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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DI www.lanazione.it Arezzo 150 ANNI di STORIA ATTRAVERSO LE PAGINE DEL NOSTRO QUOTIDIANO

La Nazione 150 anni AREZZO

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Page 1: La Nazione 150 anni AREZZO

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SUPPLEMENTO AL NUMERO ODIERNO A CURA DIwww.lanazione.it

Arezzo150 ANNI di STORIA

ATTRAVERSO LE PAGINEDEL NOSTRO QUOTIDIANO

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sommario4

Così nacque in una sola notteil giornale di Bettino Ricasoli

7L’annessione della Lombardia?Ecco quanti fiorini costò ai piemontesi

9Arezzo città risorgimentalelegge fin dall’inizio La Nazione

11È il 24 marzo del 1921La rivolta degli anarchicinelle miniere di Castelnuovo

13È l’aprile del 1921Un agguato e una strage a FoianoOrmai l’Aretino è in mano ai fascisti

15da La Nazione del 29-30 ottobre 1922È in corso la Marcia su RomaArezzo invasa dalle camicie nere

17Cronache dagli anni Venti(dalla città e dalla provincia)

18Un secolo di cronaca locale(e tanti giornalisti illustri)

21De Anna: Così nacquerole redazioni di provincia

23Arezzo: il simbolodella rinascita economica

24da La Nazione del 12 gennaio 1967Le dighe sull’Arnoaccusate del disastro

27È il 21 maggio del 1981P2: l’elenco di Licio Gelliche fece tremare l’Italia

29È il 2 marzo 2003I terroristi uccidono ancoraArrestata Desdemona Lioce

30Una storia fatta di campioniI “grandi” dell’avventura amaranto

Supplemento al numero odiernode LA NAZIONE a cura della SPE

Direttore responsabile:Giuseppe Mascambruno

Vicedirettori:Mauro Avellini Piero GherardeschiAntonio Lovascio (iniziative speciali)

Direzione redazione e amministrazione:Via Paolieri, 3, V.le Giovine Italia, 17 (FI)

Hanno collaborato:Salvatore Mannino Fausto Sarrini

Progetto grafico:Marco InnocentiLuca ParentiKidstudio Communications (FI)

Fotografie:Fotoclub La Chimera

Stampa:Grafica Editoriale Printing (BO)

Pubblicità:Società Pubblicità Editoriale spaDIREZIONE GENERALE:V.le Milanofiori Strada, 3Palazzo B10 - 20094 Assago (MI)

Succursale di Firenze: V.le Giovine Italia, 17 - tel. 055-2499203

AREZZO150 anni di storia attraverso le pagine del nostro quotidiano.Non perdere in edicola il terzo fascicolo regionale che ripercorre, attraverso le pagine de La Nazione, la storia fino ai nostri giorni e i 17 fascicoli locali con le cronache più significative delle città.

In copertina: Il Valletto della Giostra del Saracino con “La lancia d’oro”. La 118a edizione della Giostra (6 settembre 2009), è dedicata al quotidiano La Nazione in occasione dei 150 anni della sua fondazione.

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N essun altro giornale può vantarsi di essere nato con l’Italia e di averla accom-

pagnata giorno dopo giorno, fino ad oggi. E infatti, se anche una testata, la Gazzetta di Parma, sicuramente è più antica di quasi 100 anni rispetto al giornale fiorentino, è anche vero che per lunghi periodi ebbe un altro nome, in altri sospe-se le pubblicazioni, e in ogni caso non svolse il ruolo fondamentale per l’Unità d’Italia che toccò al foglio di Bettino Ricasoli. Già, perché fu proprio lui, il “Savona-rola del Risorgimento” come lo definiva Spadolini, a volere che il nostro giornale fosse in edicola, redatto e composto in una sola notte, alla notizia dell’armistizio di Villafranca.

La storia è nota. L’11 luglio del 1859, nel pieno della seconda guerra di indi-

pendenza, quando le truppe franco piemontesi avevano vinto battaglie di rilevanza enorme, come quella di Solferino, e già si pensava come invadere e liberare il Veneto, all’improvviso fran-cesi ed austriaci firmarono un armistizio ed i Savoia non ebbero la forza per opporsi. Lo fecero perché la Francia cominciava a temere un attacco da parte della Prussia che stava ammassando le sue truppe ai confini. Lo fecero, perché un’Italia libera e indipen-dente poteva anche andar bene alla grandi potenze europee, ma non doveva essere eccessiva-mente forte. E dunque, ecco che

al Piemonte veniva concessa quasi per intero la Lombardia,

ma il Veneto il Trentino e la Dalmazia restavano agli au-striaci, mentre in Toscana sarebbero tornati i Lorena, e in ogni caso si ipotizzava una federazione di stati del Centro Sud sotto la guida del Papa. Alla notizia, Cavour, dopo uno scontro

durissimo con Vittorio Ema-nuele si dimise. E l’unico a

sostenere la causa dell’Italia da unire, restò in quelle ore il capo

del governo toscano costituitosi dopo la partenza del granduca,

Bettino Ricasoli appunto. La notizia dell’armistizio arrivò a Firenze nel pomeriggio del 13 luglio e i patrioti si riunirono in Palazzo Vecchio dove regnava la rabbia, il caos, la voglia di reagire ma anche un profondo senso di impotenza. E l’unico che dimostrò di avere le idee chiare, ben al di là della logica, delle possibilità offerte dalla diplomazia, si rivelò Ricasoli che non poteva a nessun costo accettare quanto stava accadendo.

E infatti, lui guidava un go-verno toscano provvisorio con l’unico scopo di arrivare

al plebiscito per l’annessione al Piemonte, e se fossero tornati i Lorena tutto sarebbe crollato. Sotto il profilo politico ma anche sotto il profilo personale. Così, dimostrandosi in quelle ore il vero artefice del Risorgimento, ancor più dello stesso Cavour che in qualche modo aveva gettato la spugna, Ricasoli spedì due ambasciatori a Torino e a Parigi per tentare di modificare le cose. Ma nello stesso tempo mandò a chiamare tre patrioti fiorentini, il Puccioni, il Fenzi ed il Cempini, che a suo tempo avevano propo-sto di stampare un quotidiano in appoggio alle posizioni del governo toscano, e disse loro: “È arrivato il momento, per domat-tina voglio il giornale.” E a niente valsero le timide proteste dei tre che, comprensibilmente, facevano notare come fossero già le nove di sera e come non sarebbe stato facile mettere insieme i testi e farli comporre in poche ore. Ma Ricasoli insisteva “O domattina o mai più.” E dette anche il nome alla testata “La Nazione”, che era tutto un programma, anzi, era il programma. Puccioni, Fenzi e Cempini presero una carrozza e si fecero portare in via Faenza alla tipografia di Gaspero Barbera, un patriota piemontese, qui comin-ciò un lavoro frenetico a redigere i testi ed a comporli. Come nelle migliori tradizioni del giornali-smo, redattori e tipografi lavora-vano gomito a gomito. Un articolo non era ancora concluso e già la prima parte passava ai compo-

Gli studenti che avevano combattuto a Curtatone e Montanara, i professori, gli enti e gli amministratori, furono dagli inizi sostenitori del Ricasoli e del suo governo provvisorio

Puccioni (nel tondo) assieme a Fenzi e Cempini fu chiamato da Bettino Ricasoli a redarre e stampare in una sola notte il giorna-le La Nazione.

COSÌ NACQUE IN UNA SOLA NOTTEIL GIORNALE DI BETTINO RICASOLI

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Il quotidiano di Ricasoli uscì il

14 luglio con un formato ridotto e

senza l’indicazione dello stampatore. Fu solo con il 19 luglio del 1859 che venne distribuito (anno I° numero 1) il primo

numero ufficiale.

sitori. Un articolo non era del tutto composto – all’epoca non estivano le linotype ed ogni paro-la era composta a mano – e già si facevano le bozze per le correzio-ni della prima parte. Alle cinque del mattino Ricasoli si presentò alla tipografia, lesse le bozze e dette il consenso. Alle dieci, tirate pare in tremila copie, due pagine in mezzo foglio, oggi diremmo formato tabloid, erano in vendita nel centro cittadino. Si trattava di un’edizione senza gerenza, senza il nome dello stampatore, senza il prezzo, senza pubblicità. Pratica-mente un numero zero.

E così si andò avanti fino al 19 luglio quando, finalmente, La Nazione uscì nel suo pri-

mo numero ufficiale, con formato a tutto foglio, le indicazioni di legge, i prezzi per l’abbonamento e per la pubblicità. Così, dunque, nacque il nostro giornale. Che conobbe i giorni fausti dell’Ita-lia Unita, e poi quelli pieni di problemi, non solo economici, in cui Firenze fu provvisoriamente capitale. Quindi la questione romana, la breccia di Porta Pia, e insomma tutte le fasi che con alterne vicende portarono alla nascita dello Stato italiano.

Ma fu proprio con Roma Capitale che La Nazione dovette modificare il

proprio tipo di impegno. Che fare? Seguire il governo e il mondo politico fino a Roma, là dove si sarebbero svolte da allora in poi tutte le vicende, e prese le decisioni relative all’Italia? La domanda fu posta ed era più che legittima. Nessun altro quotidia-no aveva il diritto di continuare le proprie pubblicazioni nella sede del regno e del governo italiano, più di quello che l’Italia aveva contribuito a farla nascere. Ma fu compiuta una scelta, che di certo non fu di tipo economi-co: restare. Restare a Firenze, accompagnare la vita della città dove era nata, e dedicare sempre di più le proprie attenzioni anche alla vita quotidiana, a quella che oggi diremmo la cronaca di ogni giorno. Insomma, da grande foglio risorgimentale carico di tensioni ideali, a giornale come oggi lo intendiamo. Con rubriche dedicate alla moda, allo sport, con grandi spazi dedicati alla vita musicale e teatrale. Con la disponibilità a condurre grandi battaglie nel nome e per conto di Firenze, che già allora viveva con naturalezza la sua doppia natura, ancor oggi visibile: quella di una

dimensione provinciale aperta al mondo. Città universale e allo stesso tempo città dove pochi personaggi, e fra loro in costante conflitto, dominavano la scena. Rese possibile questa scelta di obiettivi un grande direttore, Celestino Bianchi. Che seppe conquistare il pubblico femmini-le, interessare anche la media e piccola borghesia mercantile, ma soprattutto richiamare intorno al foglio di Ricasoli le migliori firme italiane del momento. Che, del resto, già erano presenti su La Nazione, fin dai primissimi anni. E allora ecco il D’Azelio e il Tomma-seo, ecco il Manzoni e il Settem-brini, e poi il Collodi, il De Amicis, Alessandro Dumas, Capuana, il Carducci e in seguito anche il Pa-scoli, ed infinti altri. Grandi firme che sarebbero continuate durante il fascismo e nell’Italia repubbli-cana fino ad oggi. Da Malaparte a Bilenchi, a Pratolini, ad Alberto Moravia, a Saviane, a Luzi. Dopo aver ospitato Papini, Prezzolini, Soffici, e gran parte dei letterati delle Giubbe Rosse nel periodo che precede e che segue la grande Guerra.

Queste le scelte che permise-ro a La Nazione, pur doven-do affrontare momenti di

crisi e di difficoltà, di battere ogni volta le testate concorrenti. Se esisteva una difficoltà di vendita o addirittura di immagine, sempre riuscì a trovare gli uomini e le energie per risollevarsi. Liberale infatti, fu sempre il quotidiano fiorentino, ma di un liberalismo illuminato che sapeva aprirsi ogni volta ai temi di interesse sociale, e per farlo non esitava ad ospitare anche firme lontane dalle proprie posizioni. Così, quando si trattò di presentare ai fiorentini, e com-mentare, la nascita delle scuole serali, fu chiesto un articolo a un giovane e rivoluzionario poeta, il Carducci.

E fu tra i primi giornali, La Nazione di Firenze, a porre sul tappeto il dramma del

lavoro minorile, e a pubblicare le relazioni di Sidney Sonnino sulla condizione dei bambini, quelli del Nord Italia che a sette anni lavoravano anche 13 ore al giorno nell’industria della seta e quelli di Sicilia, costretti a star-sene chini, senza luce né acqua, nelle solfatare di Sicilia. Ancora di più colpisce, per il giornale del Risorgimento, la moderazione con la quale fu seguita la que-stione romana e fu data notizia della breccia di Porta Pia. E infatti,

mentre la retorica anticlerica-le si scatenava, creando con i suoi estremismi solo un effetto boomerang, La Nazione fu capace di analisi e di intuizioni che a distanza di 90 anni, con il Concilio Vaticano II, perfino il mondo cattolico avrebbe fatto proprie. Scriveva infatti il nostro giornale: “Il potere temporale ha trattenuto il cattolicesimo fermo sull’idea imperiale pagana.” Del resto non era il Ricasoli religiosissimo?

E dunque, è in omaggio ad una visione laica delle differen-ze fra Stato e Chiesa, una

visione totalmente deducibile dai vangeli che si combatté quella battaglia, che non significava affatto compiacersi di un assoluto anticlericalismo ideologico, o an-cor di più di una qualsiasi forma di ateismo conclamato. E ancora, quando si trattò di decidere se trasferirsi a Roma capitale, se-guendo le sorti del governo e del re, la spiegazione data ai lettori fu questa. “Noi non vogliamo che Roma attiri a sé tutta la forza intellettuale. Noi vogliamo che Napoli, Firenze, Bologna, Venezia, Milano, Torino, serbino la loro in-fluenza legittima, portino il peso nella bilancia delle sorti politiche nazionali. Ogni regione ha elementi origi-nali da custodire e nello stesso tempo è sentinella dell’Unità inat-taccabile.” Una prosa intelligente, modernissima, attuale ancor oggi, 140 anni dopo.

Nella foto: Alessandro Dumas fu il primo inviato speciale de La Nazione. Toccò a lui seguire l’impresa dei Mille. I suoi dispacci arrivavano alla ti-pografia a distanza di settimane.

Un atteggiamento che La Nazione conservò anche in epoche ben diverse. Così,

durante il fascismo, pur costretta come tutte le testate a pubblicare le veline del minculpop, non per questo La Nazione si allineò mai totalmente al regime. Tanto da opporsi, allorché il Regime vole-va imporre come direttori uomi-ni di assoluta fede a Mussolini. E ospitare firme, come quella di Montale, il personaggio che per il suo antifascismo era pur stato “licenziato” dal Vieusseux. Uno stile, un modo di essere, che la premierà quando, pur con mille problemi tornerà alle pubblica-zioni nel 1947.

E ancora, quando nel ’68 la realtà italiana dette segni di grande malessere e tutto

il nostro modo di essere società fu posto in forse, La Nazione non esitò ad assumere giovani della più varia estrazione politica ed ideologica, anche con provenien-ze ben diverse da quelle liberali, perché contribuissero ad aiu-tare la direzione a interpretare quanto stava accadendo. Erano i giorni del direttore Mattei ed an-cor più del condirettore Marcello Taddei. La Nazione si poneva una volta di più il problema di come adeguarsi ai tempi. E se ciò le costò dei rischi, e dure minacce per alcuni dei suoi cronisti - quelli più esposti nei giorni del terrorismo - ciò non modificò la sua linea.

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IL TRATTATO DI PACE

Ecco il primo supplemento pubblicato a corredo de La Nazione. Fu diffuso il 22

ottobre 1859, ed andò a ruba fra i lettori. Si tratta di un dispaccio dell’Agenzia Stefani composto a tutta pagina arrivato da Parigi la sera del 21 ottobre, e contiene il trattato di pace tra Francia ed Austria. È dunque la conseguen-za dell’armistizio di Villafranca, del quale riprende in gran parte le decisioni, e segna la fine della seconda guerra di Indipendenza.

Colpisce, leggendolo, l’aspetto economico che solitamente viene trascu-

rato nei libri di storia. Eppure, a guardar bene è forse la parte più rilevante della pace. Al Piemonte infatti, per avere la Lombardia, in qualche modo conquistata sul campo di batta-glia, occorre versare una cifra considerevole oltre a farsi carico dei tre quinti dei debiti della banca del Lombardo Veneto. Ora, se si pensa che il Veneto restava all’Austria, appare chia-ro che la gran parte dei debiti dell’Istituto finanziario finisce

Il 22 ottobre del 1859 i lettori de

La Nazione per la prima volta rice-

vono in omaggio un supplemento di particolare valore

storico.

L’annessione della Lombardia?Ecco quanti fiorini costò ai piemontesiIl primo supplemento nella storia de La Nazione pubblicò gli accordi di pace tra Francia e Austria

proprio a carico dei Savoia. E allora, il sangue versato a Solfe-rino dalle armate vittoriose dei patrioti?

L’altro aspetto riguarda il timore che l’Italia Unita voglia in qualche modo

rifarsi delle spese a scapito degli “stabilimenti religiosi” e in genere della Chiesa. Cosa che poi avvenne in qualche modo, ma che austriaci e francesi volevano evitare ad ogni costo. Così dettano una serie di regole per evitare che in Lombardia, il nuovo governo vada a far cassa confiscando le confrater-nite religiose. Altro aspetto, in qualche modo collegato, il ruolo che dovrà avere il Papa in una possibile confederazione di stati italiani.

Parigi 21 ottobre sera – I fogli francesi ed Inglesi riproducono un dispaccio da Zurigo contenente i particolari del trattato Franco – Austriaco.L’Austria conserverà Peschiera e Mantova. Il Pie-monte pagherà le pensioni accordate precedente-mente dal Governo lombardo.Pagherà all’Austria 40 milioni di fiorini, assumerà tre quinti del debito del Monte Lombardo Vene-to: totale del debito assunto dalla Sardegna 250 milioni di franchi. Desiderando la tranquillità della Chiesa e volendo assicurare il potere del Papa, convinte che questo oggetto potrà essere compiuta-mente ottenuto soltanto da un sistema che rispon-da ai bisogni delle popolazioni ed alle riforme di

cui il Papa già conobbe la necessità, le due parti contraenti riuniranno i loro sforzi per ottenere che il Papa faccia delle riforme nell’amministrazione dei suoi stati. I limiti dei territori degli stati indi-pendenti italiani che non parteciparono alla guerra non potranno essere mutati che dietro il consenso delle potenze che concorsero a formarli, garanten-do la loro esistenza: i diritti dei sovrani di Toscana, Parma e Modena sono espressamente riservati alle potenze contraenti.I due imperatori daranno tutto il loro appoggio alla formazione di una Confederazione degli Stati Ita-liani, collo scopo di conservare all’Italia l’indipen-denza e l’integrità, assicurare il benessere morale

e materiale del Paese, vegliare alla sua difesa col mezzo di un esercito federale.La Venezia resta sotto lo scettro dell’Imperatore d’Austria, farà parte della Confederazione, parteci-perà ai diritti ed agli obblighi del trattato federale, quale sarà stabilito fra gli stati italiani.Un articolo apposito regola l’amnistia. Le ratifi-che saranno scambiate entro 15 giorni. L’Austria restituirà i depositi in valore affidati alla Casse pubbliche ai privati. Gli stabilimenti religiosi di Lombardia potranno disporre liberamente dei loro beni di qualsiasi natura, se il possesso di questi beni fosse incompa-tibile colle le leggi del nuovo governo.

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Arezzo città risorgimentalelegge fin dall’inizio La Nazione

di Salvatore Mannino

È il telegrafo che porta ad Arezzo nella notte fra il 27 e il 28 aprile 1859 la

notizia della fuga dell’ultimo dei Granduchi, Leopoldo II. Nei luoghi di ritrovo principali dell’aristocrazia e della borghe-sia cittadine, l’Accademia dei Costanti con il Caffè omonimo e l’Accademia Petrarca, allora ubi-cata in via di Vallelunga, adesso via Cavour, si commenta subito con favore l’insediamento del governo provvisorio toscano, dominato dalla figura di Bettino Ricasoli. Il liberalismo moderato di stampo cavouriano è del resto da tempo l’ideologia che si va affermando nella classe diri-gente aretina, sulla quale pesa il peccato originale delle porte chiuse in faccia a Garibaldi nel 1849.

È liberale Pietro Mori, già iscritto alla Società Nazio-nale, che sarà il sindaco

del primo decennio post-unita-rio, è liberale Leonardo Roma-nelli, che il governo provvisorio nomina prefetto, è liberale En-rico Felciai-Fossombroni, figlio adottivo del grande Vittorio, che di Arezzo sarà il primo depu-tato al parlamento nazionale. L’Accademia Petrarca, principale centro intellettuale nomina fra i suoi soci onorari i grandi del Ri-sorgimento, da Cavour a Vittorio Emanuele II.

Che in questo clima la na-scita de La Nazione, il 13 luglio 1859, all’indomani

dell’armistizio di Villafranca e in polemica con essa, venga accolta con entusiasmo è fin troppo

comprensibile. Il giornale voluto da Ricasoli diventa subito uno dei più apprezzati nei gabinetti di lettura dei Costanti e dell’Ac-cademia Petrarca, affermandosi come il principale portavoce dei moderati aretini, saldamente egemoni nella politica locale. Non a caso, Piero Puccioni, fon-datore e uno dei primi direttori del quotidiano, verrà eletto deputato nel collegio di Sanse-polcro. Sono anni di grande mu-tamento. Nel 1866, l’arrivo della ferrovia Firenze-Roma induce l’amministrazione comunale a una radicale rivoluzione urba-nistica, con la realizzazione di via Guido Monaco e della piazza omonima fra la città antica e la stazione.

Solo a metà degli anni ’70 si appanna un po’ la stella dei moderati, il cui deputato, il

celebre studioso Pasquale Villa-ri, viene costretto al ballottaggio dall’astro nascente dell’Estrema Sinistra, il radicale Giovanni Severi. Ma bisognerà arrivare al principio del ‘900 perché i de-mocratici riescano a conquistare

Il foglio voluto da Ricasoli divenne fin dal 1859 il giornale dei moderatiIl ruolo svolto dai patrioti dell’Accademia dei Costanti e dell’Accademia Petrarca

il Comune con Guglielmo Duran-ti, mentre sono radicali i depu-tati di Cortona, Luigi Diligenti, di Bibbiena, Guglielmo Sanarelli, e Montevarchi, Arturo Luzzatto, amministratore delegato delle Ferriere di San Giovanni.

A spazzare l’eterna contesa tra moderati e democrati-ci, già incrinata dalla pri-

ma guerra mondiale, arriva nel 1921 l’affermazione del fasci-smo, caratterizzata da episodi di terribile violenza politica, come i fatti delle miniere di Castel-nuovo (marzo 1921) e di Foiano (aprile 1921, ben 11 morti).

Anche l’edizione locale de La Nazione, simpatizzante del fascismo fin dal suo

sorgere, si allinea ben presto al Regime, cui rimarrà fedele fino alla catastrofe del conflitto mondiale e alla guerra civile, che porta con sé nuovi, tragici lutti. La provincia di Arezzo è tra le più colpite, con quasi mille vit-time delle stragi naziste, da Val-lucciole (aprile 1944, 108 morti) a Civitella (29 giugno 1944, 230

morti), Cavriglia (4 luglio 1944, 200 morti) e San Polo (14 luglio 1944, 78 morti).

Dopo la Liberazione, Arezzo riparte da un nuovo sin-daco, l’azionista Antonio

Curina, mentre un po’ dovunque è la sinistra sulla cresta dell’on-da. Le prime elezioni del 1946 danno la vittoria a maggioranze fra partito socialista e partito comunista non solo nel capoluo-go ma in tutti i principali centri della provincia. Il referendum istituzionale del 2 giugno vede prevalere nettamente la repub-blica, viene eletto per la prima volta il democristiano Amintore Fanfani, che di Arezzo resta a tutt’oggi la figura di maggiore spicco politico, l’unico presiden-te del consiglio.

Nelle amministrazioni locali, invece, continua il dominio della sinistra,

che sarà infranto solo nel 1999 dall’elezione a sindaco di Luigi Lucherini, il primo esponente di centrodestra dal 1921. La figura dominante del dopoguerra, assieme a Fanfani, è quella di Aldo Ducci, socialista, sindaco dal 1962 al 1990, l’uomo della grande crescita del capoluogo nell’era del boom economico. Nel 1994 Paolo Ricci, cattolico di centrosinistra, è il primo sindaco eletto dal voto popolare dopo la fine della prima repubblica. Nel 2006, sull’onda dello scandalo noto come Varianto-poli, approda a Palazzo Cavallo Giuseppe Fanfani (ancora cen-trosinistra), nipote di Amintore. Il lungo dopoguerra è finito, Arezzo è ormai pienamente nel nuovo millennio.

Nella foto: Il barone Bettino Ricasoli che alla notizia

dell’armistizio di Villafranca volle che

fosse stampata, in una sola notte, La

Nazione.

I risorgimentali rappresentavano la maggioranza nella classe dirigente are-tina. Per questo La Nazione fu accolta con entusiasmo fin dagli inizi.

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È il 24 marzo del 1921

La rivolta degli anarchicinelle miniere di Castelnuovo

Errico Malatesta, l’anarchico amico di Bakunin soprannomi-nato il Lenin d’Italia, ancora una volta è in carcere e sta facendo lo sciopero della fame. Ex mazziniano, poi diventato anarchico durante l’esperien-za della Comune di Parigi del 1871, cercatore d’oro in Pa-tagonia, per un certo periodo anche massone, protagonista di innumerevoli e regolarmen-te falliti tentativi insurrezio-nali, dopo aver vissuto in Sud America, a Nizza, a Parigi, in Spagna, è riuscito a trascinare dalla sua parte molti minatori e cavatori toscani. In partico-lare a Cavriglia e Castelnuovo dei Sabbioni, dove sono le miniere di lignite, può contare sulla fedeltà di molti uomini. E sono loro, per chiederne la liberazione il 24 marzo del 1921, che organizzano una serrata delle miniere. Ma la

serrata si trasformerà poi in una vera e propria rivolta con morti e feriti. Agli anarchici si oppongono i fascisti. Ecco al-cuni brani dalle cronache con le quali La Nazione ne dava notizia

Castelnuovo… i minatori che come è noto avevano proclamato lo sciopero ieri

mattina contro la detenzione di Errico Malatesta, ebbero sento-re del passaggio di camions di fascisti a Montevarchi. Si sparse immediatamente la voce che i fascisti fiorentini erano diretti verso Castelnuovo dei Sabbioni

Ucciso un ingegnere, i rivoltosi hanno infierito sul suo cadavereLa situazione a San Giovanni Valdarno e il manifesto dei fascisti

e l’elemento anarchico e comu-nista, assai forte fra i minatori, si dette la cura di destare quan-to più allarme possibile nella massa… le voci allarmistiche ottennero l’effetto desiderato e la massa dei minatori, richiama-ta dal fischio della sirena della Centrale, dopo qualche titubanza decise di andare sulla strada di Montevarchi a impedire il pas-saggio a chicchessia. E si river-sarono giù dalla cave, abban-donando le gallerie, fermando

le macchine, si riunirono prima in paese e poi

formata una colonna di circa un miglia-

io, si diressero nella strada che mena a Montevarchi. Gli operai, eccitati dai discorsi dei capi comu-nisti che

li avevano invitati ad usare

la violenza non ragionavano ormai

più e lo stato d’animo della massa… si è rivelato

in un selvaggio episodio.

Proprio ai piedi della col-lina su cui è appollaiata Castelnuovo… ha sede la

direzione… mentre nelle stanze della villa continuava il saccheg-gio e la devastazione, alcuni operai si imbattevano nell’in-gegner Longhi che si trovava casualmente a Castelnuovo… mente tentava di fuggire. Contro di lui venivano sparati numerosi colpi di rivoltella e di fucile. Il disgraziato colpito mortalmente cadeva al suolo e contro di lui si accaniva la furia degli aggressori che lo colpivano con pietre e coi bastoni ferocemente. Anche altri

impiegati venivano più o meno gravemente feriti….

San Giovanni Valdarno. Dopo i luttuosi fatti di ieri sera la città si è svegliata stamani

nella calma più perfetta… Altra truppa si è intanto aggiunta a quella arrivata ieri sera e nel corso della notte….

Chi dà invece segni di vita sono i fascisti fiorentini i quali fin dalle prime ore

di stamani si sono posti in moto per cercare una tipografia che componesse un manifesto… tutti i tipografi avevano lasciato il paese ad eccezione di uno che era stato arrestato. Ed è stato proprio a lui che si sono rivolti i fascisti… il manifesto dice: I fa-scisti fiorentini ordinano a tutti i cittadini di esporre entro un’ora il tricolore. Dopo la vigliacca ag-gressione subita avvisiamo che i capi comunisti che presero parte alla aggressione di ieri sera saranno soppressi appena che si rintraccino… fosse pure fra un anno visto che vigliaccamente sono fuggiti.

E le prime bandiere hanno fatto quasi immediata-mente la loro apparizione.

Poche dapprima, poi numerose fino a diventare un’infinità. Ora le bandiere sventolano a tutte le finestre. Non c’è casa a cui non sia stato esposto il tricolore e molti negozi si sono riaperti quasi che l’apparizione della bandiera nazionale avesse esercitato sulla popolazione una benefica opera di pacificazione.

Nella foto: Errico Malatesta (a sinistra con la barba) con un gruppo di Arditi del

Popolo.Malatesta fu ferma-mente convinto, così

come l’amico Pëtr Kropotkin, dell’im-

minente avvento di una rivoluzione

anarchica.Passò più di dieci

anni della sua vita in carcere e buona

parte in esilio.

Nel tondo: operai al lavoro nelle miniere di lignite a Castelnuovo dei Sabbioni. Fra di loro si diffusero le idee anarchiche di Malatesta.

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Le ricerche accurate di Sal-vatore Mannino - studioso di storia del fascismo aretino e nostro collega della redazione di Arezzo - ci permettono di ricostruire, oltre la cronaca, gli antefatti della strage di Foiano della Chiana, una delle pagine più tristi nel periodo che portò all’avvento del fascismo nella provincia di Arezzo. Dalle sue note, che gentilmente ci ven-gono concesse in attesa della pubblicazione di un volume destinato alla vicenda, traiamo dunque, con estrema sintesi, l’articolo che segue.

Nell’aprile 1921 Foiano è il cuore delle organizza-zioni “rosse” non solo in

Valdichiana ma in tutta la pro-vincia, almeno alla pari di San Giovanni Valdarno e Cavriglia, in cui maggiore è stata (dopo i fatti del 23 marzo) la forza dei partiti di sinistra. Per i fascisti, attaccare Foiano è una necessità strategica: dopo aver espugnato la “cittadella rossa” la conquista dell’Aretino può dirsi completa. Fra il 12 e il 13 aprile spedizioni squadristische vengono lanciate contro la Valtiberina e il Casen-tino. È matura ormai l’offensiva

È l’aprile del 1921

Un agguato e una strage a FoianoOrmai l’Aretino è in mano ai fascisti

anche contro la “cittadella rossa” di Foiano, che infatti viene raggiunta la mattina di martedì 12 aprile, nelle stesse ore in cui si completa ad Arezzo l’occupa-zione del quartiere Colcitrone. Le fonti parlano di 150-200 squadristi giunti a Foiano per una spedizione punitiva.

I metodi sono quelli consueti: assalto al municipio e alle leghe rosse con incendio delle

suppellettili in piazza, devasta-zione della Cooperativa di con-sumo, distruzione della Camera del Lavoro e della Cooperativa Badilanti “Fossombroni”. La domenica successiva gli squadri-sti, su due camion, si radunano nel capoluogo e partono verso la Valdichiana. Sono ventidue in tutto, il che lascia intuire come loro intenzione fosse non tanto un’occupazione del paese ma una spedizione di assaggio.

Il drappello dei fascisti giunge a Foiano quando militanti e dirigenti dei partiti di sinistra

sono ancora a letto e non hanno il tempo di reagire. Solo alcu-ni dei capi, tra loro Gervasi e Melacci, riescono a darsi alla campagna. Vengono percossi

Nella foto: una manifestazione

comunista a Foiano della Chiana del

1921. Il paese resi-stette alle continue provocazioni degli

squadristi tanto da essere definito la “cittadella rossa”.

altri esponenti di sinistra. I fascisti tuttavia non desiderano altri inconvenienti né scontri. Per loro la spedizione volge al termine, si cerca solo un risto-rante a Foiano in cui consumare il pranzo prima di ripartire. Ma tra i militanti di sinistra locale si intravede l’occasione di dare una lezione agli squadristi in inferiorità numerica. Mentre gli squadristi mangiano prima del ritorno ad Arezzo, alcuni diri-genti della sinistra locale met-tono a punto il “colpo”. Il luogo scelto per l’agguato è la località Renzino, un paio di chilometri fuori del paese verso Arezzo. Gli esponenti di sinistra battono le case “sicure” di Foiano rastrel-lando armi, a volte raccolte anche contro il consenso dei proprietari. Vengono radunati intanto anche i partecipanti all’agguato, una cinquantina. Ci sono sicuramente alcune donne. Nel primissimo pomeriggio i partecipanti all’azione sono già alla Cascina Sarri, e si appostano sui due lati della strada.

Nel frattempo, i fascisti ignari indugiano prima in trattoria e poi al Caffè.

Intorno alle 15,30 si dividono in

due gruppi. Il primo resta in pa-ese per preparare la costituzione del fascio. Gli altri riprendono, su uno dei camion, la via di Arez-zo. Quando il mezzo arriva all’al-tezza della Cascina Sarri, dai due lati della strada, parte una fitta raffica di colpi d’arma da fuoco. Resta ferito per primo l’autista: Dante Rossi perde il control-lo del camion che si rovescia. Colpito anche, mortalmente, To-lemaide Cinini. Il gruppetto dei protagonisti dell’agguato esce a questo punto allo scoperto e si lancia sui fascisti che paiono indifesi. Lo scontro è violento: Fegino, pur intrappolato sotto il camion, si salva fingendosi mor-to, Rossi, già sanguinante, viene finito con un colpo di scure alla testa, Gualtiero Quadri, un altro squadrista, si vede amputare due dita con la roncola. Mentre Dal Piaz, gravemente ferito a un braccio e al volto, e Guido Ciofini cercano rifugio in un fosso, gli squadristi rimasti illesi tentano di salvarsi fuggendo in direzio-ne della fattoria di Brolio. Ce la fanno tutti ad eccezione del di-ciottenne Aldo Roselli che viene raggiunto, ferito a colpi di scure e ucciso da uno sparo. Intanto, la notizia dell’agguato è giunta fino a Foiano. Si organizzano i soccorsi, ma soprattutto monta la rabbia dei fascisti rimasti in paese che si precipitano a Renzi-no dopo aver allertato i camerati di Arezzo e Siena.

Al tramonto lo spettacolo che accoglie gli squadristi in arrivo da Arezzo, Siena

e Perugia (altri ne giungeranno nelle ore successive da Firenze, da Roma e persino, secondo alcune fonti, da Ferrara) è dram-matico: oltre il centro abitato le campagne sono in fiamme. La vendetta dei fascisti che ormai a centinaia hanno occupato il pa-ese prosegue nella tarda serata di domenica e lunedì mattina. In totale il bilancio ufficiale è di dodici morti (tre fascisti e nove contadini o militanti di sinistra).

Per reazione contro un agguato che costò la vita a dodici persone, i fascisti misero a ferro e fuoco Foiano e le sue campagne.

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da La Nazione del 29-30 ottobre 1922

È in corso la Marcia su RomaArezzo invasa dalle camicie nere

Arezzo è una delle provincie toscane dove lo scontro tra fascisti e antifascisti è più duro e violento, negli anni che precedono l’arrivo al potere di Mussolini. In particolare, scontri durissimi si ebbero in Valdarno, nella zona delle miniere di lignite e in Val di Chiana. Ma nei giorni della Marcia su Roma, come dimo-stra la cronaca che segue, tutto fu in apparenza tranquillo. Le camicie nere avevano costituito una loro base operativa nella ex chiesa di Sant’Ignazio, e qui si presentavano quanti avevano

intenzione di continuare verso Roma e piuttosto fermarsi in città per evitare “colpi di testa” da parte degli avversari politici.In breve tempo la città sembra sotto il loro controllo. Del resto, quanto accadeva nelle province vicine, non lasciava spazio per azioni di qualsiasi tipo. Da Firenze e da Empoli erano partiti su Roma migliaia e migliaia di fascisti. Lo stesso era accaduto da Siena, da Lucca, da Pisa e Livorno, per non parlare della vicina Peru-gia. Tutto questo permetteva a La Nazione di titolare che “I

Nella foto: un gruppo di fascisti aretini, armi in pugno, posano per una foto destinata ad esaltare le loro “virtù guerriere”.

toscani sono in testa”. A rendere inutile ogni speranza di reazio-ne, fu inoltre l’atteggiamento del Re. Il Governo aveva infatti proclamato lo Stato d’assedio che doveva entra in vigore a mezzogiorno del 29 ottobre e i ministri avevano deciso di “sedere in permanenza a Pa-lazzo Venezia”. Tutto sembra-va volgere verso uno scontro militare con i fascisti. Ma il re si era rifiutato di firmare l’atto. E dunque, veniva lasciata via libera alle camicie nere fasciste

che nel frattempo avevano invaso Roma. Da ciò

alcuni brani, in appa-renza contradditto-

ri, nella cronaca che segue.

Arezzo 28 notte. Grande

folla dalla Provin-cia convenuta in

città stamani per la tradizionale fiera

di San Simone, ha appreso la notizia della

Marcia su Roma. La città è coperta di striscioni tricolori

con le scritte W. il Re, W. l’Eser-cito, W. l’Italia, W. il Fascismo. In prefettura un lungo colloquio ha avuto luogo tra il prefetto Comm. Cavalieri, il Questore Cav. Uff. Vincenzo Gueli, il Comandante del presidio Col. Cav. Antonio Duranti, il Capitano dei RR. CC. Bertarelli.

Più tardi ha conferito col Pre-fetto il Segretario Politico provinciale del P.N.F. Profes-

sor Alfredo Frilli. A mezzogiorno il servizio d’ordine della città passerà nella mani dell’autorità militare giacchè sappiamo che è stato proclamato lo stato d’asse-

dio. Fino ad ora nessun incidente si è verificato e i fascisti sono disciplinatissimi e informano che moltissimi fascisti nella nottata scorsa sono partiti verso Roma.In mattinata ad Arezzo i fascisti hanno occupato l’ex chiesa di Sant’Ignazio e hanno stabilito degli accantonamenti dove afflui-scono i fascisti della provincia.

Col treno delle 15,07 saranno avviati a Monterotondo altri notevoli nuclei fascisti.

Oggi sabato si sono concentrati alla stazione ferroviaria diverse centinaia di fascisti di Arezzo e provincia, pienamente equipag-giati e riboccanti di entusiasmo.Le squadre, organizzate militar-mente, sono lungamente rimaste in attesa del direttissimo 21, che però come il diretto proveniente da Roma ha avuto enorme ritar-do. Altre, e assai numerose, sono partite nella notte di venerdì da Arezzo e da altre regioni della Provincia. In città e provincia la calma è completa.

Ad Arezzo continuano a giungere dalla provincia squadre di camicie nere.

Il telefono ha funzionato fino alle… completamente dalle 14 alle 15 solo per la stampa e dopo le 15 tutte le comunicazioni sono rimaste completamente inter-rotte. La cittadinanza ha appreso con la più viva soddisfazione che lo stato d’assedio è stato subito revocato telegraficamente. Ad Arezzo, infatti, non sono stati nemmeno affissi i bandi dell’Au-torità Militare.

I fascisti arrivano da tutta la Provincia e molti continuano in treno verso la CapitaleUna riunione in prefettura, nell’eventualità dello Stato d’assedio. “I toscani sono in testa”

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Informazione pubblicitaria

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La redazione storica de La Nazione, in via Cavour al numero 20, con l’indirizzo ben posto in evidenza sotto la testata di cro-naca di Arezzo. Così venivano presentate ai lettori degli anni Venti le notizie della nostra città, per lo più a pagina 4 o 5 del giornale. Erano numerose le cronache dalla provincia. E ciò dimostra che La Nazione non aveva solo un ufficio di cor-rispondenza nel capoluogo, ma anche una rete ben organiz-zata di corrispondenti. In questa pagina, del 21 maggio 1924, e dunque agli inizi del regime fascista, si ha un’idea di come veniva preparata la cronaca aretina. Qui di seguito riscritte, alcune delle notizie pubblicate in quel giorno.

Cronache dagli anni Venti (dalla città e dalla provincia)

Doloroso fatto di sangue. Stamani per cause non ancora ben precisate perché nessuno fu testimone una tragica repentina scena è avvenuta nell’interno della pizzicheria Scaramelli situata al N. 3 in Corso Vittorio

Emanuele. Verso le ore 11 il negoziante di cereali Borbui Luigi di anni 43, fu Simone, abitante in Corso Vittorio Emanuele 49 si presentava nel negozio del pizzicagnolo Giuseppe Scaramelli per trattare di alcuni lavori relativi al fondo tenuto da questi in affitto e del quale risulterebbe come nuovo proprietario il Borbui. Non è dato sapere quello che avenisse fra i due. Solo le grida del Borbui, ferito da una coltellata alla schiena tiratagli dallo Scaramelli, uomo sulla sessan-tina, padre di cinque figli, facevano accorrere molti cittadini che provvedevano a trasportarlo all’Ospedale Alberti dove riceveva le cure del prof. Bastianelli... Lo Scaramelli si è costituito in pieno stato di incoscienza agli agenti di P. S. Lod-di e Artigiani, i quali sopraggiungevano pochi istanti dopo e trovasi ora rinchiu-so in queste carceri giudiziarie. Il Bobui, che abbiamo potuto interrogare che ha dichiarato che fu ferito con una coltellata all’improvviso senza che lo Scaramelli pronunciasse parola alcuna, aggiungendo inoltre che fra loro intercorrevano i migliori rapporti di amicizia.

Mussolini cittadino onorario. Stamani nel civico palazzo di Cavriglia si è tenuta l’adunanza di quel consiglio comunale che fra i molteplici affari escussi ha approvato lo statuto relativo alla costitu-zione in consorzio dell’ospedale Alberi di San Govanni Valdarno fra i comuni del nostro mandamen-to… In fine seduta, a cui assisteva molto pubblico, veniva acclamato cittadino onorario del Comune di Cavriglia , S. E. Mussolini al quale il sindaco Fineschi comunicava telegraficamente la conferita cittadinanza.

Ci telefonano da Roma: Il Presidente del Consiglio ha oggi ricevuto a Palazzo Chigi nel salone della Vittoria la Commissione aretina composta dall’On. Bartolomei, dal Sindaco dott. Fiumicelli, dal Presidente della

deputazione Avv. Ristori, dal Prefetto Comm. Massara, dal Segretario della Federazione Fascista Dragoni, dal Segretario Politico del Fascio Avv. Renato Bizzelli, dal Segretario della Federazione Combattenti Patrizi, dal Segretario dei Sindacati Fascisti Mario Barioli dal Segretario della Federazione Mutilati Nello Ricci. La Commissione è stata presentata dalle LL. EE. Marchi e Lupi.Messo al corrente delle vicissitudini dell’erigendo monumento a Petrarca il presidente del Consiglio si è interessato vivamente e ha voluto vedere la fotografia del bozzetto giudicando l’opera molto bella e dignitosa; ha dato poi l’assicurazione che lo Stato darà un contributo di L. 120mila perché l’opera sia portata termine.La commissione ha quindi ricordato al Presidente la promessa fatta alla popolazione in occasione del suo passaggio alla stazione di Arezzo di visi-tare la città e ha pregato di fissare la data. S. E. Mussolini, pur non potendo determinare il giorno preciso ha assicurato che verrà ad Arezzo entro il mese di giugno e ha chiesto il programma della giornata…

La Commissione aretinaricevuta da S. E. Mussolini

Cronaca di San Giovanni

Cronaca di Cavriglia

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di Salvatore Mannino

LIl primo indirizzo cono-sciuto è il numero 20 di via Cavour. Qui, fra piazza San

Francesco e il Corso, la testa-tina della cronaca di Arezzo, a pagina 4 di un’edizione in sei fogli, indica dal 25 luglio 1920 la sede della redazione locale de La Nazione. Anche se probabilmente si trattava di un ufficio di cor-rispondenza, della stanza da cui uno o più corrispondenti inviavano le loro notizie alla redazione centrale di Firenze, che provvedeva ad impaginarle e titolarle. Tuttavia, la presenza di una sede aretina del giornale e di una cronaca locale in una

paginetta di titoli a una colonna, articoletti per lo più simili a bre-vi, è assai più antica, sicuramen-te esisteva nel 1914, alla vigilia della Grande Guerra, forse già nel primo decennio del ‘900.

Chi fossero questi croni-sti d’epoca non è facile riscoprirlo, a un secolo di

distanza. Allora gli estensori di cronaca erano rigorosamente anonimi, firme non se ne tro-vano, ad eccezione di qualche collaboratore illustre, come il dottor Ugo Viviani, medico di mestiere e storico per vocazio-ne, cui è anche dedicata una strada.

I primi nomi che affiorano sono quelli di Giovanni Laz-zeroni e di Alfredo Bennati,

che negli anni ‘20 e ‘30 sarà a lungo il titolare di quello che nel frattempo ha preso il nome di ufficio di corrispondenza, con sede dal 1931 al numero 1 di via Petrarca. Bennati è un intellettuale legato alla cer-chia nazionalista del podestà Pier Ludovico Occhini, teorico dell’ideologia dell’aretinità, cui va attribuita la reinvenzione del centro storico come è ancora oggi. Al giornalista in partico-lare si deve la riscoperta delle carte sulla base delle quali, proprio nel 1931, viene allestita la prima edizione moderna della Giostra del Saracino, di cui La Nazione ovviamente contribui-sce al lancio, un altro segno del legame strettissimo fra giornale e aretini.

Il quotidiano, non può essere diversamente in quegli anni, è pienamente allineato con

il Regime. Ancora nel 1944 (la sede si è nel frattempo trasferita in piazza Guido Monaco) Alfre-do Bennati è corrispondente dell’edizione repubblichina del giornale, la più triste. La colle-zione della cronaca di Arezzo si interrompe nel giugno 1944. Riprenderà nel 1945 sotto la te-stata di “La Nazione del Popolo” e poi, dal 1947, con la testata classica La Nazione.

Tra i giornalisti arriva linfa nuova. Nei primi anni ’50 entrano in redazione

(l’ufficio si è spostato in Corso Italia, nel palazzo del Circolo Artistico) due personaggi chiave della storia aretina del quotidia-no: Piero Magi, che sarà a lungo inviato di prestigio e infine dal 1981 direttore, e Giuseppe Dragoni, giovane ingegnere mancato, implacabile giocato-re di poker, uomo dal giudizio sempre lucido.

Dalla sede di via Cavour a quella attuale di via PetrarcaIl ruolo svolto da La Nazione per la Giostra del Saracino, il recupero del Centro Storico, la fiera antiquaria

Un secolo di cronaca locale(e tanti giornalisti illustri)

Magi sarà il primo capo della sede locale, quando verrà chiamato a Firenze in reda-zione centrale gli succederà Dragoni, che resterà in carica per un trentennio, fino al 1992, divenendo, con l’istituzione dell’ordine dei giornalisti, il primo professionista aretino. Sarà il padre di almeno due ge-nerazioni di cronisti. Fra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60 lo affiancano Alvaro De Fraja, Mario Del Gamba, che sarà poi a Firenze il principale cronista giudiziario del giornale, Carlo Dissennati, Mario Giuliattini, Gianfranco Barbiera, Giusep-pe Aratoli e un giovanissimo Mario D’Ascoli, destinato ad affermarsi anche come inviato sportivo di eventi nazionali.

Il legame con Arezzo, di cui La Nazione è a lungo l’unica voce (hanno chiuso i batten-

ti Giornale del Mattino e Nuovo Corriere) resta fortissimo. Lo

Nei tondi: Beppe Dragoni (in alto) che

per anni guidò la redazione aretina

del nostro giornale e Mario D’Ascoli (in

basso), capo pagina dal 1992 al 2006 e

noto opinionista sportivo.

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Fra i tanti giornalisti di valore che la Redazione di Arezzo ha conosciuto in circa un secolo di attività, un posto particolare merita senz’altro Piero Magi.

Fu scoperto da Gastone De Anna, il capo delle redazioni provinciali de La Nazione, nell’immediato dopoguerra. Magi lavorava per un giornale della concorrenza, De Anna lo convinse a passare sotto la prestigiosa testata fiorentina. Inizialmente, per un breve periodo, Piero la-vorò alla redazione di Arezzo, ma la sua prosa ironica, scorrevole, il suo modo assolutamente unico di avvici-nare notizie e personaggi, lo trasformò ben presto in un inviato speciale. Toccò così a Magi guidare La Nazione alla “conquista” dell’Umbria, dove il giornale di Firenze seppe conquistare in breve tempo, negli anni Sessanta, posizioni di grande prestigio, tutt’ora conservate con successo. Dall’impegno nelle cronache provinciali, ben presto Piero Magi passò a grandi avvenimenti nazio-nali ed esteri. Lo troviamo, così, a seguire le vicende di Ermanno Lavorini, il bambino di Viareggio ucciso e il cui corpo fu ritrovato dopo mesi sepolto nella spiaggia, poi ad occuparsi della morte di Pasolini, ma anche a seguire il colpo di stato in Cile e quello dei colonnelli in Grecia. Negli anni Ottanta divenne vice direttore, poi direttore del giornale. E fu con lui che La Nazione raggiunse il record di vendite arrivando a superare le duecentomila copie. Piero Magi, amico di Montanelli e dei grandi del gior-nalismo nazionale, ci ha lasciato anche un buon nu-mero di volumi dedicati, in gran parte, alla sua amata Toscana.

UN DIRETTOREDI NOME PIERO MAGI

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dimostra il ruolo che il giornale, e in particolare Carlo Dissen-nati, svolgono nella nascita dell’altro grande evento locale, la Fiera Antiquaria, che prende avvio nel giugno 1968.

Fra la fine degli anni ‘70 e la metà del decennio succes-sivo avvengono due eventi

epocali per la cronaca aretina, la cui sede passa intanto da via Crispi e via Roma (palazzo di vetro) per riapprodare in via Petrarca, dove è ancora. Intanto, viene concentrata ad Arezzo la fattura, con sistema editoriale informatico, non solo della pagina cittadina ma anche di quelle provinciali.

Nasce pure una pagina sportiva: le poche colon-ne di una volta diventa-

no un vero e proprio fascicolo, autonomo da quello nazionale. Risorge, poi, la concorrenza, con la nascita del “Corriere di

Arezzo”. La Nazione risponde aumentando pagine e giornali-sti: Dragoni chiama in redazione forze nuove, quelli che ancora oggi costituiscono il nucleo forte dell’edizione.

Nel 1992 diventa caposer-vizio Mario D’Ascoli che terrà l’incarico per un

quindicennio, fino alla pensione. Lo sostituisce, dopo un breve interregno del senese Gianni Tiberi, Sergio Rossi, che guida un gruppo di sette redattori, affiancati da una ventina di collaboratori in tutta la provin-cia. Ma ormai siamo all’oggi. Non è più storia bensì cronaca. Quella che, in un ampio fascico-lo formato tabloid, cerchiamo di raccontarvi ogni giorno.

Nella foto: Piero Magi prende la parolo durante una conferenza. Inviato speciale e apprezzato scrittore, Magi, come direttore de La Nazione.

Con lui, a metà degli anni Ottanta, il giornale raggiunse la tiratura massima e arrivò a vendere oltre duecentomila copie.

Nella foto grande: un’immagine

storica della redazione aretina.

Si riconoscono in basso da sinistra:

Mario D’Ascoli, Carlo Dissennati, Piero

Magi e l’ispettore Tavanti. Alle loro

spalle, tra gli altri, Beppe Dragoni,

Fulvio Apollonio e gli amministratori

Formigli e Migliori.

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Negli anni Quaranta la redazione delle province era formata da quattro

redattori sotto la guida di Giu-seppe Cartoni il cui figlio, Mario, sarebbe poi diventato un noto cronista giudiziario. Fra questi era Nicola Della San-ta, almeno finché non fu richia-mato sotto le armi. Fu allora che entrò in scena un personaggio destinato a organizzare le reda-zioni provinciali così come sono ancor oggi, sia pure con ben altra consistenza di pagine e di giornalisti. Si trattava di Gastone De Anna, figura mitica del gior-nale, al quale si deve – assieme a Giordano Goggioli, ad Alberto Marcolin, e ai grandi direttori Russo e Mattei – il rilancio del dopoguerra che permise a La Nazione di raggiungere negli anni Cinquanta le centomila copie.

De Anna ha oggi novant’an-ni, non uno di meno. Ma anche una memoria di

ferro e una lucidità invidiabile. È capace, perfino, di divertirsi a raccontare quegli anni. Ha conservato l’ironia, la capacità di narrare e fare sintesi, che ne fece un grande giornalista. Com’era il clima in redazione? “Scansonato, ironico, divertente. Ma lavoravamo tutta la notte senza pause. L’editore era Favi, l’amministratore Gazzo, era tutto un gioco di parole.” Come organizzò il lavoro? “Dove era possibile contattavo i vecchi corrispondenti e riapri-vo i vecchi locali. Altrimenti cercavo edifici e uomini nuovi. Nel ’48, quando Favi morì, tutte le redazioni dei capoluoghi di provincia erano riorganizzate.” Qualche nome di allora, qual-che collega? “Passaponti a Pisa, Chiantini a Siena, Coppini ad Arezzo e poi Dragoni e Piero Magi. A Spezia Reggio che poi passò il testimo-

Le edizioni localiDe Anna: Così nacquerole redazioni di provinciaIl “fuori sacco” e i megafoni che annunciavano il ritorno in edicola del nostro giornale I “pionieri” di una grande avventura nel racconto di colui che seppe trovarli e organizzarli

ne al figlio, il conte Vitelleschi e poi Bassi a Perugia. E ancora Ciullini a Pistoia, Del Beccaro a Lucca, Valleroni e Pighini a Massa, Rossi a Grosseto. Mauro Mancini diresse la prima reda-zione di Prato. Poi divenne inviato speciale as-sieme a Piero Magi, e più tardi a Piero Paoli e Raffaele Giberti che ricordo con immenso affetto, veniva da Spezia. Intanto cresce-va anche la redazione province a Firenze. Era tornato Della Santa, poi arrivarono Gianfranco Cicci, Nereo Liverani, Romolo De Martino, Enrico Mazzuoli, Aldo Satta, Giancarlo Domeni-chini, Tiberio Ottini, Giuseppe Mannelli, Luigi Scortegagna, Rossi, l’indimenticabile Piero Chirichigno, Franco Ignesti e una splendida segretaria, la signorina Giorni, che divenne un po’ l’anima di quell’ufficio. Si andò avanti così sino alla fine degli anni Sessanta quando arrivarono giovani come Enrico Maria Pini, Riccardo Berti e Maurizio Naldini. Spero di non aver dimenticato nessuno.”

Come lavoravate? “Al contrario di oggi. Tutto il materiale viaggiava col fuori sacco, e in base alle ore in cui arrivava era controllato e tito-lato in redazione. Fu solo con il computer che le redazioni pre-sero a organizzare le loro pagine direttamente. L’impaginazione poi partiva dalle nove di sera con la prima edizione che veniva chiamata “Nazionale”. Poi si pas-sava alle province più lontane come Spezia, Perugia, Grosseto, e un po’ alla volta si arrivava a impaginare Prato. Quindi, alle tre di notte veniva preparata l’ultima edizione, quella che i fiorentini trovavano in edicola al mattino. Intanto i primi corri-spondenti erano diventati gior-nalisti professionisti, accanto a loro erano vari collaboratori, poi assunti come giornalisti anche loro, mentre la rete si infittiva fino a raggiungere anche i paesi più piccoli e sperduti.” Quando fu concluso il lavoro di organizzazione? “Praticamente mai, continua-

va giorno dopo giorno. Però, alla fine degli anni sessanta La Nazione dominava totalmente il suo territorio di diffusione, e cominciavano anche le edizioni di Sarzana con Osvaldo Ruggeri e di Pontedera con Orazio Petti-nelli. Era poi arrivato dal Nuovo Corriere un ottimo amministra-tore, Ivo Formigli, che già aveva collaborato con Favi”. Rimpianti? Lo rifarebbe quel lungo lavoro? “Subito. Credo di essere nato per svolgere quell’attività. Era-vamo una grande squadra, un gruppo di amici che riuscivano a lavorar bene divertendosi. La redazione era sempre affol-lata di personaggi famosi che venivano a trovarci. Per segna-lare notizie, per commentarle, semplicemente per scambiare due idee. Potevano essere attori o personaggi della televisione, atleti, uomini politici. Ci senti-vamo forti, i lettori del resto, ci davano ragione.”

Gastone de Anna (al centro della foto, in ginocchio) tra

i colleghi Rosario Poma e Paolo

Marchi. Alle loro spalle circondano

Wanda Lattes redattori e cronisti de La Nazione alla

fine degli anni Sessanta.

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Arezzo: il simbolodella rinascita economica

di Salvatore Mannino

Poveri ma belli? Se gli aretini della prima metà del ‘900 fossero belli la storia non

lo dice, di sicuro erano poveri. La provincia più arretrata della Toscana, assieme a Grosseto, un grosso quadrilatero, incuneato fra Romagna, Marche ed Umbria nel quale dominava la tradizione agricoltura mezzadrile. Basti dire che ancora nel 1911 su 290 mila abitanti gli addetti all’agricoltura erano più di 200 mila, con oltre 60 mila mezzadri, e si parla solo dei capifamiglia di nuclei che arrivavano fino a dieci, quindici persone. Il sistema mezzadrile va in crisi già nel primo dopoguer-ra, tra il 1919 e il 1921, dinanzi alla poderosa spallata delle lotte contadine. Ma il disfacimento vero comincia dopo la seconda guerra mondiale, con quella che è un’autentica fuga dalle campa-gne, che in un decennio svuota letteralmente poderi e case colo-niche abitati per secoli. L’emi-grazione si dirige all’inizio verso il triangolo industriale della regione, ovvero Firenze, Prato e Pistoia, ma ben presto una delle destinazioni principali diventa la città capoluogo, ossia Arezzo, che ancora nel 1911 aveva soltanto 47 mila abitanti, la metà dei quali concentrati nelle frazioni di campagna. Contadini anch’essi insomma.

Cosa è successo? Che la città, negli anni ‘50, ha visto crescere una generazione

straordinaria di imprenditori, capaci di cambiarne la vocazione e la storia. Tra tutti, i più geniali e pronti a salire sull’onda del boom, sono due fratelli ex parti-giani, le cui immagini si stagliano sulla foto più famosa della libe-razione di Arezzo da parte degli alleati, il 16 luglio 1944: Mario e Giannetto Lebole. Sono giova-ni, sono dinamici, hanno tanta voglia di crescere e di arricchirsi. La prima fabbrichetta di confe-zioni (l’abbigliamento sarà uno dei settori chiave del “miracolo

economico”), nasce in pieno centro, fra via Pietro da Cortona e via Margaritone.

I dipendenti, anzi le dipen-denti, sono poche decine, ma ben presto lo spazio non

basta più. Sono bravi, i Lebole, hanno un’eccellente capacità di cavalcare un mercato nel quale l’incipiente benessere lancia le confezioni di massa, il vestito fatto in serie al posto dell’abito del sarto che durava tutta una vita. Nel 1957 viene inaugurato il primo, grande stabilimento, alla Chiassa Superiore: reggerà poco, già all’inizio degli anni ‘60 si rende necessario il trasferimen-to nei grandi capannoni della nascente zona industriale, in via Galileo Ferraris. E’ una rivolu-zione non solo economica, ma anche sociale e culturale. La Le-bole Euroconf arriverà ad avere 5 mila dipendenti, in gran parte donne, in gran parte provenien-ti dalle campagne. La fabbrica è una straordinaria scuola di emancipazione: la donna che la-vora ha bisogno di asili per i figli, di autobus per spostarsi, di elet-trodomestici per ridurre la fatica dell’impegno casalingo. Intanto, è cresciuto in città l’altro grande polo del boom. La Uno-A-Erre, o Gori-Zucchi, come più familiar-

Nel tondo: la posa della prima pietra del nuovo stabilimento Lebole. In prima fila Fanfani, dietro Mario Lebole.

Una generazione di imprenditori che seppe trasformare l’economia e la società aretinaDall’abbigliamento all’oro, dai fratelli Lebole a Leopoldo Gori e Carlo Zucchi

Nella foto grande: un reparto della Uno-A-Erre negli

anni trenta-qua-ranta.

mente la conoscono gli aretini, è in verità attiva fino dagli anni ‘20 in un settore che per la città è una novità, prima di diventarne l’elemento più peculiare di identità: l’oro, per meglio dire i gioielli. Anche Leopoldo Gori e Carlo Zucchi sanno approfittare con intuito geniale dei primi segni del “mi-racolo”. Nel dopoguerra la sede si trasferisce all’angolo fra via Vittorio Veneto e via Schiappa-relli. Ci lavorano già centinaia di persone, diventeranno più di mille nel nuovo stabilimento di via Fiorentina, inaugurato a metà degli anni ‘60 dal ministro dell’industria Andreotti, così come Fanfani, nume tutelare della città e dei Lebole, pone la prima pietra della nuova Lebole.

I fratelli Mario e Giannetto, così come Leopoldo Gori e Carlo Zucchi, sono imprendi-

tori all’antica, ancora legati alla tradizione paternalistica che non ama il sindacato in fabbri-ca, ma governare l’impetuoso sviluppo urbanistico e sociale che le loro aziende portano in città non tocca a loro. Sarà il sindaco per eccellenza, Aldo Ducci, socialista, in carica dal

1962 al 1990, a mettere mano alla costruzione di case popolari, asili, scuole, depuratori e servizi. Arezzo quasi raddoppia gli abitanti, da 50 mila a poco meno di 100 mila. Il boom chiama il boom, in una sorta di modello autopropulsivo.

Gli operai più svegli, più ca-paci, lasciano le fabbriche madre Lebole ed Uno-A-

Erre e si mettono in proprio, usando il know-how che hanno imparato dai maestri. Alla fine, solo i marchi dell’oro saranno più di mille. E siamo quasi all’oggi. La Lebole non c’è più da fine anni ‘90 (i fratelli ne sono usciti addi-rittura nel 1972), la Uno-A-Erre resiste. La provincia dei poveri ma belli è entrata a più riprese nell’elite della qualità della vita. Certo, la crisi morde (eccome) anche qui, ma Arezzo resta ben salda nell’Italia del benessere.

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I tecnici degli impianti di Levane e La Penna accusati dai magistrati fiorentiniMa l’inchiesta si concluderà senza colpevoli

da La Nazione del 12 gennaio 1967

Le dighe sull’Arnoaccusate del disastro

sono stati notificati avvisi con inviti a nominare un difensore... sarebbero emersi elementi in base ai quali nei confronti degli otto dipendenti dell’Enel potreb-bero ritenersi sussistenti reati di falso materiale su documenti, correzione dei dati sui famosi registri sequestrati alle due dighe e negli uffici fiorentini dell’Enel, e per alcuni di loro anche quello di inondazione colposa per l’allagamento avvenuto, la notte precedente l’alluvione di Firenze a ponte a Buriano, una frazione a monte della diga di La Penna in provincia di Arezzo…

Quali siano i particolari precisi che hanno deline-ato la posizione degli otto

funzionari e tecnici ovviamente non possiamo saperlo. È verosi-mile comunque che sui registri sequestrati siano state rilevate correzioni, non sappiamo se sugli orari degli scarichi, sull’entità dell’acqua affluita o defluita, o sui livelli dei bacini, oppure su tutte

Si cercava un colpevole dopo la tragica alluvione del novem-bre 1966. E qualcuno credette di individuarlo in chi aveva la responsabilità delle dighe del Valdarno, nella provincia di Arezzo. Due mesi e mezzo dopo il disastro, un’azione giudizia-ria fu intrapresa nei confronti di 8 dipendenti dell’Enel. Ma l’inchiesta finirà in un nulla di fatto. Qui di seguito brani dall’articolo di Giuseppe Peruz-zi col quale, in prima pagina, La Nazione del 12 gennaio 1967 dava la notizia delle accuse rivolte ai tecnici.

Una decisione presa ieri dai magistrati che conducono l’inchiesta sul disastro di

Firenze conferma clamorosamen-te che le indagini sono arrivate a una svolta importante, se non decisiva.

A otto persone, tecnici della diga di Levane e La Penna e funzionari dell’Enel,

Le acque dell’Arno si ritirano dopo aver provocato una tragedia in

tutta la Toscana. Per mesi si credette

che l’apertura improvvisa delle

dighe del Valdarno avesse provocato l’ondata di piena.

le registrazioni. Su questo punto gli inquirenti non avrebbero dubbi, anzi sembra che di fronte a tanta evidenza anche gli stessi interessati abbiano ammesso la discordanza di alcuni dati. Ma i funzionari e i tecnici dell’Enel avrebbero precisato che quelle discordanze sono dovute a errori manuali compiuti nel trascrivere i dati sull’andamento delle due di-ghe. In una parola essi escludono che vi siano state alterazioni per nascondere quello che accadde…

D’altra parte gli inquirenti, una volta accertate le correzioni sui registri

vogliono accertare come in effetti andarono le cose. A questo pro-posito forse è il caso di ricordare l’episodio che ebbe per protago-nisti i due “quadristi” della diga di Levane. Interrogati su quello che accadde, e fu registrato nella notte precedente il disastro di Firenze, essi dettero versioni che non convinsero i magistrati, tanto che dopo un drammatico inter-

rogatorio furono trasferiti alla caserma dei carabinieri. Soltanto alcune ore dopo, a conclusione di un nuovo interrogatorio, rispose-ro alla domande degli inquirenti dando una versione convincen-te…

Non ci sembra azzardato af-fermare che l’iniziativa dei magistrati indica che, in

attesa del definitivo responso dei periti, per ora la versione dello sbaglio involontario non è accol-ta. Per quanto riguarda il reato di inondazione colposa di Ponte a Buriano, che potrebbe emergere nei confronti di alcune delle otto persone… forse l’episodio è lega-to al guasto o all’errata manovra che in quelle drammatiche ore bloccò le paratie della diga. La conseguenza della mancata aper-tura delle dighe non è difficile intuirla: non potendo scaricare l’acqua il livello del bacino di La Penna logicamente aumentò.

Giuseppe Peruzzi

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terà negli anni una protagonista delle cronache. Nei giorni che seguono al sequestro cominciano le prime indiscrezioni. Si sostiene, da più parti, che ne facciano parte almeno cinquecento personaggi del massimo rilievo, e che il suo scopo sia quello di “ridisegnare” l’Italia con obiettivi politici che all’epoca erano considerati di “estrema destra” se non addirittu-ra eversivi. Le voci si rincorrono finchè Forlani, all’epoca presi-dente del consiglio dei ministri, decide di pubblicarlo per intero il 21 maggio. Per l’appunto - ma la coincidenza fu casuale? - in quello stesso giorno venivano arrestati il banchiere Calvi, Carlo Bonomi e Valeri Manera. Nella lista risultavano non 500 nomi, ma quasi mille. Per giorni fu un balletto di smentite, di precisazio-ni, di prese di distanza. In teoria niente si poteva imputare a chi ne faceva parte. Nei fatti, quella lista divenne una sorta di “lista di prescrizione”. Per capirne di più, sulla credibilità e gli scopi della lista, fu istituita una commissione parlamentare affidata all’onore-vole democristiana Tina Anselmi.

Sono gli anni Ottanta, un periodo di stragi e di mi-steri, con l’Italia ridotta a

un campo di battaglia fra le spie del mondo Occidentale e quelle dell’est Europeo, l’impero russo già prossimo alla fine. Sono anni nei quali banchieri, uomini politi-ci, esponenti di lobby più o meno segrete, tutti sembrano avere un ruolo in vicende poco chiare, con scopi che ancor oggi risultano nascosti. Unica certezza, il fatto che l’opinione pubblica si sente tradita, offesa, perfino umiliata. Non si sa chi comanda, chi vuole comandare al suo posto. Non si sa quali menti perverse guidano la “strategia della tensione”. È il momento delle incertezze. Un treno, la hall di una banca, una stazione ferroviaria. Ogni luogo affollato può diventare lo scenario di una strage.

È il marzo del 1981. Si sta indagando sul presunto rapimento di un banchiere

di grido, Michele Sindona, e i suoi rapporti con la massoneria. Gli inquirenti arrivano a Castiglion Fibocchi, nella sede di una azien-da che commercia in abbiglia-mento. Entrano negli uffici di un personaggio, aretino, del quale l’opinione pubblica non sa ancora niente ma che diverrà un prota-gonista delle cronache per anni: Licio Gelli.

Ufficialmente Gelli è un mediatore, un procac-ciatore d’affari, un uomo

che possiede ottime relazioni anche a livello internazionale, e che durante l’ultima guerra ha svolto un ruolo importante nei giorni che precedettero la fine del conflitto ed il crollo delle armate hitleriane. Gelli è un signore coi capelli bianchi, parla un toscano autentico, le foto lo ritraggono accanto ai potenti del mondo, in più occasioni. E dunque, nel suo ufficio viene trovata una lista di quasi mille nomi. Sono gli ap-partenenti alla loggia massonica P2. Anche questa sigla, nei primi giorni del tutto misteriosa, diven-

Nei tondi:Licio Gelli (in alto) che per anni dominò le cronache italiane tanto da meritare il titolo di “grande burattinaio”.

Michele Sindona, (in basso) il banchiere protagonista di un colossale crollo finanziario.

È il 21 maggio del 1981

P2: l’elenco di Licio Gelliche fece tremare l’ItaliaNella lista sequestrata a Castiglion Fibocchi erano quasi mille fra uomini politici, finanzieri, generali, uomini dello spettacolo e giornalisti

Fu avanzata dalla Commissione Anselmi l’ipotesi che la lista non

fosse l’elenco completo degli ade-renti, e che molti altri importanti personaggi iscritti alla P2 siano riusciti a non restare coinvolti nelle indagini successive. Nella ricostruzione della Commissione d’Inchiesta, ai circa mille nomi della lista se ne dovrebbero aggiungere altri. Lo stesso Gelli, in un’intervista del 1976, aveva parlato di più di duemilaquattro-cento iscritti, comprendendo nel conteggio anche gli stranieri.

Tra i 932 iscritti vi erano i nomi di 44 parlamentari, 2 ministri dell’allora governo,

un segretario di partito, 12 gene-rali dei Carabinieri, 5 generali del-la Guardia di Finanza, 22 generali dell’esercito italiano, 4 dell’aero-nautica militare, 8 ammiragli, vari magistrati e funzionari pubblici, i direttori e molti funzionari dei vari servizi segreti, ed anche di-versi giornalisti ed imprenditori. Le vicende di Gelli, prima fuggi-tivo, poi arrestato e portato nel carcere di Ginevra, quindi evaso in

modo rocambolesco dal carcere (risultò al processo che Gelli era nascosto nel cofano dell’auto di un secondino, ma poiché l’auto non partiva per il freddo, altri agenti avrebbero spinto l’auto a mano fuori dai cancelli) riempi-ranno le prime pagine dei giornali per mesi.

Gelli, dunque, fuggì di nuovo, mentre in Italia si scatena-vano ulteriori polemiche.

Riapparse però nel 1987, quando da Ginevra fece sapere - con una lettera rivolta a giudici che stava-no indagando su di lui - di essere malato ma anche pronto a tornare in Italia e a fornire tutte le spie-gazioni possibili sul suo operato. Rientrò, infatti. Stabilendosi nella nativa Arezzo, a Villa Wanda.Il parlamento italiano, nel frattem-po, aveva approvato una legge per mettere al bando le associazioni segrete in Italia.

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Lo credevamo finito, il ter-rorismo. Una

delle pagine più tristi nella storia della Repubbli-ca, conclusa con l’arresto dei capi, la dissociazione o il pentimento dei protagonisti, mu-tate profondamen-te le condizioni politiche e sociali che avevano con-tribuito a farlo na-scere. E invece, nel marzo del 2003, l’incubo ritorna, con tutta la sua carica di violenza, di morte, di follia. Una donna dai capelli rossi, Nadia Desdemo-na Lioce, nata a Foggia ma residente a Firenze finchè non aveva scelto la latitanza, viene arrestata alla stazione di Castiglion Fioren-tino. Un agente della Polfer, Emanuele Petri viene ucciso. Un altro agente è ferito gravemente. Un terrorista, Mario Galesi, cade sotto i colpi dei poliziotti. E’ una mattanza. E’ anche la certezza che le Brigate Rosse sono torna-te. Cos’era successo. Come era potuto accadere?

È il 2 marzo 2003 e il sovrin-tendente Petri, assieme a due colleghi, svolge

servizio su un treno regionale sulla Roma-Firenze. Poco dopo la fermata di Cortona - Camucia i tre uomini della Polfer control-lano i documenti a un uomo e

È il 2 marzo 2003

I terroristi uccidono ancoraArrestata Desdemona Lioce

una donna. È un normale accer-tamento di routine. Ma qualcosa non torna nelle carte d’identità che i due esibiscono. I poliziotti se ne accorgono. Chiedono chia-rimenti. Allora l’uomo si alza, estrae una pistola e la punta al collo del Petri, quindi urla agli altri poliziotti di gettare via le armi. Uno dei due poliziotti ob-bedisce e getta l’arma sotto i se-dili del convoglio, ma è teso, ha paura, e spara alla gola di Petri uccidendolo sul posto. Poi spara nuovamente contro il terzo poliziotto, quello che era ancora armato, e questi, nonostante le gravi ferite, riesce a rispondere al fuoco dell’assalitore ferendo-lo a sua volta mortalmente. La donna, dopo una colluttazione

Nella foto: con una prima pagina a colori, La Nazione dava notizia del sanguinoso ritorno sulla scena delle Brigate Rosse.

con l’ultimo poliziotto, viene bloccata. Il treno si ferma alla stazione successiva, quella di Castiglion Fiorentino. Arrivano i primi soccorsi per le persone ferite. Ma per Emanuele Petri non c’è più nulla da fare, era già deceduto. L’assalitore moriva alcune ore dopo in ospedale.

Il poliziotto ferito gravemen-te, per giorni e giorni fra la vita e la morte, sarà salvato

grazie ad una lunga operazione chirurgica. Appare subito chiaro che i due sospetti controllati dagli agenti della Polfer, erano brigatisti. Dal materiale trovato sul treno e nella borsa della donna (documenti, floppy disk e due computer palmari), è

Un episodio di sangue fra le stazioni di Cortona e di Castiglion FiorentinoSono gli stessi brigatisti degli omicidi Biagi e D’Antona

possibile ricostruire buona parte dei loro contatti.

Al termine di indagini ap-profondite, gli

investigatori riusci-ranno poi a catturare, tutti gli appartenenti dell’organizzazione terroristica. Erano loro i responsabili degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi, avvenuti rispettivamen-te nel 1999 e nel 2002.

Ma intanto, l’italia tutta si stringe intorno alla

famiglia Petri. Un uomo eccezionale, con un figlio che vorrà diventare a sua volta agente, prendendo così il posto del padre. Un uomo generoso, dedito al volontariato.

Talmente generoso da la-sciarci la vita. E infatti, il giorno della sua morte non doveva pre-stare servizio, ma aveva chiesto un cambio turno per assistere un ex collega dei carabinieri ma-lato gravemente. Petri viveva a Tuoro sul Trasimeno, al confine fra le province di Arezzo e di Perugia. Alla sua memoria sarà conferita la medaglia d’oro al valor civile dal Presidente della Repubbli-ca Carlo Azeglio Ciampi. Nella stazione di Castiglion Fiorenti-no è stato posto, a ricordare il suo sacrificio, un monumento bronzeo. Rappresenta un cuore spezzato.

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Una storia fatta di campioniI “grandi” dell’avventura amaranto

di Fausto Sarrini

Una storia lunga 86 anni. La nascita del calcio ad Arezzo è datata 10

settembre 1923, quando un gruppo di appassionati fonda la Juventus Football Club, mentre l’Us Arezzo sorge pochi anni dopo, il 9 settembre 1930. Finita la guerra, dopo lutti e macerie, mentre in Italia e anche ad Arezzo comincia la rinascita, al termine del campionato 1947-48, gli amaranto conquistano la serie B, ma il salto non avviene in quanto una beffarda riforma blocca le promozioni. E come dimenticare, l’amichevole, il 3 marzo 1948, che l’Arezzo pareg-gia 4-4 a Firenze con la Nazio-nale di Pozzo? In quel periodo c’è il possente difensore Rino Ferrario, che poi militerà con Juve, Inter e in Nazionale. Gli anni successivi segnano la crisi societaria, culminata con l’ama-ra retrocessione in promozione nel 1953.

La rinascita avviene con Giuseppe Peruzzi alla pre-sidenza, nel ‘56 gli amaran-

to si riscattano vincendo quasi tutte le partite e centrando la promozione. Il salto di qualità è degli anni Sessanta, in coin-cidenza con la trasformazione della città da agricola a indu-striale. Crescono le aziende, vari settori decollano, come quello orafo e dell’abbigliamento. Si-meone Golia, un orafo appunto, gentiluomo d’altri tempi, costru-isce una società forte e solida. Per qualche periodo al vertice c’è anche Mario Lebole. Nel 1961 viene inaugurato il nuovo stadio Comunale (in precedenza si giocava al Mancini). Esistono tutti i presupposti per coronare finalmente il sogno della B. E il grande giorno arriva il 15 mag-gio 1966. Penultima giornata, gli amaranto allenati da Cesare Meucci sbancano Carpi (2-0) se-guiti da tremila tifosi. Un esodo indimenticabile: comincia una festa che continua al ritorno in

città. L’immediata retrocessione non crea traumi, perché il club è di spessore, tanto che nel 1969 c’è subito il ritorno tra i cadetti, con allenatore Omero Tognon. Di lì a poco, diviene presidente un giovane imprenditore, Luigi Montaini, che sogna un traguar-do mai raggiunto, la serie A.

La stagione buona avrebbe potuto essere quella datata 1970-71. Se non fosse

partito malissimo, quell’Arezzo guidato da Ballacci sarebbe volato nella massima categoria. Vittorie, gioco spumeggiante, gol a raffica, tanto che il settimo posto finale non rende giustizia a una squadra che probabil-mente è la più forte mai vista da queste parti. Benvenuto, con 14 reti, vince il premio Sportsman per il miglior cannoniere. De-butta il giovanissimo Graziani, che sarebbe salito alla ribalta a grandi livelli. Nel ‘73 verrà cedu-to al Torino per 225 milioni.

Nel ‘75 una retrocessio-ne incredibile anche a causa di una squalifica

del campo di cinque giornate. Seguono anni bui, poi la risalita con l’avvento di Narciso Terzia-

Nella foto grande: è il 4 maggio 1969, il

capitano dell’Arezzo Rumignani e quello

della Massese, Castelletti (ex Fio-

rentina) si stringono la mano.

La partita rappre-sentava uno scontro

diretto per la pro-mozione in B. Vinse

l’Arezzo 1-0 con un gol di Rumignani.

Nel tondo: un gio-vanissimo “Ciccio”

Graziani .

ni e in panchina Angelillo. Coppa Italia di serie C nell’81, promozione in B nell’82, quin-to posto tra i cadetti nell’84, dopo che l’Arezzo è stato anche capolista. In quegli anni indi-menticabile la grande sfida col Milan del 20 febbraio 1983, finita 2-2 davanti a 15.000 spet-tatori. Nell’86 sale al vertice del club Benito Butali, appoggiato da dirigenti di spessore: a livello economico una società fortissi-ma. Ci sarebbero i pressuposti per la A e invece nell’88, la maz-zata, l’incredibile retrocessione. Comincia un declino inesorabile che culmina, il 17 aprile 1993 con la pagina più nera del calcio aretino, la radiazione.

Presidente, quasi come un segno del destino diventa Francesco Graziani, il più

forte giocatore della storia del calcio amaranto. L’Ac Arezzo, questo il nuovo nome, riparte dalla serie D e in cinque stagio-ni, con due promozioni, risale in C1. Tra gli artefici l’emergente tecnico Serse Cosmi. Dopo un gran campionato con Cabrini allenatore, il primo dell’era Piero Mancini alla presidenza, due stagioni pessime, la retro-

cessione in C2. Ma come per incanto, come in una favola, l’Arezzo viene ripescato e vola in B al culmine di una stagione straordinaria, indimenticabile, forse irripetibile. Un allena-tore giovane e di valore come Somma, una squadra che gira a meraviglia, dove spiccano il portiere Pagotto, il giovane esterno Pasqual, il regista Gelsi, il capitano Serafini e il bomber Abbruscato. Ma Somma non viene confermato. Un errore. Dopo una stagione sofferta, gli amaranto sfiorano ancora la A guidati dall’ottimo Gustinetti. Poi Calciopoli, i sei punti di penalizzazione, una partenza pessima, l’esonero di Antonio Conte, quindi una rimonta esal-tante dopo il ritorno di Conte e una retrocessione ingiusta, con la Juventus che adotta due pesi e due misure con gli amaranto e lo Spezia. E adesso l’Arezzo cerca di risalire in B.

Oltre ottant’anni di calcio aretinoGli alti e bassi di una società le cui sorti coincidono con quelle cittadine

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