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LA VITA E LE REGOLE Stefano Rodotà INTRODUZIONE: IL DIRITTO E IL SUO LIMITE Il libro di Rodotà affronta in tutta la sua vastità il tema del diritto in relazione alle scelte etiche, sociali e politiche della società contemporanea. Viviamo ormai in una società piena di diritto, si ha la sensazione che si tratta di un diritto invadente che copre tantissimi settori (Rodotà infatti parla di una vera e propria AUTORITA’ SOVRANA) ma che è assente li dove c’è ne più bisogno. Dopo la caduta del muro di Berlino si cominciò a parlare di ritorno del diritto come strumento che disciplina la società. A tal proposito, sostiene l’autore, il diritto e la politica dovrebbero unirsi per stabilire un limite nell’uso del diritto. In passato, ricorda Rodotà, la sfera delle decisioni «personalissime» era consegnata alla regolazione da parte della religione, l’etica, il costume, la natura, motivo per cui le trasgressioni erano punite, nel migliore dei casi, con l’esclusione sociale . La sanzione giuridica era infatti relegata ad altre fattispecie. In questo scenario c’è stato il progressivo affermarsi del diritto, e spiega Rodotà, ad aver guadagnato reale autonomia è stato il diritto stesso, piuttosto che gli individui concreti, i quali hanno finito per ritrovarsi comunque esposti ad un’autorità ad essi superiore, anche in quelle aree d’azione che più hanno a che fare con il proprio sé . Il venir meno di un riferimento fondativo di tipo religioso ha determinato l’installarsi di un altro ordine normativo, quello appunto di un diritto che punta a regolare anche la sfera dell’intimità, delle scelte procreative, della salute . Ciò che, secondo la ricostruzione di Rodotà, non è riuscito a trovare la luce alla fine di questa vicenda, è proprio il dominio della libertà che il diritto si prefiggeva di salvaguardare. Il punto di partenza della riflessione di Rodotà è dunque la sempre crescente richiesta di regolazione che al diritto perviene da più parti. I progressi della scienza, dalla biologia alla genetica, dalla medicina alle neuroscienze sono oggi accolti con speranza ma anche, spesso, con preoccupazione. In questo contesto si chiede, al diritto, di avere proprio una funzione regolatrice. Quando il diritto viene chiamato ad intervenire per regolare tali materie, ciò che esso si trova davanti, secondo Rodotà, non è più l’astratta persona giuridica, quanto piuttosto «persone in carne ed ossa». Con espressione chiara, l’autore ci dice che, in questi ambiti, al diritto si contrappone la «nuda vita», o più nettamente, il «non diritto». Da una parte insomma c’è il diritto, il quale finora non ha conosciuto altro linguaggio che quello universalistico, e per questo necessariamente formale/astratto dei principi, delle regole, dei divieti e delle sanzioni, mentre dall’altra ci sarebbe la vita, la quale appare più fragile e bisognosa di protezione . In tale contesto appare ormai del tutto naturale procedere dall’individuazione di principi morali alla loro sanzione giuridica. Tuttavia questo percorso minaccia il pluralismo morale della tradizione liberale. Inoltre il linguaggio del diritto non è, secondo Rodotà, sufficientemente raffinato per pretendere di regolare la ricchezza e la complessità del rapporto che gli individui intrattengono con sé stessi e con gli altri. A tal proposito, Rodotà esorta il lettore a chiedersi se sia davvero auspicabile una completa giuridificazione 1

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LA VITA E LE REGOLEStefano Rodotà

INTRODUZIONE: IL DIRITTO E IL SUO LIMITE

Il libro di Rodotà affronta in tutta la sua vastità il tema del diritto in relazione alle scelte etiche, sociali e politiche della società contemporanea. Viviamo ormai in una società piena di diritto, si ha la sensazione che si tratta di un diritto invadente che copre tantissimi settori (Rodotà infatti parla di una vera e propria AUTORITA’ SOVRANA) ma che è assente li dove c’è ne più bisogno.Dopo la caduta del muro di Berlino si cominciò a parlare di ritorno del diritto come strumento che disciplina la società. A tal proposito, sostiene l’autore, il diritto e la politica dovrebbero unirsi per stabilire un limite nell’uso del diritto.In passato, ricorda Rodotà, la sfera delle decisioni «personalissime» era consegnata alla regolazione da parte della religione, l’etica, il costume, la natura, motivo per cui le trasgressioni erano punite, nel migliore dei casi, con l’esclusione sociale. La sanzione giuridica era infatti relegata ad altre fattispecie. In questo scenario c’è stato il progressivo affermarsi del diritto, e spiega Rodotà, ad aver guadagnato reale autonomia è stato il diritto stesso, piuttosto che gli individui concreti, i quali hanno finito per ritrovarsi comunque esposti ad un’autorità ad essi superiore, anche in quelle aree d’azione che più hanno a che fare con il proprio sé. Il venir meno di un riferimento fondativo di tipo religioso ha determinato l’installarsi di un altro ordine normativo, quello appunto di un diritto che punta a regolare anche la sfera dell’intimità, delle scelte procreative, della salute. Ciò che, secondo la ricostruzione di Rodotà, non è riuscito a trovare la luce alla fine di questa vicenda, è proprio il dominio della libertà che il diritto si prefiggeva di salvaguardare.Il punto di partenza della riflessione di Rodotà è dunque la sempre crescente richiesta di regolazione che al diritto perviene da più parti. I progressi della scienza, dalla biologia alla genetica, dalla medicina alle neuroscienze sono oggi accolti con speranza ma anche, spesso, con preoccupazione. In questo contesto si chiede, al diritto, di avere proprio una funzione regolatrice.Quando il diritto viene chiamato ad intervenire per regolare tali materie, ciò che esso si trova davanti, secondo Rodotà, non è più l’astratta persona giuridica, quanto piuttosto «persone in carne ed ossa». Con espressione chiara, l’autore ci dice che, in questi ambiti, al diritto si contrappone la «nuda vita», o più nettamente, il «non diritto». Da una parte insomma c’è il diritto, il quale finora non ha conosciuto altro linguaggio che quello universalistico, e per questo necessariamente formale/astratto dei principi, delle regole, dei divieti e delle sanzioni,   mentre dall’altra ci sarebbe la vita, la quale appare più fragile e bisognosa di protezione. In tale contesto appare ormai del tutto naturale procedere dall’individuazione di principi morali alla loro sanzione giuridica. Tuttavia questo percorso minaccia il pluralismo morale della tradizione liberale. Inoltre il linguaggio del diritto non è, secondo Rodotà, sufficientemente raffinato per pretendere di regolare la ricchezza e la complessità del rapporto che gli individui intrattengono con sé stessi e con gli altri. A tal proposito, Rodotà esorta il lettore a chiedersi se sia davvero auspicabile una completa giuridificazione della società. L’autore ritrae il diritto in una delicata funzione di mediazione tra l’ambito dell’intimità e della privatezza da un lato, e la logica della circolazione del potere nelle istituzioni democratiche dall’altro. Rodotà propone spazi di libertà che il diritto, ritirandosi, rende possibili; la regola deve essere, secondo Rodotà, nuovamente chiamata a presidiare l’autonomia degli individui nei casi concreti e per fare questo bisogna intraprendere uno sforzo creativo volto alla ricerca di forme «leggere» di regolazione. Quando parla di «istituzionalizzazione a bassa intensità», Rodotà ha in mente un diritto capace ad esempio di accompagnare le persone anche nei momenti di transizione da una condizione familiare ad un’altra, o di riconoscere che alcuni tipi di scelte (come quelle ad esempio legate all’identità sessuale) non avvengono in modo istantaneo, ma danno invece luogo a lunghi percorsi durante i quali sono possibili ripensamenti e indecisioni. Il diritto, se vuole favorire l’autonomia delle persone, non può limitarsi a proporre alternative nette in merito allo stato civile, all’impianto degli embrioni, all’indicazione del sesso sui documenti, al consenso informato. Piuttosto è richiesta la massima flessibilità da parte della regola stessa, e la massima disponibilità ad assecondare innanzi tutto i tempi e i ritmi che scandiscono i processi di scelta.  In più, in merito a certi tipi di scelta, ci si chiede di solito anche quale sia l’opinione delle persone meno vicine, degli estranei, della società nel suo complesso. Se anche si limitasse a rendere praticabili aree senza diritto in cui esercitare libere opzioni, una regola o una legge non avrebbe con questo esaurito la sua funzione. Essa dovrebbe infatti prevedere anche la possibilità di intervenire su quello sfondo sanzionando i comportamenti discriminatori e promuovendo una cultura diffusa dell’accettazione della diversità. Il limite oltre il quale il diritto e la politica non possono spingersi senza danneggiare la nuda vita, è quello tradizionalmente stabilito dai cosiddetti diritti fondamentali. L’idea che i diritti fondamentali segnalino alla legificazione un limite oltre il quale al diritto non può essere concesso di spingersi viene comunque abbracciata anche da Rodotà. Tuttavia egli si spinge più avanti. I diritti infatti dovrebbero essere uno strumento capace di consentire un processo dinamico di continua rielaborazione delle modalità del vivere comune. Dunque l’insieme dei diritti fondamentali deve essere visto come il mezzo per favorire la re-interpretazione di questi stessi valori, in vista dei molteplici bisogni che sorgono oggi. Non sfugge a Rodotà che il sistema dei diritti può facilmente entrare in conflitto con altre forze sociali a cui si vorrebbe fare ricorso per regolare le scelte in questi stessi

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ambiti. La disparità di potere sociale ed economico ha naturalmente un corrispettivo politico, così che le questioni pubbliche moralmente rilevanti, se lasciate alla logica della libertà contrattuale, finiscono per rispecchiare gli interessi dei detentori di tale potere. I diritti fondamentali vengono allora assorbiti dalla nozione di cittadinanza. Essi proteggono quelli che Rodotà descrive come «beni fondamentali della vita», e che la tradizione liberale ha preteso di considerare addirittura coincidenti con la vita stessa di una persona e con la «dignità della sua esistenza». Tali beni però, sono anche «una condizione della cittadinanza e una precondizione della stessa democrazia», ed è anzi proprio in virtù di questa caratterizzazione che i diritti fondamentali possono ancora oggi ambire ad un ruolo sociale di primo piano.Ricapitolando, secondo Rodotà i diritti dapprima contribuiscono a definire un catalogo di beni inviolabili della persona, per poi configurarsi come una condizione di possibilità per la realizzazione dell’eguaglianza politica.Rodotà ci sembra mosso qui da una duplice esigenza.

1) In primo luogo, senza dubbio, egli ricerca nel diritto uno strumento consolidato che ristabilisca e sia in grado di garantire condizioni di giustizia.

2) Inoltre l’autore mostra in maniera originale che il catalogo dei diritti fondamentali anziché essere concepito come una lista definita e chiusa,  debba piuttosto presentarsi come un progetto aperto a suscettibile di integrazione e ampliamento.

Tale idea unitaria dei diritti è quella che li vede, insieme, come diritti civili, politici e sociali, ossia tanto come attributi costitutivi della persona quanto come condizioni di inclusione politica.

IL DOLORE

Il diritto ha nel corso degli anni cambiato il suo atteggiamento nei confronti del dolore: da che veniva usato come strumento per punire chi aveva commesso un reato, a male in sé, da eliminare a qualsiasi costo. il dolore cambia in continuazione, e per ciò riceve trattamenti diversi a seconda del tipo di dolore. Vi è un dolore “somministrato”, che è quello delle torture e dei tormenti inflitti in ragione di un reato. C’è anche chi, ipocritamente ha dichiarato di voler eliminare la tortura come puro atto violento, e di renderla legittima solo in un contesto presidiato dalla legge, parlando così di tortura razionalizzata.Da sempre però l’appartenere a una determinata classe sociale allontana la somministrazione del dolore. A questo punto possiamo chiederci se esistono regole che ci difendono dal dolore. E la risposta è relativa, nel senso che esistono per il dolore procurato o inferto per obbedire a una norma, ma non esistono per i dolori che derivano dalla natura, dal caso che colpiscono senza riguardo alcuno.La salute si configura ormai come un diritto, e questo si traduce nel diritto ad essere curati. Ma il diritto alla cura può convertirsi nel suo contrario, in quell’accanimento terapeutico che diviene causa di diverse sofferenze. Ma non è solo nella morte la difesa estrema contro il dolore, esistono anche le cure palliative che possono controllare e ridurre le sofferenze. Si parla proprio di terapia del dolore: l’oggetto della cura non è più la malattia ma il dolore. È colui che è vittima del dolore che deve scegliere se seguire o meno queste direttive. Il dolore ha anche un costo. Costa a chi lo patisce e all’organizzazione sociale che deve interessarsene. Così quando i costi del dolore superano una certa soglia, può scattare un meccanismo di rigetto. Il dolore dunque diventa oggetto di contabilità sociale, di una analisi costi/benefici. Una impostazione, questa, che deve essere rigettata quando si parte dalla premessa che la salute è un diritto fondamentale della persona. Ma, conosciuto il dolore, qual è la terapia per rimuoverlo? Ci si deve rifugiare nel silenzio e nella riflessione?Né il dolore individuale, né il dolore sociale sembrano poter essere condivisi. Ma spettacolarizzanti si. Non è solo l’abitudine coltivata dalla tv di fornire quotidiane razioni di dolore, esibendo senza rispetto drammi privati e pubbliche mortificazioni. Nello spettatore si genera anche una forma di consolazione nel vedersi estraneo e lontano da quei dolori. Divenuta diritto fondamentale della persona, l’integrità fisica e psichica capovolge la funzione dei poteri pubblici, per i quali crescono gli obblighi legati all’impiego di ogni strumento disponibile per vincere o lenire il dolore. Ma la regola giuridica non sa dare una definizione precisa al dolore, non riesce a capire bene come intervenire. A tal punto, si può dire che la regola giuridica non può essere pensata come ciò che rimuove il dolore, ma come uno dei criteri che segnano la soglia del dolore tollerabile.

IL GENE

L’avvento della società post genomica consegna a tutti il genoma umano, vale a dire una massa crescente di informazioni capaci di approfondire l’attuale conoscenza di se e di orientarla verso il futuro. Ma la genetica ha determinato la creazione di diritti che coprono tutto l’arco della vita: nascita (diritto di procreare, diritto al figlio, diritto di nascere/non nascere, diritto di nascere sano); esistenza (diritto di integrità fisica, diritto allo studio); morte (diritto a morire con dignità, diritto al suicidio assistito).Dunque la genetica porta alla scoperta di nuove opportunità di scelta che hanno difficoltà a trovare una loro definizione in campo giuridico, in quanto in contrasto con le regole della naturalità. La legge più dura in tal senso è quella tedesca che, nonostante la restrittività, permetteva la selezione di spermatozoi per evitare l’insorgenza di malattie ereditarie nel futuro nascituro. Anche altri paesi europei permettono ai cittadini di scegliere di selezionare gli spermatozoi nel caso in cui c’è la possibilità di una malattia ereditaria legata al sesso.

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E’ diritto dei genitori evitare a un figlio potenziale una malattia? Oppure è diritto del nascituro vivere comunque?La Dichiarazione sul genoma sancisce l’intoccabilità di quest’ultimo, rendendolo patrimonio dell’umanità. Si pone a questo punto lo spiacevole problema dei limiti entro i quali può essere ammessa l’eugenetica individuale. Ci si chiede quali malattie rientrano nella possibilità di poter ricorrere all’eugenetica individuale? Inizialmente si ricorre all’uso di un elenco di malattie che potevano richiedere l’uso di questa pratica, ma oggi è sostanzialmente superato per il fatto che una lista di malattie potrebbe essere percepita dalla collettività come l’individuazione di casi in cui è ritenuto socialmente necessario intervenire, trasformandola così in un incentivo a ricorrere comunque alla terapia, nei casi ammessi, per eliminare non tanto un fattore di rischio, quanto piuttosto un elemento di discriminazione sociale. Il nocciolo del problema non sta tanto nel combattere determinate malattie con il ricorso all’eugenetica individuale, quanto quello di accettare socialmente il portatore di handicap genetico o di diversa natura. In più il problema diventa anche economico e di eguaglianza: le disparità economiche non permettono a tutti, in egual modo, di accedere a questo tipo di intervento. La genetica negli ultimi anni ha assunto una connotazione quasi popolare, a causa della crescente diffusione dei test di paternità. Con l’ausilio di tali test, si ha quasi la sensazione che la genetica stia divenendo commerciale e al tempo stesso alla portata di chiunque. Tutto ciò sotto la pressione di interessi economici. Nasce così il problema del trattare il genoma di una persona come un qualsiasi altro dato sensibile, e come tale, coperto dalle leggi sulla privacy.Moltissime sono le autorità a livello nazionale che garantiscono le condizioni di riservatezza dei dati genetici, ma l’analisi della realtà ci mostra che l’uso dei test genetici si diffonde ben aldilà delle finalità di tutela della salute e di ricerca scientifica. Le caratteristiche che rendono questo grande valore ai test sono:

- individualizzazione: il genoma ti rende unico e irripetibile;- classificazione: il genoma ti lega strutturalmente a una popolazione;- controllo: perché sono dati immodificabili e possono essere ricavati da qualsiasi traccia fisica.

Secondo Rodotà il pericolo principale è quello di un impoverimento emozionale legato alle proprie radici familiari in contrapposizione alle radici biologiche. Ecco che l’autore parla di riduzionismo biologico ( tutto di riduce alla biologia). Nasce così un nuovo gruppo sociale giuridicamente rilevante: il gruppo biologico, distinto dalla famiglia in senso tecnico. Non ne fanno parte i membri della famiglia come il coniuge, genitori e figli adottivi, ma lo compongono anche soggetti estranei. L’esistenza di questo gruppo di riferimento impone un’analisi che consideri con particolare attenzioni l’individuazione di soggetti che di questo gruppo fanno parte e i diritti di cui ciascuno di essi è titolare.

LA FINE

La morte appartiene alla natura e morire è sempre più governabile dall’uomo, appartiene alla sua vita, e dunque rientra nell’autonomia delle scelte di ciascuno. Proprio dal punto di vista del diritto ci si accorge di questo radicale mutamento di prospettiva, con l’attribuzione a ciascuno del pieno governo del sé soprattutto per quanto riguarda il destino del proprio corpo, per il quale il principio è ormai quello del consenso libero e informato dell’interessato. Per ciò si è potuto affermare che l’eutanasia è superata, superata proprio dalla libertà individuale finora descritta; anche se ora però si configura un altro problema, ovvero quello del suicidio assistito.La dignità del morire è oggi strettamente legata ad una radice tecnologica; quando si discute di fine della vita, ci si interroga intorno alla possibilità di intervenire sui tempi e i modi di essa . Questo accade perché la realtà ci impone di considerare e regolare situazioni che fino a ieri sarebbero state risolte dalla natura e dalle sue leggi. Il punto di avvio della lunga discussione di questi anni è stato rappresentato dal rifiuto dell’”accanimento terapeutico”. Solo quando si è attribuita rilevanza alla volontà dell’interessato, escludendo ogni tipo di intervento non legittimato dal suo preventivo consenso libero e informato, dal momento che l’intera vicenda della cura, pure quella “accanita”, rientrava nella sua piena disponibilità. Morire è accompagnato da delle regole:

1. Il consenso informato: copre l’intera vita; permette il suo governo da parte dell’interessato; garantisce il diritto di uscita dalle terapie con la revoca del consenso, con il rifiuto delle cure

2. Principio di proporzionalità: c’è una proporzione nelle scelte tra l’intervento del medico, il beneficio del paziente e la qualità della vita; c’è una preminenza della volontà dell’interessato, ma al medico non è consentito comunque un intervento medico eccessivo, ostinato;

3. Decisioni che regole situazioni future: si tratta di decisioni che regolano situazioni nelle quali la persona potrebbe trovarsi e che, nell’eventualità di non essere capace di intendere e di volere e quindi di non poter esprimere un valido consenso, vuole comunque definire le proprie convinzioni, credenze, desideri.

Queste regole del vivere e del morire hanno la loro radice nel rispetto dell’autonomia della persona.Anche se si è potuto dire che l’eutanasia è superata rimane tuttavia aperta una questione sul caso del cosiddetto “suicidio assistito”, situazione in cui la persona vuole morire ma, per ciò, ha bisogno della collaborazione di qualcun altro. Il Codice di deontologia medica stabilisce che “il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte”. Nel codice penale l’aiuto al suicidio è punito con la reclusione da cinque a dodici anni. Ma il senso del codice si è via via quasi capovolto. L’”aiuto”, quando interviene in situazioni estreme, ha perduto ogni connotazione sociale negativa, come dimostrano i dati statistici.E’ naturale comprendere, su questo tema cosi delicato, le cautele procedurali che ovunque accompagnano la disciplina giuridica dell’aiuto a morire, per evitare che prendano il sopravvento interessi diversi da quelli del morente: l’istituzione

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ospedaliera che vuole ridurre i costi, parenti che vogliono liberarsi di oneri psicologici e economici troppo gravosi, eredi che guardano all’eredità, ecc. La disciplina giuridica deve sempre rimanere ancorata alla volontà espressa dalla persona. Le cure palliative hanno conquistato una diffusa attenzione sociale. Ridurre la sofferenza fa venir meno una delle ragioni che spingono a chiedere l’aiuto al morire. Ma ciò ha indotto Ronald Dworkin a chiedersi se la vita dei malati terminali non sia messa in pericolo da politiche volte a “raccomandare la morfina in dosi potenzialmente letali allo scopo dichiarato di alleviare il dolore e senza alcuno specifico codice di regolamentazione”.La critica di Dworkin coglie, mette in luce la latente ipocrisia che può accompagnare l’enfasi posta belle cure palliative, viste non come una delle possibili articolazioni della fase finale della vita, ma come una regola o una tecnica integralmente sostitutiva dell’aiuto a morire.In presenza di situazioni in cui il morente è incapace, non ha in precedenza dato alcune direttive in materia, sopravvive per effetto di un sostegno esterno, mancando un documento che dichiari esplicitamente la volontà del morente ormai incapace, i giudici hanno in molti casi attribuito rilevanza a dichiarazioni o comportamenti passati. I giudici sono orientati ad attribuire questo ruolo a chi si trova nella condizione di maggiore prossimità giuridica con il morente, dunque in primo luogo al coniuge o genitore.Ma se è certa la morte di una persona, perché non considerare il suo corpo disponibile per sperimentazioni anche prima dell’esecuzione? La morte per condanna determina una degradazione del corpo, che ne legittima particolari usi sociali, come la destinazione degli organi ai trapianti. Le modalità del morire possono cosi produrre regole che degradano la persona, la trasferiscono in un’area di cancellazione dei diritti. E in questi casi i morte certa, ci si è chiesti in passato se la diagnosi infausta debba essere comunicata al malato, che potrebbe condividere una gestione sociale della sua malattia con altre persone afflitte dalla stessa malattia, o meno. Ci si è posti questa domanda soprattutto perché non si vuole alterare la concezione della vita del malato, che quando sa di essere agli sgoccioli della sua vita modifica facilmente la propria sensibilità e le proprie opinioni che non potrebbero essere autentiche.Il problema principale è che l’invocazione dei valori è eloquente di fronte ai casi singoli, mentre l’etica e il diritto rimangono silenziosi quando si tratta di discutere la distribuzione delle risorse (problemi dell’Africa, dei bambini che muoiono per AIDS, per fame, ecc.).

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