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LA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI
Una mezza verità ha accompagnato il dibattito politico ed i proclami mediatici che
hanno preceduto l’emanazione della L. 27 febbraio 2015 n.18 sulla responsabilità civile dei
magistrati: “ l’Europa ci chiede la riforma”.
Effettivamente, alcune modifiche della L. n. 117/88 trovano preliminare fondamento
giustificativo nella giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che hanno
posto il legislatore nella necessità di dare una risposta formale alle sollecitazioni emerse
dalla procedura di infrazione nei confronti dello Stato Italiano per violazione del diritto
dell’Unione. Era pertanto inevitabile, al fine di evitare l’irrogazione della sanzione
pecuniaria nei confronti dello Stato, recepire i principi espressi dalla Corte di Lussemburgo
nelle sentenze Kobler del 2003 e Traghetti del Mediterraneo del 2006.
Fatta questa doverosa premessa, l’altra mezza verità è che la L. n. 18/2015 è andata
ben oltre le sollecitazioni e le indicazioni del giudice sovranazionale. A voler rispettare le
indicazioni della Corte di Lussemburgo, la riforma nazionale avrebbe dovuto garantire la
responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea, nell’ipotesi di
pronunce da parte di organi giurisdizionali di ultimo grado.
La L. n. 18/2015 ha, invece, toccato profili centrali della responsabilità civile del
tutto estranei dalle sollecitazioni della Corte di Giustizia. Il legislatore, cogliendo l’occasione
offerta dall’ordinamento dell’Unione europea, ha innovato radicalmente la normativa della
legge Vassalli attraverso una “riforma epocale” finalizzata a rendere “ la giustizia… meno
ingiusta e i cittadini…. più tutelati”.
In attesa dell’applicazione concreta che della nuova normativa daranno i giudici, la
nuova disciplina relega lo Stato Italiano in una posizione isolata rispetto al panorama
legislativo degli altri principali Stati dell’Unione Europea, dove continuano a permanere
specifiche garanzie volte ad impedire l’utilizzo temerario delle azioni risarcitorie e ad
assicurare piena attuazione ai valori di indipendenza della magistratura.
Per comprendere gli obiettivi e la portata della riforma, va ricostruito il contesto, e,
più in particolare il contenuto delle decisioni della Corte di Giustizia, al fine di verificare
quali cambiamenti siano la naturale e necessaria conseguenza della giurisprudenza
sovranazionale e quali, invece, non siano connessi all’esigenza di adeguamento del diritto
interno al diritto dell’Unione.
LE SENTENZE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA
Le ragioni che hanno indotto il legislatore a m o d i f i c a r e l a L . n .
1 7 7 / 8 8 , e m a n a t a all’indomani del referendum del 1987, vanno ricercate nelle
sollecitazioni provenienti dal diritto dell’Unione europea. In particolare, alcune importanti
pronunce della Corte di giustizia si sono susseguite a partire dagli anni ’90, prime fra tutte
la sentenza Francovich, resa peraltro all’esito di un rinvio pregiudiziale da parte di due
giudici italiani in materia di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di insolvenza datoriale.
È infatti con quella pronuncia che la Corte di Lussemburgo afferma, per la prima volta a
chiare lettere, che sugli Stati membri incombe l’obbligo di risarcire i danni derivanti ai
singoli dalla mancata attuazione di un direttiva. In particolare, la Corte connette
quest’obbligo, da un lato, alla necessità di assicurare piena efficacia alle norme comunitarie
attributive di diritti e dall’altro, all’art. 5 del Trattato: l’obbligo di eliminare le
conseguenze in capo ai privati delle violazioni del diritto comunitario commesse dagli
Stati deve considerarsi, cioè, una delle misure che gli Stati stessi sono tenuti ad adottare per
assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dalla partecipazione all’Unione.
Una seconda fondamentale tappa è rappresentata dalla sentenza Brasserie du
pecheur (Corte Giust. 5 marzo 1996, C-46/93 e C-48/93.) che aggiunge al corpus di principi
e regole già indicato nel 1991 due importanti precisazioni: la prima è che “le condizioni
fissate” per il risarcimento del danno a livello statale non possono essere “meno favorevoli
di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna”, e neppure “possono essere
tali da rendere impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”; la seconda è
che “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni
del diritto comunitario […] ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione
[…], qualunque sia l’organo di quest’ultimo [dello Stato] la cui azione od omissione
ha dato origine alla trasgressione”.
Nonostante, si potesse ipotizzare, già nel 1996, la responsabilità dello Stato per
violazione del diritto comunitario, non vi era stata un’espressa pronuncia da parte della Corte
lussemburghese sulla specifica ipotesi della violazione del diritto comunitario determinata
dallo Stato attraverso un proprio giudice. Certamente, essa era compresa nella portata delle
più generali affermazioni della sentenza Brasserie, laddove si fa espresso riferimento
all’obbligo risarcitorio degli stati da violazioni del diritto comunitario “qualunque sia
l’organo che ha dato origine alla violazione”.
Nel 2003 arriva la sentenza Kobler (Corte giust. 30 novembre 2003, C-224/01) , con
cui la Corte di Giustizia afferma la configurabilità della responsabilità dello Stato per il
caso in cui la violazione del diritto comunitario provenga da un organo giurisdizionale di
ultimo grado.
Secondo la Corte di Giustizia, poiché le pronunce degli organi giurisdizionali di
ultimo grado sono per definizione inoppugnabili, il privato va tutelato con l’azione
risarcitoria, in caso di violazione del diritto UE.
La Corte individua le condizioni perché possa verificarsi una violazione del diritto
comunitario da parte dei giudici di ultima istanza, prevedendo che la norma violata debba
avere i requisiti della “chiarezza” e della “precisione”.
Quanto all’elemento soggettivo, oltre al “carattere intenzionale della violazione”,
deve tenersi conto della “inescusabilità dell’errore di diritto”: per configurare il requisito
della inescusabilità è necessario far riferimento alla “posizione adottata eventualmente da
un’istituzione comunitaria” nonché alla “mancata osservanza, da parte dell’organo
giurisdizionale del suo obbligo di rinvio pregiudiziale”[…].
L’equazione inescusabilità dell’errore- violazione del diritto comunitario, secondo i
giudici di Lussemburgo, sussiste quando la decisione dell’organo giurisdizionale dello
Stato membro è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte.
Non qualsiasi violazione del diritto dell’Unione da parte dell’organo
giurisdizionale è fonte di responsabilità civile dello Stato, ma soltanto quelle che, secondo le
indicazioni della Corte, debbano dirsi manifeste.
Un’altra tappa fondamentale per lo Stato Italiano, in materia di responsabilità dello
Stato per violazione del diritto comunitario da parte dell’organo giudiziario, è costituita dalla
nota pronuncia Traghetti del Mediterraneo, con la quale la Corte per la prima volta affronta
direttamente la questione della compatibilità della L. n. 117/88 con il diritto dell’Unione.
Il rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo 234 del trattato CE era stato richiesto dal
Tribunale di Genova, dinanzi al quale pendeva un’azione di risarcimento intentata dalla
Traghetti del Mediterraneo contro lo Stato italiano, a seguito di una presunta erronea
interpretazione della normativa comunitaria da parte della Corte di Cassazione, che non
aveva ritenuto di dover interpellare al riguardo il giudice europeo.
La sentenza “Traghetti del Mediterraneo” affronta in modo dettagliato la
compatibilità della responsabilità civile dell’organo giurisdizionale di ultimo grado con
l’attività interpretativa. Secondo la Corte di Giustizia, se, da un lato “l’interpretazione delle
norme di diritto rientra nell’essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale… non si può
escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa,
appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa”. Anzi, secondo i giudici di
Lussemburgo, la violazione del diritto comunitario avviene proprio attraverso l’attività
interpretativa del giudice di ultima istanza e, quando le decisioni non sono impugnabili,
l’unico rimedio è quello risarcitorio.
La Corte di Giustizia esamina inoltre la compatibilità della normativa nazionale in
materia di responsabilità civile dei magistrati di cui alla L. n. 117/88, giungendo alla
conclusione che essa è incompatibile con il diritto dell’Unione, alla luce dei punti salienti
della giurisprudenza Köbler.
Dall’esame delle pronunce della Corte lussemburghese, possono evincersi i seguenti
principi:
a) Lo Stato è responsabile per violazione dei diritti dei singoli, qualunque sia
l’organo cui è imputabile la violazione (legislativo, esecutivo o giurisdizionale);
b) considerata la specificità della funzione giurisdizionale, la responsabilità dello
Stato deve essere limitata al caso eccezionale di una “manifesta” violazione del diritto
secondo i requisiti previsti nella sentenza Kobler, considerando il “grado di chiarezza e di
precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della
scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente
da un’istituzione comunitaria, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo
giurisdizionale di cui trattasi, dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’articolo
234, terzo comma, CE”;
c) la violazione deve essere stata commessa da parte dell’organo giudicante di
ultima istanza (punto 53 della sentenza Köbler ).
La massima della sentenza è esplicita in ordine alla incompatibilità della
normativa interna che limiti la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai
singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario per il solo fatto che la violazione
risulti dall’interpretazione delle norme giuridiche, laddove sussista il carattere “manifesto”
della violazione.
Secondo la Corte di Giustizia, inoltre, la L.117/88 è incompatibile con il diritto
comunitario nella parte in cui limita la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o
colpa grave del giudice, ove una tale limitazione porti ad escludere la sussistenza della
responsabilità dello Stato membro interessato quando sia stata commessa una violazione
manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre
2003, causa C-224/01, Köbler.
A seguito della sentenza Traghetti del Mediterraneo, la Commissione aveva invitato
l’Italia a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia con una prima lettera in
data 10 febbraio 2009, cui era seguita una lettera di diffida il 9 ottobre e, infine, un
ultimatum il 22 marzo 2010.
A seguito del ricorso per inadempimento da parte dello Stato Italiano ai sensi
dell’art.258 TFUE, proposto dalla Commissione, la Corte di giustizia pronunciava la
sentenza del 24 novembre 2011.
Con tale decisione, la Corte lussemburghese statuiva che l’Italia è venuta meno agli
obblighi ad essa incombenti in forza del principio generale di responsabilità degli Stati
membri per violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri organi giurisdizionali
di ultimo grado:
- escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai
singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo
giurisdizionale nazionale di ultimo grado, qualora tale violazione risulti da interpretazione di
norme di diritto o da valutazione di fatti e prove effettuate dall’organo giurisdizionale
medesimo;
- limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave per come
definiti dalla l. n. 117/88.
IL DICTUM DELLA CORTE DI GIUSTIZIA: CHE COSA CHIEDEVA
VERAMENTE L’EUROPA?
La disamina delle pronunce della Corte di Giustizia non lascia dubbi sull’obbligo del
legislatore italiano di adeguare l’ordinamento interno al diritto euro unitario, prevedendo la
responsabilità dello Stato (e non del singolo magistrato) per violazione del diritto
dell’Unione (e non della legislazione nazionale) da parte degli organi giurisdizionali di
ultima od unica istanza (e non dei giudici di grado inferiore).
Occorre distinguere tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato, per
sottolineare che la Corte di giustizia non si è mai interessata della seconda, ma sempre della
prima.
L’illecito dello Stato, e la conseguente responsabilità, sussiste anche in caso di
mancata o infedele trasposizione di direttiva: non si parla qui di responsabilità del
legislatore, ma dello Stato considerato nella sua unità (Corte giust. 5 marzo 1996, cause
riunite C-46 e C- 48/93, id., 1996, IV, 185).
Tuttavia, mentre nel caso del comune illecito giudiziario la responsabilità discende
dal rapporto organico corrente fra l’ufficio del giudice e lo Stato (art. 28 Cost.), nel caso
della responsabilità eurounitaria lo Stato risponde quale Stato membro dell’Unione europea,
ossia per i danni cagionati ai singoli per effetto della violazione degli obblighi derivanti
dall’appartenenza all’Unione.
In secondo luogo, è opportuno distinguere tra la responsabilità che consegue alla
violazione, da parte di un giudice, del diritto nazionale e la responsabilità che consegue
invece alla violazione del diritto dell’Unione europea; anche in questo caso, infatti, la Corte
di giustizia si è occupata esclusivamente del secondo profilo, e non anche del primo: quel
che preme al giudice di Lussemburgo è infatti che il tasso di penetrazione del diritto
comunitario nel tessuto dei singoli ordinamenti nazionali non risulti impropriamente
ostacolato dalle normative interne
Infine, la decisione della Corte di Giustizia riguardava le decisioni degli organi di
ultimo grado o di unica istanza, per loro natura non impugnabili.
A voler rigorosamente rispettare le indicazioni della Corte di Lussemburgo, la
riforma nazionale avrebbe dovuto garantire soltanto la responsabilità dello Stato per
violazione del diritto dell’Unione Europea, nell’ipotesi di pronunce emanate da organi
giurisdizionali di ultimo grado. Le indicazioni della Corte non erano dirette ad incidere sulla
responsabilità dei magistrati, sulla violazione del diritto nazionale e sulle decisioni di organi
non di ultimo grado.
La pronuncia della Corte di Giustizia poteva rappresentare, anzi, un’occasione per
riscrivere in modo organico la disciplina della responsabilità dello Stato per violazione degli
obblighi nascenti dal diritto dell’Unione da parte dell’organo legislativo, amministrativo e
giudiziario.
Il legislatore ha invece colto l’occasione offerta dall’ordinamento dell’Unione per
riscrivere del tutto la L. n. 117/88 non solo in relazione alla responsabilità dello Stato ma
anche, e soprattutto, della responsabilità del singolo magistrato.
Si è trattato di una chiara scelta politica da tenere ben distinta dagli obblighi imposti
dal diritto dell’Unione, mentre l’acceso dibattito che ha preceduto l’emanazione della legge,
si è focalizzato sul mantra “è l’Europa che ce lo chiede”. Le innovazioni della L. n. 18/2015
hanno innovato in modo significativo la disciplina sulla responsabilità del singolo
magistrato, attraverso una “riforma epocale” o, forse, una “riforma punitiva”.
L’art.1 della L. n. 117/88 non lascia spazi ad equivoci: le modifiche sono volte «al
fine di rendere effettiva la disciplina che regola la responsabilità civile dello Stato e dei
magistrati, anche alla luce dell’appartenenza dell’Italia all’Unione europea».
La commistione dei due livelli di responsabilità è fonte di problematiche applicative
e di censure di costituzionalità, di cui si tratterà in modo sintetico in questo breve scritto.
IL QUADRO NORMATIVO DELLA L. 13 APRILE 1988 N.117
Come noto, la L. n. 117/88 venne emanata al seguito del referendum sulla
responsabilità civile dei magistrati, volto all’abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. Il
referendum, svoltosi nel novembre del 1987, trasse spunto dalla nota vicenda giudiziaria, che
vide coinvolto il presentatore televisivo Enzo Tortora ed il risultato fu inequivocabile a
favore dell’abrogazione (80% circa dei voti validi).
Venne approvata la L. n. 117/88, i cui aspetti significativi possono così sintetizzarsi:
- la legittimazione ad agire spetta a chi si ritiene danneggiato da un atto,
comportamento o provvedimento giudiziario in tre ipotesi: dolo, colpa grave, diniego di
giustizia;
- le ipotesi di colpa grave consistono nella a) la grave violazione di legge
determinata da negligenza inescusabile; b) l’affermazione, determinata da negligenza
inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del
procedimento e, parallelamente, c) la negazione, sempre determinata da negligenza
inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del
procedimento; d) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dai
casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione;
- legittimato passivo è lo Stato, salvo rivalsa nei confronti del magistrato nei
limiti del terzo della retribuzione annuale, nei confronti del magistrato, ed a meno che il fatto
produttivo di danno non fosse un reato (nel qual caso il danneggiato aveva diritto al
risarcimento nei confronti sia del magistrato che dello Stato);
- condizione di procedibilità dell’azione è che fossero stati esperiti tutti i rimedi
previsti contro il provvedimento;
- previsione di un vaglio di ammissibilità volto a bloccare sul nascere azioni
manifestamente infondate, intempestive o non rispettose dei presupposti di legge;
- previsione della c.d. clausola di salvaguardia, secondo la quale “nell’esercizio
delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di
norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”;
- previsione del termine di due anni per la proposizione dell’azione di
risarcimento (articolo 4 );
- previsione del termine di due anni per l’esercizio dall’azione di rivalsa da
parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.
La grande novità era dunque costituita dalla responsabilità per colpa, bilanciata
attraverso alcuni accorgimenti, ed in particolare tramite il filtro di ammissibilità e la c.d.
clausola di salvaguardia. Attraverso simili strumenti, si tendeva ad evitare improprie
sovrapposizioni tra il giudizio di impugnazione e quello di responsabilità ed a garantire i
singoli magistrati, preservandone l’autonomia di giudizio e, per tal via, l’indipendenza.
La L. n. 117/88 ha superato il vaglio di costituzionalità già all’indomani della sua
entrata in vigore.
La prima decisione che viene in rilievo è senz’altro la sentenza n. 18/89 , in cui il
giudice delle leggi ha ritenuto che la disciplina della L. n. 117/88 è caratterizzata dalla
“costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l’indipendenza dei
magistrati, nonché l’autonomia e la pienezza della funzione giudiziaria”. Dette cautele sono
costituite, secondo la Corte dalla previsione della clausola di salvaguardia, la cui portata è
ora significativamente ridimensionata, e dal filtro di ammissibilità, che è stato eliminato
dalla L. n. 18/2015.
LE MODIFICHE INTRODOTTE CON LA L. 27 FEBBRAIO 2015 N. 18.
Le modifiche più rilevanti, rispetto alla precedente disciplina, possono sintetizzarsi
come segue:
a. E’ prevista la risarcibilità del danno non patrimoniale anche in casi diversi
dalla privazione della libertà personale (art.2 comma1);
b. sono aggiunti, fra le ipotesi di colpa grave: I) la violazione manifesta della
legge nonché del diritto dell’Unione europea tenendosi conto, in particolare, del grado di
chiarezza e precisione delle norme violate nonché dell’inescusabilità e della gravità della
inosservanza e, in caso di violazione manifesta del diritto dell’Unione europea, della
mancata osservanza dell’obbligo di rinvio pregiudiziale, nonché del contrasto dell’atto o del
provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia dell’Unione europea;
II) il travisamento del fatto o delle prove;
c. è abrogato il filtro di ammissibilità;
d. è stata modificata la clausola di salvaguardia: oltre che nei casi di dolo,
l’interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove da luogo a
responsabilità anche nei casi di colpa grave previsti dai commi 3 e 3 bis dell’art.2;
e. il termine di decadenza per la proposizione dell’azione risarcitoria è innalzato
a tre anni (art.4 );
f. è prevista l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione di rivalsa da parte dello
Stato nei confronti del magistrato nei casi di diniego di giustizia ovvero di violazione
manifesta del diritto o travisamento del fatto o delle prove “determinati da dolo o negligenza
inescusabile” (articolo 7 modificato);
g. è innalzata a due anni il termine entro cui il Presidente del Consiglio dei
Ministri, ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa;
h. è aumentata fino a metà di un’annualità stipendiale la misura della rivalsa nei
confronti del magistrato.
LE NUOVE FATTISPECIE DI COLPA GRAVE DEL MAGISTRATO
Il nuovo comma 3 della L. n. 18/2015 stabilisce le ipotesi di colpa grave del
magistrato:
• la ''violazione manifesta della legge nonchè del diritto dell'Unione europea”
• il travisamento del fatto o delle prove;
• l'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli
atti del procedimento;
• la negazione di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti
del procedimento;
• l'emissione di un provvedimento cautelare personale o reale fuori dei casi
previsti dalla legge oppure senza motivazione.
LA VIOLAZIONE MANIFESTA DELLA LEGGE E DEL DIRITTO DELL’UNIONE
EUROPEA
Il nuovo testo normativo trasfonde letteralmente il testo della sentenza della CGUE
Traghetti del mediterraneo, prevedendo quale ipotesi di responsabilità la “violazione
manifesta della legge” in luogo della “grave violazione di legge determinata da errore
inescusabile” prevista dalla Legge Vassalli.
Secondo la giurisprudenza formatasi sotto il vigore della precedente normativa, per
negligenza «inescusabile» si intendeva una violazione evidente, grossolana e macroscopica
della norma ovvero di una lettura di essa contrastante con ogni criterio logico oppure
l’adozione di scelte aberranti nella ricostruzione della volontà del legislatore o la
manipolazione assolutamente arbitraria del testo normativo o , ancora lo sconfinamento nel
diritto libero. (Cass. 18.3.2008 N.7272)
Tale definizione è ancora attuale ai fini della rivalsa, ma non più per la fattispecie di
responsabilità, che hanno quale presupposto la “violazione manifesta della legge”.
Ad avviso di chi scrive, per essere manifesta la violazione deve avere un’evidenza
tale da non richiedere un’attività interpretativa; la violazione deve essere contraria alla lettera
della disposizione nel suo significato linguistico. Vi deve essere un travisamento linguistico
della disposizione.
Il legislatore ha stabilito che la violazione che può dare luogo al risarcimento dei
danni deve essere manifesta e cioè deve avere un’evidenza tale da non richiedere un’attività
interpretativa: “l’art. 3-bis specifica che, nella valutazione della manifesta violazione di
legge, deve tenersi conto del grado di chiarezza e precisione delle norme”, escludendo la
responsabilità ogni volta che il testo normativo si presti ad un’attività interpretativa”. Un
riferimento positivo può essere rinvenuto nella giurisprudenza della Suprema Corte
relativa all’errore del giudice rilevante in sede disciplinare, individuato nella
«incontrovertibile difformità da già prospettate o ragionevolmente possibili interpretazioni
della norma» e, quindi, nella soluzione che «non riesca a trovare aggancio nell'elaborazione
giurisprudenziale e dottrinale dell'epoca od anche successiva né, in mancanza od in
contrasto con quei referenti, una plausibile giustificazione sul piano logico. Non può dunque
rilevare l'errore, ma il suo presentarsi evidente ed incontrovertibile per la generalità degli
operatori del settore».
Si ha “violazione manifesta della legge” nei casi in cui la norma escluda qualsiasi
attività interpretativa da parte del giudice e si risolva in un’inosservanza del significato
linguistico della disposizione (si pensi, ad esempio alla durata dei termini di prescrizione o di
custodia cautelare). Per valutare se la violazione dell’enunciato linguistico sia manifesta,
deve valutarsi il grado di chiarezza e precisione della norma e l’inescusabilità e la gravità
dell’inosservanza.
Il rischio concreto della portata innovativa della norma è sfociare in un eccessivo
conformismo giurisprudenziale in favore della certezza del diritto, o, se si vuole, di una
“giurisprudenza difensiva” che diventerebbe così incapace di adeguare il diritto vivente alle
mutevoli esigenze della società. Il potere diffuso, diretta conseguenza della soggezione del
singolo giudice soltanto alla legge, spesso ha consentito l'emersione della tutela degli
interessi dei soggetti deboli ed ha contribuito non poco a rendere effettivi nella società
italiana i principi costituzionali (basti pensare al revirement giurisprudenziale su temi come
gli interessi usurari, l’anatocismo).
L’elemento di novità più rilevante nella nuova normativa sulla responsabilità civile
dei magistrati è senza dubbio costituito dall’introduzione della violazione manifesta del
diritto dell’Unione Europea. Il legislatore ha trasfuso nel testo legislativo i passaggi più
significativi della sentenza Kobler, adempiendo all’obbligo posto dalla Corte di Giustizia di
affermazione della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione.
L’equivoco tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato riaffiora
proprio in relazione all’introduzione, nel novero, tra le ipotesi di colpa del magistrato, della
violazione del diritto dell’Unione Europea, in quanto, in tale ipotesi, la violazione riguarda
non il precetto ma l’interpretazione secondo il dictum delle corti sovranazionali.
La portata innovativa della norma desta non poche preoccupazioni, essendo
relativamente recente nella cultura e nella formazione dei magistrati l’applicazione del diritto
europeo, nonostante l’impulso volto alla formazione di una cultura europeista da parte del
CSM e della Scuola della Magistratura. Oltre al proliferare della legislazione nazionale, il
giudice deve misurarsi con la legislazione ed il diritto dell’Unione europea, dominata dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Inevitabili sono i problemi che si pongono nella gerarchia delle fonti cui si uniscono i
contrasti interpretativi nel dialogo tra corti.
Fortunatamente la legge, nella sua tortuosa e non chiara formulazione, prevede che
la violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea sia valutata facendo riferimento al
“grado di chiarezza e precisione delle norme violate nonchè dell’inescusabilità e della
gravità dell’inosservanza”.
Sarà compito dell’interprete chiarire caso per caso quando la norma (e
l’interpretazione ad essa data dalle corti nazionali e sovranazionali) sia così “chiara” e
“precisa” da non prestarsi a diverse interpretazioni.
Quanto al concetto di “inescusabilità”, sarà necessario tenere conto di tutti gli aspetti
del caso concreto, (eventualmente mutuando dalla giurisprudenza formatasi sotto il vigore
della precedente disciplina in tema di “inescusabilità dell’errore”), verificando, volta per
volta, il grado di diffusione della norma di diritto europeo e la consolidata interpretazione
fornita dalla Corte di Giustizia.
Non va sottaciuto che spesso, al di là dei frequenti ritardi con i quali interviene, è lo
stesso legislatore nazionale ed europeo che, adottando tecniche legislative che privilegiano
disposizioni elastiche, flessibili e sfumate, lascia deliberatamente al giudice il compito di
riempire di significato le norme.
Un ulteriore e problematico aspetto riguarda l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla
Corte di Giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE , in caso di violazione manifesta del diritto
europeo. L’art.267 TFUE conferisce ai giudici nazionali la più ampia facoltà di adire la
Corte, qualora essi ritengano che una causa dinanzi ad essi pendente faccia sorgere questioni
che richiedono un'interpretazione o un esame della validità delle disposizioni del diritto
dell'Unione essenziali ai fini della soluzione della lite di cui sono investiti (sentenze del 27
giugno 1991, Mecanarte, C-348/89, Racc. pag. I-3277, punto 44, e del 5 ottobre 2010,
Elchinov, C- 173/09, Racc. pag. I-8889, punto 26).
La Corte Costituzionale (sent. 30/03/2012, n. 75) ha previsto l’obbligo del rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia limitatamente ai giudici di ultima istanza e nei casi in
cui non si tratti di un'interpretazione consolidata o di una norma che non lasci adito a dubbi
interpretativi. Per quanto riguarda i giudici non di ultima istanza, sussiste la facoltà e non
l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, nei casi in cui non sia possibile
procedere ad un’interpretazione conforme al diritto Comunitario.
La L. n. 18/2015 sembrerebbe estendere l’obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte
di Giustizia anche da parte dei giudici non di ultima istanza, sempre che non sia possibile
procedere ad un’interpretazione conforme al diritto euro unitario, o, in caso di contrasto, alla
disapplicazione del diritto interno in contrasto con il diritto comunitario.
Appare evidente che l’inserimento tra le ipotesi di responsabilità civile dei magistrati
dell’omesso rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia allarga le ipotesi di responsabilità del
magistrato anche in relazione a temi dibattuti ed in continua evoluzione, quali il rapporto tra
interpretazione conforme, disapplicazione e rinvio pregiudiziale, in continua evoluzione.
IL TRAVISAMENTO DEL FATTO E DELLE PROVE
Tra le ipotesi di colpa grave è previsto anche il “travisamento del fatto e delle prove”,
introdotto ex novo dalla L. n. 18/2015 e non contemplato tra le ipotesi di responsabilità del
magistrato oggetto delle pronunce della Corte di Giustizia. Si tratta dell’ipotesi su cui,
presumibilmente, si fonderanno la maggior parte di richieste di risarcimento dei danni per
errore giudiziario, con il rischio di sovrapposizione tra azione di responsabilità e mezzi di
impugnazione.
Per individuare il travisamento della prova bisogna far riferimento all’art.606, c.1,
c.p.p. che ricorre nel caso in cui il giudice abbia tratto il proprio convincimento da una prova
che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da
quello reale. Si ha travisamento della prova quando si utilizzi un’informazione inesistente o
si ometta l’esame di elementi probatori offerti dalle parti.
Il travisamento della prova non tocca il livello della valutazione ma si arresta alla
fase antecedente dell’errata percezione di quanto riportato nell’atto istruttorio.
Più problematica è l’ipotesi di travisamento del fatto in quanto implica la valutazione
delle risultanze processuali ed il sindacato sul percorso motivazionale seguito dal giudice,
con evidenti riflessi sull’autonomia ed indipendenza. Il travisamento del fatto in sede civile
implica, invero, la valutazione delle risultanze processuali, motivo per il quale il vizio non è
ricorribile in Cassazione ma legittima la revocazione della sentenza ex art.395 c.p.c.
Anche in sede penale, il travisamento del fatto intanto può inficiare di nullità la
sentenza in quanto concorrono due condizioni: l’ammissione da parte del giudice di merito
di un fatto manifestamente escluso dagli atti del processo, o viceversa, l’incidenza di esso su
un punto decisivo del giudizio.
Un’interpretazione aderente al dettato costituzionale, che non interferisca sull’attività
valutativa, dovrebbe ravvisare il travisamento del fatto quando la decisione sia in
macroscopico contrasto con le risultanze probatorie, sia priva di giustificazione logica e sia
del tutto irragionevole. Deve trattarsi di errori di macroscopica evidenza, aventi ictu oculi
rilevanza decisiva, al fine di evitare il sindacato sull’interpretazione delle norme. L’errore
rilevante deve essere quello che deve apparire di assoluta immediatezza e di semplice e
concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o
di indagini ermeneutiche, e che esso non possa consistere, per converso, in un preteso,
inesatto apprezzamento delle risultanze processuali: in una parola, ancora una volta, l’errore
inescusabile.
Va, pertanto, escluso il travisamento del fatto, qualora il giudice, pur esaminando
correttamente le risultanze processuali, abbia ricostruito in modo diverso il fatto, dando atto
del percorso motivazionale seguito.
In ogni caso, l’ipotesi del “travisamento del fatto e delle prove” si presta a
trasformare l'azione di responsabilità in un'impropria azione di impugnazione dei
provvedimenti sfavorevoli divenuti definitivi, con un aumento esponenziale del contenzioso,
nonché a consentire un'indagine surrettizia circa l'interpretazione dei fatti e l'attività
valutativa del giudice, con un sostanziale sindacato sul merito dell’attività giurisdizionale
con conseguente vulnum all'indipendenza del magistrato.
L’ERRORE REVOCATORIO
Rispetto ai vizi di travisamento del fatto e della prova come elaborati dalla
giurisprudenza civile e penale della S.C., l’affermazione di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento o la negazione di un fatto la cui
esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento, lascia scoperta solo l’area
della omessa valutazione della prova decisiva e dell’omesso esame di un fatto decisivo per il
giudizio prospettato dalle parti.
Anche in questo caso, deve trattarsi di una decisività ictu oculi evidente, dotata di
quel carattere manifesto che impedisca che attraverso essa possa surrettiziamente essere
sindacato il processo valutativo, appunto, del fatto e delle prove.
Sia pur con queste limitazioni, restano forti perplessità in ordine all’applicabilità di
tali vizi alle attività requirenti e a quelle del giudice che agisca sopratutto senza alcun
preventivo contraddittorio pieno o per i provvedimenti privi di motivazione.
LA CLAUSOLA DI SALVAGUARDIA
La L. n. 18/2015 ha modificato anche la clausola di salvaguardia, uno dei pilastri
della L.n. 117/1988, grazie alla quale la legge Vassalli aveva retto al vaglio delle censure di
incostituzionalità.
La clausola di salvaguardia escludeva che potesse dar luogo a responsabilità l'attività
di interpretazione di norme di diritto ovvero quella di valutazione del fatto e della prova, con
ciò escludendo qualsiasi lettura che potesse incidere sul carattere fortemente valutativo
dell'attività giudiziaria e, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n.1 del 19
gennaio 1989, attuativa della garanzia costituzionale dell'indipendenza del giudice e, con
essa, del giudizio (Cass. 27.11.2006, n.25123; Cass. sez. VI, 27.12.2012, n.23979). Tanto è
vero che, pacificamente, non può ritenersi che il giudice sia obbligato a decidere
conformemente all’interpretazione già effettuata precedentemente dallo stesso o da altro
giudice in relazione ad un’altra controversia (Cass., 31 maggio 2006, n. 13000).
L’art. 2, comma 1, lett. b) della L. n.18/2015 ha ridotto l'ambito di operatività della
clausola di salvaguardia, inserendo l’inciso “fatti salvi i commi 3, 3 bis ed i casi di dolo”. Il
riferimento alle ipotesi disciplinate dai commi 3 e 3 bis determina invece l’inapplicabilità
della salvaguardia a tutte le ipotesi di colpa grave, ed in particolare, al caso della violazione
manifesta della legge o del diritto dell’Unione europea. La clausola di salvaguardia
rimarrebbe così applicabile, in teoria, alle sole violazioni della legge e del diritto dell’Unione
europea che non debbano considerarsi manifeste, ovvero fuori dai casi di colpa grave.
In base alla precedente formulazione era chiaro che le ipotesi tipizzate di colpa grave
non costituissero interpretazione delle norme di diritto o valutazione del fatto e delle prove;
ora l’inciso “fatti salvi” propende per la conclusione opposta: anche le ipotesi tipizzate di
colpa grave costituiscono interpretazione di norme di diritto o valutazione del fatto e delle
prove, suscettibili di determinare la responsabilità civile.
La modifica della clausola di salvaguardia risente del vizio d’origine, ovvero
l’equiparazione tra responsabilità dello Stato e responsabilità del magistrato: mentre la prima
sussiste anche in caso di interpretazione di norme e di diritto e di valutazione del fatto, la
seconda ricorre in assenza di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e
delle prove. Con la sottrazione a responsabilità di ciò che è connaturato alla funzione
giudiziaria, e cioè l’interpretazione del diritto e la valutazione delle prove, la L. n. 117/88
salvaguardava il bilanciamento tra principio costituzionale di indipendenza e quello di
responsabilità dei funzionari dello Stato. Nel caso della responsabilità eurounitaria, le
caratteristiche della funzione giudiziaria non rappresentano un ostacolo, in quanto la
responsabilità è dello Stato unitariamente considerato, e non dell’organo. Come si afferma
nella sentenza Kobler, proprio nell’esercizio dell’attività interpretativa può manifestarsi una
violazione manifesta del diritto comunitario ed una tale violazione può aver luogo anche in
sede interpretativa, mentre la responsabilità del magistrato ricorre nei casi in cui non c’è
interpretazione di norme di diritto o valutazione dei fatti e delle prove.
Come chiaramente emerge dal dictum della sentenza Kobler, le caratteristiche della
funzione giudiziaria non sono un ostacolo all’affermazione della responsabilità dello Stato
per violazione del diritto dell’Unione, mentre più problematico è il risvolto della normativa
in relazione alla responsabilità del magistrato.
Indubbiamente, le modifiche introdotte alla clausola di salvaguardia finiscono per
sterilizzarne l’effettiva portata normativa, rendendola una scatola vuota e prestando il fianco
a censure di incostituzionalità, poiché viene meno una delle più significative cautele idonea a
salvaguardare l’indipendenza della magistratura.
L’inciso “fatti i salvi i commi 3 e 3 bis” dell’art.2, altera in modo sensibile il
bilanciamento tra il principio di indipendenza della magistratura e quello di responsabilità.
Un’interpretazione adeguatrice ai principi costituzionali potrebbe consistere nel valorizzare
la clausola di salvaguardia quando entra in gioco l’attività interpretativa, salvo il caso di
manifesta violazione del diritto dell’Unione Europea.
L’ELIMINAZIONE DEL FILTRO DI AMMISSIBILITA’
L’eliminazione del filtro di ammissibilità è forse la più significativa novità della
legge n. 18 del 2015, nonché la misura senz’altro oggetto delle più vivaci critiche per il
rischio che possano spalancarsi le porte alle azioni ritorsive, strumentali, prive dei requisiti
minimi di sostanza o di forma.
L’art. 5 della legge n. 117/1988 prevedeva che il tribunale, sentite le parti, deliberasse
in camera di consiglio sull'ammissibilità della domanda, che veniva dichiarata inammissibile
quando non erano rispettati i termini o i presupposti di cui agli articoli 2, 3 e 4 ovvero
quando questa era manifestamente infondata.
Il filtro previsto dall’abrogato art. 5 l. n. 117/88 era idoneo ad evitare i rischi di azioni
temerarie e ritorsive, come peraltro confermato, sia pure indirettamente, anche dalla
giurisprudenza costituzionale. È del 1989 (sentenza n. 18 del 1989) infatti, l’affermazione
della Corte Costituzionale, secondo cui il meccanismo del filtro della domanda giudiziale
diretta a far valere la responsabilità civile costituisce un controllo preliminare della non
manifesta infondatezza della domanda e porta ad escludere azioni temerarie e intimidatorie,
garantendo la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione
giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 della Costituzione.
Uno dei motivi che ha indotto il legislatore ad eliminare il filtro - peraltro in
controtendenza rispetto alla proliferazione di strumenti deflattivi che vanno arricchendo
l’ordinamento processuale – va ravvisato nella constatazione che un numero esiguo di
domande avevano superato il vaglio dell’ammissibilità.
Si tratta di una questione mal posta.
Normalmente, salvo casi eccezionali, le cause di responsabilità civili del magistrato
sono cause documentali, in cui la prova orale è superflua o inammissibile. Accade sovente
che, già nella fase dell’ammissibilità le parti producono tutto il materiale probatorio, dando
così la possibilità al collegio di avere una piena cognizione dei fatti. Il Tribunale è, quindi, in
grado di verificare non solo i profili di ammissibilità della domanda ma anche il merito, al
fine di valutarne la manifesta infondatezza.
Se talune domande sono state dichiarate inammissibili, significa che molte domande
di danni erano manifestamente infondate; a ciò si aggiunga che, molto spesso, le parti
deducono comportamenti del magistrato che hanno rilevanza ai soli fini disciplinari o
censurano l’interpretazione della norma, coperta dalla c.d. clausola di salvaguardia.
È chiaro, dunque, che non ostacolare la proposizione di un significativo numero di
domande di responsabilità che, pur non sovrapponendosi formalmente al giudizio di
impugnazione mirano comunque a porre indirettamente in discussione il provvedimento
giurisdizionale, implica notevoli rischi per l’autonomia del singolo magistrato.
Ancora una volta, sarà l’applicazione della legge e l’eventuale decisione della Corte
Costituzionale, se investita della questione di legittimità, a stabilire se sia ancora necessaria
quella connessione, a suo tempo già evidenziata, tra filtro preliminare sulle domande e
principi di autonomia ed indipendenza della magistratura.
Alcuni rimedi possono però essere ricercati all’interno del processo per limitare il
ricorso ad azioni temerarie e/o per definire i giudizi in tempi ragionevoli.
Poiché il giudice ha la direzione del processo, è opportuno che, sin dalla prima
udienza, verifichi la sussistenza dei requisiti di ammissibilità della domanda e, esaminato il
merito, proceda ad una spedita trattazione (eventualmente rinviando per la precisazione delle
conclusioni, attesa la natura prevalentemente documentale di tali cause).
Un ulteriore strumento processuale è costituito dal regolamento delle spese di lite,
idoneo a scoraggiare azioni pretestuose e temerarie.
Evidentemente, la nuova normativa coinvolge anche l’organizzazione del lavoro del
singolo magistrato e degli uffici giudiziari; qualora si dovesse verificare un sensibile
incremento delle cause di responsabilità civile, sarà necessario attribuire una corsia
preferenziale a tali procedimenti, per gli interessi in gioco, anche attraverso misure a livello
ordinamentale simili a quelle previste per i piani di gestione per lo smaltimento dell’arretrato
ex art. 37 L. n. 98/2011.
La riforma avrà inoltre un impatto sui carichi esigibili dei magistrati, la cui
determinazione deve tener conto dell’ampliamento delle ipotesi di responsabilità e della
sovraesposizione del magistrato italiano, che, mediamente ha un carico di lavoro ed una
produttività di gran lunga superiore rispetto agli altri giudici europei.
L’AZIONE DI RIVALSA
Come si commentava all’inizio di questa breve trattazione, l’azione di responsabilità
civile dei magistrati va rivolta nei confronti dello Stato (rectius la Presidenza del Consiglio),
che, in caso di accoglimento della domanda, ha azione di rivalsa nei confronti del magistrato.
Vige il modello della responsabilità indiretta del magistrato, non essendo stato
accolto l’emendamento Pini, che prevedeva la responsabilità diretta e solidale del singolo
magistrato con lo Stato.
Trattandosi di azioni di rivalsa e non di regresso, gli accertamenti compiuti nei
confronti dello Stato non sono opponibili al singolo magistrato, non sussistendo il requisito
dell’identità delle parti.
Il giudizio di rivalsa ha come presupposto l’errore inescusasibile, che era posto a
fondamento della responsabilità nella precedente disciplina. Ne consegue che, nel giudizio di
rivalsa, si potrà “recuperare” la giurisprudenza formatasi sotto il vigore della L. n. 117/88
ante novella, secondo cui l’inescusabilità dell’errore richiede un quid pluris rispetto alla
diligenza richiesta per la colpa professionale
E’ quindi opportuno che il magistrato, legittimato ad intervenire nel giudizio nei
confronti dello Stato, non si costituisca, pur collaborando con l’Avvocatura dello Stato nella
predisposizione della difesa.
L’azione di rivalsa, esercitata dal Presidente del Consiglio dei Ministri può essere
obbligatoria o facoltativa:
- Obbligatoria “nel caso di diniego di giustizia, ovvero nei casi in cui la
violazione manifesta della legge nonché del diritto dell’Unione europea ovvero il
travisamento del fatto o delle prove, di cui all’articolo 2, commi 2, 3 e 3 bis, sono stati
determinati da dolo o negligenza inescusabile”;
- Facoltativa negli altri casi: “affermazione di un fatto la cui esistenza è
incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; negazione di un fatto la cui
esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; emissione di un
provvedimento cautelare e reale fuori dai casi consentiti dalla legge oppure senza
motivazione”;
La misura della rivalsa è, poi, innalzata sino a poter raggiungere la metà di
un’annualità di retribuzione – ma in caso di dolo non vi è limite – con possibile esecuzione
mediante trattenuta sullo stipendio con rate mensili sino ad un terzo dello stesso.
E’ evidente che aver elevato il limite della rivalsa espone il magistrato a notevoli
rischi dal punto di vista dello status economico, soprattutto nelle cause con valore economico
elevato o di particolare importanza per gli interessi in gioco, incidendo sull’autonomia o
inducendolo a scelte di comodo (la vituperata giurisprudenza difensiva).
L’EUROPA TRA INDIPENDENZA E RESPONSABILITA: UN DIFFICILE
CONNUBIO NELLA L. N. 18/2015
Una legge sulla responsabilità civile dei magistrati riveste senza dubbio particolare
attenzione da parte del legislatore perché incide su valori costituzionalmente garantiti, quali
l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, che sono fondamentali per uno stato
democratico.
In un momento di conflitto tra politica e magistratura, sono prevalsi gli slogan
populisti, che avrebbero dovuto cedere il passo ad una maggiore riflessione sui contenuti
della legge e ad un confronto più pacato, per le conseguenze che la riforma avrà soprattutto
sui diritti dei cittadini, che sono i destinatari del servizio giustizia.
In attesa dell’applicazione della nuova normativa, è indubbio che la nuova disciplina
relega lo Stato Italiano in una posizione isolata rispetto al panorama legislativo degli altri
principali Stati dell’Unione Europea, dove continuano a permanere specifiche garanzie volte
ad impedire l’utilizzo temerario delle azioni risarcitorie.
Si tratta di una riforma necessaria per adeguare la normativa italiana alle
sollecitazioni provenienti dalla Corte di Giustizia in caso di violazione del diritto
dell’Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, ma si tratta di una riforma
che non appare in linea con i documenti e le raccomandazioni elaborati a livello
internazionale, specie in seno alle Nazioni Unite ed al Consiglio d’Europa. Tali atti, pur non
costituendo fonti del diritto, costituiscono un’importante cornice di riferimento perché
costituiscono valori condivisi tra gli Stati democratici, che il legislatore nazionale non poteva
ignorare.
Tra i documenti elaborati da organismi internazionali, vanno innanzitutto menzionati
i principi fondamentali sull’indipendenza della magistratura, proclamati dall’assemblea
generale delle Nazioni Unite nel 1985. Uno di tali principi, espresso al punto 16 della
risoluzione, prevede che i giudici dovrebbero godere della personale immunità per danni
civili derivanti da azioni o omissioni nell’esercizio delle loro funzioni. Detti principi
statuiscono che i giudici siano dotati della piena autorità di agire, liberi da pressioni e timori,
adeguatamente retribuiti e forniti degli strumenti materiali idonei a consentir loro di svolgere
in modo soddisfacente il proprio servizio.
L’eccezionalità dell’azione civile è ribadita dall’art.10 della Carta Universale del
giudice del 17 novembre 1999, elaborata dall’Unione internazionale dei magistrati (
International Association of Judges), la più antica associazione internazionale di magistrati.
Anche la Carta Europea sullo statuto dei giudici, approvata a Strasburgo il 10.7.1998
contiene un punto specifico sulla riparazione degli errori giudiziari, prevedendo che la
riparazione dei danni illegittimamente cagionati a seguito di una decisione o dal
comportamento di un giudice nell’esercizio delle sue funzioni è assicurata dallo Stato.
Sulla base dei medesimi principi è stata emanata dal Consiglio Consultivo dei
Giudici Europei del Consiglio d’Europa l’Opinione n. 3 del 19 novembre 2002.
Si legge infatti ai paragrafi 55-57 del Parere n. 3 del CCJE citato, che “Un principio
generale vuole che i giudici debbano essere assolutamente immuni da ogni responsabilità
civile personale nei confronti di eventuali pretese avanzate direttamente contro di essi
connesse con l'esercizio delle loro funzioni quando agiscano in buona fede. Gli errori
giudiziari, di competenza o procedurali, nella individuazione o nell'applicazione del diritto o
ancora nella valutazione delle prove, dovranno formare oggetto di appello. Le altre
mancanze dei giudici che non possano essere eliminate in questo modo (tra cui, ad esempio,
i ritardi eccessivi) dovrebbero, al più, portare ad una richiesta del soggetto insoddisfatto
contro lo Stato. E’ questione diversa che lo Stato possa, in determinate circostanze, essere
tenuto, ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, a compensare una parte in
causa, l’esame di tale questione non essendo direttamente rientrante nell’oggetto di questo
Parere”.
Per quanto riguarda la responsabilità dei giudicI, la CCJE ritiene che “Tuttavia, in
alcuni paesi europei, i giudici possono essere ritenuti civilmente responsabili per decisioni
gravemente erronee o altre carenze gravi, in particolare su richiesta dello Stato, dopo che
un contendente insoddisfatto abbia visto riconosciuto il suo diritto al risarcimento in un
procedimento contro lo Stato […].
Le conclusioni del Consiglio sono state poi recepite nella Magna Charta dei Giudici
europei adottata a Strasburgo il 17 novembre scorso dal Consiglio Consultivo dei Giudici
Europei, a sua volta recepita nella Raccomandazione CM / Rec (2010) 12 del Comitato dei
Ministri del Consiglio d'Europa agli Stati membri che definisce l’indipendenza e
l’imparzialità dei giudici precondizioni essenziali per l’adeguato funzionamento della
giustizia.
In essa si afferma che l’indipendenza deve essere prima ancora che funzionale e
finanziaria, ordinamentale e deve essere garantita in primo luogo rispetto agli altri poteri
dello Stato (art.3).
In particolare il cap. VII della Raccomandazione prevede ai paragrafi 66 – 68:
66. “L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione
delle prove … per deliberare su affari giudiziari non deve fondare responsabilità
disciplinare o civile, tranne che nei casi di dolo e colpa grave”.
67. “Soltanto lo stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può
richiedere l’accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un’azione
innanzi ad un tribunale”.
68. “L'interpretazione della legge, l’apprezzamento dei fatti o la valutazione
delle prove effettuate dai giudici per deliberare su affari giudiziari non devono fondare
responsabilità penale, tranne che nei casi di dolo”.
Esiste una evidente distonia tra la normativa introdotta dalla L. n. 18/2015 ed i
principi affermati a livello internazionale ed europeo.
Eppure, già dal 2003 la sentenza Kobler aveva spazzato via ogni equivoco tra
responsabilità dello stato ed indipendenza del magistrato: “il principio di responsabilità di
cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del giudice, ma quella dello Stato. Ora,
non sembra che la possibilità che sussista, a talune condizioni, la responsabilità dello Stato
per decisioni giurisdizionali incompatibili con il diritto comunitario comporti rischi
particolari di rimettere in discussione l’indipendenza di un organo giurisdizionale di ultimo
grado”.
Dal 2003 nei paesi di Common Law i giudici godono di immunità assoluta e lo Stato
è responsabile per l’errore giudiziario.
Non resta che auspicare che l’applicazione legislativa sia conforme ai principi
costituzionali ed ai principi espressi dagli organismi internazionali, oltre che in linea con gli
ordinamenti degli altri Stati dell’Unione Europea.