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Sara Lindbladh, Seminarium 27 oktober 2015 La semantica e pragmatica dei segnali discorsivi italiani – un confronto tra bene, va bene, be’ e va be’ La presente tesi è uno studio dei segnali discorsivi italiani bene, va bene, be’ e va be’. Lo studio è effettuato nel campo dell’analisi conversazionale (p. es. Sacks et al. 1974) e la linguistica interazionale (p. es. Couper-Kuhlen & Selting 2001), con l’obiettivo di stabilire ciò che contraddistingue i segnali per quanto riguarda i valori semantici e le funzioni pragmatiche, ma anche gli aspetti prosodici. Fondamentalmente, sembrano portare valori inerenti differenti, mentre molte funzioni discorsive si sovrappongono. Lo studio è compiuto sulla base di dati empirici estratti da vari corpora (p. es. il corpus LIP - Lessico di Frequenza dell'Italiano Parlato, cfr. De Mauro et al. 1993 ecc.), che contiene sia trascrizioni che registrazioni audio di conversazioni reali. In questo modo ho la possibilità di studiare le forme nel loro ambiente naturale, una necessità data l’importanza del contesto linguistico e extra-linguistico, e gli aspetti prosodici, per lo studio dei segnali discorsivi. Eseguendo un’analisi dettagliata dei segnali discorsivi non solo dalla prospettiva del parlante, ma anche prendendo in considerazione come gli interlocutori reagiscono all’uso del segnale discorsivo e come la conversazione si sviluppa successivamente, cioè come è interpretata e ricevuta, è possibile stabilire ciò che influenza la scelta di un specifico segnale discorsivo in una certa occasione, il ché a sua volta rende possibile la stabilizzazione dei loro valori semantici-pragmatici. 1 Terminologia, categorizzazione e categorie adiacenti La terminologia è uno degli aspetti problematici nel campo; esistono molte denominazioni diverse. In inglese prevalgono termini come discourse markers (p. es. Shiffrin 1987 e Jucker & Ziv 1998), discourse particles (p. es. Kroon 1995 e Schourup 1999), e pragmatic markers (p. es. Aijmer et al. 2006 e Fraser 1996), e in italiano troviamo termini come marcatori pragmatici (p. es. Stame 1994), marcatori discorsivi (p. es. Contento 1994), e segnali discorsivi (p. es. Bazzanella 2014 e Khachaturyan 2011). Aijmer et. al. (2006: 2-3) e Jucker & Ziv (1998: 1-2) notano che la diversità terminologica riflette il gamma vasto di approcci linguistici che sono stati applicati nel campo, e anche la molteplicità di funzioni che sono assegnate a questi elementi. Secondo l’approccio di Aijmer et. al (2006: 102-103), i segnali discorsivi appartengono a una categoria più generica nominata marcatori pragmatici. È definita in termini negativi: “if a word or construction in an utterance does not contribute to the propositional, truth-functional content, then we consideri it to be a pragmatic marker”. Marcatore pragmatico è considerato il termine funzionale più generale e i marcatori sono sotto-classificati sulla base di distinzioni funzionali più dettagliate. Le sub-categorie funzionali possono essere, per esempio, marcatori di cortesia (politeness markers), marcatori d’esitazione (hesitation markers), e marcatori discorsivi-organizzativi (discourse-organisational markers), connettivi. È necessario descrivere il rapporto tra i marcatori discorsivi e altre categorie adiacenti, come, per esempio le particelle modali e le interiezioni; non possono essere descritti come categorie definite perché i confini tra di loro sembrano essere graduali. Data la natura vaga di questo tipo di forme, potrebbe essere un vantaggio usare il termine marcatore pragmatico per descrivere una categoria più vasta e poi sotto-classificarlo in base ad aspetti sia funzionali che formali. Come vedremo, le forme analizzate nel presente studio possono portare funzioni tipiche per i marcatori discorsivi, i segnali di risposta, e le interiezioni, e possono portare più funzioni contemporaneamente. Ameka (1992: 105-107) descrive le interiezioni come “relatively conventionalized vocal gestures which express a speaker’s mental state, action or attitude or reaction to a situation”. Il fatto che le interiezioni possano stare da sole, come enunciati, è da visto come un criterio fondamentale per la definizione dell’interiezione (Wilkins 1992: 127-129). I marcatori discorsivi invece costituirebbero, secondo più definizioni, un mezzo metacomunicativo; indicano come un altro messaggio deve essere interpretato riguardo al contesto (conversazionale), ma non costituirebbero un messaggio a sé. Portano il recipiente verso l’interpretazione intesa (Travis 2006: 224-225). La distinzione tra i segnali discorsivi e le interiezioni risulta però poco definita quando si studia in dettaglio l’uso di questi due

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Sara Lindbladh, Seminarium 27 oktober 2015

La semantica e pragmatica dei segnali discorsivi italiani – un confronto tra bene, va bene, be’ e va be’

La presente tesi è uno studio dei segnali discorsivi italiani bene, va bene, be’ e va be’. Lo studio è effettuato nel campo dell’analisi conversazionale (p. es. Sacks et al. 1974) e la linguistica interazionale (p. es. Couper-Kuhlen & Selting 2001), con l’obiettivo di stabilire ciò che contraddistingue i segnali per quanto riguarda i valori semantici e le funzioni pragmatiche, ma anche gli aspetti prosodici. Fondamentalmente, sembrano portare valori inerenti differenti, mentre molte funzioni discorsive si sovrappongono. Lo studio è compiuto sulla base di dati empirici estratti da vari corpora (p. es. il corpus LIP - Lessico di Frequenza dell'Italiano Parlato, cfr. De Mauro et al. 1993 ecc.), che contiene sia trascrizioni che registrazioni audio di conversazioni reali. In questo modo ho la possibilità di studiare le forme nel loro ambiente naturale, una necessità data l’importanza del contesto linguistico e extra-linguistico, e gli aspetti prosodici, per lo studio dei segnali discorsivi. Eseguendo un’analisi dettagliata dei segnali discorsivi non solo dalla prospettiva del parlante, ma anche prendendo in considerazione come gli interlocutori reagiscono all’uso del segnale discorsivo e come la conversazione si sviluppa successivamente, cioè come è interpretata e ricevuta, è possibile stabilire ciò che influenza la scelta di un specifico segnale discorsivo in una certa occasione, il ché a sua volta rende possibile la stabilizzazione dei loro valori semantici-pragmatici. 1 Terminologia, categorizzazione e categorie adiacenti La terminologia è uno degli aspetti problematici nel campo; esistono molte denominazioni diverse. In inglese prevalgono termini come discourse markers (p. es. Shiffrin 1987 e Jucker & Ziv 1998), discourse particles (p. es. Kroon 1995 e Schourup 1999), e pragmatic markers (p. es. Aijmer et al. 2006 e Fraser 1996), e in italiano troviamo termini come marcatori pragmatici (p. es. Stame 1994), marcatori discorsivi (p. es. Contento 1994), e segnali discorsivi (p. es. Bazzanella 2014 e Khachaturyan 2011). Aijmer et. al. (2006: 2-3) e Jucker & Ziv (1998: 1-2) notano che la diversità terminologica riflette il gamma vasto di approcci linguistici che sono stati applicati nel campo, e anche la molteplicità di funzioni che sono assegnate a questi elementi. Secondo l’approccio di Aijmer et. al (2006: 102-103), i segnali discorsivi appartengono a una categoria più generica nominata marcatori pragmatici. È definita in termini negativi: “if a word or construction in an utterance does not contribute to the propositional, truth-functional content, then we consideri it to be a pragmatic marker”. Marcatore pragmatico è considerato il termine funzionale più generale e i marcatori sono sotto-classificati sulla base di distinzioni funzionali più dettagliate. Le sub-categorie funzionali possono essere, per esempio, marcatori di cortesia (politeness markers), marcatori d’esitazione (hesitation markers), e marcatori discorsivi-organizzativi (discourse-organisational markers), connettivi. È necessario descrivere il rapporto tra i marcatori discorsivi e altre categorie adiacenti, come, per esempio le particelle modali e le interiezioni; non possono essere descritti come categorie definite perché i confini tra di loro sembrano essere graduali. Data la natura vaga di questo tipo di forme, potrebbe essere un vantaggio usare il termine marcatore pragmatico per descrivere una categoria più vasta e poi sotto-classificarlo in base ad aspetti sia funzionali che formali. Come vedremo, le forme analizzate nel presente studio possono portare funzioni tipiche per i marcatori discorsivi, i segnali di risposta, e le interiezioni, e possono portare più funzioni contemporaneamente. Ameka (1992: 105-107) descrive le interiezioni come “relatively conventionalized vocal gestures which express a speaker’s mental state, action or attitude or reaction to a situation”. Il fatto che le interiezioni possano stare da sole, come enunciati, è da visto come un criterio fondamentale per la definizione dell’interiezione (Wilkins 1992: 127-129). I marcatori discorsivi invece costituirebbero, secondo più definizioni, un mezzo metacomunicativo; indicano come un altro messaggio deve essere interpretato riguardo al contesto (conversazionale), ma non costituirebbero un messaggio a sé. Portano il recipiente verso l’interpretazione intesa (Travis 2006: 224-225). La distinzione tra i segnali discorsivi e le interiezioni risulta però poco definita quando si studia in dettaglio l’uso di questi due

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concetti. I segnali di risposta possono occorre sia in isolamento, che con un altro enunciato. In più, sembrano poter esprimere anche degli stati mentali del parlante; bene, per esempio, può esprimere un atteggiamento positivo verso il turno precedente, e be’ un senso di ovvietà, riferendosi a uno stato mentale – che qualcosa era già manifesto nella mente del parlante. Le interiezioni a sua volta, hanno spesso un minimo valore interazionale; la lingua è sempre usata per scopi interattivi, anche se potremmo immaginare contesti in cui le interiezioni sono usate del tutto spontaneamente, come in una reazione a qualcosa nel contesto extra-linguistico circondante. I parlanti usano le interiezioni anche per interagire con l’interlocutore, commentando sui suoi turni. Si potrebbe immaginare un continuum per le forme che rispondono a turni precedenti, per quanto riguarda la spontaneità d’uso, che stende dagli usi in cui riconoscono semplicemente il turno precedente, per motivi interpersonali oppure discorsivi-organizzativi, a quelli che comunicano una reazione genuina al contenuto del turno precedente, esprimendo lo stato mentale del parlante. Come vedremo nell’analisi, è spesso difficile, se non impossibile, distinguere tra l’uso come un segnale di risposta e quello come un segnale di prechiusura in una specifica occorrenza. Che alcuni marcatori pragmatici possono funzionare sia come segnali di risposta sia come segnali di prechiusura, a volte anche sovrapponendosi le due funzioni nella stessa occorrenza, è confermato in vari studi (p. es. McCarthy 2003, Travis 2005, Coronel-Molina 1998 e Amador-Moreno et al. 2013). La forma inglese okay è stata studiata da numerosi linguisti (p. es. McCarthy 2003, Schegloff & Sacks 1973, Beach 1995), sia come un segnale di risposta, che come un segnale che indica un consenso comune di non parlare più, e che permette che vada avanti la chiusura della conversazione, se tutti i partecipanti sono d’accordo. Schegloff e Sacks (1973: 325) discutono anche l’uso di well e so che hanno la stessa funzione di chiusura. Le caratterizzazioni e definizioni dei segnali discorsivi e i segnali di risposta sono indefinite e problematiche; non è possibile separare del tutto i due concetti. Il fatto che i segnali di risposta possono avere un ruolo nella sequenza di chiusura, dimostra l’importanza di considerare il comportamento di risposta come una funzione integrata in una sequenza di parlato o attività (McCarthy, 2003: 43-53). I marcatori discorsivi bene, va bene e va be’ e va bene, sono usati sia come segnali di risposta, sia come segnali di prechiusura. Nel seguente esempio bene funziona come un segnale di risposta, ma è presente contemporaneamente una funzione organizzativa del discorso:

1) A: ah ciao Salvatore B: ciao # tutto bene? A: tutto bene B: bene senti non ti trattengo voglio sapere se Marina è in loco (LIP R B 4 6 B)

In questo caso è difficile stabilire quale delle funzioni è principale. Bene è sia un’espressione interiezionale, nel senso che esprime positività e contentezza (cioè stati mentali) per il contenuto del turno precedente, ma allo stesso tempo ha un valore discorsivo-organizzativo, segnalando la chiusura della prima parte della telefonata, e un valore interazionale, essendo usato come un segnale di risposta. 2 La semantica e la pragmatica dei segnali discorsivi Una delle imprese teoretiche quando si studiano i segnali, è come nel miglior modo spiegare il rapporto tra i loro vari usi (Hansen 1998: 239). Molti linguisti preferiscono parlare di funzioni in riguardo ai segnali discorsivi, e meno di significati. Aijmer et al. (2006: 104-105) nota che sono preferibilmente studiati nel campo della pragmatica, proprio perché hanno significati molto vaghi, che li permettono di sviluppare delle funzioni pragmatiche nei specifici contesti. Aijmer (2002: 2-3) specifica che i segnali discorsivi si differenziano da parole “normali” nella lingua dato il grande numero di valori pragmatici ai quali possono essere associati. A parte il significato nucleo, dobbiamo riconoscere una o più funzioni discorsive per un marcatore specifico. Una questione fondamentale per quanto riguarda il significato dei segnali discorsivi è come spiegare la loro multifunzionalità. Bazzanella (2002: 78-91) specifica che operano su vari livelli simultaneamente, e che due aspetti della loro multi- o polifunzionalità dovrebbero essere presi in considerazione: quello paradigmatico, che significa che lo stesso segnale discorsivo realizza differenti,

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anche opposte, funzioni in contesti diversi, a seconda della posizione, intonazione, e altri fenomeni che co-occorrono nella composizionalità pragmatica, e quello sintagmatico, che significa che più funzioni sono realizzate da un segnale discorsivo in un dato testo, o scritto o parlato. È generalmente riconosciuto come un aspetto fondamentale, il fatto che i marcatori discorsivi sono multifunzionali, però manca un accordo sulla specificazione delle varie funzioni coinvolte. Sono in qualche modo connesse le diverse interpretazioni, e in quel caso, si tratta di un significato nucleare comune, oppure d’interpretazioni che sono diverse ma comunque correlate? Da un lato c’è chi ritiene che i segnali discorsivi siano privi di significato, però la maggior parte dei linguisti sembrano essere del parere che hanno comunque qualche tipo di significato. Aijmer (2006: 454-460) sottolinea l’importanza di una teoria del significato dei segnali discorsivi. Si riferisce a Schourup (1999: 253) e Bolinger (1989: 301), secondo i quali non basta soltanto studiare le distribuzioni dei segnali discorsivi nel parlato spontaneo per lo studio delle loro funzioni; lo studio deve essere messo in combinazione con una teoria sul significato. Un approccio che distingue tra significati codificati (encoded meaning) e significati temporanei o specifici nel contesto, è importante in una descrizione dei significati e le funzioni dei segnali discorsivi. Di solito è riconosciuta l’importanza del contesto nell’analisi dei segnali discorsivi. La questione è: quando è interpretato il significato/la funzione di un marcatore discorsivo, quant’è il contributo del significato codificato, e quant’è quello del contesto? E quali aspetti nel contesto sono importanti? L’ambiguità dei segnali discorsivi indica una forte dipendenza dal contesto, e un più debole significato nucleare. Bazzanella (2006) pensa che il valore semantico centrale sia conservato in un dato segnale discorsivo; è il significato nucleare che permette che una pluralità di usi entrano in gioco in relazione al contesto linguistico e extralinguistico. Secondo Bazzanella il particolare valore di un segnale discorsivo è attivato in base alla co-occorrenza di parametri cotestualmente (testuali, paralinguistici, e gestuali) e contestualmente (sociolinguistici, pragmatici, emotivi) rilevanti. 2.1 Il significato dei segnali discorsivi Ci sono due questioni da considerare riguardo al significato dei segnali discorsivi: la prima è la sua identità, cioè di che “tipo” di significato si tratta e come lo si può definire, e la seconda questione è il rapporto tra il significato e la multifunzionalità dei segnali discorsivi, e conseguentemente l’esistenza di un eventuale significato nucleo (core meaning). Che gli elementi mancano di significato proposizionale è un problema che, secondo Aijmer et. al (2012: 43), bisogna affrontare. Sottolinea che il significato di un marcatore discorsivo specifico è estremamente difficile da stabilire, e che il significato nucleo del marcatore può essere una nozione abbastanza astratta. Fa una distinzione interessante tra vari “tipi” di significato nucleo che possono portare i marcatori discorsivi; possono avere legami con il significato etimologico del segnale discorsivo, essere espressi in termini procedurali, oppure essere identici alla funzione nucleare (come un valore di sorpresa nel marcatore inglese oh). È interessante l’approccio perché, infatti, la grande eterogeneità delle forme incluse nel gruppo dei segnali discorsivi rende difficile la stabilizzazione di solo un tipo di significato nucleo. Le forme dalle quali derivano i segnali discorsivi analizzati nel presente studio sono l’aggettivo buono e l’avverbio bene (e l’espressione va bene). I contenuti semantici dei lessemi d’origine possono essere presenti negli usi come marcatori discorsivi con diversi gradi di trasparenza. Questo fatto non è strano, poiché le funzioni di queste forme stendono da quella di un segnale di risposta che commenta sul precedente discorso, a funzioni che riguardano la strutturazione del discorso. La differenza tra funzioni interiezionali e di segnale di risposta da un lato, e funzioni riguardanti l’organizzazione e strutturazione discorsiva da un altro, è stata sottolineata da, tra l’altro, Hansen (1998) nello studio del segnale francese bon, e da Blas Arroyo (2011) nello studio del segnale spagnolo muy bien. Posizionano le varie funzioni di una forma lungo il processo di pragmaticalizzazione, in base al grado di de-semantizzazione (de-semanticization) degli usi. Secono Blas Arroyo, muy bien non costituisce un segnale discorsivo vero quando è usato come un segnale di risposta perché, esprimendo un atteggiamento di positività rispetto al discorso precedente, il valore positivo dell’avverbio è ancora presente nel segnale. Sviluppandosi, questa forma ha poi assunto funzioni nelle quali questo valore semantico è diventato più debole, sovrapponendosi delle funzioni al livello discorsivo-organizzativo.

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Tuttavia, è sempre una questione di gradualità. Ho visto che il significato originale è presente anche negli usi discorsivi-organizzativi, anche se non sempre fortemente, almeno in modo vago. Va bene, per esempio, mantiene il suo valore di accettazione anche quando funziona come un segnale di prechiusura, riferendosi però all’intera conversazione, e non a uno specifico turno. È proprio l’accettazione della conversazione che porta a una possibile chiusura della conversazione. Certamente il significato originale di va bene è più chiaramente presente nell’uso come segnale di risposta, però è sempre presente a un certo grado anche quando porta funzioni discorsive-organizzative. Le forme studiate qui sembrano trovarsi a punti differenti sulla “scala di pragmaticalizzazione”. Mentre, per esempio, bene e va bene marcatori discorsivi sembrano portare valori molto simili a quelli dei lessemi originali, le forme troncate be’ e va be’ sembrano aver acquistato valori che si diversificano di più dai significati dei lessemi originali. Bene sembra esprimere un valore di positività, anche se ha spesso funzioni discorsive-organizzative, ed è usato meno raramente con soltanto il valore di positività:

2) C: loro hanno fatto domanda? l’avete fatto voi come associazione? B: no no non importa l’abbiamo fatto noi sì l’abbiamo fatto noi come associazione e ce l’hanno accordato C: ah bene (LIP F A 3 96 C)

Anche va bene ha un valore simile all’espressione originale; esprimere che qualcosa va bene significa anche che si accetta quella cosa, e proprio accettazione è il valore espresso da va bene marcatore discorsivo:

3) A: ah okay allora al limite ci sentiamo domani pomeriggio B: va bene ti ringrazio (LIP NB 55)

Che va bene è usato per indicare accordo o accettazione da parte del parlante rispetto all’enunciato precedente è confermato da Frank-Job () e Carla Bazzanella (242). È possibile stabilire alcune somiglianze con la forma spagnola bueno. Travis (2005: 81-88) afferma che il significato di good è un elemento essenziale della semantica del marcatore, che ha rilevanza attraverso la gamma di funzioni e significati. Ha una funzione da lei chiamata accettazione, e che si riferisce all’uso di bueno come mezzo interattivo per esprimere accettazione di un’offerta, una proposta, o perfino un’affermazione che presenta informazioni, e serve a indicare che il parlante ha capito e accetta l’atto comunicativo. Be’ sembra aver assunto un valore semantico molto diverso dal marcatore discorsivo bene. Sembra esprimere ovvietà per quello espresso dall’interlocutore nel turno precedente, cioè che per lui/lei era già manifesto:

4) B: sì infatti I Miserabili che alcuni hanno apprezzato molto io le ho sfogliate queste schede corrette e devo dire che alcuni C: be’ I Miserabili già è diverso B: be’ certo signora sono millequattrocentosettanta pagine I Miserabili (LIP RA 9)

Va be’ sembra aver sviluppato un valore di accettazione parziale:

5) B: il film era un film d’essai proprio A: e be’ che c’entra i film d’essai sono anche film B: va be’ sì però Spaziouno non mi sembra A: ah lo Spaziouno? (LIP FB 13)

Va be’ sembra, a differenza di va bene, essere usato per introdurre un turno in cui si esprime di non essere completamente d’accordo, o comunque generalmente in contesti in qualche modo negativi; Dardano (19-34) specifica che va be’, per esempio, “reinterpreta ciò che è stato appena detto, lo giudica e lo commenta (per lo più in negativo)”. Nota che, con va be’ si può accettare una parte del discorso precedente, ma obiettare a qualcos’altro. Afferma anche che va be’ può segnalare, sempre ricollegandosi all’enunciazione che lo precede, la chiusura del discorso, o un atteggiamento di rassegnazione, che ha finalità conclusiva. Il suo valore di chiusura appare con chiarezza quando dopo

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va be’ segue l’espressione lasciamo andare (perdere) ed espressioni simili. Specifica che il parlante in questo modo rinuncia (p. es. per opportunità, stanchezza, ripensamento) alla possibilità di portare avanti il discorso. Nell’esempio 61), trovato nel mio corpus, va be’ sembra esprimere un senso di “non c’è nient’altro da dire”/”le cose stanno come stanno”:

6) A: mi fate sapere subito? io mi auguro che sia tutto bene perché conosco la persona B: no io non voglio non è a di’ ma mo’ me venene puru chist’ assegni arete no? A: no non credo proprio B: ahah hai capito nu poco buonu no? A: no non credo proprio mi auguro che sia tutto bene siamo B: va be’ appena è possibile qualche novità io gli faccio sapere (LIP NB 23)

Va be’ esprime sia un valore di rassegnazione, che uno di chiusura. C’è un contesto precedente in cui discutono il fatto che “ancora non hanno saputo niente”; c’è perciò un problema. Va be’ esprime rassegnazione per questo fatto, con un senso di “per ora non possiamo fare null’altro”. È chiaro che, con va be’, il parlante B vuole chiudere l’argomento; si vede per la frase successiva (appena è possibile qualche novità io gli faccio sapere). 2.2 La pragmatica dei segnali discorsivi Secondo la posizione di Travis (2006: 21-36), un approccio monosemico non esclude necessariamente un approccio polisemico ai marcatori discorsivi. Afferma che hanno un gamma di diversi significati che condividono tutti un elemento comune. Questo elemento condiviso può essere considerato un invariante semantico parziale, ed è questo che collega gli usi del marcatore, mentre altri componenti di significato spiegano la variazione che c’è tra gli usi. Anche l’approccio di Aijmer et. al (2006: 219-222) permette un significato nucleare, ma consente anche l’esistenza di un legame tra le diverse interpretazioni, o significati pragmatici. Secondo loro la proposta di un eventuale significato nucleo assicura che gli usi pragmatici sono spiegabili; in questo modo non possono essere causali o arbitrari. Sottolineano che nell’analisi di fenomeni polifunzionali è importante prendere in considerazione la differenza tra il significato codificato (conventionalized) e le implicature contestuali (pragmatic enrichments), cioè significati più temporanei che sono specifici nel contesto (context-specific) e creativi, i quali possono essere processati tramite inferenze. Come linea guida, suggeriscono di usare il minimalismo metodologico, in cui i significati codificati vengono ammessi solo se non possono essere derivati da processi di implicatura conversazionale. Aijmer (2006: 454-460) nota la tendenza nel campo dei segnali discorsivi di distinguere tra delle macro-funzioni, o domini funzionali, nell’analisi dei marcatori discorsivi; spesso sono state riconosciute due - una discorsiva/testuale/strutturale, e una interazionale/interpersonali/fatica. Jenny Mattsson (2009: 17) sottolinea che molti ricercatori che considerano la polifunzionalità dei segnali discorsivi come un concetto centrale, hanno identificato, tra le varie funzioni che i segnali discorsivi possono portare, queste due funzioni principali. Sono influenzate dalla teoria di Halliday (1985), secondo la quale la lingua ha tre funzioni principali; una interpersonale, una testuale, e una ideazionale. Bazzanella (2002 e 2014) assume l’esistenza di tre macro-funzioni per i segnali discorsivi, per facilitare la classificazione: interazionale, metatestuale e cognitivo. Secondo Bazzanella la macro-funzione cognitiva è stata introdotta più recentemente. Secondo lei è la categoria più complessa poiché comprende tre tipi di funzioni cognitive: i marcatori procedurali (procedural markers) sono legati a processi cognitivi, p. es. inferenze, i marcatori epistemici (epistemic markers) sono legati alla soggettività del parlante e alla dedizione, e i mezzi di modulazione (modulation

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devices) sono legati al contenuto proposizionale e alla forza illocutoria1. Naturalmente, la posizione che uno prende nella questione dipende da quali forme si sceglie di includere nel gruppo preso in considerazione. Se si assume una posizione secondo la quale c’è un termine sopra-ordinante, marcatori pragmatici (Aijmer et al., 2006)2, e se questo è interpretato come un “non-capacità” di entrare in costruzioni proposizionali come fanno le parti del discorso “normali”, può essere ammesso che sia usi dipendenti che indipendenti sono inclusi nella classe. In questo caso le forme potrebbero esprimere, o solo meta-informazione sugli enunciati o sul discorso (come atteggiamenti su qualche informazione o sulla strutturazione del discorso), oppure esprimerebbero, da soli, informazioni che potrebbero essere trasmesse da un’intera proposizione. In questo caso si potrebbe includere anche gli usi interiezionali sotto il termine di marcatori pragmatici, i quali esprimono informazioni sullo stato mentale del parlante. Siccome le interiezioni si riferiscono alla cognizione del parlante, sarebbe possibile assumere l’esistenza di una funzione cognitiva. 2.3 Usi semantici e pragmatici: differenze di scope Hansen (Ibìd.) nota che, per quanto riguarda le unità più composizionali, la differenza tra il loro uso da marcatori discorsivi e l’uso proposizionale sembra essere, in gran parte, causa di una semplice espansione dello scope strutturale. L’espressione inglese in other words può funzionare dentro un sintagma verbale, come un avverbiale di modo, oppure portare uno scope sull’intero atto linguistico, e in quel caso non fa parte del contenuto proposizionale di quell’atto linguistico. La gradualità tra usi discorsivi e usi proposizionali è rilevante nell’analisi delle forme nel presente studio; è possibile individuare una differenza tra segnali di risposta che si riferiscono a un contenuto proposizionale del turno precedente, esprimendo un atteggiamento verso questo, e quelli che si riferiscono al turno per sé o all’intero discorso esprimendo funzioni discorsive-organizzative. Nell’esempio 7) le occorrenze di va bene riferiscono al contenuto proposizionale dei turni precedenti, con un valore semantico quasi definibile come ellittico. Focalizzando perciò sull’aspetto interazionale, va bene esprime accettazione della scelta del regalo e del prezzo:

7) A: abbiamo preso quella C: va bene A: quindi praticamente viene centodieci mila lire a coppia insomma C: va bene A: può andare? C: mh d’accordo (LIP FB 6)

Riferendosi a un contenuto proposizionale, e non esprimendo altre funzioni discorsive, si potrebbe dire che è un segnale di risposta, o forse addirittura un enunciato ellittico. I turni precedenti ai quali si riferiscono i va bene nell’esempio che segue, costituiscono delle lamentela, degli enunciati con contenuto negativo; perciò non c’è niente da accettare:

8) B: [incomprensibile] e io vi apprezzo solo per questo però capisci pure tu che io non posso andare avanti così perché io i soldi già li dovevo avere tutti in tasca invece

1 Segnano, rispettivamente, i rapporti instauratisi tra: a) i contenuti espressi nel testo e le conoscenze condivise dai parlanti o presupposte dal contesto dell’interazione che rendono possibile l’attivazione di diversi meccanismi di deduzione e induzione (funzione inferenziale); b) il contenuto testuale e l’atteggiamento del parlante, che ricopre un’ampia varietà di stati emotivi, dalla dedizione rispetto al contenuto proposizionale fino alla disposizione affettiva (funzione modalizzante dell’enunciazione), e c) il rapporto logico tra i diversi contenuti proposizionali che contribuisce alla costruzione argomentativa del discorso e quindi la cosiddetta funzione connettiva logico-argomentativa come ad es. le connessioni consequenziali e condizionali analizzate sopra.

2 “if a word or construction in an utterance does not contribute to the propositional, truth-functional content, then we consider it to be a pragmatic marker” (Aijmer et al., 2006, p. 101).

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A: va bene B: nun tengo niente A: va bene quando è lunedì ci vediamo ia’ (LIP NB 23)

In questo caso sarebbe stata più adeguata un’espressione di sostegno sociale; dopo una lamentela è di solito aspettato un commento di partecipazione e comprensione. Però, invece di dimostrare appoggio sociale con la situazione e i problemi del parlante B, il parlante A pronuncia va bene, esprimendo soprattutto un desiderio di chiudere la conversazione. Si riferisce al turno per sé oppure all’intera conversazione, e non al contenuto proposizionale del turno precedente. 3 Una funzione interazionale: i segnali di risposta

Una caratteristica condivisa tra le forme buono, bene, va bene, be’ e va be’, è la capacità di funzionare come segnale di risposta (response token); possono tutte essere usate per rispondere al turno precedente pronunciato dall’interlocutore. Possono costituire delle risposte indipendenti, oppure introdurre i turni. La nozione di segnale di risposta deriva dal modello della presa di turno, solitamente associato con il lavoro di Sacks, Schegloff, e Jefferson (1974). Gardner (2001: 14) nota che, insieme con affermazioni, i segnali di risposta provvedono informazioni agli altri partecipanti nella conversazione non solo su come il parlato precedente è stato ricevuto, ma anche informazioni su come il pronunciatore del segnale di risposta proietta l’attività successiva nel parlato. Beach (1995: 122-125) afferma che il prossimo turno (next turn-at-talk) è un aspetto basilare nella comprensione umana; è qui che il prossimo parlante offre un contributo al contesto interazionale in corso, producendo una vasta varietà di azioni (p. es. essere d’accordo, non essere d’accordo, prestare attenzione, non prestare attenzione, accettare, rifiutare, chiudere, aprire, conciliare, mitigare, annullare, cancellare, evitare). Allwood et al. (1992: 6-8) notano che un’analisi del contenuto semantico-pragmatico di semplici segnali di risposta come yes, no e m sembra essere complessa e coinvolgere varie dimensioni. Sono, per esempio, molto dipendenti dal contesto. Discutono quattro di queste dimensioni: (i) tipo di reazione al precedente atto comunicativo, (ii) stato comunicativo, e (iii) sensitività contestuale al precedente atto comunicativo, e (iv) funzione evocativa. Per quanto riguarda la reazione al precedente atto comunicativo, i segnali di risposta si diversificano soprattutto per quanto riguarda l’atteggiamento che segnalano, per esempio yes – accettazione, no – non-accettazione, great – apprezzamento/entusiasmo, e così via. Allwood et al. (op. cit.: 8-17) specificano che, un modo per analizzare il significato di espressioni e meccanismi di feedback linguistico, è di presupporre che sono caratterizzate da un contenuto convenzionale molto astratto, in combinazione con un grado altro di sensitività contestuale. Il contenuto convenzionale delle tre espressioni yes, no, m e ok potrebbe essere caratterizzato nel modo seguente: yes – accettazione, no – rifiuto, m – conferma, e ok – accordo. Sono primariamente focalizzati verso una o più delle dimensioni attitudinali, ma possono, in riguardo al contesto, simultaneamente indicare o trasmettere altre dimensioni compatibili, o addirittura, con uno spostamento di focus, segnalare altre dimensioni. I segnali di risposta sono molto dipendenti dal contesto e la prosodia per una precisa determinazione del significato. La funzione della prosodia è soprattutto quella di modulare informazioni attitudinali, in alcuni casi la presupposta verità del precedente enunciato. Per quanto riguarda il contesto, tra i parametri più importanti sono varie caratteristiche del precedente atto comunicativo: (i) tipo di atto linguistico (modo), (ii) polarità effettiva, e (iii) stato informativo. Per quanto riguarda il tipo di atto linguistico (modo) dimostrano che yes può avere degli stati differenti in contesti diversi. Dopo l’enunciato It’s raining, yes può avere la funzione ‘accettazione di affermazione’, oppure ‘dedizione a un fatto positivo’, dopo l’enunciato Open the door! yes ha la funzione ‘accettazione di richiesta’, e dopo l’enunciato Would you like som coffee? ha la funzione ‘accettazione di un’offerta’. Vedremo negli esempi delle forme studiate qui, i quali dimostrano l’importanza degli atti espressi nei turni precedenti nello stabilire le differenti tra i valori dei segnali. È fondamentale per l’interpretazione del significato del segnale di risposta, e aiuta a stabilire gli specifici valori di bene, va bene, be’, va be’ e buono, e le differenze tra di loro. Ci sono vari fattori dell’atto nel turno precedente che influenzano la scelta del segnale di risposta, e verranno discusso, in parte, nel quadro della teoria degli atti linguistici (Searle 1969) e (Bach & Harnish

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1979). Le classificazioni dei tipi di atti illocutori variano. Bach e Harnish hanno sviluppato una tassonomia dettagliata nel quale ogni tipo di atto illocutorio è individuato in base al tipo di atteggiamento espresso (in alcuni casi ci sono anche restrizioni sul contenuto). Affermazioni (statements), richieste (requests), promesse (promises) e scuse (apologies) sono esempi delle quattro categorie più grandi degli atti illocutori: constativi (constatives), direttive (directives), commissivi (commissives) e riconoscimenti (acknowledgements). Analizzando gli esempi nel corpus, è chiaro che esistono diversi tipi di affermazioni e informative riguardo agli aspetti dell’oggettività e della soggettività, e che è necessario poter distinguere tra questi due valori perché sembra influenzare la scelta del segnale di risposta usato nel turno successivo. Michael Stubbs (2014: 248) discute la differenza tra i concetti dell’oggettività e la soggettività. Afferma che molti fatti sul mondo esterno sono obiettivamente veri: per esempio, se entri nel mare ti bagnerai. Questi fatti sono definiti come brute facts (‘fatti crudi’), e dipendono dalle caratteristiche della realtà fisica. Sono indipendenti rispetto all’intenzionalità umana (Searle 1969). Stubbs (2014: 248-449) afferma che esistono dei fatti istituzionali che non dipendono da caratteristiche fisiche del mondo, ma che sono, comunque, obiettivamente veri. Questi tipi di fatti possono basarsi su rappresentazioni mentali condivise. Alcuni esempi sono “Harry married Mary”, “George was convinced of stealing twenty pounds”. Fatti come questi sono veri, non perché una persona personalmente pensa che siano veri, ma perché lo pensano anche altre persone. Searle formula anche la distinzione tra fatti crudi e fatti istituzionali come una distinzione tra caratteristiche indipendenti dall’osservatore (observer-independent) e relative all’osservatore (observer-relative) del mondo. Stubbs (Ibìd.) si riferisce a Searle (1995: 7-13), che nota che i concetti di epistemicamente oggettivo e soggettivo (epistemically objective and subjective) sono ‘predicates of judgements’. Stubbs paragona due esempi: 1) “Sinclair was born in Edinburgh (and Searle was born in Denver)”, e 2) “Sinclair’s work is more useful to linguists than Searle’s”. Sottolinea che esempio 1) è epistemicamente obiettivo: la sua verità non è soltanto un’opinione personale che varia con l’atteggiamento del parlante, mentre esempio 2) è epistemicamente soggettivo: è una questione di opinione personale e giudizio. Vediamo questa differenza con alcuni esempi presi dal corpus. Ci sono delle differenze tra le forme studiate per quanto riguarda lo stato di oggettività e soggettività dell’atto comunicativo al quale risponde di solito. Va bene, per esempio, risponde spesso a informative oggettive, come nel seguente esempio:

9) B: senti ti volevo dire che m’hanno incastrato al lavoro pure oggi il venerdì non lo devo più prende eh non posso venire C: va bene allora (LIP R B 8)

Il parlante B presenta dei fatti, che non si basano su giudizi o valutazioni personali, ma su aspetti esterni. La forma foneticamente troncata va be’, invece, risponde spesso a dei turni che contengono materiale soggettivo, come nel seguente esempio che contiene un’affermazione soggettiva:

10) B: sti condoni non si sa come andranno a finire comunque il problema è l’abitabilità tanto che io <?> un interesse relativo A: va be’ ma questo non è un problema di di locazione insomma (LIP F A 10)

Va be’ risponde specificamente alla frase comunque il problema è l'abitabilità, la quale è un giudizio, o valutazione, e non un fatto oggettivo.

3.2 L’analisi in base alla funzione come segnale di risposta

I risultati delle analisi sono stati categorizzati in base al tipo di atto comunicativo espresso nel turno al quale risponde il segnale; al livello superiore secondo le categorie di constativi e direttivi, e a un livello più specifico in atti come, per esempio, le affermazioni, valutazioni, richieste ecc., e, quando è stato necessario, anche in base all’oggettività/soggettività dell’atto.

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3.2.1 Risposta a constativi

Il tipo di atto più frequente al quale può costituire una risposta la forma bene, o forse piuttosto un commento, è quello informativo. Spesso si tratta di contesti in cui le informazioni presentate dall’interlocutore sono state richieste dal parlante stesso. È importante analizzare gli esempi in base alla nozione di presa di turno, e l’ordine sequenziale nella conversazione. Bene occorre qui in contesti con (1) una richiesta di informazioni da un parlante A, (2) una risposta dal parlante B con le informazioni richieste (3) un commento da parlante A riguardo a questa risposta, con bene. Pronunciando bene, il parlante può esprimere positività se le informazioni offerte sono positive, ma è anche possibile che esprima un valore neutrale, possibilmente con un valore conclusivo (e perciò discorsivo-organizzativo). Nell’esempio di sotto il parlante C fa una domanda, il parlante B risponde affermativamente, e aggiunge anche la frase ce l’hanno accordato, una affermazione positiva, e il parlante B commenta su questa sua risposta con bene, preceduto da ah:

11) C: loro hanno fatto domanda? L’avete fatto voi come associazione? B: no no non importa l’abbiamo fatto noi sì l’abbiamo fatto noi come associazione e ce l’hanno accordato C: ah bene (LIP F A 3 96 C)

In questo caso bene esprime chiaramente un valore di positività per le informazioni provvedute. Il turno al quale risponde bene ha un contenuto proposizionale, e contiene informazioni su un fatto reale. Il turno al quale si riferisce bene nell’esempio 13) qui sotto, è costituito da informazioni sullo stato mentale del parlante A. Bene esprime positività/contentezza poiché il parlante A ha dichiarato che sta bene:

12) B: ciao tutto bene? A: tutto bene B: bene senti non ti trattengo voglio sapere se Marina è in loco (LIP R B 4 6 B)

Però, bene non è soltanto un’espressione di positività e contentezza qui: contemporaneamente ha la funzione di segnalare chiusura della fase iniziale della conversazione. Concludendo la parte introduttiva della telefonata, il parlante prepara il passaggio alla presentazione dell’obiettivo principale della telefonata. Bene può anche commentare su informazioni che hanno un valore più neutrale, senza un contenuto che si potrebbe classificare come positivo, né come negativo. In questi casi bene è usato soprattutto per riconoscere il ricevimento del turno per sé, delle informazioni espresse, possibilmente per motivi di cortesia. Questo è il caso nell’esempio 14) qui sotto, nel quale bene è usato anche per esprimere chiusura della conversazione prima di pronunciare il saluto finale:

13) B: se è troppo lungo da scrivere dì che mi chiami a me A: va bene B: okay A: chi è? B: Veronica A: bene ciao B: ciao (LIP F B 4 15 A)

Tra gli esempi che abbiamo visto finora, questo è il bene più semanticamente “svuotato”, contenendo poco, o nessuno, valore di positività. A differenza di bene, il marcatore be’ è usato frequentemente per rispondere ad affermazioni di vari tipi, soggettive e oggettive. Queste possono esprimere delle valutazioni di qualcosa/qualcuno, dei punti di vista, delle ipotesi, ecc. In tutti gli esempi sembra esserci un valore di ovvietà presente nella forma. È chiaro che be’ si riferisce al fatto che le informazioni erano già presenti nella sua mente, e con be’ dimostra la superfluità di queste informazioni. In questi casi be’ non ha funzioni discorsive-

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organizzative, ma solamente interpersonali e interiezionali. Nell’esempio seguente, il parlante A usa be’ per commentare sui due turni precedenti; il parlante C esprime un punto di vista (ci conviene fare la voltura), e nel turno successivo il parlante B esprime accordo con questo punto di vista:

14) C: mh sono trecentomila lire signora non è una lira A: sì io vi capisco ma C: ci conviene fare la voltura B: ahah a questo punto sì A: be’ ma ve conviene alla fine almeno c’avete il C: ma scusate è da un anno che non vengono un anno e mezzo che non vengono <?> (LIP R A 7 18 A)

Con be’ il parlante A esprime un valore di ovvietà per il punto di vista che è stato espresso dai due interlocutori, che questa “convenienza di fare la voltura” è già manifesta nella sua mente. Nell’esempio 15), be’ risponde all’affermazione che “ci sarà un problema anche di riadattamento anche da parte degli studenti non soltanto i professori”. È un’affermazione che non è del tutto oggettivo, non descrive un fatto/avvenimento sicuro; in realtà è un’ipotesi su un futuro avvenimento, anche se il parlante sembra essere molto sicuro e convinto che sarà, infatti, così. Be’ è usato per commentare sull’ipotesi:

15) B: sarà un problema di rimetterli insieme e qualcuno poi poi ci sarà un problema anche di riadattamento anche da parte degli eh degli A: certo B: degli studenti non soltanto i professori anche per gli studenti A: be’ certamente anche da parte degli studenti (LIP FA 13)

L’interlocutore è chiaramente d’accordo con la valutazione; esprime accordo e un senso di ovvietà con be’, e questo è rinforzato con la frase che segue dopo be’: certamente anche da parte degli studenti. Uno degli atti più comuni ai quali può rispondere la forma va bene è quello d’informative. Qui sono studiati esempi che contengono delle risposte a, o forse piuttosto commenti, su delle informazioni oggettive: raccontano di un fatto reale, qualche avvenimento per esempio. In più degli esempi, troviamo l’ordine sequenziale con (1) una domanda da un parlante A (2) una risposta (affermativa o negativa) a questa e (3) un commento a questa risposta con va bene. Usando questo marcatore il parlante esprime, possibilmente, che si chiude questo piccolo argomento, e che non c’è altro da dire sul fatto. In questo contesto va bene esprime un valore di accettazione, a differenza del senso di positività che è espresso da bene nello stesso contesto. Nell’esempio 16) c’è la struttura domanda, risposta, marcatore; in questo caso la risposta è non-affermativa alla domanda sì/no (c’è Paolo?):

16) A: pronto? B: <?> c’è Paolo? A: eh no Paolo è uscito ha detto che tornava verso le sei B: va bene grazie A: cosa devo dire? B: sono Tiziana magari richiamo verso le sei e mezzo (LIP F B 2 4 B)

Va bene è un’espressione di cortesia; esprime che si accetta le informazioni negative, il che è rinforzato con grazie. È possibile che abbia la funzione di mitigare il rischio di far perdere la faccia all’interlocutore. Va bene può però, come bene, commentare anche su risposte affermative a una domanda. Nel seguente esempio il parlante C usa va bene per rispondere a informazioni che riguardano un regalo. Il parlante A ha preso un regalo che deve essere da entrambi, e lo racconta al parlante C, probabilmente aspettandosi, e volendo, un’accettazione dal parlante C, un ok per la scelta del regalo:

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17) A: eh splendida di pesantissima eccetera eccetera che sarebbe costata C: mh A: trecentosettanta mila lire poi la davano a tre e trenta e quindi C: mh A: abbiamo preso quella C: va bene A: quindi praticamente viene centodieci mila lire a coppia insomma C: va bene A: può andare? C: mh d’accordo (LIP FB 6)

Con va bene il parlante C segnala che accetta la scelta del regalo e il costo. Prima di rispondere con va bene pronuncia però mh tre volte, ma con va bene il parlante indica che è pronto a chiudere l’argomento, dato che non prende il turno. È un va bene molto semantico, nel senso che si riferisce a un contenuto proposizionale, costituendo quasi un enunciato ellittico. Un atto comunicativo dopo il quale va be’ è frequente come risposta è la lamentela. Negli esempi analizzati nello studio, uno dei parlanti si lamenta descrivendo una situazione, o un avvenimento, per esempio. È chiaro che si tratta di lamentele se si studia i vocaboli usati per descrivere la situazione, i quali possono essere, ad esempio, difficile, casino, un peccato, abusivamente e così via. È possibile stabilire che una frase esprime una lamentela osservando come reagisce l’altro parlante, come risponde all’enunciato. Con va be’ il parlante sembra voler esprimere una mitigazione della negatività espressa dalla lamentela. Nell’esempio 18), che segue, il parlante B si sta lamentando; sta presentando alcuni problemi che ha incontrato durante un viaggio. Parlante A pronuncia un turno per cercare di mitigare la negatività espressa parlando dei problemi, di introdurre positività (va be' l'essenziale insomma che la <??>), introducendolo con il segnale va be’:

18) A: ah B: per cui quando trovi camion eccetera davanti capirai è un casino insomma A: ah certo ah B: è difficile insomma sorpassare insomma e allora A: ho capito ah comunque va be’ l'essenziale insomma che la <??> B: ma insomma era un po’ freddo le giornate erano freddissime quindi in pratica là loro dato che sono contornati da da na serie di parenti A: ah B: non si è fatto altro che mangiare dalla mattina alla sera A: mamma mia [ride] B: è sta tutta una mangiata A: un’abbuffata B: proprio veramente A: ah ah be’ va be’ <?> (LIP RB 7)

È possibile che il parlante abbia anche anche di chiudere questo (sub-)argomento con va be’ e il commento di positività. Il parlante B continua però a lamentarsi, e a esprimersi in modo negativo, e qualche turno più avanti A pronuncia di nuovo va be’, possibilmente come un altro tentativo per introdurre la sequenza conclusiva della chiamata (o la chiusura dell’argomento). Va be’ può essere usato per esprimere accettazione parziale di un’affermazione soggettiva, introducendo un’obiezione. Le affermazioni possono essere, più precisamente, delle valutazioni, punti di vista, ipotesi ecc.:

19) A: ah ecco e quanto hai speso? B: diecimila A: complimenti B: <?> il film era un film d’essai proprio

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A: e be’ che c’entra i film d’essai sono anche film B: va be’ sì però Spaziouno non mi sembra A: ah lo Spaziouno? (LIP FB 13)

Va be’ commenta su una valutazione fatta nel turno precedente, al contenuto proposizionale di esso, ed è seguito da obiezioni, introdotti con però. A parte l’espressione di va be’ di accettazione parziale della valutazione espressa nel turno precedente. Quando troviamo dei turni con enunciati accusatori nel corpus, è usato va be’ per rispondere a essi, almeno quando il parlante in questione non è d’accordo, non accetta l’accusa, e vuole protestare. Va be’ è, anche in questi casi, usato per introdurre un turno con un’obiezione:

20) B: cioè hai fatto un’assenza? A: me ne so’ andato B: ma eh non potevi fare almeno le prime due ore? A: va be’ ma io me rompevo cioè me facevo due ore de supplenza un’ora de francese che B: embe’? ma intanto non facevi l’assenza così hai fatto l’assenza (LIP R B 1)

Il parlante B accusa parlante A, implicando (con la frase ma eh non potevi fare almeno le prime due ore?) che il parlante A ha fatto un errore (non è andato a una lezione). Per quanto riguarda l’obiezione che viene dopo va be’, nel primo esempio il pronunciatore di va be’ spiega perché non è andato alla lezione, cercando di giustificarsi. Pare che la combinazione e va be’ abbia un valore leggermente diverso rispetto a va be’ senza la e, quando risponde a informazioni. Gli esempi trovati nel corpus contengono contesti precedenti in cui i parlanti discutono qualcosa di (leggermente) negativo, o perlomeno è implicato che sia negativo. Può essere segnalato, per esempio, un senso di preoccupazione. Nell’esempio che segue, il parlante A sta parlando dei voti (non considerati molto buoni) di un alunno, e il parlante B risponde con e va be’:

21) A: eh per cui anche qua insomma lei ha capito si permette di rifiutarsi di fare delle cose per cui io mi sono incavolata terribilmente abbiamo avuto un momento di B: ma delle cose però A: però ascolta no fondamentalmente va bene insomma in italiano e latino in latino in italiano latino e inglese è molto benino per il resto ci ha il suo sei ecco B: e va be’ (LIP FB 12)

In quel caso e va be’ risponde alla preoccupazione, trasmettendo un senso di rassegnazione, e un senso di “le cose stanno così, che possiamo farci?/non importa”. Sembra dimostrare solidarietà e appoggio sociale con l’interlocutore al qual turno risponde, cercando di mitigare la negatività espressa, una funzione interazionale. 3.2.2 Risposta a direttivi

Bene non occorre spesso dopo direttivi, però è comunque possibile l’occorrenza dopo una richiesta o una proposta. Nell’esempio di sotto il parlante B fa una richiesta, dopodiché il parlante A risponde con bene, confermando così l’intenzione di aderire alla richiesta:

22) B: un bacio grande grande e una buona giornata poi Tizia’ do un bacio a Maria effe gi con mamma Carmela # a Maria i esse con tutta la famiglia A: bene (NB6 12 A)

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L’atto della richiesta non è costruito come una domanda, ma come un’affermazione; è perciò meno diretto. Pronunciando bene il parlante A conferma che saluterà queste persone, possibilmente anche esprimendo positività? Be’, invece, è usato per rispondere a direttivi solo quando la risposta è dispreferita, o almeno “non diretta”. Nel seguente esempio, dopo la domanda come sta andando? del parlante A, parlante B introduce il turno con be’, segnalando che la risposta che seguirà a questa domanda non è semplice:

23) B: cioè ai miei ai <?> miei insegnanti senti eh eh che ti volevo dire? niente il capitolo di Andrea della scuola poi tanto te ne racconterò perché vale la pena ora è troppo lungo A: come sta andando? B: be’ senti lui ci ha il sei stiracchiato insomma stiracchiato il sei grosso modo in tutto però hanno fatto un quadro mi hanno fatto un quadro un po’ tragico insomma (LIP FB 12)

La risposta è allungata, una caratteristica tipica per un turno dispreferito; invece di rispondere bene alla domanda come sta andando?, che sarebbe stata la risposta preferita, il parlante introduce il turno con be’, avendo qualcosa di negativo da presentare, il che viene espresso solo alla fine del turno (un quadro un po’ tragico insomma). Perciò, be’ indica che una risposta a quella domanda fatta dal parlante A (come sta andando?) non è facile dare; ci vuole un resoconto più lungo per spiegare tutto. Be’ occorre anche come introduttore di un turno per rispondere a delle domande polari, che implicano qualcosa di negativo:

24) B: ecco Vanacore però eh detto francamente il sindacato continua da anni a denunciare questa situazione ma eh il le condizioni di lavoro di sicurezza nei cantieri non migliorano e allora? se non c’è anche qualche lite nel sindacato ma state sbagliando qualcosa? o dovreste fare di più? A: be’ io penso questo noi abbiamo diversi strumenti sui quali agire e non escludo un problema diretto delle parti sociali non è un caso che il negoziato con gli imprenditori si è bloccato essenzialmente sul punto della sicurezza e diciamo che da ormai cinque mesi che vanno avanti le trattative […] (LIP ME 6)

Si tratta di domande “dure”, e critiche, e visto che le domande sono polari, e che il conduttore perciò richiede una risposta sì/no, l’intervistato deve segnalare che una risposta semplice con un sì o un no non basta. Vuole dare una risposta più lunga, e difendersi dalle critiche implicite, e con be’ trasmette un senso di “non è cosi semplice”. Seguono dopo be’ delle spiegazioni della situazione. L’uso di va bene nella fase conclusiva della conversazione per accettare, o confermare una richiesta, è frequente. Negli esempi che seguono, i va bene costituiscono chiaramente dei segnali di risposta, ma è possibile che il valore di accettazione porti anche a un certo valore di chiusura, implicando che il parlante è pronto a procedere verso la fine della conversazione. Nell’esempio 25) è usato per esprimere conferma di aderire alla richiesta:

25) A: sì meno male va è uscita? B: sì sì A: eh me la saluti tu? B: va bene A: ciao un bacio B: ciao XYZ buona giornata salutami tutti (LIP NB 27)

Negli esempi trovati finora, va bene costituisce una risposta indipendente alla richiesta. Come in questo esempio, va bene occorre spesso in sequenze conclusive. Potrebbe essere il caso che va bene

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abbia un valore conclusivo generale? Credo che sia possibile rispondere con va bene quando occorre dopo una richiesta che non richiede continuazione dell’argomento, quando non si ha ulteriori domande da fare sul fatto. Per esempio, va bene non potrebbe essere usato per rispondere a una richiesta come “Mi fai un favore?”, perché qui non si sa di che favore si tratta; esprimerebbe che il parlante non vuole saperlo, che non gli interessa. Sarebbe più naturale rispondere con uno sì/certo per esempio, così incitando l’interlocutore di continuare, di procedere con una specificazione di che cosa consiste il favore. Anche quando si risponde a delle proposte, va bene è un segnale di risposta frequente. Va bene costituisce frequentemente una risposta a frasi tipiche, o standard, nella sequenza conclusiva della conversazione – delle proposte di sentirsi prossimamente, come nell’esempio 26) qui sotto:

26) B: ah ginnastica? A: sei sette B: ahah Giovanna insomma ci si sente A: va bene B: va bene A: okay B: ciao ciao A: ciao (LIP FB 1)

È possibile che anche dopo le proposte va bene indichi che non ci sono ulteriori domande o aspetti da discutere. Credo che, con la scelta di questa forma, si segnali un orientamento verso la chiusura, dimostrando che non s’intende introdurre degli unmentioned mentionables. Con va bene si accetta la proposta nel turno precedente e allo stesso tempo si trasmette un valore conclusivo. Anche nel seguente esempio va bene occorre come un segnale di accettazione di una proposta nel turno precedente:

27) A: si potrebbe anche fare B: fatto questo [legge_velocemente_il_pezzo] A: sì okay B: ah magari inseriamo quella frasina lì A: va bene B: allora <???> allora (LIP M A 7)

In questo caso però non occorre nella sequenza conclusiva della conversazione, ma comunque sembra segnalare un valore conclusivo dell’argomento. Gli ordini assomigliano in parte alle proposte e le richieste, nel senso che il parlante che li pronuncia cerca di far fare qualcosa all’interlocutore. I direttivi sono, però, più chiare minacce alla faccia (face-threathening) rispetto a richieste e proposte. Nell’esempio seguente va bene è usato per confermare che si accetta i direttivi presentati dall’interlocutore nel turno precedente:

28) A: ci sto io domani domani sto io non ti preoccupare B: va bene A: quindi incomincia a preparare adesso la roba e mi scrivi sul foglietto la roba che manca che lo prendo io da XYZ B: va bene A: ciao amore […] (LIP NB 60)

Qui c’è un contesto positivo però, senza che è trasmessa una minaccia alla faccia all’interlocutore. In questo caso, il parlante A cerca di aiutare il parlante B, il quale sembra preoccupato per qualcosa. Il direttivo al quale risponde va bene è pronunciato per motivi che riguardano il parlante B; parlante A lo vuole aiutare. Si tratta perciò di contesti in cui l’interlocutore non si impone cercando di convincere il

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parlante, ma esprime un direttivo o un consiglio che porta delle implicazioni positive per il parlante. Si trovano più esempi in cui va be’ è usato per rispondere a degli ordini dell’interlocutore nel precedente turno. Questi sono atti che costituiscono una più forte minaccia alla faccia (face-threathening) dell’interlocutore, rispetto all’esempio 28) appena visto. Considerando che il parlante, negli esempi che ho trovato, sembra rispondere con un senso di riluttanza ai direttivi, non è strano che venga usato va be’, che sembra trasmettere un valore di accettazione parziale. È scocciato e perciò non è disposto ad accettare pienamente i direttivi? Nell’esempio che segue, il parlante B usa va be’ per rispondere a dei turni in contesti in cui il parlante A cerca di indirizzarlo a fare qualcosa, di convincerlo:

29) A: guarda te un giallo bello dai B: va be’ A: scegli un giallo bello B: va be’ XYZ A: ti saludi B: ti saluto [interruzione] A: ciao B: ciao (LIP MB 82)

Questi va be’ rispondono a direttivi diretti (guarda te un giallo bello dai / scegli un giallo bello). In realtà commentano sullo stesso direttivo, che è stato riformulato nel secondo turno. Parlante A s’impone all’interlocutore; cerca di convincerlo di fare qualcosa. In questi casi va be’ è ripetuto, perché il parlante A continua a produrre turni sullo stesso argomento, come se ci fosse bisogno di convincere il pronunciatore di va be’, e una necessità di rinforzare l’atto. L’uso ripetuto di va be’ sembra implicare anche desiderio di chiusura, il ché è, infatti, fatto pochi turni dopo. Com’è già stato accennato, va be’ occorre più frequentemente in contesti negativi rispetto alla forma va bene; può trattarsi di contesti con problemi e conflitti di vari tipi, per esempio. Va be’ sembra dare l’impressione che il parlante abbia accettato solo parzialmente il turno, esprimendo, come ipotizzato prima, accettazione parziale. I parlanti che pronunciano va be’ sembrano leggermente irritati; c’è qualche problema nel discorso precedente, o qualcosa che deve essere risolto. 4 Una funzione interazionale: organizzatori della struttura discorsiva Una funzione importante quando si discutono i marcatori discorsivi è quella della strutturazione o l’organizzazione della conversazione. I parlanti usano i segnali discorsivi tra l’altro per segnalare le transizioni nella conversazione, per esempio tra le varie fasi conversazionali, come l’apertura e la chiusura della conversazione, e l’introduzione e la chiusura di argomenti.

4.1 Chiusure nella conversazione Schegloff e Sacks (1973) notarono che una conversazione “does not simply end, but is brought to a close”, e proposero delle strategie di chiusura conversazionale che i parlanti usano per uscire da un’interazione. Introducendo il concetto della sezione conclusiva, descrissero la sua struttura e divisero la sezione in prechiusura e chiusura, con degli interventi in mezzo (come, ad esempio, accordi, saluti ecc.). La chiusura come concetto è molto rilevante per il presente studio; specialmente l’occorrenza di va bene sembra essere molto frequente nelle sezioni finali delle conversazioni. Anche se nell’articolo di Schegloff e Sacks è trattata solo la chiusura della conversazione, è specificato che la discussione di un aspetto dell’organizzazione strutturale generale della conversazione richiede riferimento anche ad altri aspetti dell’organizzazione conversazionale, come le aperture e la struttura dell’argomento (topic). L’analisi conversazionale, e specificamente i concetti di presa di turno e coppia adiacente, è la base della teoria sulle chiusure conversazionale (Schegloff & Sacks 1973: 75-76).

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Schegloff e Sacks (Ibìd.) notarono che l’inizio della sequenza conclusiva è essenziale; è importante che venga introdotto in modo “corretto”. Affermarono che l’organizzazione del topic talk è direttamente rilevante al problema dell’appropriata iniziazione della sezione di chiusura, e che lo scambio finale è posizionato in relazione a una sezione di chiusura. Con riferimento alla distinzione tra azioni e attività (o sequenze e attività), potrebbe essere meglio considerare la sezione conclusiva non come una singola azione o singola sequenza, ma piuttosto come un’attività che è iniziata, gestita nel suo corso, e completata. Schegloff e Sacks (1973) introdussero il concetto di una sezione di chiusura (closing section), e spiegarono la struttura complessa di una chiusura. Divisero la sezione in prechiusura (preclosing) e chiusura (closing), con delle mosse conversazionali in mezzo. Un concetto importante nell’approccio di Schegloff e Sacks (1973) quando si parla di prechiusure è quello di mentionables, definito come “quello di cui si parla”. Schegloff e Sacks (1973: 79-80) affermano che le prechiusure, o la sezione di chiusura, offrono la possibilità ai parlanti di menzionare dei finora unmentioned mentionables, il che non è provvisto dallo scambio finale per sé. Una caratteristica centrale d’iniziazioni appropriate di sezioni di chiusura è la loro relazione a dei finora unmentioned mentionables, e alcuni metodi per introdurre le chiusure sembrano essere designati precisamente per i problemi discussi qui. È necessario sottolineare che i segnali di prechiusura costituiscono soltanto delle possibili prechiusure. Queste possibili prechiusure non sono usate solo per iniziare una sezione conclusiva, ma anche per invitare l’inserzione di unmentioned mentionables, per offrire la possibilità della riapertura di topic talk. La prechiusura offre all’interlocutore l’opportunità di menzionare degli eventuali unmentioned mentionables, cose di cui si vuole parlare prima della chiusura della conversazione. Sidnell (2010: 218) sottolinea che, con termini come okay nelle sequenza finali, il parlante passa all’opportunità di prendere una presa di turno più lungo. Con il primo okay il parlante perciò passa all’opportunità di sollevare nuovi argomenti, e così propone che la conversazione si orienti verso la chiusura. A questo punto è data la possibilità all’altro parlante di introdurre degli unmentioned mentionables. Nel caso che non siano inseriti, con una seconda unità del genere un recipiente allo stesso modo passa all’opportunità di sollevare ulteriore materiale su un argomento, e potrebbe perciò sia manifestare una comprensione di quella proposta, sia accettare la mossa di orientamento verso la chiusura. Una risposta di questo tipo alla possibile prechiusura può costituire la prima parte della sezione di chiusura. Vediamo dei casi in cui va bene e va be’ sono usati per introdurre la chiusura, sia uno in cui vengono fuori degli unmentioned mentionables e uno in cui no. Nell’esempio 30) troviamo sia va bene che va be’; va bene è introdotto come un possibile segnale di prechiusura (segnalando che si accetta la conversazione, o l’argomento, e allo stesso tempo che non c’è nient’altro da dire sul fatto). Con va be’ il parlante A introduce una prechiusura più esplicita, essendo seguito da allora saluta Pippo, accettando così la prechiusura introdotta dal parlante C:

30) C: se no si prende le forbici A: ahah sì appunto anche C: va bene A: mh va be’ allora saluta Pippo C: okay senz’altro ci vediamo A: ciao Stefania C: ciao ciao (LIP FB 6)

È interessante discutere eventuali differenze per quanto riguarda la direttezza ed efficienza tra i vari mezzi usati per introdurre le prechiusure, e dimostrare le intenzioni di orientarsi verso la chiusura della conversazione. Come vedremo nella discussione che segue, ci sono mezzi che sono più o meno espliciti nell’espressione del desiderio di chiudere la conversazione. I marcatori discorsivi possono essere considerati meno espliciti rispetto ad altre espressioni, e forse proprio per questo sono mezzi comuni; a volte è preferibile essere impliciti nella conversazione, per motivi di cortesia. Vedremo, comunque, che ci sono differenze di esplicitezza anche tra le forme analizzate nel presente studio. Anche Schegloff & Sacks (1973) notarono differenze tra i vari tipi di prechiusure. Scambi come okay; okay sono posizionati dopo la chiusura o la conclusone di un argomento; rispettano certi ordini locali di organizzazione, come l’organizzazione del parlato di un argomento o le coppie adiacenti. Secondo Schegloff & Sacks la dichiarazione esplicita I gotta go, invece, non deve rispettare quei confini, e può

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addirittura interrompere enunciati che possibilmente non sono ancora stati completati. Propongono che I gotta go non proibisca una continuazione della conversazione, però non invita specificamente a una continuazione, come fa invece okay. Anche per quanto riguarda le forme studiate qui troviamo delle differenze di esplicitezza, come vedremo più avanti. Finora è stato discusso la necessità, nella conversazione, di sezioni di chiusura appropriatamente iniziate, e le varie tecniche che possono essere utilizzate per realizzarle. Schegloff & Sacks (1973: 90-91) affermano che, quando si ha introdotto in modo appropriato una sezione conclusiva, può contenere nient’altro che uno scambio di saluti finali. Però, le sezioni di chiusura possono contenere molto di più dell’esempio qui sopra. Tanti elementi e azioni possono occorre nella sequenza conclusiva, come per esempio l’atto di mettersi d’accordo, con una variazione di possibili atti, come dare direzioni, mettersi d’accordo su incontri futuri, fare inviti, e simile. 4.2 L’analisi in base all’uso come organizzatori della struttura discorsiva Come abbiamo visto nel capitolo precedente, separare del tutto le diverse funzioni di un segnale discorsivo non è possibile. È molto spesso il caso che, in una particolare occorrenza, sono presenti più di una funzione. Negli esempi analizzati finora le occorrenze di bene sono state presentate come dei segnali di risposta, ma come abbiamo visto, in molti esempi è presente, contemporaneamente, una funzione organizzativa del discorso, come nell’esempio che segue:

31) A: pronto B: eh buonasera Daniele sono Salvatore A: ah ciao Salvatore B: ciao tutto bene? A: tutto bene B: bene senti non ti trattengo voglio sapere se Marina è in loco (LIP R B 4 6 B)

In questo caso è difficile stabilire quale delle funzioni è quella principale (quella di esprimere positività per lo stato mentale del parlante A, o quella di chiudere la prima parte della telefonata per poter passare allo scopo principale della conversazione). Negli esempi che vedremo nel presente capitolo, la funzione principale sembra essere quella organizzativa-discorsiva. 4.2.1 Segnalazione di una transizione nella conversazione Alcune funzioni comuni dei marcatori discorsivi riguardano l’organizzazione conversazionale, come, per esempio, la re-orientazione, cioè quando un parlante cambia direzione nella conversazione. Travis (2005: 102-105) discute l’uso del segnale discorsivo spagnolo bueno in cui segnala re-orientazione; può introdurre un nuovo argomento, chiudere un argomento, ritornare a un precedente argomento che segue dopo una digressione, o segnalare altri tipi di interruzioni nella conversazione. Bueno ha molte somiglianze con le forme bene e va bene; hanno sviluppato le stesse funzioni di re-orientazione. Il seguente esempio è particolare perché occorre in una trasmissione radio. Il conduttore ha appena chiuso la telefonata con un interlocutore, e pronuncia bene prima di introdurre una nuova telefonata:

32) D: ho capito B: <??> D: grazie grazie B: ciao A: bene prendiamo la prossima telefonata e eh a questo punto anche l’ultima telefonata di quest’oggi perché sono le undici e trentuno minuti primi vediamo chi è in linea pronto? (LIP ME 6)

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In questo caso il valore di bene dovrebbe essere abbastanza neutrale; non c’è un evidente contenuto positivo al quale commentare, avendo appena concluso la conversazione con l’interlocutore. Non costituisce un segnale di risposta qui. È probabile che bene sia pronunciato per sottolineare la fine chiamata, per riguardo agli ascoltatori (della radio), e per segnalare il passaggio alla prossima telefonata. Potrebbe costituire anche un mezzo per rivolgersi nuovamente agli ascoltatori dopo la telefonata con una specifica persona, perciò con una funzione interazionale. Bene può essere usato per interrompere l’interlocutore e quello che sta dicendo. Nell’esempio che segue, il parlante B usa bene per interrompere il turno del parlante C, con lo scopo di chiudere l’argomento che lei ha introdotto, e tornare a uno precedente:

33) B: ci sono già delle esperienze C: c’è un’esperienza a Pisa c’è un’esperienza a Roma a Pisa e a Roma ci sono stati dei contratti di formazione che hanno previsto a doccia o di venti donne eh con successo e quindi questo è un fatto positivo sicuramente positivo insomma B: bene ti interrompi un attimo e torniamo a Vanacore e al contratto degli edili iniziato alcuni mesi fa […] (LIP ME 6)

L’interruzione e il cambio di argomento sono anche esplicitamente specificati (ti interrompi un attimo e torniamo a Vanacore) in questo caso. Potrebbe essere il caso che il parlante B si aspettava, o desiderava, una risposta breve alla sua domanda fatta nel turno precedente (ci sono già delle esperienze), ma parlante C presenta un turno abbastanza lungo. È possibile che, non percependo un’intenzione del parlante C di fermarsi, il parlante B abbia sentito il bisogno di eseguire un’interruzione esplicita. Anche in questa occorrenza, bene non è privo di un certo valore di positività. Almeno, guardando il contenuto nel turno precedente, che ha un contenuto positivo (di venti donne eh con successo e quindi questo è un fatto positivo sicuramente positivo insomma), sembra logico che bene esprima un minimo valore di positività per quelle informazioni. Come bene, neanche be’ è comune per funzioni che riguardano la strutturazione del discorso. Nel seguente esempio il parlante A usa be’ per commentare sul turno precedente, interrompendolo, e implicando che l’interlocutore sia uscito fuori argomento:

34) B: […] anche l’altri due ragazzi si sono un po’ arrabbiati secondo me a questa ragazza qui qualcosa di più glieli dà e che io non è che me lo dice lei l’ho vista l’ho sentita parlare al telefono con la sua compagna A: be’ questo signora questo è un altro problema questo è un altro problema ancora casomai lo lo trattiamo lo trattiamo piu' avanti (LIP ME 6)

Con l’enunciato questo signora questo è un altro problema, dopo be’, esce fuori l’implicazione che il parlante B sia uscito fuori argomento. Nell’esempio 35) be’ si trova in mezzo a un turno con un ragionamento lungo, e porta una funzione di “ristrutturazione” dentro il turno. Il parlante A usa be’ per interrompere l’enunciato che stava pronunciando, presentando una digressione. Questa contiene delle informazioni che per l’interlocutore sono già manifeste, un fatto che è anche precisato dal parlante A esplicitamente con te l'avevo accennato lui tende a portarmi tedesco:

35) A: […] allora io glielo sposto a giovedì ecco questi aggiustamenti un pochino glieli faccio visto che tanto non mi costano niente a me un giorno o l'altro non mi cambia nulla per cui gli ho detto piuttosto che perdere un pomeriggio quando ci possiamo aggiustare se te fai delle cose particolari me lo dici <??> e così infatti faccio lui un pochino come compiti be’ te l’avevo accennato lui tende a portarmi tedesco che veramente è tutto da

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B: sì sì mi ricordo benissimo sì A: vedere <?> che insomma nel quale io l’aiuto un po’ poco anche con (LIP FA 3)

Il parlante B conferma, nel turno che segue, di ricordarsi di queste informazioni. Dopo la conferma del parlante B, il parlante A interrompe la digressione e torna al flusso della conversazione iniziata prima, introducendolo con che insomma. Va bene è molto comune con la funzione di organizzare il discorso, di chiudere argomenti e conversazioni. Va bene può essere usato per segnalare chiusura dell’argomento attuale, o almeno una parte di un argomento, esprimendo, allo stesso tempo, accettazione di esso. Questa è la funzione nell’esempio 36), che segue:

36) A: quello prima di tutto quello lì del coso lì quello del magazzino B: dunque A: va bene? B: sì quello va abbastanza bene ci sono delle cose piccole ma sono A: mh mh B: aggiustamenti penso si possa dire che quello vada A: va bene ecco e poi? quelli carbolubrificanti? (LIP FA 12)

Il parlante A accetta le informazioni provvedute dal parlante B, ma questo non sembra essere la funzione principale qui. Esprime accettazione del turno dell’interlocutore per poter segnalare che si può chiudere l’attuale parte dell’argomento, e che non c’è altro da dire sul fatto. Infatti, direttamente dopo il va bene, il parlante A introduce un nuovo fatto che hanno da discutere. Sembra leggermente impaziente di andare avanti, e sembra quasi interrompere il turno del parlante B. Può trattarsi anche di una questione di cortesia di esprimere accettazione del parlato dell’interlocutore prima di esprimere gli interessi propri. Vedremo degli esempi in cui va be’ è usato quando il parlante desidera cambiare orientamento nella conversazione; o cambiare l’argomento del tutto, oppure solo “direzione” nell’argomento attuale. Nel seguente esempio va be’ segnala più chiaramente una chiusura dell’argomento:

37) B: e lo vedrò domani allora mo’ le notizie che raccolgo me le porto con me ogni volta che vado lì A: ho capito B: eh al limite poi i suoi aggiornamenti e se lui ha <?> A: eh al limite gli dici che anche da me ha chiamato XYZ B: sì A: che ha anche una pratica sua B: sì A: sì B: va be’ d’accordo mo’ niente poi al limite caso mai bisogna fare la chiusa inchiesta mi piglio <??> (LIP NB 55)

Dopo va be’ seguono delle espressioni che esplicitano la chiusura dell’argomento (d’accordo mo’ niente) introdotta con va be’ all’inizio del turno. In questo esempio il contesto che precede il va be’ non è esplicitamente negativo, al massimo sembra esserci qualche piccolo problema. Però, è possibile che va be’ qui è quasi svuotato del valore di accettazione parziale, ed è usato soprattutto per la funzione discorsiva-organizzativa di esprimere chiusura dell’argomento. 4.2.2 Introduzione della sequenza conclusiva Va bene e va be’ possono essere usati per introdurre la sequenza conclusiva della conversazione, funzionando come un segnali di prechiusura. Ci sono però diversi modi per farlo; la sequenza

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conclusiva può essere introdotta in modo esplicito, come quando sono seguiti da frasi tipiche per la sequenza conclusiva, oppure in modo implicito con un solo va bene o va be’ in un contesto conversazionale appropriato. Troviamo degli esempi in cui va bene è seguito immediatamente, o quasi immediatamente, da saluti finali; le sequenze conclusive sono perciò brevissime. Questo fatto le possono rendere brusche; può sembrare che i parlanti siano in fretta e desiderino chiudere subito. Negli esempi che seguono, va bene introduce la sequenza conclusiva e chiude direttamente nello stesso turno. Le prechiusure consistono perciò soltanto delle frasi grazie tante e allora mi scusi, prima che siano introdotti i saluti finali:

38) […] B: non me lo sa dire va bene grazie tante buongiorno A: no prego buongiorno (LIP FB 21)

È spesso il caso che va bene non occorra in isolamento quando funziona come un segnale di prechiusura; è seguito da frasi che rendono più esplicito il desiderio di chiudere la conversazione. Può trattarsi di frasi che sono tipiche per la sequenza conclusiva, e che segnalano in modo chiaro l’intenzione di procedere verso la chiusura della conversazione, come saluti ad altre persone, accordi, proposte di rivedersi nel prossimo futuro, e così via. Nell’esempio 39) il parlante A usa va bene come segnale di prechiusura, ed è seguito da un enunciato in cui fa una promessa di informare X del fatto che parlante C ha chiamato, e di qual era lo scopo della telefonata:

39) C: e mi doveva far telefonare da un suo artigiano per fare questo lavoro però non ho avuto A: notizie C: comunicazione allora volevo sapere se questo artigiano è stato informato o no A: ho capito va bene io glielo dico appena torna glielo faccio presente lui si ricorderà subito C: la ringrazio A: niente arrivederci C: arrivederla (LIP RB 9)

Con va bene il parlante esprime accettazione della conversazione e introduce, o almeno suggerisce che si introduca la sequenza conclusiva. Diventa più esplicito con la frase che segue dopo il marcatore. Anche va be’ è spesso seguito da frasi che rendono più chiaro l’intenzione di procedere verso la chiusura della conversazione. Questo tipo di enunciati prestano attenzione anche ai rapporti sociali tra gli interlocutori. Segue un esempio:

40) A: e non lo so adesso cerchiamo di trovare un tavolo non lo so B: perché non venite a mangiare con noi A: no adesso siamo qua dai B: va be’ faccio un salto dai se faccio presto okay? A: va bene B: ciao A: ciao (LIP MB 59)

Il contesto qui è leggermente negativo, dato il fatto che il parlante A ha rifiutato un invito dal parlante B, e questo può essere il motivo per cui usa va be’, accettando in modo riluttante questo fatto. Anche nell’esempio 41) c’è un contesto negativo. I partecipanti stanno parlando di un film, e il parlante B esprime la sua insoddisfazione con il fatto che ha speso dei soldi per andare al cinema e vedere un film che non è stato bello, e che perciò non è valso quei soldi (diecimila buttate al vento). Va be’ esprime accettazione parziale, e segnala anche una desiderata chiusura della conversazione:

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41) B: infatti insomma diecimila buttate al vento A: sì ma invece il film che si è visto noi è stato anche bellino B: mondo porca vacca [RIDONO] A: mh B: va be’ allora niente vi si aspetta qui e poi vo alla <?> A: mh no ahah va bene (LIP FB 13)

Dopo va be’ seguono altri due segnali discorsivi (allora niente), una collocazione che sembra rinforzare l’introduzione della sequenza pre-conclusiva. È possibile che va be’ esprima soprattutto accettazione parziale e chiusura dell’argomento che stavano discutendo, mentre i marcatori discorsivi successivi esprimono il valore conclusivo della chiamata. La frase che segue (vi si aspetta qui e poi vo alla <?>), esplicita ancora l’orientamento verso la chiusura della telefonata, contenendo degli accordi per un futuro incontro. Quando i marcatori discorsivi occorrono in isolamento, senza essere seguiti da frasi che esplicitano o rinforzano il desiderio di chiudere la conversazione, sono più impliciti. Nell’esempio 42) va bene occorre alla fine di un turno, segnalando un desiderio di introdurre la sequenza pre-conclusiva:

42) A: sì sì sull’organizzazione è giusto è giusto B: e non certo sull sull’impegno anche perché sull’impegno che gli posso dì? A: no no va bene va bene # va bene B: io la ringrazio A: allora a presto […] A: arrivederci B: di nuovo A: di nuovo (LIP FA 13)

Anche se in questa occorrenza va bene non è seguito da una frase che esplicita la sequenza conclusiva, è molto chiaro il valore conclusivo del segnale; la prechiusura è subito riconosciuta. È possibile che proprio il fatto che i segnali si trovano alla fine del turno li rende chiari come prechiusure; non costituendo dei segnali di risposta si riferiscono all’intera conversazione e funzionano, indubbiamente, come dei segnali di prechiusura. Va bene è preceduto da un no no va bene va bene, i quali commentano sul turno precedente dell’interlocutore, esprimendo accordo e appoggio sociale su quello che ha detto. Il fatto che non si dichiara in modo esplicito l’intenzione di chiudere la conversazione potrebbe essere legato al concetto di cortesia. È un modo più indiretto di introdurre la prechiusura, ed è probabilmente conveniente per il parlante lasciare all’interlocutore la responsabilità di introdurre in modo esplicito la prechiusura. In esempio 43) va be’ si trova alla fine del turno, introducendo la prechiusura; non è seguito da una frase che rinforza il desiderio di chiusura. Con il particolare contesto conversazionale diventa però chiaro che si tratta di un segnale di prechiusura, un fatto che si vede da come risponde l’interlocutore. Non introduce un nuovo turno ma pronuncia il segnale discorsivo bene, accettando così l’introduzione della prechiusura:

43) B: no sì è a scelta ma è una lista ben precisa F: ah infatti mi sembrava un po' strano [RIDONO] va be’ B: bene F: senti va be’ allora gente <?> restiam d’accordo così B: sì # d’accordo […] F: ok? B: ok F: ciao grazie (LIP MB 4)

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Anche se in queste occorrenze i segnali di prechiusura non sono seguiti da frasi tipiche per la sequenza conclusiva, sembra che quando va be’ occorra alla fine del turno, è molto chiaro il valore conclusivo del segnale; la prechiusura è subito riconosciuta. È possibile che proprio il fatto che i segnali si trovano alla fine del turno li rende chiari come prechiusure; non costituendo dei segnali di risposta si riferiscono all’intera conversazione e funzionano, indubbiamente, come dei segnali di prechiusura. Dall’analisi degli esempi studiati risulta che va bene è molto frequente quando si vuole chiudere una conversazione, sia come segnale di risposta che come segnale di prechiusura. Anche se va be’ compie le stesse due funzioni generali, è molto meno comune. È possibile che questa differenza derivi dal fatto che, mentre va bene contiene un valore di accettazione, va be’ sembra averne uno di accettazione parziale, o rassegnazione. Va bene è spesso usato per confermare, accettare ed esprimere accordo, mentre va be’ costituisce una risposta meno accondiscendente, che trasmette riluttanza ad accettare pienamente il turno precedente; è spesso usato in contesti nei quali c’è un senso di irritazione. Questa differenza tra le forme è manifestata anche nelle occorrenze nelle quali funzionano come prechiusure; va bene ha un valore più positivo, mentre va be’ trasmette il fatto che il parlante, per qualche motivo, non è del tutto contento della conversazione. Bibliografia Aijmer, K. (2002). English Discourse Particles - Evidence from a corpus (a cura di). Amsterdam;

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