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La Luna di giorno

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di Fedele Bucalo, narrativa. “La Luna di giorno” è un romanzo in cui si intrecciano le vicende di alcuni personaggi che abitano nella città dell'Aquila nei giorni che precedono il terremoto. Il vissuto dei protagonisti ritorna sotto forma di flash back, creando vene narrative apparentemente autonome e un mosaico di storie che non tarderà a ricomporsi. Alle vicende dei personaggi fa da sfondo la città stessa, vera protagonista del racconto, che vive una vita segreta e misteriosa, una città carica di enigmi.

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In uscita il 30/9/2014 (13,20 euro)

Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2014 (3,99 euro)

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FEDELE BUCALO

LA LUNA DI GIORNO

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LA LUNA DI GIORNO Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-765-0

Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Settembre 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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A mia moglie, mio unico incanto

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Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono,

senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro. Alle volte anche i nomi degli abitanti restano uguali,

e l’accento delle voci, e perfino i lineamenti delle facce; ma gli dei che abitano sotto i nomi e sopra i luoghi

se ne sono andati senza dir nulla e al loro posto si sono annidati dei estranei.

Italo Calvino, “Le città invisibili”

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I L’ultima luce del giorno brillava per la grande piazza, scorreva lenta sulla grande facciata del duomo. Era la luce fredda dei giorni brevi dell’inverno, una luce bianca di po-che ore, un istante capace di squarciare il manto oscuro che in quei giorni ricopriva la città. La luce dell’inverno aveva già lasciato gli stretti vicoli lastricati con i quali la città si attaccava tenacemente alla valle, era scomparsa dalle altre piccole piazze, su cui si affacciavano gli alti pa-lazzi antichi. Soltanto la grande piazza del duomo riusciva ancora a trattenerla e la mostrava come un sogno prezioso e fragile. Arturo guardava la luce e contava mentalmente gli istanti che lo separavano dalla notte. Temeva quel momento, lo smarrimento improvviso che lo coglieva quando il buio dissolveva il confine di ogni cosa e lui si sentiva sprofon-dare insieme a tutto il resto. Pensava che era curioso teme-re il buio e avere già trentacinque anni. Così riusciva sempre a trovarsi a casa quando il sole scompariva dietro all’immenso sipario delle montagne.

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Guardava la notte da dietro alla finestra della cucina bene illuminata, immerso negli odori dei cibi che cucinava per la cena. Era più facile guardare l’oscurità senza farne par-te. Eppure continuava a spingersi sempre più avanti. Voleva osservare ogni volta più da vicino il confine tra la luce bianca dell’inverno e il nulla di una notte lunghissima, che sembrava eterna, senza speranza. E si attardava nella grande piazza dove danzava l’ultimo sole. E proprio quel giorno il buio lo raggiunse davanti alla por-ta di casa, accarezzandolo lungo la schiena come un arti-glio. Entrò e accese le luci, poi si lasciò cadere sulla poltrona. Sudava e la bocca era secca, il brivido che lo aveva rag-giunto sulla soglia della porta sembrava stringerlo ancora dentro a una morsa. “Non è poi così assurdo” pensava “per quelli nati dalle

mie parti.” Lui era cresciuto lontano, in paesi inondati di luce, nei luoghi in cui il mare raccoglie il sole e lo restituisce in mille frammenti accecanti. Quando era bambino, d’estate, persino le notti sapevano regalare la luce, il cielo senza nuvole si riempiva di stelle e di luna. E ai bambini in quel-le lunghe sere piaceva giocare con le ombre.

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A quei tempi Arturo non aveva ancora paura dell’oscurità. Lungo il filo spietato di una logica paradossale, imparò la paura delle tenebre quando era già un uomo. Accadde a Trieste, dopo la laurea, ai tempi in cui scontava la leva militare. In quella città di confine il tramonto si di-latava e si colorava di mistero, quasi un rito propiziatorio, e durante le notti di guardia, mentre faceva la ronda su lunghi camminamenti perimetrali, comprese che l’oscurità notturna lo opprimeva. Ma ben presto l’iniziale senso di pesantezza divenne angoscia, smarrimento e poi una mani-festa paura, domata a fatica con enormi sforzi. Sapeva bene che se quella paura fosse diventata vero e proprio panico tutto sarebbe precipitato intorno a lui e al-lora la sua debolezza si sarebbe rivelata. Arturo dormiva sulla poltrona e sognava. I sogni erano ri-masti la sua unica difesa di fronte al buio. Andava sempre così ogni volta che avvertiva lo stesso brivido; non appena la paura passava, lo vinceva una spossatezza pesante che lo precipitava in un sonno profondo, e dentro a quel sonno non c’era alcuna oscurità, ma soltanto sogni pieni di luce che al risveglio non riusciva più a dimenticare. Adesso sognava la neve, un bianco senza fine, ininterrotto come le notti di cui aveva paura, ma la neve non metteva paura. In mezzo a quel bianco lo guardavano silenziosi gli occhi di Donatella.

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II Quella sera il locale era quasi vuoto. Solo due tavoli in fondo alla sala erano occupati dai militari delle brigate al-pine. Donatella era arrivata nel tardo pomeriggio per pre-parare il lavoro della sera, ma quando si fece l’ora si af-facciò dalle cucine e con uno sguardo rapido e preciso ca-pì che non ci sarebbe stato molto da lavorare. Il gelo era disceso sulla città come una minaccia e molti avevano preferito il caldo delle loro case. Donatella pensò che Carlo sarebbe stato nervoso per gli scarsi incassi della serata e che lei sarebbe ritornata a pen-sare. Era il solito labirinto. Uscirne, districarsi non sarebbe stato facile, non lo era mai stato. Soltanto il lavoro delle mani rimaneva infallibile an-tidoto ai suoi pensieri. Era una battaglia cominciata tre anni prima quando il pa-dre, dopo una breve malattia, l’aveva lasciata. Da allora lottava con pazienza e metodo ogni giorno affinché l’argine continuo dei suoi movimenti, delle sue faccende,

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del suo lavoro, annientasse ogni sottile movimento delle mente. Per questo sopra a ogni cosa temeva le notti insonni. L’insonnia non arrivava mai improvvisa, inaspettata. Già durante la sera l’assaliva come un presentimento, un’inquietudine, un sottile nervosismo epidermico, che era causa o forse conseguenza delle sue veglie. Nel buio della sua camera i pensieri sopiti durante il gior-no si rivalevano su di lei. E lottare era vano nelle ore della notte. Alla fine riusciva ad addormentarsi, ma in quel son-no colmo di inganni, i pensieri prendevano la forma dei sogni. E in quei sogni suo padre c’era sempre. Lui era sta-to l’universo dentro al quale scomparire dolcemente, un luogo incantato dove vivere senza che altri si accorgessero di lei. Per questo quando morì, per la prima volta si sentì angosciosamente esposta a occhi sconosciuti e ostili. La morte del padre la rivelava al mondo e adesso sapeva che gli sguardi degli altri posati su di lei l’avrebbero travolta. Ma non aveva pianto, dentro di lei il dolore invece di par-torire lacrime aveva preso un’altra strada: le scorreva den-tro, la attraversava da parte a parte, la scuoteva anche, ma poi si annidava in qualche anfratto segreto e cominciava a demolirla. Così: ora da una parte ora dall’altra. Donatella sapeva che sarebbe morta, che prima o poi il dolore non avrebbe avuto più niente da distruggere e allora di lei non sarebbe rimasto più nulla. Nelle notti senza sonno, lo

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sguardo fisso nel buio, ascoltava il paziente lavorio che la divorava. Di giorno era diverso, aiutava nelle faccende di casa, usci-va per sbrigare tutto ciò a cui aveva sempre pensato il pa-dre. La madre si faceva anziana e il ricordo del marito morto la assaliva a tratti nel corso della giornata. Quando succedeva scoppiava in un pianto senza fine. Donatella la guardava in silenzio e le invidiava quelle lacrime abbon-danti, calde, piene di un dolce e tenero dolore. Sembrava-no dense come il miele che il padre le portava dai boschi, quando andava a caccia nelle montagne vicine. Come sa-rebbe stato bello piangere, pensava in quei momenti, ma sapeva che le lacrime sono una grazia concessa soltanto ai bambini e ai vecchi. La resa dei conti arrivava puntuale ogni sera, quando le faccende di casa e quelle di fuori erano ormai assolte. Al-lora restavano serate lunghissime in compagnia della ma-dre, la cena consumata nel silenzio appena increspato dal rumore delle posate. Sentiva urgente il bisogno di ritardare ancora un poco all’appuntamento quotidiano con i pensieri. Per questo a-veva cominciato a lavorare alla pizzeria di Carlo. Il locale si affacciava sul lato più lungo della grande piazza del duomo, appena fuori dall’intricato reticolo di vicoli dove lei abitava. Era la pizzeria preferita dagli alpini in libera uscita, che arrivavano rumorosi a frotte e riempivano il lo-

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cale in un solo istante. Da Carlo c’era sempre tanto da la-vorare, era il luogo perfetto, l’antro ideale dove sopire la sua mente. Così riusciva a distrarre i pensieri ancora per qualche ora, e si attardava oltre la chiusura del locale, pu-liva i pavimenti, i tavoli e il bancone del bar quando l’ultimo dei clienti lasciava la sala. Poi andava via anche lei e arrivava a casa esausta. Il sonno diventava allora una preda più facile da ghermire e così un’altra giornata veni-va rubata ai pensieri. Quella vita cominciava a diventare un sistema, costruito a fatica pezzo per pezzo. Un fragile recinto dentro al quale si muoveva guardinga, ma ogni giorno più sicura. Donatella temeva ogni piccolo scarto al congegno dei suoi giorni. Ogni pomeriggio usciva di casa e camminava verso la pizzeria di Carlo. Quando usciva dal reticolo dei vicoli la investiva improvvisa l’immensa piazza. Non riusciva ancora ad abituarsi a quel contrasto. Percorreva quei vicoli bui e tortuosi, stretti che a volte sembrava dovessero da un istante all’altro farsi ancora più piccoli e stringerla tra le loro spire, poi arrivava la piazza piena di tutta la luce del tardo pomeriggio. Lasciava i vicoli irregolari, il loro an-damento imprevedibile e capriccioso ed entrava in quella geometria di angoli retti, di linee diritte che scorrevano pa-rallele e definivano un perimetro. Un rapido passaggio dalla bizzarria oscura dei sogni alla realtà fissa dei secoli. Quando sfociava nella piazza si fermava pochi istanti e

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guardava. Aveva sempre i suoi abitanti, la piazza: le gio-vani donne che trascinavano i passeggini, le coppie di ra-gazzi che si tenevano per mano, le vecchie devote dirette al duomo per la recita quotidiana del vespro e gruppi di militari in divisa che sembravano marciare anche fuori dalle loro caserme. E poi c’era lui. Lo riconosceva perché era sempre solo, seduto su una panchina, intento a fare sempre la stessa co-sa. Ogni giorno. Sembrava contemplare qualcosa che lui solo poteva vedere, guardava quell’invisibile e lo faceva in modo avido e assorto. A lungo non ebbe un nome; per Donatella era quasi un ornamento stesso della piazza, co-me la fontana che sorgeva su un lato, le sculture sulla fac-ciata del duomo e i piccioni che planavano bassi e si posa-vano sul sagrato. Ma poi prese l’abitudine di entrare al lo-cale. Si alzava dalla panchina quando la luce diventava in-certa; consumava velocemente qualcosa al banco e sem-brava sempre ansioso di andarsene. Carlo si rallegrava quando entrava e provava a trattenerlo adescandolo con le solite storie del mare, appartenute a un tempo lontano del-la sua vita o forse, pensava Donatella, solamente alla sua fantasia. Lo chiamava professore ma gli dava del tu. Una sera mentre Donatella gli preparava un caffè, lui le tese la mano e senza guardarla le disse di chiamarsi Arturo. Quindi sgusciò via dal locale velocemente e lei accompa-gnandolo con lo sguardo lo vide attraversare la piazza a

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passi svelti e scomparire dietro al portone di un caseggiato antico che limitava il lato opposto della piazza. Lei era ri-masta in silenzio e non gli aveva detto che si chiamava Donatella. Dopo pochi istanti scese la notte e lei continuò a fissare da lontano quel portone chiuso che le ombre rendevano quasi invisibile. Quella sera invece Arturo non era tornato. Donatella l’aveva visto, seduto alla solita panchina, quando aveva lasciato l’ultimo vicolo e aveva raggiunto la piazza. Era entrata nel locale e di tanto in tanto sbirciava dalle finestre mentre apparecchiava i tavoli della sala. Lui era sempre lì, seduto al suo posto e si attardava più del solito, ma a un tratto l’aveva visto alzarsi improvvisamente, attraversare la piazza e dirigersi verso casa sua. Lo vide allontanarsi e poi scomparire nel buio. Fece in tempo a vedere le finestre della sua casa illuminarsi e poi ritornò a occuparsi dei ta-voli. Donatella sentiva che le mancava qualcosa, che quella se-ra il fragile ordine dentro al quale aveva imparato a orien-tarsi era stato scardinato. E si rese conto che Arturo era parte del mondo su cui camminava. Nel legame viscerale che l’aveva sempre legata al padre nessun altro aveva mai trovato posto, né la madre che era sempre stata una strana, silenziosa presenza nella casa e

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neppure un uomo perché Donatella aveva sempre evitato con sottile maestria ogni tipo di corteggiamento. Ma Arturo non l’aveva corteggiata, le aveva soltanto detto il suo nome e poi aveva preso un posto defilato nel suo piccolo universo, che per una piccola parte forse era anche il suo. Soltanto che i loro mondi si sfioravano appena. Do-natella lo sentiva diverso e impenetrabile, un enigma che lei non era in grado di sciogliere. Cos’era ad ammaliarlo ogni tardo pomeriggio, seduto in piazza? E perché entrava nel locale, se poi sembrava sempre così ansioso di andarsene? Certo, cercava le storie di Carlo, i suoi racconti di mare, ma a volte lo aveva anche sorpreso a scrutare furtivamente i suoi occhi e a guardarli con la stessa intensità con cui guardava i fantasmi della piazza. Lei fingeva di non accorgersene, ma dentro si sentiva par-te di quell’universo ignoto che sembrava avere avvinto la mente di Arturo. E tutto ciò era a un tempo dolce e inquie-tante. Finì di lavorare presto quando i pochi alpini, consumata la loro cena, lasciarono in fretta i tavoli, temendo di giungere in caserma oltre l’orario consentito. Si sentiva stanca anche se aveva lavorato poco. Salutò Carlo intento a contare i magri guadagni di quella serata e uscì nella piazza semibuia. Senza accorgersene guardò il caseggiato antico dove abitava Arturo; la finestra era an-

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cora accesa, e lei continuò a guardarla sperando di vedere la sua ombra muoversi attraverso la tenda. Ma la finestra era solo un’immobile luce. Così imboccò i vicoli da cui era venuta. Di notte sembravano ancora più impenetrabili e astuti. Il buio li rendeva tutti simili, ma Donatella si muoveva come un animale condotto a ogni passo dal suo istinto. Molte delle case davanti a cui camminava erano ormai disabitate e chiuse da anni. In altre vivevano anziani soli, che andavano a dormire con le prime ombre della se-ra. Solo agli angoli dove i vicoli si intersecavano sorgeva-no antichi lampioni dalla luce sempre più debole. Era il centro storico, piccolo, raccolto come lo era la stessa città. Un luogo sempre più deserto, dove persino i ricordi di chi vi abitava si facevano incerti. Donatella viveva nel folto di quei vicoli, nella casa che svettava su tutte le altre, un antico edificio che forse un tempo era stata una torre. Tra lei e la madre non c’erano mai state molte parole. Ma da quando aveva cominciato a lavorare da Carlo, tra loro erano nate intese fatte di segni. Piccoli gesti reciproci che entrambe non sentivano più il bisogno di spiegare, nel si-lenzio elevato a regola che scandiva il loro tempo. Quando lasciava il locale e s’inoltrava dentro all’antico groviglio di piccole strade, Donatella guardava lontano e vedeva brillare una luce svettare sulle altre rare luci. Lì era la sua casa. Quando andava a dormire la madre lasciava

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acceso il lume nel piccolo soggiorno, faceva finta di di-menticarlo e l’indomani mattina puntualmente se ne ram-maricava con la figlia, ma lei sapeva che quella luce rima-neva appositamente accesa per orientarla lungo la strada che la riportava a casa. La stanza si protendeva sull’ultimo vicolo, sopra i tetti delle altre case del centro. Mentre camminava Donatella seguiva da lontano quel lume so-speso nel buio e sapeva che mentre la luce si faceva più grande la sua casa diventava a ogni passo più vicina. Così pensava ai marinai di un tempo che nell’oscurità della not-te e del mare ritrovavano l’esattezza delle rotte specchiata dalla luce fioca delle stelle. Anche Carlo avrebbe pensato la stessa cosa, lui che amava il mare e sembrava ignaro della sua vita immersa tra quelle alte montagne. Forse an-che Arturo conosceva il mare, per questo si appassionava alle storie che Carlo gli raccontava. E una volta aveva vi-sto il suo capo fissarlo con uno strano sguardo complice. «Professore, tu mi capisci quando ti racconto il mare» a-veva detto alla fine con un sorriso. La luce di casa sua brillava più alta sopra i tetti invisibili delle altre case. Donatella non distoglieva lo sguardo e pensava che quella luce, nel gelo di quella notte che avan-zava senza nemmeno il conforto della neve, era anche ca-lore, forse solo presagito, desiderato, ma calore vero. Sa-peva che dentro a quella luce si nascondeva il tepore che l’avrebbe accolta sotto le coperte.

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Giunse a casa, salì le scale con l’invisibile passo di sem-pre, attraversò il corridoio e si fermò un attimo di fronte alla stanza dove la madre dormiva. Ogni sera ascoltava at-traverso la porta chiusa il suo respiro cadenzato. Quando infine scivolò dentro al suo letto, si accorse che Arturo aveva catturato i suoi pensieri e che il dolore che dentro la lavorava s’era sopito dolcemente. Sentì di avere tradito il ricordo del padre e la prese un ri-morso lancinante che le strozzava il respiro. Allora si mise in ascolto, alla ricerca di quella ferita che ormai conosceva come se stessa, si mise a frugare dentro di sé in cerca di qualcosa che aveva smarrito e alla fine il dolore riprese coscienza, ritornò al proprio posto, quello che sempre a-veva avuto dentro di lei e che le avrebbe tenuto compagnia ogni istante di quella notte fino a quando la gelida e pe-sante luce dell’alba avrebbe riempito ogni angolo nascosto della città. Fine anteprima.Continua...