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la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 NUMERO 503 EMANUELA AUDISIO NEW YORK L CUORE di tenebra si sbriciolò di notte, quaran’anni fa. Cadde a terra, e fece un rumore pazzesco. Quello del secolo. Spazzò via le linee d’ombra sul fiume Congo. Era il 30 ottobre, a Kinshasa, Zaire. Quel cuore diventò più nero e africa- no. Per la prima volta un ring fece meglio e più di Shakespeare: illuminò una tragedia, spiegò uomini e continenti, rivoluzionò sport e società. È passato alla storia come “Rumble in the Jungle”. Ali-Foreman era il campionato del mondo dei pesi massimi. Fu molto di più. Guerra estetica, esistenziali- sta, religiosa (per Norman Mailer). Inno al- la negritudine. Per la prima volta i protago- nisti erano tutti neri: dal paese, all’arbitro, all’organizzatore, ai contendenti, agli spet- tatori. Un total black mai visto. E molto az- zardato per i tempi. Ali, trentadue anni, tor- nato a combattere da quattro stagioni, era lo sfidante. Il titolo non lo aveva perso sul ring, ma gli era stato tolto nel ‘67 per il suo rifiuto ad arruolarsi contro il Vietnam. George Foreman, venticinque, era il cam- pione giovane, imbattuto, e grande favori- to. Aveva uno sguardo torvo che è diventa- to gioviale. Oggi Big George ha sessanta- cinque anni, molte vite, affari, cinque mo- gli, dieci figli, tanti milioni in banca, e una bella circonferenza. Veste da businessman. Ha fatto fortuna vendendo bistecchiere che eliminano il grasso. È sceso dal ring nel ‘97. Con altra fama e rispetto da quando c’era sa- lito. Lui quella notte perse tutto. E non ci era abituato. Quei ventiquattro minuti lo han- no fatto barcollare per vent’anni. E poi gli hanno insegnato a stare di nuovo in piedi. Com’era Kinshasa nel ‘74? «Stavo in albergo, mi allenavo, non an- davo in giro. Ero ignorante: non sapevo fos- se l’ex Congo belga, che la città prima si chiamasse Leopoldville, né che Mobutu avesse preso il potere nel ’65. Ero all’oscuro delle carestie, del fatto che il 65 per cento della popolazione fosse analfabeta. Non ero il solo. Qualcuno provò a mandarmi un pac- co da Washington e l’impiegato chiese: lo Zaire è un’isola nel mar del Giappone?». Spike Lee, il regista, dice che a quei tem- pi dire africano era un insulto. «Be’ non era un complimento. A chiama- re africano un nero rischiavi il pestaggio. I neri erano scimmie che dovevano tornare in Africa, nella foresta. Lo pensavano in molti. Africano equivaleva a primitivo e sel- vaggio. Gli americani avevano il progresso, invece l’Africa era una giungla. A me lì man- cavano soprattutto i miei amati cheesebur- ger. Kinshasa era stata ripulita. Scrissero che Mobutu aveva radunato nel nostro sta- dio i peggiori criminali e ne aveva fatti fuo- ri parecchi. Eliminò anche chi aveva sba- gliato a stampare il suo nome nei biglietti, una o al posto della u, e zac, niente più vita. Don King, l’organizzatore, dovette cam- biare poster pubblicitario. Il primo recita- va: “Dalla nave degli schiavi al mondiale”». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN RICORDO DI RINO TOMMASI Ilreportage. Ilghetto diVarsavia èunmuseo L’anniversario. ANapoli sulleorme diEduardo Spettacoli. SergioLeone inedito:“Così hoinsegnato ilwestern all’America” La copertina. Non dirmi come va a finire Straparlando. Cancogni: “Il successo è nulla” La poesia. La protesta in versi di Sandro Penna Cult “Il giorno più bello della mia vita” Quarant’annidopolostoricoincontro intervistaalcampionechepersetutto “Vidicoperchéquelkomihasalvato” I

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la domenicaDI REPUBBLICADOMENICA 26 OTTOBRE 2014 NUMERO 503

EMANUELA AUDISIO

NEW YORK

L CUORE di tenebra si sbriciolò di notte,quaran’anni fa. Cadde a terra, e fece unrumore pazzesco. Quello del secolo.Spazzò via le linee d’ombra sul fiumeCongo. Era il 30 ottobre, a Kinshasa,

Zaire. Quel cuore diventò più nero e africa-no. Per la prima volta un ring fece meglio epiù di Shakespeare: illuminò una tragedia,spiegò uomini e continenti, rivoluzionòsport e società. È passato alla storia come“Rumble in the Jungle”. Ali-Foreman era ilcampionato del mondo dei pesi massimi. Fumolto di più. Guerra estetica, esistenziali-sta, religiosa (per Norman Mailer). Inno al-la negritudine. Per la prima volta i protago-

nisti erano tutti neri: dal paese, all’arbitro,all’organizzatore, ai contendenti, agli spet-tatori. Un total black mai visto. E molto az-zardato per i tempi. Ali, trentadue anni, tor-nato a combattere da quattro stagioni, eralo sfidante. Il titolo non lo aveva perso sulring, ma gli era stato tolto nel ‘67 per il suorifiuto ad arruolarsi contro il Vietnam.George Foreman, venticinque, era il cam-pione giovane, imbattuto, e grande favori-to. Aveva uno sguardo torvo che è diventa-to gioviale. Oggi Big George ha sessanta-cinque anni, molte vite, affari, cinque mo-gli, dieci figli, tanti milioni in banca, e unabella circonferenza. Veste da businessman.Ha fatto fortuna vendendo bistecchiere cheeliminano il grasso. È sceso dal ring nel ‘97.Con altra fama e rispetto da quando c’era sa-

lito. Lui quella notte perse tutto. E non ci eraabituato. Quei ventiquattro minuti lo han-no fatto barcollare per vent’anni. E poi glihanno insegnato a stare di nuovo in piedi.

Com’era Kinshasa nel ‘74?«Stavo in albergo, mi allenavo, non an-

davo in giro. Ero ignorante: non sapevo fos-se l’ex Congo belga, che la città prima sichiamasse Leopoldville, né che Mobutuavesse preso il potere nel ’65. Ero all’oscurodelle carestie, del fatto che il 65 per centodella popolazione fosse analfabeta. Non eroil solo. Qualcuno provò a mandarmi un pac-co da Washington e l’impiegato chiese: loZaire è un’isola nel mar del Giappone?».

Spike Lee, il regista, dice che a quei tem-pi dire africano era un insulto. «Be’ non era un complimento. A chiama-

re africano un nero rischiavi il pestaggio. Ineri erano scimmie che dovevano tornarein Africa, nella foresta. Lo pensavano inmolti. Africano equivaleva a primitivo e sel-vaggio. Gli americani avevano il progresso,invece l’Africa era una giungla. A me lì man-cavano soprattutto i miei amati cheesebur-ger. Kinshasa era stata ripulita. Scrisseroche Mobutu aveva radunato nel nostro sta-dio i peggiori criminali e ne aveva fatti fuo-ri parecchi. Eliminò anche chi aveva sba-gliato a stampare il suo nome nei biglietti,una o al posto della u, e zac, niente più vita.Don King, l’organizzatore, dovette cam-biare poster pubblicitario. Il primo recita-va: “Dalla nave degli schiavi al mondiale”».

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

CON UN RICORDO DI RINO TOMMASI

Il reportage.Il ghettodi Varsaviaè un museoL’anniversario.A Napolisulle ormedi EduardoSpettacoli.Sergio Leoneinedito: “Cosìho insegnatoil westernall’America”

La copertina. Non dirmi come va a finireStraparlando. Cancogni: “Il successo è nulla”La poesia. La protesta in versi di Sandro PennaCult

“Il giorno più bellodella mia vita”Quarant’anni dopo lo storico incontrointervista al campione che perse tutto“Vi dico perché quel ko mi ha salvato”

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la Repubblica

DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 30LA DOMENICA

<SEGUE DALLA COPERTINA

EMANUELA AUDISIO

EI scese dall’aereo a Kinshasa ac-compagnato da un pastore tedesco.«Era un volo Pan-Am. Il cane si chia-

mava Dago. Viaggiò con me in primaclasse, seduto accanto, me lo permise-ro. Invece quando andai a Kingston, inGiamaica, per l’incontro con Frazier,non me lo fecero portare».

Quei cani non erano un bel ricordo.«Ancora? Hanno scritto che erano i

cani della polizia belga e che la gente neera terrorizzata. Non è vero, Dago gio-

cava con gli africani, nessuno ne aveva paura. E io che avrei do-vuto dire quando Mobutu mi regalò un leone?».

Ali si acclimatava, lei si tuffava nell’aria condizionata. «E che male c’era? Avevo già combattuto in Giamaica, non

al Polo Nord. E da un anno mi svegliavo alle tre del mattino perricreare la stessa situazione del match. In allenamento il miosudore lasciava macchie di due metri sul pavimento. Ali fu piùabile di me: lui sembrava il nero, io il bianco. Eppure il mio staffera nerissimo, il suo invece bianco. Il suo allenatore Dundee ePacheco, il medico, non avevano mica la pelle scura. Io però nonero un bel tipo: sempre scontroso, minaccioso, arrabbiato».

E ai Giochi del ’68 aveva sventolato le bandierine america-ne dopo i pugni neri di Smith e Carlos.«Mi diedero del servo. Avevo appena vinto l’oro e volevo di-

re che amavo il mio paese. Erano anni di contestazione per i di-ritti civili. Giusto e sacrosanto protestare. Ma ci deve essere lalibertà per tutti. E io non ho fatto sport per diventare agitatorepolitico. E nei ghetti i ragazzi non giocano a basket e footballper dare voce alle critiche sociali. Lo fanno per divertirsi, nonper le buone azioni. Non mi pento di quel gesto, anzi ne sven-tolerei sei di bandierine. Ma passare per uno che non ha cono-sciuto povertà e ingiustizie, questo è troppo. Mia madre era so-la, faceva la cuoca per mantenere noi sette figli, al lavoro nongli era permesso mangiare il cibo che cucinava».

Sua madre Nancy gliele dava?«Sì, per farmi rigare dritto. Cinghiate, si sedeva sopra di me

e mi teneva fermo con la lotta. Ero alto e grosso, immobilizzar-mi non era facile. Povera mamma, non voleva bugie. E io nonero uno stinco di santo. A Houston, avevamo un buco a FifthWard, il ghetto che tutti chiamavano Bloody Fifth. Drogati,spacciatori, assassini. Mi ubriacavo, spaccavo vetri e taglieg-giavo chiunque passasse da quelle parti. Non mi servivano ar-

mi. Bastavo io. Il mio idolo era Sonny Liston. Volevo essere co-me lui. Cattivo, sbagliato, spregevole».

Ci è riuscito.«Fino a quella notte. Sono salito sul ring assolutamente con-

vinto di essere invincibile. L’avrei pestato e ammazzato a quel-lo, ne ero sicuro. Mai sfiorato dal dubbio. Avevo appena mas-sacrato Frazier per ko, l’avevo spedito al tappeto sei volte in 275secondi. Ero il campione del mondo. Tanto che quando Ali dis-se che stava raccogliendo soldi per un ospedale risposi di non

preoccuparsi: ce l’avrei mandato io. Ken Norton aveva ap-pena fratturato la mascella di Ali, a me nessuno avevamai fatto male. Lui era vulnerabile, io no».

Ali era musulmano, lei si allenava con i gospel. «Sì, ma non leggevo la Bibbia, anche se l’avevo por-

tata, per me erano solo stupidaggini. Ascolti, ora lecanto What a Friend You Have in Jesus di Aretha

Franklin. Dio, che bella canzone. C’è quella stro-fa che fa: who will all our sorrows share?»

Se la cavava bene anche a cazzotti. «Mi bastava un colpo per abbattere. Un

vandalo con i guantoni. Prepotente e deva-stante. In allenamento sparavo cinquanta pu-

gni al minuto. Per una ripresa di tre minuti fanno centocin-quanta pugni consecutivi. Adesso mi chiederà se quel coro:“Ali, boma ye!”, “Ali uccidilo”, mi ha fatto male dentro. La ve-rità è che non l’ho udito. Allo stadio c’erano cinquantamila per-sone. Io ero come autistico, allora. Però quando lo picchiavocon tutto quello che avevo l’ho sentito sfottermi: “Tuttoqui, George?”. Era la settima ripresa. Io ero stanco, luisfiancato, ma provocava».

Ali invase l’Africa, lei la subì.«All’ottava ho pensato: lo faccio venire avanti, ap-

pena si scopre, lo metto ko. Il suo destro mi ha preso incontropiede, sono finito a gambe all’aria, e quando hosentito l’arbitro dire “otto” era troppo tardi. Ali ha par-lato di strategia. Per me ne aveva solo una: sopravvive-re. Non inseguo più altre interpretazioni. Ali è una per-sona e un uomo straordinario. Il più grande di tutti. Hoperso da un campione immenso. Nel ’96 agli Oscarl’ho aiutato a salire i gradini. È stato un onore, nonuna vendetta per la sua sciagura fisica».

Come fu il suo dopo?«Terribile. Peggio di un funerale. Tutto che

quello che volevo e avevo non c’era più. Esserecampione del mondo era l’unica mia identità eora non ero più nessuno. Ero senza pace. Andai aParigi, provai con il sesso, con le donne. Compraitigri, leoni, ville, sfarzo, ma non funzionò. Tornai acasa per scoprire che anche mio zio e mio cugino miavevano puntato contro. La mia famiglia aveva scom-messo contro di me. L’attore Bob Hope, che prima mi ave-va invitato in molte trasmissioni, fece finta di non conoscermie non mi chiamò più. Mi accorsi di essere inviso. Comprai unaRolls, perché mi seccava rientrare nel mio quartiere senza glo-ria. Ma il colpo più duro me lo diede mia sorella Gloria: “Non tisei accorto che sei diverso da noi?” Le chiesi in che senso. “Nonci assomigli perché il tuo padre biologico è un altro. Si chiamaLeroy Morehood, è un veterano di guerra”. Andai a conoscereil mio vero papà, giusto in tempo prima che morisse».

Non c’è mai stata la rivincita con Ali. «La volevo, eccome se la volevo. L’ho inseguita per anni. Ma

Ali non me l’ha mai data. È il più grande, mica il più matto. Nonsto dicendo che abbia avuto paura, Ali non è quel tipo, e la suastoria lo dimostra, anche se sta male resta un eroe importanteper l’America. Però conveniva che era meglio non affrontar-mi».

Nel ’77 lei ha avuto una visione. «Sì, Dio mi è apparso. In uno spogliatoio di Portorico, avevo

appena perso ai punti con Jimmy Young. La mia testa perdevasangue. Sono morto e risorto. Mi sono messo a baciare tutti sul-la bocca, pensavano che non ci fossi più con la testa ».

Allucinazioni per forte disidratazione, disse il medico. «Dio mi dava la pace e mi indicava la strada. Bisognava ave-

re fede. L’ho avuta e mi sono messo a predicare. Ho venduto laRolls, la villa a Beverly Hills, ho regalato le mie quindici tv, hoaperto una casa per la gioventù, mi sono preso cura dei ragaz-zi. E ho lasciato la boxe. Preferivo il titolo di reverendo».

Dieci anni dopo è tornato sul ring. «A quarantasei anni. Avevo contro tutti. Dicevano che

ero troppo vecchio, lento, grasso. Come un destino al-l’incontrario ho rivissuto il match con Ali, ma stavoltanei suoi panni c’ero io. Invece nel ’94 batto Michael Moo-rer, che poteva essere mio figlio, e divento campionemondiale dei massimi. Venti anni dopo Kinshasa. Indos-savo gli stessi calzoncini di velluto rosso di allora. È stato bel-lissimo. Avevo più grazia, ero meno animale, più consapevole.Come se avessi imparato da Ali a ballare un po’ anch’io. Mi so-no inginocchiato, ho pregato, ho pensato a quella notte africa-na che mi aveva fatto soffrire così tanto. Non esisteva più, tut-to quel dolore per niente. Era stata solo una grande occasioneche io non avevo capito. Se l’avessi fatto, avrei abbracciato Alie gli avrei detto che quella notte era un’alba che ci apriva ungrande futuro. Per questo gli voglio bene. Non è più un nemico.Condannandomi, mi ha fatto rinascere. Non rinnego quel Fo-reman pieno di odio e di rabbia, è un altro me, ma mi trovomeglio ora. Certo, quando vedo i miei figli che non rie-scono nemmeno a pronunciare bene la parola poor,povero, e quando sento che si ritengono tali perchéhanno un solo cellulare, penso che non si rendonoconto della vera miseria in cui sono cresciuto io».

I suoi cinque figli maschi si chiamano George. «Eh sì, anche se hanno soprannomi, c’è sempre

un po’ di confusione quando si pronuncia quelnome. Anni fa scherzando dissi che era più co-modo per quando avrei perso la memoria, inrealtà credo sia dovuto al trauma di aver sa-puto che mio padre era un altro. Voglio chenon abbiano dubbi, è sempre Big George adaverli generati».

L’Africa non ha più avuto una notte così.«Nemmeno io. E forse nemmeno il secolo.

Nella mia carriera ho una sola sconfitta per ko.Quella. In ottantuno incontri sono stato dominatosolo una volta. Quella. È stata la mia salvezza. E vogliofesteggiarla. Chiamerò Ali e gli dirò grazie».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

30 ottobre 1974, a Kinshasa si combatteil più leggendario incontro di boxe mai vistoLo rivive per noi il campione che quella notteandò al tappeto. E che, finalmente, ora ci ride su

La copertina. Intervista aGeorge Foreman

Caro Aliti voglio

bene

L

IL MATCH

DURÒ 24 MINUTI: ALL’OTTAVARIPRESA ALI MANDÒ KO(FOTO GRANDE) FOREMAN(QUI SOTTO OGGI A 65 ANNI)

LA VIGILIA

ALI PASSÒ A KINSHASAUN MESE PRIMA DEL MATCHE PORTÒ TUTTO IL PUBBLICODALLA SUA PARTE

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 31

ERO UN VANDALO, PREPOTENTEE CATTIVO. SONO SALITO SUL RINGASSOLUTAMENTE CONVINTO

DI ESSERE INVINCIBILE.L’AVREI AMMAZZATO, NE ERO SICURO

CI MISI ANNI PER RIPRENDERMI,POI INCONTRAI DIO E CAPIICHE QUELL’ALBA MI AVEVA

APERTO UN GRANDE FUTURO:L’UOMO PIENO DI ODIO NON C’ERA PIÙ

Ancora sentoquel “boma ye”RINO TOMMASI

CAPII subito che

quell’incontro era

destinato a restare nella

storia della boxe. Unico.

Irripetibile. E io di match

ne ho visti fin troppi. Già ritrovarsi alle

quattro di notte al bordo di un ring,

intanto, non era mai successo. L’orario

era stato imposto dalle esigenze

televisive americane, ma non fu

difficile restare all’erta, talmente era

elettrizzante, irreale, l’atmosfera, e

suggestiva la scenografia. Ero

arrivato a Kinshasa un paio di

giorni prima, inviato dalla

Gazzetta dello Sport, se ben

ricordo unico italiano sul posto.

Non era il luogo più accogliente dove

fossi stato. Ovunque campeggiava la

figura del dittatore Mobutu, una

persecuzione.

Mi rimbomba ancora nelle orecchie il

celebre grido “Ali boma ye!”, “Ali

uccidilo”. Allo stadio, che era stato

teatro delle efferatezze del regime,

c’erano quasi centomila persone. Mai

vissute tante emozioni in così pochi

minuti. All’ottava ripresa Foreman fu

atterrato da un destro di Ali, knock out

giusto in tempo. Perché iniziò a venir

giù tanta acqua quanta non ne ho mai

vista in vita mia.

L’autore ha appena scritto

per Gargoyle Muhammad Ali:

l’ultimo campione. Il più grande?

© RIPRODUZIONE RISERVATA

FOTO

GET

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la Repubblica

DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 32LA DOMENICA

VLODEK GOLDKORN

VARSAVIA

L PIÙ IMPORTANTE e costoso progetto culturale della Polonia del dopo comunismo non è unmemoriale della resistenza al regime né un luogo in cui ricordare l’identità cattolica del-la nazione, ma un museo in cui si vuole celebrare ed esaltare la vita degli ebrei del Paese.Strano a dirsi, visto che per decenni il binomio Polonia-ebrei significava, nell’immagina-rio dell’Occidente, i campi di sterminio nazisti, la Shoah, e una dolorosa storia dell’e-sclusione, dell’antisemitismo, dei pogrom. Ma ora tutto cambia ed ecco che nel centro diVarsavia è sorto un edificio in pietra chiara, coperta in larga parte da vetro e con ampiefinestre, con dentro una mostra permanente. Lo scopo: dimostrare quanto gli oltre mil-le anni di esistenza (con alcuni intervalli) dello Stato polacco siano legati alle sorti degliebrei. In altre parole: niente Polonia senza i suoi ebrei e niente ebraismo, compreso quel-lo americano e Israele, senza le sue radici polacche. E anche, come dice il direttore del mu-seo Dariusz Stola, dimostrare quanto il mito di un Paese con una sola etnia e una sola fe-

de, quella cattolica, sia stato un falso storico e una strada pericolosa: da abbandonare e in fretta. L’edificio, progettato dal finlandese Rainer Mahlamäki, è stato ultimato due anni fa. La mo-

stra permanente sarà inaugurata tra due giorni, il 28 ottobre, alla presenza dei presidentidi Polonia e d’Israele. Il palazzo ha forme regolari e riprende le sembianze geometrichedella piazza in cui sorge, intitolata agli eroi del ghetto di Varsavia. La piazza, a sua volta,è uno spazio particolare, denso di storia e emozioni. Si sente la presenza dei fantasmi.Si trova nel quartiere di Muranow, prima delle guerra abitato da trecentomila ebrei,un terzo della popolazione della capitale: artigiani e operai, scrittori e artisti, bot-tegai e disoccupati. Durante la guerra qui si trovava il ghetto, appunto, distruttodopo l’insurrezione del 1943: duecentoventi ragazzi e ragazze che per tre set-timane hanno combattuto le armate di Hitler. Sulle macerie, mai sgombe-rate, vennero costruire nuove strade e palazzi. La piazza centrale è rima-sta vuota: tranne il monumento agli insorti e a tutti i morti, inaugura-to nel 1948 e costruito dalla pietra che doveva servire per erigere unmemoriale a Hitler. Ora, quel vuoto lo riempie il nuovo edificio.

Entrato da un portone di vetro, il visitatore si trova in un am-pio spazio con pareti a forma di onde. In mezzo, una specie dicanyon, sopra cui si vede una stretta passerella, come un pas-saggio sul vuoto della morte (la Shoah), o forse un’allu-sione alla leggenda dell’attraversamento del Mar Ros-so. Marian Turski è un signore ottantottenne. Ex pri-gioniero di Auschwitz, si è adoperato moltissimoperché questo museo sorgesse. Racconta come ilprogetto fosse nato nei primi anni Novanta. Oc-correva trovare i fondi per questa gigantescaimpresa che mette in ombra il pur bello eimportante museo ebraico di Berlino diDaniel Libeskind. Si dice soddisfatto

perché lo Stato polacco e la città di Varsavia han-no contribuito con oltre ventidue milioni di eu-ro, mentre i donatori privati, soprattutto ebreiamericani, hanno sborsato quarantacinque mi-lioni di euro. Dice Turski: «A differenza di Mosè,cui Dio ha impedito di entrare nella Terra pro-messa, io il mio sogno lo vedo realizzato». E tut-tavia, guardando la mostra, curata da studiosi

di tutto il mondo sotto la guida della canade-se Barbara Kirshenblatt-Gimblett («da

sette anni vivo in Polonia e sono feli-ce»), e dove un grande contributo è

stato dato da Jerzy Halbersztadt,il primo responsabile del pro-

getto, si ha l’impressioneche la Polonia non fosse

una specie di Egitto pergli ebrei. Niente

schiavitù né catti-vità, ma ap-

punto unavita e un

futuro:

VarsaviaIlghetto

in unmuseo

Il reportage. Visite guidate

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ICZK

O

IUna grande

piazza vuotaera rimasta a ricordare

che qui prima del nazismoc’era il quartiere ebraico

Ora un palazzo di vetroracconta una lunga storia

Fatta non solo di Shoah

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la Repubblica

DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 33

interrotto dal cataclisma della Shoah, ma nonabbandonato. Come commenta il direttore Sto-la, «la Shoah non era l’inevitabile conclusionedella storia».Le gallerie che illustrano, anzi riproducono, l’e-sistenza degli ebrei polacchi sono otto. Si co-mincia con un mito. Si entra in un bosco e si sen-te il cinguettio degli uccelli. È il luogo in cui arri-vano gli ebrei e trovano pace e armonia. Dicono:«Po lin», in ebraico «qui riposerò». E Polin è il no-me in ebraico della Polonia e del museo. La gal-leria dedicata al Medioevo dimostra quanto lasovranità statuale dei primi principi fosse lega-ta agli ebrei: sulle prime monete d’argento po-lacche il nome del regnante è scritto in caratte-ri ebraici. Il Paese è considerato Paradisus Ju-deaorum, il paradiso degli ebrei. Nel Cinque-cento sono garantiti loro non solo i diritti reli-giosi, gli ebrei si autogovernano con una Dietaformata da rappresentanti di tutto il Paese.Hanno anche una lingua, lo yiddish, e a Craco-via nasce una delle prime tipografie che in quel-l’idioma stampa libri. Il lento tramonto delloStato, nel Settecento, significa diminuzione deidiritti. Si accenna a come l’immaginario ebrai-co sia legato al folklore. È stato ricostruito ma-gnificamente il soffitto della sinagoga in legnodi Gwozdz, settecentesca e bruciata dai tede-schi oltre settant’anni fa. I colori, i motivi flo-reali e gli animali veri e mitici sono gli stessi usa-ti dai vicini di casa cristiani. Prova di come sia fal-sa l’idea che gli ebrei non creassero immagini.

La parte più bella e significativa riguardal’impatto con la modernità. Imprenditori ebrei

costruiscono fabbriche e ferrovie. Nasconopartiti politici degli ebrei: dai sionisti ai so-

cialisti del Bund che propagano la lin-gua yiddish e che si battono per una

Polonia democratica. Vengonofondati sindacati ebraici, asso-

ciazioni culturali, sportive eturistiche, c’è una rete di

scuole e sanatori per

ESTERNI

L’EDIFICIO PROGETTATODALL’ARCHITETTOFINLANDESE RAINERMAHLAMÄKI CHE OSPITA IL MUSEO EBRAICO DELLA CAPITALE POLACCA

bambini malati; c’è un’industria di cinema inyiddish, e case editrici e riviste letterarie all’a-vanguardia. La cultura popolare (non soloebraica) della Polonia tra le due guerre è domi-nata da ebrei: da poeti, chansonnier e registiche abbandonano lo yiddish per usare il polac-co e sentirsi polacchi. Peccato che a ricordar lo-ro di non fare parte della Polonia, anzi di conta-minare “lo spirito polacco cattolico”, siano i par-titi antisemiti, sempre più forti. È coraggiosa laparte dedicata alla Shoah. Le foto scattate daitedeschi degli ebrei umiliati mentre i nazisti glitagliano la barba, sono piccole e in basso. Oc-corre chinarsi, rendere onore alle vittime pervederle. E ancora, esistono foto, scattate dai na-zisti, delle esecuzioni nei boschi di Ponar: don-ne nude prima di morire. Quelle immagini in al-tri musei sono gigantografie: Shoah come por-nografia e kitsch. Qui sono minuscole, nascostetra i pali che simboleggiano gli alberi della fore-sta; s’intravedono appena, un gesto di rispettoe pietas. Non vengono nascosti i pogrom perpe-tuati dalla popolazione polacca ai danni dei su-perstiti, dopo la guerra, né il clamoroso caso diun villaggio, Jedwabne, dove nel ’41 gli abitan-ti polacchi bruciarono vivi i vicini di casa ebrei.

Oggi cosa rimane? Circa diecimila dei tre mi-lioni di ebrei d’anteguerra. E poi il museo, per ri-leggere la storia, guardare il futuro e dare basisolide alla giovane democrazia. Riuscirà? Pocolontano dal museo c’è un edificio sulla cui fac-ciata era dipinto un murale che celebrava Ma-rek Edelman, eroe dell’insurrezione nel ghettoe della lotta per la democrazia ai tempi del co-munismo. È stato distrutto mentre reintonaca-vano la facciata. Un’anziana signora si lamentache sulla stessa facciata ci sia già un nuovo graf-fito. «Vandali», esclama. Quando sente che an-che la distruzione del murale è stato un atto divandalismo risponde: «Invece hanno fatto be-ne. Noi polacchi abbiamo i nostri eroi. Edelmanse lo appendano lì, nel ghetto».

INTERNI

QUI SOPRA, UNA DELLE OTTO GALLERIECHE RACCONTANO LA STORIA

DEGLI EBREI POLACCHI: SULLA SCALA I NOMI DELLE STRADE DEL QUARTIERE

EBRAICO DI VARSAVIA RASO AL SUOLO DAI NAZISTI. ACCANTO, LA RICOSTRUZIONE

DEL SOFFITTO DELLA SINAGOGASETTECENTESCA DI GWOZDZ

E, SOTTO, ALL’INGRESSO, LE PARETI A FORMA DI ONDE. A DESTRA, UNA SALA

RICOSTRUISCE IL GHETTO. LA MOSTRA PERMANENTE

VERRÀ INAUGURATA MARTEDÌ 28 OTTOBRE

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 34LA DOMENICA

L’anniversario. 1984-2014

ANGELO CAROTENUTO

NAPOLI

LA CASA NATALEÈ UN mistero da sciogliere. Quartiere Chiaia, dove a inizio ‘900

s’incrociavano Benedetto Croce e Giustino Fortunato, oggi la zonade “i baretti”, un groviglio di stradine in cui si celebra la movida deirampolli della borghesia. Un indirizzo certo manca. Nella biogra-fia firmata da Federico Frascani (Guida, 1974) si cita via Bausan,corridoio verso la Villa comunale. Ma al civico 13 si rintraccia solola finestra di un palazzone. Pietro Di Domenico, corniciaio, erededi tre generazioni di artigiani, nella sua bottega di fronte ignora l’e-ventualità. «Sapevo al 28», dice. Ma al 28 all’epoca doveva esserciuna scuola. Il vicolo si industria nelle ricerche: «Dove sta ‘a casa d’E-duardo? Dotto’, ma Eduardo è mmuorto…». Nella autobiografia diPeppino si fa invece riferimento a un appartamento nella stradaparallela, in via Ascensione, al numero 3. Un portone anonimo.Semmai la sorpresa è un centinaio di metri più avanti, al civico 8,dove una targa ricorda la nascita di Peppino. Eduardo? Nulla.

LA CASA DEL PADRELa residenza di Eduardo Scarpetta, padre naturale di De Filip-

po, non è distante. Via Vittoria Colonna 4, da lì ogni giorno un cuo-co portava il pranzo alla seconda famiglia. Racconta Maria Basile,attrice, moglie di Mario Scarpetta, pronipote del capostipite. «Hol’impressione che non ci sia consapevolezza che questo sia un po-sto speciale». Nell’atrio tre statue: rappresentano i personaggi del-la commedia Na Santarella, con i cui proventi fu costruito il palaz-zo. Il suo appartamento era il solo con la balconata. Al primo piano,in una casa laterale, un affresco al soffitto ritrae il padre di Eduar-do con Pulcinella e Arlecchino. I nuovi proprietari, residenti lì daun paio d’anni, aprono la porta di casa a chi vuole vederlo.

IL COLLEGIOQuartiere Sanità. A undici anni Eduardo frequentava l’istituto

del professor Alfonso Chierchia. Era accaduto che Titina fosse sta-ta scritturata stabilmente dalla compagnia Scarpetta, mammaLuisella lasciò gli altri figli in collegio per seguirla. Via Misericor-diella 26. Giorgio Angelo, nella sua enoteca, indica una possibiletestimone in Raffaelina Di Manzo, novantuno anni, per settanta alsuo posto nella frutteria del vicolo. Ricorda frati e monaci del colle-gio. Due ottantenni azzardano: «Andava a sentire i comizi in piaz-za Cavour». Al posto del collegio oggi c’è una palestra. Dall’istitutoEduardo riuscì a scappare dopo diversi tentativi: spiò le abitudinidell’accompagnatore e fuggì a bordo di un tram.

LA CULLA DEI CAPOLAVORIDue chilometri in salita, tornanti, un’ottantina di scalini. Parco

Grifeo 53 è incastrato in uno spuntone di roccia. Nel ‘44 Eduardocompra casa, qui mette al mondo due delle sue battute più note:“Adda passà ‘a nuttata” (Napoli milionaria) e “’E figlie so’ ffiglie”(Filumena Marturano). Compone Questi fantasmi!. La signora

CAMMINANDO sulle orme di Eduardo,

trent’anni dopo la morte, ci si accorge

che i suoi luoghi a Napoli sono quasi tutti

in cima a una salita, involontaria metafo-

ra del rapporto con la città. Le tracce del

suo passaggio sono nascoste, affidate più alla memoria

popolare che alle istituzioni. Un impasto di leggenda e

amore per l’uomo che si faceva chiamare solo con il no-

me, «come un re», diceva, «o come un parrucchiere».

LE INIZIATIVE

DAL 29 OTTOBRE AL SAN FERDINANDO DI NAPOLI VA IN SCENA “LE VOCI DI DENTRO” PER LA REGIA DI TONISERVILLO (FORSE DIRETTATV IL 31 SU RAIUNO PER LA REGIA DI PAOLOSORRENTINO). INOLTREDAL 31 OTTOBRE RAI5MANDERÀ IN ONDA TUTTE LE COMMEDIE DI EDUARDO. E SEMPRE IL 31, AL SUOR ORSOLABENINCASA, IL CONVEGNO“L’ANTROPOLOGIA DI EDUARDO”

Franzoni, novantasei anni a dicembre, riferisce che a piano terra,nel primo appartamento lungo il corridoio, sulla destra, «Eduardoviveva con una donna e un vecchietto». La prima lettura di Filu-mena, ad amici intimi, si tenne qui, nella casa oggi abitata dall’ar-chitetto Lorenzo Capobianco. Sua madre, la signora Mirella, ricor-da che negli anni ‘70 il sindaco comunista Valenzi, amico di Eduar-do, voleva sistemare almeno una targa. Non se ne fece nulla. Nelpalazzo pare che girasse una maldicenza: che a scrivere le comme-die fosse il misterioso vecchietto. Storia a suo modo eduardiana.

IL VICOLO DI FILUMENA MARTURANO“Dove non c’è luce a mezzogiorno”. Era la descrizione del vico san

Liborio nel ‘46, ai piedi dei Quartieri spagnoli, dove Eduardo collo-ca la casa della sua Filumena. Molti bassi sono stati ristrutturaticon il progetto di riqualificazione Urban. Per il popolo del vicolo, Fi-lumena non è mai stata fantasia. Esisteva davvero. Ne è certa don-na Antonietta Musella, seduta in strada al basso numero 85. «Era‘na guagliona di diciassette anni. La commedia racconta la sua sto-ria vera. Sentite a me: durante la guerra, la figlia era ammalata, al-lora lei faceva la borsa nera…». Poco importa che si stia confon-dendo con la trama di Napoli Milionaria. Il vicolo ha deciso: «Lei abi-tava là». All’80. Un deposito quasi sempre chiuso. Sul fianco sini-stro un’edicola votiva vuota. «Era qui che Filumena veniva a pre-gare la Madonna delle Rose». Panni stesi, la luce a mezzogiorno nonè aumentata. I bassi sono in affitto fra i 200 e i 500 euro al mese.L’insegna della sezione Lenin dei Comunisti italiani si mescola aquelle di un centro estetico, un discount di cingalesi, l’Azione cat-tolica. Nessuna targa. La casa di Montalbano in Sicilia e il balconedi Giulietta a Verona sono calamite per turisti.

ISTITUTO MINORILE FILANGIERIEduardo aveva a cuore i piccoli detenuti, i ragazzi finiti fuori stra-

da. A salita Pontecorvo 44, nel complesso di san Francesco delleCappuccinelle, andava in visita a parlare di vita e di teatro. Da se-natore si batté per la ristrutturazione dell’edificio, oggi abbando-nato. L’eredità della lezione di Eduardo è raccolta ai piedi della sca-linata dalla scuola “Foscolo-Oberdan”: progetti per la legalità. Di-ce il vice preside Antonio Curto: «Vorrei essere un muratore, co-struisce una parete e la vede finita. Noi educatori raramente sap-piamo cosa diventeranno i nostri ragazzi, se fra vent’anni sarannoo no un muro dritto».

IL SUO TEATROL’unico punto di Napoli pieno di Eduardo è questo, nella piaz-

zetta che porta il suo nome, davanti al teatro San Ferdinando checomprò nel ‘48 e nel quale per anni investì i suoi guadagni. Chiusonegli anni ‘80, oggi è di proprietà del Comune, sede dello Stabile diNapoli. Jorit Agoch, ventiquattro anni, graffitaro apprezzato an-che all’estero, in nove giorni ha riprodotto cinque primi piani diEduardo sulle saracinesche, usando bombolette spray. Sono quat-tro dei volti tratti dalle commedie più amate, spiega Jorit, più il vol-to di Eduardo uomo. La mano del popolo, ancora una volta.

CercandoEduardo

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 35

Luca De Filippo.Sorrideva, ma bravonon me lo disse mai

ANNA BANDETTINI

ROMAON è una solo coincidenza: al Teatro Diana diNapoli il 31 ottobre del 1984 aveva ricevutola notizia della morte di Eduardo mentrerecitava Chi è cchiù felice ‘ e me, e lì, conun’altra farsa eduardiana, Sogno di una

notte di mezza sbornia, recita in questi giorni. «Trent’annifa la notizia arrivò nell’intervallo. Non dissi niente anessuno, finii lo spettacolo, poi parlai alla compagnia.Quest’anno, dopo la cerimonia ufficiale in Senato, il 31 hoscelto però di stare per conto mio. Solo quella sera, nonreciterò», dice Luca De Filippo, sessantasei anni, attore eregista, sempre più simile al padre. Nel nordico riserbo,nel sorriso amaro, nella schiena dritta.

Cosa sono stati questi trent’anni senza Eduardo?«Per il teatro, trent’anni passati inutilmente. Perché si èfatto mettere ai margini della vita culturale senzaribellarsi. Per Eduardo il teatro era “un servizio sociale;anche quando è intrattenimento — diceva — o serve percrescere o è inutile, fesso”. Tutti i suoi testi parlano allecoscienze. Filumena Marturano portò al riconoscimentodei figli fuori dal matrimonio».

E per lei?«La morte di Eduardo è stata la morte di un padre. Undolore. Ma non c’è mai stato un distacco totale. È come seuna parte di lui fosse rimasta in me: gli anni diinsegnamenti, di convivenza noi due soli, dopo che miamadre, Thea Prandi, e mia sorella Luisella morirono adistanza di poco tempo l’una dall’altra. Nel ‘60 e ‘61. Ioavevo dodici anni, Eduardo era già un uomo anziano. La

nostra fu anche una convivenza gradevole. Lui era ungrande umorista, quando voleva. Certo, c’erano anchelunghi silenzi tra noi. E poi c’era il teatro. Finito il liceo, miaveva detto “prova un anno”. Ho finito per lavorare con luidal ‘69 all’80, e dopo per altri due, tre anni, lui fece le regiedei miei spettacoli. Ma già a sette anni avevo recitatoPeppiniello in Miseria e nobiltà di mio nonno EduardoScarpetta. Quando restammo soli mi portava allepomeridiane e mi scriveva delle particine per tenermi consé in scena. Ricordo per esempio un Sabato domenica elunedì. Nel primo atto portavo la spesa a Donna Rosa chepreparava il ragù. Lei mi domandava come distinguevo lediverse liste di cibo sul foglio se non sapevo leggere. Lamia battuta era: “Faccio i disegni: Donna Rosa un fiore, ilsignore accanto le corna perché sua moglie lo tradisce... “.Cose così, di cui non è rimasta traccia nei testi ufficiali».

Le metteva soggezione Eduardo?«A teatro? Non ha mai alzato la voce con me. Ma in veritàneanche mi ha mai detto “bravo”».

E le spiace?«Non era nel suo stile. Però l’ultimo anno che recitò,nell’80, quando giravamo con Sik Sik l’artefice magico, iofacevo la parte del palo: certe sere mi inventavo deimovimenti lì per lì e vedevo che lui rideva in scena».

È difficile vivere con l’ombra eterna di un padre così?«Non ho fantasmi di cui liberarmi. Con Eduardo abbiamoavuto le nostre litigate. Ma averlo avuto accanto è stato unprivilegio di cui sono orgoglioso, come lo sono diappartenere a una famiglia che fa teatro da tregenerazioni».

È riuscito a distinguere il padre dall’artista?«Assolutamente sì. Eduardo era un padre anziano, conproblemi di salute... aveva bisogno di me, in un certosenso. Come artista, quando sono entrato nella suacompagnia, era già un maestro che godevadel rispetto di tutti. Alle prove non misarei mai sognato di mettere indiscussione una sua frase».

Una frase di Eduardo che si porta nella memoria?

«”Luca metti il cappello”. Ogni voltache uscivo».

John Turturro.Ci sarà una Filumenaanche a New York

MARINO NIOLA

NAPOLI

AVEVA perso sua madre da poco. «Ilsuo spirito aleggiava nell’aria.Per me era un momento tenero edolente. L’abbraccio del pubblicodel glorioso Mercadante lo rese

unico». È sinceramente ancora emozionatoJohn Turturro quando parla del suo incontro

con il teatro di Eduardo. Era il 2005 e lo Stabiledi Napoli ospitò Souls of Naples, la versione

americana di Questi Fantasmi!. All’attoreprediletto dei fratelli Cohen toccò la parte di

Pasquale Lojacono.Come ti sei preparato a interpretare quel ruolo in-

delebilmente legato al corpo e alla maschera diEduardo?

«Come se si fosse trattato di un testo totalmentenuovo, ambientato in un mondo del quale dovevoimparare tutto. Il testo l’avevo avuto da FrancescoRosi che avevo frequentato a lungo quando lavoraicon lui ne La tregua. Francesco era convinto chequesta commedia fosse fatta apposta per me».

Il tuo Pasquale Lojacono è meno malinconico e più iro-nico di quello di Eduardo. In realtà fai affiorare un al-tro Eduardo

«Non ho voluto vedere troppe interpretazioni delMaestro. Perché quello è il suo teatro e non ha moltosenso clonarlo. Ma questo non mi ha impedito dicoglierne la grandezza».

La presenza scenica di Eduardo è una leggenda delteatro. Ma anche tu buchi lo schermo e riempi la sce-

na alla grande. C’è qualcosa in comune tra voi?«Ti riferisci alla scena del caffè? In quel monologo DeFilippo è semplicemente immenso. Tutto quello chepotevo fare e che ho cercato di fare era di rendere la miainterpretazione più autentica possibile. Sai, lui l’hascritta, l’ha vissuta, l’ha interpretata. Ma quando, comein questo caso, un testo è davvero denso, allora sì chepuò finire nelle mani di un altro attore e vivere unanuova vita. Succede la stessa cosa se si interpretaCechov tradotto in un’altra lingua».

Quale delle sue commedie ami di più?«Sono quasi tutte meravigliose. E molto diverse fra loro.Trovo splendida Napoli milionaria e credo che negli Usanon sia mai stata messa in scena con un grande cast,come meriterebbe. Anche La grande magia èstraordinaria».

Fatta apposta per John Turturro?«Sarebbe bellissimo».

Cos’è che ammiri di più nella sua attorialità. Il rigore, l’im-provvisazione, il linguaggio del corpo?

«La sua assoluta semplicità. Che va dritta al cuore e allamente dello spettatore. E poi amo la sua profondità e altempo stesso la sua ironia. Se poi vogliamo parlare delsuo corpo, quello era davvero unico. E i suoi movimenti?Lame di rasoio».

Capolavori come Filumena Marturanoo il Sindaco del Rio-ne Sanità parlano un linguaggio solo locale o universale?

«Eduardo è un artista profondamente intriso di umorilocali e proprio per questo il suo teatro è assolutamenteuniversale. Perché è proprio dal radicamento in un luogoe in una cultura specifica che può scoccare la scintilla cherende un dramma o un personaggio universali».

Pensi allora che se Eduardo fosse nato altrove non sarebbestato lui?

«Eduardo è Napoli e Napoli è Eduardo. Se fossenato altrove sarebbe stato un artista. Diverso,ma comunque sarebbe stato un artista».

Quale eredità ha lasciato ad attori come te?«Quella di raccontare storie che parlino allepersone, che ci aiutino a daresignificato alla vita e a capirci gliuni con gli altri. Perché siamotutti sulla stessa barca».

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 36LA DOMENICA

Spettacoli.Su la testaC’ERA UNA VOLTA IL WEST

C’era una volta Sergio Leone

CHRISTOPHER FRAYLING

UESTA intervista è sta-ta fatta al DorchesterHotel di Londra unasera di febbraio del1982. Sergio Leonemi aveva telefonatoquel giorno ringra-ziandomi per le ricer-che dedicate al padreVincenzo che avevopubblicato nel libroSpaghetti Westerns.

Molti critici stanno prendendo sul serio i suoifilm, soprattutto C’era una volta il West. Prima,però, hanno maltrattato a lungo la sua opera.«Sui giornali m’hanno sempre accusato di co-

piare i western americani. I critici hanno scrittopoi che cercavo di creare una specie di “cinema cri-tico”. Si sbagliavano. Io ho dato al western alcuneprecise convenzioni mie personali che non inclu-devano imitazioni di quello americano. Alle miespalle ovviamente c’è una cultura di cui non possosbarazzarmi. Non posso neppure negarla. Peresempio, respiriamo quotidianamente il cattoli-cesimo anche senza crederci. Ciò traspare forse incerti aspetti dei miei film. È nell’aria. Inoltre ,quan-do faccio un western, ho delle cose da dire. Mentrepreparavo Per un pugno di dollari, il mio primo we-stern, mi sentivo in un certo senso come WilliamShakespeare. Ho scoperto che avrebbe potuto scri-vere ottimi western!».

Perché Shakespeare?«Perché ha scritto alcuni grandi drammi italia-

ni senza aver mai visitato l’Italia e assai meglio de-gli stessi italiani. A ogni modo, quanto indietro neltempo vogliamo spingerci? Personalmente sonoconvinto che il più grande scrittore di western siastato Omero. Ha scritto storie favolose sulle vicen-de di singoli eroi come Achille, Aiace, Agamenno-ne, tutti prototipi per i personaggi interpretati daGary Cooper, Burt Lancaster, Jimmy Stewart eJohn Wayne. Le storie di Omero sono dei prototipiper tutti gli altri temi western: battaglie, conflittipersonali, guerrieri e famiglie, lunghi viaggi. E in-cidentalmente ha creato anche i primi cowboy. Gli

eroi greci basavano le loro vite sull’abilità nel ma-neggiare lancia e spada, mentre i cowboy si affi-davano per sopravvivere all’estrazione rapida del-la pistola. In fondo è un po’ la stessa cosa. Sonograndi miti sull’individualismo. Il guerriero. Il pi-stolero. Nei miei film poi le donne tendono ad ave-re un ruolo poco rilevante perché i miei eroi nonhanno tempo per innamorarsi o per far loro la cor-te. Sono troppo impegnati a tentare di sopravvi-vere. I ruoli femminili nei western di solito tendo-no a essere ridicoli. È tutt’altra cosa se invece il per-sonaggio femminile è al centro del film, come Clau-dia Cardinale in C’era una volta il West. In defini-

tiva, credo d’essere riuscito ad accostarmi al we-stern con distacco, da un punto di vista europeo,pur restando un appassionato del genere».

In alcune interviste ha citato tra le fonti italia-ne dei suoi film le tradizioni dei pupi siciliani. «Già, quando ho iniziato a girare il mio primo

western dovevo cercarmi delle motivazioni psico-logiche, non avendo mai vissuto in quel contesto.E mi è venuta in mente una cosa. Era come fare ilmarionettista dei pupi siciliani. Gli attori vanno ingiro su dei carretti e interpretano spettacoli tra lostorico e il leggendario basandosi sulla Chanson deRoland. L’arte del marionettista consiste nel darea ciascun personaggio una dimensione specialeche coinvolga quel particolare villaggio ove si tro-vano. Adattano la leggenda al posto in cui si trova-no in quel momento. Per esempio, Rolando incar-na difetti e virtù del sindaco locale. È l’eroe positi-vo della storia. Il suo nemico, il cattivo, magari èrappresentato dal droghiere locale. Da registaavevo il compito di fare favole per adulti e mi sen-tivo come un marionettista con i pupi. Allo stessomodo i marionettisti rendevano più interessantile storie per gli spettatori locali aggiungendo a unpersonaggio poco noto al pubblico le caratteristi-che d’un vero abitante del posto. È ciò che ho cer-cato di fare io con il western».

“Favole per adulti”: cosa intende?«Sono film per adulti ma restano favole e hanno

l’impatto delle favole. Il cinema per me vuol direl’immaginario, e l’immaginario si comunica me-

glio sotto forma di parabola, cioè di favola. Manon nel senso inteso da Walt Disney. Le sue at-traevano in quanto favole interamente inven-

tate, pulite e zuccherose, il che rende le favo-le meno suggestive. Secondo me le favole

catturano l’immaginario del pubblicoquando sono ambientate nella realtàanziché nella fantasia. La fusione traambienti realistici e storie fantastichepuò dare al film un senso mitico, leg-gendario. C’era una volta...».

Lei ha collegato i suoi film, in partico-lare Il buono, il brutto, il cattivo, alla

tradizione letteraria picaresca, a libricome il Don Chisciotte.«Nei film d’avventure, e specialmente

nei western seri, i registi hanno paura di lasciareche uno spirito picaresco s’intrometta in avventu-re tragiche. Ma il genere picaresco non appartieneesclusivamente alla letteratura spagnola. Vi è l’e-quivalente in Italia. Il picaresco e la commedia del-l’arte — una tradizione teatrale italiana — hannomolte cose in comune. Non hanno veri eroi rap-presentati da un unico personaggio. Prenda Ar-lecchino nelle commedie di Goldoni: serve due pa-droni ed è un imbroglione. Si vende a un padronee poi all’altro senza che i due lo sappiano. Non è un“vero eroe”. Idem Clint Eastwood ne Il buono, ilbrutto, il cattivo. Il mio retroterra, la mia forma-zione, contengono aspetti che mi hanno influen-zato e che non hanno nulla a che fare con il we-stern».

A proposito di Eastwood: come l’ha scoperto«Di Clint mi hanno affascinato la sua figura e la

sua personalità. L’avevo visto in un telefilm dellaserie Rawhide e l’ho preso perché all’epoca JamesCoburn costava troppo. Guardando Incident of theBlack Sheepho notato che Clint parlava poco, peròho notato anche il modo pigro, distaccato con cuientrava in scena e senza alcuno sforzo rubava ogniinquadratura a Eric Fleming. Quando abbiamo la-vorato assieme era come un serpente, andava a fa-re un pisolino a cento metri di distanza, arrotolan-dosi sul retro d’un auto o sul set. Poi si svegliava sro-tolandosi e stendendo le braccia. Mescolando que-sto atteggiamento con le esplosioni e la velocità de-gli spari si ottiene quel contrasto essenziale che ciha apportato. Così abbiamo costruito il personag-gio via via, anche a livello fisico, mettendogli la bar-ba e il piccolo sigaro in bocca che non fumava mai.Quando gli è stato offerto il secondo film, Per qual-che dollaro in più, mi ha detto: “Leggerò la sce-neggiatura, verrò a fare il film, ma per favore, tisupplico, una sola cosa: non mettermi di nuovo ilsigaro in bocca!”. E io: “Clint, non possiamo lasciarperdere il sigaro, il protagonista è lui!”».

Perché ha deciso d’adottare uno stile cinema-tografico diverso per C’era una volta il West?«Il ritmo del film doveva creare il senso degli ul-

timi respiri d’una persona che stamorendo. Una danza di morte dal-l’inizio alla fine. Tutti i perso-naggi del film tranne Claudia

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 37

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA GIÙ LA TESTA

LE IMMAGINI

SERGIO LEONEINSEGNA SUL SETAI SUOI ATTORICOME INTERPRETARELE SCENE. LE FOTODI ANGELO NOVISONO ESPOSTENELLA MOSTRA “C’ERAUNA VOLTA IN ITALIA”AL MUSEO DEL CINEMADI TORINOFINO AL 6 GENNAIO. LA FOTO GRANDE È TRATTA DA “C’ERAUNA VOLTA IL WEST”

IL LIBRO

LE FOTO E IL BRANODELL’INTERVISTAQUI PUBBLICATISONO TRATTIDA “C’ERA UNA VOLTAIN ITALIA. IL CINEMADI SERGIO LEONE”DI CHRISTOPHERFRAYLING, IN LIBRERIADAL 29 OTTOBREPER LE EDIZIONICINETECA BOLOGNA(224 PAGINE, 29 EURO)

sanno che non giungeranno vivi al finale. E io vo-levo che il pubblico s’immedesimasse per tre orecon i personaggi che vivevano e morivano, comese avessero passato dieci giorni con loro. Il ritmo —tempi brevi, tempi lunghi — è come l’ultimo re-spiro. Lo stile era in un certo senso una reazione.Volevo fare un film per me stesso anziché per ilpubblico. Ricordo bene che, quando è uscito a Ro-ma, un fruttivendolo che lavorava vicino a PiazzaVenezia è venuto a dirmi: “Leone è impazzito, nonriesce più a dire una cosa in modo diretto. L’Ame-rica deve averle fatto un pessimo effetto!”».

Qual è stata la sua influenza sul western ame-ricano?«Sam Peckinpah mi ha detto che Il mucchio sel-

vaggio non sarebbe stato possibile senza i mieifilm. Fino a un certo momento i western sono sta-ti una specie di gioco infantile, i personaggi mori-vano cadendo in avanti invece d’essere spinti al-l’indietro. Le pallottole li penetravano senza la-sciare traccia. Credo che Per un pugno di dollariab-bia introdotto una svolta nella rappresentazionedella violenza, e che abbia introdotto una forma di

realismo che adesso si può usare in questi film. Iproduttori in passato non pensavano che si po-

tesse farlo. In questo senso i miei film non han-no influenzato solo i western ma anche altrifilm. Stanley Kubrick non avrebbe fattoArancia meccanica senza questa svolta.Non solo riguardo alla violenza ma ancheriguardo al coltivare il verismo per rac-contare una favola. Mentre stava prepa-rando Barry LyndonKubrick mi telefonò:“Ho tutti gli album di Ennio Morricone.Mi spiega perché mi piacciono solo le mu-siche che ha composto per i suoi film?”. Glirisposi: “Non si preoccupi. Io non conside-

ravo granché Richard Strauss finché nonho visto 2001 Odissea nello spazio”».Credo che C’era una volta il Westsia stato il

film che ha avuto l’impatto maggiore sullagenerazione anni Settanta di Hollywood...«Forse. Hanno ambientato i loro film nel fu-

turo ma tanti erano veri western. Quando hovisto, ad esempio, la sequenza iniziale di In-contri ravvicinati del terzo tipo di StevenSpielberg ho pensato: “È girata da Sergio

Leone”. La polvere, il vento, il deserto, le pianure,improvvisamente le note per archi nella colonnasonora. Anche Fuga da New York di John Carpen-ter dicono sia stato influenzato dai miei primi we-stern. George Lucas mi ha detto che si era conti-nuamente riferito alla musica e alle immagini diC’era una volta il West montando Guerre stellari,che era un vero western — di serie B — situato nel-lo Spazio. Tutti quei giovani registi di Hollywood,Lucas, Spielberg, Scorsese, Carpenter, hannodetto di sentirsi in debito nei riguardi di C’era unavolta il West. Forse gli è piaciuto perché è davverol’opera di un regista. Però nessuno di loro ha ten-tato di fare un western che sia un western. Alcunifanno film evidentemente americani ma conun’ottica europea. Questa contaminazione haprodotto risultati eccellenti. Ammiro in partico-lare i film di Spielberg, assai più significativi diquanto appaiono».

Ha mai avuto la tentazione di fare un film sul-l’Italia ambientato nel presente?«A me piace fare film spettacolari. Pur essendo

una grande nazione di alto profilo, purtroppo l’I-talia non offre granché in termini internazionali.Uno dei motivi che mi hanno spinto a fare westernera perché fanno parte d’una tradizione perdutadagli stessi americani. Adesso appartiene a noitutti. Il western è un bene di consumo in Giappo-ne, Nigeria, Colombia, Inghilterra, Italia, Germa-nia e Francia, un po’ ovunque. Appartiene al mon-do. Ma d’altra parte l’Italia ha un grosso problema.Prenda ad esempio un bel film come Il gattopardodi Visconti. È incomprensibile in America. Viscon-ti ha fatto un lavoro meraviglioso ma è stato un flopin America. Purtroppo, quando si scrive una storiasull’Italia riguarda solo l’Italia. In America invece,anche nella città più piccola, si può scrivere delmondo. Perché? Perché è un agglomerato di tuttele altre comunità. In America si può trovare il mon-do. Voglio dire il mondo con tutti i suoi usi, difettie punti di forza. Come europeo, più conosco l’A-merica e più mi affascina. Pur sentendomi lontanoanni luce dall’America».

(Traduzione di Lorenzo Codelli) ©Edizioni Cineteca di Bologna

©Christopher Frayling

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“Ho insegnato il western agli americanipensando ai pupi, a Omero e a Shakespeare”A cinquant’anni da “Per un pugno di dollari”intervista inedita a un grande regista italiano

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 38LA DOMENICA

Next. Techno

SERGIO PENNACCHINI

ARÀ uno spettacolo davvero speciale quello a cui il prossimo 31 ot-tobre assisterà il pubblico del Pala Arrex di Jesolo. Quel venerdì, ol-tre a segnare l’atteso ritorno in concerto della band torinese deiSubsonica, rischia di passare alla storia come l’evento live più tec-nologico mai tenuto in Italia. I membri della band indosseranno del-le speciali giacche sviluppate da una start up di Londra, la CuteCir-cuit, che mostreranno immagini e video inviati dal pubblico trami-

te il social network Google Plus. Prima di loro l’hanno fatto solo gli U2, la più im-portante band del mondo che in fatto di tecnologia è sempre stata all’avanguardia.Si tratta di giacche interattive, in pratica dei veri e propri monitor indossabili cheracconteranno, per celebrare il singolo Di Domenica del nuovo album Una Nave inuna Foresta, cosa significa la domenica per i fan della band. Un’idea innovativa,che dimostra come il rapporto tra tecnologia e musica stia finalmente ingranando.

Una relazione che sicuramente non è iniziata nel migliore dei modi. «Qualcheanno fa la tecnologia ha rischiato di uccidere la musica per colpa della pirateria edei software per scaricare file mp3 come Napster. Oggi, la più grande minaccia so-no gli smartphone». A parlare è Nick Panama, ex discografico e ora attivo promo-tore di un uso migliore della tecnologia nel mondo della musica. «Se guardate unconcerto, probabilmente vedrete la metà della gente occupata a scattare foto e vi-deo per vantarsi con gli amici sui social network, invece di godersi lo spettacolo».Secondo Live Nation Entertainment, uno dei maggiori organizzatori di eventi mu-sicali negli Stati Uniti, l’85 per cento delle persone che vanno a un concerto usa iltelefono per scattare foto o video, il 68 per cento passa il tempo a scrivere messag-

MISA TRI-BASE

CONTROLLER MIDICHE FUNZIONA

COME UNA CHITARRA.

C’È UNO SCHERMOTOUCH E AL POSTO

DELLE CORDEUNA SUPERFICIE

SENSIBILE AL TOCCO.LA USAN0,

DEADMAU5 E BENNY BENASSI

S

Dai nuovissimi strumenti utilizzati dalle rockstar alle ultime diavolerieper coinvolgere un pubblico sempre più smartphone-dipendenteAi prossimi concerti vedremo guitar touch, bracciali elettronici o giacche social. E, dicono gli esperti, sarà tutta un’altra musica

85%SCATTA FOTOO GIRA VIDEO

68%MANDA SMS RIGUARDANTI IL CONCERTO

57%CONDIVIDE L’EVENTOSU FACEBOOK

26%CHIAMA QUALCUNO PER PARLARE DELL’EVENTO

Cosa fannogli spettatori

CUTECIRCUIT

UNA GIACCA INTERATTIVA IN GRADO DI MOSTRARE LE IMMAGINI E I VIDEO INVIATI DAL PUBBLICO TRAMITESOCIAL NETWORK, COME QUELLE INDOSSATE QUI ACCANTO DA ADAM CLAYTON E BONO DEGLI U2. LA USERANNO I SUBSONICA NEL LORO PROSSIMOTOUR “UNA NAVE IN UNA FORESTA”

2020Live

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gi e il 57 per cento condivide immagini o al-tro su Facebook e simili. «La tecnologia nondeve alienare dallo spettacolo, ma anzi de-ve migliorarlo», spiega Panama. Il proble-ma è che l’uso del telefono ormai è diventa-to talmente naturale, così parte integrantedella nostra quotidianità, che convincercia tenerlo in tasca non è per niente facile. Ec-co allora idee come quella che ha avutoWham City Lights, start up di Baltimorafondata da un ex ingegnere di Google, chesi è inventata un’app che sfrutta glismartphone del pubblico per creare giochidi luce e altri effetti speciali. In pratica, l’u-tente installa l’applicazione e la attiva du-rante il concerto: un software gestirà loschermo a distanza, illuminandolo di di-versi colori a ritmo di musica. Il risultato èdavvero spettacolare e, oltre a rendere l’e-sperienza ancora più coinvolgente, ha ilnon trascurabile merito di tenere occupatoil cellulare, che così non può andare su Fa-cebook o scattare foto.

Quella delle applicazioni “interattive” èl’ultima tendenza degli eventi live. Ce ne

la Repubblica

DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 39

i gesti di braccia, polsi e dita in note musi-cali. Micheal Zarimis, invece, è un giovaneprogrammatore di Sidney che ha in testasolo una cosa: creare il futuro della musica.La sua chitarra si chiama Misa: è in realtàun controller Midi, con una superficie tou-ch come quella di un tablet e pulsanti sen-sibili al tocco al posto delle corde. Il risulta-to è un mix che ha conquistato diversi mu-sicisti, da Benny Benassi a Deadmau5. Ro-li, invece, è una tastiera con tasti realizzatiin spugna, con sensori capaci di capirequanto forte li state premendo, variandocosì la forza, il tono e la durata di una nota.

«Cambiare il modo di comporre significaandare contro secoli di storia. È difficile,sarà una rivoluzione lenta, ma sono sicuroche arriverà», dice il creatore di Roli, Ro-land Lamb dal palco del Music Hackday diAmsterdam, fiera di elettronica e musicadove si cerca il suono del domani: «Ma diuna cosa potete essere assolutamente si-curi: molto presto ci faremo sentire. Lette-ralmente».

cui godiamo della musica dal vivo. Il pro-getto Nada, per esempio. È un bracciale consensori del tutto simili a quelli dei vari brac-cialetti per fare attività fisica, solo che ècompletamente dedicato alla musica. Tra-mite Nada potremo svolgere tutte le atti-vità tipiche di un concerto: fungerà da bi-glietto, potremo usarlo per pagare bevan-de e gadget senza tirare fuori il portafogli,registrerà la nostra attività fisica per capi-re quanto lo spettacolo ci è piaciuto, se ab-biamo ballato oppure applaudito. «Saràuna vera rivoluzione», assicura Panama,tra i promotori dell’iniziativa. Un’iniziati-va che altri stanno già seguendo, come gliorganizzatori del festival SXSW di Austin,Texas. Quest’anno il pubblico aveva unbracciale che misurava il movimento: chiballava di più aveva diritto a bevande gra-tuite.

La tecnologia non promette di migliora-re solo l’esperienza di chi ascolta musica,ma anche di chi la crea. Imogen Heap, can-tante londinese e parte del duo Frou Frou,ha creato un paio di guanti che tramutano

sono diverse, come SecretDJ, che permet-tono di decidere quali canzoni ascoltare inuna serata in discoteca: la canzoni più vo-tate vengono suonate dal dj. Un sistema didemocrazia musicale diretta che si mischiacon le dinamiche tipiche dei socialnetwork: andando sempre nello stesso lo-cale si guadagnano punti fino a diventare“vip”. In quel caso il vostro voto va subito incima alla classifica e la vostra canzone avràla priorità sulle altre. Ma il mondo delle appè solo un lato della medaglia. L’altro, più in-novativo, è quello della tecnologia indossa-bile. Non ci sono solo le giacche dei Subso-nica, ma tante altre idee che promettono dirivoluzionare completamente il modo in

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NADA

UN BRACCIALETTO PENSATOPER GLI EVENTI LIVE:FUNZIONERÀ COME BIGLIETTOPERMETTERÀ DI ACQUISTAREBEVANDE O GADGET. E REGISTRERÀ LA NOSTRAATTIVITÀ FISICA PER CAPIRE QUANTOLO SHOW CI ABBIA COINVOLTI

WHAM CITY LIGHTS

APPLICAZIONECHE TRASFORMALO SCHERMODELLO SMARTPHONE DEGLI SPETTATORI IN UNO SHOW DI LUCICONTROLLATODIRETTAMENTEDALLA BAND SUL PALCO

ROLI

È UNA TASTIERAELETTRONICA CON TASTI IN SPUGNACHE FUNZIONANO A PRESSIONE: VARIANO L’INTENSITÀDELLA NOTA MUSICALEIN BASE ALLA FORZA APPLICATA SUL TASTO E ALLA DURATA

MIMU

LI HA IDEATI LA CANTANTEINGLESE IMOGENHEAP: SI TRATTADI GUANTIIN GRADO DI TRASFORMARE I GESTI DELLE MANI IN MUSICA

FOTO

WW

W.C

UTE

CIR

CU

IT.C

OM

22%CONDIVIDESU TWITTER

19%FA IL CHECK-INSU FOURSQUARE

FONTE 2014 LIVE NATION ENTERTAINMENT

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 40LA DOMENICA

LICIA GRANELLO

UNQUE, LA CUBAITAha origini arabe e il torrone originilatine. Io personalmente amo la cubaita, quella fat-ta dai soli tre componenti originari: mandorle, pi-stacchi e miele.(...) Il torrone, che pure è assai pre-gevole come quello fatto a mano, invece mi attira as-sai di meno, ormai non sai più quali sapori puoi tro-varci dentro. La cubaita è semplice e forte, un dolceda guerrieri, appunto, mentre il torrone inclina allaraffinatezza languorosa”.Andrea Camilleri non fa sconti, raccontando i suoicomandamenti golosi. Del resto, mandorle e pistac-chi e miele sono passpartout secolari nella cultura

culinaria siciliana. Ma se miele e mandorle sono di facile approccio — per coltivazione, produ-zione e trasformazione — il pistacchio riesce come un piccolo gioiello scontroso. Certo, c’è pi-stacchio e pistacchio. Dalla Turchia alla California, l’agricoltura seriale permette di ragionarein numeri grandissimi, tali da non farli mancare mai sui mercati del mondo. Gusci leggeri, se-mi grandi, colori tenui, arrivano sui nostriscaffali in buste abbondanti, senza rischi diesaurimento precoce delle scorte.

I pistacchi italiani sono altro: piccoli, tosti,così riservati da maturare solo un anno sì e l’al-tro no. Gli anni pari sono quelli del riposo del-le piante. Quest’anno, a Bronte — terra di pi-stacchi a doppia protezione, Dop e PresidioSlow Food — niente raccolto: le drupe com-mercializzate sono quelle raccolte lo scorsoanno e stivate al buio e al fresco, condizioni perla conservazione ottimale, visto che caldo e lu-ce li ossidano irrimediabilmente.

La preferenza acclarata per i terreni lavici,le temperature elevate, l’acqua col contagoc-ce, ha spostato la terra di elezione da quellastorica — dislocata tra Asia Minore, basso Me-diterraneo e Medio Oriente — alle campagnepiù scorbutiche di Campania, Basilicata e Si-cilia. Corrado Assenza, il pasticcere-antropo-logo di Noto capace di esaltare il fascino di-screto dei pistacchi come nessun altro — rac-conta che a Bronte i semi della Pistacia vera,alberello scarno alto, dalla chioma alta e fitta,sono arrivati attraversando il mar di Sicilia daIschia, dove ancora vengono coltivati nella zo-na di Iesca. Altra zona benedetta, quella di Sti-

gliano, nel Materano. Sassi e lava, per costrin-gere la pianta a concentrare grassi nobilissimie minerali puri nei suoi semi. In più, se la frut-ta secca delle grandi produzioni viene irradia-ta senza pietà per eliminare (o ridurre al mi-nimo) il pericolo delle aflatossine — micror-ganismi tossici, di accertata cancerogenicità,che si insinuano nei fessure dei gusci — i tostipistacchi del nostro sud sono così ermetica-mente chiusi, da lasciar liberi i semi solo a fron-te di colpi ben assestati. Per questo, i pistacchivanno mangiati con riguardo. Diffidando delcolore sgargiante di troppi gelati (il cui verdesmeraldo si deve ai coloranti), gustandoli auno a uno, come piccole gemme di bontà in bi-lico adorabile tra dolce e salato. E pagandoli ilgiusto, perché inerpicarsi tra gli arbusti conuna sacca a tracolla per raccoglierli costa fati-ca e rende poco. Se l’amatissima Cubaita di Ca-milleri vi lascia indifferenti, tagliate un buonpane croccante e farcitelo con la mortadella aipistacchi tagliata sottile sottile. Un bicchieredi Lambrusco Cantine della Volta vi aiuterà aorganizzare la gita a Bronte il prossimo au-tunno. Senza dimenticare la tracolla.

Cuor di pistacchio.Piccolo, tosto e buononon soltanto con i dolci

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LO CHEF

ACCURSIOCRAPARO È UNODEI PIÙ CREATIVIINTERPRETI DELLA CUCINASICILIANA. NEL MENÙ DEL RISTORANTE“ACCURSIO” DI MODICA, IL PISTACCHIOÈ PROTAGONISTA.COME IN QUESTASUA RICETTA PER REPUBBLICA

L’appuntamentoTra i protagonisti del Salone

del Gusto Terra Madre, in questi giorni a Torino,

i pistacchi afgani di Badghis,provenienti da 90mila ettari

di foreste spontanee. Le festepopolari dedicate (Shole-e-Pista)

scandiscono il tempo del raccolto settembrino,

protetto da norme governative

In GermaniaLa cucina tedesca utilizza

i pistacchi in tutta la sequenzadel menù, a partire

da insaccati come le Jägerwurst(salsicce del cacciatore) fino

alle salse di accompagnamento alla selvaggina. Pistacchi

anche nell’impasto del marzipan lubeck,

dolce-simbolo di Lubecca

I libriTutto quanto avreste voluto

sapere sui pistacchi è a portata di lettura grazie a due libri:

“Il Pistacchio tra Storiae Cucina” (Centro Studi Europa2000) e “L’oro verde di Sicilia -Percorso storico gastronomico

sul pistacchio” (Editrice Il Lunario), entrambi firmati

da Irene Pellegrino Faro

DIFFIDATE DEL TONOSMERALDO

DI CERTI GELATI: IL VERO ORO VERDE,

CHE MATURASUGLI ARBUSTI

DELLE CAMPAGNEPIÙ SCORBUTICHEDEL NOSTRO SUD,NASCONDE TANTEALTRE SORPRESE

IN CUCINA

La mia vellutata verdeper accompagnare il riso

La ricetta

Sapori. Da sgusciare

INGREDIENTI100 G. DI PISTACCHI, 200 G. DI ACQUA, 100 G. DI COLATURA DI RISO50 G. DI BURRO DI CAPRA, 40 G. DI OLIOEXTRAVERGINED’OLIVA,1 PIZZICODI SALE

Tostare i pistacchi a 140° per otto minuti. Far bollire 100 grammidi riso in un litro d’acqua poco salata per mezz’ora, colare e riser-vare il liquido. Frullare i pistacchi con gli altri ingredienti, fino aconsistenza cremosa e liscia. Portare un litro d’acqua a 80°, la-

sciare in infusione con the nero delicato e camomilla per ventiminuti. Filtrare e usare come liquido di cottura (35 minuticirca) per 320 grammi di riso Ermes (integrale rosso), sco-lare e condire con extravergine, limone, mandarino verdee cavolo crudo grattugiato. Disidratare e frullare una man-ciata di foglie di melissa, menta, bergamotto e alga.Versare la crema di pistacchio tiepida nel piatto, ac-compagnare con il riso. Sopra e intorno, cime di broc-coletti dorati con burro di capra e aglio, polvere d’er-be aromatiche, pistacchi pelati, riccioli sottili di er-borinato di capra, paté di tartufo nero ridotto conMarsala, scalogno e ginepro.

“DTERRINA DI POLLO AI PISTACCHI

PÂTÉ DI PISTACCHI

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 41

8piattida scoprire

PestoNel mortaio pistacchi,basilico o prezzemolo, noci o pinoli, Parmigiano,pecorino, olio, sale. Squisitosu paste e pesci alla griglia

LES PAILLOTESPIAZZA LE LAUDI 2PESCARATEL. 085-61809

MortadellaSolo carne magra e lardellidi grasso di gola di suino,spezie, budello naturale e cottura a vapore. Toccofinale, i pistacchi di Bronte

DA PANINORUA FREDA 21MODENATEL. 059-8754382

Tonno in crostaLe fette in freezer per un’oratagliate in quadrati di 4 cm di lato, impanate in un tritodi pistacchi, pomodori secchi,semi di papavero, pangrattato

RISTORANTE LAMBERTI (CON CAMERE)VIA GRAMSCI 57 ALASSIO (SV)TEL. 0182-642747

Cima alla genoveseRipieno di funghi secchi,frattaglie, formaggio, pinoli,pistacchi, piselli, uova, erbea farcire una tasca di panciadi vitello, cucita e bollita

OSTAIA DA U SANTUVIA AL SANTUARIO DELLE GRAZIE 33GENOVATEL. 010-6130477

CremaPistacchi di Bronte Dopfreschi, pelati, frullati con ghiaccio e poco zucchero per lo spalmabile più golosoIdeale sul pane tostato

CAFFÈ SICILIACORSO VITTORIO EMANUELE 125NOTO (SR)TEL. 0931-835013

TorroneMiele scaldato a bagnomariasugli albumi a neve, poi mix di nocciole, mandorle,pistacchi infornati 10’. Nello stampo per 24 ore

TORRONIFICIO SCALDAFERROVIA CA’ TRON 31 DOLO (VE)TEL. 041-410467

GelatoColore verde tenero, setoso,tra dolce e salato, senza lattema a patto che l’ingredientebase sia di buon livelloSquisita anche la granita

CREMERIA GABRIELECORSO UMBERTO I 8VICO EQUENSE (NA)TEL. 081-8798744

PralineTrito di mandorle e pistacchimescolato all’albume battutocon zucchero, poi diviso in palline fatte riposare unanotte e tuffate nel cioccolato

C-AMAROVIA NAZARIO SAURO 47CASSAGO BRIANZA (LC)TEL. 039-955188

GIORGIO VASTA

VOLTE, senza renderceneconto, le metafore ce leritroviamo tra le dita. Nelsenso che ci sono azioniminute, tanto per

l’impegno fisico che comportano quantoper quello che è il loro valore in sé, cheestratte per un attimo dal flusso sirivelano immagine di qualcos’altro. È ciò che accadeva ad Hannah Arendt e aGünther Anders quando agli inizi deglianni Trenta, seduti stretti in un balconeminuscolo, facevano lungheconversazioni separando la polpa delleciliegie — utile per prepararemarmellate — dai noccioli. Snocciolareequivaleva a comprendere e consolidavail legame sentimentale tra i due filosofi.Qualcosa di simile succede estraendo ipistacchi dal guscio. Perché sgusciare ipistacchi si fonda su una sequenza digesti minimi, nella maggior parte deicasi compiuti senza particolareconsapevolezza, in grado di generare uninsieme di fenomeni al contempoimpercettibili e significativi. Comequando ci allacciamo le scarpe o ciabbottoniamo la camicia, sgusciando ipistacchi i polpastrelli sono autonomi esanno sempre cosa fare: colgono il fruttopiccolissimo (spesso, soprattutto al Sud,da un cono di carta chiamato coppitello),perlustrano l’involucro giallino in cercadi un varco, individuano il puntosocchiuso, separano le valve, tirano fuoriil seme verde o viola o marrone chiaro, locollocano tra i denti e, mentre le ditatornano a pescarne un altro, il saporeall’inizio è una resistenza secca, poi lapolpa dura cede e in un crepitio sottile ilsalato si libera nella bocca rivelandol’amaro, l’arido, una punta di piccante(se poi il pistacchio è quello di Bronte, ilsapore è ancora più acuminato, forsedipende dalla pietra lavica su cui lapianta cresce in grovigli).Qualche volta il seme è nudo evulnerabile, orfano, l’involucro dispersonel mucchio; altre volte i polpastrelli siaccaniscono contro certi guscettiimpenetrabili, catafratti e ostili, neppureun’unghia di spazio per disserrarli.Ciò che dello sgranare pistacchi colpisceè che di solito si sguscia facendo altro: siguarda la tv o un film all’arena estiva, sipasseggia per strada, si parla conqualcuno. Sgusciare è allora la metaforaumilissima di tutto quello che accadementre siamo impegnati inqualcos’altro: un succedersi di semiestratti e di altri che non ne voglionosapere di lasciarsi tirare fuori; un rumoredi fondo, il brusio strutturale delle cose.Una metafora che lascia il sale sulle dita.

La metaforache ci lasciail salesulle dita

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A

PERA CON GINEPRO E PISTACCHI

FLAN AL LATTE DI COCCO E PISTACCHI

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DOMENICA 26 OTTOBRE 2014 42LA DOMENICA

Èuna leggenda del jazz, uno che nel suo quartetto aveva al piano un

esordiente di nome Keith Jarrett. Ma è soprattutto l’unico che i mu-

sicisti rock della California anni Sessanta volevano al loro fianco, dai

Grateful Dead ai Jefferson Airplane passando per Jimi Hendrix e

per i Beach Boys che lo ospitarono a lungo nel loro studio di Bel Air:

“Più che dalla mia musica credo però che all’inizio quel visionario di

Brian Wilson fosse attratto dalla

mia ricerca di meditazione e spi-

ritualità. Da giovane avrei volutocambiare il mondo con il mio sax.Non ci sono riuscito. Ho provato acambiare me stesso”

LloydGIACOMO PELLICCIOTTI

ROMA

ERA anche un sassofonista jazz, uno spilungone di sangue afro-cherokee-mongolo confuso tra le rockband che fecero leggen-da nella California di fine degli anni Sessanta, quando il“Flower Power” era un’incontenibile, esaltante esplosione divitalità. Alto, signorile, carismatico, casco di capelli alla Hen-

drix, pelle bruna dorata al sole di Big Sur, Charles Lloyd si librava lieve col suosax ammaliatore, confrontandosi con l’elettricità dei Grateful Dead, dei Doorse dei Beach Boys nelle stesse arene frequentate dai giovani hippies. Mollati tea-tri e club, riuscì a sedurre anche chi di jazz non sapeva nulla. Con il suo quar-tetto acustico, in cui figuravano gli emergenti Keith Jarrett al piano e Jack DeJohnette alla batteria, nel 1966 riuscì a imporsi con un album dal titolo em-blematico, Forest Flower: un milione di copie, un record insperato per un discodi jazz. Poi, nel 1971, al culmine della fama e dello stress, sparì di scena e si isolòin montagna a suonare il flauto agli alberi di Big Sur. Salvo brevi apparizioni,si ripresentò al pubblico solo dieci anni più tardi, quando il diciottenne piani-sta prodigio Michel Petrucciani bussò alla sua porta e lo trascinò di nuo-vo fuori nella mischia: «Sì, arrivò nel mio rifugio in un piccolo forma-to, ma il suo talento era enorme. Aveva una fame feroce di tutto nel-la vita, e credo che questo abbia contribuito a bruciare la candelain modo così rapido da entrambe le estremità».

Oggi Charles Lloyd ha settantasei anni e si prepara a un nuovotour europeo: il 9 novembre sarà a Milano e il 14 a Bologna, dove ilgiorno prima presenterà anche un documentario, Arrows Into Infi-nity, diretto dalla moglie Dorothy Darr e da Jeffery Morse. Il film ri-percorre l’epopea di un artista unico che non poteva che nascere aMemphis. «Effettivamente nascere in un posto come Memphis è stato

fondamentale. Era come stare in un calderone d’ispira-zione incandescente: lì potevi suonare con i grandi blue-smen come Howlin’Wolf, B. B. King, Johnny Ace, concreatori di jazz come Phineas Newborn jr. o Willie Mit-chell. E poi ci passavano le orchestre leggendarie diDuke Ellington, Count Basie, Lionel Hampton, Cab Cal-loway. Molti di quei musicisti si fermavano a casa dimia madre. Stava spesso da noi anche Moms Mabley(famosissima attrice comica americana, ndr) fu leia insegnarmi Fine and Dandy. Ero un ragazzino di no-

ve anni e lei me la cantava sempre con la sua voce roca, fino a quando l’ho impa-rata. Mia madre poi raccontò a Johnny Hodges e Harry Carney, i sassofonisti fuo-riclasse di Ellington, che volevo diventare un musicista, ma loro la sconsigliaro-no dicendo: “Questa vita è troppo dura. Fatene piuttosto un medico, un avvoca-to o un capo indiano”».

Ma Charles non li stette a sentire. «C’era un gruppo di San Francisco, i Com-mittee, che venivano spesso a sentirci suonare in un club, El Matador. Un gior-no mi fanno: “A noi il jazz non piace ma ci piace la roba che suonate voi. Dovre-ste venire a suonarla a Monterey, al Fillmore”. Ne parlarono al promoter, il leg-gendario Bill Graham, e lui ci invitò per una domenica pomeriggio. Dovevamosuonare una mezz’ora, ma il pubblico non ci fece lasciare il palco prima di un’o-ra e mezza. Non sapevano che roba fosse quella che stavamo suonando, maquei giovani rimasero impressionati. La nostra musica li esaltò. Bill cominciòa scritturarmi regolarmente al Fillmore. Gruppi rock come i Grateful Dead, Jef-ferson Airplane, Jimi Hendrix, Steve Miller ci tenevano ad essere in cartello-ne con noi».

Lloyd godeva anche la stima di un gruppo come i Beach Boys, la cui popola-rità a quei tempi rivaleggiava con quella dei Beatles. Ma forse non fu solo la mu-sica a renderli così vicini. Tra le tante cose, Lloyd è stato infatti anche uno deiprimi nel mondo dello spettacolo a scegliere la via della meditazione. Il suo gu-ru era Maharishi Mahesh Yogi. «Mike Love dei Beach Boys e io condividiamolo stesso compleanno, le Idi di marzo, anche se lui è più giovane di tre anni. Ave-vano sentito che stavo meditando mentre loro erano solo all’inizio, perciò era-no attratti dalla mia ricerca spirituale. Io la loro musica neppure la conoscevo,ma un amico mi fece ascoltare Pet Sounds. Be’, mi colpì. Brian Wilson era un vi-sionario con una vocazione straordinaria per le belle armonie. Cominciammoa frequentarci. Aveva una grande tenuta a Bel Air, appartenuta a Edgar RiceBurroughs, quello che si è inventato Tarzan, e nel bel mezzo del salotto tene-va una grande scatola piena di sabbia. In casa aveva messo su un bell’art-stu-dio: in un periodo in cui ero nauseato dai soliti discografici-schiavisti mi diedel’accesso totale. Altre volte capitava invece che Brian sentisse la musica chestavo facendo e venisse giù a trovarmi. Sono stati lui e i Beach Boys a cantarele armonie vocali sul mio album Warmwaters del 1971. Più tardi mi chieserodi andare in tour come solista per aprire i loro concerti, cosa che ho fatto di tan-to in tanto alla fine degli anni Settanta».

Erano anni di scambi e intrecci, e Lloyd stava quasi a ogni incrocio. Altri no-mi? Jimi Hendrix, Robbie Robertson, Bob Dylan: «Un giorno guidai fino a Wood-stock per andare a trovare Robbie e Bob Dylan alla Big Pink, la casa di campagnadove suonavano tutto il tempo. Bob stava lavorando all’album John Wesley Har-ding. Me lo fece ascoltare su un piccolo fonografo portatile. Gli chiesi dov’era ilsuo impianto hi-fi — in quei giorni eravamo tutti audiofili e la moda era quelladei sound system a regola d’arte. Mi rispose che c’erano troppi fili e che preferi-va quella piccola scatola. Poi, quando ho sentito il disco, gli ho detto che andavabenissimo anche così. Era inverno e stavamo in piedi intorno alla piscina vuotae piena di crepe del suo manager, Albert Grossman; Robbie disse a Bob che sta-vo per andare a vivere in California. “Non andarci” fece Dylan, “quel posto staper sprofondare nell’oceano”. “E così sia”, gli risposi». Poco tempo dopo Lloyd si

trasferì a Malibu: «E un giorno, guardando fuori dalla mia casa sul mare, non tivedo schierata l’intera The Band proprio di fronte a me?. Si stavano facendo ri-

prendere per un album fotografico». E Jimi Hendrix? «Jimi e io eravamo molto amici al Greenwich Villa-

ge. Prima che andasse in Inghilterra suonava spesso al Café Wha, adue passi dal mio appartamento sulla Third Street. Dopo avere la-

sciato New York, registrai Moon Man, un disco che lui amò e capì.Avevamo anche programmato di registrare insieme, ma il tempoormai era scaduto». Anche per Lloyd. Dopo tanti viaggi e tanta mu-sica volle isolarsi alla ricerca del silenzio e della natura. «Ben prestola ricerca della vita spirituale iniziò a occupare totalmente la miamente. Stavo cercando di guarire il corpo e l’anima. Oppure diciamo

che il mio sogno giovanile era stato quello di cambiare ilmondo con la bellezza della musica, e che questo non

era successo. Così ho capito che dovevo cambiareme stesso». L’India e le filosofie orientali sono sta-

te per anni il suo rifugio. Ha anche cambiato conil tempo tipo di meditazione, guru e religione.

«L’insegnamento che alla fine ho trovato piùvicino è stato quello di Ramakrishna, un san-to indiano che nacque vicino Calcutta nel1836 e morì nel 1886: insegna che tutti ipercorsi sono veri se tu sei sincero».

Oggi Lloyd sembra aver ritrovato l’e-nergia dei primi tempi: continua a re-

gistrare dischi e ad andare in tour ingiro per il mondo: «Fare musica è ilmio amore e il mio impegno. Senon mi piacesse più non avrei al-cun diritto di stare qui a parlar-ne con lei».

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JIMI SUONAVA SPESSO AL CAFÉ WHA, AL VILLAGE, A DUE PASSI DAL MIO APPARTAMENTO SULLA TERZASTRADA. ERAVAMO AMICI IN QUEL PERIODOPENSAVAMO DI REGISTRARE QUALCOSA INSIEME.MA PURTROPPO IL TEMPO ORMAI ERA SCADUTO...

GUIDAI TUTTA LA NOTTE PER ANDARE A WOODSTOCK DA DYLAN . MI FECEASCOLTARE IL SUO ALBUM SU UN PICCOLOFONOGRAFO PORTATILE. NIENTE IMPIANTOHI-FI, MI DISSE, ODIO TUTTI QUEI FILI

MIA MADRE DISSEAI SASSOFONISTI

DI ELLINGTON CHE VOLEVO

FARE IL MUSICISTA.E QUELLI

LE RISPOSERO: È UNA VITA TROPPO

DURA, FATENEPIUTTOSTO UN MEDICO,

UN AVVOCATO O UN CAPO INDIANO

L’incontro. Guru

Charles

C’