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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014 NUMERO 465 CULT La copertina ALBERTO MANGUEL e MASSIMO RECALCATI Arrivano i mostri, ecco perché ne abbiamo così tanto bisogno Il libro IRENE BIGNARDI L’eroina di Dreiser che cerca un posto al sole All’interno Straparlando ANTONIO GNOLI Fuksas, “Il buon architetto spesso è quello che ama il caos” Il teatro ANNA BANDETTINI Anche il sesso mercenario per Luca Ronconi è una trappola La serie WALTER SITI La Poesia del mondo Mendel’stam e la Rivoluzione Back in the Usa, la prima volta dei Beatles Spettacoli ANGELO AQUARO Paparazzi al potere dalle corna di Leone al casco di Hollande L’attualità FILIPPO CECCARELLI e ANAIS GINORI PARIGI l vento è linfa vitale nel cinema di Hayao Miyazaki: spinge in volo castelli, solleva ali in cielo, alita nuvo- le, pettina l’erba alta dei prati. È un monito di poe- sia, che dal Cimetière marin di Paul Valéry soffia ora nel suo nuovo film, Si alza il vento. Il cineasta ripete a memoria, in un colorito nippo-francese, i primi versi della poesia: «Le vent se lève!... Il faut tenter de vivre!». Bisogna tentare di vivere, quando si alza il ven- to. Che cosa significa per il maestro dell’animazione giapponese, scosso dalla guerra e da Hiroshima, inseguito con Fukushima dal- l’incubo atomico, angustiato da una patria ridivenuta per lui guer- rafondaia, l’imperativo “tentare di vivere”, tornare a farsi attraver- sare dal vento? Dall’altro capo del filo, nella quiete del suo vasto cha- let di legno a sud-ovest di Tokyo, a un volo d’uccello dagli Studi Ghi- bli da lui fondati trent’anni fa, Miyazaki ha la voce serena. (segue nelle pagine successive) MARIO SERENELLINI d Hayao Miyazaki dobbiamo, a casa nostra, il presi- dio dell’ultimo lembo di terra di quel luogo che si chiama “stare in famiglia”. È certo un merito mino- re rispetto al valore artistico, letterario, poetico e persino politico della sua opera, mi rendo conto. Per me è tuttavia il principale: un merito secondario che gli conferisce credito illimita- to. Non esiste una pietanza, un viaggio, una musica, un progetto per la domenica che ottenga il consenso unanime di un gruppo di per- sone di dieci, quindici, venti, venticinque e cinquant’anni. Niente, da quando i più grandi sono diventati salutisti nemmeno l’hambur- ger da Mac. Solo “rivediamo Porco rosso?” funziona. Porco rosso sì. La carbonara ingrassa, il sushi basta, in campagna oggi no, al museo andateci voi, la serie tv in inglese io non la capisco, Monopoli mi pa- re che è in cantina, come ti viene in mente? Allora Porco rosso. (segue nelle pagine successive) CONCITA DE GREGORIO DISEGNO DI MASSIMO JATOSTI HAYAO MIYAZAKI, TOKYO, OTTOBRE 2010 © NICOLAS GUERIN/GETTYIMAGES HAYAO MIYAZAKI La mia favola continua “Fino a quando avrò un pastello sull’erba soffierà il vento” Intervista al maestro dell’animazione giapponese I A

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

NUMERO 465

CULT

La copertina

ALBERTO MANGUELe MASSIMO RECALCATI

Arrivano i mostri,ecco perchéne abbiamocosì tanto bisogno

Il libro

IRENE BIGNARDI

L’eroinadi Dreiserche cercaun posto al sole

All’interno

Straparlando

ANTONIO GNOLI

Fuksas,“Il buon architettospesso è quelloche ama il caos”

Il teatro

ANNA BANDETTINI

Anche il sessomercenarioper Luca Ronconiè una trappola

La serie

WALTER SITI

La Poesiadel mondoMendel’stame la Rivoluzione

Back in the Usa,la prima voltadei Beatles

Spettacoli

ANGELO AQUARO

Paparazzi al poteredalle corna di Leoneal casco di Hollande

L’attualità

FILIPPO CECCARELLIe ANAIS GINORI

PARIGI

l vento è linfa vitale nel cinema di Hayao Miyazaki:spinge in volo castelli, solleva ali in cielo, alita nuvo-le, pettina l’erba alta dei prati. È un monito di poe-sia, che dal Cimetière marindi Paul Valéry soffia ora

nel suo nuovo film, Si alza il vento. Il cineasta ripete a memoria, in uncolorito nippo-francese, i primi versi della poesia: «Le vent se lève!...Il faut tenter de vivre!». Bisogna tentare di vivere, quando si alza il ven-to. Che cosa significa per il maestro dell’animazione giapponese,scosso dalla guerra e da Hiroshima, inseguito con Fukushima dal-l’incubo atomico, angustiato da una patria ridivenuta per lui guer-rafondaia, l’imperativo “tentare di vivere”, tornare a farsi attraver-sare dal vento? Dall’altro capo del filo, nella quiete del suo vasto cha-let di legno a sud-ovest di Tokyo, a un volo d’uccello dagli Studi Ghi-bli da lui fondati trent’anni fa, Miyazaki ha la voce serena.

(segue nelle pagine successive)

MARIO SERENELLINI

d HayaoMiyazaki dobbiamo, a casa nostra, il presi-dio dell’ultimo lembo di terra di quel luogo che sichiama “stare in famiglia”. È certo un merito mino-re rispetto al valore artistico, letterario, poetico e

persino politico della sua opera, mi rendo conto. Per me è tuttavia ilprincipale: un merito secondario che gli conferisce credito illimita-to. Non esiste una pietanza, un viaggio, una musica, un progetto perla domenica che ottenga il consenso unanime di un gruppo di per-sone di dieci, quindici, venti, venticinque e cinquant’anni. Niente,da quando i più grandi sono diventati salutisti nemmeno l’hambur-ger da Mac. Solo “rivediamo Porco rosso?” funziona. Porco rosso sì.La carbonara ingrassa, il sushi basta, in campagna oggi no, al museoandateci voi, la serie tv in inglese io non la capisco, Monopoli mi pa-re che è in cantina, come ti viene in mente? Allora Porco rosso.

(segue nelle pagine successive)

CONCITA DE GREGORIO

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HAYAO MIYAZAKI

La mia favola continua

“Fino a quandoavrò un pastellosull’erbasoffierà il vento”Intervistaal maestrodell’animazionegiapponese

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LA DOMENICA■ 26DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

un cantuccio:tremava. L’aveva

tranquillizzato, dicendogli di restarequanto voleva e regalandogli una steccadi cioccolato. Un’enormità, per l’epoca.Né io né i miei fratellini ne avevamo maiassaggiato. Quel bambino aveva presomio padre per “un dio disceso sulla Ter-ra”: così mi scrive nella lettera».

Un riconoscimento a suo padre?«Mio padre lavorava per l’esercito. Per

questo, immagino, aveva in tasca il cioc-colato, un privilegio. Ingegnere aero-nautico, era titolare della Miyazaki Air-plane, quella che costruiva l’estremitàdelle ali degli Zero. Una fabbrichetta, maquanto mai redditizia. Fin da ragazzino

nismi — e dalle“macchinazioni” —militari: ancora oggi mi ap-passiona studiare, smontan-dole pezzo a pezzo, le mac-chinette di guerra. Mipiace capire co-me funzio-nano. E,soprat-t u t t o ,non mistancomai did i s e -g n a r -le».

Un’in-fanzia, la sua, tra-scorsa sotto il segnodella guerra. «Sononato nel 1941. Erotroppo piccolo percapire. Ricordo lanostra fuga dacasa, a Utsuno-miya, un centi-naio di chilo-metri a nord di Tokyo,la notte in cui è stata bombar-data: ho visto i miei ammuc-chiare di corsa pentole e ve-stiti in una carriola mentremio padre mi caricava sullaschiena. Ma per me, allora, èstata la festa del cielo: nonero impaurito, ma stupito,incantato, davanti a quellanotte improvvisamentespalancata dalle luci.Un’impressione visivafortissima, che conservoancora».

È il suo fantasma? «La guerra torna, riappa-

re. Pochi giorni fa ho ricevutola lettera di un mio coetaneo:bambino, rimasto solo, s’erarifugiato quella notte nella no-stra casa, risparmiata dai bom-bardamenti. Mio padre, che viera tornato l’indomani per re-cuperare oggetti abbandonatinella fretta, l’aveva scoperto in

Come il protagonista del suo ultimo film (“S’alza il vento”,a maggio in Italia, in corsa per l’Oscar) avrebbe voluto fareil pilota d’aerei: “Ma ero troppo miope e alla fineli ho solo disegnati”.Il grande artista giapponeseparla di guerra e nucleare, di padri e figliE della Due Cavalli con cui ogni giorno va a disegnare

La copertina

(segue dalla copertina)

l regista giapponese ha da pocofesteggiato con la moglie e i duefigli i suoi settantatré anni. C’èda immaginarselo con addosso

il grembiulone bianco ricolmo di pen-nelli e pastelli, sua tuta di lavoro con cuiritualmente si presenta ai giornalisti. Econ l’immancabile gilet a V, da cui affio-ra, come in un suo acquerello, il volto an-tico e imbiancato, con incollati da sem-pre, fari acuti, gli occhialoni Lanvin damiope. La sua principale preoccupazio-ne pare oggi la caldaia a legna che lo ob-bliga di tanto in tanto a staccarsi dal te-lefono per andare a riattizzare il fuoco(«Questi tronchi... sempre umidi») e re-golare la presa d’aria. Altre brevi interru-zioni, le sigarette accese e aspirate a ripe-tizione: almeno cinque durante la con-versazione. «Tentare di vivere?», rispon-de dopo due boccate: «Andare avanti,esistere, rimanere se stessi nonostante lasituazione avversa». Dunque, continua-re a realizzare film, a dispetto delle cen-sure politiche piovute sull’ultimo titolo,in concorso a Venezia e ora in corsa perl’Oscar dell’animazione (Lucky Red do-vrebbe distribuirlo a maggio nelle saleitaliane). «Anche questo», ridacchia il re-gista, che al Lido aveva fatto annunciareil suo ritiro dal cinema. Un ritornello ri-corrente degli ultimi vent’anni che an-che stavolta non mancherà di smentire.

Da tempo vive in un Paese in cui nonsi riconosce: in Giappone S’alza il ventosta godendo d’un grande successo, ma ilgoverno la tratta da “traditore”.

«Il film, sui sogni infantili e la vita di Ji-ro Horikoshi, il capo ingegnere progetti-sta degli Zero, i micidiali caccia della Se-conda guerra mondiale, ha scatenato leire della destra nazionalista nipponicaper il ritratto al vetriolo dell’esercito im-periale. Ma raccontare favole non signi-fica rinunciare a prendere posizione. Ioho sempre praticato il pacifismo, e non acaso la guerra è presente in quasi tutti imiei film. Anzi, a pensarci bene forse nonsono poi neppure così tanto pacifista! Finda bambino sono affascinato dai mecca-

IMARIO SERENELLINI

MIYAZAKI

DISEGNI/1Chihiro in una scenade La città incantata(2001),sopra l’eroinain un bozzettoe al centro proveper il palazzo della stregaIn alto da sinistra,il bozzetto preparatoriodi Nausicaä della valledel vento (1984),Porco rosso (1992)e uno schizzoper S’alza il vento (2013)

Sì, sognoma tengogli occhiben aperti

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I film

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ero infastidito all’idea che ci fossimo ar-ricchiti con la guerra: adolescente, nonfacevo che discutere con i miei. Avevovergogna di mio padre. Ma la prepara-zione di S’alza il vento mi ha fatto moltoripensare a lui, alle contraddizioni di cuici nutriamo: chi crede d’essere un puro edi sorvolare la vita da innocente è unosciocco o un ipocrita. Questo film è an-che una riconciliazione. E quella lettera,come un messaggio in bottiglia venutodal passato, è stata un’ultima rivelazio-ne: quella d’un padre, allora giovane,buono e aperto».

Il film è anche il racconto di un sognoinfantile, di un volo interrotto?

«Da bambino desideravo diventare

pilota. Impossibile, con la miopia di cuiho sempre sofferto e che mi obbliga or-mai a disegnare con il naso appiccicato altavolo. Stesso problema — come si vedenel film — di Jiro Horikoshi, che ha potu-to solo “pilotare” le sue creature dise-gnate. La maggiore frustrazione, però,non è tanto di non potere volare, ma disentirsi bloccati nelle proprie aspirazio-ni, di intravedere da giovani strade nega-te. È poi questo il nocciolo del film, che leautorità, più miopi di me, non hanno col-to: un creativo deve impedirsi di realiz-zare il suo sogno per via delle circostan-ze o vivere la sua passione, senza preoc-cuparsi delle conseguenze, magari deva-statrici?»

LE AVVENTURE DI LUPIN III(1971)CONAN, IL RAGAZZO DEL FUTURO (1978)IL FIUTO DI SHERLOCK HOLMES(1984)NAUSICAÄ DELLA VALLE DEL VENTO(1984)LAPUTA CASTELLO NEL CIELO(1986)IL MIO VICINO TOTORO (1988)

KIKI CONSEGNE A DOMICILIO (1989)PORCO ROSSO (1992)PRINCESS MONONOKE (1997)LA CITTÀ INCANTATA(2001)IL CASTELLO ERRANTE DI HOWL (2004)PONYO SULLA SCOGLIERA (2008)

Hiroshima è stata una conseguenzad’un grande sogno realizzato, la scissio-ne nucleare. Come evitare che un sognosi tramuti in incubo?

«Nel mio cinema si sogna molto, ma larealtà ha sempre l’ultima parola. La cata-strofe di Fukushima, causata dal mare-moto di tre anni fa, ci ha colto in piena la-vorazione del film: siamo rimasti prigio-nieri in questa periferia di Tokyo, senzaelettricità, trasporti, mezzi di comunica-zione. Molti si sono accampati negli Stu-di Ghibli, sotto choc. Ci chiedevamo secontinuare il film avesse ancora un sen-so. Dopo Fukushima, Ghibli ha disdettoil contratto con la società nazionale chegestisce la centrale nucleare. Io ho scrit-to un “j’accuse” contro il governo, e me losono inimicato per sempre: erano ester-refatti nell’osservare la ribellione di un“tesoro nazionale vivente”, quale io so-no, ormai ritenuto docile e neutrale ban-diera. Da allora sulla mia vecchia Citroëndue cavalli, modello Charleston, cam-peggia un adesivo antinucleare».

Ma la sua protesta è sempre stata lamatita. Dunque...

«...Finché potrò guidare la mia 2 Cvcontinuerò ad andare regolarmenteogni giorno agli Studi Ghibli. Ho in pro-getto vari corti. Mi sono liberato del cap-pio dei lungometraggi. E ho ridotto i mieiorari: un quarto d’ora più tardi al matti-no, mezz’ora prima la sera. Pensi che unavolta lavoravo tanto che non mi rendevoconto di che cosa mi passasse accanto: iBeatles, per esempio, me li hanno rac-contati dopo. Eppure erano della mia ge-nerazione! Sono tornato a disegnaremanga: una storia di samurai nel Giap-pone del XVI secolo. Ho più tempo a di-sposizione per le escursioni in montagnao per stare in casa con mia moglie. Possopersino godermi in tv i Simpson cheprendono in giro i miei fantasmi. E spes-so torno a Fukushima, dove osservo conquale forza e dolcezza silenziosa la natu-ra, in assenza dell’uomo, riconquista isuoi diritti. Il primo segnale è l’erba, lasua tenerezza, il suo delicato muoversinel vento. Finché potrò maneggiare unpennello o un pastello, non mancheràmai nei miei fogli l’erba nel vento».

(segue dalla copertina)

Poi anche se uno deve studiare, un altro sente la musica, un altro an-cora ha invitato un amico e l’ultimo deve consegnare un lavoro po-co a poco, nei primi dieci minuti il divano davanti alla tv si riem-

pie. Arrivano uno per volta, è un incantesimo. Si fermano.Cosa ci sia di magnetico, di ipnotico nel cinema di Miyazaki è un mi-

stero che attraversa le generazioni. Parla a tutti dicendo a ciascuno qual-cosa di diverso. È come se avesse trovato l’arcano della lingua univer-sale. Alla domanda «ma cos’è che vi piace?», ecco le risposte, a voi il gio-co di associarle alle diverse età: «Mi piace perché non sai mai dove va afinire, non fa la moralina delle fiabe». «C’è sempre l’erba che si muovenel vento». «La sua fantasia è come la mia». «È cattivo». «Disegna gli uo-mini come maiali». «È gentile». «Come racconta lui nessuno al mondo».«Fa succedere le magie, è bello e basta». È bello e basta, del referendumdomestico, mi pare la risposta più precisa. È bello, e basta.

Tra le magie che fa succedere, ai miei occhi, c’è quella di rendere ac-cessibile una storia d’amore fra bambini nell’età precisa in cui i bambi-ni, a scuola, sono solo “maschi contro femmine” e di questo va reso ono-re a I sospiri del mio cuore, al maestro liutaio di Cremona (avete notatoche c’è sempre l’Italia nelle sue storie?) e alla ragazzina che va alla ricer-ca di chi prende sempre in prestito i libri prima di lei. Poi c’è quella direndere i genitori inutili: ogni volta che rivediamo La città incantatari-diamo di quanto sono stupidi e avidi e miopi gli adulti e di quanto i bam-bini sappiano cavarsela meglio da soli persino di fronte ai peggiori in-cubi. E sempre, sempre c’è qualcuno di noi che dice, alla fine, “ma saràun caso che tanti premi Nobel siano orfani?”. Di seguito ridiamo persdrammatizzare un po’, certo che nessuno si augura che, ci manche-rebbe, ma insomma se allentaste un po’ la presa, magari. Poi c’è la ma-gia della guerra, questo fatto di parlare sempre di guerra — perché laguerra i ragazzi la fanno, e gli adulti anche — e di raccontare bene tuttoil suo fascino, e la cattiveria che c’è dentro, e quanto sia attraente ma poianche renderla ridicola alla fine, e insomma Porco rossoè un maiale cac-ciatore di taglie ai tempi del fascismo e però finisce per cercare un amo-re perduto e vuole, come ogni supereroe, salvare il mondo. Solo che nonè bello né forte di muscoli, è un uomo-maiale che ascolta la musica sul-la sdraio e ci somiglia senz’altro più di Batman. A me di Miyazaki più ditutto piacciono le pause. Che ci sia tutto questo silenzio, nel rumore del-l’acqua e del vento, mi sembra un regalo. Un silenzio pieno di cose, unsilenzio che non è proprio nostalgia: è promessa. C’è un altro posto do-ve andare, un posto dentro di noi, spaventoso e bellissimo.

CONCITA DE GREGORIO

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Il misterodel bello e basta

DISEGNI/2Dall’alto, il gatto Gigida Kiki consegnea domicilio (1989),Princess Mononoke(1997). In bassoTotoro e il gattobusda Il mio vicino Totoro(1988)

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L’attualitàZoom

Se il paparazzo entra in politicahe direbbe Niccolò Ma-chiavelli dei paparazzi?Qualche traccia si puòtrovare all’inizio del capi-tolo XIX del Principe, làdove scrive che il potere

diventa “contennendo”, cioè disprezza-bile, quando è considerato “vario”, ossiavolubile, “leggieri, effeminato, pusilla-nime, irresoluto”. E qui pare proprio disentirli — clic, flash, clic, flash — i papa-razzi in azione. Appostati dietro qualchesiepe in Costa Smeralda, lungo i viali delpiacere notturno o in mare, pirati dellosguardo rapinoso, a caccia di intimità edebolezze sugli yacht. I loro agguati resiancora più efficaci dalla tecnologia, au-to-civetta, informatori, telefonini, can-noni visivi, elicotteri perfino.

“Da che — secondo Machiavelli —uno principe si debbe guardare come dauno scoglio e ingegnarsi che nelle azionisue si riconosca grandezza, animosità,gravità, fortezza”. Eh, pare facile! Unpaio d’anni fa a Montecitorio, stanchi diessere beccati in aula mentre dormivanosui banchi, si ripassavano il trucco, si tra-stullavano con i videogiochi quandonon consultavano siti di escort, gli ono-revoli questori tentarono una strettaproponendo ai fotografi delle tribune disottoscrivere una specie di impegno pernon riprendere «comportamenti» non«essenziali per l’informazione». Figurar-sela, l’essenzialità. È la caccia piuttostoche è nata con l’uomo e la politica lo stes-so. Inevitabile “spiare”. Dice nulla che ilpiù cliccato sito d’informazione si chia-ma Dagospia? Che la Santanché bat-tezzò un suo rotocalco Io spio e che nel2011 è stato messo in vendita l’archiviofotografico dall’agenzia Spyone?

E insomma: in un regime di finzioniogni disfunzione che sfrondi l’alloro deipotenti, oltre a recare un prezioso bran-dello di verità, costituisce un salutarecontrappeso politico. Poi sì, certo, di-

nanzi al nocchiero D’Alema che cascadal canottino, a Fini sub che mostra ilconchiglione proibito, a Formigoni chesi tuffa turandosi il nasino, a Bocchinosulla spiaggia con l’Ape Regina o ad Alfa-no che si fa fare la manicure sulla spiag-gia, beh, la rilevanza di tali immagini ètutta da dimostrare, ai fini della demo-crazia.

Ma non si può mai dire. A suo tempo,per dire, restituì qualche senso alla vi-cenda P2 la paparazzata retrospettiva diAndreotti al fianco di Gelli in abito da se-

ra; così come dice qualcosa, o molto, otroppo, e domani chissà, anche solo unfotogramma della giovanissima France-sca Pascale che si esibisce nella perfor-mance del calippo. Dal che s’intuisceche quasi tutto fa brodaglia; e se que-st’ultima è all’arsenico o al curaro puòanche accadere che il video-fantasma diMarrazzo, commercializzato ai massimivertici editoriali e istituzionali, si sia tira-to appresso chi dice uno, chi dice due ca-daveri.

L’uso politico dei paparazzi, non di ra-

FILIPPO CECCARELLI

L’AGONIA DI PIO XIIAnno 1958, l’archiatra fotografail Papa morente e vende gli scatti ai giornali francesi

C

SELFIEBarack insieme alla premier danese,Michelle non gradisce. La fotofa scoppiare il caso: coppia in crisi?

IL TUFFOInaugurò una lunga seriefacendo il giro del mondoquello di Gianni Agnellinudo dal suo yacht (1978)

P2Che ci fannoGelli e Andreottiinsieme a unaserata di gala?

NEW YORK 1971Il re dei paparazzi, Ron Galella,“insegue” Jackie Kennedyin Madison Avenue

NAPOLI 1973Il presidente della RepubblicaGiovanni Leone fa le cornain visita ai malati di colera

CASCHIHollande con Julie Gayetin rue du Cirque“beccati” dal paparazzoSébastien Valiela

■ 28DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la RepubblicaLA DOMENICA

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PARIGI Un uomo coperto dal casco entra in un palazzo.Nello scatto di Sébastien Valiela il volto di FrançoisHollande non appare mai. Sono immagini che non di-mostrano niente eppure passeranno alla storia comela prova schiacciante che ha mandato in crisi la coppiapresidenziale. È l’ennesimo paradosso di quella cheClément Chéroux, conservatore al Museo Pompidoue responsabile del dipartimento fotografico, chiama“estetica paparazzi”. Con uno scherzo del calendario,per la prima volta i figli minori della fotografia entranoal Museo Pompidou di Metz. La mostra Paparazzicu-rata da Chéroux, dal 26 febbraio al 14 giugno, celebrail voyeurismo in ogni sua forma. Ovviamente Hollan-de e la liaison con l’attrice Julie Gayet non c’entrano: ilraffinato omaggio al famigerato mestiere era previstoda tempo. Un percorso attraverso seicento opere, inun dialogo tra grandi paparazzi come Tazio Secchia-roli, Ron Galella, Pascal Rostain e Bruno Mouron, lostesso Valiela, e artisti come Richard Avedon, Ray-mond Depardon, William Klein, Gerhard Richter,Cindy Sherman o Andy Warhol. All’ingresso della mo-stra, il visitatore è aggredito dai flash in stile Dolce Vi-ta. Altri tempi. Ormai grazie ai teleobiettivi e alla tec-nologia digitale i cacciatori possono lavorare lontani,restando invisibili. Nel catalogo, Ron Gallela ricorda

quando per immortalare Jackie Ken-nedy su Madison Avenue si avvicinò ameno di un metro da lei. Ogni paparaz-zo ha il suo cliché preferito. Daniel An-geli: «Gianni Agnelli che si tuffa nudodal suo yacht». Pascal Rostain: «Bene-detto XVI ormai non più Papa che pas-seggia per i giardini di Castel Gan-dolfo». Valiela: «François Mitterrand eMazarine che escono dal ristorante Di-vellec». Paparazzi e vita politica s’in-trecciano da tempo in Francia. La figliasegreta di Mitterrand nel 1994. CéciliaSarkozy che cerca casa con l’amante aNew York nel 2005. L’uomo con il cascoin rue du Cirque, 10 gennaio 2014. No-nostante la difesa della privacy sia po-polare nei sondaggi e salvaguardata daleggi durissime, un francese su tre leg-ge rotocalchi scandalistici. A Parigi c’è

stata anche la più famosa vittima dei paparazzi: 31agosto 1997, sottopasso del Pont de l’Alma. La foto diLady Diana agonizzante, con un filo di sangue che lescivola dalle labbra, non è ancora mai stata pubblica-ta. Un raro slancio di umana pietà.

Gli amantidi rue du Cirque

ANAIS GINORI

Mentre la foto di un uomo col casco travolge l’Eliseola Francia celebra in una mostra i professionistidegli scatti rubati.Dal jet set ai palazzi del potere,dalle orecchie di Fanfani alla morte di Lady D, tutte le volteche la piccola o grande storia cambia per colpa o grazie a un clic

do intrecciato all’universo dei poteri oc-culti, dei corpi separati dello Stato e de-gli investigatori privati, nasce con il casoMontesi (1953 e seguenti). C’era un foto-grafo, soprannominato “la mitragliatri-ce umana”, ad attendere nell’androne

del palazzo dove uno dei grandi ac-cusatori della Dc andava a divertir-si, per giunta con la moglie e un gio-

vanotto minorenne. Poi quello stes-so affare Montesi contribuì a ridisegna-

re, nel campo del potere politico, i confi-ni invalicabili tra pubblico e privato. Al

netto del clamore suscitato dalle foto del-l’agonia di Pio XII — ma allora fu l’infede-le archiatra pontificio a improvvisarsi pa-parazzo per rivendere gli scatti — queiconfini resistettero per almeno un tren-tennio, durante il quale la selvaggina eralimitata ai personaggi della decaduta no-biltà, dello spettacolo e dello sport.

Fermo restando che per i campionidell’economia e del Palazzo il genere del-l’indiscrezione fotografica ondeggiò alungo tra sorriso e intimidazione, com-plicità e ricatto, qualcosa si smosse negli

anni ’70. Lo testimoniano celebri e indi-menticabili foto: Leone che fa le corna,Fanfani tirato per le orecchie, De Miche-lis che balla con l’attricetta dall’ampiascollatura, l’Avvocato Agnelli che si tuffanudo dalla barca. Oggi sembrano robetteinnocue. Già meno lo era, anche conside-rato l’imminente attentato, l’istantaneadi Papa Wojtyla che strizzava il costumeda bagno in piscina. Ma tutto lascia pen-sare che quelle istantanee preparassero ilterreno alla straordinaria inversione chedomina il presente per cui, a farla breve, i

sorveglianti si sono trasformati in sorve-gliati.

Varie e complesse ragioni devonoaver determinato un ribaltamento, an-che nel senso comune, che ha innescatol’intrusione pervasiva dello sguardo delpubblico all’interno di domini entro cuierano da sempre custoditi i segreti dellasovranità. E può suonare come una sce-menza, ma nacque proprio negli anni’80 e ’90, eminentemente televisivi, laclasse ibridata del Vip — e subito le si ap-piccicarono addosso i rotocalchi con larubrica “Acchiappavip”. Forse la privacyarrivò troppo tardi, o come una foglia difico. Intanto Occhetto baciò la mogliedavanti a un obiettivo; e Craxi si lasciòsorprendere seminudo e malato in unospedale tunisino. Tra affetti, drammi emondanità compulsiva Cafonal era alleporte. Sempre più, per surrogare quelconsenso che sentivano venir meno, ipolitici presero a mettersi in mostra,aprirono le loro case, gli album di fami-glia, gli armadi, i frigoriferi, perfino leporte dei cessi. Era come dire ai papa-razzi: eccoci, venite e scattate, scattate,qualcosa resterà.

Berlusconi, che proveniva proprio daquel coacervo di gusti, interessi e para-digmi culturali, ci mise del suo — e ne eb-be in cambio il dovuto. Dopo una primasventagliata di immagini proibite, conlui che tocchicchiava un’attivista di For-za Italia tenendosela sulle ginocchia, fuapposto il Segreto di Stato su Villa La Cer-tosa. Ma tempo due anni, sempre grazieal valoroso Zappadu, fu possibile vedereciò che tutti immaginavano. Vistose nin-fe sotto la doccia e soldati in mimeticacon fucili mitragliatori: Venere e Marteavevano avuto il fatto loro da MercurioPaparazzo, e pure a spese del Priapo To-polanek. L’Italia come una fotoromanzopornosoft. Chissà Machiavelli, che già lavedeva ridotta “nel termine che ella è dipresente”, e quindi messa già allora ab-bastanza male.

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LA PISCINA DEL PAPAEstate 1980, le “foto segrete” di Wojtylaa Castel Gandolfo mettono in allarmei servizi di sicurezza. Le pubblicò Gente

DOLCE VITAI paparazzi attendonoche Sylvia-Anita Ekbergscenda dall’aereo (1959)

SEXGATELo scandaloscoppianel 1998:il presidenteha unarelazionecon unastagistadella CasaBianca

AH, L’AMOUR!Scoopdi Closer:scoppiail casoHollande

LA FIGLIA SEGRETAÈ il 1994 quando la Francia“scopre” Mazarine Pingeot,figlia segreta di Mitterrand

LE ORECCHIESono quelle di Fanfani:a tirargliele fu il militantedella Dc Angelo Gallo (1979)

L’ULTIMO BACIOCapalbio, 1988,la “svolta” del Pci:fotografato e pubblicatosul Venerdì di Repubblicail bacio tra Occhettoe la moglie Elisabetta

IN ESILIOIl piede fasciatodi Craxi diventasimbolo dell’ esilio a Hammamet

NEL TUNNELLady D primadi morire inseguitadai paparazzinel tunneldell’Alma a Parigi

■ 29DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

VILLA CERTOSAEl Pais pubblica le foto dei festininella villa in Sardegna di BerlusconiIn Italia era coperta dal segreto di Stato

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LA DOMENICA■ 30DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

“Nei bassifondi di Londra ha riscoperto l’arte della Romaantica e in America lo spirito ribelle del vagabondoSa far ridere e piangere con un solo gesto. È un genio”L’articolo di un grande ammiratoredell’uomo che cent’anni fa creò Charlot

L’anniversario1914-2014

La sorte ci sposta qua e làsulla scacchiera della vita,con mosse di cui non co-nosciamo lo scopo. Lamorte del padre fece crol-lare sulla testa di Charlie

Chaplin un mondo di agi e sicurezze eprecipitò nella povertà lui, sua madre esuo fratello. Ma la povertà non è unacondanna a vita, è una sfida. Per alcuni,è qualcosa di più: è un’opportunità. Ecosì fu, per questo figlio d’arte. Nella ca-leidoscopica vita delle strade più pove-re di Londra trovò la tragedia e la com-media e imparò che esse nascono dasorgenti assai vicine. La lotta per so-pravvivere diede un nuovo senso allecose comuni. Al limite della sussisten-za, la natura umana ha poche reticenzee si rivela in modo molto più chiaro ecompleto che non in ambienti più pro-tetti. E lo sguardo attento di Charlie,giorno per giorno, colse nuovi aspettidella vita che scorreva attorno a lui.

In circostanze simili per qualche ver-so, molti anni prima, un altro ragazzoaveva trovato, nel grande rigoglio dellavita londinese, la chiave per raggiunge-re la fama e il successo. Anche lui era sta-to disperatamente povero. Anche a luiera mancato molto di ciò che dovrebbeessere un diritto di nascita di ogni bam-bino. Eppure, l’alchimia del genio tra-mutò amarezze e sofferenze nell’orodella grande letteratura e ci diede i ro-manzi di Charles Dickens.

C’è tra i due, a mio avviso, una so-

stanziale somiglianza. Entrambi ebbe-ro esperienze dure nella loro infanzia.Entrambi trasformarono le proprie di-sgrazie in un trampolino verso il suc-cesso. Crebbero su strade diverse, scel-sero mezzi espressivi diversi, ma en-trambi scavarono nella stessa ricca mi-niera della vita di ogni giorno trovando-vi un tesoro di divertimento e di dram-maticità per la gioia di tutta l’umanità.Non dobbiamo quindi dolerci delleombre che scesero sui primi anni di vi-ta di Charlie Chaplin. Senza di esse, ilsuo talento sarebbe forse stato menobrillante e il mondo intero sarebbe sta-to più povero. Il genio è essenzialmen-te una pianta resistente. Cresce floridonel vento dell’est. Appassisce nel caloredi una casa. E questo, secondo me, è ve-ro per qualsiasi carriera.

In Inghilterra, ci piace pensare cheCharlie Chaplin sia un inglese, ma l’A-merica ha dato un nuovo orientamen-to, un nuovo smalto alla sua qualità. Gliha aperto nuovi campi nel carattere enuove prospettive. Quando il giovaneattore attraversò l’Atlantico, la vita ne-gli Stati Uniti era più fluida che in In-ghilterra. La personalità era ancora piùimportante delle convenzioni. La de-mocrazia non era solo un’istituzionepolitica, ma una realtà sociale. Le di-stinzioni di classe contavano relativa-mente poco quando il manovale as-sunto oggi era spesso il datore di lavorodi domani. Perfino la povertà era diver-sa in America. Non era l’amara, oppri-mente indigenza che Charlie aveva in-contrato nei bassifondi di Londra. In

molti casi si trattava di una povertà scel-ta deliberatamente, più che impostadall’esterno. I vagabondi di Chaplin so-no familiari a chiunque vada al cinema,ma mi chiedo quanti abbiano riflettutosu come siano tipicamente americaniquesti senzatetto. Nei ranghi dei vaga-bondi inglesi si può trovare ogni generedi persona, dal laureato la cui carriera èstata travolta dalla rovina e dal disono-

re, all’analfabeta mezzo scemo inabileal lavoro fin da ragazzo. Tutti, però,hanno una cosa in comune: essi appar-tengono al grande esercito degli scon-fitti. Fingono ancora di cercare lavoro,ma non si aspettano di trovarlo. Sonouomini ormai spenti e senza speranza.

L’hobo americano spesso non eratanto un emarginato della societàquanto uno che vi si ribellava. Non po-

teva assestarsi in una casa o in un lavo-ro. Odiava la routine di un impiego re-golare e amava i cambiamenti e le oc-casioni che gli offriva la strada. Dietroai suoi vagabondaggi c’era qualcosadel vecchio spirito d’avventura chespinse i carri coperti ad attraversarepesantemente la prateria verso il tra-monto. Questo spirito indomito è par-te integrante del personaggio creatoda Charlie Chaplin sullo schermo. Losconfitto di cui traccia il ritratto è cer-tamente americano, non britannico. Ilvagabondo di Chaplin ha un tratto disfida e di disdegno.

La scena americana nel suo com-plesso ha influenzato Chaplin, con lasua varietà, i suoi colori, la sua anima-zione, i suoi strani e spettacolari con-trasti. E gli Stati Uniti hanno fatto anco-ra di più per quel piccolo attore inglese;gli hanno dato l’opportunità che, senzasaperlo, aspettava. Gli hanno presenta-to il mezzo ideale per esprimere il suogenio, il cinematografo.

Chaplin sogna di interpretare ruolitragici così come ruoli comici. Chi sor-ride davanti a queste ambizioni non hacapito il vero valore del suo genio. Nes-sun clown, per quanto bravo, avrebbemai potuto catturare in un modo cosìtotale l’affetto del grande pubblico. Lasua posizione di star senza rivali la deveal fatto di essere un grande attore, sicu-ramente capace di far vibrare i nostrisentimenti più profondi così come difarci ridere. In alcuni dei suoi film ci so-no momenti di un’intensità emotivaquasi insostenibile. È una grande con-

WINSTON CHURCHILL

LE FOTOGRAFIECharlie Chaplin e, alle sue spalle, Winston Churchill

durante un party londinese nel 1932. Nell’altra pagina, a destra,i due sul set di Luci della ribalta nel 1931 e sempre nello stesso anno

davanti alla tenuta dello statista a Chartwell, nel Kent

“Caro Charlie, lei è il nuovo Dickens”

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■ 31DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

che, diciannove secoli fa, incantò lacittà dei sette colli. Da giovane avevafatto parte di una compagnia di varietàin tournée nelle isole del Canale dellaManica.Gli isolani, che parlano princi-palmente il dialetto franco-normannodei loro antenati, non capivano le frasiin dialetto londinese degli attori, ren-dendo inutili le battute più divertenti.Alla fine, per disperazione, la compa-gnia decise di tentare di renderle effi-caci con dei gesti e delle azioni. Un so-lo spettacolo, svolto con le nuove con-dizioni, bastò a rivelare in Charles unmimo geniale e mostrò anche a luiquanto fosse potente la presa che que-sta recitazione senza parole potevaavere sul pubblico. Da allora in poi, hasviluppato il suo talento naturale perl’espressione mimica, preparandosicosì, inconsapevolmente, per quelgiorno in cui il suo pubblico sarebbestato il mondo intero.

Ma solo quando si è lanciato nellacarriera cinematografica la sua arte èfiorita pienamente. Chaplin ha adatta-to la sua tecnica al cinema e, mentre im-parava ad apprezzare tanto i limiti chele possibilità dello schermo, ha perfe-zionato la sua maestria nel nuovo mo-do di recitare. Ha capito che, come luistesso ha detto, “si può commuoverepiù intensamente il pubblico con ungesto che con la voce”.

Traduzione di Luis E. Moriones(Da Everybody’s Language. Questo

testo apparve sul settimanale ingleseCollier’s il 26 ottobre 1935)

quista, possibile solo a un attore consu-mato, essere in grado di far ridere opiangere il pubblico.

La più grande conquista di Chaplinsta nell’aver fatto rivivere nei tempimoderni una delle grandi arti del mon-do antico, un’arte il cui segreto eracompletamente e, sembrava, irrevo-cabilmente perduto. L’età dell’orodella pantomima fu sotto i primi Cesa-ri. Si dice che l’abbia inventata lo stes-so Augusto, il primo imperatore roma-no. La praticava Nerone, quando scri-veva i suoi poemi, per rilassarsi dopoattività più serie come la soddisfazionedella lussuria, della piromania e deipiaceri della gola. Ma i più grandi pan-tomimi (nell’antica Roma il nome in-dicava gli attori e non l’arte di cui era-no gli esponenti) dedicarono tutta lavita a recitare in spettacoli muti, fino adominare completamente tutte le po-tenzialità espressive del movimento edel gesto. Con il trionfo del cristianesi-mo, le pantomime scomparvero. I lorotemi preferiti erano troppo esplicita-mente fisici per i Padri della Chiesa, enon erano sufficientemente adattabi-li per cercarne di nuovi all’ombra del-la Croce. Eppure i soggetti c’erano, manon se ne accorsero. Chaplin lo dimo-strò ne Il pellegrino. Ricordate la scenain cui, nei panni di un evaso vestito daministro del culto evangelico, si ritro-va sul pulpito e racconta la storia di Da-vid e Golia? È una magnifica prova dimimica, nella quale seguiamo ogniparticolare del dramma.

Chaplin ha riscoperto per caso l’arte © RIPRODUZIONE RISERVATA

Giusto cent’anni fa, nel febbraio del 1914, Cha-plin inventava la figura del “vagabondo” per lecomiche della Keystone. Charlot (come lo

avremmo presto chiamato in Francia e in Italia) di-venterà il simbolo dell’ascesa del cinema nel ’900, delsuo carattere totale, capace di parlare a tutto il mondo.Celebrità planetaria, legata a un pubblico popolare,che aveva fame di risate e di giustizia, Chaplin è statoanche colui che ha rivelato il cinema agli intellettuali.Ovvia è la passione che per lui hanno avuto i teorici ecritici del nuovo mezzo (da Ejzenstein ad Arnheim eKracauer), o i pensatori che si sono confrontati con lenovità tecnologiche e percettive del cinema, comeWalter Benjamin o Theodor Adorno. Quest’ultimo,esule negli Stati Uniti, frequentò spesso quello che luidefiniva “il Chaplin empirico”, in carne e ossa. E il loroincontro ci regala un paio di immagini a dir poco cu-riose. Alla fine del party in onore di Monsieur Verdoux,Adorno accompagna al piano le esibizioni di Chaplin.In un party a Malibu, Adorno “stringe la mano” all’at-tore Harold Russell, che però le mani le aveva perse inguerra, e portava delle protesi. Chaplin imita imme-diatamente la gaffe e il ghigno imbarazzato del filo-sofo, suscitando «una risata prossima all’orrore».

Per Hannah Arendt, nel vagabondo di Chaplin ri-

luce la secolare paura dell’ebreo davanti all’autorità.Brecht, fin dagli anni ’20, lo considerava l’attore idea-le per il proprio teatro epico. Sartre diciannovenne lodefiniva il moderno Lazarillo de Tormes. E non pote-vano rimanere immuni dal suo fascino i poeti. DiChaplin scrissero tra gli altri Saba e Ungaretti (e ov-viamente Pasolini), Garcia Lorca e l’inevitabile Ara-gon. Autori d’altri tempi? Chaplin sarebbe in fondoun autore del secolo scorso, su cui è impossibile direqualcosa di nuovo? No, a dar retta al romanzo di Fa-bio Stassi, L’ultimo ballo di Charlot (Sellerio), in cui ilvecchio attore riesce a rinviare la propria fine, facen-do ridere la Morte in persona.

Certo, il senso di un’arte di massa, capace di con-solare e migliorare il pubblico, era la grandezza del ci-nema. E le masse urbane di poveri, da cui Chaplinproveniva e a cui sapeva parlare, in Europa non esi-stono più. Intanto, nelle sale torna da domani La feb-bre dell’oro, restaurato dalla Cineteca di Bologna.Tornare a rivedere Chaplin è come tornare a vedered’un colpo il Novecento e le sue speranze. Magari permisurare quanto (o quanto poco) ancora somiglia-mo a quest’omino, e per quanto tempo i nostri figli enipoti saranno capaci di ridere con lui.

Adorno, Arendt, Brechtil più amato dagli intellettuali

EMILIANO MORREALE

© RIPRODUZIONE RISERVATA

LA LETTERA

29 novembre 1952Mio caro Signor Chaplin, ho una sala privata a Chartwelle lo scorso martedìho avuto il grande piaceredi vedere Luci della ribaltaMi devo congratulare con lei per questo capolavoro che abbiamo tutti guardato con un intreccio di commozionee divertimentoSecondo Platone,Socrate dicevache il genio della tragedia e della commedia era essenzialmente lo stesso e che dovrebbero esserescritte dallo stesso autore Sono feliceche abbia ricevutouna così buona accoglienzanella sua oppressaterra natale

Cordialmente suoWinston Churchill

(da Footlights/The Worldof Limelight di David Robinson,

Edizioni Cineteca, Bologna)

LE CELEBRAZIONIImmagini e documenti di queste pagine sono conservatidall’Archivio Chaplin della Cineteca di Bologna che officerà i festeggiamenti ufficiali del centenario di Charlot (Makinga Living, la sua prima commedia è del 2 febbraio 1914)Da domani in 70 sale italiane saranno proiettati La febbredell’oro nella versione restaurata da L’immagine ritrovata e ilcorto Kid Auto Races at Venice nel quale, il 7 febbraio del 1914,comparve per la prima volta il personaggio di CharlotI più importanti chaplinisti del mondo parteciperanno inoltrea un convegno dal 26 al 28 giugno a Bologna, nell’ambitodi una tre giorni che prevede anche la proiezionein piazza Maggiore delle comiche del 1915, appena restaurate,con l’accompagnamento dal vivo dell’Orchestra del Teatro Comunale e l’anteprima del documentarioAlla ricerca di Charlie Chaplin del premio Oscar Kevin Brownlow

L’ARTICOLOPrima ancorache grande politico,Winston Churchillfu storicoe giornalistaIn questa vestefirmò il testoqui pubblicato e che apparvesul settimanaleinglese Collier’sil 26 ottobre 1935(a destra, l’originale)

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LA DOMENICA■ 32DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Il 7 febbraio 1964i Four non ancora Fabarrivano a New Yorkper partecipareall’Ed Sullivan ShowÈ il loro primo tourin Americae in pochi mesila conquisterannoMa non tuttifurono in gradodi capire subito il perché

Yeah Yeah YeahSpettacoli

SAN FRANCISCO

LAS VEGAS

VANCOUVER

LOS ANGELES

DENVER

SEATTLEBIGLIETTI ESAURITI22 agosto: è la prima datacanadese dei BeatlesIl concerto all’EmpireStadium di Vancouverregistra il tutto esaurito

L’ASSALTOAll’aeroportodi San Franciscoil 18 agosto 1964migliaia di fanattendono l’arrivodel gruppo:l’area recintatavenne ribattezzata“Beatlesville”

PARRUCCHEL’attesa per l’arrivodei Beatles è anche

una questionedi testa

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PRIMA PAGINAUn’invasione di scarafaggiconquista Las Vegas,il Sun dedica al concertodei Quattro tutta la prima pagina

MINACCENon tutti li amano:l’Fbi prende sul serioquesta lettera anonima“Cancellate il concertodi Denver”

GADGETNegli Usa esplode la beatlesmania:dalle caramelle (a sinistra)alle saponette (qui sotto),ai giochi da tavola (in basso“Flip Your Wig” che si ispiraal Monopoli). A sinistra, i Beatlesinvadono anche le copertinedei magazine per teenager

IL TOUR22 febbraio 1964,i Beatles rientranoa Londra dopol’Ed Sullivan ShowTorneranno negli Statesper i concerti ad agosto

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MONTREAL

NEWYORK

BALTIMORA

PITTSBURGH

KANSAS CITY

IL LIBROBeatles in America. Lo scenario e la storia, cinquant’anni dopo

di Spencer Leigh (Arcana Edizioni, traduzioneGiancarlo Rapetti, 216 pagine, 25 euro)

racconta con aneddoti, fotografie, interviste e memorabilia il primo sbarco negli Usadei Fab Four. In libreria dal 6 febbraioDa qui sono tratte tutte le immagini

pubblicate in queste pagine

INDIANAPOLISCINCINNATI

JACKSONVILLE

ATLANTICCITY

PHILADELPHIA

TORONTO

NEW ORLEANS

SOLD OUTIl biglietto del concerto

a Indianapolisil 3 settembre: i Beatles

fanno il tutto esaurito

TOP TENA sinistra,

la classifica Billboardsui singoli più venduti

del 4 aprile: le primecinque posizionisono occupate

da canzoni dei BeatlesA destra, i Fab Four

si rilassano in Floridacon Neil Aspinall

IL DEBUTTOWashington,11 febbraio,primo concertoJohn butta giùla scaletta sulla cartadell’hotel. Il primopezzo che farannoè “Beethoven”,ovvero Roll OverBeethoven di Chuck Berry

CHICAGO

MILWAUKEE

BOSTON

Altroche febbre dei Beatles. Il giornoin cui l’America scoprì i Fab Four,George Harrison giaceva bollente alquindicesimo piano del Plaza, il mi-tico Grand Hotel tra Fifth Avenue eCentral Park, l’albergo dove Tru-

man Capote allestì lo scandaloso ballo in masche-ra per celebrare A sangue freddo. Caldo, caldissimo,George era invece crollato all’indomani dello sbar-co dal volo Pan Am che da Heatrow, Londra, avevaportato lui, John Lennon, Paul McCartney e RingoStarr a New York. Era il 7 febbraio di mezzo secolofa e i Favolosi Quattro, scritturati per la sera del 9 daEd Sullivan nello show più seguito degli Usa, stava-no per entrare nella Storia, 73 milioni di spettatoritv su 191 milioni di abitanti. Ma come si fa a entra-re nella Storia con la tonsillite?

Tutti bravi, col senno di poi, a riconoscerne lemagnifiche sorti e progressive. Eppure i Beatles, inAmerica, quel febbraio di cinquant’anni fa rischia-rono davvero di naufragare come l’Andrea Doriasei anni prima a Nantucket, unica gloria del madein Europe che il Vecchio Continente avesse osatoesportare fin laggiù. E la tonsillite di Harrison nonera il più sinto-somatico dei disturbi? Il mal di gola

del chitarrista, che sognava di essere lui, e nonLennon e McCartney, il cantante della band.

La verità è che la febbre dei Beatles, in quelfebbraio 1964, stava facendo tremare soprat-tutto loro. Prendete McCartney. «Quaggiùhanno già tutto» mormorò sbirciando dal fi-nestrino l’aeroporto ribattezzato “John Fitz-gerald Kennedy” in onore del presidente

dré Millard, che la rico-struisce in Beatlema-

nia parla ovviamente pro li-bro suo. La ragazzina che,

complice la nascente globaliz-zazione, sconfigge i manager piùsordi della storia della musica «di-mostra che i Beatles si materializ-

zarono nel momento migliore: allaconvergenza di forze economiche,

tecnologiche e demografiche». Davvero? Più bril-lante, ovviamente, fu la lettura del New York Times.La corrispondenza di Paul Gardner dal JFK è da an-tologia: «Moltiplicate Elvis Presley per quattro, to-glietegli sei anni d’età, aggiungeteci l’accento in-glese e uno spiccato senso dello humor. Risultato:ecco i Beatles (Yeah, Yeah, Yeah)».

D’accordo, quando torneranno per il tour esti-vo, quell’agosto, sarà ancora peggio. Folle di ragaz-zine in delirio, sui sediolini dei palasport sveniran-no e, perfino, verranno. «Qui non c’è esperienza ar-tistica o musicale» sentenziò il rapporto segreto delgoverno di Israele, uno degli stati che mise i Quat-tro al bando, e che Michael Tomasky ripesca oggi inThe Beatles in America, Then and Now: «Qui c’è sol-tanto un atteggiamento sensuale che provoca sen-timenti di aggressione e stimolo sessuale». Ci sia-mo: sesso e rock’n’roll. Con un pizzico di droga,nella fattispecie marijuana, che sempre nell’immi-nente tour estivo i Beatles impareranno a conosce-re con il piccolo aiuto del loro amico Bob Dylan.

Ma questa è un’altra storia. A quel primo giro an-cora no, l’America era ancora tutta da conquistare,quel blitz di febbraio per i Beatles era ancora unascommessa: che qualche furbone credette pure di

poter sbancare giocandoci contro. Quel gran geniodi Chet Huntley, per esempio, ebbe una splendidaidea per chiudere il tg la sera dello storico 7 feb-braio. «Come tutti» disse «abbiamo mandato trecameramen per seguire l’arrivo dall’Inghilterra diun gruppo noto come i Beatles. Ma dopo aver datoun’occhiata ai filmati, e al contenuto, credo non cisia nulla di veramente degno da mostrarvi. Buona-notte da Nbc News». E buonanotte, soprattutto, alfiuto giornalistico. D’altronde Chet non era solo.US News & Reportsscomodò addirittura David Rie-sman, autore di La folla solitaria, il saggio sociolo-gico più venduto negli Usa. L’intervista, 24 febbraio1964, s’intitola “Che cosa ci dicono i Beatles sui no-stri teenagers”. Risposta? Nulla: «Passeranno infretta, come questa moda dei capelli lunghi».

Per carità: tutti bravi col senno di poi. Ma nonsembra uno scherzo del destino, e fa pure venire unpo’ i brividi, scoprire soltanto oggi che a sdoganaremusicalmente gli Scarafaggi finì per essere un cri-tico che era pure un entomologo? Sì, TheodoreStrongin aveva perfino «identificato — ricorderànel ’98 l’obituary sul suo New York Times— alcunerare specie di “beetles” per il Museo Americano diStoria Naturale». Ma il suo capolavoro resta quellastorica recensione il giorno dopo l’Ed SullivanShow, 10 febbraio ’64, soprattutto per quell’esca-motage di far parlare — lui celebrato critico quasiquarantenne — un fantomatico “esperto quindi-cenne”: «Qui sono anni che non si vede un vero di-vo — spiegava il ragazzo — e in qualche modo dob-biamo pure liberarci dell’energia che abbiamodentro, no?». Altro che febbre, altro che tonsillite:era già epidemia.

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CLEVELAND

DALLAS

AUOTOGRAFIUn anno dopo l’omicidiodi JFK suonano a Dallase lasciano sul fogliod’hotel le loro firme

LA MAPPACittà per città, il primo tourdei Beatles in Usa nella mappapreparata dall’AmericanFlyers Airline Corp

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ED SULLIVANIl 9 febbraio

in tv allo showpiù seguito d’America

Accanto il manifestodel Forest HillsMusic Festival:

Joan Baez,Barbra Streisand,

Count Basie,The Beatles...

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trucidato tre mesi prima: «Che bisogno avrannomai di noi?». E George Martin, il produttore: «L’A-merica è l’Eldorado dell’enterteinment». E alloracon che coraggio quei ragazzini che s’erano sceltiun nome che stava tra gli Scarafaggi, le Blatte, “TheBeetles” insomma, e il ritmo di Jack Kerouac e del-la musica giovane, il “Beat”, si presentavano nellaterra dell’oro già asservita a Re Elvis Presley?

Chiedi chi erano i Beatles, in America, nel feb-braio del ’64. Ok, I Want To Hold Your Hand era fi-nita in testa all’hit parade: ma giusto giusto il primodi quel mese, poco prima dello sbarco. «Qui i Bea-tles non funzioneranno mai» aveva tuonato Jay Li-vingstone del colosso Columbia. Fu così che Plea-se Please Meera stata pubblicata da una piccola ca-sa di Chicago, la Vee-Jay, arenandosi in classifica alnumero 116, appena seimila copie vendute: per ta-cere dell’onta del nome storpiato sull’etichetta,“The Beattles” con due “t”. Che orrore. E la storia diI Want To Hold Your Hand? NewsweekeTimesi ac-corsero finalmente della beatlemania che sconvol-geva l’Europa nel novembre del ’63, e la Capitol, suomalgrado, si decise a pubblicare il singolo, dataprescelta 13 gennaio ’64. Ma una ragazzina, Mar-sha Albert, vide un servizio sulla Cbs il 10 dicembree scrisse alla radio di Washington, WWDC: mi fateascoltare i Beatles? Un deejay intraprendente, Car-roll James, chiese a uno steward della Boac, la Bri-tish Airways di allora, di portargli il 45 giri uscito inInghilterra quindici giorni prima. Una settimanadopo in radio era già un trionfo e a grande richiestai boss della Capitol furono costretti ad anticipare illancio al 26 dicembre: poco più di un mese dopo fuil boom in classifica.

Occhio, però, all’altra faccia della parabola. An-

sbarcarono al JFK

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Quattro scarafaggiANGELO AQUARO

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LA DOMENICA■ 34DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

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TURBINE EOLICHEPer produrre energiasi ricorre a turbine eolicheposizionate sulla sommitàdel grattacielo

Altro che “chilometrizero”. Potremmomangiare broccolettiche vengono dal pia-no di sopra. O dall’al-tra parte della strada.

O da dietro l’angolo. Non grazie a unimprobabile orto urbano, soprav-vissuto al cemento. Ma comprando-li in un normale supermercato, ca-pace di riempire la borsa della spesadi migliaia di persone con prodotticresciuti sopra le nostre teste, neipiani superiori del grattacielo che, apianoterra, ospita lo stesso super-mercato. Per i lettori di fantascienza,che da decenni hanno fatto la boccaal cibo cresciuto nelle stive delleastronavi o in cavernosi laboratorianti-bomba, è pura routine. Per i set-te miliardi di esseri umani che vi-

vranno nelle megalopoli del 2050,potrebbe diventarlo. In un mondodesertificato dal riscaldamento glo-bale, dove l’acqua è troppo preziosaper essere sparsa a irrigare le campa-gne, potrebbe essere, semplicemen-te, l’unica strada.

Difficile che i pachino cresciuti al-l’ultimo piano di un grattacielo dellaBovisa abbiano lo stesso sapore deipomodori originali. Quelli veri, d’al-tra parte, è difficile trovarli anche og-gi, da un normale fruttivendolo. E ilsapore, in agricoltura, conta solo in-sieme all’abbondanza. Nell’agricol-tura verticale di domani, manche-ranno anche molte altre cose: il sole,la pioggia, il vento, la neve, i colori, ipaesaggi. Ma i broccoletti del 2050potranno cavarsela con solo pochegocce d’acqua, zero pesticidi, nientetrasporto. Il conto dei vantaggi e de-gli svantaggi è più complesso e meno

scontato di quanto potrebbe sem-brare a prima vista.

Tecnicamente, l’agricoltura verti-cale è già una realtà. A marzo, verràinaugurata a Scranton, in Pennsyl-vania, la più grande fattoria verticaledel mondo. Produrrà lattuga, spina-ci, pomodori, peperoni, basilico efragole. La superficie è di poco più ditre ettari ma, siccome le piante sa-ranno sistemate su sei strati sovrap-posti, i tre ettari dell’agricoltura ver-ticale si moltiplicano: Green SpiritFarms, la società proprietaria, calco-la che si troverà a gestire 17 milioni dipiante. Avere un’idea del numero èimportante, perché, nella fattoriaverticale, ogni pianta, in qualchemodo, ha un trattamento individua-le. Pomodori o peperoni, a Scranton,saranno collocati in contenitori incui non c’è terra, ma acqua, poten-ziata con sostanze nutritive. Lampa-

MAURIZIO RICCI

ZERO SPRECHITutti i rifiuti generati

dalle varie attivitàvengono utilizzati

per produrre energia

ZERO EMISSIONILe emissioni in aria

e in acqua sono filtrateper non immettere

sostanze inquinanti

ZERO PESTICIDINessun disinfestante,

pesticida o antiparassitariograzie all’ambiente

chiuso e controllato

ZERO ENERGIALa struttura funziona

in autonomia, utilizzandosistemi fotovoltaici,geotermici ed eolici

Sole artificiale, pareti di vetro, irrigazione computerizzata,turbine eoliche. La “vertical farm” è già una realtàLa più grande del mondo (diciassette milionidi piante) sarà inaugurata a marzo in PennsylvaniaPer avere più raccolti in meno spazio con meno sprechie meno emissioni. E forse anche meno sapori

Il pachino del terzo pianoZERO DISTANZA

Vendita al dettaglio sul luogodella produzione. Evitando

il trasporto si risparmianocombustibile e rifiuti

Green Zone

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■ 35DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

LABORATORINei laboratori interni è monitorata la crescitae il valore nutritivo dei raccolti: un ascensoreli collega alle vasche per le coltivazioni

ILLUMINAZIONE A LEDLe piante sono illuminate con un sistemadi luci a led che simulano la luce del solee accelerano la fotosintesi clorofilliana

VASCHE IDROPONICHEAl posto della terra si usa la coltura idroponicache permette di far crescere le piantein piccole zolle alimentate da sostanze nutritive

PANNELLI SOLARIRivestono l’interasuperficie dell’edificio,generando tutta l’energia necessaria per i consumi

dine Led faranno le veci del sole. Unsoftware si preoccuperà di far ruota-re le piante in modo che ricevano tut-te la stessa esposizione alla luce sola-re, più di quanto, probabilmente,avrebbero all’aperto, in Pennsylva-nia.

A Singapore, di sole ce n’è fin trop-po. Quel che manca è lo spazio. Lafattoria verticale costruita da Sky-Greens contiene la risposta già nelnome della società. I quattro pianidella fattoria sono tutto vetro ma, so-prattutto, cavoli cinesi e lattuga simuovono anch’essi in verticale: unascensore muove lentamente ognifila di contenitori, facendoli salire aturno fino al tetto. C’è, peraltro, chi lapensa esattamente all’opposto. AKyoto, in Giappone, Nuvege produ-ce le sue lattughe in una sorta di enor-me hangar privo di finestre. Le pian-te sono illuminate solo da lampadi-

ne Led, tarate, però, sul rosso, oppu-re sul blu, per favorire due diversi ti-pi di clorofilla.

Ma se, tecnicamente, l’agricolturaverticale è possibile, economica-mente, poi, funziona? Forse in Sveziaun mango costa meno così, che im-portato con l’aereo, ma altrimenti?La prova l’avremo nei prossimi anni,anche grazie ai progressi della tecno-logia. Uno dei costi maggiori dell’a-gricoltura verticale è l’elettricità perle lampadine che replicano il sole.Un Led, oggi, ha un’efficienza del 28per cento, cioè produce energia lu-minosa solo per poco più di un quar-to dell’energia che consuma. Sulmercato, però, stanno per arrivareLed con efficienza al 68 per cento,con un drammatico salto di qualità.Tuttavia, la luce non è tutto. Anzi,può essere troppa. Le fattorie verti-cali stanno scoprendo che le piante

reagiscono meglio a una luce che va-ria dall’alba al crepuscolo. Un fintotramonto di cinque minuti favoriscela fioritura.

Per i profeti dell’agricoltura verti-cale questa, comunque, è una visio-ne miope. L’energia è un problema eun costo che possono essere facil-mente superati autoproducendo in-dipendentemente l’elettricità conpannelli fotovoltaici o riciclando gliscarti vegetali come biocombustibi-le. E, contemporaneamente, un altrocosto può essere abbattuto: l’acqua.Oggi, il 70 per cento dell’acqua dolce,nel mondo, viene usato per irrigare icampi. Uno dei motivi per cui l’agri-coltura verticale, domani, potrebbeaffiancare efficacemente l’agricol-tura tradizionale è che, per crescerela stessa pianta, la fattoria verticaleha bisogno del 2-5 per cento dell’ac-qua che occorre all’aperto, in larga

misura grazie al riutilizzo dell’umi-dità creata nell’ambiente dalle stes-se piante.

Anche considerando gli altri ri-sparmi ottenibili, tagliando il tra-sporto e facendo assegnamento, al-meno in teoria, sul fatto che non oc-corrono pesticidi, comunque tuttoquesto non basterebbe a fare dell’a-gricoltura verticale un’impresa eco-nomicamente sostenibile. Ma la fat-toria in un grattacielo può essere tre-mendamente efficiente. Per dimo-strarlo, il guru dell’agricoltura verti-cale, Dickson Despommier, si lanciain una simulazione estrema. Pren-dete un caseggiato su più piani, gran-de quanto un isolato urbano (due et-tari) e piantatevi il frumento nano,studiato dalla Nasa. Con raccolti tut-to l’anno, quei due ettari di città pos-sono produrre, dice Despommier,tanto frumento quanto quasi mille

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Dalla Pennsylvania a Hong Kong, dalla Sveziaa Singapore, ma anche in Francia o in Italia:si moltiplicano i progetti di “vertical farm”

che stanno passando rapidamente alla realtàIn molti casi, alla coltivazione viene affiancata

l’itticoltura e un supermarket al pianoterra

ettari di campagna.Forse non occorre arrivare al fru-

mento nano. La forza — e lo spazioeconomico futuro — dell’agricoltu-ra verticale è nella capacità di pro-durre più raccolti l’anno, anche inclimi in cui, diversamente dalle re-gioni più calde, questo non è possi-bile all’aperto. In una fattoria verti-cale sono possibili 30 raccolti l’annodi fragole, 14 di lattuga. In generale,considerando la maggior parte dellecolture sperimentate, si arriva a rac-colti annui 4-6 volte più frequentidell’agricoltura tradizionale.

E il contadino verticale? Nientelunghe giornate sotto il solleone o lapioggia. Lo troverete al bar, a teneresotto controllo piante, luci, softwaree ascensori con lo smartphone.Tranne, naturalmente, quando deveriparare rubinetti o cacciare topi.

DOVE SONO?

RIFIUTIGli scarti dell’edificiovengono recuperati,compostati e convertiti in energia pulita

FILTROConverte i microrganismi

dell’acquain sostanze nutritive

per le piante

DEPOSITO DEI SOLIDI

SCRANTON

CHIGAGO

SAN DIEGO

LINKOPING

SINGAPORE

MILANO

KYOTO

HONG KONG

Usa

Cina

Repubblica di Singapore

Svezia

Italia

Giappone

Usa

Usa

SERBATOIOL’acqua filtrata è immagazzinatain un serbatoiosotterraneo e usata per l’irrigazione delle piante

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LA DOMENICA■ 36DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

I saporiFar East

Fino a pochi anni fa noodles, udon o ramen non dicevano granchéai pastasciuttai italiani. Ma grazie ai menù orientalioggi sono tantissime le alternative alla nostra pastaper eccellenza.Come la versione soia, ricotta o grano saraceno

LICIA GRANELLO

Manzo scottatocon sobaFiletto di manzo al sangue per accompagnare le tagliatelle di grano saraceno della cucina giapponese

«Gli italiani hanno solo duecose per la testa: l’altra so-no gli spaghetti». La frase,attribuita a Catherine De-neuve, dice molto di quan-to gli spaghetti siano radi-

cati nel nostro immaginario collettivo (pur al secon-do posto). Dagli spaghetti-western, che hanno fattola fortuna di un pezzo del nostro cinema nel mondo,all’orribile trittico “spaghetti, mafia e mandolino”,molto dell’identità culinaria nazionale passa dal go-mitolo arrotolato sui rebbi della forchetta, nudo co-me pastaio l’ha fatto o impreziosito da mille sughidifferenti.

Eppure, non di sola farina vivono gli spaghetti. Esoprattutto, non solo di quelli made in Italy, se è ve-ro che sette secoli dopo la pubblicazione del Milionedi Marco Polo siamo ancora qui a discettare se iprimi vermicelli di pasta della storia sianostati realizzati in Cina o in Sicilia.

Più che la paternità gastronomi-ca, potè l’orizzonte alimentare,dilatato come non mai. Se fi-no a qualche anno fa, pa-role come soba o nood-les richiamavanonon identificati cibietnici, la diffusio-ne capillare deimenù orientaliha prodotto unpiccolo mira-colo di culturaa l i m e n t a r e .Frequentarelocali cinesi egiapponesi, tai-landesi e indianiè solo il primo pas-so, seguito invaria-bilmente dalla tenta-zione di riprodurre incasa le ricette stuzzicantigustate al ristorante.

Pasta asciutta — di riso,soia, grano saraceno — in pri-mis: spadellata, fritta, domatadentro il fumante tronco di cono ro-vesciato del wok, rosolata con gamberie germogli di piselli, tofu e cipollotti, zen-zero fresco e salsa di soia. Ma anche zuppeche mai avremmo pensato, perché l’idea dellospaghetto in brodo ci fa inorridire, mentre la de-clinazione gourmand del ramen affascina a conqui-sta i palati più diffidenti.

Una sorta di comfort food all’orientale che il gran-de freddo di questi giorni mette in prima fila come al-ternativa alle nostre minestre tradizionali, sia nellaversione kotteri— ovvero spessa, a base di carne, perstomaci robusti — sia in quella assari, leggera, fattacon pesce e verdure. E se in Italia minestrone e pastae fagioli s’inseguono nella classifica dei primi bro-dosi più consumati, in Giappone la popolarità delramenè tale che l’invenzione della ricetta istantaneaè stata scelta come la migliore del Ventesimo secolo.

Ma anche lo spaghetto italiano ha dismesso datempo i panni del figlio unico, in parte per curiositàculinaria, in parte per soddisfare le esigenze dietolo-giche esplose nel nuovo millennio, tra intolleranze,allergie e tirannia della bilancia. Così, i migliori cuo-chi italiani hanno cominciato a cimentarsi con ma-terie prime diverse, arrivando a risultati spettacola-ri, dalle tagliatelle di latte affumicato con passata dilattuga romana, scampi e tartufi di mare di OliverGlowig (hotel Aldrovandi di Roma) ai nuovissimispaghetti alle vongole di Matias Perdomo (Pont deFerr, Milano), rilettura della cassata siciliana con glispaghetti di ricotta, le vongole di pasta di mandorlee i canditi di menta tritati al posto del prezzemolo.

Se avete in programma un viaggio in Giappone,sappiate che sobae ramenvengono afferrati con i ba-stoncini e risucchiati rumorosamente per raffred-darli. In Italia, meglio evitare: gli schizzi di sugo nonperdonano.

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Non è farinadel tuo sacco

SpaghettiGli

degli altri

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■ 37DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Dove comprareTORINOBIOBOTTEGAC.so Regina Margherita 440Tel. 011-4074000

MILANOSUPERPOLOLargo La Foppa 1 Tel. 02-6571760

IMOLA (BO)BIO GREEN FOODVia Valeriani 6Tel. 349-1009620

TRIESTEZOE FOODVia Felice Venezian 24Tel. 040-2460420

GENOVALA BOTTEGA SOLIDALEVia Galata 122Tel. 010-3627115

ROSIGNANO SOLVAY (LI)TRANSITOVia Catalani 13Tel. 0586-762952

PERUGIAMONIMBÒVia Bonazzi Tel. 075-573 1719

ROMALA VERDE MILONGAVia Asello 58Tel. 06-7141728

POTENZAUNATERRAVia Plebiscito 26Tel. 0971-411568

CATANIACRISTALDI FOOD STORECorso Sicilia 81Tel. 095-316422

Sulla strada

C’era una volta in Corea

Era il 2002, si giocavano i Mondiali in Corea e Giappone. Dopol’ennesima cena al ristorante dell’hotel di Seul, un sedicente“Venezia” che cucinava “pasta bolognese”, riuscii a trascina-

re un collega italiano in una trattoria locale con una promessa da ma-rinaio ubriaco: «Fanno gli spaghetti orientali, cambia solo il nome,il resto è uguale». Due ore dopo, scoperto che nella vicenda eranocoinvolti un brodo e pezzi di “qualcosa” che forse erano molluschicon il guscio e forse no, vidi sedie volare per calci più poderosi diquelli di Ronaldo. Mai scherzare sugli spaghetti con un italiano. Sol-tanto per gli americani esiste un termine onnicomprensivo: nood-les, per qualsiasi filamento prodotto con cereali (e infatti Noodles èil soprannome del gangster italoamericano in C’era una volta inAmerica).

Per noi fa differenza. Ma non consideriamo mai che la fa anche pertutti gli altri “mangiaspaghetti”. Mettere sullo (o nello) stesso piatto

soba e shiritaki, udon e ramen è come confondere pappardelle conpassatelli. Guardiamo disgustati gli stranieri che usano condimen-ti inappropriati, ma ci concediamo richieste da eretici (peperonci-no, scorza di limone) o, peggio, ci atteggiamo a ortodossi riprodu-cendo a tavola quella sciagurata genìa che Edward Said definì“orientalisti”. Gente che ha affrontato il duello con le bacchette aOsaka, Colombo o nell’unico ristorante cinese “autentico” di Roma,dove ogni portata è introdotta dalla prefazione di un sinologo. La ve-rità è che la miglior specie di noodlesnon si mangia nei ristoranti ve-ri, ma nelle baracchine o nei garage nei vicoli di Tokyo o Shanghai,dopo mezzanotte, indicando gli ingredienti freschi con le dita, sot-to la pioggia, le ciabattine dell’hotel da cui si è fuggiti che si sfaldanocome in una memorabile scena del romanzo di Jean Philippe Touis-sant Fare l’amore. Ogni cibo, alla fine, non è che una suggestione.

GABRIELE ROMAGNOLI

LA RICETTA

Cuocere in forno a 140 ° per 45’ due cartocci

di stagnola, contenenti da una parte gli scalogni edall’altra i topinambur, in-sieme a zucchero, timo, sale e pepe

Far raffreddare, pelare gli scalogni, schiacciandoli

per farne una purea, e tagliare a pezzetti i topinambur

Tagliare la carne a fettine lungole fibre, ricavandone degli “spaghetti” di carne cruda della lunghezza degli spaghetti tradizionaliMiscelare gli spaghetti con i topinambur, condendo con fiori di sale grosso ed extravergine. Cucinare gli spaghetti, scolarli e immergerli nel brodo freddo, lasciandoli raffreddare prima di scolarli, poi aggiungerli aglispaghetti di carne. Adagiare su un piatto piano Sopra, un filo d’olio arricchito con un’acciuga tritata, la purea di scalogno e profumo d’aglio a piacere

Marcello e Gianluca Leoniguidano la cucina del ristorante“Leoni” di Bologna, dove reinterpretano in manieragolosa e creativa i capisaldidella cucina emiliana, come nella ricetta ideata per i lettori di Repubblica

Spaghetto alla Cazzamali

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RisoNaturalmente privi di glutine, i vermicelli di risovengono precotti durante la lavorazione. Bollituraveloce e passaggio nel wok bollente con porri e germogli di soia

Udon Spaghettoni ad altacallosità impastati con la farina di grano, serviti a zuppa fredda o calda, oppure conditi con zenzero, uova, alga nori e cipolline

Soba Per tradizione si servono in una tazza di brodo caldo,i sottili tagliolini di grano saraceno importati in Giappone dai monaci buddisti cinesi

Ramen La tipica zuppa giapponesea mo’ di street food si compone di un brodo piuttostosapido e sottili tagliatelle di farina, senza sale e tagliate a mano

Soia Un classico della cucinaorientale: ammollati in acqua fredda e fatti saltare nel wok, dove sono state spadellatele verdure. Rifinire con salsa di soia

Agar agar Gli spaghetti secondoFerran Adrià: ristretto di brodo addensato con gelatina ricavata dalle alghe. Spinti fuori con una siringa, conditi caldi o freddi

SeppiaLe ali, ripulite della pelle,tirate sottilissime tra due fogli di pellicola,facendo attenzione a non lacerarle, e affettate sottili,sbollentate o crude

Shirataki Il nome cascata bianca — per l’aspetto gelatinosoe candido — identifica la pasta ricavata dalla radice di konjac, a contenuto calorico molto basso

Tuorlo Tecnica ideata da CarloCracco: rossi marinati in purea di fagioli per raggiungere una consistenza pastosa,stesi tra due foglitrasparenti e tagliati sottili

Ingredientiper 4 persone3 scalogni interi con la pelle3 topinambur interisale e pepe2 rametti di timo30 g. di zucchero a veloolio extravergine d’olivadi Romagna non filtrato300 g. di spaghetti alla chitarra (pasta all’uovo)200 g. di controfiletto di manzo di Franco Cazzamalibrodo di manzo saporito1 filetto di acciuga

Pancit Sono a base di farina di grano duro, olio di coccoe sale, gli spaghetti in versione filippina, da condire con salsa di gamberi e pesceaffumicato

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LA DOMENICA■ 38DOMENICA 2 FEBBRAIO 2014

la Repubblica

Per Fellini era una Fata Turchina,Ferreri la volle ne “La carne”mentre per lei Prince perse la testa (e non fu il solo). Poi, d’improvviso,

il silenzio e il lungo esiliodalle scene . “Ero soltantouna ragazza, il successomi ha tolto la vita,fui travolta dall’invidiae dalla crudeltàE se ancora oggi

pago un prezzo altissimoè perché ho semprepreteso di restare libera”

MILANO

Haappenafinito di legge-re Il lupo di Wall Streetda cui è stato tratto ilfilm con Di Caprio e le è

piaciuto moltissimo «per la sinceritàcon cui l’autore racconta la sua vita, nontralasciando neanche i particolari piùscabrosi, più autolesionisti. Mi sono ri-vista in quel coraggio e infatti sto scri-vendo la mia autobiografia per affron-tare finalmente la verità, contro le in-venzioni maligne e crudeli che mi han-no aggredito lungo tutta la mia vita; co-me quella pazzesca di questi giorni, dichiacchiere tra camorristi in galera ne-gli anni ’90, messe a verbale, in cui si fail mio nome. Questi attacchi vergogno-si e menzogneri alla mia riservatezza miferiscono profondamente e ho incari-cato gli avvocati di occuparsene».

I ricordi di Francesca Dellera sono al-tri, indimenticabili. Lei stava entrandonella casa di Giuseppe Patroni Griffi invia Margutta, Federico Fellini ne stavauscendo e fece immediato dietrofront,perché quella creatura diafana e carna-le che si era materializzata davanti a luiera la femminilità che la sua fantasiaaveva sempre inseguito e che avevatentato di catturare nei suoi film: mamai così lucente, così morbida, così ac-cogliente. Era la Fata Turchina che cer-cava da qualche anno per il suo Pinoc-chio, che doveva essere Benigni. PoiFellini morì prima di poter realizzare ilfilm, mentre Benigni ce la fece, sce-gliendo però come magica visione l’a-mata moglie Nicoletta Braschi. Di quel-l’incantamento senza seguito è rimastauna traccia nella biografia felliniana diJohn Baxter, in cui il regista, elencandogli attori che amava particolarmente ci-ta, oltre alla Masina, Mastroianni, Vil-laggio e Benigni, anche lei, FrancescaDellera. Nel 1988, e con la regia di Pa-troni Griffi, quella ragazza silenziosa, di

una bellezza antica, ottocentesca, vi-stosa senza sfacciataggine, era diventa-ta in una miniserie televisiva Adriana, laprostituta che trentaquattro anni pri-ma aveva avuto il viso bellissimo e sgo-mento di Gina Lollobrigida, nel film inbianco e nero diretto da Luigi Zampa.La Romana è un romanzo di AlbertoMoravia pubblicato nel 1947: la venti-treenne Francesca era un’Adriana in-cantevole, e ispirò allo scrittore, per l’E-spresso, una delle sue rare interviste aun’attrice (a Sophia Loren, a ClaudiaCardinale). «Non mi rendevo conto deldono che mi faceva occupandosi di me:andai due o tre volte a casa sua, e lui scri-veva direttamente a macchina quel chedicevo». Il grande cinecritico Tullio Ke-zich si soffermò sulla «fisicità parlante»della ragazza: «Davvero Francescasembra possedere quel qualcosa in piùche hanno le figure schermiche d’ecce-zione: tanto a suo agio che quand’è nu-da sembra vestita e quando è vestitasembra nuda».

È ancora vero. Le rare persone che,segreta e diffidente, incontra, si trovanodavanti a una donna accecante displendore, che cerca di proteggere e oc-cultare dentro un grande scialle nero lamorbidezza perlacea di un seno verocome non se ne vedono più, e un visodelicato dentro una massa di lunghi ric-ci rossi. Forse un largo maglione dal col-lo alto aiuterebbe, e forse no: e poi la suaimmagine è questa da sempre, intocca-ta anche quando piange, pensando al-la perdita di sua madre, e perché non èdetto che tanta ricchezza fisica assicuriuna trionfante felicità. C’è un vuoto nel-la sua vita privata che ha generato sto-rie, pettegolezzi, e l’ha trasformata inuna persona che sulla strada del suc-cesso si è vista prima spalancare e poi dicolpo chiudere tutte le porte. Nell’eradel gossip ostentato e moltiplicato, sitrovano molte illazioni e sussurri, manon una fotografia, non una notizia do-cumentata, di quel legame che nessunopuò dimostrare. È strano che di quel-l’uomo, della cui vita privata tumultuo-sa da tempo si occupa anche la giusti-zia, con la piccola folla di maldestre gio-vani ospiti a pagamento e attualmentela presenza di una fidanzata con caneentrambi impiccioni, si eviti di ricorda-re che un tempo questa persona era en-trata prepotentemente nella vita diFrancesca. È proibito anche solo ac-cennarne, e se proprio uno è pignolo al-l’eccesso, può risalire a un articolo diNovella2000del 2009, intitolato “I dieci

rospi ingoiati da Veronica”. Seguono ledieci foto di belle signore, prima tra tut-te quella di Francesca. Era il 1987. Nes-suno sa, se non i diretti interessati,quando quel legame è cominciato,quando è terminato: di mezzo c’è, nel1989, un famoso Telegatto consegnatoalla protagonista de La Romana, e ungiornalista ricorda come il problemadegli organizzatori fosse collocare lon-tane in platea sia la premiata che Vero-nica Lario, la bellissima compagna diSilvio Berlusconi, già madre di suoi trefigli, che diventerà sua moglie un annodopo. C’è un libro di Mario Guarino , Ve-ronica & Silvio, pubblicato da Dedalonel 2009, che si azzarda a sostenere chela signora Lario avrebbe scoperto il tra-dimento dopo il matrimonio, impo-nendo al marito l’aut-aut, e riconqui-stando una sua (molto temporanea) fe-deltà. Ma Francesca è decisa. «A lasciar-lo sono stata io, e le cose scritte su di mein quel libro sono del tutto false». Intan-to La carne di Marco Ferreri, regista

osannato di film intelligenti ed eccen-trici, era stato invitato a Cannes nel1991: e la protagonista era la Dellera,che in quel ruolo, secondo il Mereghet-ti, “inquieta con la sua esuberante pre-senza”. Francesca ricorda che contro dilei c’era già un veto, che non aveva sco-raggiato Ferreri: «Mi disse che a lui nonimportava niente, che il film l’avevascritto su di me, venendo ogni giorno acasa mia a sentirmi parlare, a studiar-mi». La carne, dove Castellitto, cui mi-sero una pancia finta perché non dove-va essere attraente, per non perderlal’ammazzava e se la mangiava, fece dilei una star soprattutto in Francia. Ep-pure passarono tre anni prima che le of-frissero un altro ruolo, nel 1994, in unfilm di Deray non riuscito, L’orso di pe-lucheaccanto ad Alain Delon; ne passa-rono altri cinque prima che la chiamas-sero per la miniserie televisiva Nanàdalromanzo di Zola, e altri sei per arrivarein video con la costosa e grandiosa Con-tessa di Castiglione. Poi ci furono soloincontri tra avvocati. Da allora, e sonopassati otto anni, attorno a lei si è fattoun gelido vuoto professionale. In que-sto silenzio amaro, che le ha interrottola carriera, lei ravvisa una punizionecieca, una vendetta troppo lunga, unumiliante esilio. Ma è lei, FrancescaDellera, protagonista e vittima di que-sta specie di persecuzione o comunquecancellazione, a non pronunciare no-mi, come se avesse paura, o se ne ver-gognasse, o si rifiutasse di ricordare, otenesse soprattutto alla sua dignità ma-lamente ferita. «Ero molto giovane, nonavevo alcuna esperienza e poi lui nonera come adesso, pareva meglio, per meera una cosa di testa, perché nella suafollia non è stupido. E io mi sono trova-ta preda di una situazione che non ave-vo cercato. Ma siccome lui era ricco eimportante, si rovesciò su di me una va-langa di invidia crudele. E poi la gente èmeschina, e quella brutta è complessa-ta e capace delle peggiori cattiverie».Tra l’altro a lei sono sempre piaciuti so-lo «i bellissimi pazzeschi a letto, e quel-li cattiverie non ne fanno mai»: e non seli è fatta mancare neppure quandoqualcuno ha pensato di domarla, di im-prigionarla. Per esempio l’attore Chri-stopher Lambert, un tipo, dice France-sca, «trasgressivo, libero, anarchico,che secondo Ferreri mi assomigliava evoleva girare con noi due una storia diincesto. Ma io sono dispersiva, non so-no mai riuscita a far durare i rapporti,me ne stufo presto: non posso sentirmi

ingabbiata, fuggo». Prince se ne era in-namorato solo vedendo le sue foto, lacorteggiava telefonicamente dagli Sta-ti Uniti, affittò un cinema per vedere erivedere da solo La carne. «Era un genioaffascinante, mi offrì di fare un video-clip con lui, da girare a Minneapolis, malasciai perdere perché ero innamorata,ricambiata, di Adnan, un modello slavodi bellezza travolgente, e per me l’amo-re contava di più in quel momento del-la carriera». Nella sua vita è passato iltennista Noah e persino Emanuele Fili-berto di Savoia che la inseguì a Los An-geles dove lei era fuggita con un altro.«Ma io non sopporto la coppia, quellache si ostina a durare quando il misteroè finito. Non credo nel matrimonio,non riesco a dire per sempre, non me lasento di avere figli anche se amo mol-tissimo i due bambini di mia sorella».Adesso ha un compagno di cui non par-la, non italiano, specifica, e che non vi-ve in Italia. «Odio la curiosità nei mieiconfronti, detesto Facebook e pureTwitter, non sopporto la mondanità,l’esibizionismo. Io sto pagando ancoraun prezzo altissimo perché ho semprevoluto essere libera, non appiattirminelle regole di tutti. E certo da ragazzaero impreparata a un successo troppoprecoce e stordente». Era giovanissimaquando come protagonista di Capric-cio la volle Tinto Brass, che dopo loscandalo di La chiaveera il regista più ri-cercato dalle attrici in cerca di fama: aventicinque anni le offrirono una cifrasproporzionata per uno spot, vollerofotografarla Helmut Newton e AnnieLeibovitz, la scelsero come modellad’eccezione gli stilisti d’epoca più im-portanti, Gaultier, Alaia, Mugler: e perun suo compleanno a Parigi, fu orga-nizzata una festa al “Les bains dou-ches”, cui parteciparono le grandi stardel momento. «Tutto quel successo im-provviso mi ha tolto la vita. Ma adesso,dopo tanto silenzio, ho deciso di rac-contarla tutta con un libro».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

L’incontroBellissime

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Lui era ricco e importante,molto diverso da com’è adessoA lasciareBerlusconisono stata io,il resto sono falsità

NATALIA ASPESI

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