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Un confronto bidimensionale tra il Califfato e l'Occidente.
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Sommario
Introduzione ................................................................................................................. 1
I. Lo Stato Islamico ................................................................................................. 3
1. Genesi e sviluppo ..................................................................................................................................... 3
2. Struttura e composizione..................................................................................................................... 4
3. Strategia del terrore .............................................................................................................................. 7
II. L’Occidente ......................................................................................................... 10
1. Il Consiglio di Sicurezza nella risoluzione n. 2170/2014........................................................ 10
2. Come combattere lo Stato Islamico: strategie a confronto ................................................... 12
a) Interventismo ................................................................................................................ 13
b) Attendismo .................................................................................................................... 14
Conclusione ................................................................................................................ 16
Bibliografia ................................................................................................................. 17
Introduzione
Il 19 agosto scorso i giornali aprono le prime pagine con il titolo «Decapitato reporter Usa»: si
tratta dell’americano James W. Foley, giornalista freelance e corrispondente di guerra durante il
conflitto siriano, rapito nel novembre del 2012 e decapitato come risposta all’attacco
dell’aeronautica statunitense in Iraq, divenendo pertanto il primo cittadino americano vittima
dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL).
Questa barbarie fu da subito accompagnata dalla diffusione online di un video intitolato «A
Message to America», in cui appare l’esecuzione nella sua interezza: l’ostaggio, in un camice
arancione, è rivolto sulle ginocchia e costretto a pronunciare una protesta all’indirizzo
dell’amministrazione Obama, rea di «negare le libertà e ledere la sicurezza dei musulmani» me-
diante continui raid aerei sul territorio del neonato «Califfato Nero»1. Invero, Foley è solo il pri-
mo di una serie di ostaggi cui è stato riservato pari trattamento2; e, ad oggi, l’Isil non sembra
aver avuto ripensamento alcuno in merito alla spietata pratica del beheading.
Questa efferata novità ha da subito destato grande scalpore tra i vertici politici e l’opinione
pubblica occidentali, alle prese con un quadro mediorientale alquanto destabilizzante – Siria ed
Iraq in fiamme, Libia sull’orlo di un nuovo conflitto tribale, Egitto sottoposto ad un regime so-
stanzialmente militare, Israele e Gaza ancora ai ferri corti.
E’ però bene chiarire sin da principio che l’Isil non è la «nuova Al-Qaeda». Siamo di fronte a due
organizzazioni autonome e separate, tra cui intercorrono profonde divergenze; e ciò sia sotto il
profilo strutturale, sia sotto quello ideologico-finalistico. Anzitutto, l’Isil esercita – in modo effet-
tivo e indipendente – il potere di governo su un territorio stabilmente definito (o in espansio-
ne)3. In particolare, si occupa dell’amministrazione pubblica dei territori posti entro la sua «giu-
risdizione», (ri)costruisce infrastrutture, introduce nuove forme di assistenza sociale e sanitaria,
gestisce l’economia4 – e il tutto mediante un impianto decentralizzato quantomai produttivo. Al
contrario, questi elementi sono almeno parzialmente assenti nel caso di Al-Qaeda, che opera per
mezzo di un’organizzazione fortemente destrutturata e accentrata nelle mani del leader. In se-
condo luogo, e in stretta attinenza con quanto finora sostenuto, l’Isil ha fatto ricorso
all’istituzione di un esercito regolare, composto da soldati (o anche «miliziani») appositamente
ricompensati. Gli scontri con l’esercito iracheno e con le truppe di Bashar al-Assad in Siria sono
1 Il regime imposto dall’Isil tra Iraq e Siria a fine giugno, sulla cui natura di «Stato» si tratterà più avanti. 2 A questo sono seguiti l’americano Steven Sotloff, i britannici Alan Henning e David Haines, e il francese
Hervé Gourdel. 3 E già questo elemento, da solo, ci consente di considerarlo a tutti gli effetti un «governo insurreziona-
le», anche se presenta la singolare caratteristica di essere nato e di essersi sviluppato all’interno di due en-tità statali.
4 La politica economica è improntata ad una forte disciplina fiscale, che si concretizza con la riscossione delle tasse sulle imprese oltre che sulla vendita di armi, di equipaggiamento militare e di merci, prove-nienti per lo più da redditizi canali di contrabbando lungo i confini tra Siria, Iraq e Turchia.
1
avvenuti in una maniera «tradizionale», in trincea, e con una «catena di comando» abbastanza
precisa. Al-Qaeda, invece, ha sempre colpito il nemico in maniera irregolare, con attentati di ma-
trice terroristica (IANNACCONE, 2014). E’ infine utile soffermarsi sulla differenza tra gli obiettivi
delle due organizzazioni terroristiche: se Al-Qaeda si pone un obiettivo di lungo-raggio, da con-
seguire tramite attacchi terroristici mirati, l’Isil punta a consolidare i propri successi a livello re-
gionale e locale, e così anche le atrocità di cui si è macchiata vengono perpetrate in seno al terri-
torio soggetto alla sua influenza. Peraltro, e questo è un punto cruciale, il terrorismo tradizionale
puntava ad intimidire i governi occidentali; per contro, l’Isil vuole conquistare il potere negli Sta-
ti musulmani, non in Canada o nel Regno Unito5.
La chiave del successo dello Stato Islamico è da ricercarsi nella commistione di «modernità» e
«pragmatismo» (NAPOLEONI, 2014), cocktail che sta fruttando all’organizzazione un consenso
popolare senza precedenti nella storia dei nuclei terroristici mediorientali. Gli abitanti delle zone
sulle quali il Califfato ha instaurato la propria sovranità, infatti, sono soddisfatti della gestione
che viene fatta dei villaggi e rilevano un miglioramento della qualità della vita.
Come vedremo, la scoperta da parte delle potenze occidentali, e in particolare degli Usa, del
«potenziale destabilizzante» associato all’Isil è imperdonabilmente tardiva. Fino al giugno del
2014, gli Stati Uniti non erano minimamente preoccupati dello Stato Islamico, che pure presen-
tava già i tratti di un vero e proprio «governo insurrezionale»; questo è probabilmente dovuto al
fatto che, combattendo il regime di Assad, faceva gli interessi degli americani in «una guerra per
procura, finanziata dall’Arabia Saudita, dal Kuwait e dal Qatar»6. Appena compresa la portata in-
ternazionale della minaccia islamica – che, è bene dirlo, ha fornito agli Alleati lo spunto principa-
le per superare talune divisioni che avevano avuto l’effetto di bloccare il processo decisionale del
Consiglio di Sicurezza in merito alla gestione della crisi siriana7 – l’Occidente si è mosso su vari
binari per tentare di arrestarla o quantomeno di ostacolarne l’avanzata.
In questo lavoro, dopo aver soddisfatto l’esigenza di comprendere più profondamente il feno-
meno dello Stato Islamico, ci concentreremo su alcuni aspetti legati alle contromisure intraprese
dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e all’intervento militare in Medioriente; infine,
esamineremo le due opposte strategie immaginate al fine di «sconfiggere» una tale minaccia.
5 V., tra gli altri, G. DYER, Il segreto per sconfiggere il terrorismo, in «Internazionale», 28 novembre 2014, http://www.internazionale.it/opinione/gwynne-dyer/2014/11/28/il-segreto-per-sconfiggere-il-terrorismo.
6 V. anche L. NAPOLEONI nella presentazione di Isis. Lo Stato del terrore per Feltrinelli, http://www.feltrinellieditore.it/video/loretta-napoleoni-isis-lo-stato-del-terrore.
7 Come succintamente accennato da R. CADIN, Il Consiglio di sicurezza torna a legiferare nella risoluzione 2178 (2014) sui “combattenti terroristi stranieri”, in «Ordine internazionale e diritti umani», 1, 4, 2014, p. 857.
2
I. Lo Stato Islamico
1. Genesi e sviluppo
Lo Stato Islamico (Is), già noto con la denominazione di Stato Islamico dell’Iraq (Isi, 2006-
2013) e successivamente con quella di Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil, 2013-2014), sta
de facto ridisegnando l’architettura geopolitica mediorientale, di matrice franco-britannica8, con
l’occupazione di una vasta area territoriale ricompresa tra l’Iraq e la Siria. Ad oggi, tale territorio
si estende per circa trentacinquemila chilometri quadrati – da Aleppo, nella Siria settentrionale,
a Diyala, in est-Iraq, benché i confini siano evidentemente piuttosto labili – e oltre sei milioni di
persone vivono sotto il suo controllo.
Il 29 giugno 2014, il gruppo jihadista ha proclamato la (ri)fondazione del Califfato islamico con
capitale al-Raqqa, una cittadina della Siria centro-settentrionale; e ha nominato come leader
dell’organizzazione Ibrahim Abu Bakr al-Baghdadi, già membro di Al-Qaeda e noto per la pratica
di «giudicare i cittadini accusati di aiutare il governo iracheno e le forze della coalizione».
Negli ultimi anni, l’organizzazione ha cambiato spesso nome: inizialmente operava come cellu-
la del gruppo armato al Tawhid al Jihad sotto la guida dell’Emiro Abu Musab al-Zarqawi; dopodi-
ché, nel 2006, prese il nome di Stato Islamico dell’Iraq (Isi), nome che ritrovò nel 2010 quando la
leadership venne assunta dallo stesso al-Baghdadi, rilasciato dall’avamposto americano in Iraq
dove era detenuto per «attività terroristiche»; nel 2013, in seguito alla fusione con una frangia
del Fronte al-Nusra (ANF), divenne Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Isil); infine, appena
prima della proclamazione del Califfato, nacque lo Stato Islamico9. Altrettante sono state le de-
nominazioni utilizzate dai mass media e dai vertici istituzionali occidentali: i primi preferiscono
la sigla ISIS (Islamic State of Iraq and Syria); nei documenti ufficiali risulta invece più comune
l’acronimo ISIL.
L’avanzata dello Stato Islamico, che si è distinto per crudeltà e ferocia perfino dagli standard di
Al-Qaeda, ha contribuito ad acuire le già ferree ostilità tra sciiti e sunniti. Fin dalla sua comparsa,
l’Is sembrerebbe impegnato in una sorta di pulizia religiosa, attuata mediante una forma molto
aggressiva di proselitismo (NAPOLEONI, 2014); né sono mancati metodi estremi di tortura e ster-
minio di comunità sciite.
Al di là dell’espediente religioso e delle tattiche terroristiche, esiste una raffinata macchina mi-
litare che si muove per costruire le fondamenta di un vero e proprio Stato moderno. A dimostra-
8 Nella primavera del 1916, con l’«Accordo sull’Asia Minore», Regno Unito e Francia definirono le rispet-tive sfere di influenza in Medioriente, dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano durante la Grande Guerra.
9 Cfr. L. NAPOLEONI, Isis. Lo stato del terrore, Feltrinelli, Milano, 2014.
3
zione di ciò, i miliziani dell’Is sono stati, e sono tutt’ora, impegnati su molteplici fronti: in Siria,
contro le truppe di Assad e i ribelli indipendenti; in Iraq, dove hanno da poco ottenuto la deposi-
zione del premier sciita Nouri al Maliki e del suo governo10; nelle zone contese, contro il Fronte
Islamico, le milizie sciite, alcune coalizioni jihadiste e, soprattutto, i peshmerga curdi; in Libano,
contro l’esercito libanese.
Da due anni a questa parte, l’Is ha conseguito una serie interminabile di successi. Se è vero che
ha dimostrato un’efficacia quasi sospetta nelle tattiche della guerriglia, la conoscenza del terreno
gli deriva dal sostegno maggioritario che ha avuto dai clan sunniti (NEGRI, 2014, p. 8). Peraltro, le
stime attribuiscono all’organizzazione tra le venti- e le trentamila unità armate, evidentemente
insufficienti a conquistare città come Mosul – popolata da tre milioni di abitanti –, a minacciare il
Kurdistan, a prendere di mira Baghdad. In effetti, lo Stato Islamico non ha fatto tutto da solo: si è
alleato con le tribù sunnite e i gruppi baathisti degli ex di Saddam Hussein, che avevano con gli
jihadisti l’obiettivo comune di destituire il primo ministro iracheno, le cui politiche di-
scriminatorie rappresentano la vera causa della rivolta sunnita. Agli occhi dei sunniti, il Califfato
è visto come una chance imperdibile per tornare sulla scena da padroni.
Se l’Is dovesse continuare su questi ritmi, sarebbe presumibile il raggiungimento, nel medio-
periodo, del fine ultimo cui mira: la ricostituzione di una società ideale, sulla falsariga del Califfa-
to fondato nel VII secolo dal profeta Maometto nell’età dell’oro del mondo islamico.
2. Struttura e composizione
Per esercitare validamente il potere di governo entro un’area territoriale più estesa del Belgio,
lo Stato Islamico si serve di una fitta mappa di reti capillari, capaci di trasferire informazioni e
direttive dal vertice alle più remote comunità. L’impalcatura organizzativa è costituita da
un’articolata gerarchia burocratica alla cui sommità siede Abu Bakr al-Baghdadi, il «Comandante
in Capo» dell’Is. L’impalcatura si divide quindi sotto i suoi piedi in due rami di governo: il primo,
che si occupa dell’amministrazione dei territori in Iraq, è nelle mani di Abu Muslim al-Turkmani,
il braccio destro di al-Baghdadi; l’altro, deputato alla gestione dei centri siriani, è invece affidato
a Abu Ali al-Anbari, ex veterano di guerra nel regime di Saddam Hussein. Il vertice e i due gover-
ni paralleli definiscono insieme una struttura triangolare, chiamata Al Imara, l’organo esecutivo
supremo («the executive branch»).
Non per questo si cada nell’errore di pensare che al-Baghdadi – vera e propria «stella polare»
dell’organizzazione» – venga spogliato di alcuna delle sue prerogative. In un’intervista alla Cnn,
10 V. L. LAMPUGNANI, Iraq: si è dimesso il premier Nouri al-Maliki, in «International Business Times», 15 agosto 2014, http://it.ibtimes.com/articles/69366/20140815/iraq-maliki-dimissioni-premier-abadi-baghdad-is.htm.
4
Jasmine Opperman, direttrice del «Terrorism Research and Analysis Consortium» (TRAC), ha
spiegato che «ci sono due governi diversi, ma questa divisione è puramente amministrativa».
«Non vogliono rinunciare – prosegue Opperman – all’idea di un unico Califfato, ma tentano di
rendere più facile la gestione del territorio separandola tra Siria e Iraq»11. I due vice-Califfi, per
l’appunto, hanno sostanzialmente la funzione di consegnare gli ordini ai ventiquattro governato-
ri locali, egualmente divisi tra Iraq e Siria. Questi sono, a loro volta, responsabili della supervi-
sione delle circoscrizioni territoriali più piccole; inoltre, istruiscono gli otto Consigli locali in me-
rito all’applicazione dei decreti governativi sulle più svariate materie. In particolare, il Financial
Council gestisce il contrabbando di armi e petrolio; il Leadership Council redige leggi e stabilisce
l’indirizzo politico; il Military Council si occupa della difesa militare; il Legal Council giudica sulle
esecuzioni e il reclutamento; il Fighters Assistance Council offre assistenza ai «foreign fighters»; il
Security Council amministra il corpo di polizia e applica le esecuzioni; l’Intelligence Council repe-
risce e sfrutta le informazioni sui nemici; infine, il Media Council regola il rapporto con la stampa
e sfrutta i social network. Ad un gradino superiore rispetto a questi, si trova lo Shura Council, con
competenza nell’ambito degli affari religiosi e militari. Il «Consiglio della Shura» vigila sul rigo-
roso rispetto dei precetti della legge islamica in seno al territorio, e riferisce direttamente
all’esecutivo12. Parallelamente, un «Gabinetto di Consiglieri» avrebbe il compito di riportare in-
formazioni dalla base al vertice, comunicando direttamente con al-Baghdadi. Il Cabinet sarebbe
composto da altissimi responsabili dello Stato Islamico, tra cui Omar al Shishani (comandante
militare) e Abu Mohammed al Adnani (portavoce dell’organizzazione).
Questa elaborata suddivisione dei compiti tra entità ministeriali, al pari di ogni altro Stato,
rende l’idea di quanto sia strutturata la macchina «statale» che opera tra i governi siriano ed ira-
cheno. Nessuno, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, era riuscito ad annettere un territorio
tanto esteso e a mantenerne stabilmente il controllo.
Alla base della piramide gerarchica, l’esercito. Tre anni fa non era più che un nucleo di mille
miliziani indisciplinati; oggi, tra membri permanenti, soldati costretti all’arruolamento13 e sup-
porto straniero, lo Stato Islamico raggiunge l’esorbitante cifra di ottantamila unità armate14, di-
spiegate sull’intero territorio e impegnate ad estenderlo. Inoltre, l’Is ha istituito numerosi campi
d’addestramento diretti a fornire ai combattenti un buon livello di preparazione fisica, tattica,
11 L’intervista si trova in N. THOMPSON e A. SHUBERT, The anatomy of ISIS: How the 'Islamic State' is run, from oil to beheadings, in «Cnn», 7 ottobre 2014, http://edition.cnn.com/2014/09/18/world/meast/isis-syria-iraq-hierarchy.
12 Secondo alcune fonti, sarebbe questo l’organo che ha avallato in ultima istanza l’esecuzione degli ostaggi occidentali.
13 Tra questi, le formazioni tribali armate e larga parte della popolazione sunnita. 14 In agosto, l’Is disponeva già di almeno cinquantamila combattenti solo in Siria – cfr. «Al Jazeera»,
http://www.aljazeera.com/news/middleeast/2014/08/islamic-state-50000-fighters-syria- 2014819184258421392.html. Queste stime sono, in ogni caso, ancora da verificare.
5
militare e teologica, prima di spedirli in battaglia o in fasi successive di addestramento specializ-
zato15.
Una importante porzione dell’esercito è però composta dai cosiddetti «foreign fighters», volon-
tari stranieri che si sono uniti al progetto della «Jihad Globale» e lo difendono direttamente sul
campo di battaglia. Molti di questi provengono dalle regioni della Cecenia e dal Nord Caucaso, in
cui l’islam è la religione dominante. Tuttavia, una quantità non indifferente di «combattenti stra-
nieri» è di provenienza europea – Francia, Germania, Paesi Bassi e Belgio registrano le cifre più
allarmanti.
Ma quali sono i fattori che spingono i cittadini d’Europa e del mondo ad arruolarsi nelle milizie
dello Stato Islamico? Una monografia pubblicata di recente dal «Rand National Defense Re-
search»16 mette in rilievo un paio di punti interessanti: 1) dato che il reddito di un combattente è
di gran lunga inferiore a quello percepito dalla media delle famiglie nelle regioni interessate,
mentre la probabilità di morte è alquanto superiore, si esclude che la retribuzione sia il movente
principale; 2) i «foreign fighters» hanno mediamente buoni livelli d’istruzione e patrimoni consi-
stenti, che contribuiscono ad eliminare l’«ignoranza», l’«instabilità mentale» e l’«indigenza» dalle
cause ipotizzabili. La maggior parte dei musulmani occidentali che hanno aderito al progetto ji-
hadista viene avvicinata nelle moschee del Vecchio Continente o nelle carceri da predicatori
islamici; inserita in gruppi di discussione online, e messa quindi a contatto con l’ideologia estre-
mista; persuasa, infine, ad abbandonare famiglia e affetti per intraprendere il viaggio verso il
neonato Stato Islamico.
Da ciò scaturisce il pericolo legato al cosiddetto «reducismo». Una volta indottrinati e adde-
strati militarmente, i «foreign fighters» vengono rispediti nei loro paesi di provenienza con il
preciso scopo di reclutare altri jihadisti17; inoltre, data la loro esperienza nel combattimento ur-
bano, nell’acquisizione di obiettivi, nella comunicazione e nella pianificazione di attentati, rap-
presentano un problema non trascurabile perfino rispetto alla sicurezza interna.
Il rivolgimento che l’Is sta operando all’interno della comunità islamica – in cui dilagano corru-
zione, disuguaglianza, miseria – induce i ragazzi musulmani, europei e americani, ad offrire
ognuno il proprio contributo, chiusi anch’essi dall’individualismo di una società sempre più di-
stante dai problemi delle giovani generazioni.
15 V. Abu Hamza al-Muhajir, in «Dabiq», 1, 6, 2014, pp. 26 ss. Il sesto numero della rivista dello Stato Islamico riporta alcune istantanee che mostrano tre livelli dell’allenamento cui sono sottoposte le milizie armate (p. 27).
16 http://www.rand.org/content/dam/rand/pubs/monographs/2010/RAND_MG1026.pdf. 17 R. SHERLOCK, GAZIANTEP, e T. WHITEHEAD, Al-Qaeda training British and European 'jihadists' in Syria to set
up terror cells at home, in «The Telegraph», 19 gennaio 2014, http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/middleeast/syria/10582945/Al-Qaeda-training-British-and-European-jihadists-in-Syria-to-set-up-terror-cells-at-home.html.
6
3. Strategia del terrore
Il successo dello Stato Islamico è pure da ricondurre alla «propaganda della paura»18, pensata
nel dettaglio dai piani alti dell’organizzazione. Perfino le decapitazioni – in apparenza, mero atto
macabro di sfida – sono in realtà una «produzione cinematografica altamente sofisticata e pro-
fessionale, arricchita da simboli potenti»: la tuta arancione, chiara reminiscenza dei prigionieri
musulmani detenuti dagli Stati Uniti presso Guantánamo Bay; i capelli rasati; la confessione
estorta, intrisa di innaturale solennità, e pronunciata nei diretti confronti dei governi americano
e britannico; il deserto alle spalle; l’uso della lama corta in luogo della spada, con cui si condisce
la relazione tra boia e vittima di una spregevole intimità (KAPLAN, 2014).
L’Is si è dimostrato particolarmente abile nell’utilizzo dei social media per diffondere, tra il
pubblico locale e globale, le immagini altamente professionali delle atrocità perpetrate. Studian-
do struttura e tattiche di altre organizzazioni armate – le Brigate rosse in Italia e l’Ira nell’Irlanda
del Nord – il Califfato ha preso coscienza di un’arma letale come il «terrore» (NAPOLEONI, 2014);
ed è riuscito a brandirla, all’interno del nuovo contesto, con imprevedibile efficacia: in sostanza,
l’organizzazione di al-Baghdadi si è servita dell’enorme potenziale offerto dalla moderna tecno-
logia allo scopo di diffondere il «terrore» ad una velocità e con un’intensità molto maggiori ri-
spetto al passato.
La pratica del beheading si è infine interrotta con la comparsa tra i video pubblicati dallo Stato
Islamico di John Cantlie. Il giornalista inglese, corrispondente di guerra per importanti testate
d’oltremanica, era stato rapito per la seconda volta il 22 novembre 2012 in Siria, dopo un primo
sequestro nel luglio dello stesso anno. Da allora, si erano completamente perse notizie di lui. Fi-
no a quando, nel settembre del 2014, non appare in un messaggio audiovisivo, rivolto a tutti i cit-
tadini d’Occidente e intitolato «Lend Me Your Ears», in cui si ripromette – nel corso di alcuni,
successivi appuntamenti – di «fare luce su talune verità manipolate dai media occidentali»19. Qui
si ripresentano quelle caratteristiche della «solennità» e dell’«imposizione» già presenti nei vi-
deo delle esecuzioni. Inoltre, rendendo protagonista un rispettabile reporter occidentale, «uno di
noi», l’Is spera di aumentare il tasso di credibilità del messaggio propagato. Ad oggi, tuttavia, non
è ancora chiaro da cosa dipenda il differente trattamento riservato a Cantlie, la cui firma è peral-
tro apparsa in calce ad una serie di articoli pubblicati all’interno degli ultimi tre numeri della ri-
vista jihadista «Dabiq»20.
18 La felice espressione è di L. NAPOLEONI, op. cit., passim. 19 Tale messaggio, divenuto il primo episodio di un’intera campagna propagandistica allestita dagli
esperti dello Stato Islamico, è stato seguito da milioni di persone in tutto il mondo. 20 V. J. CANTLIE, Hard talk. The real story behind my videos, in «Dabiq», 1, 4, 2014, pp. 52 ss; J. CANTLIE, If I
were the US president today, in «Dabiq», 1, 5, 2014, pp. 36 ss; e, ancora, J. CANTLIE, Meltdown, in «Dabiq», 1, 6, 2014, pp. 58 ss.
7
Pare, infatti, che lo Stato Islamico abbia ufficialmente identificato giornalisti e personalità lega-
te ai media occidentali come «obiettivi legittimi di rappresaglie» in reazione ai raid aerei diretti
sulle principali città sotto il suo controllo21. Questa brusca presa di posizione da parte dei vertici
jihadisti – che è valsa al conflitto il meritato appellativo di «guerra al buio» – impedisce a qua-
lunque corrispondente di avvicinarsi ai territori d’interesse senza rischiare, in ogni istante, la vi-
ta. Ed è la prima volta che un «conflitto prolungato» in Medioriente non possa essere seguito
quotidianamente dalla lente professionale di uomini che, pur di offrire una prospettiva sullo svi-
luppo delle schermaglie, spesso mettono a repentaglio se stessi. Non avere giornalisti costante-
mente presenti è una grossa perdita. Significa rimanere «congelati»; non poter dare una risposta
ad interrogativi importanti; non disporre dei mezzi per valutare l’efficacia delle contromisure
adottate, né di quelle in via di adozione. Come governa lo Stato Islamico? Come funzionano istru-
zione, giustizia, sanità, lavoro? In che condizioni versa l’economia delle aeree che presiede?
(FRIEDMAN, 2014).
La vicedirettrice di «Asharq Al-Awsat», testata con sede a Londra, ha di recente spiegato come
un quotidiano arabo segue le vicende legate all’Is: «Abbiamo dei corrispondenti supportati da
pochi freelance locali che rischiano la vita per essere in contatto con noi dall’Iraq. Tuttavia, dalle
zone controllate dal Califfato in Siria, soprattutto Raqqa, è blackout». «L’uso dei telefoni e della
posta elettronica in Iraq è problematico per la sicurezza dei collaboratori, che spesso lavorano
senza sapere come verranno pagati. A parte questo, per la copertura ci avvaliamo di reti di ira-
cheni e siriani che hanno interagito con i combattenti jihadisti»22. Cionondimeno, tali informa-
zioni giungono in gran parte dalle stesse milizie islamiche, che – attraverso Twitter e Facebook –
filtrano le notizie espungendo i «particolari» che non vogliono rendere noti.
A partire dal 2012, i jihadisti in Siria ed Iraq hanno iniziato ad integrare Twitter come mezzo di
comunicazione per diffondere materiale propagandistico. Molto spesso, nuovo materiale di pro-
paganda viene postato prima su Twitter, direttamente dal campo di battaglia, per poi essere ap-
profondito sui tradizionali forum di discussione (CARFORA, 2014, p. 1). Twitter è parte integrante
della campagna mediatica che gli jihadisti intraprendono online. Infatti, il ruolo degli «attivisti
mediatici» è stato incentivato fin dalla morte di Osama bin Laden nel maggio del 2011: «Internet
è un campo di battaglia per la jihad, un posto per il lavoro missionario, un luogo dove affrontare i
nemici di Dio. Spetta a ciascuno di noi considerarsi un “combattente mediatico”, dedicando se
stesso, la propria ricchezza e il proprio tempo a Dio» (PRUCHA, 2013).
21 Cfr. D. BYERS, FBI warns media: Journalists ‘desiderable targets’ for ISIL, in «Politico», 23 ottobre 2014, http://www.politico.com/blogs/media/2014/10/fbi-warns-media-journalists-desirable-targets-for-197546.html.
22 La dichiarazione è reperibile in T. L. FRIEDMAN, Flying Blind in Iraq and Syria, in «The New York Times», 1 novembre 2014, http://www.nytimes.com/2014/11/02/opinion/sunday/thomas-l-friedman-flying-blind-in-iraq-and-syria.html?rref=collection%2Fcolumn%2Fthomas-l-friedman.
8
I grandi social network si sono rifiutati di collaborare con il governo americano sul fronte della
lotta al terrorismo. Facebook e Twitter richiedono ordinanze dei tribunali o mandati di compari-
zione prima di concedere l’accesso ai dati dell’utente o alle sue comunicazioni. E’ pur vero che le
violazioni più gravi vengono facilmente sanzionate, ma i gruppi terroristici, fintanto che non vio-
lano le condizioni di servizio, sono giuridicamente autorizzati ad operare sul social network; di
conseguenza, sapendo di essere degli «infiltrati», si limitano a fare propaganda e proselitismo
nel rispetto della netiquette (CANFORA, 2014, p. 4).
Negli Stati Uniti, intellettuali ed opinione pubblica si dividono tra chi sostiene che sia il caso di
bloccare l’attività dei gruppi terroristici sui social media e chi, al contrario, ritiene sia meglio non
intervenire. Da una parte, l’FBI e le agenzie di intelligence hanno arrestato sostenitori qaedisti
proprio grazie alla loro individuazione in rete; senza contare che, generalmente, le persone non
cominciano a radicalizzarsi o ad agire con violenza per il semplice fatto di essere venute a contat-
to con la «propaganda del terrore»23. Dall’altra, i provider dei servizi social non possono chia-
marsi completamente fuori dal problema, né possono rimettere l’onere di «segnalare» i contenu-
ti a sfondo terroristico esclusivamente agli utenti24.
23 V. la testimonianza di W. MCCANTS per il «Subcommittee on Counterterrorism and Intelligence», riuni-to a Washington il 6 dicembre 2011, http://homeland.house.gov/sites/homeland.house.gov/files/Testimony%20McCants.pdf.
24 V., per contro, la testimonianza di A. A. WEISBURD nella stessa circostanza, http://homeland.house.gov/sites/homeland.house.gov/files/Weisburd%20testimony.pdf.
9
II. L’Occidente
1. Il Consiglio di Sicurezza nella risoluzione n. 2170/2014
Le decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza sono quelle previste dal Capitolo VII della
Carta dell’ONU (artt. 39 ss.), intitolato «Azione rispetto alle minacce alla pace, alle violazioni del-
la pace e agli atti di aggressione»; l’art. 41, in particolare, fa luce sulle cosiddette «sanzioni», at-
tribuendo all’organo la facoltà di deliberare quali misure non implicanti l’uso della forza debba-
no essere adottate dagli Stati membri in risposta ad uno Stato che minacci o violi la pace (CON-
FORTI, 2014, pp. 156-7). Le Nazioni Unite, tradizionalmente impegnate nella lotta al terrorismo,
vincolano la normativa nazionale ad assumere determinati comportamenti sia sotto il profilo
cautelativo, sia – benché in casi di specifica gravità – sotto quello propriamente sanzionatorio25.
Ciò premesso, alla luce dei tristi episodi con cui le milizie del Califfato si sono presentate al
mondo, il Consiglio ha adottato all’unanimità la risoluzione n. 2170/2014, che ricomprende –
per l’appunto – una serie di provvedimenti di natura tanto preventiva quanto punitiva del «mas-
siccio, sistematico ed esteso abuso dei diritti umani consumato dallo Stato Islamico e dal Fronte
al-Nusra»26. Il Consiglio di Sicurezza richiede la cessazione delle violenze e degli atti terroristici,
nonché lo scioglimento dei gruppi armati, ricordando che «gli attacchi contro civili, sulla base di
differenze squisitamente etniche o religiose, potrebbero prefigurare dei veri e propri crimini
contro l’umanità». Si tratta, fra le altre cose, di omicidi, esecuzioni di massa, torture, stupri, muti-
lazioni di bambini, attacchi diretti contro scuole e ospedali – tutti atti compiuti in evidente viola-
zione del diritto internazionale umanitario (CARLETTI, 2014, p. 883).
Con la risoluzione n. 2170/2014, si raccomandano gli Stati membri di adottare ogni misura na-
zionale necessaria a prevenire e reprimere il flusso di «foreign fighters» verso le zone interessa-
te; il finanziamento a gruppi radicali; il supporto, attivo o passivo, a «entità o persone coinvolte
in atti terroristici»; il reclutamento di membri all’interno del territorio.
Sul fronte operativo, l’effetto di questa risoluzione è quello di estendere il regime di sanzioni
mirate, già imposto con la risoluzione n. 1333/2000 nei confronti di Al-Qaeda, ai membri dello
Stato Islamico e del Fronte al-Nusra (CADIN, 2014, p. 858). Le cosiddette «liste nere» – pensate
per registrare le più note personalità terroristiche, da sanzionare con il congelamento dei fondi e
con l’imposizione di restrizioni alla libertà di movimento – potranno quindi accogliere i nomina-
25 L’applicazione delle risoluzioni del Consiglio si fonda sulla cooperazione degli Stati, i quali – natural-mente – vogliono evitare la responsabilità per certi atti.
26 http://www.un.org/press/en/2014/sc11520.doc.htm.
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tivi di individui direttamente riconducibili all’Is, o sospettati di procurargli qualsiasi genere di
supporto.
Fondamentale, in questo senso, è il Comitato delle Sanzioni (anche noto come Al-Qaeda and Ta-
liban Sanctions Committee), istituito con la risoluzione n. 1267/1999, con il compito di indivi-
duare i possibili soggetti pericolosi e di inserirli nelle black list. Spetta a questo speciale organo,
in buona sostanza, il ruolo di supervisione e di coordinamento nella lotta al terrorismo27. Va pe-
raltro ribadito che la pratica di registrare i (presunti) terroristi in appositi elenchi ha fortemente
incentivato la cooperazione tra gli Stati membri (SOSSAI, 2012, p. 249) e ha consentito loro di ve-
nire a capo di talune diffidenze che si erano fatte largo nelle relazioni diplomatiche.
Per contro, la stessa risoluzione n. 2170/2014 ha portato con sé numerosi inconvenienti, do-
vuti principalmente alla scarsità di mezzi formali attraverso cui i «sospetti» potessero contestare
le sanzioni loro applicate. L’inserimento nelle liste nere è una procedura molto semplice: è suffi-
ciente che un qualsiasi Stato presenti l’istanza, e che il Comitato – una volta esaminata nei suoi
particolari – la convalidi, procedendo all’iscrizione. Né è prevista, in favore della persona coin-
volta, alcuna possibilità di difendersi dal contestuale congelamento dei beni28: il provvedimento
è, dunque, inappellabile.
Più analitico e controverso, invece, è il procedimento che governa la cancellazione dalla lista
(delisting procedure), cancellazione che crea delle incertezze sia rispetto alle normative comuni-
taria e nazionale sulla lotta al terrorismo, sia sul piano della tutela dei diritti umani (ARCARI,
2007). Anzitutto, è definito richiedente «qualsiasi individuo, gruppo, impresa o altro ente iscritto
nelle liste di un comitato per le sanzioni». Tra i soggetti richiedenti non vengono ricompresi gli
Stati, cui tuttavia è riservata la possibilità di fare da intermediari fra il cittadino e l’organo adito.
La richiesta viene esaminata dagli Stati membri del Consiglio e, superati gli esami, trasmessa al
«punto focale» presso il Comitato delle Sanzioni. Questo, a sua volta, notifica al richiedente
l’avvenuta ricezione dell’istanza, per poi aprire la fase delle «consultazioni» con lo Stato di citta-
dinanza e con lo Stato proponente. Arrivati a questo punto, i governi coinvolti possono proporre,
al «punto focale» o al presidente del Comitato, la cancellazione dell’interessato dalla lista, addu-
cendo le dovute motivazioni. Ogni membro che ha partecipato alle discussioni ha la facoltà di
opporsi alla richiesta di cancellazione, condividendo le sue informazioni con gli altri. Entro un
termine di tre mesi, ciascun governo deve confermare la richiesta di cancellazione o chiedere
un’ulteriore proroga per l’analisi degli atti. Decorso tale termine, altri trenta giorni sono concessi
27 Nell’adottare la risoluzione 2170/2014, il Consiglio di Sicurezza è comunque ricorso all’inserimento dei primi sei nominativi della black list: Abdulrahman al-Zafer al-Dabidi al-Jahani, Hajjaj Bin Fahed al-Ajami, Abu Mohammad al-Adnani, Saeed Arif, Abdulmohsen Abdullah Ibrahim al-Sharekh, e Hamed Ha-mad Hamed al-Ali. Cfr. H. SABBAGH, Security Council adopts resolution against the funding and arming of ISIS and Jabhat al-Nusra, in «Syrian Arab News Agency», 16 agosto 2014, http://www.sana.sy/en/?p=10262.
28 Nello specifico, l’adozione della misura non è preceduta da alcun contraddittorio; ed è precluso al sin-golo di adire direttamente il Consiglio di Sicurezza – e, questo, malgrado l’atto produca effetti diretti nei suoi confronti, pregiudicandone la posizione soggettiva.
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per promuovere la richiesta di cancellazione; altrimenti, la mozione si considera respinta e se ne
dà comunicazione al richiedente29.
Questa marcata differenza tra l’immediatezza della sanzione e il complesso iter necessario per
svincolarsene pone in risalto, simmetricamente, uno scontro insieme politico e giuridico tra la
necessità di garantire a tutti i cittadini un sufficiente livello di sicurezza pubblica e quella di tute-
lare i diritti umani di persone che, già private di patrimoni e dignità, rischiano di perdere quelle
garanzie fondamentali che pure costituiscono il caposaldo dell’ordinamento comunitario e degli
ordinamenti nazionali30.
2. Come combattere lo Stato Islamico: strategie a confronto
L’intervento militare degli Stati Uniti contro lo Stato Islamico merita anzitutto di essere discus-
so sotto il profilo formale della «legittimità», essendo sprovvisto di un’autorizzazione da parte
del Consiglio di Sicurezza e risultando, pertanto, unilaterale.
Inutile ricorrere all’espediente dell’autotutela collettiva ex art. 51 della Carta dell’ONU: gli Usa
non sono intervenuti per restaurare l’integrità territoriale di alcuno Stato – né Siria o Iraq hanno
mai inviato alcuna richiesta di soccorso ufficiale –, ma per tutelare gli interessi della comunità
internazionale da una minaccia di portata mondiale (PICONE, 2014). In effetti, l’atto unilaterale
con cui il governo statunitense ha deciso di scendere in campo sembra poter essere ricondotto
all’interno di un quadro più generale che apre alla possibilità di ricorrere alla forza armata come
reazione a gravi violazioni di obblighi erga omnes31. Il comportamento criminoso dell’Is si artico-
la in diversi livelli: invasione di Stati sovrani allo scopo di annettere porzioni dei loro territori;
commissione di atti in violazione dei diritti umani e del diritto umanitario; commissione di atti di
vero e proprio terrorismo.
E’ però il caso di evidenziare che, di regola, il ricorso alla forza armata è rigorosamente proibi-
to ex art. 2, par. 4, della Carta dell’ONU, fatti salvi i casi di legittima difesa e autorizzazione consi-
liare, qui non impugnabili. Peraltro, non esiste, ad oggi, alcuna delega formale rilasciata dalla
comunità degli Stati al fine di esprimere il proprio consenso nei confronti dell’operazione. A ben
vedere, gli attacchi della coalizione contro centri strategici posseduti dallo Stato Islamico nei ter-
ritori siriano ed iracheno, se non autorizzati dal Consiglio di Sicurezza o dai sovrani territoriali,
29 shop.wki.it/documenti/61301906_est.pdf. 30 Per una prospettiva completa su questo tema, v. F. SALERNO (a cura di), Sanzioni "individuali" del Consi-
glio di Sicurezza e garanzie processuali fondamentali, Cedam, Padova, 2010. 31 Per questa tesi, v. P. PICONE, Considerazioni sull’intervento militare statunitense contro l’Isis, in «SIDI
Blog», 5 settembre 2014, http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1070.
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costituirebbero, a loro volta, «un atto di aggressione, una gravissima violazione del diritto inter-
nazionale»32.
Per chiudere il cerchio su questo acceso dibattito, non può infine ignorarsi la cosiddetta teoria
della «responsabilità di proteggere», per cui la sovranità territoriale sarebbe concepita non già
come mero diritto dello Stato di esercitare la propria giurisdizione sugli individui stanziati
all’interno del suo territorio, ma anche e soprattutto come dovere di assicurare loro adeguata
protezione33. Nel nostro caso, Iraq e Siria non sembrano più nelle condizioni di poter garantire ai
loro associati un livello opportuno di sicurezza; e ciò legittimerebbe, di fatto, l’intervento degli
Stati Uniti in loro difesa (MINICI, 2014).
E pure la disputa sulla «legittimità» dell’intervento militare degli Stati Uniti in Siria è solo pre-
liminare ad un altrettanto acceso scontro sul «merito» dell’operazione, in ordine al quale si divi-
dono due indirizzi di pensiero: una prima corrente, interventista, sostiene la produttività del ri-
corso alla forza armata; una seconda, più attendista, vi si oppone, rimarcando le drammatiche
conseguenze che potrebbero derivare da attacchi sistematici, come successo in passato. Ne trat-
teremo di seguito.
a) Interventismo
Preso atto dell’uccisione degli ostaggi occidentali, Barack Obama ha messo in piedi una coali-
zione di Stati che fronteggiasse militarmente le milizie jihadiste, con lo scopo di «umiliare e infi-
ne distruggere il gruppo terroristico noto come ISIS». Ad oggi, l’alleanza conta tra i cinquanta e i
settanta membri statali e sovrastatali (Unione Europea e Lega Araba), ognuno disposto a soste-
nere politicamente, militarmente o finanziariamente la missione in Medioriente. Tra tutti, parti-
colare rilievo hanno assunto proprio gli attori statali limitrofi alle zone contese: l’Arabia Saudita,
oltre ad aver partecipato attivamente ad alcune operazioni militari, ha donato cento milioni di
dollari al Centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite e cinquecento milioni sotto forma di assi-
stenza sanitaria; la Giordania ha distrutto obiettivi dello Stato Islamico in Siria per mezzo dei
bombardamenti aerei; il Kuwait ha finanziato l’operazione con dieci milioni di dollari; il Qatar ha
interrotto i flussi di denaro verso lo Stato Islamico ed ha inviato ingenti quantità di aiuti umani-
tari; gli Emirati Arabi e il Bahrein hanno partecipato agli attacchi aerei sul territorio siriano; lo
32 V., amplius, K. DEMIRJIAN, Russia condemns U.S. airstrikes against Islamic State in Syria, in «The Wash-ington Post», 23 settembre 2014, http://www.washingtonpost.com/world/russia-condemns-us-airstrikes-against-islamic-state-in-syria/2014/09/23/de639dc6-42f4-11e4-b437-1a7368204804_story.html.
33 L’adempimento a tale responsabilità si risolverebbe in misure prevalentemente pacifiche, senza però che interventi di carattere militare siano preclusi a priori. Cfr., tra gli altri, L. F. VISMARA, Responsabilità di proteggere: diritto di ingerenza o nuovo concetto di sovranità?, in «Equilibri», 27 aprile 2012, http://www.equilibri.net/nuovo/es/node/2159; e L. BAIADA, La responsabilità di proteggere, in «Questio-ne giustizia», 3, 2010, pp. 135-49.
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stesso governo iracheno ha concesso lo sfruttamento del suo spazio aereo e sostenuto politica-
mente l’alleanza contro gli jihadisti (PAYNE, 2014).
Inorridita dalla brutalità con cui l’organizzazione islamica giustiziava gli incolpevoli prigionie-
ri, l’opinione pubblica statunitense sembra essersi mossa nella direzione del presidente, rite-
nendo necessario un intervento diretto in tutela della sicurezza mondiale. In effetti, la politica
sanguinaria approntata da al-Baghdadi non lascia molte scelte ai vertici politici occidentali, sui
quali ricadono pesanti responsabilità. D’altra parte, i rischi che l’Occidente correrebbe adottando
una politica immobilista sono reali ed effettivi. Lo Stato Islamico ha già invitato i militanti ad
«uccidere tutti gli infedeli»: «Se non trovate esplosivi o munizioni allora isolate l’americano infe-
dele, il francese infedele e tutti i loro alleati». E poi ancora: «Spaccategli la testa con una pietra,
trafiggeteli con un coltello, investiteli con la vostra automobile, gettateli nel vuoto, strozzateli,
avvelenateli». «Noi – conclude il messaggio – conquisteremo la vostra Roma, bruceremo la vo-
stra croce e ridurremo in schiavitù le vostre donne». La violenta ambizione di queste parole im-
pone di non fare passi indietro: non si può permettere a questi gruppi terroristici di massacrare
intere popolazioni, né di disporre di una base territoriale da cui pianificare manovre di più am-
pio respiro (GUETTA, 2014).
Neppure può affermarsi che l’intervento militare sia una strada priva di spiacevoli conseguen-
ze: vittime civili, distruzione di interi villaggi, perdita di risorse, polarizzazione della popolazione
in filo- e anti-occidentali. Ma cosa accadrebbe se venissero interrotti i bombardamenti aerei ol-
tre a qualsiasi altro intervento anche solo a livello politico? Probabilmente l’Is avrebbe tempo e
modo di assodare la sua presenza in Iraq e Siria, sensibilizzare i giovani musulmani alla causa
jihadista e irrobustire i flussi di denaro: in definitiva, potrebbe farsi sempre più spazio
all’interno di due corpi in putrefazione34, con la prospettiva – tutto fuorché rassicurante – di ri-
cattare l’Europa da una posizione privilegiata.
b) Attendismo
La decisione di attaccare militarmente le regioni sotto il controllo dello Stato Islamico rimane
tuttavia costellata di punti interrogativi. In particolare, qual è l’obiettivo delle forze statunitensi,
oltre a quello formale e sintetico di «distruggere l’ISIS»? E quale la strategia pensata per porre
alla situazione un rimedio di lungo periodo? C’è, poi, la disponibilità di collaborare con Bashar
al-Assad, o si ritiene che il governo siriano abbia perso ogni autorità per concordare operazioni
che dovrebbero svolgersi all’interno del suo territorio? Queste domande trovano una risposta
difficile nel fatto che gli stessi Paesi della coalizione anti-islamica – tra cui, segnatamente, Tur-
34 Iraq e Siria sono stati così lucidamente definiti da A. A. GINAMMI, La guerra contro l’Isis, in «The Post In-ternazionale», 20 ottobre 2014, http://www.thepostinternazionale.it/mondo/siria/la-guerra-contro-l-isis.
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chia35 e Arabia Saudita36 – non hanno del tutto chiarito le loro posizioni politiche (GINAMMI,
2014).
E’ plausibile, peraltro, che lo scopo delle organizzazioni terroristiche, dall’attacco al World
Trade Center di New York ai video delle decapitazioni pubblicati dallo Stato Islamico, sia stato
esattamente quello di provocare una dura reazione dei governi occidentali che contribuisse a
radicalizzare la popolazione locale e la spingesse a sostenere i rivoltosi (DYER, 2014). Se fosse
davvero così, la strategia starebbe funzionando al meglio.
L’Is stesso, che pone le sue profonde radici nella risposta sovversiva all’occupazione americana
dell’Iraq, può essere preso a paradigma di questa tesi: quando l’Occidente ha deciso di risponde-
re alla violenza con altra violenza, secondo la logica del taglione, ha involontariamente nutrito il
circolo dell’odio e della rabbia, del senso di rivalsa delle popolazioni attaccate, con i drammatici
effetti che oggi sono sotto gli occhi di tutti (MANNING, 2014).
Per intenderci: che il comportamento dello Stato Islamico sia spregevole è pacifico, ma questo
non significa che la mossa migliore per debellarlo sia bombardare i villaggi dall’alto. Recente-
mente, il «Global Terrorism Index»37 ha fatto luce su alcuni dati chiarificatori: le vittime di atti
terroristici sono aumentate del 61% in un solo anno e quintuplicate dal settembre del 2011, no-
nostante la «guerra al terrore» finanziata con miliardi di dollari dal governo statunitense38; oltre
l’80% delle persone che hanno perso la vita si trovava in aree notoriamente ad alto rischio –
Iraq, Afghanistan, Siria, Nigeria e Pakistan –, e soltanto il 5% viveva nei paesi industrializzati; in
ventiquattro Stati si sono registrate oltre cinquanta perdite, in crescita del 60% rispetto ai quin-
dici dell’anno precedente (questo dimostra che i terroristi, pur avendo allargato il proprio raggio
d’azione, tendono a concentrare gli attacchi piuttosto che a frammentarli); negli ultimi quaranta-
cinque anni molte organizzazioni terroristiche hanno dismesso la loro attività, e solo il 7% è sta-
to sconfitto grazie all’intervento militare.
Questi spunti hanno fatto strada alla ricerca di soluzioni diverse da quella militaristica, tra cui:
contenere la narrativa propagandistica adottata dagli jihadisti per catalizzare proseliti; stabilire
una moratoria internazionale sul pagamento dei riscatti; ridurre progressivamente la spesa di
governo per le operazioni militari all’estero e reinvestirla sulla sicurezza interna; infine, lasciare
che l’Is riesca a instaurare uno stato fallito per dimostrare alla popolazione quanto sia incapace
di governare (MANNING, 2014).
35 Il governo turco ha più volte ribadito la sua volontà di combattere le milizie dello Stato Islamico, an-che se nei fatti si è dimostrato piuttosto renitente ad una vera e propria collaborazione con l’Occidente. Tra le possibili ragioni, i quarantasei ostaggi turchi catturati dagli jihadisti durante la presa di Mosul; la paura di attentati terroristici; e le forti ostilità con i peshmerga curdi, coadiuvati militarmente dagli Stati Uniti.
36 Vari articoli apparsi su giornali come il «New York Times» e il «Sunday Times» tra il 2007 e il 2010 hanno rivelato che i ricchi sauditi sono i principali finanziatori delle reti terroristiche internazionali.
37 http://economicsandpeace.org/wp-content/uploads/2011/09/Terrorism-Index-Report.pdf. 38 V. G. DYER, Il segreto per sconfiggere il terrorismo, cit.
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Conclusione
Mentre ci avviamo alla conclusione di questo lavoro, urge la necessità di fare un – benché
provvisorio – punto della situazione.
Da una parte, lo Stato Islamico ha dimostrato di avere una capacità organizzativa fuori dal co-
mune, costruendo dal nulla un apparato statale insperatamente efficiente. Integrato dalla parte-
cipazione dei «combattenti stranieri», l’esercito jihadista ha conseguito importanti risultati in
rapida serie, a coronamento di una campagna di vero e proprio «imperialismo islamico». Come
se non bastasse, le attività commerciali alimentate dal controllo dei pozzi petroliferi fruttano al
Califfato un business da tre milioni di dollari al giorno, per un patrimonio complessivo che si at-
testa intorno ai due miliardi di dollari.
Dall’altra, l’Occidente riversa in acque non limpide, visti pure il rafforzamento smisurato della
minaccia terroristica e l’indebolimento strutturale di cui sembra soffrire da tempo.
L’inestricabile incoerenza in cui è aggrovigliata la risoluzione n. 2170/2014 e i risvolti di dubbia
legittimità che complicano l’intervento militare in Siria sono solo la punta di un iceberg molto
profondo. Peraltro, il tentativo della coalizione di arrivare ad una strategia condivisa è reso an-
cor più difficile dal fatto che i Paesi limitrofi ai territori contesi hanno la consapevolezza che al
termine delle operazioni militari non potranno semplicemente ritirare le truppe e volare via, ma
resteranno lì. Come conseguenza, la prospettiva di fermare lo Stato Islamico non basta: questi
governi vogliono sapere cosa succederà dopo.
Non si deve, infine, cadere nella trappola di credere che la crisi mediorientale sia dovuta alla
rottura della pacifica coesistenza di due culture – quella cristiana e quella islamica – o che si stia
andando nella direzione di un inevitabile «scontro delle civiltà». Dietro a questa bugia si nascon-
de il perfido piano di rendere ogni musulmano un sospetto; ogni comunità islamica un possibile
nido di terroristi, pronto ad esplodere da un momento all’altro. Per far fronte ad una minaccia
che sta provando a divorare l’Occidente dall’interno, occorre aggrapparsi fermamente ai principi
a cui si ispirano le nostre democrazie.
La posta in gioco è molto più alta di quello che sembra.
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