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Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Corso di Sacra Scrittura 2008 Claudio Doglio Vangelo SECONDO Giovanni INTRODUZIONE 1. L’AUTORE E I SUOI DESTINATARI Il titolo «Vangelo secondo Giovanni» è riportato sul frontespizio dei codici antichi, mentre nell’opera stessa il nome dell’autore manca. Tale informazione deriva dall’antica tradizione ecclesiastica che ha conservato la memoria vivente. Le testimonianze della tradizione Le prime notizie sul vangelo di Giovanni ci sono trasmesse da Ireneo, vescovo di Lione, nella sua opera fondamentale «Adversus Haereses», scritta intorno al 180 per combattere l’eresia gnostica. Proprio contestando il fatto che gli eretici cambiano i dati dei vangeli e insegnano cose che non sono lì presenti, ripetutamente cita la tradizione, la quale – in modo sicuro – garantisce la fede della Chiesa cattolica: Il vangelo e tutti gli anziani, che vissero in Asia con Giovanni, il discepolo del Signore, attestano che queste cose le ha trasmesse Giovanni, che rimase con loro fino ai tempi di Traiano (Adv. Haer. II,22,5). Poi anche Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo petto, pubblicò anch’egli il vangelo, mentre dimorava ad Efeso in Asia (Adv. Haer. III,1,1) Ireneo, dunque, identifica Giovanni con il discepolo del Signore, con colui che riposò sul suo petto. Afferma che abitava in Efeso, capitale dell’Asia e che pubblicò il vangelo. Non usa il verbo «scrivere», ma dice «edidit»: usa cioè il verbo della edizione, che significa emettere, pubblicare, divulgare. Giovanni è riconosciuto come l’autore del vangelo, perché ha fatto crescere la tradizione di Gesù. Un altro testo importante di Ireneo è nella «Lettera a Florino», citata da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica. Florino è un compagno d’infanzia di Ireneo, divenuto poi gnostico; a lui Ireneo indirizza una lettera per invitarlo a cambiare idea. Gli ricorda l’infanzia comune e l’apprendimento della tradizione antica dalla bocca di Policarpo. Scrive Ireneo: Io ti potrei dire ancora il luogo dove il beato Policarpo era solito riposare per parlarci, e come esordiva, e come entrava in argomento; quale vita conduceva, quale era l’aspetto della sua persona; i discorsi che teneva al popolo; come ci discorreva degl’intimi rapporti da lui avuti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore, dei quali rammentava le parole udite intorno al Signore, ai suoi miracoli, alla sua dottrina. Tutto ciò Policarpo l’aveva appreso proprio da testimoni oculari del Verbo della Vita, e lo annunziava in piena armonia con le Sacre Scritture (St. Eccl. V, 20, 4-6).

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Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Corso di Sacra Scrittura 2008 Claudio Doglio

Vangelo SECONDO Giovanni

INTRODUZIONE

1. L’AUTORE E I SUOI DESTINATARI

Il titolo «Vangelo secondo Giovanni» è riportato sul frontespizio dei codici antichi, mentre nell’opera stessa il nome dell’autore manca. Tale informazione deriva dall’antica tradizione ecclesiastica che ha conservato la memoria vivente.

Le testimonianze della tradizione

Le prime notizie sul vangelo di Giovanni ci sono trasmesse da Ireneo, vescovo di Lione, nella sua opera fondamentale «Adversus Haereses», scritta intorno al 180 per combattere l’eresia gnostica. Proprio contestando il fatto che gli eretici cambiano i dati dei vangeli e insegnano cose che non sono lì presenti, ripetutamente cita la tradizione, la quale – in modo sicuro – garantisce la fede della Chiesa cattolica:

Il vangelo e tutti gli anziani, che vissero in Asia con Giovanni, il discepolo del Signore, attestano che queste cose le ha trasmesse Giovanni, che rimase con loro fino ai tempi di Traiano (Adv. Haer. II,22,5).

Poi anche Giovanni, il discepolo del Signore, quello che riposò sul suo petto, pubblicò anch’egli il vangelo, mentre dimorava ad Efeso in Asia (Adv. Haer. III,1,1)

Ireneo, dunque, identifica Giovanni con il discepolo del Signore, con colui che riposò sul suo petto. Afferma che abitava in Efeso, capitale dell’Asia e che pubblicò il vangelo. Non usa il verbo «scrivere», ma dice «edidit»: usa cioè il verbo della edizione, che significa emettere, pubblicare, divulgare. Giovanni è riconosciuto come l’autore del vangelo, perché ha fatto crescere la tradizione di Gesù.

Un altro testo importante di Ireneo è nella «Lettera a Florino», citata da Eusebio nella sua Storia ecclesiastica. Florino è un compagno d’infanzia di Ireneo, divenuto poi gnostico; a lui Ireneo indirizza una lettera per invitarlo a cambiare idea. Gli ricorda l’infanzia comune e l’apprendimento della tradizione antica dalla bocca di Policarpo. Scrive Ireneo:

Io ti potrei dire ancora il luogo dove il beato Policarpo era solito riposare per parlarci, e come esordiva, e come entrava in argomento; quale vita conduceva, quale era l’aspetto della sua persona; i discorsi che teneva al popolo; come ci discorreva degl’intimi rapporti da lui avuti con Giovanni e con gli altri che avevano visto il Signore, dei quali rammentava le parole udite intorno al Signore, ai suoi miracoli, alla sua dottrina. Tutto ciò Policarpo l’aveva appreso proprio da testimoni oculari del Verbo della Vita, e lo annunziava in piena armonia con le Sacre Scritture (St. Eccl. V, 20, 4-6).

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Questo passo ci permette di riconoscere i vari anelli della tradizione: Ireneo giovane ha conosciuto Policarpo anziano, il quale a sua volta è stato discepolo di Giovanni. In questo modo possiamo dire di avere delle informazioni dirette sull’origine del Quarto Vangelo.

Un altro testimone antico molto importante è Papia, vescovo di Gerapoli, nel II secolo; la sua testimonianza ci è conservato da Eusebio. Ecco come si esprime Papia:

Non esito ad aggiungere ciò che ho appreso bene dai presbiteri e ho conservato nella memoria (...) Se m’imbattevo in chi avesse avuto consuetudine coi presbiteri, cercavo di conoscere le sentenze dei presbiteri, ciò che avevano detto Andrea o Pietro o Filippo o Giacomo o Giovanni o Matteo o qualche altro dei discepoli del Signore; ciò che dicono Aristione e il presbitero Giovanni, discepoli del Signore. Io ero persuaso che il profitto tratto dalle letture non poteva stare a confronto con quello che ottenevo dalla parola viva e durevole (St. Eccl. III, 39, 1-4).

Il fatto di nominare due volte il nome di Giovanni ha fatto pensare a due persone diverse con lo stesso nome; ma forse si può intendere che Giovanni sia l’unico degli apostoli che Papia abbia potuto incontrare personalmente e il titolo «presbitero» (cioè: anziano) sta ad indicare, oltre l’avanzata età, soprattutto la grande autorevolezza del personaggio.

Leggiamo altre antiche testimonianze della tradizione latina. Il Canone muratoriano del II secolo così si esprime:

Il quarto dei vangeli è di Giovanni. Mentre lo esortavano i condiscepoli ed i suoi vescovi, disse: “Digiunate con me oggi per tre giorni e se qualcuno avrà una rivelazione ce lo diremo l’uno all’altro”. In quella stessa notte fu rivelato ad Andrea, uno degli apostoli, che, mentre tutti dovevano essere d’accordo, Giovanni a nome suo avrebbe scritto tutto.

Questo testo, a parte il tono leggendario, offre il fondamento all’ipotesi di una comunità giovannea radunata intorno all’apostolo.

Il Prologo anti-marcionita afferma: Il vangelo di Giovanni è stato manifestato e dato alle Chiese da Giovanni quando era ancora nel corpo. Papia, vescovo di Gerapoli, discepolo caro a Giovanni, nei suoi cinque libri esoterici in modo retto scrisse il vangelo sotto dettatura di Giovanni.

Infine il Prologo monarchiano annota a proposito di Giovanni: Scrisse questo vangelo in Asia dopo aver scritto a Patmos l’Apocalisse.

Anche ad Alessandria d’Egitto, nel III secolo, gli studiosi riconoscono che Giovanni è l’ultimo della serie, che ha scritto su invito dei conoscenti e che il suo vangelo è spirituale. È importante, a questo proposito, l’affermazione di Clemente Alessandrino, anch’essa riferita da Eusebio:

Nei medesimi libri Clemente riporta la tradizione circa l’ordine della composizione dei vangeli, tradizione che è derivata dagli antichi presbiteri (...) Ultimo poi Giovanni, vedendo che negli altri vangeli era tratteggiato il lato umano (ta somatiká) della vita di Cristo, assecondando l’invito dei discepoli e divinamente inspirato dallo Spirito Santo, compose un vangelo, che è veramente spirituale (pneumatikón) (St. Eccl. VI, 14, 7).

Da questo momento non si trova nella tradizione nulla di nuovo. I grandi Padri del IV e V secolo citano sempre e solo queste fonti, che abbiamo passato in rassegna.

Si ha pure notizia di qualcuno che nell’antichità ha negato la paternità giovannea al Quarto Vangelo, ma si tratta di insignificanti esponenti di piccoli gruppi ereticali, quali il presbitero romano Gaio e la setta degli “alogi”.

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Tempo e luogo di composizione

Secondo i dati tradizionali, non smentiti da alcuna seria obiezione, Giovanni e la sua comunità vivevano ad Efeso, capitale della provincia d’Asia. Con questo non si vuole certamente affermare che Giovanni abbia trascorso tutta la vita ad Efeso: non è nato lì e non sappiamo quando vi sia arrivato.

Negli anni 54-57 ad Efeso ha soggiornato Paolo e nessuna notizia lascia presupporre la presenza di Giovanni. Le lettere a Timoteo vengono mandate a questi in quanto “vescovo” di Efeso: se in quel periodo nella città ci fosse stato Giovanni, difficilmente poteva essere considerato capo della comunità Timoteo. Ci possiamo quindi spingere oltre l’anno 60 ed affermare che Giovanni può aver vissuto ad Efeso gli ultimi 20-30 anni della sua vita, verso la fine del I secolo. Pertanto, siccome il vangelo non è nato in pochi giorni, è possibile pensare che la composizione di molte parti della narrazione sia avvenuta in precedenza e in altri luoghi. Resta certa, tuttavia, l’ambientazione della stesura definitiva del Quarto Vangelo nell’ambiente efesino.

Per quanto riguarda la data di composizione, dobbiamo ricorrere ancora una volta alle informazione che ci hanno tramandato i Padri della Chiesa: secondo un’opinione unanimemente diffusa Giovanni è stato l’ultimo vangelo ad essere messo per iscritto. Come abbiamo già detto, secondo un’indicazione di Ireneo, Giovanni visse fino al tempo dell’imperatore Traiano (98-117): quindi, l’ultima stesura del vangelo può essere collocata negli anni 90-100 del I secolo.

Per chi e perché Giovanni ha scritto? La questione che stiamo per analizzare è uno degli argomenti che ha interessato di più gli studiosi giovannei e quindi le opinioni in proposito si sono moltiplicate. Cerchiamo di dipanare la complicata matassa con alcune affermazioni semplici e fondamentali.

Il fine remoto per cui un apostolo scrive un vangelo è quello di custodire la tradizione e offrirne un’interpretazione. Si mette per iscritto la predicazione quando ormai è maturata l’idea che il mondo non sta per finire da un giorno all’altro e — di conseguenza — si sente la necessità di testi che conservino la tradizione orale. Queste opere scritte ovviamente comprendono i contenuti che interessano di più la comunità cristiana, cioè i testi che servono per formare i credenti e difendere la comunità, ed anche per annunciare la fede a chi ancora non la conosce.

Questi tre scopi — formativo, apologetico e missionario — non sono dunque alternativi e non si escludono a vicenda. Possono benissimo stare insieme; la stessa pagina può essere usata con finalità missionaria, se l’uditorio non è credente, o con finalità formativa, se l’uditorio è credente. Inoltre avendo una lunga storia di composizione, è seriamente ipotizzabile una presenza di fini diversi a seconda degli stadi diversi della composizione.

Alla fine del racconto di Giovanni, però, troviamo una dichiarazione esplicita dell’evangelista:

Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31).

Il fine principale della stesura scritta del vangelo, dunque, è la fede dei destinatari. E l’oggetto di questa fede è Gesù Cristo, Figlio di Dio, esattamente come si esprime Marco all’inizio del suo vangelo (Mc 1,1). Ma decisivo per Giovanni è il rapporto fede-vita: infatti, solo attraverso l’adesione completa al Cristo è possibile ottenere la vita in pienezza. L’obiettivo ultimo a cui tendere è la vita, ma la strada per giungervi è la fede nel Figlio di Dio.

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Un problema testuale, però, evidenzia una possibile sfumatura di intenti. Negli antichi testi greci la formula «perché crediate» è riportata in due modi: nella forma pisteuēte e in quella pisteusēte. Nel primo caso si tratta di un presente, che indica continuità dell’azione, e quindi significa “continuare a credere”: l’intento, dunque, sarebbe quello di incoraggiare la fede di chi ha già aderito al Signore Gesù. Nel secondo caso, invece, si tratta di un aoristo, che in greco esprime piuttosto una sfumatura di evento puntuale e ingressivo, per cui il significato dell’intento sarebbe quello di “iniziare a credere”.

Fra i due, il primo sembra più attendibile, perché corrisponde meglio al tono generale dell’opera giovannea e rispetta alcuni indizi che orientano in questa direzione. Infatti Giovanni insiste sulla necessità di “rimanere” attaccati e fedeli (cf. 8,31; 15,17), nonché di “conservare” (cf. 8,51.52; 14,15.23.24) la parola e l’insegnamento che sono stati trasmessi. Difficilmente questi discorsi sono rivolti a principianti. Inoltre è fondamentale la visione di una escatologia realizzata, secondo la quale la comunità cristiana vive già adesso i beni escatologici della salvezza («è giunta l’ora ed è questa...»); infine è decisiva la ricchissima presenza di segni sacramentali, con chiaro riferimento a quegli elementi con cui il credente vive nel tempo l’esperienza di Gesù Cristo, come pure l’insistenza sullo Spirito Santo, i cui doni la comunità sperimenta nella vita quotidiana.

Si può, dunque, affermare con buona sicurezza che lo scopo principale di Giovanni sia quello di formare i credenti, cioè persone già avanzate nella fede; l’autore vuole radicare più profondamente nella fede coloro che già credono. Non si tratta, dunque, di un testo di primo annuncio, destinato alla prima evangelizzazione, ma piuttosto di uno strumento di formazione e di maturazione. Nella tradizione patristica si era teorizzata una distinzione dei quattro vangeli secondo il cammino del credente: se Marco è il vangelo dell’iniziazione cristiana, rivolto soprattutto ai catecumeni, Matteo e Luca costituiscono i testi di formazione per comunità cristiane già configurate ma in crisi; invece Giovanni rappresenta il vertice del cammino, il vangelo della perfezione e della contemplazione, rivolto a cristiani maturi, desiderosi di approfondimento.

Altri scopi ed altri destinatari

In secondo ordine possiamo individuare anche altri scopi ed altri potenziali destinatari, ma non tali da caratterizzare pienamente il Vangelo di Giovanni.

In alcuni versetti si intravede un intento apologetico, di difesa del Cristo contro i seguaci di Giovanni il Battista. Effettivamente sono presenti dei testi che sottolineano la superiorità di Gesù nei confronti del Battista (cf. 1,8-9.20.30; 3,28.30; 10,41), ma, nonostante tutto, Giovanni ha un posto d’onore nel racconto e lo scopo apologetico non può essere quello principale.

Alcune particolari sottolineature fanno intuire qualche intento di controversia e di polemica: la tradizione patristica ha accennato ad un fine polemico contro cristiani eretici, mentre gli studiosi moderni notano piuttosto un’insistenza polemica contro i Giudei increduli, quelli cioè che non hanno voluto riconoscere Gesù come il Messia.

Secondo Ireneo, il Vangelo di Giovanni fu scritto contro Cerinto, un eretico dell’Asia Minore con inclinazioni gnostiche (Adv.Haer. III,11,1); eppure nel Vangelo c’è poco per confutare queste idee, mentre è possibile che tale polemica sia presente nella prima lettera di Giovanni. Girolamo aggiunge che Giovanni ha scritto anche contro Ebione e gli altri che negano la carne di Cristo: ma Ebione non è personaggio storico, bensì emblema degli “ebioniti”, cristiani rimasti ebrei, improbabili destinatari del Quarto Vangelo. Alcuni autori moderni, infine, intravedono nelle intenzioni di Giovanni una polemica contro il “docetismo”, cioè la tendenza a negare la realtà dell’incarnazione,

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accettando solo l’apparenza umana del Cristo: testi anti-doceti possono essere considerati l’affermazione della carne assunta dal Logos (1,14), il realismo eucaristico di 6,51-58 e la trafittura del costato (19,34); ma non può essere questo l’intento determinante.

Anche la polemica contro i Giudei increduli è presente nel racconto di Giovanni, grazie ad un clima di forte contrapposizione fra «chi crede» e «chi non crede»; in questi casi la questione riguarda sempre il Messia Gesù. Mentre il termine «Israele» è positivo (cf. 1,31.47), Giovanni usa per ben 70 volte la formula «i Giudei» con valore negativo, intendendo soprattutto le autorità religiose ostili a Gesù. È probabile che la situazione storica posteriore all’anno 70 e il forte contrasto tra Chiesa e Sinagoga abbiano influenzato questa impostazione dualista di contrapposizione, dove la discriminante è costituita dal riconoscimento di Gesù come Messia.

Infine alcuni passaggi lasciano presupporre una volontà di annuncio e di incoraggiamento: si è ipotizzato un voluto appello ai giudeo-cristiani della diaspora perché scelgano decisamente il Cristo, staccandosi dalla sinagoga (cf. 12,42-43; 19,38); e si visto anche nel Quarto Vangelo una intenzionale apertura missionaria rivolta ai pagani, dati i numerosi richiami all’universalismo (1,9.29; 3,17; 12,32) e i riferimenti specifici ai pagani da salvare e raccogliere nell’unico ovile (cf. 4,35.42; 7,35; 10,16; 11,52; 12,20-21).

Anche in questi casi bisogna riconoscere che i toni polemici ci sono, così come le aperture missionarie, ma non costituiscono il motivo principale del Quarto Vangelo, che è diretto al credente, senza distinzione di origine, col fine di aiutarlo a rimanere nella fede per avere la vita.

2. LA NARRAZIONE SECONDO GIOVANNI

L’opera di Giovanni appartiene al genere letterario definito «evangelo»: si tratta di una novità per il mondo letterario antico, eppure rientra nella categoria dei racconti in prosa relativi ad un grande personaggio e consiste in una narrazione omogenea incentrata sulla figura di Gesù. Come gli altri vangeli, anche quello di Giovanni è il frutto maturo della testimonianza resa a Gesù di Nazaret dai suoi discepoli, testimoni oculari delle sue vicende storiche, ambientate in un preciso ambito geografico e in un determinato lasso di tempo storico. Quindi, si presenta come un autorevole deposito scritto della predicazione apostolica, garantito dal discepolo-testimone che racconta secondo una propria interpretazione:

Chi ha visto ne da testimonianza e la sua testimonianza è vera ed egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate (19,35).

Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera (21,24).

L’utilità di una struttura letteraria

Il racconto di questo testimone, però, risulta molto diverso da quello presentato dagli altri tre evangelisti: la trama della sua narrazione si discosta parecchio da quella dei sinottici, anche se vi si accorda in pieno per gli elementi essenziali. Come i sinottici, infatti, Giovanni racconta alcuni episodi del ministero pubblico di Gesù a partire dalla predicazione del Battista fino alla drammatica morte in croce avvenuta a Gerusalemme, seguita dalla sconcertante esperienza dell’incontro con il risorto.

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Delineare la struttura letteraria di un racconto è un’esigenza importante per aiutarne la lettura, proprio come studiare la piantina di una città facilita la visita ad un turista: lo schema grafico che riproduce su un foglio di carta le vie e le case di un complesso urbanistico, mettendo in evidenza i principali monumenti e consigliando i percorsi più interessanti, permette al visitatore di percorrere nella realtà quelle vie e di osservare quelle case, gli consente di rendersi conto di dove si trova e lo aiuta a riconoscere ciò che ammira, potendo inserire il particolare nell’insieme. Così avviene anche per un racconto: il lettore che procede semplicemente alla lettura di un testo, soprattutto se si tratta di un testo complesso, rischia seriamente di “perdersi”, cioè di non orientarsi nel groviglio di persone e di fatti, con la conseguenza probabile di non cogliere il significato del racconto e di non capirne il messaggio.

È un grande vantaggio per il lettore se può disporre di una “piantina letteraria”, elaborata da qualcuno che ha visitato il testo prima di lui e lo ha studiato nei minimi dettagli: l’elaborazione di una struttura, dunque, aiuta non poco a gustare un racconto e ad apprezzarne i passaggi e le intenzioni.

Ma qui si pone un problema serio: presentare la struttura letteraria di un testo non è così facile come disegnare la piantina di una città! Nel caso del vangelo di Giovanni sembra un’impresa quasi impossibile, tanto è vero che negli ultimi secoli sono state proposte decine e decine di strutture differenti, che propongono piani di ogni genere: una tale varietà lascia sconcertati. D’altra parte fa capire che, nonostante l’apparenza di un testo facile e lineare, il racconto di Giovanni è invece molto complesso ed estremamente ricco.

La ricerca di una struttura

Grandi studiosi hanno tentato di analizzare le varie proposte, evidenziando come non sia sufficiente una semplice rassegna delle opinioni, ma si imponga una scelta di metodo e un chiarimento sui criteri stessi che permettono di riconoscere una struttura. Sembra, quindi, chiaro che bisogna evitare ogni forma di soggettivismo acritico, imponendo al testo le idee del lettore e forzandolo in schemi preconcetti. Opportuna è invece una grande fedeltà al testo, cercando di riconoscere quelle particolarità letterarie che offrono gli indizi per fondare una struttura. Così, partendo da ciò che è più evidente, si possono riconoscere alcune parti nel Vangelo di Giovanni che costituiscono l’intelaiatura generale.

Il testo in prosa è preceduto da un brano poetico simile ad un inno sapienziale (1,1-18), comunemente chiamato “prologo”, proprio perché se ne riconosce la funzione introduttiva: come una solenne ouverture sinfonica anticipa e sintetizza il messaggio dell’intera narrazione.

Verso la fine del racconto si incontrano due brevi brani che hanno il tenore della conclusione: una prima conclude l’episodio di Tommaso, spiegando il fine per cui è stata scritta l’opera (20,30-31) ed una seconda conclusione pone termine definitivamente al racconto, difendendo l’autorità del discepolo che ha trasmesso l’insegnamento evangelico (21,24-25). Proprio per il fatto di essere successivo ad una conclusione l’intero episodio narrato nel c. 21 ha l’aria di essere un epilogo: il suo contenuto conferma tale impressione.

Quindi si può affermare che il quarto vangelo è incorniciato da un prologo innico e da un epilogo narrativo: mentre il prologo si orienta al passato, collegando la figura storica di Gesù con il Logos divino che è all’origine del mondo e della storia, l’epilogo mira piuttosto al futuro della Chiesa, mostrando il valore permanente dell’opera del Cristo e orientando alla prospettiva della sua ultima venuta.

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Inoltre, l’intero racconto giovanneo si presenta distinto nettamente in due parti: la cesura si riconosce fra il c. 12 e il c. 13 in base ad alcuni indizi letterari. Il contesto narrativo riguarda l’ultima Pasqua di Gesù, ma i versetti finali del c. 12 hanno il sapore della conclusione: in 12,36b-43 interviene direttamente il narratore a spiegare con l’aiuto delle Scritture perché molti non credevano in Gesù, sebbene avesse compiuto tanti segni; poi in 12,44-50 compare un ultimo appello di Gesù stesso, che ribadisce la sua qualità di rivelatore, chiedendo la fede per uscire dalle tenebre. Queste parole chiudono, con un drammatico bilancio, il racconto del ministero pubblico, mentre i versetti 13,1-3 costituiscono un prologo narrativo, che attira con enfasi l’attenzione sul momento culminante della storia (l’ora) e sulla piena consapevolezza di Gesù nel momento in cui affronta la sua fine (andare al Padre):

Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (13,1).

Si distinguono così due blocchi: cc. 1–12 e cc. 13–21. Il cambiamento di tema e di tono fra queste due parti è chiaro ed evidente. Per designarli con un titolo gli autori si sono ispirati al loro peculiare contenuto: la prima unità, incentrata sulle opere compiute da Gesù durante la sua manifestazione pubblica, viene chiamata in genere “libro dei segni”; la seconda unità, invece, assume titoli leggermente diversi nei vari studiosi, a seconda dell’idea che si predilige, e viene chiamata “libro dell’ora, o della gloria, o del compimento dell’opera e del ritorno al Padre”.

Altri significativi indizi

A questo semplice schema narrativo bisogna aggiungere altri elementi letterari che caratterizzano il racconto di Giovanni e si presentano come indizi simbolici per una più complessa struttura dell’insieme. Qui il discorso si fa più complicato e ci incontriamo con la grande varietà di proposte dei ricercatori; per esigenza di semplicità ci limitiamo a considerare solo gli indizi maggiori e più significativi.

Anzitutto i segni. Giovanni, rispetto ai sinottici, racconta pochi prodigi compiuti da Gesù e li chiama “segni” (in greco: semeia), cioè eventi significativi: precisa che quello di Cana è «il principio (arché) dei segni» (2,11), poi riporta una indicazione anche per il secondo segno (4,54); quindi, senza più numerarli, ne racconta altri cinque, per un totale di sette. Questo è il loro elenco:

1) il segno del vino a Cana, archetipo dei segni (2,1-11); 2) il segno del figlio a Cana, secondo segno (4,46-54); 3) il segno del paralitico alla piscina di Bethesda (5,1-9); 4) il segno del pane nel deserto (6,1-15); 5) il segno del cammino sul mare di Galilea (6,16-21); 6) il segno del cieco nato alla piscina di Siloe (9,1-41); 7) il segno di Lazzaro a Betania (11,1-44).

Ad essi bisogna aggiungere il racconto del c. 21 che narra l’ottavo segno, compiuto dal Cristo risorto sul lago di Tiberiade, emblema significativo della sua opera con la Chiesa lungo tutta la storia fino alla sua venuta gloriosa.

Inoltre Giovanni nomina alcune feste della tradizione giudaica e molto materiale narrativo si raccoglie nel contesto di quelle celebrazioni, significative soprattutto perché richiamano gli eventi dell’esodo e offrono un collegamento fra ciò che avvenne per l’antico Israele e ciò che compie ora il Cristo. Queste sono le feste nominate:

1) «Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei» (2,13); 2) «Vi fu poi una festa dei Giudei… Quel giorno era un sabato» (5,1.9);

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3) «Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (6,4); 4) «Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, detta delle Capanne» (7,2); 5) «Ricorreva in quei giorni a Gerusalemme la festa della Dedicazione» (10,22); 6) «Era vicina la Pasqua dei Giudei» (11,55); «Sei giorni prima della Pasqua» (12,1);

«Prima della festa di Pasqua» (13,1).

A queste feste, che in genere duravano una settimana, sono da aggiungere altri due periodi settimanali, prima e dopo: una settimana precede l’inizio del ministero pubblico e segna il passaggio da Giovanni a Gesù, mentre otto giorni distanziano le apparizioni pasquali del risorto ai discepoli nel cenacolo.

Infine, sembrano avere un ruolo strutturante le indicazioni dei viaggi di Gesù, che – nel racconto giovanneo – si muove continuamente dalla Galilea a Gerusalemme e viceversa. Tre sono le menzioni di spostamenti di Gesù verso la Galilea e quattro di viaggi verso Gerusalemme; queste sono le indicazioni principali:

1) «Gesù aveva stabilito di partire per la Galilea» (1,43); 2) «Gesù salì a Gerusalemme» (2,13); 3) «Il Signore…lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea» (4,1-3); 4) «Gesù salì a Gerusalemme» (5,1); 5) «Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea» (6,1); 6) «A metà della festa, Gesù salì al tempio e vi insegnava» (7,14); 7) «Andiamo di nuovo in Giudea!» (11,7).

Se a questi elementi principali se ne aggiungono molti altri secondari e soprattutto si considerano le tematiche teologiche dei discorsi, le allusioni scritturistiche e le riprese simboliche, si comprende quale massa di indizi bisogna considerare per elaborare una completa struttura del quarto vangelo. Data questa complessità, per un buon risultato non conviene assolutizzare solo un tipo di indizi, ma è opportuno considerare ogni criterio organizzatore, privilegiando quelli letterari, senza trascurare quelli teologici.

Giovanni stesso offre una sintesi

Nella prima conclusione (20,30-31) l’evangelista presenta l’obiettivo che ha guidato la sua redazione letteraria: presentare la rivelazione di Gesù come il Cristo e il Figlio di Dio, allo scopo di suscitare la fede in lui per avere la vita nel suo nome. Ma tale rivelazione è delineata come un dramma storico, cioè una tensione fra proposta e risposta: la trama del quarto vangelo, infatti, si riassume intorno all’opera di Gesù in quanto rivelatore del Padre e alla reazione degli uomini, distinti fra coloro che accolgono e coloro che rifiutano tale rivelazione.

All’interno del racconto possiamo riconoscere alcuni passi in cui il narratore stesso offre delle formulazioni sintetiche, capaci di dare un senso unitario a tutto il materiale letterario proposto. All’inizio della seconda parte Giovanni riassume la vicenda e presenta la piena consapevolezza di Gesù riguardo alla sua missione:

Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine… sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava… (13,1.3).

Così nei discorsi della cena viene posto sulle labbra stesse del Cristo l’insegnamento cardine sull’intera sua vicenda:

“Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre” (16,28).

La missione del Cristo è precisata dal prologo come “rivelazione di Dio Padre” (cf 1,18): così possiamo riconoscere nella prima parte del Vangelo (cc. 1–12) il

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movimento di Gesù dal Padre al mondo con una progressiva opera di rivelazione mediante segni e discorsi; nella seconda parte (cc. 13–20), poi, troviamo il ritorno di Gesù al Padre con l’evento della “esaltazione” del Figlio che realizza così la comunione fra l’umanità e Dio.

Ma alla proposta di Dio si contrappone la risposta dell’uomo: qui sta il dramma narrato dal vangelo di Giovanni. Due sono, infatti, le risposte che storicamente si sono avute e l’evangelista le mette in scena attraverso vari personaggi e le loro reazioni: accoglienza e fede oppure chiusura e rifiuto. Fin dall’inizio è chiaro questo doppio risultato (cf 1,5.10-13); ma nel dialogo con Nicodemo si può riconoscere una formulazione sintetica dell’intero dramma umano:

“Il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce…: chiunque fa il male, odia la luce e non viene alla luce…; ma chi opera la verità viene alla luce” (3,19-21).

Questo dramma dell’uomo accompagna tutto il racconto evangelico, dall’inizio alla fine, e l’obiettivo dell’evangelista è proprio quello di indurre i lettori a scegliere la luce e a credere nella rivelazione di Gesù Cristo. Tenendo, dunque, in considerazione gli indizi rilevati e questa idea di fondo, si può delineare la struttura del quarto vangelo.

Una proposta di struttura

Al racconto è premesso un prologo innico (1,1-18), per chiarire da subito la grande tematica teologica dell’intero vangelo.

A questo poema lirico si connette espressamente il racconto (in 1,19), proponendo una specie di prologo narrativo che, in una serie di quattro giorni consecutivi, descrive il passaggio dal Battista a Gesù con la scelta dei primi discepoli (1,19-51). Questa serie di giorni culmina con «il terzo giorno» (2,1) che completa la settimana iniziale: il vertice è dato dal primo segno, il quale chiude l’introduzione ma, insieme, apre una nuova sezione narrativa. Ciò che determina tale unità è l’inclusione geografica fra i primi due segni avvenuti entrambi a Cana: da Cana (2,1) a Cana (4,46), dunque, riconosciamo una prima sezione del libro dei segni (2,1–4,54).

Il primo segno di Cana, avendo come oggetto la trasformazione dell’acqua lustrale giudaica in ottimo vino, simbolo dell’alleanza e anticipo dell’Eucaristia, caratterizza tutta la sezione che segue come l’opera di Gesù per sostituire le istituzioni giudaiche con la novità della propria persona. In sintesi possiamo notare questa successione: − 2,1-12: nel primo segno di Cana dietro la simbologia delle nozze e del vino si

nasconde il tema dell’alleanza che viene sostituita; − 2,13-25: nella cacciata dei mercanti Gesù afferma di essere egli stesso il vero tempio

che sostituisce l’antico; − 3,1-21: nel dialogo con Nicodemo Gesù parla di una nuova nascita nello Spirito, per

cui la grazia sostituisce la legge; − 3,22-36: la testimonianza del Battista presenta la sostituzione dei mediatori

dell’alleanza, giacché all’amico dello sposo subentra lo Sposo stesso; − 4,1-45: l’incontro con la donna di Samaria permette di sviluppare il tema del culto in

spirito e verità, cioè nello Spirito donato da Gesù-Verità, che sostituisce l’antico, legato al monte o al tempio.

Il secondo segno di Cana (4,46-54) non riguarda una istituzione di Israele, ma una persona, per di più straniera: così questo racconto, mentre conclude la prima parte, introduce la seconda sezione del libro dei segni (5,1–12,50), incentrata sull’opera del Cristo che dona la vita all’uomo. Al ciclo delle istituzione fa seguito il ciclo dell’uomo, che mostra simbolicamente il giorno del Messia in cui avviene la creazione dell’uomo

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nuovo. Secondo il ritmo delle feste giudaiche, alternando racconti e discorsi, l’evangelista richiama importanti tematiche dell’esodo e mostra l’opera di Gesù a favore della persona umana. Si possono così riassumere i principali testi di questa sezione:

− 5,1-47: il segno che Gesù compie sul paralitico mostra che egli può rendere l’uomo capace di camminare e dà così inizio all’esodo, mentre il discorso rivela l’unione di Gesù col Padre, garantita da molte testimonianze;

− 6,1-71: i segni del pane e del cammino sul mare richiamano ancora l’esodo pasquale e il grande discorso eucaristico propone Gesù come datore di vita da accogliere con fede e da assimilare;

− 7,1–10,21: la festa delle Capanne dà unità alla lunga sezione, in cui è narrato il segno del cieco nato, incorniciato da lunghi discorsi che presentano il senso dell’agire di Gesù, i suoi rapporti col Padre e la sua missione di luce per i ciechi e di pastore per le pecore;

− 10,22–11,54: nel contesto della Dedicazione, Gesù compie il settimo segno, quello più simile al vertice della sua opera, giacché egli dona la vita all’amico morto e proprio tale dono gli costa vita;

− 11,55–12,50: l’arrivo dell’ultima Pasqua dà l’avvio all’ultima sezione narrativa, caratterizzata da brevi episodi ed insegnamenti sulla dignità messianica di Gesù; le due conclusioni teologiche segnano la fine del libro dei segni.

La seconda parte del vangelo di Giovanni trova il proprio centro di interesse nel tema dell’ora del Messia, cioè il momento decisivo in cui l’opera della salvezza si compie in pienezza; perciò viene indicato come il libro dell’ora (13,1–20,31). La sua struttura è molto più semplice ed evidente rispetto alla prima parte; vi si possono distinguere, oltre al breve prologo narrativo (13,1-3) tre sezioni, ben omogenee fra di loro: − i discorsi di addio (13,4–17,26), durante la cena, sono preceduti dal racconto della

lavanda dei piedi che rivela il senso dell’opera di Gesù (13,4-12) e seguiti dalla preghiera sacerdotale che rivela il mistero della comunione (17,1-26); inoltre la nota di 14,31 divide in due parti le parole del Maestro;

− il racconto della passione (18,1–19,42) assume in Giovanni il carattere di gloria ed esaltazione: i cinque quadri di cui si compone sono racchiusi dall’inclusione del giardino, che segna l’inizio (18,1) e la fine (19,41) del racconto;

− infine i racconti pasquali (20,1-31) narrano l’incontro con il Cristo risorto che dona lo Spirito e si fa riconoscere come Signore e Dio; la conclusione del narratore sigla la fine della sezione.

Alla fine di tutto, l’epilogo (21,1-25) riassume l’intero racconto, riprendendo i principali simboli e aprendo la prospettiva sul futuro della Chiesa e della sua missione a favore dell’umanità, in stretta continuità con l’opera già realizzata dal Cristo.

3. LA TEOLOGIA SIMBOLICA DI GIOVANNI

Giovanni ha raccolto la tradizione apostolica su Gesù Cristo in uno splendido racconto, armonico e ben organizzato. Ma al di là della trama narrativa si riconosce un grandioso pensiero teologico: l’evangelista, infatti, ha espresso nella sua opera un condensato di dottrina, per comunicare proprio attraverso la narrazione l’insegnamento decisivo del Messia Gesù.

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Una storia della salvezza

Il principio di base nel pensiero giovanneo è riconoscibile in una visione delle vicende umane, intese come storia della salvezza: tale complessa storia è fatta di eventi significativi, che devono essere compresi, accolti e comunicati. L’evangelista sa di essere inserito nella vicenda del popolo di Israele ed è erede della ricca tradizione biblica: la sua esperienza di Gesù di Nazaret ha completato quella visione e ha determinato una impostazione nuova. Giovanni è consapevole che il semplice fatto non è automaticamente chiaro: ha bisogno di essere compreso, con l’aiuto stesso di Dio e con l’impegno fedele del discepolo. La comprensione dell’evento diventa, quindi, una interpretazione che va al di là del fatto stesso ed esprime il messaggio che ha valore duraturo per tutti i credenti di ogni epoca.

L’opera di Gesù, cioè l’evento del Vangelo, fa parte della storia della salvezza ed è pertanto in stretto rapporto con l’alleanza che Dio aveva stretto con Israele: Giovanni è convinto che non si possa comprendere l’opera di Gesù senza metterla in rapporto con le Scritture di Israele. In tale prospettiva, si può addirittura affermare che il quarto Vangelo è una specie di rilettura dell’Antico Testamento. Ma non si tratta semplicemente di una spiegazione degli antichi testi, perché l’evangelista cristiano mira piuttosto ad annunciare il compimento e la realizzazione delle figure e delle promesse. E dal momento che è sempre l’unico Dio che opera, i criteri fondamentali della storia sono gli stessi: per questo si ritrovano nel racconto evangelico gli stessi elementi decisivi che costituivano la struttura portante delle Scritture bibliche.

Gli schemi generali che caratterizzano il pensiero giovanneo possono essere sinteticamente ricondotti a quattro principali, che sono i più importanti senza essere gli unici: la rivelazione, la creazione, l’esodo e l’alleanza, lo schema del processo. Tutti elementi decisivi nell’Antico Testamento: ne deriva che, per comprendere bene il Vangelo di Giovanni è necessario conoscere (e conoscere bene) le Scritture di Israele per ritornare continuamente ai modelli narrativi e teologici che costituiscono il punto di partenza dell’evangelista.

Infatti, quasi ogni elemento del quarto Vangelo richiama qualche elemento dell’Antico Testamento e si tratta in genere di richiami voluti, proprio perché il confronto con le Scritture è giudicato da Giovanni come il mezzo necessario per comprendere a fondo il senso dell’evento evangelico. Grazie al riferimento costante all’Antico Testamento, mediato spesso dalle tradizioni popolari molto diffuse nel giudaismo e conservate nelle traduzioni in aramaico dette targum, è possibile per noi comprendere in pieno il senso della narrazione teologica giovannea.

La comprensione dell’evento

Giovanni fa notare ripetutamente che la comprensione degli eventi della vita di Gesù non è stata automatica. La comprensione è cresciuta nel tempo. Durante la vita di Gesù, gli apostoli non hanno capito a fondo il senso della sua persona e della sua vicenda: la comprensione piena della storia avviene dopo la sua Pasqua di morte e risurrezione, grazie al dono dello Spirito Santo. Lo stesso vale anche per i Sinottici, ma è Giovanni che parla esplicitamente di questo processo in due passi importanti.

La prima occasione si presenta a proposito del detto pronunciato da Gesù sul tempio: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,19). Entrando direttamente nel racconto, l’evangelista aggiunge una nota esplicativa: «Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (2,21). È importante questa intrusione dell’autore: il suo intervento mira alla comprensione piena di quel detto enigmatico e coglie l’occasione per spiegare ai lettori come gli apostoli stessi abbiano impiegato tempo e fatica per

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arrivare a capire in modo maturo quello che Gesù voleva dire e che rapporto avesse quella parola con la sua storia. Infatti aggiunge:

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù (2,22).

Lì per lì – dice Giovanni – gli apostoli non capirono. Solo dopo la risurrezione di Gesù ricordarono la parola e riuscirono a capire il collegamento con la vicenda pasquale di Gesù; in tal modo credettero, cioè accolsero la rivelazione di Gesù Cristo, inserendola nel grandioso progetto divino, e si fidarono totalmente di lui.

Al c. 12 troviamo l’altro passo esplicito in cui Giovanni spiega il lento processo di comprensione. Raccontando l’ingresso di Gesù in Gerusalemme a dorso di un asino, l’evangelista cita un testo veterotestamentario che aiuta a capire il fatto storico: «Esulta grandemente figlia di Sion: ecco, a te viene il tuo re; egli cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (Zc 9,9). Ma subito dopo commenta:

Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto (12,16).

L’intento di Giovanni è chiarissimo. Egli sta dicendo: la citazione del profeta Zaccaria non è stata affatto percepita il giorno in cui Gesù entrò in Gerusalemme; ma dopo la sua risurrezione, ripensando a tutto quello che era successo, venne in mente anche quel passo biblico. Gli apostoli, infatti, si impegnarono a rileggere la Bibbia per capire meglio Gesù e, allo stesso tempo, avendo conosciuto i fatto storici dell’esistenza di Gesù, riuscivano a capire meglio gli antichi passi biblici. Così in questo complesso e fatico processo interpretativo – dalla Bibbia a Gesù e da Gesù alla Bibbia – la comunità cristiana apostolica ha illuminato a vicenda testi e fatti. Ha anche trovato il passo di Zaccaria e ha capito: «Ecco, è proprio quello che hanno fatto a Gesù, quindi la Scrittura già parlava di lui, quindi lui ha realizzato le Scritture». Al termine di questo lavoro, durante la stesura del suo Vangelo, quando racconta il fatto successo tanti anni prima, l’evangelista è in grado di inserire la citazione illuminante.

L’opera dello Spirito di Gesù

Tale ricordo e interpretazione Giovanni ritiene che sia opera dello Spirito Santo. Nel suo Vangelo, infatti, viene attribuita allo Spirito Santo tutta la serie di attività che sono proprie della comunità apostolica: ricordare, insegnare, testimoniare, annunciare, convincere, glorificare. Infatti: chi ricorda ciò che Gesù ha fatto? Gli apostoli. Chi insegna il suo messaggio? Gli apostoli. Chi è testimone dei suoi fatti? Gli apostoli. Chi deve convincere il mondo di peccato? Gli apostoli. Chi guida, parla, annuncia, dà gloria? La comunità apostolica. Tutti questi vocaboli ricorrono negli Atti degli apostoli e hanno come soggetto gli uomini della comunità.

In Giovanni, invece, sono tutti termini che indicano l’azione dello Spirito. Lo Spirito insegna e ricorda ciò che Gesù ha fatto (14,25-26); lo Spirito rende testimonianza su Gesù (15,26-27); lo Spirito convince del peccato (16,7-11); lo Spirito guida la comunità, parla di Gesù, annuncia le cose future, dà gloria al Padre e al Figlio (16,13-15). Ciò significa che Giovanni ha meditato con grande attenzione sul ruolo che lo Spirito Santo ha avuto nella comunità apostolica e nei primi passi della vita della Chiesa. Egli è convinto che la sua opera sia in realtà opera dello Spirito: Giovanni cioè aveva la consapevolezza, che le cose da lui scritte negli anni 90 non le avrebbe scritte nell’anno 30. In quei lunghi anni, infatti, sa che lo Spirito ha guidato lui e gli altri apostoli alla comprensione, alla verità tutta intera. Risulta allora di fondamentale importanza questa esplicita dichiarazione di Gesù:

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Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà (16,12-15).

L’evangelista Giovanni, quindi, ha messo in bocca a Gesù nel suo racconto teologico anche quelle cose che Gesù, durante la sua vita terrena, non ha potuto insegnare; esse sono state insegnate dallo Spirito nell’arco di settant’anni, dal 30 alla fine del secolo. Eppure, essendo lo Spirito di Gesù che le ha rivelate, esse sono proprio le parole di Gesù. Il narratore credente, quindi, fa una mirabile sintesi della rivelazione iniziata storicamente da Gesù e compresa pienamente grazie allo Spirito di Gesù.

Questa è la via maestra: il Vangelo di Giovanni, infatti, lo si può leggere con frutto soprattutto a livello spirituale. Certamente lo si può leggere anche come testo letterario e studiarne la storia, la struttura e la lingua. Ma il metodo di lettura che mostra tutta la ricchezza del quarto Vangelo è quello che privilegia il senso spirituale: si tratta, cioè, di una lettura di fede, che avviene oggi nello stesso Spirito che l’ha ispirato; è una lettura attualizzante, che coinvolge la vita di ciascuno, ma nello stesso tempo mira a comprendere tutta la profondità del testo.

Con un termine solo questo metodo di lettura si può chiamare «simbolico».

L’interpretazione dei «segni»

Innanzi tutto per comprendere l’evento in pienezza, tramite lo Spirito Santo, bisogna andare oltre il fatto in sé. Tale superamento Giovanni lo esprime con il termine semeîon, cioè segno. Purtroppo spesso in italiano la parola semeîon viene tradotta con «miracolo»: ciò è scorretto. Semeîon vuol dire segno e deve essere inteso come segno.

Che cos’è un segno? Dice Agostino nell’opera De doctrina christiana: «Il segno è una cosa che ne fa venire in mente un’altra». Facciamo alcuni esempi classici: un segno è l’orma, ossia l’impronta lasciata sulla sabbia da un piede. Chi trova delle orme sulla sabbia, può guardarsi intorno e non scorgere nessuno; può osservare se le orme sono recenti o no; ad ogni modo al solo vederle può comprendere se sono di un uomo o di un cane. Non vede né l’uno né l’altro, ma dalla loro forma comprende di chi sono, se dell’uomo e del cane. Dall’orma si arriva ad intuire la presenza di qualcuno. L’orma, cioè, rinvia oltre se stessa. Un altro segno naturale è quello del fumo: dove si scorge del fumo, s’immagina che ci sia il fuoco o per lo meno qualcosa che sta bruciando.

Fin qui siamo a livello di segno naturale. Ma la distinzione fondamentale dei segni è fra naturali e convenzionali. Un aborigeno dell’Australia e un dotto professore tedesco, che osservano delle impronte sulla sabbia, hanno la stessa identica reazione: capiscono il segno allo stesso modo, perché è un segno naturale. I segni convenzionali, invece, sono legati alle culture dei popoli, non tanto all’istruzione personale, quanto alle abitudini dell’ambiente di vita.

Le parole, ad esempio, sono segni convenzionali. La parola scritta «cane» e il suono corrispondente sono convenzionali e non assomigliano per nulla a quell’animale che in altre lingue è chiamato «dog» o «Hund»: quell’animale è un qualcosa in sé, ma poi esistono segni convenzionali, diversi per ogni cultura, per indicare quel qualche cosa. È una convenzione culturale e i segni che sono le parole vengono capiti solo da coloro che accettano la convenzione della medesima lingua.

Si hanno poi altri segni “culturali” che, partendo da particolari significati, possono diventare convenzionali. Gli antichi Vichinghi adornavano l’elmo di corna di toro, non

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certo secondo la nostra interpretazione attuale di tradimento coniugale, ma perché le ritenevano segno di forza, in quanto generalmente gli animali che hanno le corna sono forti e robusti. Così il re di Creta si adornava di tutto il manto taurino con relativa testa come copricapo. Quindi, secondo il contesto e la cultura di ciascun popolo, «le corna» possono assumere un significato convenzionale molto diverso da cultura a cultura.

Nel suo Vangelo, dunque, Giovanni adopera il linguaggio dei segni, che non sono per lo più di tipo naturale, bensì convenzionale; per comprenderli, quindi, bisogna entrare nella convenzione del narratore. Come si è detto, la convenzione è un fatto culturale e la cultura dell’evangelista è l’ambiente biblico giudaico. Pertanto è necessario entrare nel modo di pensare giudaico per intendere pienamente quello che il quarto Vangelo vuol dire con i suoi «segni».

Facciamo un esempio. Il racconto dell’incontro di Gesù con la donna di Samaria è intessuto di segni: anzitutto perché è basato sul modello narrativo di altri famosi brani biblici in cui un uomo in terra straniera si ferma presso un pozzo e lì incontra una donna: in genere quell’incontro sfocia in un matrimonio, perché in quel contesto culturale antico e orientale gli incontri d’amore sono volentieri ambientati presso un pozzo. Così il pozzo della Samaritana non è più semplicemente «un pozzo»: è un segno, che deve essere interpretato. Che cosa può far venire in mente un pozzo? Molte cose, ma non è questo il punto: con i molteplici significati che vengono in mente a me si possono dire cose completamente diverse da quelle che intendeva Giovanni. Dato che non è un segno naturale, facilmente comprensibile da tutti, il pozzo dev’essere inteso in quella specifica cultura in cui è nato il Vangelo. Come le corna nell’Apocalisse vogliono significare tutt’altra cosa rispetto a quello che per noi dice questo segno, così anche per il pozzo. Qui sta la difficoltà di Giovanni: per capirlo, infatti, dobbiamo uscire dalle nostre convenzioni culturali. Spesso, infatti, a noi sembra strano che egli pensasse in tal modo, così diverso dal nostro. Ma questo è solo un piccolo tassello, perché il segno è costituito da tutti i particolari che costituiscono l’intero racconto: quindi, è importante valutare e capire il riferimento al luogo di Sichem, il ricordo di Giacobbe, la stanchezza di Gesù e l’ambiente di Samaria, l’indicazione dell’ora sesta e il riferimento all’acqua, la richiesta e l’offerta, l’accenno ai mariti e la questione del luogo di culto, l’anfora abbandonata e le messi che maturano mentre i samaritani si avvicinano…

“Symbolon”

Il semeîon, essendo una cosa che ne fa venire in mente un’altra, esprime una dualità: esistono, cioè, due elementi che il segno mette in collegamento; o meglio, il segno è ciò che permette di passare da un elemento ad un altro elemento. Il fumo fa arrivare al fuoco, l’orma fa arrivare a chi l’ha lasciata. Nella cultura teologica di Giovanni è presente un continuo riferimento alla dualità dei piani: il basso e l’alto, il mondo dell’uomo e il mondo di Dio, quello che vedi e quello che è realmente. I «sette segni», che compie Gesù, sono la sintesi narrativa di tutta la sua vita, che è un unico grande semeîon. Idea fondamentale, quindi, è una visione del mondo a doppio livello. Arriviamo così ad esprimere un altro concetto molto importante nel procedimento giovanneo: il “simbolo”.

Il termine symbolon è un vocabolo arcaico greco, che indica un oggetto paragonabile ad una moderna tessera di riconoscimento. Si trattava di un coccio, un vaso, un sigillo o qualsiasi altra cosa spezzata in due parti: ciascuna metà è un symbolon e servono entrambi i pezzi per ricostituire l’intero, cioè la totalità, la completezza. Il termine, infatti, deriva dal verbo greco syn-ballo, che vuol dire «mettere insieme»: il simbolo, dunque, è una delle due parti che deve essere messa insieme, dal momento che una metà ha bisogno dell’altra metà per ricreare l’unità. Interessante è notare che il contrario di

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symbolon, sempre in linguaggio arcaico greco, è diabolon: derivando dal verbo corrispondente dia-ballo (= separare, dividere), indica la tessera falsificata, cioè quella metà che non combacia: diabolico, quindi, è il trucco, l’imbroglio, il falso che non crea unità, la separazione che impedisce il completamento.

La mentalità simbolica di Giovanni, invece, tende al completamento e al compimento: intende tutti i particolari come significativi, in quanto esprimono oltre a sé un rimando al progetto globale divino. Così, tentando di sintetizzare la teologia simbolica del quarto evangelista, possiamo esprimere questa formula: i fatti esterni delle vita terrena dell’uomo Gesù sono i segni ovvero i simboli della vita di Dio, del mistero trinitario di Dio. Si intende dire che l’esperienza storica di Gesù nella sua totalità è un «simbolo»; e anche Gesù è un «simbolo», anzi è «il» simbolo. Ossia, Gesù è colui che permette di fare l’unità, cioè di abbracciare totalmente la realtà, di arrivare dal mondo dell’uomo al mondo di Dio, di raggiungere l’Essere nella sua pienezza. Quindi si capisce che le vicende di Gesù, in quanto rivelatore di Dio, devono essere simboliche, altrimenti non rivelerebbero nulla, sarebbero solo semplici dati storici con lo stesso valore di ogni altro fatto. Tutti i particolari descritti da Giovanni nel suo Vangelo, invece, sono riportati perché “significativi”, perché hanno un significato, cioè sono segni e comunicano qualcosa di più e di importante. Ed è per cogliere tutta la sua ricchezza che questo Vangelo deve essere letto in chiave simbolica.

Un’altra distinzione molto importante, a livello di simboli, oltre a quella fra naturale e convenzionale, è la distinzione fra “simbolo storico” e “simbolo immaginario”. Possiamo chiamare simbolo storico una realtà concreta, che viene interpretata come rivelazione di una realtà non visibile; mentre per simbolo immaginario si intende una creazione di fantasia per comunicare un’idea attraverso immagini. Nell’Apocalisse predominano i simboli immaginari, mentre nel quarto Vangelo incontriamo quasi esclusivamente simboli storici. In altre parole, simbolo storico è una realtà concreta, terrena, visibile, sperimentabile, che viene compresa come la manifestazione di un’altra realtà trascendente e invisibile. Perciò quando si dice, ad esempio, che la guarigione del cieco nato è un simbolo, non si intende dire che non è successo; la realtà storica, invece, è data per scontata: proprio perché è un simbolo storico, il fatto è veramente accaduto. Purtroppo, però, quando si parla di simbolo, la prima idea che viene è quella di negazione della storicità: molti, cioè, sentendo parlare di simboli, pensano si parli di una favola frutto della fantasia o di una allegoria. Il simbolo come è inteso da Giovanni, invece, è tutt’altra cosa: il fatto storico del cieco nato è stato raccontato dall’evangelista, perché con quel gesto terreno egli voleva comunicare un significato profondo e universale.

Per capire Giovanni non basta dire che Gesù ha guarito un cieco nato e tutto termina lì, ma si deve capire che cosa significhi tale intervento, che cosa significhino quei gesti compiuti, come il fango impastato con la saliva e il fatto che il cieco non acquisti la vista subito, ma solo dopo essere andato a lavarsi e non in un posto qualsiasi, ma alla piscina di Siloe. Bastava che dicesse: «Abbi la vista» – come aveva detto all’ufficiale regio: «Tuo figlio vive» (4,50) – e tutto poteva esser fatto. Invece sputa per terra, fa del fango, gli spalma gli occhi, lo manda a lavarsi a Siloe: Gesù stesso sta creando dei simboli e fa così, perché quei gesti sono significativi, le sue azioni sono segni che devono essere interpretati. E Giovanni stesso è arrivato a comprenderli forse dopo anni e anni... Forse ha pensato a lungo: perché proprio a Siloe e non altrove? Grazie alla meditazione assidua e all’illuminazione dello Spirito del Cristo risorto, gli viene in mente che «Siloe» è il participio passivo del verbo «shalah», che vuol dire «mandare». In aramaico, quindi «Siloe» significa «il mandato, colui che è stato inviato»: Gesù ha mandato il cieco a lavarsi alla piscina dell’Inviato. Giovanni, avendo ben compreso che Gesù è l’inviato del Padre e gli apostoli sono gli inviati di Gesù, ne deduce allora che

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quell’evento alla piscina dell’«Inviato» ha a che fare con la vicenda di Gesù stesso e dei suoi discepoli. L’allusione a «Siloe», dunque, rinvia a Gesù in persona, alla missione ricevuta dal Padre di salvare l’umanità e alla missione affidata agli apostoli di continuare la sua opera di perdono! E la riflessione teologica di Giovanni può ancora proseguire: dalla piscina di Siloe, infatti, si può arrivare a pensare alla «piscina di Gesù», che nell’esperienza della comunità cristiana, antica e moderna, è il battistero!

Conviene avere ben chiaro tale processo di comprensione: Giovanni, infatti, non è arrivato a queste considerazioni creando con la fantasia dei racconti, ma meditando i fatti. Non si è inventato figure simboliche, ma ha ripensato la vita di Gesù, approfondendone il senso, pur rimanendo ancorato alla storia. Egli non ha inventato il particolare di Siloe, per costruire un bel discorso, ma ricorda che effettivamente Gesù mandò il cieco nato a Siloe. Al momento non ne capì il senso, ma dopo la risurrezione di Cristo l’evangelista ne ha compreso il significato teologico, perché è riuscito a inserire il particolare nel grande quadro complessivo della storia della salvezza.

Nel suo Vangelo, dunque, Giovanni presenta in modo “simbolico” i fatti della vicenda di Gesù, in quanto ha elaborato da credente una mirabile sintesi fra gli eventi storici e la loro comprensione spirituale nella Chiesa.

4. LO STILE LETTERARIO DI GIOVANNI

Il Vangelo secondo Giovanni è una grandiosa opera teologica, che contiene un messaggio profondo e sublime. Si potrebbe pensare che un tale capolavoro sia scritto in linguaggio difficile e complesso: invece accade proprio il contrario. Giovanni scrive in modo semplice ed elementare, solo apparentemente banale e ripetitivo: il suo linguaggio conosce profonde intensità, proprio grazie ad una sapiente ripetizione di frasi e di motivi, al punto da essere definito “una monotonia grandiosa”.

Per avere un quadro sintetico della dimensione letteraria del quarto vangelo, passiamo in rassegna gli elementi principali che caratterizzano il modo che ha Giovanni di scrivere.

La lingua originaria

Il testo del vangelo secondo Giovanni, secondo tutti i testimoni della tradizione fin dai più antichi manoscritti, è composto in lingua greca. Si tratta della lingua corrente nel bacino del Mediterraneo nel I secolo d.C., detta koiné (cioè: “comune”): è il greco parlato in tutte le regioni dell’impero romano, la lingua che accomunava tutti e permetteva la comunicazione fra popoli diversi, ancor più che l’inglese per i nostri giorni. Il livello della lingua giovannea, però, è quello popolare: non appartiene alla koiné letteraria (a cui si avvicina piuttosto Luca), ma alla lingua comunemente parlata dal popolo.

Inoltre, bisogna riconoscere che alcuni elementi del testo hanno un carattere semitico: si tratta di nomi propri, di persona o di luoghi, di termini specificamente culturali (come rabbi e amen), ma soprattutto di formule e strutture sintattiche, inusuali o rare in greco, ma comuni in ebraico e aramaico. Questo fenomeno — non esclusivo tuttavia di Giovanni, ma presente in quasi tutti gli scritti greci del Nuovo Testamento — ha fatto sorgere dei dubbi sulla lingua originaria del quarto vangelo.

In che lingua ha scritto Giovanni? Due studiosi inglesi, Burney e Torrey, proposero negli anni 1922 e 1923 l’ipotesi che il testo originale di Giovanni fosse in lingua aramaica, mentre l’attuale vangelo in greco sarebbe una traduzione: questa ipotesi, non

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sufficientemente dimostrata, non ebbe grande successo, ma provocò una seria e approfondita ricerca sulla questione. Così oggi, dopo numerosi altri studi, si può affermare con certezza che la lingua originale del vangelo è il greco e non si tratta affatto di una traduzione.

Giovanni ha scritto la sua opera in greco, in un greco semplice ma corretto, in un greco influenzato inevitabilmente da parole ed espressioni semitiche: l’autore, infatti, proviene da quel contesto culturale e riporta la tradizione di Gesù, che visse in ambiente semitico e parlò in lingua semitica. È logico che, parlando di fatti capitati in terra di Israele e tra gli ebrei, Giovanni adoperi i toponimi originali, riporti alcuni vocaboli tipici e impieghi formule comuni in quel contesto: si può così parlare di un greco semitizzante.

Il vocabolario

Giovanni adopera un vocabolario molto ridotto: su 15.420 parole che compongono l’intero quarto vangelo si identificano solo 1.011 vocaboli diversi. Fra i quattro evangelisti Giovanni è quello che usa il minor numero di vocaboli; un confronto coi numeri degli altri può essere interessante: il vangelo di Matteo adopera 1.691 parole diverse sulle 18.278 complessive; Marco ne ha 1.345 su 11.229; Luca impiega ben 2.055 termini differenti (più del doppio di Giovanni) sul totale di 19.404 parole.

Inoltre, il vocabolario tipico di Giovanni è diverso da quello dei Sinottici: infatti, le parole che ricorrono con più frequenza nel quarto vangelo sono poco adoperate dagli altri tre evangelisti. Ad esempio, Giovanni usa volentieri il verbo pistéuo (“credere”) che ricorre ben 98 volte nel suo testo, mentre è presente solo una decina di volte in ciascuno dei Sinottici. Al di là dell’aridità dei numeri, osservando questo specchietto di ricorrenze, si può avere un’idea di tale situazione:

Mt Mc Lc Gv

amare (agapáo e affini) 9 6 13 43 conoscere (ginósko) 20 13 28 57 credere (pistéuo) 11 14 9 98 giudei (Ioudáioi) 5 6 5 67 giudicare (kríno) 6 0 6 19 “io sono” (egò eimí) 5 3 4 24 inviare (pémpo) 4 1 10 32 glorificare (doxázo) 4 1 9 23 luce (phos) 7 1 7 27 manifestare (phaneróo) 0 1 0 9 mondo (kósmos) 8 2 3 78 osservare (teréo) 6 1 0 18 padre (páter riferito a Dio) 45 4 17 118 rimanere (méno) 3 2 7 40 testimonianza (martyría) 4 6 5 47 verità (alethéia e affini) 2 4 4 46 vita (zoé) 7 4 5 35

Un altro discorso, uguale e contrario, bisogna ancora fare: infatti diversi vocaboli molto comuni nei Sinottici sono assenti o rari in Giovanni. Ad esempio il termine “regno”, molto presente nei detti di Gesù secondo i tre evangelisti, compare solo 5 volte in Giovanni senza grande rilievo; mentre sono del tutto assenti vocaboli significativi come “vangelo”, “parabola” e “conversione”. Anche in questo caso uno specchietto riassuntivo può rendere meglio l’idea:

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Mt Mc Lc Gv

chiamare (kaléo) 26 4 43 0 conversione (metánoia e affini) 7 3 14 0 parabola (parabolé) 17 13 18 0 potenza (dynamis) 13 10 15 0 predicare (kerysso) 9 12 9 0 purificare (katharéo) 7 4 7 0 regno (basiléia) 57 20 46 5 vangelo (euangélion e affini) 5 7 10 0

Infine, per avere un quadro completo del caratteristico vocabolario giovanneo, occorre tornare sui “semitismi”, cioè i termini o le espressioni che derivano dall’ebraico o dall’aramaico (lingue semitiche). Giovanni adopera volentieri il termine ebraico rabbí (8 volte) ma anche il corrispondente aramaico rabbuní (1 volta); pure Matteo e Marco usano rabbí, ma solo 4 volte ciascuno e mai impiegano il vocabolo semitico Messias che invece ricorre due volte in Giovanni (1,42; 4,25). Così compaiono nomi propri in aramaico: Kephas (1,42); Siloam (9,7); Thomas (11,16; 21,2); Bethesdá (5,2); Gabbathá (19,13); Golgothá (19,17). E sono presenti pure termini consueti come pascha, manna, hosanná: anche nel nostro linguaggio italiano sono entrati tali vocaboli, ma è necessario ricordare che per un greco del I secolo questi termini erano “stranieri”. Gli stessi destinatari di Giovanni sembra non capissero tutti i vocaboli semitici, dal momento che in alcuni casi l’autore li traduce (cf. 1,41-42). Ma l’elemento semitico più evidente in Giovanni è la formula amen amen (sebbene in italiano sia tradotta “in verità, in verità”), usata come introduzione per i detti più solenni di Gesù (25 volte): anche nei Sinottici compare, ma in forma semplice, ed appartiene sicuramente al modo tipico di parlare di Gesù, a quelle espressioni che J. Jeremias ha definito “ipsissima verba Iesu”.

A questi termini facilmente riconoscibili bisogna aggiungere ancora numerose formule che sfuggono al lettore italiano, perché solo nella lingua originale si possono percepire. Elenco semplicemente alcune espressioni, proprie di Giovanni, che non appartengono alla lingua greca, ma derivano dall’ambiente semitico:

− rispose e disse (31x); – credere nel nome di… (1,12; 2,23; 3,18); − fare la verità (3,21); – gioire di gioia (3,29); − dare nella mano (3,35); – seme, nel senso di discendenza (7,42; 8,33-37).

Numerose espressioni comuni in Giovanni si ritrovano anche nei documenti di Qumran, soprattutto nella Regola della Comunità (1QS), ad esempio: il doppio amen, fare la verità, dare testimonianza alla verità, camminare nella tenebra, la luce della vita, il principe di questo mondo, i figli della luce, lo spirito della verità, il figlio della perdizione. Questi contatti non significano affatto dipendenza, né letteraria né teologica: provano solo che Giovanni appartiene ad un determinato ambito culturale e linguistico.

Lo stile

Giovanni scrive con uno stile semplice e solenne allo stesso tempo; abbonda nell’uso del presente storico, non ama i lunghi periodi, preferisce frasi brevi e semplicemente coordinate fra loro (paratassi), evitando costruzioni complicate. Non sempre questo è visibile in traduzione, perché spesso i traduttori pensano di migliorare il testo originale, introducendo variazioni sintattiche; un esempio evidente di paratassi è il racconto della guarigione del cieco nato, reso con traduzione molto letterale:

Detto questo sputò per terra e fece del fango con la saliva e spalmò il fango sui suoi occhi e gli disse: «Va’ a lavarti…». Andò dunque e si lavò e tornò vedendo (9,6-7).

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Spesso Giovanni adopera l’asindeto, cioè unisce le frasi coordinate senza congiunzione “e” (in greco: kai) o altre particelle, molto comuni in greco (men…de), per creare collegamento fra proposizioni. Così possiamo notare, sempre nel racconto del cieco nato, come è narrata la reazione della gente:

Alcuni dicevano: “È lui”; altri dicevano: “No, ma gli assomiglia”. Egli diceva: “Sono io!”. Dicevano dunque a lui: “Come…” (9,9-10).

Una particella che Giovanni predilige è oun, che corrisponde al nostro “dunque”: l’adopera ben 194 volte, contro le 5 ricorrenze in Marco. Spesso i traduttori non lo traducono o variano la traduzione, per non far risultare il testo pesante e ripetitivo; eppure i lettori greci antichi lo avranno certo percepito così. Proviamo a leggere, conservando tutti i “dunque”, l’episodio della guarigione del figlio dell’ufficiale:

45 Quando dunque giunse in Galilea… 46 Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea… 48 Gesù dunque gli disse: “Se non vedete segni e prodigi, voi non credete”… 52 S’informò dunque a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero dunque: “Ieri, un’ora dopo mezzogiorno la febbre lo ha lasciato”. 53 Il padre riconobbe dunque che proprio in quell’ora Gesù gli aveva detto: “Tuo figlio vive” e credette lui con tutta la sua famiglia (4,45-53).

Un altro procedimento caratteristico di Giovanni è una costruzione tipicamente semitica in cui si premette “tutto” che poi viene ripreso da un pronome personale. Anche questo fenomeno non è percepito nelle traduzioni, perché la formula strana greca viene appianata in italiano. Ma vediamo qualche esempio, in traduzione letterale che mantenga la stranezza della formulazione:

E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che tutto ciò che ha dato a me non perda di esso, ma lo risusciti nell’ultimo giorno (6,39);

Poiché tu gli desti potere sopra ogni carne, affinché tutto ciò che hai dato a lui egli dia ad essi vita eterna (17,2).

Così è comune per Giovanni adoperare un participio sostantivato con valore condizionale come soggetto della frase. Ad esempio: «Il credente in lui non è giudicato» (3,18). Il participio retto dall’articolo significa “colui che crede”; ma il senso che l’evangelista vuole trasmettere è quello della condizione: “se uno crede...”.

Un’altra particolarità semitica è riconoscibile nell’uso frequente (42 volte) del partitivo con la preposizione ek (“da”) senza un pronome indefinito (tipo “alcuni”). Anche in questo caso, per rendersi conto del fenomeno, bisogna tradurre in modo letterale il testo, senza introdurre in italiano quello che in greco manca:

Ed erano stati mandati tra i farisei (1,24);

Nacque dunque una discussione tra i discepoli di Giovanni con un Giudeo riguardo la purificazione (3,25);

Tra la folla, dunque, avendo udito queste parole, dicevano: “Questi è davvero il profeta!” (7,40);

Dissero dunque tra i suoi discepoli l’un l’altro: “Che cos’è questo che ci dice…” (16,17).

Per influsso della particella aramaica dî, che ha valore dichiarativo e relativo, Giovanni impiega volentieri le particelle greche hína (affinché) e hóti (che) con un valore diverso da quello che hanno abitualmente nella lingua ellenistica. I grammatici lo chiamano uso “epesegetico”, cioè con funzione esplicativa. Vediamo due esempi, in traduzione letterale:

Questo è il giudizio, che [hóti] la luce è venuta nel mondo e amarono gli uomini più la tenebra che la luce (3,19);

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Rispose Gesù e disse a loro: “Questa è l’opera di Dio, affinché [hína] crediate in colui che mandò Quello” (6,29).

Infine bisogna ricordare l’uso insistente (75 volte) dei correlativi “non…ma”, con l’intento di mettere in contrapposizione due situazioni, facendo emergere per contrasto quello che si vuole affermare. Ad esempio:

Non era quello la luce, ma affinché testimoniasse riguardo alla luce (1,8);

Né costui peccò, né i suoi genitori, ma affinché si manifestino le opere di Dio in lui (9,3);

E non per il popolo soltanto, ma affinché anche i figli di Dio dispersi radunasse in uno (11,52).

In conclusione possiamo riconoscere che, nonostante alcuni limiti espressivi e certe forzature della lingua, lo stile del racconto giovanneo ha il fascino solenne dell’opera profonda e meditata. Proprio la brevità delle frasi e la ripetizione delle espressioni importanti conferiscono all’opera una particolare intensità e la semplicità diviene grandiosa, perché tutta incentrata sull’evento essenziale della rivelazione.

I procedimenti letterari tipici

Alle osservazioni sulla lingua e lo stile bisogna ancora aggiungere alcune note sulle cosiddette “peculiarità” giovannee, che l’approfondita analisi degli studiosi ha elencato in modo minuzioso, arrivando ad enumerare oltre 400 caratteristiche. Ne consideriamo solo alcune.

Fra i procedimenti letterari comuni in Giovanni ne riconosciamo alcuni tipici della letteratura biblica, quali l’inclusione, il chiasmo e il parallelismo. L’autore si serve di questi mezzi per ottenere un effetto drammatico e per dare al suo racconto una vivacità dinamica, pur mantenendo una sobria omogeneità.

Volentieri il quarto evangelista “include” le unità narrative – sia in piccolo che in grande – con la ripresa di termini e temi importanti: all’inizio il Battista indica in Gesù l’agnello di Dio (1,29) e alla fine l’evangelista lo riconosce in croce come l’agnello pasquale a cui non è spezzato alcun osso (19,36); all’inizio della Cena afferma che Gesù «li amò fino alla fine (eis télos)» (13,1) e l’ultima sua parola riprende la stessa radice: «È finito (tetélestai)» (19,30); il nome geografico di Cana (2,1; 4,54) racchiude un’intera sezione, mostrando un itinerario simbolico di Gesù da Cana a Cana.

Il chiasmo, cosiddetto dalla lettera greca chi (che ha la forma di una X), è una figura retorica in cui due elementi concettualmente paralleli vengono disposti in modo incrociato, secondo lo schema a-b-b’-a’, con l’intento di attirare l’attenzione:

«Abbiate fede in Dio e in me abbiate fede» (14,1).

Il parallelismo, invece, è un procedimento tipico della poesia semitica che Giovanni segue volentieri, per dare alla sua prosa un andamento solenne ed enfatico; ribadisce in tal modo un concetto, ritornando più volte con diverse variazioni sullo stessa tema:

Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è gia stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio (3,18);

Chi viene dall’alto è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra. Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti (3,31);

Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio incombe su di lui (3,36).

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Una caratteristica importante dello stile giovanneo è l’uso delle cosiddette “parentesi”, catalogate in oltre 40 tipi: si tratta, in genere, di interventi diretti del narratore, con lo scopo, ad esempio, di spiegare il significato dei nomi (1,38.42), interpretare il valore dei simboli (2,21; 12,33; 18,9), offrire indicazioni temporali (1,39; 4,6), rettificare i malintesi (4,2; 6,6), rimandare a fatti precedenti o successivi (11,2; 21,20), annotare il compimento della Scrittura (19,36-37). Il gran numero di queste parentesi, in perfetta consonanza stilistica col resto del racconto, ha il grande pregio di dare uniformità all’intero testo evangelico, inducendo gli studiosi a ritenere tutta l’opera come il prodotto di un unico autore.

A livello di narrazione è opportuno ancora notare tre procedimenti che sono tipici di Giovanni e caratterizzano il suo vangelo: il fraintendimento, il doppio senso e l’ironia.

Anzitutto, il fraintendimento consiste nell’uso sistematico dell’incomprensione come mezzo per far procedere l’insegnamento, superando il modo di vedere umano e accettando invece la rivelazione di Gesù. La sua persona, infatti, con le sue opere e le sue parole, resta enigmatica e tutti i suoi interlocutori cadono nel malinteso: i giudei, ad esempio, non capiscono di quale tempio stia parlando (2,19-21), Nicodemo non comprende come si possa nascere da vecchi (3,3-5), la samaritana pensa ad un altro tipo di acqua (4,10-15) e i discepoli ad un altro tipo di cibo (4,31-34). Soprattutto i giudei, però, sono vittime del fraintendimento, a causa della loro colpevole incredulità che li porta ad essere il simbolo della condizione umana universale, incapace di arrivare a Dio se non accoglie il dono della verità, cioè della rivelazione.

In modo analogo l’impiego del doppio senso suggerisce un umile accostamento al mistero: le parole non sono in grado di esprimere tutto il significato dell’evento; la stessa parola può fornire più significati e una singola scelta impoverisce il messaggio; per cui il saggio lettore deve riuscire a comprendere in questi elementi simbolici la molteplicità dei significati e a tenerli insieme in una densa e profonda comprensione. Nel dialogo con Nicodemo l’avverbio ánothen può avere due significati: “dall’alto” e “di nuovo”; il fariseo capisce che bisogna nascere di nuovo, mentre Gesù voleva dire dall’alto; eppure i due significati non si oppongono, ma devono integrarsi, per rivelare il mistero della nuova nascita per opera divina. Così il verbo “innalzare” (hypsóo) ha il significato positivo di esaltare e intronizzare, ma ha pure il senso negativo di appendere al patibolo: scambiando i significati si crea incomprensione, ma il lettore sapiente deve riuscire a integrare i sue sensi, contemplando nel patibolo della croce il trono su cui è innalzato il sovrano (cf 12,32-33).

Infine, l’ironia si presenta come il procedimento più emblematico del racconto giovanneo: si tratta di una strategia del linguaggio, elaborata per rivelare il senso profondo, per invitare alla piena comprensione e giudicare la valutazione superficiale. L’ironia è un tipo particolare di simbolo, giacché dice una cosa e ne significa un’altra: essa mette in evidenza un contrasto fra apparenza e realtà, denuncia una presuntuosa inconsapevolezza e produce un drammatico effetto comico. Ad esempio, la sfida che Gesù lancia ai giudei nel tempio (2,18) ha una forte carica di ironia: essi, infatti, distruggeranno il corpo di Gesù e anche il loro tempio; in modo analogo, la proposta di Caifa per evitare la rovina del tempio (11,48) rivela drammaticamente l’ironia, giacché finirà per ottenere proprio quello che voleva scongiurare. Gesù stesso pratica l’ironia con i suoi interlocutori: con Natanaele (1,50), con Nicodemo (3,10), con i giudei (8,21-22) e con i discepoli (13,36-38). Ma è soprattutto l’autore che riempie di sfumature ironiche il suo racconto, provocando il suo lettore ad una maggiore comprensione dell’evento-Cristo, per superare una arrogante lettura superficiale e coinvolgerlo in un serio approfondimento della fede.

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5. STORIA DELLA COMPOSIZIONE

Il vangelo di Giovanni è un’opera unitaria dal punto di vista linguistico e stilistico; anche l’impostazione teologica risulta uniforme ed omogenea. Eppure nel corso del racconto si possono notare diverse tensioni letterarie, che fanno immaginare un lungo periodo di redazione e un certo travaglio compositivo.

Passiamo in rapida rassegna alcuni di questi fenomeni letterari, per renderci conto di che cosa si tratta.

Alcune “aggiunte” evidenti

Innanzitutto è evidente che ci sono delle sezioni aggiunte, autonome rispetto al resto del testo. Proprio all’inizio dell’opera, il solenne prologo teologico (1,1-18), composto con formule ritmiche e poetiche, si distanzia decisamente dal resto della prosa giovannea. L’inno introduttivo, dunque, è una realtà letteraria autonoma, che è stata posta al principio del racconto come grande ouverture, per introdurre la narrazione che comincia in 1,19. Eppure fra il prologo e il racconto c’è stretta correlazione, non una frattura: in 1,19 infatti il racconto parte proprio allacciandosi alla testimonianza del Battista, di cui si parla nell’introduzione. Non si potrebbe immaginare un racconto che inizi così: «E questa è la testimonianza che…». Sembra pertanto evidente che il prologo è stato aggiunto dal redattore stesso del racconto, in modo che il testo poetico affermi solennemente “che” Gesù è il rivelatore del Padre, mentre la narrazione in prosa mostra “come” lo è stato.

Anche l’ultimo capitolo del vangelo, che ha un ruolo di epilogo, sembra aggiunto al testo finito. Infatti il capitolo 20 termina con una frase che ha tutto il sapore della conclusione:

Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti, perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (20,30-31).

A questo punto il libro potrebbe essere finito: e invece no! Il racconto riprende con un episodio che riassume con ricco simbolismo il compimento della missione apostolica dopo la risurrezione di Gesù Cristo (21,1-23). E anche questo episodio è concluso da un epilogo: il secondo, dunque, a porre fine al vangelo di Giovanni. Ma questo secondo epilogo si differenzia decisamente dal primo, perché è composto in prima persona plurale e parla dell’autore, dando garanzia della sua credibilità:

Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere (21,24-25).

Sembra evidente che non sia Giovanni stesso a scrivere queste parole. Il “noi” letterario si riferisce probabilmente alla comunità dell’apostolo, che ha posto questo sigillo finale all’opera del grande maestro, professando la propria fiducia nell’autorevolezza dell’evangelista. Inoltre, nell’ultimo versetto che precede l’epilogo (21,23), chi scrive fa riferimento alla morte del discepolo che Gesù amava, spiegando l’opinione che si era diffusa fra i fratelli secondo cui quel discepolo non sarebbe morto. Proprio perché, invece, Giovanni è morto, l’autore di questo testo precisa e puntualizza che Gesù non aveva detto a Pietro che quello non sarebbe morto, ma semplicemente: «Se voglio che rimanga finché io venga, che importa a te?». Tutto questo lascia intendere che l’intero cap. 21 sia stato aggiunto in un secondo tempo, ad opera di un redattore, discepolo di

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Giovanni, che ha rielaborato il suo testo e vi ha aggiunto un’appendice con diversi intenti.

Anche un altro testo all’interno del vangelo giovanneo sembra aggiunto al testo originale: si tratta dell’episodio dell’adultera non condannata da Gesù (7,53–8,11). Il segno più evidente è dato dal fatto che questo brano manca in una serie di manoscritti antichi e autorevoli; inoltre, in alcuni codici compare, ma viene collocato in altri punti del racconto; addirittura, in qualche caso è inserito anche nel vangelo di Luca. In base a questo fatto testuale gli studiosi hanno osservato alcune differenze di linguaggio e di contenuto rispetto al consueto giovanneo, come, ad esempio, la menzione del monte degli Ulivi e degli scribi, che non compaiono mai altrove in Giovanni. Si pensa, quindi, che questo episodio non doveva far parte del vangelo di Giovanni fin dall’inizio, ma vi è stato inserito in epoca antichissima in una nuova redazione del testo: la sua canonicità non è in discussione, grazie al fatto che venne inserito da Gerolamo nella sua traduzione latina della Bibbia, diventata poi quella ufficiale della Chiesa, la Vulgata. Chi lo ha inserito in quel punto non l’ha fatto casualmente: la narrazione, infatti, riprende in modo forte i temi dominanti nei capitoli 7 e 8 di cui forma la cerniera. Tuttavia non è eliminata l’impressione di un inserimento che interrompe il filo del racconto.

Alcune fratture e incongruenze

Esistono, inoltre, nel testo complessivo numerose fratture narrative: certi passaggi, cioè, sono problematici rispetto all’insieme, perché non mostrano una lineare continuità narrativa o perché hanno la forma di frammenti autonomi rispetto al contesto. Vediamo alcuni esempi.

I capitoli 5-6-7 creano una sequenza problematica: infatti, il cap. 5 è ambientato a Gerusalemme presso la piscina Probativa e poi nel tempio; la lunga discussione coi giudei termina senza alcuna indicazione di cambiamento di luogo. Ma il cap. 6 comincia affermando: «Dopo questi fatti Gesù andò all’altra riva del mare di Galilea». Se era nel tempio di Gerusalemme, come si può parlare dell’altra riva del lago? Invece il cap. 7, pur facendo seguito ad un episodio ambientato in Galilea, inizia dicendo che «Dopo questi fatti Gesù se ne andava per la Galilea; infatti non voleva più andare per la Giudea, perché i Giudei cercavano di ucciderlo» (7,1). Il lettore, in genere, non nota questi fatti, perché la lettura liturgica ci ha abituato a frazionare i testi e a considerarli a pericopi separate; ma se si legge tutto il testo di seguito si può cogliere facilmente questa frattura. Sembra, dunque, di poter affermare che la redazione finale ha avvicinato in un secondo tempo blocchi narrativi, che in precedenza avevano avuto una vita autonoma. Il cap. 6, ad esempio, con il segno del pane e il grande discorso sul pane di vita, risulta un testo a sé, una ampia e organica composizione, che venne composta e trasmessa in modo autonomo: nella fase di redazione, poi, fu inserita fra l’episodio del paralitico e la discussione alla festa delle Capanne, senza che fossero eliminati tutti i piccoli indizi di frattura narrativa.

Così anche il testo 3,31-36 sembra collocato in un posto sbagliato. Contiene, infatti, un discorso che pare pronunciato da Giovanni Battista, visto che questo personaggio sta parlando a partire dal v. 27; eppure il discorso del precursore culmina con il v. 30 («Egli deve crescere e io invece diminuire») e il contenuto del seguito si addice molto di più alla rivelazione del Cristo.

Ugualmente anche in 12,44-50 si può riconoscere un altro blocco fuori posto. Infatti in 12,36 il narratore fa uscire di scena il personaggio principale: «Dette queste cose Gesù se ne andò e si nascose da loro». Quindi, nei versetti seguenti (vv. 37-43) interviene l’autore stesso con delle riflessioni teologiche sul rifiuto e l’incredulità dei giudei. Poi, all’improvviso, al v. 44 si dice: «Gesù allora gridò a gran voce: “Chi crede in me…»; e

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il discorso continua fino alla fine del capitolo, senza altri interventi narrativi. In questo caso sembra evidente la presenza di un frammento fuori contesto, che il redattore ha inserito nel punto di netta demarcazione fra la prima (cc. 1–12) e la seconda (cc. 13–21) parte del vangelo.

Inoltre nel testo di Giovanni si possono notare alcune incongruenze e l’intervento dell’autore per appianare alcune difficoltà. Ad esempio, in 3,22 si dice che «Gesù battezzava»; e la stessa cosa è ripetuta poco dopo come opinione corrente (4,1: «I farisei avevano sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni»); ma a questo punto il narratore interviene per correggere l’informazione: «Non era Gesù in persona che battezzava, ma i suoi discepoli» (4,2).

Analogamente il testo di 4,44 sembra una nota stonata, proveniente dalla tradizione sinottica. Dice, infatti: «Gesù stesso aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella sua patria». Ma, subito dopo, raccontando l’arrivo di Gesù nella sua patria, il v. 45 recita: «Quando giunse in Galilea, i Galilei lo accorsero con gioia».

Un fenomeno simile si riconosce anche in 16,5 dove Gesù si lamenta: «Nessuno di voi mi domanda: Dove vai?»; questo, infatti, è in opposizione a 13,16 dove Simon Pietro gli ha domandato: «Signore, dove vai?».

In 11,2 introducendo l’episodio della rianimazione di Lazzaro si dice che Maria, sorella del morto, era quella che aveva unto i piedi di Gesù: eppure questo episodio viene raccontato solo nel c. 12! Chi legge per la prima volta il testo di Giovanni non capisce questa spiegazione, ma il racconto di Lazzaro è fatto per gente che già conosce la vicenda e l’ambiente: così da un particolare tanto minuto si può riconoscere una lunga vicenda di narrazione orale e di tradizione scritta, ma indipendente delle varie pericopi.

In 14,31, dopo due capitoli di discorsi durante la cena, Gesù dice: «Alzatevi, andiamo via di qui». Sembra finita la serie delle parole e invece, senza alcuna altra indicazione, il Maestro continua a parlare per i cc. 15, 16 e 17. È dunque probabile che i testi di questi tre capitoli siano delle aggiunte ad una prima redazione dei discorsi di addio.

Tenendo conto di tutti questi fenomeni letterari, che non smentiscono affatto l’unitarietà dell’opera, ci si domanda come sia possibile spiegare le aggiunte, le fratture, le incongruenze. La risposta comunemente data — e già anticipata più volte — sta nell’attività redazionale dell’evangelista.

Tradizione e redazione

Alcune osservazioni previe sono indispensabili. Il quarto vangelo è un’opera scritta alla fine di un lungo periodo di gestazione e maturazione: circa settanta anni separano la vicenda storica di Gesù (verso l’anno 30) dalla stesura definitiva del vangelo giovanneo (conclusa verso l’anno 100). Non possiamo immaginare che la composizione scritta di questo testo sia avvenuta negli ultimi mesi o negli ultimi anni: è molto più logico pensare a un lungo e complesso lavoro di stesura, dilazionato nel tempo.

Questi settanta anni hanno segnato in modo determinante lo sviluppo della letteratura e della teologia giovannea: l’autore ha vissuto, nel frattempo! È maturato come uomo e come credente; ha predicato il messaggio di Gesù Cristo a tanta gente diversa in tante circostanze differenti; ha cambiato la residenza in vari luoghi geografici, ha comunicato il vangelo a persone di culture diverse, si è trovato a vivere in situazioni storiche profondamente mutate. L’approfondimento della riflessione non riguarda solo la vita di Gesù, ma anche il senso della storia: la caduta di Gerusalemme nell’anno 70, ad esempio, determina una nuova situazione anche per la Chiesa e per i rapporti con la sinagoga giudaica; così l’inizio delle persecuzioni, lo sviluppo della vita liturgica

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cristiana, la celebrazione dei sacramenti nelle nuove comunità sono eventi decisivi che hanno fatto maturare la comprensione e la trasmissione del messaggio di Cristo.

Il quarto vangelo, dunque, come ogni altro scritto neotestamentario, rispecchia la vita dell’apostolo e della sua comunità. È un’opera che nasce nella vita della Chiesa ed è per la vita dei credenti. L’apostolo, infatti, prima di tutto ha predicato: per tutta la vita ha trasmesso a viva voce la sua esperienza fondamentale; ha raccontato un’infinità di volte gli stessi episodi e ha ripetuto in mille modi le stesse parole. Ha predicato a persone concrete, sempre per trasmettere la sua fede nel Cristo risorto e, solo col tempo, dalla predicazione è nato qualche scritto. All’inizio, dunque, sta la tradizione apostolica: il discepolo, cioè, ha “trasmesso” a chi non c’era la propria esperienza dell’evento e la propria interpretazione di fede. Orale o scritto, fondamentale resta questo processo di tradizione.

Ma alla tradizione si aggiunge la redazione: con questo termine si intende tutto il lavoro di tipo letterario che riguarda i testi scritti. La predicazione, infatti, si trasforma col tempo in testi scritti e ciascun testo, a sua volta, si evolve: viene riletto, magari viene tradotto in un’altra lingua, viene riscritto per altra gente in altra situazione, viene certamente ritoccato e subisce ripetuti approfondimenti, finché si arriva alla stesura definitiva che mette insieme testi disparati. L’autore che rielabora la tradizione è un redattore; e molti possono dare il loro contributo redazionale fino al testo finale, quello che ci è strato tramandato in modo fisso e costante.

Facciamo un esempio. I discorsi di Gesù, presenti nel vangelo di Giovanni, sono il frutto maturo di un lungo lavoro di teologia, di meditazione e di redazione letteraria: le parole originali di Gesù sono state conservate con amorosa fedeltà e trasmesse in modo continuo e coerente sotto l’influsso illuminante dello Spirito. Giovanni è convinto che la sua opera sia in realtà opera dello Spirito: ha cioè la consapevolezza, che le cose da lui scritte nell’arco della sua lunga vita, non le avrebbe scritte subito nell’anno 30. Così l’evangelista può mettere in bocca a Gesù dei discorsi tanto ben organizzati e strutturati che, durante la sua vita terrena, egli non ha potuto insegnare: questi discorsi sono stati insegnati alla Chiesa dallo Spirito di Gesù e, quindi, si possono considerare proprio come parole di Gesù. Il narratore credente, quindi, fa una mirabile sintesi della rivelazione e della tradizione: l’insegnamento, iniziato storicamente da Gesù, è compreso pienamente grazie allo Spirito del Cristo risorto ed è consegnato ad un testo letterario, frutto di molti e sapienti ritocchi redazionali.

Una lettura “diacronica”

Alla luce di tutto questo, molti studiosi negli ultimi secoli si sono impegnati a ricostruire la lunga storia di composizione che ha vissuto il vangelo di Giovanni: questo importante e valido lavoro di ricerca appartiene ad un metodo che prende il nome di “lettura diacronica”, perché vuole ricostruire l’evoluzione di un testo lungo il tempo. Il metodo storico-critico, infatti, ha lo scopo di mettere in luce, attraverso la ricostruzione delle varie fasi storiche e letterarie, il senso espresso dagli autori e dai redattori di un testo: la natura stessa del testo biblico richiede che venga adoperato un simile approccio storico, perché — per parlare del nostro caso specifico — il vangelo di Giovanni non si presenta come una rivelazione diretta di verità fuori dal tempo, bensì come l’attestazione scritta di un evento storico e di una esperienza apostolica attraverso i quali il Cristo Gesù ha rivelato Dio nella storia umana. Per cui le ricerche “diacroniche” restano indispensabili per una corretta esegesi.

E tuttavia tali ricerche non sempre producono gli stessi risultati; anzi spesso le ricostruzioni che gli studiosi propongono divergono notevolmente le une dalle altre. Ma è proprio questo continuo e serio impegno di analisi che aiuta a comprendere la storia di

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composizione di un testo importante come il vangelo di Giovanni. Non è possibile nel nostro caso (e non sarebbe neppure utile) prendere in considerazione le numerose proposte di soluzione avanzate negli ultimi secoli: cerchiamo, perciò, di tracciare, in modo semplice e breve, le ipotetiche tappe in cui sarebbe passata la redazione del quarto vangelo secondo la ricostruzione di Raymond E. Brown, un grande studioso americano di san Giovanni, autore di un importante commentario al vangelo.

Egli descrive, per giungere all’opera finita che possediamo noi oggi, cinque possibili stadi di formazione. Li riassumo a mo’ di esempio, non tanto per comunicare delle verità storiche, quanto piuttosto per offrire uno schema di evoluzione diacronica.

I stadio: nella fase della predicazione si costituiscono lentamente le tradizioni evangeliche;

II stadio: il materiale tradizionale assume una forma particolare: viene messo per iscritto e quindi strutturato in raccolte letterarie;

III stadio: tutto questo molteplice materiale subisce un coordinamento organico, che equivale ad una prima edizione;

IV stadio: in seguito il testo viene aggiornato tenendo conto delle difficoltà e dei problemi insorti nel frattempo e si può paralare di una seconda edizione;

V stadio: infine l’edizione definitiva è curata da un redattore diverso dall’autore, forse dopo la morte dell’apostolo.

Una lettura “sincronica”

Nonostante la grande utilità degli studi che hanno tentato di ricostruire questa storia di composizione, una lettura di Giovanni li presuppone e li supera. Soprattutto il padre Ignace de la Potterie, grande maestro di esegesi giovannea, ha proposto con insistenza una “lettura sincronica” del quarto vangelo: ha invitato, cioè, a studiare il testo finale in sé, senza esaurire la ricerca nelle innumerevoli ipotesi sull’origine dei singoli testi precedenti. Infatti è il testo nel suo stato finale, e non una redazione anteriore, che viene accolto come espressione della Parola di Dio.

Dunque, riconoscendo che il vangelo di Giovanni ha avuto una lunga evoluzione storica e letteraria, ora esso si presenta a noi come un testo ben preciso e finito. Si tratta di un ricco e variegato tessuto organico, in cui molti fili si intrecciano e si intersecano: il racconto dell’evangelista, dunque, deve essere studiato proprio come racconto e i singoli brani devono essere letti, cercando il significato nel loro stesso interno nonché le relazioni che li uniscono al resto dell’opera.

Così l’analisi narrativa, applicata con sapienza al racconto evangelico, presenta un’evidente utilità e contribuisce a facilitare il passaggio dal senso del testo nel suo contesto storico al senso che assume per noi lettori di oggi. A un simile studio letterario è da aggiungere anche la riflessione teologica, considerando la natura stessa del racconto di fede e ricavando da esso un’interpretazione di tipo pratico e pastorale. È quello che i vari contributi di “Parole di vita” stanno facendo, aiutando i lettori a familiarizzarsi con le varie letture del vangelo secondo Giovanni.

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6. IL QUARTO VANGELO E I SINOTTICI

In quanto “vangelo” inevitabilmente Giovanni assomiglia ai Sinottici e ha tutte le caratteristiche del genere letterario che chiamiamo appunto “vangelo”: narrazione della vicenda storica di Gesù dal battesimo alla risurrezione, rilievo dato al viaggio fondamentale a Gerusalemme, importanza a informazioni geo-topografiche, aspetto «drammatico» della vita di Gesù, discorsi d’addio in cornice storica, parole e segni come avvenimenti reali e concreti.

Le principali differenze

Anche se gli elementi comuni non mancano (alcuni racconti, logia, citazioni dell’Antico Testamento, brevi parabole, espressioni metaforiche, sentenze e proverbi), esistono pure delle grandi differenze fra Giovanni e i Sinottici. Vediamo le più rilevanti.

Nel quadro geografico e cronologico. Il ministero di Gesù secondo Giovanni abbraccia il periodo di tre feste pasquali, quindi sembra durare circa tre anni, mentre nello schema sinottico si parla di una sola Pasqua, riducendo il racconto a un solo anno. Per i Sinottici Gesù comincia la missione in Galilea e va una volta sola a Gerusalemme. In Giovanni, invece, Gesù va continuamente avanti e indietro dalla Galilea a Gerusalemme, dove quasi tutto il racconto viene ambientato.

Nel modo di presentare i miracoli. I gesti prodigiosi raccontati da Giovanni sono chiamati “segni” (semeia), sono in numero di sette (probabilmente simbolico) e appartengono quasi esclusivamente a questo vangelo: 1) le nozze di Cana, 2) la guarigione del bambino dell’ufficiale, 3) la guarigione del paralitico della piscina di Betzatà, 4) la moltiplicazione dei pani, 5) il cammino sulle acque, 6) la guarigione del cieco nato, 7) la risurrezione di Lazzaro. Solamente due sono comuni con i Sinottici: la moltiplicazione dei pani e il cammino sulle acque.

Nel modo di presentare l’insegnamento. In Giovanni abbiamo lunghi discorsi di controversie e di insegnamento, mentre i Sinottici hanno in genere antologie di brevi logia indipendenti. Anche se Matteo ha raccolto il materiale in grandi discorsi, di fatto si tratta sempre di compilazioni in cui è evidente l’origine autonoma dei vari detti; in vece nel quarto Vangelo si trovano molti discorsi, lunghi e organici, strutturati in modo complesso e retoricamente valido.

Vari tentativi di spiegazione

Come spiegare queste somiglianze e differenze tra Giovanni e i Sinottici? Per risolvere questo problema sono stati proposti almeno tre schemi di soluzione:

1) i Sinottici dipendono da Giovanni;

2) Giovanni dipende letterariamente dai Sinottici;

3) Giovanni deriva da una tradizione indipendente che sta alla base anche dei Sinottici.

È inimmaginabile che Giovanni abbia determinato i Sinottici proprio per questione di tempo. Rimangono quindi le altre due possibilità che prendiamo in considerazione.

Nell’antichità i Padri pensavano generalmente che Giovanni dipendesse in qualche modo dai Sinottici. Ma da tale presupposto nasce un altro problema: se Giovanni conosce i Sinottici perché ha scritto un vangelo così diverso? Nella tradizione patristica sono già state formulate tutte le risposte possibili, riprese poi variamente anche dagli autori moderni:

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− Giovanni ha scritto il suo vangelo per completare quello che avevano detto gli altri evangelisti (ipotesi del completamento);

− Giovanni ha aggiunto molti discorsi allo scopo di evidenziare e interpretare meglio il messaggio teologico che nei vangeli sinottici non era chiarissimo (ipotesi dell’interpretazione);

− Giovanni voleva superare l’aspetto materiale per arrivare all’annuncio spirituale (ipotesi del superamento);

− Giovanni aveva il desiderio di sostituire i vangeli sinottici ritenendoli per qualche motivo non validi (ipotesi della sostituzione).

Oggi, tuttavia, l’opinione più sostenuta supera tutte queste varie ipotesi di rapporto coi Sinottici e preferisce sostenere che Giovanni derivi da una propria tradizione indipendente, eppure chiaramente ancorata alla predicazione apostolica più antica. Tutto ciò che è diverso si può spiegare in quanto parte dell’ambiente culturale giovanneo e appartenente all’autentica tradizione dell’apostolo. Così Giovanni utilizza uno schema narrativo proprio, mentre i Sinottici riproducono tutti uno stesso antico canovaccio narrativo.

Possiamo, in conclusione, ritenere improbabile che Giovanni dipenda letterariamente in modo diretto dai Sinottici; le concordanze si possono spiegare con la tradizione orale; ma la tradizione giovannea risulta autonoma nel suo complesso. Una certa conoscenza del contenuto della tradizione sinottica esiste, ma deriva da elementi che possiamo definire “pre-sinottici”. Nel quarto Vangelo, infatti, esistono indizi di una antica tradizione su discorsi e fatti della vita di Gesù, simile nella forma e contemporanea a quella sinottica; con la sua esposizione, però, Giovanni persegue un fine suo proprio, che è la chiave migliore per spiegare il sorprendente rapporto con la tradizione sinottica. Infine, nonostante il grande impegno di riflessione teologica, è necessario riconoscere che la tradizione giovannea contiene non poche informazioni complementari attendibili sotto l’aspetto storico.

7. BIBLIOGRAFIA RAGIONATA PER LEGGERE GIOVANNI

Due manuali per lo studio

Ambedue i manuali più recenti per lo studio della Sacra Scrittura dedicano uno speciale volume agli Scritti giovannei.

Il primo è tradotto dallo spagnolo: J.-O. TUÑÍ, «Vangelo secondo Giovanni», in J.-O. TUÑÍ - X. ALEGRE, , Scritti giovannei e lettere cattoliche, Paideia, Brescia 1997. Al Quarto Vangelo sono dedicate oltre cento pagine (17-138), nelle quali se ne approfondisce la dimensione letteraria e quella teologica, per esporre infine la storia della ricerca esegetica.

Come gli altri volumi della collana “Logos. Corso di studi biblici”, anche quello di G. GHIBERTI e Collaboratori, Opera giovannea (Logos 7), Elledici, Leumann (Torino) 2003, si articola in tre sezioni: Introduzioni; Saggi di esegesi; Temi di teologia giovannea. Nella Introduzione al Vangelo di Giovanni (pagine 35-94) Ghiberti conduce anzitutto il lettore a prendere contatto con il testo evangelico, quindi si sofferma sulle principali tematiche del pensiero giovanneo; in un secondo tempo affronta i problemi critici relativi all’origine e all’autore, mettendo a confronto i dati della tradizione con le discussioni degli studiosi.

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Altre Introduzioni

Autorevole ed esaustiva opera introduttiva è quella dell’esegeta americano R.E. BROWN, autore di un celebre commentario, apparsa postuma e curata da F.J. MOLONEY: Introduzione al Vangelo di Giovanni, Queriniana, Brescia 2007 (orig. inglese 2003), pp. 390.

Un’ottima introduzione al Quarto Vangelo si trova pure nel volume di G. SEGALLA, Evangelo e Vangeli, EDB, Bologna 1992, 271-381.

Un po’ datato, ma sempre prezioso, è il lavoro di J. COTHENET, Il Quarto Vangelo, in J. COTHENET - M.-É. BOISMARD, La tradizione giovannea, Borla, Roma 1978 (orig. francese 1977), 85-301.

Più sobrie sono l’Introduzione di Ph. PERKINS in Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997 (orig. inglese 1990), 1234-1245, e la voce Giovanni (Vangelo di), curata da G. SEGALLA nel Nuovo Dizionario di Teologia biblica, San Paolo, Cinisello B. (Milano) 1988, 666-673.

Il poderoso lavoro di S. A. PANIMOLLE, L’evangelista Giovanni. Pensiero e opera letteraria del Quarto Vangelo, Borla, Roma 1985, affronta i diversi problemi caratteristici di una introduzione generale.

Monografie introduttive

Merita infine segnalare qualche studio monografico dedicato a questioni introduttive; già i titoli suggeriscono il tema specifico di questi volumi:

Ch.H. DODD, La tradizione storica nel Quarto Vangelo, Paideia, Brescia 1983 (orig. inglese 1963);

R. E. BROWN, La comunità del discepolo amato, Cittadella, Assisi 1982 (orig. inglese 1979);

M. HENGEL, La questione giovannea, Paideia, Brescia 1998 (orig. tedesco 1993);

D. MOODY SMITH, La teologia del Vangelo di Giovanni, Paideia, Brescia 1998 (orig. inglese 1995).

Un’opera interessante nel panorama editoriale italiano è di Valerio MANNUCCI, Giovanni, il Vangelo narrante. Introduzione all’arte narrativa del Quarto Vangelo, EDB, Bologna 1993. Il compianto esegeta fiorentino ha offerto un utile manuale che introduce lo studioso alla lettura del testo giovanneo, mostrandone le principali caratteristiche “narrative”. Dello stesso autore, è comparsa un’altra più sintetica presentazione: Giovanni. Il Vangelo di ogni uomo, Queriniana, Brescia 1995.

Sulla stessa linea di esegesi narrativa si pone il contributo di Roberto VIGNOLO, Personaggi del Quarto Vangelo. Figure della fede in San Giovanni, Glossa, Milano 1994. Attraverso lo studio di alcune figure significative si può così cogliere la dinamica teologica del racconto giovanneo, orientato alla matura fede del discepolo.

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I commentari maggiori

Il commentario “scientifico” più recente apparso in lingua italiana è di: Francis J. MOLONEY, Il Vangelo di Giovanni (Sacra Pagina, 4), LDC, Leumann (TO) 2007 (edizione originale in inglese: 1998). Ai metodi tradizionali l’esegeta australiano, docente all’Università Cattolica di Washington, associa l’analisi narrativa, con risultati davvero interessanti, concentrandosi sul progetto narrativo del Quarto Vangelo e analizzando l’influenza che la storia in esso narrata ha avuto sui suoi lettori.

Ugualmente recente e valido è YVES SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB, Bologna 2000 (edizione originale in francese: 1997). Questo lavoro si distingue per la sua novità: all’esegesi tradizionale l’autore preferisce un approccio ermeneutico che poggia sulla moderna linguistica e intende evidenziare la ricchezza teologica del Vangelo.

Particolarmente interessante per l’analisi simbolica è l’opera di JUAN MATEOS – JUAN BARRETO, Il Vangelo di Giovanni. Analisi linguistica e commento esegetico, Cittadella, Assisi 1982 (edizione originale in spagnolo: 1979). I due autori spagnoli, gesuiti impegnati nell’insegnamento in America Latina, si concentrano nella lettura sincronica del testo evangelico, con apporti talora originali, dando grande valore all’interpretazione simbolica.

Valida e sintetica è l’opera dell’attuale Presidente dell’Associazione Biblica Italiana: RINALDO FABRIS, Giovanni. Traduzione e commento, Borla, Roma 1992. Preceduta da un’ampia introduzione, l’esegesi del testo evangelico prende l’avvio dalla struttura letteraria del brano e si conclude con un’articolata proposta ermeneutica, nella quale viene ricuperata la ricchezza della interpretazione patristica.

Un altro commentario importante è dovuto a uno dei più qualificati esegeti francesi: XAVIER LÉON-DUFOUR, Lettura dell’Evangelo secondo Giovanni, 4 voll., San Paolo, Cinisello Balsamo 1990-1998 (edizione originale in francese: 1987-1996). Questo bel commentario si caratterizza per l’applicazione della lettura “simbolica” del quarto vangelo, per lo stile vivace e per la ricchezza spirituale.

Un classico dell’esegesi scientifica è opera di un compianto esegeta americano: RAYMOND E. BROWN, Giovanni. Commento al Vangelo spirituale, 2 voll., Cittadella, Assisi 1979 (edizione originale in inglese: 1966.1970). Dopo una ricca introduzione, l’analisi sistematica del Vangelo si articola in due momenti: una serie di note che approfondiscono singole espressioni del testo prepara la spiegazione complessiva del brano.

Infine ricordiamo l’opera di un insigne esegeta tedesco, monumento del metodo storico-critico: RUDOLF SCHNACKENBURG, Il Vangelo di Giovanni (Commentario teologico del Nuovo Testamento, IV), 4 voll., Paideia, Brescia 1971.1973.1981.1987 (edizione originale in tedesco: 1965.1984). Si tratta di un classico che impressiona per la poderosa erudizione: ne è consigliabile la consultazione per approfondire alcuni temi o testi.

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I commentari più divulgativi

Distinguere i commentari divulgativi da quelli scientifici è piuttosto discutibile. Non è raro che, al di sotto dell’apparente semplicità, anche i primi abbiano serietà scientifica e profondità di dottrina. Inoltre, alcuni dei commentari “maggiori” già segnalati sono accessibilissimi e perciò raccomandabili ai lettori volonterosi, che desiderano cibo solido. Tuttavia per chi si trova a disagio con un discorso troppo tecnico, i seguenti testi offrono un serio approccio al Vangelo, anche se in forma più semplice:

GHIBERTI Giuseppe, Vangelo secondo Giovanni, in La Bibbia, Marietti, Torino 1980, III, 327-457: conduce alla scoperta della profondità dottrinale attraverso un’attenta analisi letteraria.

LÀCONI Mauro, Il racconto di Giovanni, Cittadella, Assisi 1989: originale e suggestivo; si fa apprezzare per la freschezza e agilità dello stile.

MIGLIASSO Secondo, Vangelo secondo Giovanni, in La Bibbia Piemme, Piemme, Casale Monferrato 1995.21996: in “Note” densissime e asciutte un’analisi dettagliata del testo.

MOLLAT Donatien, Da Gesù al Padre. Introduzione alla lettura esegetico-spirituale del Vangelo di Giovanni, Borla, Roma 1983.

PACOMIO Luciano, Il Vangelo secondo Giovanni, Milano 1994.

PANIMOLLE Salvatore A., Lettura pastorale del Vangelo di Giovanni, 3 voll., EDB, Bologna 1978.1985.1984. In questi tre volumi l’analisi approfondita del testo è completata dagli sviluppi dedicati al messaggio teologico.

PASQUETTO Virgilio, Abbiamo visto la sua gloria. Lettura e messaggio del Vangelo di Giovanni, Ed. Teresianum, Roma 1992: utile per un accostamento anche spirituale al Quarto Vangelo.

PERKINS Pheme, Il Vangelo secondo Giovanni, in R. E. BROWN – J. A. FITZMYER – R. E. MURPHY (a c. di ), Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997, 1234-1292: secondo l’impostazione di questo ottimo manuale americano, Introduzione e Note riassumono egregiamente lo stato attuale della ricerca.

SEGALLA Giuseppe, Giovanni, Paoline, Roma 1976: ottima introduzione; commento stringato, ma esegeticamente solido.

STRATHMANN Herrmann, Il Vangelo secondo Giovanni, Paideia, Brescia 1973 (orig. ted. 1968): benché datato, è un valido esempio di alta divulgazione in ambiente evangelico tedesco.

VAN DEN BUSSCHE Henry, Giovanni, Cittadella, Assisi 1970 (edizione originale in francese: 1967). Il testo evangelico risulta particolarmente illuminato dai rimandi interni.

WIKENHAUSER Alfred, L’Evangelo secondo Giovanni, Morcelliana, Brescia 1962 (orig. ted. 1961): anche questo è un classico dell’esegesi tedesca di cinquant’anni fa.

ZEVINI Giorgio, Vangelo secondo Giovanni, 2 voll., Città nuova, Roma 1984.1987: buona guida alla lettura, di taglio esegetico-spirituale.

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Commenti patristici al Quarto Vangelo

I Padri della Chiesa «insegnano a leggere teologicamente la Bibbia in seno a una Tradizione vivente con un autentico spirito cristiano». Questa affermazione della Pontificia Commissione Biblica (L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, III.B.3, Ench. Bibl. 1463) dice in grande sintesi il valore permanente dei commentari patristici, che oggi si vanno riscoprendo non solamente come espressione del pensiero teologico dei rispettivi autori, ma anche come punto di riferimento ineludibile per una lettura corretta della Sacra Scrittura.

Le prime tracce significative del quarto vangelo si trovano nell’Adversus Haereses di Ireneo di Lione (135 ca. – 202 ca.). Ma il primo commentario sistematico è quello di Origene (185 ca. – 253 ca.), che polemizza sistematicamente con l’opera di uno gnostico, Eracleone. Ci è giunto incompleto; ma le parti conservate sono sufficienti per farci apprezzare la ricchezza e profondità del grande esegeta, parimenti attento ai problemi critici, al senso letterale e a quello spirituale, ossia teologico, del testo. Lo si deve considerare «l’archetipo dei commenti di età patristica» (D. PAZZINI, Origene. Dizionario, Città Nuova, Roma 2000, 197). Abbiamo in italiano l’ottima edizione a cura di E. Corsini: ORIGENE, Il Vangelo di Giovanni, UTET, Torino 1968.

Un altro alessandrino, Cirillo, sviluppa soprattutto l’interpretazione dottrinale in senso antiariano e si caratterizza per il frequente ricorso all’esegesi allegorica. In italiano: CIRILLO DI ALESSANDRIA, Commento al Vangelo di Giovanni. Traduzione, note e indici di L. Leone, 3 voll., Città Nuova, Roma 1994.

I 124 Tractatus di Agostino sul vangelo di Giovanni sono uno dei suoi capolavori. «Agostino ama Giovanni perché è il discepolo caro al Signore, l’evangelista della carità, che ci presenta la misericordia incarnata venuta verso la nostra miseri» (Introduzione di A. VITA). Una buona edizione in latino e italiano: AGOSTINO, Commento al Vangelo di San Giovanni, (Opere di Sant’Agostino, III: Discorsi, vol. XXIV), Città Nuova, Roma 1968.

Le 88 omelie sul quarto vangelo di san Giovanni Crisostomo, insuperabile maestro di vita cristiana, si fanno ancor oggi apprezzare per la sensibilità letteraria e per l’afflato pastorale. Testo con versione, introduzione e note di D. Cecilia Tirone: SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, Le Omelie su San Giovanni Evangelista. (Corona Patrum Salesiana, Serie greca, voll. X-XIV), SEI, Torino 1944-1948. Anche Teodoro di Mopsuestia, amico del Crisostomo, ci ha lasciato un bel commento al Vangelo di Giovanni, notevole per l’eccellente metodo scientifico, filologico e storico, che ben rappresenta la scuola antiochena. TEODORO DI MOPSUESTIA, Commentario al Vangelo di Giovanni apostolo, a cura di L. Fatica, Borla, Roma 1991.

Ai Padri della Chiesa si possono collegare anche gli scrittori medievali, testimoni di una tradizione secolare e sempre attenti al senso spirituale del testo. Al vangelo di Giovanni sono dedicate alcune omelie di BEDA il Venerabile (673 ca.-735), cui va riconosciuto il merito di aver trasmesso all’Occidente l’eredità patristica. In italiano: VENERABILE BEDA, Omelie sui Vangeli, a cura di G. Simonetti Abbolito, Città Nuova, Roma 1990. Inoltre, si possono segnalare, in particolare: MEISTER ECKART, Commento al Vangelo di Giovanni, a cura di M. Vannini, Città Nuova, Roma 1992; BONAVENTURA, Commento al Vangelo di san Giovanni. Traduzione di E. Mariani, introduzione e note di J. G. Bougerol, 2 voll. (S. Bonaventurae Opera VII/1-2), Città Nuova, Roma 1990-1991; TOMMASO D’AQUINO, Commento al Vangelo di San Giovanni, a cura di T.S. Centi, 3 voll., Città Nuova, Roma 1990-1992.

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APPENDICE: il papiro Rylands P52

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INDICE

1. L’AUTORE E I SUOI DESTINATARI ......................................................................................1 Le testimonianze della tradizione..................................................................................................1 Tempo e luogo di composizione ...................................................................................................3 Altri scopi ed altri destinatari ........................................................................................................4

2. LA NARRAZIONE SECONDO GIOVANNI ...........................................................................5

L’utilità di una struttura letteraria .................................................................................................5 La ricerca di una struttura..............................................................................................................6 Altri significativi indizi .................................................................................................................7 Giovanni stesso offre una sintesi...................................................................................................8 Una proposta di struttura ...............................................................................................................9

3. LA TEOLOGIA SIMBOLICA DI GIOVANNI.......................................................................10

Una storia della salvezza .............................................................................................................11 La comprensione dell’evento ......................................................................................................11 L’opera dello Spirito di Gesù ......................................................................................................12 L’interpretazione dei «segni»......................................................................................................13 “Symbolon”.................................................................................................................................14

4. LO STILE LETTERARIO DI GIOVANNI............................................................................16

La lingua originaria .....................................................................................................................16 Il vocabolario ..............................................................................................................................17 Lo stile.........................................................................................................................................18 I procedimenti letterari tipici.......................................................................................................20

5. STORIA DELLA COMPOSIZIONE .......................................................................................22

Alcune “aggiunte” evidenti .........................................................................................................22 Alcune fratture e incongruenze ...................................................................................................23 Tradizione e redazione ................................................................................................................24 Una lettura “diacronica”..............................................................................................................25 Una lettura “sincronica” ..............................................................................................................26

6. IL QUARTO VANGELO E I SINOTTICI...............................................................................27

Le principali differenze ...............................................................................................................27 Vari tentativi di spiegazione........................................................................................................27

7. BIBLIOGRAFIA RAGIONATA PER LEGGERE GIOVANNI............................................28

Due manuali per lo studio ...........................................................................................................28 Altre Introduzioni........................................................................................................................29 Monografie introduttive ..............................................................................................................29 I commentari maggiori ................................................................................................................30 I commentari più divulgativi .......................................................................................................31 Commenti patristici al Quarto Vangelo.......................................................................................32

APPENDICE: il papiro Rylands P52............................................................................................33