesa e Interni). Tale decisione ha portato, tuttavia, alla
creazione di una serie di strutture organizzative di sicurezza con catene di comando
estremamente difficili da controllare, ciò non consentendo di conseguire una effettiva
azione di integrazione.
Oggi, dunque, continuano ad essere presenti all’interno del Paese, centinaia di
gruppi armati, più che mai attivi sul territorio e con un ruolo centrale nella evoluzione degli
scenari libici. Tali formazioni non solo hanno impedito ed impediscono la costituzione ed il
funzionamento delle forze regolari di difesa e della polizia, minacciando di interferire con le
decisioni degli organi esecutivi ed elettivi del Paese, ma alimentano alcuni pericolosi
fenomeni collaterali: contrabbando e traffico di migranti, criminalità, attività terroristica e
dispute locali violente.
A fronte di tale critica situazione, diverse sono state le iniziative da parte del governo
volte ad avviare un processo di disarmo, ma senza alcun seguito reale.
Il risultato è che tale diffusa presenza di formazioni armate all’interno del territorio
libico, alcune delle quali dotate di elevate capacità operative e in possesso di armi pesanti,
crea condizioni quasi proibitive per la costituzione di un esercito nazionale e per l’avvio di
un concreto processo di ricostruzione del Paese in chiave unitaria.
Ma esaminiamo ora più da vicino tale composita realtà, procedendo preliminarmente
a inquadrare ciascuna formazione all’interno dei fronti precedentemente esaminati. In tal
senso, anche le milizie armate, pur nella loro eterogeneità, possono essere ricondotte a
tre fondamentali schieramenti: quello delle forze nazionaliste, quello islamista e quello
salafita-jihadista (v. Figura 7).
Come già accennato, i nazionalisti sostengono il parlamento di Tobruk e si
identificano nelle forze armate impegnate nell’Operazione “Dignità”. Tale fronte
comprende sia forze autorizzate dal parlamento, quali l’Esercito nazionale libico di Haftar,
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le Forze speciali, la Petroleum Facilities Guard, la Army of Cyrenaica e Cyrenaica
Protection Force, sia forze non autorizzate, come le milizie di Zintan (in particolare le
brigate di Al-Sawaiq e Al-Qaqa) e altri gruppi locali, ed è supportato da attori esterni quali
Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita.
Figura 7: Le forze in campo (Fonte: University of Texas Libraries)
Le milizie di ispirazione islamista, diretta emanazione della Fratellanza musulmana,
invece, appoggiano il governo di Tripoli e sono rappresentate dalla coalizione che ha
condotto l’operazione “Alba libica”; tra queste formazioni, le più importanti sono quelle di
Misurata (facenti capo alla città da cui prendono il nome) alle quali sono affiancate le
milizie di Tripoli (Libyan Revolutionaries Operations Room, milizia di Suq al Jumaa e
milizia di Tajura), di Zuara, di Gharyan e di altri piccoli centri della Tripolitania. Sul piano
internazionale, le forze islamiste sono appoggiate da Turchia e Qatar.
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I gruppi salafiti-jihadisti, infine, sono presenti prevalentemente presso le città di
Bengasi e a Derna ed hanno legami, come vedremo, più o meno consolidati con Al Qaeda
e, in qualche misura, con lo Stato Islamico. Le brigate presenti a Bengasi sono Ansar al-
Sharia, la brigata Martiri 17 febbraio e la brigata Rafallah al-Sahati, che formano tutti
insieme il Consiglio dei rivoluzionari di Bengasi. Derna, invece, vede come protagonisti
Ansar al Sharia Derna, il Consiglio della gioventù islamica e la brigata Martiri di Abu Salim.
I seguenti sotto paragrafi descrivono le varie milizie appartenenti alle quattro grandi città
libiche di Zintan, Tripoli, Misurata e Bengasi, per poi soffermarsi sulle formazioni più
significative del fronte islamista e concludere con i federalisti armati dell’est.
● Milizie di Zintan
Durante le rivolte del 2011, Zintan, cittadina sui monti Nafusa la cui popolazione è di
origine “araba” a prevalenza Amazigh, non fu mai conquistata dalle forze di Gheddafi.
I monti, grazie anche alla loro vicinanza al confine tunisino, diventarono un’area di
riferimento per le organizzazioni militari ribelli delle zone circostanti, che si aggregarono
rapidamente fino a formare le potenti milizie arabe anti-islamiste presenti tutt’oggi.
Le forze di Zintan entrarono per prime a Tripoli durante la sua liberazione nell’agosto
del 2011 e si insediarono in alcune zone chiave della Libia occidentale occupando basi
militari, ex edifici ministeriali e altre strutture facilmente difendibili. Mentre molte
formazioni Arabe e Amazigh (Jadu, Rajban, ecc) hanno lasciato Tripoli agli inizi delle
manifestazioni civili anti-milizie del novembre 2013, quelle di Zintan sono rimaste ed
hanno accresciuto il loro potere nel tempo, facendo leva sul controllo dell’aeroporto
internazionale (tenuto fino ad agosto 2014) e sulla cattura di Saif al-Islam Gheddafi.
Oggi, le milizie di Zintan sono tra i gruppi armati più influenti in Libia, e controllano
alcune reti di comunicazione, tra cui il canale televisivo satellitare “Libia al-Watan”.
I miliziani hanno goduto del supporto del governo durante un lungo periodo, ricevendo
fondi per l’acquisizione di mezzi e munizioni. Nonostante ciò, nel tempo hanno dato vita
a numerose azioni di dura protesta sia nei confronti del governo del Primo Ministro
Zeidan sia, e soprattutto, nei confronti del Congresso, minacciando colpi di Stato o
lanciando ultimatum; da ricordare il rifiuto di consegnare Saif al-Islam per il processo a
Tripoli e le minacce all’assemblea nel mese di aprile 2014 per evitare l’elezione a Primo
ministro del misuratino Ahmed Maetig, vicino alla fratellanza musulmana.
In tale contesto, pur essendo pacifico e consolidato il legame tra le milizie e le istituzioni
di Zintan, allo stesso tempo tali istituzioni continuano a incontrare, nella gestione dei
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gruppi armati locali, notevoli difficoltà in termini di comando e controllo, dovute
prevalentemente alla palesata incapacità di contenere l’impeto dei miliziani più giovani.
Questa vulnerabilità è emersa, in particolare, quando le brigate di Al Qaqa e Al Sawaiq
con base a Tripoli hanno minacciato il CNG il 18 febbraio 2014, chiedendo che si
ritirasse entro cinque ore. Detta iniziativa, mal studiata e fallita miseramente, sembra
infatti non essere mai stata autorizzata dai funzionari politici di Zintan. Di fatto, la natura
ribelle e poco incline ai compromessi che ha portato queste milizie al potere costituisce,
al contempo, la ragione che ne rende estremamente difficile il controllo.
Di seguito, alcune delle principali formazioni facenti parte delle milizie di Zintan.
Brigata Al Qaqa
Questa milizia, si è formata nell’ovest del Paese durante la rivolta del 2011.
Con base a Zintan, la brigata si è ritirata di proposito da Tripoli il 21 novembre 2013.
Comandata da Othman Mlekta, fratello dell’importante esponente del partito
dell’Alleanza Nazionale Abdulmajid (guidato da Mahmud Jibril), la brigata è stata
formata in parte per assorbire le rimanenti forze del regime di Gheddafi. Ha poi
ampliato sensibilmente le proprie capacità militari durante il periodo in cui Osama
Jweli ricopriva l’incarico di Ministro della Difesa, ricevendo di fatto un trattamento
preferenziale, con accesso ad equipaggiamenti di ultima generazione.
È la milizia con il più alto numero di membri addestrati perché ne fanno parte soldati
e ufficiali della famosa 32sima Brigata di Gheddafi, conosciuta anche come Brigata
Khamis. Ha aderito all’Operazione Dignità lanciata dal generale Khalifa Haftar ed è
attualmente sotto il controllo del Ministero della Difesa.
È considerata una delle più organizzate ed equipaggiate tra le milizie sostenute dal
governo di Tobruch e si ritiene possegga riserve di armi ed equipaggiamenti nonché
capacità di training superiori rispetto alle altre brigate.
Tuttavia, anche se può ritenersi, sotto certi aspetti, parte integrante delle forze a
supporto del governo nazionalista di Tobruch, tale milizia adotta tecniche e
procedure operative tutt’altro che convenzionali, all’interno delle quali si insinuano
anche attività criminose quali contrabbando e traffico di armi.
Brigata Al Sawaiq
Altro gruppo che si distingue per organizzazione e potenza di fuoco è quello della
Brigata Al-Sawaiq. Originaria del Zintan, tale formazione, sul piano politico, fa
riferimento al partito dell’Alleanza Nazionale dell’ex primo Ministro Mahmoud Jibril.
Comandata da Emad al-Trabulsi, anche questa formazione ha aderito alla
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operazione Dignità del generale Haftar, ma i suoi interventi risalgono alle prime fasi
della crisi. Ha partecipato all’assalto di Tripoli nel 2011. Durante il periodo post
rivoluzione è stata poi impiegata nella protezione dei membri del CNT con i suoi
duemila uomini. Ha fornito, altresì, una cornice di sicurezza ai funzionari del
governo e svolto attività di sorveglianza presso alcuni edifici ”sensibili” a Tripoli.
Infine, è stata ripetutamente assegnata dal CNG alla difesa del primo ministro Ali
Zeidan dopo il suo sequestro avvenuto per mano di milizie islamiste.
Milizie di Tripoli
Ad oggi una prima categorizzazione dei gruppi armati presenti a Tripoli può essere
condotta sulla base del diverso grado di sostegno al governo unitario guidato da Fayez
al Sarraj, impegnato a crearsi una base consolidata nella capitale. Per ora una
maggioranza è esplicitamente favorevole o comunque ambivalente nei confronti di
questo governo, pur attendendo di verificare nel tempo quanto la nuova organizzazione
politica manterrà inalterati gli interessi e gli obiettivi dei gruppi stessi.
Special Deterrent Force (Forza Speciale di Deterrenza, SDF, o Rada)
Una delle più importanti figure a sostegno del nuovo governo è Abdel Rauf Kara,
comandante della Special Deterrent Force di stanza nel complesso di Maitiga, sede
anche dell'unico aeroporto operativo di Tripoli. La compagine di Kara, di tendenza
salafita e forte di qualche migliaio di elementi, ha una forte influenza locale e sta
tentando di formare un'unità antiterrorismo con componenti delle forze speciali
dell'esercito che, nella Libia occidentale, hanno rifiutato di unirsi ad Haftar.
Gruppi armati dall'area tripolina
Accanto alla suindicata Forza Speciale, gravitano nell’area tripolina altre formazioni,
quali i gruppi armati di Suq al Jumaa, inclusa la brigata Nawasii, che consta di
qualche centinaio di unità ed è guidata da Abdulraouf Karah. Ciascuno di tali gruppi
cerca di ritagliarsi un ruolo chiave nell’assicurare una cornice di sicurezza al
governo unitario.
Un'altra figura di potere a Tripoli è Haitham Tajouri, a capo della più grande milizia
cittadina. Tajouri, le cui forze hanno minacciato e compiuto atti di intimidazione nei
confronti di pubblici ufficiali sin dal 2012, non ha un particolare rilievo politico: la sua
priorità è proteggere i considerevoli interessi maturati nella Capitale e per il
momento la posizione nei confronti del governo unitario rimane ambigua.
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Consiglio Militare di Tripoli e Consiglio Locale di Tripoli
Le milizie a tendenza islamista di Tripoli, alcune delle quali hanno legami con
personalità del defunto Libyan Islamic Fighting Group (Gruppo Islamico Libico
Combattente, LIFG), sono di solito le più scettiche nei confronti del governo unitario
anche se nessuna di queste è ancora passata dallo scetticismo all'azione armata.
In tale contesto ha assunto nel tempo una posizione di rilievo il Consiglio Militare di
Tripoli (sigla in inglese TMC), prevalentemente formato, appunto, da vecchi membri
del LIFG e, proprio per tale motivo, rappresentativo dell’ala più radicale della
coalizione di Alba libica.
Milizie di Misurata
Le milizie di Misurata, con più di 200 gruppi armati e oltre 40.000 uomini, costituiscono
la più grande formazione di combattenti dell’era post-Gheddafi e oggi dispongono di
una consistente potenza di fuoco (dotazioni stimate: circa 800 carri armati, 2.000
veicoli, 30.000 armi leggere, 16 cannoni, 13 lanciarazzi mobili, 2.500 colpi di mortaio e
200 proiettili di artiglieria). Lo spirito combattente di queste armate è emerso a seguito
della cruenta occupazione della città, per tre lunghi mesi, da parte delle forze di
Gheddafi, allorché i cittadini si cominciarono a organizzare in brigate per difendere la
propria comunità. A seguire, le milizie di Misurata hanno avuto un ruolo decisivo in
molte fasi della crisi libica, dalle battaglie per la conquista di Tripoli, all’uccisione di
Gheddafi. Determinante, in particolare, è stato il contributo di tali formazioni nella
liberazione di Sirte dalle forze dello Stato Islamico, che ha segnato una svolta
fondamentale nella lotta all’ISIS.
Le milizie, storicamente contrapposte a quelle di Zintan, sono sempre state vicine alla
Fratellanza Islamica, anche se - secondo Frederic Wehrey, ricercatore associato del
Carnegie Endowment for International Peace - coabitano all’interno della compagine
due fazioni contrapposte, che alimentano una lotta intestina tanto silente quanto
potenzialmente pericolosa: da un lato, appunto, ci sono i Fratelli Musulmani, dall’altro i
salafisti, con le conseguenti sostanziali divergenze e contrapposizioni non solo di
matrice politico-religiosa ma anche tribale.
Oggi le milizie di Misurata costituiscono la componente preminente dell’organizzazione
degli “Shields” della Libia occidentale e sono organicamente dipendenti dal Capo di
Stato Maggiore della Difesa, facente a sua volta capo al Governo di Accordo Nazionale.
I due principali gruppi armatati all’interno della compagine sono rappresentati dalle
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Brigate Halbous e Mahjoub. Altre importanti formazioni interne sono rappresentate
dalla Brigata 166 e Dhara Libya.
Milizie di Bengasi
Come accennato, anche la città di Bengasi assume un ruolo di centralità nel precario
gioco di equilibri e conflittualità interni allo scacchiere libico, attraverso l’azione
esercitata da istituzioni e milizie locali. Su tutte, il Consiglio della Shura dei
rivoluzionari di Bengasi, un'organizzazione-ombrello che raccoglie fazioni islamiste e
che si autodefiniscono rivoluzionarie. Vi fa parte anche Ansar al-Sharia, formazione
armata di ispirazione islamista, della quale accenneremo in seguito. Altre importanti
formazioni locali sono rappresentate dai gruppi armati di seguito riportati.
Brigata martiri 17 febbraio
Questo gruppo islamista, fondato all’inizio della rivoluzione da Fawzi Bukatef, ha
sostenuto di fatto l’impegno bellico nell’est del Paese per tutto il periodo necessario
a favorire la caduta del regime, divenendo, al termine dei moti rivoluzionari, una
delle milizie più cospicue e meglio armate della Libia orientale. Insediato tra
Bengasi e Sirte, conta oggi tra le proprie fila tra i 1.500 e i 3.000 uomini, alcuni dei
quali hanno combattuto a fianco dei ribelli in Siria. Finanziata dal Ministero della
Difesa in quanto anch’essa membro dell’organizzazione degli “Shields”, questa
formazione armata è stata schierata a Kufra e nella Libia orientale. Prima ancora ha
sorvegliato la missione diplomatica degli USA a Bengasi alla vigilia dell’attacco
dell’11 settembre 2012.
Brigata Rafallah al-Sahati
Inizialmente parte della Brigata martiri 17 febbraio, oggi conta più di mille membri
che operano a Kufra, nella Libia orientale e soprattutto a Bengasi. Il gruppo, di
ispirazione islamista e non salafista (proprio come la Brigata martiri 17 febbraio) è
capeggiato di fatto da Ismail al-Sallabi anche se ufficialmente il comando è
assegnato a Salahadeen Bin Omran. Ismail al-Sallabi è fratello di Ali al-Sallabi, un
clerico che vive in Qatar e che ha aiutato il flusso di finanziamenti esteri dal Qatar
nei confronti di numerosi gruppi ribelli libici a sfondo islamista. Sia Rafallah al-
Sahati che la Brigata martiri 17 febbraio sono oggi comprese nella Revolutionaries
Operations Room di Bengasi e competono con le Forze speciali dell’esercito libico a
Bengasi per il controllo delle strade della città.
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Milizie islamiste
In Libia sono identificabili, accanto alle formazioni sopra descritte da ricondursi ai due
contrapposti fronti laico ed islamico, una serie di gruppi jihadisti, di diversa natura e
matrice. Alcuni di questi sono del tutto autoctoni e radicati a livello locale, mentre altri si
caratterizzano per la presenza di elementi provenienti dall’esterno, sia a livello di
comando che di personale operativo.
La rete jihadista libica può essere analizzata e interpretata seguendo le linee
generazionali susseguitesi nel tempo, a partire da jihadisti che negli anni ‘80
combatterono contro le forze filosovietiche in Afghanistan. Tali veterani, dopo essere
ritornati in Libia, costituirono dei gruppi armati contrapposti al regime, partecipando alle
rivolte contro Gheddafi degli anni ‘90. Il più esteso ed influente di questi gruppi è stato
senza dubbio l'ormai disciolto Libyan Islamic Fighting Group (Gruppo Combattente
Islamico Libico, LIFG). Tale formazione, di ispirazione salafista, si formò verso la metà
degli anni ’90, facendosi gradualmente conoscere, soprattutto nella regione delle
Montagne Verdi, in particolare intorno alle città di Derna e Bengasi. Tuttavia,
nonostante i componenti fossero jihadisti, gli obiettivi di questo gruppo si rivelarono
diversi da quelli perseguiti da Al Qaeda, in quanto prevalentemente rivolti a questioni ed
istanze nazionali.
Le dinamiche tra LIFG e Gheddafi sono emblematiche della capacità del Colonnello di
usare i gruppi armati libici per il perseguimento di interessi propri. Infatti, nonostante la
partecipazione del LIFG alle rivolte contro Gheddafi e la conseguente dura repressione
da parte del regime, il rais agli inizi del 2000 iniziò una strategia di riconciliazione con il
gruppo al fine di guadagnare una posizione di rilievo a livello internazionale durante la
“Guerra al Terrorismo” successiva ai fatti dell’11 Settembre. In tale contesto, sia LIFG
che i Fratelli musulmani, agli inizi delle rivolte del 2011, assunsero una posizione poco
chiara e definita, decidendo dapprima, in maniera frettolosa, di unirsi alle forze di
Gheddafi per poi passare dalla parte dei ribelli.
Con la liberazione della Libia, i veterani del LIFG presidiarono il cambiamento
ideologico e strutturale del gruppo, con l’intenzione di beneficiare delle opportunità
mediatiche, militari ed economiche provenienti dalle rivolte. Riposizionandosi con il
nome di Movimento islamico libico per il cambiamento (sigla in inglese LIMC), gli ex
combattenti del gruppo LIFG si sono “reinventati” nazionalisti e patriottici, rivendicando
un ruolo di assoluta centralità all’interno dello scacchiere libero e proponendosi quale
53
forza in grado di assumere funzioni chiave di governance all’interno del processo di
transizione democratica. Tuttavia, nonostante l’impatto iniziale del gruppo a livello
nazionale, con il passare del tempo i tentativi del comandante Abdul-Hakim Belhajj di
trasformare la sua forza militare e i suoi legami con il Qatar in influenza politica non
sono andati a buon fine e il gruppo ha perso mano a mano potere. L’attivismo con il
quale questa prima generazione di jihadisti ha inteso partecipare alle trasformazioni in
atto, cercando di “cavalcare l’onda” per arrivare a ricoprire cariche politiche e
istituzionali di primo piano all’interno del Paese non è stato infatti condiviso dalle
seconde e terze generazioni di jihadisti14, depositarie di ideologie e posizioni
decisamente più radicali e avverse a ogni forma di democrazia.
Il fatto che l’influenza jihadista si sia concentrata soprattutto a Derna è sorprendente dal
momento che la Libia orientale è stata tradizionalmente la terra dell’Ordine di Sanussi
Sufi, portatore di dottrine antitetiche rispetto a quella jihadista. Tuttavia, il fenomeno
riflette l’azione di progressiva marginalizzazione della Libia orientale perpetrata dal
regime Gheddafi e il suo rifiuto di qualsiasi dottrina islamica eterodossa.
A ciò si aggiunga che lo spostamento del CNT a Tripoli ha a suo tempo alimentato la
crescente convinzione tra gli abitanti della Cirenaica che i loro interessi fossero stati
trascurati per lasciar posto alle intenzioni non-islamiste del CNG. Proprio tali
circostanze, unitamente alla menzionata politica di marginalizzazione operata durante il
regime, hanno consentito ai gruppi jihadisti di consolidare le proprie posizioni nell’area,
trovando supporto e sostegno nelle popolazioni locali.
Accanto al citato Gruppo di combattimento, possono ricondursi alla categoria delle
milizie islamiste altre importanti formazioni, come di seguito indicate.
Brigata martiri di Abu Salim
Questo gruppo, che comprende ex membri del LIFG, è guidato da Shâykh Salim
Derby e si trova nella zona di Derna. Precedentemente il gruppo era guidato da
Abdul-Hakim al-Hasadi, il quale aveva partecipato ad attività militari in Afghanistan
sotto la guida dei Talebani ed era stato imprigionato a Guantánamo dal governo
americano. Nonostante non sia chiaro se il gruppo abbia legami con Ansar al
Sharia e con Al Qaeda, la brigata ha reiteratamente cercato di instaurare la legge
14 Gli jihadisti della seconda generazione sono quelli che hanno combattuto in Iraq dopo il 2003, mentre quelli della terza hanno combattuto in Siria dopo il 2011.
54
islamica a Derna ed è intervenuta in passato a favore della liberazione di alcuni
membri di Ansar al Sharia imprigionati a Bengasi. Ha concorso attivamente -
nell’ambito di una coalizione di forze che ha incluso il Consiglio della Shura dei
Mujahideen di Derna e una serie di combattenti guidati dai locali jihadisti, inclusi i
veterani del LIFG - alla liberazione di Derna dalle forze dello Stato Islamico (v.
successiva nota 14), testimoniando di un fenomeno, già osservato nella guerra
civile siriana sin dal gennaio del 2014: lo scontro cioè, anche cruento, tra gruppi
jihadisti, in particolare tra l'ISIS e i gruppi vicini ad al-Qaida, che, pur accomunati da
una stessa matrice islamista, sono portatori di ideologie, strategie ed obiettivi
profondamente diversi.
Ansar al Sharia
Nato come una brigata di combattenti rivoluzionari, è un gruppo estremista salafista
- che, come tale, si rifà alla Sharia e rifiuta categoricamente la democrazia e le
istituzioni occidentali - il cui primo ramo fu creato nel 2012 a Bengasi; di seguito,
sorsero affiliazioni anche in città come Derna, Sirte e Ajdabiya.
Mentre la leadership di Ansar al Sharia è tendenzialmente formata da jihadisti libici
della seconda generazione, la maggioranza della sua base fa parte della
generazione successiva. Nel 2014 le Nazioni Unite hanno inserito Ansar al Sharia
nella loro Qaeda sanctions list descrivendola come un gruppo affiliato ad Al Qaeda.
Ed in effetti molte sono le testimonianze di contiguità del gruppo con componenti di
matrice terroristica, compresa la gestione di campi di addestramento per
combattenti stranieri, tra i quali un numero significativo di tunisini, destinati poi a
trasferirsi in Siria, Iraq, Mali. Il gruppo è ritenuto, tra l’altro, direttamente coinvolto
nell’attacco dell’11settembre 2012 al consolato USA di Bengasi, in cui
l’ambasciatore Christopher Stevens fu assassinato.
Oggi Ansar al Sharia costituisce una delle formazioni armate più cospicue nell’est
del Paese, contando oltre un migliaio di combattenti che si contrappongono alle
forze di Haftar per il mantenimento dell’egemonia locale.
Peraltro, pur restando, nella sua essenza, un gruppo armato, tra il 2012 e il 2014,
Ansar al Sharia ha adottato una strategia incentrata sulla preghiera e sulle azioni di
carità per costruirsi un supporto popolare e favorire il reclutamento. Con il risultato
di essere divenuta la più vasta organizzazione jihadista in Libia (si contano oltre
55
10.000 unità, tra affiliati e simpatizzanti), con la sua sezione principale di stanza a
Bengasi. Proprio quest'unità bengazina di Ansar al Sharia, in risposta
all'Operazione “Dignità” diretta da Khalifa Haftar, si unì con altre milizie a formare,
nell'estate del 2014, il Benghazi Revolutionary Shura Council del quale abbiamo già
accennato. Nonostante sia adesso la forza dominante di questa coalizione, Ansar al
Sharia ha attraversato momenti di disordine interno a causa della morte di alcune
figure di livello - incluso il suo fondatore Mohammed Zahawi - e la perdita di una
certa quantità di elementi passati all'ISIS15. Anche altre unità del gruppo dislocate
nel Paese hanno sperimentato un leggero incremento nelle defezioni da quando
l'ISIS ha cominciato a espandersi in Libia tentando di cooptare le altre reti esistenti.
Tuttavia, tali tensioni tra ISIS e gruppi associati ad al Quaeda, quale è appunto
Ansar al Sharia, sono inevitabilmente rientrate con la progressiva e definitiva
perdita del controllo territoriale da parte dell’ISIS a seguito delle offensive risolutive
subite prima a Derna e poi a Sirte.
Proprio per il ruolo marginale, al momento assunto dalle residue sacche di
resistenza delle forze dello Stato Islamico all’interno del territorio libico e alla luce di
quanto già in precedenza evidenziato - circa le concrete difficoltà incontrate
dall’ISIS nell’attecchire sulle stesse componenti jihadiste presenti sul campo - non si
ritiene utile, nell’ambito della presente trattazione, ricomprendere le forze dello
Stato Islamico tra i più attuali e significativi attori interni dello scenario libico.
15 L’autoproclamato Stato Islamico dell'Iraq e della Siria (Islamic State of Iraq and Syria, ISIS), si è innestato con le
proprie componenti armate all’interno della seconda guerra civile libica intuendo le grandi opportunità, in termini di proseliti e conquiste territoriali (con il conseguente controllo delle relative risorse, su tutte quelle energetiche), che la crisi stessa avrebbe potuto favorire, anche grazie all’appoggio delle formazioni jihadiste già presenti sul campo. Di qui, l’infiltrazione all’interno del territorio libico e il graduale consolidamento areale, fino alla conquista di Derna nei primi mesi del 2015. Ma, come accennato, nel perseguimento dei propri obiettivi di conquista l’ISIS ha dovuto fare i conti non solo con le forze leali al GNA e a quelle della coalizione internazionale, ma anche con una forte resistenza interna, probabilmente sottovalutata, promanante dalle stesse forze jihadiste presenti sul campo, portatrici di ideologie e interessi di tipo eminentemente locale e, come tali, distanti ideologicamente e strategicamente dallo Stato Islamico. Prova ne sia che la liberazione della città di Derna dall’ISIS, nel giugno 2015, è avvenuta ad proprio ad opera del Consiglio consultivo dei mujahideen di Derna, una coalizione di gruppi armati jihadisti non affiliati allo Stato Islamico, tra cui la Brigata dei martiri di Abu Salim. A seguire, come noto, l’ISIS ha consolidato le proprie posizioni a Sirte, dove nel corso del 2016 si sono succeduti cruenti combattimenti contro le Milizie di Misurata, in esito ai quali le forze dello Stato Islamico sono state sopraffatte e costrette alla ritirata. Il 6 dicembre, le forze leali al GNA hanno annunciato di aver completato la riconquista di Sirte, dopo aver sconfitto gli ultimi combattenti dell'ISIS. Di conseguenza, lo Stato Islamico, ad oggi, non controlla più alcun territorio in Libia, sebbene numerosi combattenti, abbandonata Sirte, rimangano attivi nel Paese E’ del 19 gennaio 2017, l’ultimo bombardamento condotto dagli USA su un campo dell'ISIS nei pressi di Sirte.
56
L’esercito nazionale e le forze di sicurezza convenzionali
Dopo la caduta del regime di Gheddafi, la frammentata realtà interna al Paese e le
discendenti conflittualità, sia a livello centrale che periferico, hanno reso estremamente
difficile gestire la crisi orientandola verso il perseguimento di un comune obiettivo
nazionale. Di qui la necessità, fortemente sentita dalle istituzioni governative (ma non
condivisa da tutti gli attori sul campo), di costituire un esercito unitario, al fine di
assicurare una transizione pacifica e condurre il Paese verso una fase di ricostruzione.
Inizialmente il CNT, per far fronte alla situazione emergenziale, ha attuato una politica di
“outsourcing” della sicurezza. Più avanti, si è tentato di costruire ex novo un apparato
militare che promanasse dal governo e che integrasse la nascente struttura statale,
diventando parte della organizzazione degli “Shields” (LSF) e del Comitato Supremo di
Sicurezza (SSC). Ma tale processo, lungi dal veder convergere le posizioni delle varie
componenti in causa è stato da più parti osteggiato, impedendo di assumere e
implementare concrete decisioni.
In particolare, le milizie locali più rilevanti non hanno mostrato alcuna intenzione di
abbandonare le armi o ritirarsi dalla capitale se non subordinatamente al perseguimento
degli interessi politici ed economici della propria comunità. E’ mancato in tal senso, da
parte della leadership delle varie formazioni armate, il reale e profondo convincimento
sulla necessità di unire le proprie forze in un esercito nazionale.
Nonostante l’addestramento militare internazionale assicurato da Paesi esteri al fine di
costituire un esercito e una forza di polizia nazionali, non sono stati dunque rilevati
sostanziali passi in avanti e ad oggi, sul campo - in luogo di un unico esercito,
effettivamente rappresentativo delle istanze di sicurezza e difesa nazionali - sono
presenti delle forze identificabili come convenzionali, in quanto poste in via ordinativa a
protezione e diretto supporto delle autorità governative cui fanno capo.
Tuttavia alcuni tentativi in tal senso sono stati avviati. Nel corso di un recentissimo
incontro (febbraio 2017) tenuto al Cairo tra Fayez al Serraj e il Capo di Stato Maggiore
egiziano, Mahmoud Hegazy, che presiede la Commissione nazionale incaricata del
dossier libico, il premier del Governo di Accordo Nazionale ha confermato la propria
determinazione a tenere una serie di concertazioni con un gruppo di forze nazionali di
diverse città libiche e sigle politiche, tra cui gli oppositori dell’accordo politico, volte a
costituire un esercito unificato nell’ambito di un piano di riconciliazione che troverebbe il
sostegno di Tunisia, Algeria e Egitto oltre a Turchia, Russia e Stati Uniti.
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Ferme restando tali possibili prospettive, fotografiamo di seguito la situazione attuale.
Forze Convenzionali
L’unicità della storia della Libia, quale “Stato senza Stato” a forte connotazione
tribale e localistica, dunque refrattario al riconoscimento di istituzioni centrali, ha da
sempre reso estremamente difficile, se non impossibile, la costituzione all’interno
del Paese di un contingente di forze convenzionali. Lo stesso Gheddafi, dopo il
colpo di Stato del 1969, timoroso che un esercito unitario e coeso potesse costituire
una concreta minaccia al suo regime, decise di eliminare il reclutamento di forze
nazionali, favorendo poi, nel corso della dittatura, la formazione di milizie non
propriamente convenzionali, spesso alimentate su base familiare e tribale, come
avvenuto, ad esempio, con la Brigata 32 guidata da suo figlio Khamis. Il risultato di
tali politiche è stato quello di indebolire, nel tempo, l’esercito nazionale, con la
conseguenza che le forze libiche, pur in possesso di armi sovietiche moderne, non
sono state nemmeno in grado di vincere in Chad tra il 1980 e il 1988 contro gli
insorgenti, dotati di armamenti ed equipaggiamento decisamente inferiori.
Per le stesse ragioni, subito dopo la caduta del regime, la Libia si è trovata, di fatto,
priva di forze convenzionali effettive ed efficienti, cui poter fare concreto riferimento
per la gestione della crisi e della conseguente fase di transizione.
Dopo le rivolte, si riteneva che le forze armate libiche fossero costituite da oltre
70.000 uomini; in realtà si trattava di una stima notevolmente sovradimensionata.
Oggi si contano meno di 20.000 effettivi, da ricondursi essenzialmente a tre
specifiche componenti: le Unità di forze speciali (stimate in circa 13.000 uomini,
poco addestrati e mal equipaggiati), le Forze navali (costituite sostanzialmente da
una ridotta flotta di navi poste dal governo a sorveglianza e protezione dei porti
libici) e la Lybian Air Force (dotata di vecchi jet da combattimento sovietici e priva di
sistemi radar e di difesa aerea).
Resta il fatto che le autorità libiche non hanno mai implementato un vero e proprio
programma di disarmo, smobilitazione e ricostruzione della difesa nazionale,
trovando in tal senso, un forte ostacolo nelle spinte contrapposte delle milizie
armate, assolutamente restie al disarmo e ferme nel rivendicare il proprio ruolo di
difesa e salvaguardia di istanze e interessi eminentemente locali.
Esercito nazionale libico
In tale contesto - caratterizzato, come visto, in parte dalla incapacità, in parte dalla
mancanza di volontà delle istituzioni governative di avviare una concreta e coerente
58
riforma del settore della sicurezza nazionale - si è inserita la figura carismatica e
opportunistica del Generale Haftar, proponendosi come un’alternativa alle autorità
centrali nella delicata ricostruzione di un esercito nazionale libico.
Istituito dopo la prima rivoluzione del 2011, l’esercito di Haftar (Libyan National
Army) ha gradualmente assunto un ruolo di primo piano all’interno dello scacchiere
libico e dei sui precari equilibri interni divenendo, attraverso l’appoggio al governo di
Tobruch, elemento di raccordo e riferimento per tutto il fronte laico, in palese
contrapposizione con il Governo di Accordo Nazionale di Serraj.
Nel maggio 2014, con il sostegno di Egitto ed Emirati Arabi Uniti, il Generale Haftar
si è posto a capo dell’operazione militare “Dignità”, condotta unitamente alle
milizie di Zintan contro le formazioni jihadiste e islamiste, con l’obiettivo ufficiale di
eliminare ogni tipo di estremismo islamico dal territorio nazionale.
Dal 25 febbraio 2015 il generale Haftar è stato nominato Ministro della Difesa e
Capo di stato maggiore dal governo cirenaico di Tobruk.
Oggi l’esercito di Haftar, è costituito da una combinazione di unità militari e gruppi
armati a base locale o tribale, che, nel computo totale delle forze disponibili
(comprensivo anche di quelle regionali di supporto), arriva a contare circa 35.000
uomini.
L’istituzionalizzazione delle Brigate
Abbiamo dunque, sino ad ora, identificato forze convenzionali - così definite in
quanto ufficialmente poste a tutela e sostegno delle istituzioni governative che si
contrappongono all’interno della Libia - e forze non convenzionali, costituite da
milizie armate che, pur appartenendo a fronti diversi, sono accomunate da una
chiara matrice di tipo localistico e tribale che le affranca da ogni connotazione
nazionalistica e unitaria. Accanto a tali categorizzazioni si collocano, in una
posizione ibrida, talune composite formazioni che, pur risalendo alle citate milizie o
brigate, vengono istituzionalizzate dalle autorità governative per fornire appositi
servizi di protezione e sicurezza, nell’ambito di un ben preciso programma
comprensivo di disarmo, smobilitazione e riabilitazione (sigla in inglese DDR)
avviato congiuntamente dalle forze politiche e dai vertici militari.
In questo contesto, molte delle milizie rivoluzionarie più forti si sono interfacciate in
un modo o nell’altro con il Ministero della Difesa o quello degli Interni, in particolare
attraverso gli “Shields” e il Comitato supremo di sicurezza.
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La LSF (Libya Shield Force) è costituita da quattro brigate rivoluzionare che un
tempo hanno lottato per la liberazione e che oggi formalmente dipendono dal Capo di
Stato Maggiore dell’Esercito. In realtà, l’Esercito, rappresentato dalle citate forze
convenzionali, non è capace di esercitare alcun sostanziale controllo sulla LSF, che
spesso viene usata per fermare conflitti locali. Le unità della Forza Scudo sono presenti
soprattutto a Kufra, nella regione centrale, a Sabrata e nella regione occidentale.
Il Comitato supremo di sicurezza (sigla in inglese SSC) è stato formato nell’ottobre
2011 quando il Ministro degli Interni del CNT, Fawzi Abdul Aal, un avvocato di Misurata, si
è rivolto ai leader di alcune delle brigate locali più influenti, cercando di condurle sotto il
controllo governativo. L’obiettivo era quello di costituire un corpo temporaneo, i cui membri
sarebbero stati addestrati per diventare forze di polizia. In pratica, tali formazioni sono
divenute una forza di sicurezza indipendente, parallela alle forze di polizia, ma con una
forte tendenza islamista. Oggi l’SSC conta circa 161.000 membri in Libia, 29.000 dei quali
provengono da Tripoli. Si tratta per lo più di ex rivoluzionari che non hanno ricevuto alcun
addestramento formale. Il fatto che il governo si appoggi su queste milizie per mantenere
ordine e sicurezza è simbolo della debolezza istituzionale e contribuisce ad aumentare la
dipendenza delle comunità dai gruppi armati piuttosto che dal governo.
Libyan Revolutionaries Operations Room
Formazione costituita da ex milizie poste alle dipendenze del Ministero della Difesa,
la Libyan Revolutionaries Operations Room (LROR) è stata creata dal presidente del CNG
Abu Sahmain nel giugno 2013 per ottenere maggiore sicurezza a Tripoli. Un ramo della
LROR è altresì stanziato a Bengasi.
Petroleum Facilities Guard
La Petroleum Facilities Guard (sigla inglese PFG), è stata inizialmente istituita per
proteggere le centrali petrolifere nel 2012 e costituisce, al momento, il più potente alleato
nell’Est del Paese al governo di Serraj. E’ inquadrata nell’ambito del Ministero della Difesa
e conta circa 15.000 unità, delle quali peraltro solo 2.000 hanno ricevuto un effettivo
addestramento militare. E’ distribuita in cinque dislocazioni all’interno del territorio libico, a
protezione delle centrali petrolifere.
Il leader della PFG è Ibrahim Jadhran, figura controversa che ha combattuto in
passato le milizie della città di Misurata ed è oggetto di critiche da parte di molti libici per
aver promosso la chiusura dei giacimenti petroliferi tra il 2013 e il 2014.
60
LFS, SCC, LROR e PFG, così come sopra delineati, non hanno costituito, ad oggi,
una concreta ed efficace risposta all’ineludibile esigenza di un sistema unitario di difesa e
sicurezza nazionale. Nonostante i tentativi esperiti, infatti, la scarsa capacità ed efficienza
operativa delle istituzioni militari e di polizia da una parte e la persistente presenza e
influenza delle milizie armate locali dall’altra, continuano a costituire un problema di
assoluta rilevanza per la Libia.
Le brigate che hanno giurato fedeltà ai Ministeri della Difesa o degli Interni si sono in
realtà spesso rivelate la causa e non la soluzione delle conflittualità interne al Paese.
Ad esempio, gli uomini di LSF e SSC si sono scontrati sovente tra di loro e con la
popolazione locale e la Libyan Revolutionaries Operations Room, incaricata di proteggere
Tripoli, è stata coinvolta nel sequestro del Primo Ministro nell’ottobre del 2013. Inoltre, i
limiti delle competenze e del mandato istituzionale di queste forze sono incerti e al loro
interno sono presenti diversi elementi islamisti che le rendono inaffidabili. Peraltro, si
registra una netta prevalenza della componente islamista negli stessi ranghi superiori del
Ministero degli Interni e di alcune sottodivisioni del Ministero della Difesa che hanno
istituito le forze di combattimento. Per esempio, il Consiglio Supremo di Sicurezza del
Ministero degli Interni è comandato da Hashim Bishr, e le potenti sottodivisioni sono
capeggiate da figure quali Abdulraouf Karah e Emad al Traboulsi, a forte connotazione
islamista. Analogo discorso vale per il Ministro della Difesa e il Capo di Stato Maggiore,
fortemente condizionati dalla leadership della LSF, guidata da figure islamiste quali Wisam
Bin Hamid e Ismail al Sallabi. Infine, il capo dell’intelligence libica, Mustafa Nouh, è un
ulteriore esempio della prevalenza islamista nei settori nazionali dell’intelligence e della
sicurezza.
Le brigate “sponsorizzate” dal governo rimangono, dunque, una sfida politica
altrettanto complicata di quella rappresentata dalle brigate non autorizzate, perché anche
le prime, al pari delle seconde, non sembrano favorire la creazione di istituzioni di
sicurezza unitarie e coese.
Il CNT prima e il CN poi hanno creduto che cooptare le brigate avrebbe
rappresentato una misura temporanea efficace, non considerando le conseguenze a lungo
termine della “legittimazione” delle brigate. Non hanno colto, in particolare, la portata delle
alleanze che, di fatto, si sono andate formando tra le brigate “autorizzate” e quelle “non
autorizzate”. Le prime, in particolare quelle di stampo islamista, si sono rifiutate di lottare
seriamente contro le controparti non autorizzate confidando che queste ultime
61
continuassero a indebolire il governo, rendendo la sicurezza labile e, di conseguenza,
aumentando i propri margini di influenza e la propria imprescindibilità.
Ed è proprio la contiguità, sostanziale e profonda, tra le brigate autorizzate e quelle
non autorizzate a rendere vano e improduttivo ogni tentativo di disarmo delle formazioni
locali, quale naturale premessa della costituzione di un effettivo esercito nazionale
unitario.
Il risultato è che oggi i miliziani continuano ad avere un ruolo preminente all’interno
dello scacchiere libico, rimanendo, di fatto, gli attori principali a presidio della sicurezza
pubblica, nonostante il loro operato vada, spesso, ben oltre i limiti imposti dalla legge.
2.1.5 - Il quadro d’insieme: i rapporti tra il centro e la periferia del potere
Il complesso scenario sopra descritto può dunque, seppur attraverso una
semplificata schematizzazione, essere così riassunto: sul campo sono schierate due
composite ed eterogenee coalizioni, identificate rispettivamente come “laica” e “islamista”,
alle quali si aggiungono poi gruppi jihadisti ostili a entrambi gli schieramenti.
Le rivalità che hanno portato alla polarizzazione del conflitto sui due fronti sono,
come visto, di carattere politico (tra islamisti e anti-islamisti; ex-gheddafiani e anti-
gheddafiani), regionale (tra Misurata e Zintan; Cirenaica e Tripolitania) ed etnico (in
particolare tra Tuareg e Tebu).
Le due forze in campo si contendono, inoltre, le risorse economiche del Paese, sia
quelle petrolifere della compagnia petrolifera nazionale (National Oil Corporation), sia le
riserve della Banca Centrale Libica, che è rimasta neutrale nel conflitto.
Dette coalizioni fanno riferimento a governi e parlamenti rivali, ma, come si è avuto
modo di argomentare nei precedenti paragrafi, ad avere reale potere sul territorio non
sono le istituzioni politiche, bensì altri attori, quali le milizie, i gruppi armati e le tribù locali,
che influiscono in modo determinante sugli orientamenti e sulle decisioni assunte a livello
centrale.
In tale frammentata realtà assumono, dunque, un ruolo fondamentale - anche ai fini
di una compiuta lettura e analisi del complesso scenario - i rapporti tra il centro e la
periferia del potere, tanto da rappresentare il vero nodo cruciale per la stabilizzazione e
per le prospettive future del Paese.
Proprio le dinamiche sottese a tali rapporti identificano e sintetizzano, infatti, più di
ogni altro fattore descrittivo, il composito quadro d’insieme in cui si gioca la partita libica.
Proviamo allora a individuarne i caratteri salienti.
62
Come verificato nella precedente trattazione, coesistono all’interno della Libia
istituzioni politiche centralizzate facenti capo a fronti e governi contrapposti, ciascuno con
la propria sfera di influenze e di controllo territoriale (Figura 8).
Figura 8: Sfere di influenza (Fonte: WordPeess.com)
Nella storia recente, tali istituzioni si sono sempre più appoggiate alle autorità locali,
ai cosiddetti hukama’ (uomini saggi), personalità importanti e capi di famiglie rilevanti, per
esercitare il controllo sulla nazione.
Il ruolo preminente delle autorità periferiche è emerso anche in occasione delle
insurrezioni che hanno portato alla caduta del regime di Gheddafi. La rivolta, infatti,
anziché prendere avvio dal centro, è a suo tempo partita da cittadine secondarie come
Bengasi, per arrivare solo dopo cinque lunghi mesi al centro del potere, interessando città
quali Tripoli, Sabrata o Sirte.
In tale contesto, con la creazione del CNT nel 2011 si intese creare un canale
comunicativo tra centro e periferia costituendo un organo che rappresentasse le
eterogenee voci e posizioni dei rivoltosi, accomunate dalla stessa volontà di abbattere il
regime, ma prive di una visione univoca, condivisa e consapevole riguardo al percorso da
intraprendere per dare un nuovo futuro al Paese. Tuttavia, con l’aumento delle rivolte
periferiche, il CNT ha assunto un ruolo sempre meno importante rispetto alle milizie e ai
consigli locali, la cui crescente influenza - ulteriormente favorita dalla no-fly zone imposta
63
da ONU e NATO - ha creato forze centrifughe, che hanno fortemente condizionato ogni
tentativo di sviluppo di uno Stato unitario in Libia.
Di fatto i consigli locali (majalis mahaliyah), nati durante le insurrezioni a seguito di
iniziative segrete, hanno avuto come obiettivo successivo alla caduta del regime la volontà
di amministrare ogni città e regione. In molte zone, tra cui Zawara, Misurata e Bengasi, ai
consigli neo-eletti è stata a suo tempo assegnata l’amministrazione locale di diversi settori
di governo e la gestioni dei rispettivi servizi.
Da una parte il CNG non è riuscito a trasmettere al popolo la stringente necessità di
un governo centralizzato forte di un consenso costituzionale sufficiente sia a perseguire
strategie di sviluppo economico coerenti sia a confermare lo Stato di diritto. Dall’altra la
periferia, prevalentemente rappresentata dai consigli locali, ha invece saputo incanalare
l’attenzione e l’interesse del pubblico su istanze locali, sostenendo cause populiste con
impatto immediato. Le milizie, a loro volta, hanno sempre agito come rappresentanti
armati delle varie comunità, dimostrandosi spesso capaci di gestire gli affari locali senza
l’intervento dello Stato.
Tale situazione di fatto - come visto in parte connaturata alla storia, alla cultura e al
tessuto sociale della Libia ed in parte ulteriormente alimentata ed amplificata dalla crisi -
costituisce ancora oggi il tratto distintivo dello scenario in cui si muovono gli attori interni al
Paese.
Per la Libia odierna e per le sue prospettive di ricostruzione costituisce, dunque,
esigenza prioritaria e ineludibile il perseguimento di un equilibrio tra autorità locali e
centrali, attraverso la promozione di dialogo aperto e di una fattiva collaborazione tra i vari
livelli di amministrazione. Riuscire a trasformare le forze militari decentralizzate in una
struttura di sicurezza nazionale con un carattere democratico rappresenta in tal senso una
sfida pregiudiziale per il futuro del Paese.
64
2.2 - Attori esterni
2.2.1 - Gli interessi in gioco
Il quadro emerso dall’analisi condotta nei precedenti paragrafi testimonia una realtà
estremamente caotica e frammentata, quale ineludibile lascito dei decenni di oblio
dittatoriale. Il popolo libico ha ricevuto in eredità dal regime di Gheddafi una “scatola
vuota”, una Paese, come visto, privo di una chiara coscienza nazionale, diviso da un
rinnovato revanscismo localistico, tribale e territoriale.
Allo stesso tempo, proprio tale condizione di intrinseca debolezza ed instabilità e le
sottese conseguenti implicazioni in termini geo-politici e strategici, hanno suscitato forti
interessi (quand’anche non “appetiti”) da parte di attori esterni, sia regionali che
internazionali, che hanno di conseguenza assunto una parte attiva nelle conflittualità
interne al Paese, “sponsorizzando” più o meno apertamente l’uno o l’altro schieramento.
Tali posizioni di interesse si sono chiaramente manifestate già all’indomani degli
iniziali moti di rivolta. Il 26 febbraio 2011 (appena dieci giorni dopo la prima manifestazione
a Bengasi) la Corte Penale Internazionale diede il via ad una inchiesta, e l’ONU nominò
una commissione d’inchiesta per fare chiarezza in merito alle risposte del regime alle
proteste popolari. Dopo cinque settimane dall’avvio delle dimostrazioni, il Consiglio di
Sicurezza dell’ONU intervenne adottando la Risoluzione 1973 che autorizzava
l’implementazione di una no-fly zone (NFZ) e di altre specifiche misure restrittive e di
controllo. Entro la sera dello stesso 19 marzo, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti
lanciarono attacchi militari per implementare la risoluzione. Gli interventi NATO che
seguirono, contribuirono in maniera determinante ad accelerare la caduta del regime.
Da quel momento in poi le ingerenze esterne hanno fortemente condizionato le
dinamiche di conflittualità e gli equilibri interni del Paese, in ragione, appunto, di interessi
strategici e geo-politici che travalicavano decisamente i confini nazionali, coinvolgendo,
seppur su piani diversi, una vasta pletora di attori internazionali.
Particolarmente rilevanti, tra gli interessi in gioco, quelli di tipo economico legati allo
sfruttamento delle risorse economiche. Basti, in tal senso, evidenziare alcuni dati: la
produzione di petrolio all’interno del Paese rappresenta oltre l’85% del prodotto interno
lordo della Libia, così come la quasi totalità delle sue esportazioni. Nel territorio libico si
trovano le più vaste riserve petrolifere africane (circa il 38% della produzione del
continente), che coprono da sole l’11% dei consumi europei.
65
Peraltro, si tratta di “olio leggero”, pregevole per l’elevata percentuale di frazioni a basso
peso molecolare e con buone rese nella produzione dei derivati più importanti come
benzina e diesel. All’estrazione di olio si aggiunge quella del gas naturale, che costituisce
la seconda maggiore ricchezza del Paese (v. Figura 9).
Figura 9: Infrastrutture petrolifere e gas (Fonti: U.S. Energy Information Administration)
Ancorché i conflitti interni e il conseguente grave stato di instabilità abbiano
drasticamente ridotto i livelli di produzione (fino a meno di mezzo milione di barili al giorno
nel periodo di massima flessione), si è registrata una nuova fase di crescita nella parte
finale del 2016 (a seguito dei successi conseguiti contro l’ISIS dalle milizie a sostegno del
Governo di Alleanza Nazionale) e le potenzialità di piena produzione si attestano intorno ai
2 milioni di barili al giorno. L’italiana ENI è la compagnia straniera maggiormente coinvolta:
la sola quota di produzione sotto il suo controllo copre più del 70% della produzione libica
complessiva odierna. Per tre quarti si tratta di gas e per un quarto di petrolio. Di questo
pacchetto, il 55% viene dai giacimenti in terraferma e il 45% dai pozzi offshore. Ma,
accanto all’ENI, molte altre compagnie internazionali sono direttamente coinvolte nella
gestione dei giacimenti di petrolio e di gas dislocati all’interno territorio libico.
66
La francese Total ha interessi nel campo di Mabrouk, nella zona centro-orientale e
collegato con la raffineria e il terminale di Es Sider, ma anche - insieme alla spagnola
Repsol - nei campi occidentali di El Sharara collegati allo snodo petrolifero di Zawiya.
In mare c’è il giacimento di Al-Jurf collegato al terminale di Farwah. La russa Gazprom
segue i campi di As Sarah/Jakhira e Nakhla nel centro est e collegati al terminale di Ras
Lanuf, ma anche, nello stesso quadrante, il campo Nakhla collegato a Zuietina. Vi sono
poi le compagnie statunitensi ConocoPhillips, Marathon e Hess che hanno interessi nei
campi di Waha, Samah, Dahra e Gialo nella regione centro-orientale e collegate con il
terminale di Es Sider. L’americana Occidental e l’austriaca OMV hanno interessi nei campi
di Intisar e NC74, nel centro est e collegati a Zuietina. La tedesca Wintershall è partner di
Gazprom in tutti i campi e terminali che fanno riferimento a quest’ultima in territorio libico.
Le canadesi Suncor e PetroCanada sono nei campi centro orientali di Amal, Naga e
Farigh, collegati al terminale di Ras Lanuf. Infine, la National Oil Corporation (NOC), la
compagnia petrolifera nazionale libica, direttamente o tramite le sue controllate, possiede
la metà del petrolio del Paese e gestisce i campi orientali di Sarir, Messla, Beda, Magrid e
Hamada, le raffinerie di Ras Lanuf, Tobruk e Sarir ed il porto di Marsa al-Hariga vicino a
Tobruk. Nel quadrante centro orientale NOC gestisce altresì il complesso Brega
(Nafoura/Augila), Nasser (Zelten), Raguba, e Lehib (Dor Marada) collegati alla raffineria e
terminale di Marsa al-Brega.
Unitamente a tali evidenti implicazioni di carattere economico, giocano un ruolo
significativo nel coinvolgimento di attori esterni, ulteriori specifici interessi: quelli di matrice
eminentemente geo-politica, riconducibili alla necessità di mantenere posizioni di rilievo
nei consessi internazionali o assicurare il controllo, quando non un ruolo egemonico, su
determinate aree regionali; quelli legati agli scontri ideologici, che investono in particolare
tutta la regione del grande Medio Oriente e che afferiscono alla contrapposizione di fondo
tra fronte laico, volto a stabilire un ordine basato sulla supremazia della classe militare, e il
fronte islamico, proteso verso un islam politico e tradizionale, basato soprattutto sugli
ideali della Fratellanza Musulmana; quelli, infine, afferenti alla sicurezza e alle emergenze
sociali, intimamente connessi con lotta al terrorismo jihadista e al traffico dei migranti.
E’ dunque in tale composito contesto di interessi in campo, spesso correlati ed
interdipendenti, che un numero significativo di attori regionali e internazionali è
intervenuto, con un coinvolgimento più o meno diretto e invasivo, nella questione libica,
fino ad assumere, in taluni casi, una posizione di assoluto rilievo nella gestione della crisi e
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nei relativi sviluppi, muovendo gli equilibri delle conflittualità in atto e orientando, in
maniera decisiva, le prospettive future.
Proviamo a identificare più da vicino tali attori esterni e le ragioni sottese al relativo
coinvolgimento nelle vicende libiche.
2.2.2 - Interessi regionali
L’intervento di attori regionali nel contesto libico è uno dei fattori che più ha
alimentato la polarizzazione tra i due fronti contrapposti precedentemente descritti. Da una
parte il governo di Tripoli è sostenuto da Turchia e Qatar; dall’altra il parlamento di Tobruk
e il governo di Al-Thani con le forze anti-islamiste di Haftar e le milizie di Zintan sono
certamente sostenuti, anche militarmente, da Egitto ed Emirati Arabi Uniti.
In particolare, nelle vicende connesse alla crisi libica è venuto ad assumere un ruolo
sempre più importante l’Egitto. Il Cairo ha dovuto affrontare la minaccia del radicalismo da
più fronti contemporaneamente, dal Sinai alla Cirenaica. La percezione di accerchiamento
che ne è derivata ha spinto il governo egiziano alla adozione di misure “preventive” contro
l’estremismo islamico, con l’intento primario di eliminare dai Paesi confinanti qualsiasi
presenza della Fratellanza islamica, in quanto ritenuta minaccia alla sicurezza nazionale e
collegata senza discrimine alle forze terroristiche presenti nella regione.
Quest’orientamento si è concretizzato in una sempre maggiore ingerenza nella questione
libica e a fornire, su vasta scala, il suo appoggio politico e militare al fronte laico.16
La relazione tra Tobruk e l'Egitto si è andata consolidando attraverso un progetto politico
condiviso: sradicare l'Islam politico e rinforzare l'autonomia della Libia orientale, ciò
assicurando al Cairo una sorta di “zona cuscinetto” contro l'ISIS e un entroterra preparato
ad opporsi alle derive jihadiste. Di fatto, oggi, nessun altro Paese arabo gioca un ruolo
tanto importante in Libia quanto l'Egitto. Del resto, la prova del coinvolgimento egiziano
nella regione è rappresentata dai viaggi che i leader libici compiono regolarmente al Cairo.
Nonostante tutto, nel tempo l'Egitto ha seguito una linea contraddittoria. Da una parte,
diplomatici e il Ministero degli Affari Esteri hanno assicurato il loro sostegno al processo
politico mediato dalle Nazioni Unite, dall'altra l'apparato di sicurezza ha sostenuto Haftar
anche quando palesemente si trovava in rotta di collisione con i tentativi unitari sostenuti
dal Palazzo di Vetro.
16 Tali considerazioni sulla peculiare posizione assunta dall’Egitto nell’ambito della crisi libica, peraltro condivise dagli molti analisti di settore, sono tratte dalla “Guida rapida ai principali attori Libici” pubblicata nel 2016 dall’European Council of Foreign Relations (ecfr.eu). nonchè dalla pubblicazione di Jason Pack, “The 2011 Libyan uprisings and the struggle for the post-Qadhafi future” (2013) Palgrave Macmillan US.
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Si registra, peraltro, un’apertura al dialogo da parte dell’Egitto anche con il fronte islamico,
come testimoniato dai recentissimi incontri diplomatici tra le istituzioni egiziane e il primo
ministro Fayez al Serraj volti a individuare soluzioni condivise per la creazione, in Libia, di
una struttura di difesa nazionale unitaria.
Gli Emirati Arabi, pur condividendo con l'Egitto alcuni obbiettivi comuni, hanno
assunto una posizione più sfumata, sostenendo con più decisione i negoziati delle Nazioni
Unite e, più in generale, manifestando meno coinvolgimento nelle questioni libiche.
Nonostante questo, un report del comitato di esperti delle Nazioni Unite sostiene che Abu
Dhabi abbia consegnato armi sia ad Haftar che alle milizie della città-Stato di Zintan.
Per la Turchia, e in misura minore per il Qatar, invece, la vittoria degli islamisti nel
Paese permetterebbe di assicurarsi un importante alleato, comprovando come il loro
modello d’islam politico per i Paesi che hanno cambiato regime dopo il 2011 sia ancora
valido per tutta la regione17 Il successo a suo tempo ottenuto dalle forze di Misurata nella
riconquista di buona parte di Tripoli, aeroporto compreso, è stato possibile anche grazie
all’appoggio di Turchia, Qatar e Sudan. Né la Turchia né il Qatar hanno tuttavia sul
Governo di Unità Nazionale la stessa influenza che l'Egitto e gli Emirati Arabi Uniti hanno
su Tobruk. Ad oggi, nessuno dei maggiori attori libici appare dipendente da Ankara o Doha
allo stesso modo in cui Tobruk sembra allinearsi alle politiche del Cairo.
2.2.3 - Il ruolo degli attori internazionali
Accanto alle citate ingerenze regionali e in stretta correlazione con le stesse, ha
avuto e tuttora ha un ruolo determinante sulla evoluzione delle vicende libiche il diretto
coinvolgimento di una serie di attori internazionali che hanno preso parte, in maniera più o
meno diretta e in ragione dei sottesi interessi strategici in gioco, alla gestione delle
conflittualità interne al Paese. Tali attori sono intervenuti sia attraverso le posizioni ufficiali
espresse nell’ambito dei consessi internazionali attivati per fronteggiare la crisi, sia -
agendo talvolta nell’ombra - assumendo iniziative individuali, anche sul territorio.
Come accennato, all’indomani dello scoppio delle rivolte e al fine di tutelare
l'incolumità della popolazione civile dai combattimenti tra le forze lealiste e le forze ribelli,
intervennero, con la adozione di misure urgenti, dapprima l’Organizzazione delle Nazioni
Unite, con la risoluzione n. 1973 del Consiglio di sicurezza per l’istituzione di una zona
17 Tesi, anch’essa condivisa da molti analisti, tratta dall’articolo “Crisi libica: tra tentativi di mediazione e conflitto aperto”, a cura di Arturo Varvelli (ISPI Research Fellow), Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (pubblicato nel
gennaio 2015 dall’Osservatorio di Politica Internazionale).
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d'interdizione al volo all’interno del territorio libico, e subito dopo la NATO, con l’avvio
dell’operazione militare Unified Protector alla quale prese parte una coalizione che arrivò a
coinvolgere fino a 19 Stati.
Tali iniziative hanno di fatto favorito un regime change, creando, almeno in via
potenziale, i presupposti per l’avvio di un processo autonomo di State building. Tuttavia,
agli interventi iniziali non è seguito il necessario follow up da parte della comunità
internazionale, ciò comportando il permanere, all’interno del Paese, di forti conflittualità e
tensioni, alimentate altresì dalla frammentata presenza sul territorio, come visto, di poteri
locali formati da tribù, città-Stato e milizie armate.
Solo nel luglio del 2014, con l’irrompere della guerra civile, si è riavviato un concreto
processo di mediazione da parte delle Nazioni Unite, con l’obiettivo di dare vita ad un
Governo unitario capace di adoperarsi per la pacificazione del Paese. Ed a seguito di una
serie di incontri e trattative condotti sotto l’egida dell’Onu si è in effetti addivenuti, con
l’accordo di Skhirat, del dicembre 2015, alla costituzione del Governo di accordo nazionale
guidato da Fayez al Serraj.
Peraltro, come accennato, le varie potenze occidentali che via via hanno preso parte
ai tavoli negoziali percorrendo una direttrice comune nei vari vertici internazionali -su tutti
Francia, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti - una volta “sul terreno” non sempre
hanno perseguito con convinzione gli obiettivi condivisi in tali consessi, facendo prevalere i
propri interessi e, in funzione degli stessi, continuando, di fatto, a sostenere le diverse
fazioni ancora in lotta per l’egemonia nel Paese, anche attraverso il supporto dei vari attori
regionali, dall’Egitto alla Turchia, che a loro volta sostengono e finanziano i diversi gruppi
presenti nel mosaico libico18.
In tal senso, è emblematica la posizione interventista da subito assunta, anche
attraverso l’adozione di iniziative autonome, dalla Francia. Mosso da forti interessi
economici (legati soprattutto allo sfruttamento del petrolio) non disgiunti dalla volontà di
mantenere una posizione di controllo sulla regione e rivendicare un ruolo di centralità negli
affari internazionali, il Paese d’oltralpe ha sostenuto l’ala separatista di Tobruk,
contravvenendo di fatto alla linea di supporto al Governo unitario ostentata nelle sedi
internazionali e trovando un ideale sponda nell’Egitto, a sua volta coinvolto da stringenti
interessi economici, ideologici e di sicurezza. Analoga posizione, seppur attraverso
un’azione svolta più nell’ombra, è ascrivibile al Regno Unito.
18 Argomentazioni tratte dall’articolo “La dimensione internazionale della crisi libica” a cura di Roberto Aliboni, Consigliere Scientifico dell’Istituto Affari Internazionali (pubblicato nel giugno 2016 dall’Osservatorio di Politica Internazionale).
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Si spiega così la presenza di forze speciali francesi, e probabilmente anche inglesi, “sul
campo” a sostegno delle milizie del generale Haftar.19
Anche la posizione assunta dagli Stati Uniti - pur nell’impronta di disimpegno
nell’area mediorientale (nel segno del “no boots on the ground”) propria della “dottrina
Obama” - sembra essere stata rivolta prevalentemente al perseguimento di interessi
nazionali - su tutti quello di mantenere, ancorché senza esprimere forze sul terreno, un
proprio ruolo egemonico sugli scenari internazionali quale indiretto monito a Mosca, con la
Russia a sua volta protesa a confermare, sia attraverso le posizioni assunte nei consessi
internazionali sia con la presenza documentata di mezzi navali nel Mediterraneo
occidentale, la propria autorevolezza nelle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente.
Del resto, il chiaro intento della Russia di allargare la sua sfera di influenza in medio
Oriente è confermato dalle occasioni di visita di Haftar a Mosca nei mesi scorsi e dal
recentissimo invito del Generale a salire a bordo della portaerei russa Ammiraglio
Kuznetsov che transitava al largo della Cirenaica: Haftar è evidentemente il "cavallo" su
cui i russi puntano in Libia, anche in accordo con l'Egitto del generale Al Sisi. La Russia
formalmente disconosce il consiglio presidenziale di Serraj a Tripoli e, di fatto, la sua
opera sembra poter portare Haftar alla guida del Paese.
In questo gioco delle parti non va sottovalutato il fattore-Trump. Secondo alcuni
analisti, la «primavera» Russia-Usa può fiorire proprio intorno alla Libia e aprire nuovi
scenari. Putin è interessato a ristabilire la vecchia influenza russa persa dopo Gheddafi, e
se possibile una presenza militare, senza contare il diretto concreto interesse allo
sfruttamento delle risorse energetiche interne al Paese. D’altra parte, una presenza
significativa della Russia nella regione consentirebbe agli Stati Uniti di Trump di “scaricare”
su Mosca parte del peso della lotta contro l’ISIS, come avvenuto in Siria.
In tal senso, molto del futuro della Libia si snoderà attorno al ruolo che Washington
deciderà assumere nella gestione della crisi e al conseguente peso diplomatico con il
quale gli Stati Uniti intenderanno interagire con gli altri attori internazionali.
Alla luce del quadro sopra descritto, emerge, come il netto prevalere degli interessi
nazionali su quelli internazionali, abbia comportato l’affermarsi di una decisa supremazia
dello Stato-nazione, quale referente nelle relazioni internazionali, rispetto alle
organizzazioni multipolari rappresentate dall’ ONU o dall’Unione Europea. Circostanza
19 Osservazioni tratte dall’articolo di Roberto Aliboni richiamato nella precedente nota nonché dalla pubblicazione di Jason Pack, “The 2011 Libyan uprisings and the struggle for the post-Qadhafi future” (2013) Palgrave Macmillan US.
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questa, che conferma quanto le ingerenze esterne abbiano alimentato, in luogo di
contenerlo e domarlo, il caos interno.
L’instabile e frammentato scenario libico precedentemente descritto costituisce, in tal
senso, la cartina tornasole delle tutt’altro che univoche posizioni e politiche di intervento
assunte negli ultimi anni dagli attori internazionali coinvolti.
2.2.4 - Il ruolo dell’Italia
In tale contesto, anche la posizione assunta dall’Italia nell’ambito della questione
libica è inscindibilmente legata a primari interessi nazionali riconducibili prevalentemente a
ragioni economiche, di sicurezza e sociali.
Come già evidenziato in precedenza, l'Italia ha innanzitutto forti interessi legati allo
sfruttamento delle risorse energetiche nell'area della Tripolitania, rappresentando, in tal
senso, l’attore esterno maggiormente coinvolto. La Libia è, infatti, il terzo Paese
esportatore di gas in Italia dopo Russia e Norvegia e il sesto per quanto concerne il
petrolio. Prima della rivolta venivano estratti dai giacimenti libici circa 1 milione e 500 mila
barili al giorno, di cui circa 300 mila provenienti da imprese italiane. Con la crisi, la
produzione e scesa fino ad arrivare al mezzo milione di barili al giorno, il cui 70% proviene
da pozzi gestiti dall'Eni, soprattutto offshore, protetti dalla Marina italiana. Oggi, l’Italia
esporta verso la Libia prodotti derivanti dalla raffinazione del petrolio (rappresentano il
54,8% dell'export totale, per un valore di oltre 1.200 milioni di euro) mentre più del 90%
delle importazioni italiane dalla Libia è composto da petrolio greggio e gas naturale
(rispettivamente il 47,1% per un valore di oltre 2.100 milioni di euro e il 44,4% per un
valore di oltre 2.000 milioni). Tali dati indicano incontrovertibilmente come la Libia rivesta
un’elevata importanza geo-economica per l’Italia assicurando al Paese una
diversificazione sul mercato energetico, divenuta oggi essenziale anche alla luce del
contestuale scenario di crisi tra Ucraina e Russa (secondo fornitore di gas e terzo di
petrolio all’Italia).
E’ soprattutto a tutela di tali interessi strategici che l’Italia ha, particolarmente nella
fase iniziale della crisi, ritenuto opportuno mantenere, all’interno dei consessi
internazionali, posizioni moderate, fortemente orientate alla stabilizzazione dello scenario
attraverso interventi di tipo diplomatico e, come tali, refrattarie alle politiche interventiste
proprie di altri Paesi.
72
Non meno rilevanti sono per l’Italia, accanto ai richiamati aspetti economici, i profili di
sicurezza nazionale sottesi alla questione libica, prevalentemente legati ai fenomeni,
interdipendenti, del terrorismo di matrice jihadista e dell’immigrazione clandestina.
Le rivendicazioni dello Stato Islamico nelle regioni del Mediterraneo e del Medio
Oriente, le continue minacce di attacchi terroristici, anche in Europa, ma soprattutto il
pericolo che gli ormai incontrollati flussi migratori diretti in Sicilia possano costituire essi
stessi strumento e veicolo di proliferazione del terrorismo (senza peraltro sottacere le
rilevanti problematiche e ricadute sociali connesse con la ricezione ed accoglienza dei
migranti), rappresentano un elevato fattore di rischio per la sicurezza nazionale, tanto più
concreto laddove si consideri che il territorio italiano è ormai diventato il più importante
luogo di transito di migranti provenienti da Africa sub-sahariana, Corno d’Africa e, più
recentemente, Siria e Iraq,
Proprio in ragione di tale condizione di vulnerabilità e della consapevolezza di non
poter contenere/gestire isolatamente i correlati rischi, l’Italia ha cercato in maniera sempre
più incisiva di promuovere un più diretto coinvolgimento della comunità internazionale in
termini economici, organizzativi e gestionali ed ha, nel tempo, assunto iniziative dirette.
In tal senso, il 2 febbraio u.s. è stato raggiunto un risultato storico con le firme del
premier Fayez al-Sarraj e del presidente del Consiglio dei Ministri Paolo Gentiloni apposte
al Memorandum d’intesa per fermare l’immigrazione illegale, il traffico di esseri umani e il
contrabbando tra le sponde sud e nord del Mediterraneo.
L’accordo, che ha validità triennale e sarà rinnovato alla scadenza, consta di otto
articoli ove si definiscono i termini dell’impegno di Tripoli a controllare le sue coste e quello
italiano ad aiutare il partner nel monitoraggio delle frontiere sud, quelle da cui entrano i
migranti africani che tentano di raggiungere l’Europa. L’Italia, si legge nel testo, garantisce
altresì sostegno alle istituzioni di sicurezza e alle regioni colpite dal fenomeno
dell’immigrazione illegale, attraverso attività di training, equipaggiamenti, assistenza alla
guardia costiera libica, droni per il controllo dei confini e la restituzione delle 12
motovedette che hanno già effettuato la manutenzione ma anche supporto per energie
rinnovabili, infrastrutture, sanità, trasporti, sviluppo delle risorse umane.
Altra questione trattata dall’accordo è quella riferita al sud della Libia, tema cruciale
per Tripoli, attese le difficoltà connesse con la ricezione e l’accoglienza dei profughi
respinti e costretti a tornare indietro. In Libia sono presenti 20 campi profughi ufficiali
gestiti dal ministero dell’interno, più diversi altri in mano alle milizie. Un Paese nel Paese.
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L’accordo di Roma, accanto alle richiamate finalità, è volto anche a perseguire gli obiettivi
di «completamento del sistema di controllo dei confini terrestri del sud della Libia» e di
«adeguamento e finanziamento dei centri di accoglienza, usufruendo di finanziamenti
disponibili da parte italiana e di finanziamenti dell’Unione europea». In tale ambito, in
particolare, Roma si è impegnata a fornire medicinali e attrezzature mediche per i centri
sanitari senza che tali interventi comportino «oneri aggiuntivi» per il nostro bilancio rispetto
agli stanziamenti già previsti. Bruxelles, vinte le resistenze di alcuni Paesi scettici sul peso
del governo Sarraj, finanzierà le attività.
Il Memorandum cita infine, a chiusura dell’articolato, due ulteriori fondamentali
iniziative da porre in essere: «il sostegno alle organizzazioni internazionali che operano in
Libia per proseguire gli sforzi mirati anche al rientro dei migranti nei propri Paesi d’origine»
e «l’avvio di programmi di sviluppo, attraverso iniziative di job creation». Si parla dunque di
Mediterraneo ma si guarda a monte, ossia alla porosa Libia meridionale: la rotta che
passa dal Niger, quella ove affluiscono i migranti dell’Africa occidentale, è oggi la più
controllata, anche grazie all’aiuto di Italia e Germania, ma le altre due, via Ciad e via
Sudan, la valvola del Corno d’Africa, sono letteralmente sguarnite.
A seguire, si è tenuto a Malta, sempre nel mese di febbraio u.s., il vertice dei ministri
dell’Interno dell’Unione Europea avente come tema precipuo proprio quello della gestione
dei flussi migratori in arrivo e in partenza dall’Africa settentrionale. In tale consesso sono
stati condivisi e fissati alcuni comuni obiettivi di sicurezza e individuate possibili misure per
conseguirli, su tutte quelle volte a rafforzare la capacità di rimpatrio. L’Unione Europea ha
altresì dichiarato di essere pronta a favorire lo sviluppo dell'accordo firmato tra Italia e
Libia il 2 febbraio e confermato la volontà di sostenere gli sforzi e le iniziative dei singoli
Stati membri direttamente impegnati con la Libia.
Non vanno sottaciute, infine, le problematiche riferite ai rapporti diplomatici e di
cooperazione che l’Italia - con riguardo alla crisi Libica - intrattiene con gli altre attori
esterni e che investono anche controversi aspetti di diritto internazionale. In questo senso,
assume, ad esempio, una importanza significativa il tema dei futuri sviluppi della
cooperazione tra Italia e Stati Uniti in merito all’uso di basi militari italiane (quali ad
esempio quella di Sigonella). Gli attuali termini di collaborazione, basati su precedenti
trattati, sono infatti ambigui e potrebbero potenzialmente mettere a rischio le relazioni tra
le due nazioni ove tali basi dovessero essere utilizzate per interventi militari non in linea,
74
per modalità operative e target killings, con l’ordinamento italiano e con il diritto
internazionale. Tale circostanza, infatti, imporrebbe all’Italia di opporsi bloccando le
operazioni in argomento, con le discendenti conseguenze sul piano dei rapporti ed
equilibri internazionali.
75
3. IL FUTURO DELLA LIBIA
Allo scopo di definire il possibile futuro della Libia, in questo capitolo viene effettuata
una analisi sistemica, tenendo conto non solo della situazione interna e degli attori esterni,
ma anche dando uno sguardo ai Paesi dell’area nord-africana e del medio-oriente, che in
qualche modo hanno vissuto un processo di trasformazione che nasce con il movimento di
rinnovamento, battezzato da un giornalista americano, primavera araba.
3.1 - Analisi
Prima di affrontare la Libia, viene effettuata una brevissima analisi della situazione
siriana, che oggi si trova in circostanze apparentemente analoghe per la grande incertezza
e per il caos che caratterizza il Paese. L’obiettivo di tale analisi è quello di cogliere, se
esistono, alcuni spunti di riflessione utili ad analizzare la situazione libica.
3.2 - Siria
Prima di tutto sono stati individuati quelli che sono i punti fermi della situazione della
Siria, come di seguito riportato.
La popolazione siriana ha una consistenza di circa 35 M di persone, di cui 7 M sono
andati via dal loro Paese per fuggire dall’atrocità della guerra. È noto che la parte della
popolazione che è emigrata, rappresentava il meglio del Paese: borghesia, classe
commerciante, esponenti della cultura iraniana. Quindi la Siria, oltre ad essere un
campo di battaglia dove la violenza delle parti in gioco ha portato tanta distruzione, si è
impoverita anche delle risorse intangibili più pregiate, rappresentando una opportunità
per i Paesi che li hanno accolti, come la Germania. È improbabile che in un prossimo
futuro vicino o lontano questa parte di popolazione tornerà in Siria, Paese distrutto dalla
violenza della guerra, avendo probabilmente trovato collocazione in altri Paesi dove la
loro condizione di vita è di certo migliore. Pensiamo alla citta di Aleppo, le cui immagini
sconvolgenti di distruzione ci fanno pensare alle drammatiche immagini della 2^ guerra
mondiale (Berlino alla fine della 2^ Guerra Mondiale). Quindi se questa parte di
popolazione non tornerà nel proprio Paese, è improbabile che si possa ricostituire nel
breve/medio termine una classe della medio/alta borghesia.
La guerra civile con le sue vittime, che, secondo le stime più blande, sono circa di
600.000 morti, inevitabilmente ha creato delle profonde fratture nella popolazione
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siriana che difficilmente potrà essere sanata in poco tempo, portandosi dietro strascichi
che influenzeranno inevitabilmente il futuro del Paese20. Quindi in Siria, la
ricomposizione delle divisioni non è assolutamente scontata, anzi è prevedibile che per
decenni in Siria ci saranno profonde lacerazioni tra le varie fazioni che si sono
contrapposte nella guerra civile.
Il Paese è frammentato dal punto di vista etnico-culturale. In Siria ci sono:
gli Sciiti;
gli Alauiti21 (un ramo degli Sciiti) che hanno esercitato un ruolo di leadership a lungo
nel Paese siriano e gli Assad sono una espressione di quella minoranza;
i Sunniti che sono la maggioranza della popolazione siriana;
gli attori esterni variamente configurati, come i Russi, gli Stati Uniti d’America USA,
gli israeliani, gli Hezbollah22.
Sulla base della situazione sopra descritta, si sono creati delle condizioni strutturali
tali da rendere estremamente improbabile che la Siria possa tornare ad essere quella che
era stata prima del 2011. Quello che succederà nel medio-lungo termine (30 anni) è
estremamente difficile da prevedere. A testimonianza di questa difficoltà, basti pensare
che gli americani, nonostante avessero investito moltissime risorse per ipotizzare possibili
scenari post guerra fredda, di certo non avevano minimamente previsto/immaginato la
caduta del muro di Berlino e le sue conseguenze, nonostante durante la guerra fredda il
sistema internazionale fosse molto più stabile ed ordinato rispetto ad oggi; la fine della
guerra fredda e l’evoluzione del mondo che ne è scaturita, hanno sorpreso anche gli
americani stessi. Quindi fare previsioni sul futuro della Siria è molto difficile. Si può già
intuire come per la Libia, Paese diverso dalla Siria e con una storia meno radicata, sia
altrettanto difficile immaginare come sarà il suo futuro.
20 Basti pensare che la guerra civile in Italia, scoppiata dopo la firma dell’armistizio del 8 settembre 1943, ha fatto poche decine migliaia di vittime e ancora oggi, a distanza di decenni, si discute in clima di contrapposizione sull’accaduto.
21 Gli Alawiti, ossia i seguaci della Alawiyya, altrimenti detti Nusayri, sono un gruppo religioso vicino-orientale, diffuso principalmente in Siria - Non vanno confusi con gli Aleviti, gruppo presente in Turchia.
22 Hezbollah, ossia Partito di Dio, è un'organizzazione paramilitare libanese, nata nel giugno del 1982 e divenuto successivamente anche un partito politico sciita del Libano. Ha sede in Libano ed il suo segretario generale è Hassan Nasrallah, succeduto ad Abbas Al-Musawi a causa della morte di quest'ultimo nel 1992. La forza dell'ala paramilitare di Hezbollah è cresciuta a tal punto nel corso degli anni tanto da essere considerata più potente
dell'esercito regolare libanese.
77
3.3 - Libia
Lo stesso approccio metodologico di analisi usato per la Siria va applicato anche per
la Libia. Si parte dai punti fermi, sottolineando eventuali analogie/differenze con la Siria e
gli altri Paesi dell’area, per poi ipotizzare eventuali scenari che possono realizzarsi nel
breve/medio termine.
La Geografia della Libia
La Libia è un Paese totalmente fittizio, inventato dagli italiani dopo aver vinto una guerra
con l’impero ottomano nel 1911-1912, conquistando alcune province dell’impero.
Furono disegnati dei confini “geografici” molto incerti e fu perfino inventato il nome,
nome romano che veniva dato alla costa settentrionale dell’Africa. La stessa operazione
era stata compiuta in Eritrea, altro nome romano, che indicava la costa del mar rosso.
I confini della Libia, tracciati con linee rette, soprattutto nel Sud della Libia, frutto
dell’eredità coloniale, identificano un triangolo nella forma molto regolare. I confini
vennero tracciati per separare da una parte il territorio sotto il controllo dell’Italia e
dall’altra quello controllato dagli altri Paesi europei, come la Francia e l’Inghilterra.
L’Italia, per mantenere unito tutto il Paese, ha esercitato un controllo del territorio e
particolarmente problematico è stato il controllo del confine con l’Egitto, un confine
identificato principalmente da una linea retta (tranne nella parte Nord del Paese, dove è
più abitato e quindi il confine ha avuto un senso non solo geografico). Tale confine è
stato presidiato dagli italiani con una barriera lunga 200 – 300 chilometri, con filo
spinato, torrette etc. per evitare che si infiltrassero guerriglieri dall’Egitto che potessero
mettere in discussione il controllo italiano.
Dentro quel confine fittizio ci sono 3 territori molto diversi tra di loro, frazionati sia dal
punto di vista geografico che morfologico. Essi sono la Cirenaica, territorio desertico,
sassoso, roccioso e tormentato; Fezzan, classica propaggine del deserto del Sahara; la
Tripolitania, parte a nord della Libia che arriva fino alla costa, con condizioni climatiche
più accettabili rispetto a quelle del Fezzan e del sud della Cerinaica, dove le condizioni
di vita sono molto più disagiate.
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Le Etnie della Libia
Nelle tre aree della Libia (Cirenaica, Tripolitania e Fezzan) sono insediate etnie diverse.
Prima di tutto ci sono gli Arabi, che sono gli ultimi arrivati nella Libia. Molti pensano che
la Libia sia un Paese completamente arabo, ma in realtà non è proprio così. Gli arabi ci
sono e il Paese è configurato sulla base della cultura araba ed islamica (islam concetto
diverso da cultura araba), ma ci sono anche due popoli autoctoni (Tuareg23 e Berberi24),
popoli che hanno avuto con gli arabi sempre relazioni controversie (anche in Algeria). I
Tuareg sono stati feroci oppositori del regime di Gheddafi e sono stati repressi con
profonde fratture di difficile rimarginazione. Oltre ai Tuareg, Berberi ed arabi (mescolati
in alcuni territori), ci sono diverse altre etnie e tribù. Ci sono circa 150 tribù, di cui una
ventina importanti.
Quindi un Paese che ha 4-5 etnie, 2 culture dominanti maggiori di cui una
preponderante araba e l’altra autoctona (berbera), 150 tribù di cui circa almeno 20
importanti, è fortemente frammentato.
Risorse ed economia della Libia
La Libia è un Paese che, come l’ha definito il colonialismo italiano, è uno scatolone di
sabbia, un Paese che non produce nulla di rilevante e che si regge esclusivamente
sulla disponibilità di risorse naturali, come il combustibili fossili (gas naturali e petrolio).
A riguardo si osserva che i Paesi che dipendono principalmente dai combustibili fossili
sono legati a fattori di volatilità perché i prezzi del petrolio variano e negli ultimi anni
sono variati in modo sensibile; due anni fa il costo di un barile era oltre i 100
dollari/barile, nel giro di poco tempo è sceso fino a 30 dollari/barile per ora assestarsi
intorno ai 50. Un qualsiasi governo nazionale che debba fare un minimo di
pianificazione budgettaria, ha in questa situazione molte difficoltà e quindi è
impossibilitato a fare pianificazioni credibili e sostenibili. Persino i Sauditi hanno iniziato
ad avere seri problemi per il crollo del prezzo del petrolio, che ha generato una spinta a
finalizzare accordi con i Russi per limitare la produzione e quindi far risalire i prezzi.
23 I Tuareg o Tuaregh sono un popolo berbero, tradizionalmente nomade, stanziato lungo il deserto del Sahara
(principalmente nel Mali e nel Niger ma anche in Algeria, Libia, Burkina Faso e perfino nel Ciad dove sono chiamati Kinnin).
24 I Berberi o, nella loro stessa lingua, Imazighen (al singolare Amazigh), che significherebbe in origine "uomini liberi", sono, propriamente, le popolazioni autoctone di quei territori nord-africani conosciuti con la denominazione di Tamazgha, corrispondente agli odierni stati di Marocco, Algeria, Tunisia e Libia. Per una serie di motivi storico-ideologici, oggi, nei sopracitati Paesi, si è soliti designare con tale nome solamente coloro che siano di lingua madre berbera (tamazight). Il nome berbero deriva dal termine francese berbère, a sua volta derivato dal vocabolo arabo barbar, il quale, probabilmente, non fa che riprodurre la parola greco-romana barbaro (che designava chi non parlava
il latino o il greco).
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Questo fenomeno è legato alla politica energetica degli Stati Uniti che negli ultimi anni
sono entrati nel mercato mondiale energetico, determinando il crollo dei prezzi dei
prodotti energetici con massimo danno per quei Paesi, come la Libia, la cui
sopravvivenza è strettamente e fortemente dipendente dai prezzi del petrolio e del gas
naturale.
La Libia di Gheddafi
Dopo la seconda guerra mondiale la Libia è rimasta insieme così come era stata
configurata per volontà delle potenze vincitrici. Gli inglesi da una parte e gli americani
dall’altra hanno fatto della Libia un porto sicuro per mantenere il controllo sul
mediterraneo allontanando una possibile minaccia della penetrazione russa. Questo
equilibrio internazionale è stato ottimale finché in Egitto non è arrivato Gamal Abd el-
Nasser (politico e militare egiziano, secondo Presidente della Repubblica egiziana, dal
23 giugno 1956 al 28 settembre 1970), che si è avvicinato alla Unione Sovietica
diventandone un alleato. Questo ha rimesso in moto il panorama internazionale e di
conseguenza la Libia è diventata ancora più importante per garantire il controllo del
mediterraneo da parte del blocco occidentale. Nel frattempo c’è stato il colpo di Stato in
Libia e i militari sono andati al potere, eliminando la casa regnante fittizia portata al
potere dagli alleati alla fine della seconda guerra mondiale. Inizia così l’età Gheddafi-
ana. Gheddafi è un autocrate, prodotto di una i quelle tribù dominanti sullo scenario
libico, ed ha tenuto il Paese assieme sulla base di una vecchia ricetta politica: da un
parte concessione di benefici e sostegno al popolo libico da parte del governo centrale
per garantire a tutti una condizione di vita dignitosa, dall’altra reazioni violente e feroci
per mantenere l’ordine sociale e stroncare sul nascere qualsiasi tentativo di opposizione
al regime.
La Libia è un Paese con una popolazione di circa tre milioni di abitanti, ricco di risorse
naturali (petrolio e gas). Gheddafi si poteva quindi permettere una politica di walfare a
basso costo, dando sussidi alla popolazione con i soldi che ricavava dalla vendita del
petrolio. Questo ha portato uno sviluppo considerevole del Paese che è passato da un
Paese abitato in larga misura da popolazioni principalmente nomadi, ad un Paese dove
sono state costruite strutture, ospedali, università, tutto questo a condizione di
mantenere la pace sociale. Il rapporto di Gheddafi con l’Islam era molto chiaro: in
moschea era possibile fare quello che si desiderava, ma al di fuori delle moschee
bisognava assumere comportamenti in linea con le regole del regime. Con l’esercizio
della violenza e la distribuzione delle risorse economiche Gheddafi è riuscito a
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mantenere unito il Paese fino a 2011, quando si è diffuso il virus che un giornalista
americano ha ribattezzato primavera araba. Questa folata rivoluzionaria è arrivata
dall’Egitto e dalla Tunisia e la Libia, che si trova in mezzo ai due Paesi, ne è rimasta
pienamente investita, scatenando una reazione anti-autocratica.
Alcuni attori europei decidono di cavalcare la tigre, anche alla luce della sfortunata
esperienza in Tunisia, dove avevano sostenuto Zine El-Abidine Ben Ali25, che però era
decaduto per dare spazio alle aspettative di un Paese intenzionato a cambiare regime.
Sconfitti dall’esperienza tunisina, per recuperare posizioni nell’area, decidono di
agganciarsi a quanto stava accadendo in Libia, prevedendo uno scenario
sovrapponibile a quanto successo in Tunisia: la fine di Gheddafi e l’inizio di una nuova
era. L’obiettivo era estendere la loro sfera di influenza in una area, la Libia, che fino ad
allora veniva considerata area sotto l’influenza italiana (per quanto lo permettevano gli
altri governi occidentali e la partecipazione alla Nato).
Alcuni partner europei avviano così in modo unilaterale il noto intervento militare in
Libia. L’Italia si trova in una situazione disastrosa dal punto di vista politico-diplomatico,
perché il presidente del consiglio italiano pro-tempore viene informato dell’iniziativa solo
a decisione presa e a ridosso dell’intervento militare.
L’Italia aveva in piedi il trattato di amicizia e di alleanza con la Libia, e quindi si è trovata
ancora una volta nella situazione di non poter rispettare un trattato perché altrimenti
avrebbe significato mettersi contro alcuni esponenti europei, oltre che restare isolata sul
piano geo-economico.
Al contrario di quello che pensavano gli interventisti attori europei, il regime di Gheddafi
si è dimostrato più resistente del previsto, in quanto Gheddafi aveva un controllo
certamente maggiore rispetto a Ben Ali in Tunisia per i metodi che aveva utilizzato nel
bene e nel male per tenere unita la Libia. La guerra per far cadere Gheddafi inizia a
Febbraio del 2011 e si conclude ad Ottobre dello stesso anno solo grazie all’intervento
risolutivo degli USA.
La Libia dopo la fine di Gheddafi
La Libia comunque era un Paese diverso dalla Tunisia, dove era effettivamente iniziato
e progredito un processo di laicizzazione dello stato della società e di
democratizzazione del Paese, processo che risale addirittura agli sforzi compiuti da
25 È stato il secondo presidente della Repubblica di Tunisia dal 7 novembre 1987, succedendo a Habib Bourguiba. Il suo mandato, protrattosi per più legislature, si è concluso dopo 23 anni, il 14 gennaio 2011, quando un crescendo di proteste popolari, iniziate nel 2010, ha condotto Ben Alì all'esilio all'estero.
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Habib Bourghiba26 che voleva fare della Tunisia un Paese occidentale, uno Stato laico,
e proseguiti dopo anche durante il regime di Ben Ali. Venne tolto l’obbligo di utilizzo del
velo da parte delle donne, acquisendo gli stessi diritti degli uomini, il diritto di famiglia fu
modellato più o meno sulla base di quello francese, quindi europeo, la società tunisina
iniziò a progredire anche grazie al turismo; fino a pochi anni fa, la Tunisia era una meta
turistica importante, anche per gli italiani, anche se oggi non è più così.
Quindi l’occidente, compresa l’Italia, conduce le azioni militari contro il regime di
Gheddafi, che risulta però essere più aggressivo del previsto, reazione che era stata
sottovalutata. Solo l’intervento degli americani riesce a portare a conclusione le
operazioni militari che portano alla fine violenta di Gheddafi, dalla quale però non nasce
alcun stato stabile, contrariamente a quello che era successo in Tunisia, per condizioni
di partenza che erano completamente differenti.
Dalle prime elezioni libere che si tengono in Libia dopo la caduta di Gheddafi, al
contrario di quello che avviene in Egitto ed anche in Tunisia, non emerge alcun partito
di matrice islamica che guadagna la maggioranza dei consensi. Il che rafforza la
convinzione che per varie ragioni i libici sono assai moderatamente interessati all’Islam.
La Libia non è un territorio fertile di per sè per la diffusione del islamismo radicale.
Al contrario, in Egitto, sin dagli anni 20, era presente il fenomeno dei fratelli musulmani
storicamente molto radicati nella società. È un movimento molto complesso,
caratterizzato da propaggini violente con possibili risvolti di natura terroristica, ma è
anche un movimento a cui aderiscono professionisti, medici, avvocati, ingegneri, la
media borghesia. I fratelli musulmani riescono con l’impegno sociale dei sui affiliati a
garantire tutta una serie di servizi, come l’istruzione, le cure mediche, etc., a favore
della popolazione egiziana; una sorta di Stato dentro lo Stato che ricorda gli Hezbollah.
Grazie a ciò il movimento dei fratelli musulmani acquisisce consensi (per i servizi resi),
legittimità, sostegno popolare, che si è esplicitato clamorosamente in Egitto quando si
sono svolte le votazioni nel 2012. I musulmani vanno al potere, stravincono, non hanno
la capacità e la forza di governare in modo adeguato e quindi, dopo poco più di 1 anno,
nel 2013 i militari tornano al potere con un colpo di Stato.
In Libia la situazione è diversa perché non c’è nulla di paragonabile al movimento dei
fratelli musulmani (come successo in Egitto); non c’ è quella storia nazionale o para-
26 Habib Bourghiba (Monastir, 3 agosto 1903 – Monastir, 6 aprile 2000) è stato un politico tunisino di origine berbera. Fu il leader della lotta per l'indipendenza e poi il fondatore della Tunisia moderna, e primo Presidente della Tunisia per 30 anni, dal 25 luglio 1957 al 7 novembre 1987, quando venne destituito per mano del suo successore Zine El-Abidine Ben Ali.
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nazionale alle spalle, in quanto Paese inventato e frazionato in cui l’affiliazione tribale
pesa molto. Nascono quindi i due ben noti governi: quello di Sarraj da una parte
(riconosciuto dalle nazioni unite), insidiato in Tripolitania, e quello di Haftar dall’altra,
insediato in Cirenaica e legittimato sul campo. Qui la situazione si complica perché
dietro a queste due fette di Libia ci sono interessi diversi che non stanno solo in Libia.
Il Fezzan è invece un territorio che si in incunea in profondità nel deserto, e va a
toccare gli interessi francesi, perché confina o è vicino ad ex- colonie francesi (per
esempio il Mali, il Niger, il Ciad) nelle quali i francesi hanno tuttora grandi interessi
soprattutto di natura economica e quindi hanno l’obiettivo di mantenere una loro sfera di
influenza nell’area.
Da questo emerge che con la decisione di attaccare la Libia per capovolgere il regime
di Gheddafi, si è involontariamente creata una condizione di instabilità e di caos che
produce un flusso incontrollato da nord a sud di armi, droga, combattenti che
raggiungono le aree di loro interesse: il Mali, il Niger, il Ciad, dove si possono
radicalizzare gruppi estremisti con tutte le conseguenze negative che ne discendono.
La Libia è luogo in cui arriva la droga dall’America latina utilizzando campi di atterraggio
di fortuna nella fascia desertica del Sahara, ed è un punto di passaggio praticamente
obbligato per i flussi migratori ed il commercio delle armi, in quanto non sono disponibili
altre aree di accesso sul mediterraneo. Infatti, l’Algeria è presidiata da un regime
militare, che si è insediato dopo una devastante guerra civile ed è capace di un
controllo molto rigido del territorio nazionale. Il Marocco è l’unico Stato stabile in tutta la
fascia nord africana e questo conferisce al Governo centrale di esercitare un efficace
azione di controllo del territorio; a riguardo si osserva che di recente ha avuto molta
risonanza la notizia per cui il consiglio superiore dell’Ulema del Marocco ha abolito il
reato di apostasia, rendendo lecita la conversione ad altre fedi. Gran parte del mondo
islamico è rivoluzionario e il fatto che questa scelta sia avvenuta in Marocco, testimonia
la stabilità e l’apertura culturale del Paese in un area dove invece c’è molta agitazione e
caos. Il Marocco, tra l’altro, non ha conosciuto la primavera Araba, perché lì c’è una
autorità monarchica che affonda la propria legittimazione in radici religiose.
La Libia oggi
La situazione in Libia, in sintesi, è oggi molto complessa, caratterizzata da 2 governi
nazionali in contrapposizione tra di loro, da un territorio geograficamente diviso in 3
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grosse aree, da 150 tribù (di cui una ventina rilevanti), 4-5 etnie, dalla minaccia di
insediamento dell’ISIS. Si osserva inoltre che la Libia non è stata mai dotata di capacità
industriale produttiva né c’è alcuna attività agricola significativa. Per decenni la famiglia
media libica ha potuto contare sui sostegni statali che gli venivano dal governo centrale
di Gheddafi, senza preoccuparsi di lavorare, vivendo in condizioni dignitose e
garantendo ai figli la possibilità di accedere alle scuole e alle università. Difronte alla
caduta del regime di Gheddafi, avvenuta nell’arco di 8 mesi, quest’equilibrio è venuto
meno ed improvvisamente la classe media si è trovata completamente povera,
vulnerabile alle proposte dei Jihadisti, che a fronte di elargizione di danaro ricevono in
cambio la disponibilità al reclutamento. Si intuisce quindi che il fenomeno terroristico
non si basa su alcun ideale particolare e potrebbe essere facilmente arginato offrendo
alla popolazione risorse adeguate a riprendere una vita dignitosa. Questa azione non
piò essere intrapresa dall’Italia in modo autonomo per indisponibilità di sufficienti mezzi
economici.
Ulteriore elemento di complicazione all’interno del Paese insieme a tutti i fattori e gli
elementi che sono stati sopra rappresentati, proviene dalle fratture che si sono avute
dalle lotte sanguinose tra le varie fazioni libiche durante la guerra civile nata per
abbattere il regime di Gheddafi. L’uccisione di tante persone libiche per mano di altre
persone libiche non ha creato le condizioni migliori per una pacifica convivenza tra tante
realtà, tribù, etnie differenti tra loro.
In Libia, addirittura più che in Siria, è difficile tracciare dei blocchi in contrapposizione,
perché c’è una notevole sovrapposizione di interessi e di livelli da rendere difficile
l’individuazione degli attori che si contrappongono tra di loro. Come già detto, ci aiuta
Pollock a raffigurare con i suoi quadri lo stato caotico in cui si trova la Libia. In Egitto era
ben identificato il soggetto che aveva vinto le elezioni dopo la primavera araba, così
come, quando il nuovo governo ha iniziato a perdere colpi e consenso, era altrettanto
chiaro che i militari avrebbero preso il potere. Infatti in Egitto i militari hanno anche un
ruolo sociale e controllano gran parte dell’industria e dell’economia del Paese; quindi
era facilmente ipotizzabile che in mancanza di una autorità politica in grado di
governare con una piena legittimazione da parte del Paese, i militari sarebbero tornati al
potere.
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In Libia non c’è nulla di tutto ciò; non c’è all’interno della Libia una struttura solida a cui
far riferimento per realizzare quanto avvenuto in Egitto. La Libia, come detto Paese
fittizio, non ha una sua identità né strutture culturali, politiche, economiche solide su cui
costruire il cambiamento. In Libia c’è questa galassia, questo scatolone di sabbia, dove
si muovono dei flussi governati da specifici interessi di attori interni ed esterni. Solo
Gheddafi poteva mantenere “unita” la Libia con il “bastone e la carota” (terrore e
sovvenzioni).
Vista la fluidità della situazione, con tanti piccoli e disgiunti eventi che succedono nel
tempo, è difficile fare degli scenari credibili.
In una situane volatile e complessa come la Libia, saremmo tentati a rifarci all’approccio
di uno dei fondatori della cibernetica negli anni 50, Ross Ashby, il quale sosteneva che
per gestire e controllare un sistema complesso, caratterizzato da continue variazioni di
stato del sistema stesso, è necessario dotarsi di strumenti di maggiore complessità.
Questo in pratica significa che per prevedere possibili scenari partendo da una
situazione in cui ci sono poche variabili significative, è possibile usare modelli
semplificati che possono essere facilmente gestiti per fare previsioni. Mentre in
situazioni complesse, come la Libia, dove le variabili sono tante, nessuna trascurabile,
in relazione tra loro con un elevato grado di interdipendenza non lineare, sarebbe
necessario dotarsi di un modello complesso per ottenere risultati attendibili. Ma la
costruzione di tali modelli, soprattutto per la Libia, è di fatto impossibile, con il rischio di
non dire nulla di significativo. Allora, proprio perché la realtà è complessa dobbiamo
necessariamente procedere puntando alla semplificazione, a discapito dell’attendibilità
che è molto limitata. In altri termini, con un atto volitivo, dobbiamo sforzarci di
semplificare il modello per evitare di “impantanarsi” nella costruzioni di modelli
complessi, con impegno di ingenti risorse.
3.4 - Scenari
In Libia ad oggi sono presenti in campo due fazioni prevalenti con a capo in una
Fayez al-Sarraj, Premier del Governo di Accordo Nazionale formatosi a seguito all'accordo
di pace del 17 dicembre 2015 e nell’altra il Generale Khalifa Belqasim Haftar. Le due
fazioni si trovano in una situazione caotica, dove attori esterni ed attori minori interni
rendono il percorso di stabilizzazione molto complesso.
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Lo scenario politico futuro della Libia è complesso e difficile da prefigurare. In ogni
caso quello che avverrà potrà essere ricondotto ad uno dei seguenti possibili scenari di
riferimento:
- l’unificazione del Paese,
- la creazione di due Stati federati,
- la permanenza, per un periodo di medio termine, della situazione caotica attuale.
Ciascuno dei quali verrà analizzato allo scopo di comprenderne anche la reale
possibilità della sua realizzazione
3.4.1 - Primo scenario: GOVERNO CENTRALE UNITARIO
Generalità
Il primo scenario prevede la creazione di un Governo centrale unitario con un Consiglio
Presidenziale in grado di riformare la Costituzione e portare a nuove elezioni il Paese.
In questa visione, ritenuta da molti come ottimistica, l’accordo tra le due fazioni
prevalenti, guidate rispettivamente da Fayez al-Sarraj e dal generale Haftar, fazioni che
hanno catalizzato anche se non modo stabile la maggior parte delle molteplici
componenti tribali e culturali libiche, potrebbe innescare un processo democratico che
porterebbe alla formazione di un nuovo Governo rappresentativo delle diverse realtà
libiche territoriali e tribali.
Spinte all’unità
La realizzazione dello scenario di un Governo unitario si poggia principalmente su
necessità interne. Il Paese ha una fortissima crisi economica e la principale fonte di
reddito rimane il petrolio.
La società libica, circa 6,5 milioni di abitanti, è strutturata su clan/tribù che controllano il
proprio territorio secondo uno schema sociale che ricorda le Città-Stato di stampo
medioevale. Ogni tribù ha una sua milizia e si relaziona direttamente con lo Stato
centrale. Venuto meno il potere di Gheddafi che governava con la vecchia logica del
bastone e della carota, è venuto meno anche il controllo e coordinamento delle diverse
tribù locali.
Quest’ultimo fattore è quello più decisivo per trovare un accordo. Le milizie, essendo
stipendiate con la produzione petrolifera, potrebbero trarre benefici dalla stabilità di un
Governo centrale in grado di ottimizzare lo sfruttamento dei pozzi. D’altro canto, le
milizie che controllano i traffici clandestini a Sud nel Fezzan e quelle che controllano i
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porti a Ovest in Tripolitania, dai quali partono gli immigranti per l’Italia, hanno tutto
l’interesse a mantenere l’instabilità attuale.
Se la situazione non si stabilizza, i pozzi petroliferi continueranno ad avere una
produzione a regime ridotto con un pesante impatto sulla popolazione, milizie
comprese, che per lo più riceve uno o più stipendi dallo Stato. In mancanza di uno Stato
centrale, in grado di regolare la distribuzione delle risorse all’interno della Libia
attraverso la National Oil Corporation (NOC) e la Banca centrale libica, tutti i libici non
avranno la possibilità di risollevarsi economicamente.
Difficoltà da superare
A questa visione ottimistica si frappongono delle criticità, prima fra tutte propria la
presenza del Generale Haftar. La città di Misurata, alleata con Serraj, ha il più grosso
numero di milizie del Paese e una potenza militare più o meno pari a quella di Zintan,
alleata con Haftar. Misurata non vuole vedere Haftar con un ruolo militare all’interno di
un eventuale nuovo Governo. La condizione per fare entrare Haftar nel Governo è
quella di togliere qualsiasi ruolo militare al Generale. Quindi Haftar potrebbe presentarsi
con un suo partito, competere alle elezioni e se vincesse potrebbe guidare il Paese.
Le forze di Misurata vedono in Haftar un ritorno alla dittatura e di fatto considerano gli
uomini di Haftar, per la maggior parte, come degli ex-Gheddafiani. Il Lybian National
Army controllato da Haftar è una struttura gerarchizzata che dà l’idea di una formazione
regolare più che di una milizia. Haftar comanda il Parlamento di Tobruk e i suoi uomini
sono quelli che hanno sempre impedito che si ratificasse l’accordo per il Consiglio
Presidenziale, pur avendo Tobruk dei rappresentanti nel Consiglio. Haftar rappresenta
anche l’unica realtà che riesce a gestire la sicurezza sul territorio di riferimento, cioè la
parte orientale della Libia e la città di Zintan, a sud di Tripoli, significativa potenza
militare e dotata anche di un aeroporto strategico per il collegamento con la alleata
Cirenaica.
La parte meridionale della Libia è invece territorio di scontro tra le milizie Tebu e quelle
Tuareg. I Tuareg sono alleati con le milizie di Misurata e quindi sostengono Serraj,
mentre i Tebu sostengono Haftar. La partita che si svolge a Sud è di vitale importanza
perché la sicurezza sui pozzi petroliferi ha un significativo indotto economico, anche per
l’acquisto delle armi. In più chi controlla il Sud controlla le frontiere, cioè altri flussi di
danaro derivanti dai traffici clandestini (tabacco, armi leggere, droga e quello di esseri
umani che è quello più redditizio).
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Il caos politico favorisce i traffici clandestini e le due direttrici principali del traffico di
migranti (dal Corno d’Africa e dall’Africa occidentale francofona) passano proprio dal
Sud della Libia.
Dal 2014 la questione del terrorismo è molto rientrata e ridimensionata sotto il profilo
territoriale. L’ISIS ha comunque attecchito poco in Libia.
Un altro problema è quello dell’alternanza al potere. Infatti, come è successo nelle
ultime elezioni, una parte ha vinto ma la parte opposta non ha accettato la vittoria.
Quindi alla base c’è anche un problema culturale di conoscenza e accettazione dei
meccanismi democratici (chi perde le elezioni lascia il potere). E le organizzazioni
umanitarie internazionali non hanno fatto niente per spiegare alle popolazioni che
venivano da 42 anni di dittatura cosa significa “votare”.
In sintesi la creazione di uno Stato unitario è condizionata da questi fattori:
ruolo di Haftar;
controllo della frontiera a Sud: chi la controlla e come viene controllata;
redistribuzione dei proventi del petrolio che dovrebbe essere equa tra le 3 regioni,
cioè Fezzan, Cirenaica e Tripolitania.
Vantaggi con una Libia riunificata
Una Libia riunificata porterebbe importanti benefici sul bacino del Mediterraneo,
innanzitutto sul fronte dell’immigrazione. La Libia prima della caduta di Gheddafi aveva
circa 1,5 milioni di lavoratori stranieri, provenienti soprattutto dai Paesi africani limitrofi,
mentre oggi non ce ne sono affatto. Per lo più si trattava di manodopera non qualificata,
impiegata nell’agricoltura e nell’edilizia, ma anche di lavoratori qualificati come nella
sanità. Se la Libia fosse in grado di attrarre nuovamente un flusso così grande di
manodopera, garantendo ai lavoratori immigrati un minimo di diritti, è chiaro che tutto il
fenomeno dell’immigrazione clandestina in Europa verrebbe ridimensionato
significativamente.
Un altro benefico effetto di uno Stato unitario e quindi di un adeguato controllo dei
confini con l’Algeria, la Tunisia e a Sud, con l’Africa sub-sahariana, sarebbe quello sul
piano della sicurezza e del contenimento dei traffici clandestini. I benefici portati da una
maggiore sicurezza sul territorio libico si manifesterebbero non solo sul bacino del
Mediterraneo ma anche sull’intera Europa.
Le nuove risorse economiche producibili da un Governo unitario, in primis con
l’ottimizzazione dei giacimenti petroliferi, andrebbero anche a beneficio dei Paesi
limitrofi che potrebbero essere oggetto di investimenti libici.
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In questo modo il Paese riacquisirebbe un ruolo di guida nella federazione pan-africana,
secondo la vecchia visione gheddafiana.
L’organismo internazionale che si potrebbe candidare a supportare la fase di
riunificazione libica è l’Unione Europea, magari a guida italiana.
E qui entra in gioco il ruolo dell’Italia che non può essere solo quello di fornire
assistenza sanitaria agli immigrati, ma deve attivamente partecipare per creare una
struttura militare di polizia all’interno del Paese, come è stato fatto in Iraq.
3.4.2 - Secondo Scenario: STATO FEDERALE
Un secondo scenario possibile sarebbe quello di una federazione tra due Stati in
Cirenaica e in Tripolitania. Quest’ipotesi però, che potrebbe soddisfare l’esigenza di
mantenere anche livello internazionale specifiche aree di influenza in determinate aree
geografiche, richiede gli stessi presupposti di stabilità dello Stato Unitario. Si sottolinea
infatti che la diversificazione etnica e culturale dei “libici” non è riconducibile a territori ben
marcati, ma sono distribuiti sul territorio. Quindi la identificazione di 2 o più Stati all’interno
della Libia non risolve né limita le problematiche dello Stato Unitario. Inoltre ci sarebbe
l’aggravante della gestione degli hub petroliferi per le esportazioni e di funzionamento
della macchina politico-amministrativa. Quindi questo scenario avrebbe molti fattori di
instabilità, che ne pregiudicano la realizzazione in tempi contenuti.
Infine si osserva che non sembra plausibile neanche l’ipotesi di una frammentazione
dello Stato libico. Tale scenario è difficilmente percorribile perché la Libia dispone di
notevoli risorse che sono in parte divisibili ed in parte non divisibili e naturalmente queste
entrerebbero nel gioco della spartizione. Tale ipotesi creerebbe conflitti tali da peggiorare
la situazione anziché migliorarla.
3.4.3 - Terzo Scenario: PERMANENZA DELLO STATUS QUO
Generalità
Il terzo scenario sarebbe la permanenza dello status quo attuale, caos nel quale c’è un
governo riconosciuto a livello internazionale ma non ha il controllo del territorio, che
invece è esercitato, anche se solo in parte, dall’autorità non riconosciuta del Generale
Haftar. Vaste aree del Paese sono comunque controllate dalla criminalità e da gruppi
terroristici.
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La Libia nel breve e medio periodo è destinata ad uno stato di instabilità non solo per la
situazione interna libica, ma anche per il ruolo degli attori esterni sempre più
predominante. I libici da soli non riescono a dare una nuova stabilità alla Libia anche
perché gli attori interni agiscono, più o meno, sulla base delle spinte che ricevono dagli
attori esterni che fomentano i dissidi interni per tutelare i propri interessi.
Perché la stabilizzazione è difficile da realizzare
La stabilità potrebbe essere veicolata tramite un processo di democratizzazione o
attraverso l’instaurazione di una dittatura. Entrambi i processi però sono difficili oggi da
realizzare in Libia come di seguito illustrato.
a. Un processo di democratizzazione non può essere portato al momento a buon fine
in quanto non è stata ricomposta la gestione dell’uso della forza; infatti le tante milizie
riconducibili a diverse etnie hanno ancora un loro peso specifico a livello territoriale
ed esercitano ancora efficacemente il loro potere per ricattare gli attori istituzionali
con lo scopo di tutelare i propri interessi e partecipare direttamente ad eventuali
trattative.
Le pulsioni interne quindi sono ancora forti ed il processo di democratizzazione non
ha dato risultati confortanti nonostante si siano tenute già tre consultazioni elettorali
in due anni, con una affluenza alle urne che è passata dal 60% a meno del 20%.
Questo è il segnale che tra l’altro neanche la popolazione libica crede più a tale
percorso democratico.
b. Il processo di stabilizzazione tramite una dittatura non può realizzarsi in tempi
brevi perché manca un uomo forte di riferimento. Del resto, un uomo forte c’era
(Gheddafi) ed è stato eliminato. Manca oggi un uomo di riferimento dotato della
giusta forza militare per tentare di instaurare una dittatura in grado di azzerare tutti i
conflitti interni dettati dalla molteplicità di interessi in gioco e in contrapposizione tra
loro. Oggi la parte più accreditata per tentare tale scalata è, anche secondo la
stampa internazionale, il Generale Haftar le cui quotazioni sono in ascesa: tuttavia
non sembra, al momento, che abbia la capacità militare di poter controllare tutto il
Paese; controlla l’est della Libia nonostante di recente abbia subito le defezioni di
alcuni dei suoi fedelissimi.
La debolezza è dimostrata da tanti episodi di incapacità di potersi imporre; ad esempio
a Derna ha cercato di insediare come governatore un proprio ufficiale ma non ha
incontrato il favore della popolazione; sta cercando di mettere a capo delle varie
90
municipalità propri militari al posto di quelli liberamente eletti ma spesso non sono
accettati.
Inoltre il Generale Haftar non è presente e non ha alcuna influenza in Tripolitania; non è
pensabile che Egli riesca a mettere propri uomini a controllare/governare Misurata.
Ciò nonostante, un’escalation della forza non va esclusa ma, anche in questo caso,
bisogna però tener conto delle reazioni degli attori internazionali che, anch’essi in
contrapposizione tra loro, potrebbero ostacolare o favorire tale processo. Il Generale
Haftar avrebbe un appoggio da parte della Russia, degli Emirati Arabi e dell’Egitto, ma
probabilmente sarebbe ostacolato da tanti altri.
Per le stesse ragioni è da escludere, inoltre, l’ipotesi di un conflitto civile. In particolare,
nonostante la Libia viva un momento molto particolare con un’identità nazionale
frammentata in regionalismi ed equilibri dettati dai rapporti anche conflittuali tra clan e
tribù, i settarismi, necessari per far esplodere una guerra civile, non troverebbero
terreno fertile. Prima di tutto perché c’è una prevalenza in Libia dei sunniti e poi perché
conflitti e contrasti tra tribù sono risolti in forma puntuale e circoscritta. Le tribù, seppur
distinte tra loro, si parlano tra di loro e nonostante le divisioni e le profonde differenze,
c’è comunque un rispetto reciproco. Questo comporta che si può parlare di un sistema
tribale caratterizzato dal vincolo, in qualche modo, associativo.
Lo status quo come unica possibilità
È plausibile che il tessuto sociale libico possa tenere e lo scenario più probabile diventa
quindi quello della permanenza dell’attuale “status quo” caratterizzato da altalenanti
periodi di instabilità e successiva calma per i prossimi cinque o sei anni.
Certo, non si può escludere anche una fase di appeacement tra le due parti (Haftar e
Serraj) ma senza che ciò porti a grossi mutamenti.
È sicuramente positivo che i due si siano incontrati di recente in Egitto ma non perché
ciò sia stato risolutivo ai fini sella ricomposizione libica bensì, piuttosto perché in questo
modo lo status quo conviva con tensioni interne mantenute in qualche modo circoscritte
senza arrivare a conseguenze estreme.
3.4.4 - Il ruolo degli attori internazionali
Altro elemento fondamentale per comprendere il possibile futuro del Libia, è
analizzare brevemente la posizione degli attori internazionali, che considerano la Libia
come un comodo teatro di confronto di molteplici interessi strategici ed economici.
91
L’Italia ha interessi forti da tutelare in Libia, in quanto è una fonte molto importante di
approvvigionamento petrolifero e di gas naturale. Le risorse che provengono dalla Libia
coprono circa il 30% del fabbisogno nazionale. Vanno tutelati i pozzi dell’ENI e tanti
investimenti fatti nel Paese.
La questione libica per l’Italia è strategica non solo per gli interessi economici nazionali
ma anche per il controllo del fenomeno dell’immigrazione clandestina. In realtà però
l’Italia non si è mai impegnata molto per stabilizzare il Paese, né un intervento militare
terrestre sarebbe stato possibile. Sul piano economico, la destabilizzazione ha fatto
perdere molto alle imprese italiane, soprattutto quelle piccole e medie coinvolte nella
manutenzioni degli impianti e delle reti infrastrutturali (acquedotti, strade, energia
elettrica). Circa 200 PMI (Piccole Medie Imprese) italiane vantano crediti verso la Libia
per 2 miliardi di Euro e tali crediti sono bloccati. Forse solo l’ENI è riuscita a contenere
i danni in virtù dell’accordo di sfruttamento delle risorse petrolifere rimasto sempre in
vigore e facendosi direttamente carico di garantire una cornice di sicurezza a difesa dei
propri interessi.
L’Italia dallo status quo non avrebbe nessun vantaggio. L’Italia avrebbe tutto l’interesse
a ricostituire la legittimità dello Stato libico.
Il governo italiano comunque si è sempre mosso secondo due direttrici. Anzitutto ha
sempre considerato impraticabile un’escalation militare per arrivare ad una sorta di
stabilità vera del Paese in quanto le esperienze dell’Afghanistan e dell’Iraq hanno
dimostrato il fallimento di tale approccio. Inoltre, l’Italia oggi sostiene il governo di
Sarraj, in quanto, tra l’altro, in Tripolitania ci sono i maggiori interessi nazionali da
tutelare; infatti l’ENI ha fatto investimenti di lungo periodo, mentre in Cirenaica ci sono
investimenti più datati. Dalla Cirenaica però partono i traffici maggiormente illegali e
che più investono il territorio nazionale come il traffico di esseri umani. Da qui
l’interesse dell’Italia ad avere una Libia stabile ed unita, di fatto in contrapposizione agli
altri attori internazionali, alcuni dei quali forse ritengono più utile avere una Libia in uno
stato caotico.
La Francia, a seguito dell’intervento militare, ha una forte presenza in Libia e di certo
ha tutta la volontà di rimanere in Libia per tutelare i propri interessi economici (la Total),
compresi quelli di proteggere i Paesi confinanti con la Libia (Mali, Niger, Ciad) a forte
influenza francese.
92
La Francia sin dal primo momento ha giocato un ruolo importante per cercare di
acquisire una fetta importante del mercato libico conseguendo però risultati di modesta
entità. I francesi si sono quindi mossi più sulla Cirenaica che sulla Tripolitania, con veri
e propri tour per imprenditori e investitori organizzati dall’ambasciata francese. Altro
importante interesse francese è a Sud, per le miniere di uranio.
La Francia vorrebbe una Libia unita ma vicina ai propri interessi che sono in cirenaica.
Ma facendo parte dei Paesi che appoggiano Sarraj, non appoggia (apertamente) il
Generale Haftar. Al fine di tutelare i propri interessi, le cronache narrano come la
Francia abbia sostenuto silenziosamente il Generale Haftar fin quando non si è
verificato l’incidente aereo in cui le milizie di Haftar hanno abbattuto un elicottero
francese causando la morte di una delegazione di consiglieri francesi.
Anche il Regno Unito ha contribuito alle operazioni militari e continua ad operare sul
campo e quindi vorrà avere nel processo di stabilizzazione del Paese un ruolo di
influenza.
Gli Stati Uniti d’America al momento non sembrano volersi spendere più di tanto per
la Libia; ma di fronte alla minaccia terroristica, che potrebbe prendere piede in Libia, gli
USA potrebbero aumentare il proprio impegno nell’area. Hanno comunque partecipato
alle operazioni militari e sono stati risolutivi per la caduta del regime di Gheddafi.
Gli Stati Uniti hanno cercato finora di farsi coinvolgere il meno possibile ma le prossime
mosse della presidenza Trump sono imprevedibili. Il 27 Gennaio ultimo scorso la Casa
Bianca ha comunque invitato tutti gli americani a lasciare il Paese.
La Russia è presente nell’area per il vuoto creato dagli Stati Uniti e anche grazie al
coinvolgimento da parte dell’Italia, che ha chiesto più volte un loro intervento per
cercare di mediare tra due governi in carica. I Russi sono dalla parte di Haftar
(Cirenaica) e sicuramente vorranno mantenere un ruolo di influenza nell’area.
La Russia ha probabilmente l’interesse a mantenere lo stato attuale di instabilità, per
potersi muovere con meno vincoli in un area in cui cerca prima di tutto di incrementare
la sua influenza nel Mediterraneo.
Mosca ha prima riconosciuto l’insediamento al Governo di Serraj, ma subito dopo,
però, ha deciso di sostenere il Generale Haftar.
93
La Russia non dovrebbe quindi avere ambizioni strategiche di lungo corso in Libia.
La manovra che il Cremlino sta giocando in Libia è più una manovra strategica e
rientra in un gioco importante nei rapporti che Mosca ha con gli USA e l’Europa, con
l’obiettivo di ritagliarsi un ruolo importante nel Mediterraneo.
L’Egitto ritiene fondamentale il controllo della Cirenaica (non l’intera Libia) per
controllare il confine con la Libia, ritenuto una porta di accesso in Egitto di flussi
migratori e trafficanti d’armi e di droga.
L’Egitto pensa eventualmente ad una Libia unitaria sotto il controllo del Generale
Haftar con una grossa influenza in Cirenaica di modo da farla diventare una sorta di
zona cuscinetto ai fini della propria sicurezza nazionale. Molti dei fratelli musulmani
provenienti dall’Egitto si sono rifugiati in Cirenaica e senza controllo potrebbero
alimentare il terrorismo su un confine facile da attraversare in assenza di un forte
controllo. Inoltre con il Generale Haftar influente in Cirenaica, l’Egitto potrebbe favorire
l’invio di propria manovalanza in Libia da impiegare nei pozzi petroliferi visto che la
Libia è un Paese scarsamente popolato. Da questo l’Egitto ne trarrebbe vantaggi su tre
fronti, ovvero:
avrebbe la possibilità di dare lavoro a parte della sua popolazione;
riceverebbe in cambio petrolio, materia prima che in Egitto per ora scarseggia;
controllerebbe, ai fini della sicurezza, una regione extraterritoriale che, al momento,
costituisce la classica spina nel fianco.
La Turchia in questo momento ha altri problemi da gestire e quindi non si può
interessare della Libia; la Turchia non può essere in questo momento un player
fondamentale.
La Turchia ha storicamente forti legami con Misurata (avamposto dell’impero
ottomano) che oggi è un centro industriale. Viceversa molti capi milizia libici hanno
interessi in Turchia. Uno dei settori più importanti di investimento turco è quello edilizio.
La Turchia è presente quindi in Libia soprattutto in virtù del retaggio storico dell’impero
ottomano. La Turchia ha cercato di avere un ruolo di intermediario nella primavera
araba ma fondamentalmente anche Ankara ha propri interessi da tutelare specialmente
in Tripolitania dove ha fatto investimenti di non poco conto.
94
La Cina aveva forti interessi commerciali e non sembra avere nell’area mire geo-
strategiche. Allo scoppio della guerra nel 2011, ha messo in piedi una vasta
operazione navale per evacuare i propri cittadini dalla Libia (circa 4-5 mila cinesi). Non
è da escludere che Pechino continui ad avere interessi commerciali nell’area e quindi
potrebbe essere interessata ad avere un ruolo attivo nel processo di stabilizzazione
della Libia per poter riprendere i propri interessi commerciali nell’area.
L’ONU, attore esterno fondamentale, sostiene il governo di Sarraj, dopo un lungo
processo di mediazione, dove anche l’Italia è stata coinvolta.
95
4. CONCLUSIONI
Prima di tutto, prevedere che in Libia, così come in Siria, sia possibile tornare allo
status quo ante, cioè ricostruire uno Stato libico unitario, come lo abbiamo conosciuto dal
1912 al 2011, è uno scenario che è praticamente impossibile da realizzare, in quanto la
Libia è un Paese completamente diverso da tutti gli altri Stati che hanno vissuto la
primavera araba. La concretizzazione di tale scenario si dovrebbero basare sulla
realizzazione di tante condizioni in forma concomitante la cui probabilità complessiva che
ciò avvenga è talmente bassa che di fatto è irrealizzabile nel breve/medio termine.
In Libia, non ci sono partiti religiosi radicati, né una forte presenza miliare nel tessuto
sociale ed economico, né tantomeno c’è una borghesia degna di questo nome; quindi la
costituzione di uno stato unitario stabile non si appoggerebbe su nulla di solido. Anche
l’ipotesi dell’arrivo di un uomo forte, che a similitudine di quanto fatto da Gheddafi, controlli
un Paese così complesso è oggi molto improbabile. Un ipotetico candidato a “uomo forte”
sarebbe comunque espressione di una tribù, di una etnia, appoggiato solo da una di quelle
potenze che hanno interessi in Libia. E poi, comunque, c’è la presenza sia di Haftar e di
Sarraj che nel frattempo hanno preso piede in aree geografiche molto specifiche.
Un’analisi razionale porterebbe a ipotizzare che ci potrebbe essere una forte spinta
interna per la costituzione uno stato unitario, in quanto sarebbe un modo per soddisfare un
interesse endogeno collettivo di sfruttare le risorse interne, assolutamente necessarie per
la popolazione libica per poter vivere. Poiché gli interessi di ciascuna singola parte in gioco
non coincidono con l’interesse collettivo del sistema, allora la spinta diventa inefficace.
Tali considerazioni sono applicabili per qualsiasi altra forma di assetto che possiamo
immaginare, sia stato unitario che federale.
Quindi non potendo immaginare scenari credibili anche per le manovre occulte che
vengono portate avanti dagli attori coinvolti, dobbiamo orientarci maggiormente verso una
situazione che rimarrà fluida nel tempo. A tale proposito ci soccorre Zygmunt Bauman27,
recentemente scomparso, che aveva introdotto il concetto di società fluida.
Possiamo quindi dire che, secondo l’analisi sistemica, l’unico scenario possibile è il
permanere della situazione in una condizione caotica così come lo è oggi, dove gli attori
coinvolti, interni ed esterni, si muovono su base di opportunità, seguendo i propri interessi.
27 Poznań, 19 novembre 1925 – Leeds, 9 gennaio 2017, è stato un sociologo, filosofo e accademico polacco di origini ebraiche.
96
A riguardo possiamo richiamare la tesi americana del control caos, secondo la quale,
una volta creato il caos, gli attori esterni mettono in atto azioni mirate al suo controllo.
Si prevede che la Libia, che è nel caos con la presenza di tanti attori interni ed
esterni, in contrapposizione tra loro per interessi differenti, continuerà a rimanere in questo
stato di caos per almeno 5 anni, in una situazione incontrollata (uncontrolled). Il vuoto di
potere generato dal caos potrebbe essere colmato da poteri forti non visibili (come per
esempio poteri finanziari, etc.), che contrariamente ad un potere visibile (politico, partito,
governo, etc.), non può essere facilmente identificato, controllato ed eventualmente
sovvertito/rimosso.
Il governo Italiano sostiene il governo di Sarraj, spinge per l’unità del Paese e ha
aperto l’ambasciata a Tripoli, decisione quest’ultima giudicata negativamente da molti
analisti a livello internazionale.
Di contro, la Francia e il Regno Unito, nazioni molto pragmatiche, non dimostrano nei
fatti di essere interessati ad avere una Libia unita. Il loro obiettivo è tutelare i propri
interessi nazionali, come la Total, i pozzi di petrolio e mantenere la loro sfera di influenza
nell’area per contrastare i traffici illeciti di droga, di armi e degli immigranti.
Con una Libia caotica, nonostante l’ENI riesca a continuare a lavorare grazie ai sui
contractor locali, l’Italia paga principalmente il prezzo:
della massiccia presenza di flussi migratori via mare dalle coste libiche verso quelle
italiane;
della drastica riduzione delle opportunità che la piccola e media industria italiana aveva
in Libia.
Gli principali interessi italiani in Libia sono:
mantenere il controllo delle fonti energetiche (pozzi e gas naturali) per garantirne
stabilità nel tempo di estrazione;
continuare l’impegno di sostegno del governo di Tripoli, Sarraj e, quindi spingere l’Onu,
anche in virtù della presenza dell’Italia per l’anno 2017 nel consiglio di sicurezza, a
sostenere tale posizione;
farsi promotore per mediare tra il generale Haftar e il Sarraj per raggiungere una
soluzione unitaria;
spingere l’Europa perché la Libia diventi una questione europea, non fosse altro per
limitare/controllare i flussi migratori che dovrebbero riguardare tutti i Paesi dell’Europa.
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Le risorse necessarie a stabilizzare la Libia non sono alla portata dell’Italia e quindi
bisognerebbe coinvolgere l’Europa, che però si muove in modo disorganico. In particolare
la Germania è fortemente impegnata sul fronte dell’Europa dell’Est, che fornisce le risorse
energetiche di cui ha bisogno e da cui proviene la minaccia per i traffici illeciti (droga, flussi
migratori).
Infine, si sottolinea che non va sottovalutata la situazione della Tunisia, la cui stabilità
attuale potrebbe essere precaria e quindi, in caso di stravolgimenti dell’attuale equilibrio
interno, potrebbe aggravare i problemi dell’intera area del Mediterraneo.
La Tunisia apparentemente ha un governo stabile, ma è un Paese con scarse risorse
naturali la cui economia si è retta grazie allo sviluppo del turismo che però negli anni è
crollato, con notevoli danni all’economia del Paese. Inoltre sono diminuiti anche gli
investimenti esteri, soprattutto delle piccole/medie imprese, che utilizzavano la
manodopera a basso costo e le agevolazioni fiscali. Il tutto era possibile perché regnava
una certa stabilità nel Paese, che aveva delle buone carte da giocare, come lo sviluppo
della piccola impresa e della agricoltura. Oggi non è più così e regna la sfiducia. Inoltre c’è
il problema dei Foreign Fighters, che partiti dalla Tunisia in gran parte stanno rientrando.
Per noi italiani l’eventuale instabilità della Tunisia potrebbe essere un problema in quanto
geograficamente molto vicina alle nostre coste.
Se si destabilizza la Tunisia, ci saranno pesanti ripercussioni nell’area Mediterranea
e in particolare l’Italia vedrebbe aggravarsi il fenomeno dei flussi migratori.
98
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